New Girl

di HannibalLecter
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Benvenuto, pace e amore a te, fratello ***
Capitolo 2: *** Terra di cuori solitari ***
Capitolo 3: *** Paint your life ***
Capitolo 4: *** Una mela al giorno toglie il medico di torno ***
Capitolo 5: *** Sfuriate e turpiloquio ***
Capitolo 6: *** Qualcosa sta cambiando ***
Capitolo 7: *** Santa Claus is coming to town ***



Capitolo 1
*** Benvenuto, pace e amore a te, fratello ***


Pioveva.
Avevo perso una lente a contatto.
Ed ero ufficialmente una senzatetto.
Mi chiesi come fosse possibile ridursi in uno stato così miserabile nel giro di due giorni.
Cercai di proteggermi la testa con un vecchio giornale scovato chissà dove mentre, con tutte le mie forze, tentavo di trascinare la mia valigia in stoffa rosa decorata con un bel primo piano sorridente di Peppa Pig.
Raggiunsi la pensilina della linea 17 e, una volta al riparo, mi sedetti stravolta sulla panchina in ferro.
Ricapitolando: ero bagnata come un pulcino, ero cieca come una talpa e senza casa come la cicala farfallona delle favole. Insomma ero una sorta di giardino zoologico ambulante se a questo univamo anche il maialino sul mio bagaglio e la mia cuffia a forma di renna.
Mi feci forza e mi alzai per vedere se era in arrivo l'autobus ma proprio in quel momento sfrecciò davanti a me a tutta velocità un'auto e che, centrando in pieno l'ampia pozzanghera che si era formata ai piedi del marciapiede, sollevò un'onda anomala che si abbatté senza pietà su di me.
Alzai un braccio gocciolante e urlai: «Brutto troll delle montagne! Non ti hanno insegnato le buone maniere? Adesso mi annoto la tua targa e poi vengo a farti visita nella tua grotta nella foresta, vedrai!».
In verità vedevo tutto sfuocato e quella appena passata avrebbe potuto essere anche la Bat-mobile o l'auto dei Flinstone che io non me ne sarei accorta.
Tremando di freddo tornai sotto la tettoia e mi sedetti abbattuta.
Sconsolata mi guardai attorno fino a fermare il mio sguardo sul simpatico animaletto rosa della mia valigia.
«Sai Peppa, a volte, ti invidio: tu vivi felice e spensierata su una collina verde in compagnia di un fratellino che piange a fontana, con cui saltare in galosce nelle pozzanghere», sorrisi e mi strinsi nel cappotto azzurro fradicio.
Evidentemente avevo offeso il karma in qualche modo ed ero stata punita. Eppure non ricordavo di aver commesso dei peccati imperdonabili.
Ok, dovevo ammettere che il mio commento sul bebè della vicina di casa di mamma non era stato simpatico, ma io lo avevo fatto in buona fede scambiando seriamente il neonato per una tenera scimmietta. E quella volta indossava gli occhiali. Però caro karma sarebbe bastata una lettera, nella quale mi consigliavi di prenotare una visita urgente da un medico oculista, non c'era bisogno che arrivassi a tanto.
In verità avevo anche sbagliato a comprare i fiori per l'anniversario dei miei nonni ma la colpa non era stata mia, assolutamente no, era stata la commessa del negozio di fiori ha interpretare male le mie parole e a confezionarmi un bouquet di crisantemi con allegato biglietto bordato di nero contente il triste messaggio 'Sarete sempre nei nostri cuori, riposate in pace'.
Evidentemente voleva punire la mia sbadataggine e il mio essere perennemente distratta e maldestra.
Mi rigirai tra le mani il giornale impregnato di pioggia che avevo usato per ripararmi malamente dal torrente d'acqua che le nuvole stavano gentilmente scaricando sul pianeta terra.
Il mio occhio casualmente fu attratto da un annuncio racchiuso in una cornicetta decorata con tanti caschi di banane. A chi mai potrebbe venire l'idea folle di usare delle banane per racchiudere un articolo su un quotidiano? Intendo oltre a me, anzi io forse avrei utilizzato delle fragole.
Incuriosita lessi:
 

Cercasi coinquilino con cui condividere uno spazioso e luminoso loft situato nel quartiere di Telegraph Hill. Stanza singola. Prezzo ragionevole. Per informazioni telefonare al 4157798523 dalle 18.23 alle 23.47. Whiting Street 17, Telegraph Hill, San Francisco, US.

 
Destino?
No, no, era uno strano stratagemma messo in atto dal karma per farsi perdonare.
Senza perdere tempo balzai in piedi, infilai il giornale nella mia borsa decorata con fiori e piccole mucche e, sempre tirando il mio ingombrante bagaglio, mi avvicinai alla strada, pronta a fermare un taxi.
In auto tirai fuori uno specchietto di Barbie, regalo di una bambina di seconda elementare che aveva cambiato scuola due mesi prima, e fissai il mio riflesso.
Sbuffai e chiusi l'occhio sprovvisto di lente per fare in modo di vedere qualcosa che non fosse nebbia.
Sembravo scampata ad un naufragio, perfetto, non avrebbero potuto rifiutare di accogliermi sotto il loro tetto.
«Signorina? Siamo arrivati, sono 20$», mormorò annoiato l'autista.
«Venti? Gentile signore non le sembra un prezzo un tantino esagerato?», domandai sfoderando il mio miglior sguardo angelico.
Lui imperturbabile ripeté: «Venti dollari»
Avevamo percorso duecento metri! Che fine aveva fatto la galanteria? Dove erano finite le persone gentili e oneste di cui raccontavano le fiabe che leggevo spesso in classe?
«Che ne dice di 10$ e uno specchietto di Barbie?», chiesi suadente.
«Chiamo la polizia. Venti dollari!», ribatté scorbutico quello.
Che maleducazione! La polizia? Per cosa poi? Signorina è in arresto per tentata corruzione e contrattazione?
Gli porsi le banconote e scesi dall'abitacolo tirando la maniglia della valigia, che mi cadde sui piedi coperti da leggere ballerine.
«Accipigna! Che dolore!», sfilai i piedi e iniziai a saltellare, incurante di essere al centro della strada.
Sbuffando e canticchiando tra di me la canzoncina della Sirenetta per non pensare alla fatica, trascinai la valigia fino all'ingresso del palazzo.
Di fronte a me c'erano una fila di cassette delle lettere, tra tutte saltava all'occhio l'ultima a destra: rossa, ricoperta di scotch, scoppiava letteralmente tanto era piena di cataloghi, buste e dépliant.
E proprio su quella trovai un biglietto decorato con banane che recava scritto il medesimo annuncio del giornale. Abbassai lo sguardo e lessi, al di sotto del biglietto, il numero del loft: 4D.
Trionfante, recuperai il mio macigno e mi diressi felice verso l'ascensore.
Una volta giunta al quarto piano mi sistemai velocemente i capelli e poi suonai il campanello.
Aspettai pazientemente che qualcuno mi aprisse ma al di là della porta tutto taceva. Mi avvicinai e appoggiai l'orecchio al legno dell'uscio, cercando di captare eventuali rumori e proprio in quel momento la porta venne spalancata e io, sbilanciata in avanti, ruzzolai letteralmente all'interno dell'appartamento.
Sorridendo imbarazzata osai alzare gli occhi e incontrai lo sguardo perplesso di un ragazzo biondo, che mi squadrava dall'alto.
«Ehi Jake, cos'è stato questo rumore? Sei caduto nuovamente dal divano eh?», ridacchiò una voce alle sue spalle.
Poco dopo un nuovo viso fece capolino nell'ingresso e un nuovo paio di occhi curiosi iniziò ad osservarmi.
«Nat! Vieni a vedere!», urlò il biondo senza distogliere lo sguardo dal me, ancora in ginocchio sul loro zerbino.
«Insomma ragazzi! Tutto questa confusione è dannosa per il mio benessere e per la mia pelle. Guardate, su guardate! Ad ogni rumore molesto mi spunta una ruga e questa maschera di avocado, broccoli, uova, tonno e lenticchie è efficace si ma non miracolosa!», si lamentò una voce subito seguita dall'apparizione di un ragazzo moro in accappatoio, con una strana crema verdognola spalmata sul viso.
Il biondo ruppe il silenzio creatosi:  «Questa è occupazione illecita di uno zerbino privato. Stai anche nascondendo la scritta 'Benvenuto, pace e amore a te, fratello'», sbottò.
«Oh...ehm...io, chiedo scusa», borbottai alzandomi e cercando di recuperare un briciolo di dignità.
Il ragazzo con il volto ricoperto di una sostanza non ben definita mi fissava sospettoso, con gli occhi stretti: «Chi sei? Cosa vuoi da noi? Ti mandano gli sbirri? Sei una narcotrafficante? Venditrice di zufoli peruviani?», fece una pausa e poi si illuminò «Sei la ragazza del corriere espresso! Hai portato il mio Super Potenziatore di Muscoli per veri Machi? Dov'è, dov'è?», chiese eccitato allungando il collo per vedere se alle mie spalle ci fosse un pacco.
Sorrisi titubante e porsi incerta la mano al biondo che mi stava di fronte: «Sono Charlotte Addams, ho visto il vostro annuncio e...», non riuscii a finire perché il ragazzo castano, giunto per secondo all'ingresso, esclamò: «Addams?!»
Il biondo, di fronte alla mia espressione confusa, mi chiese: «Con quante d?»
Li fissai interrogativamente: «Con due, perché? Come la Famiglia Addams!», conclusi sorridendo. Avevo sempre adorato il fatto di chiamarmi come loro.
«No! Lontano da noi! Ragazzi chiudete la porta!», il ragazzo che mi aveva posto la strana domanda balzò in avanti cercando di chiudermi fuori dal loft, «Non vogliamo una zia Fester in casa! Ho paura...».
Il ragazzo moro, che mi aveva scambiato per una postina, si fece avanti e si oppose al suo amico: «Smettila Max! Stavi dicendo, angelica creatura?», mi chiese sbattendo le ciglia impiastricciate della sua improbabile miscela di bellezza.
Lo guardai, spaesata da quel cambio repentino, e gli risposi: «Ho letto il vostro annuncio e dato che ho un disperato bisogno di trovare una nuova casa, bè, eccomi qui!».
Lui mi squadrò da capo a piedi prima di bisbigliare: «Concilio!», e chiudermi la porta in faccia.
Rimasi impalata sul pianerottolo mentre dall'interno del loft provenivano strani grugniti, borbottii e insulti poco gentili.
Pochi secondi più tardi l'uscio si spalancò e il biondo sorridente mi annunciò: «Sei dei nostri!»

 

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Capitolo 2
*** Terra di cuori solitari ***




«Bene, Charlotte, mettiti pure comoda così possiamo iniziare», mi disse gentile Nat, dopo essersi accomodato di fronte a me, gambe accavallate e blocco degli appunti in mano.
Ero nel loft da precisamente ventiquattro minuti e avevo avuto solamente il tempo di appoggiare i miei bagagli all'interno del soggiorno prima di iniziare ad essere studiata come se fossi un rarissimo cucciolo di panda in via d'estinzione.
C'erano state le prime, superficiali presentazioni, durante le quali avevo avuto modo di scoprire l'identità dei tre ragazzi.
Il ragazzo biondo mi aveva abbracciato e con la bocca stracolma di popcorn aveva biascicato: «Benvenuta sorella! Io sono Jacob, l'unico californiano doc presente in questa stanza», condito da un poderoso pugno amichevole sulla mia spalla, pugno che mi aveva quasi catapultata dall'altro lato della stanza.
Subito dopo si era fatto avanti sospettoso il ragazzo castano.
«Mi puoi assicurare che non discendi dalla famiglia Addams?», mi domandò spaventato.
Che problemi aveva con quella povera famiglia? Ricordo che da piccola il mio sogno era incontrare un uomo come Gomez, che mi chiamasse querida e mi tempestasse di baci ogni volta che pronunciavo una parola in francese.
«Se vuoi posso procurarti un mio albero genealogico, così puoi controllare tu stesso: niente parentele con zio Fester», gli sorrisi incoraggiante.
Lui assottigliò gli occhi e studiò il mio viso per capire se fossi sincera o stessi raccontando una menzogna e in verità nascondessi la piccola Mercoledì nella valigia.
Infine, mi porse la mano: «Sono Maximilian».
Feci per stringerla ma lui la ritrasse di colpo e avvicinò il suo volto al mio: «Attenta, ti tengo d'occhio», detto questo si lasciò cadere sull'ampio divano color salvia e si immerse nella lettura di un libro dalla copertina rossa intitolato 'A spasso con Marx'.
Infine arrivò il turno dell'uomo in maschera, o meglio, con la maschera, di bellezza per la precisione.
Mi afferrò la mano e, dopo un leggero inchino, si chinò a sfiorarne il dorso con le labbra in una brutta imitazione di un baciamano.
«Milady, permettete che mi presenti. Sono Nathaniel Edward Louis Spencer, discendente di nobili ed aristocratici duchi inglesi», mormorò suadente, trattenendo la mia mano tra le sue, «ma voi potete chiamarmi semplicemente Nat», aggiunse ammiccando.
Oh oh, dove ero capitata?
Un biondone californiano, uno svitato terrorizzato dal mio cognome e un duca inglese??
Liberai la mia mano dalla sua presa e incrociai le braccia al petto trattenendo una risata, che camuffai con un colpo di tosse.
«Ehm, chi sei tu? Un personaggio dei libri di Jane Austen? Sei fuggito dal cast di Downton Abbey? Non c'è alcun bisogno che tu mi dia del voi, suona così antiquato», gli spiegai sperando di non offenderlo.
Lui sbatté le ciglia confuso e iniziò a parlottare tra sé: «Di solito funziona, la mia aria da tipico gentleman inglese attira sempre le donne», poi alzò il viso verso di me e con fare addolorato esclamò: «Voi mi offendete con la vostra condotta».
Cercai di ribattere ma venni anticipata dall'intervento di Jacob, che prese per un braccio Nathaniel e lo trascinò verso il divano, rimproverandolo esasperato: «Su, Nat, smettila di fare il principino e ritorna in te».
E così ventiquattro minuti mi tardi ero seduta, con la schiena diritta e le mani intrecciate in grembo, su una poltroncina beige posta di fronte all'ampio divano ad angolo, dal quale mi osservavano attenti tre paia di occhi.
Feci scorrere lo sguardo sulle tre persone davanti a me e le studiai in silenzio, proprio come loro stavano facendo con me.
Il lato sinistro del sofà era occupato dalla figura stravaccata di Jacob, che dopo aver finito il sacchetto di popcorn, si stava dedicando ad un'enorme ciotola colma di nachos. Senza distogliere mai lo sguardo da me, afferrava le patatine e, dopo averle affogate nel ketchup, se le portava alla bocca. Il mio pensiero corse alla Kim, mia migliore amica nonché modella fissata con la linea e la cucina macrobiotica: sicuramente sarebbe rabbrividita di fronte a quello spettacolo.
Jacob, con il suo volto abbronzato, i capelli color dell'oro e due occhioni blu era il prototipo del tipico ragazzone californiano.
Di fianco a lui era seduto il mio esaminatore, Spencer il nobile inglese o per la gente comune Nat, che sembrava leggermi nella mente mentre tamburellava la penna sul bloc-notes e dondolava un piede.
Aveva un viso delicato dai lineamenti quasi infantili eppure l'insieme, grazie ai capelli scuri e agli occhi neri, trasmetteva un senso di eleganza e di fascino.
Infine, all'estremità destra del divano, due penetranti occhi verdi mi fissavano seminascosti dalla copertina del libro che stava leggendo. Aveva i capelli castani spettinati e, quando posò il libro sul ripiano accanto, potei vedere le leggere lentiggini che gli costellavano il volto. Indossava una maglietta blu stropicciata decorata con il sottomarino giallo dei Beatles. Sorrisi non appena me ne accorsi perché io ne avevo una identica, reperto dei miei sedici anni.
«Ok, prima domanda: che lavoro fai?», mi domandò Nat iniziando a scribacchiare qualcosa sul suo blocco per gli appunti.
«L'insegnante, in una scuola elementare», risposi sicura.
Vidi un lampo di interesse luccicare negli occhi di Maximilian, che dopo una breve esitazione, mi chiese: «Che cosa insegni?»
«Storia e letteratura», risposi piano.
Mi portai una ciocca di capelli dietro l'orecchio e allungai le gambe di fronte a me, in attesa della domanda successiva.
Amavo il mio lavoro così come adoravo stare a contatto con i bambini, che, con la loro innocenza ed ingenuità, mi insegnavano sempre qualcosa di nuovo ed inaspettato. Quando i miei alunni imparavano a scrivere, a leggere o qualcosa di nuovo, ogni volta, era un traguardo importante per me, perché mi rimettevo in gioco, affiancando quei piccoli puffi nel cammino della crescita e prendendoli per mano li vedevo diventare grandi e fare nuove esperienze.
«Dove vivevi prima? Dai tuoi?», mi chiese curioso Jacob.
Mi venne da ridere all'idea di vivere ancora con mia madre o mio padre. I miei genitori si erano separati quando avevo otto anni e non ero mai riuscita a superare il trauma dell'avere due case, due camerette, due letti e due poster uguali di Tom Cruise. Subito dopo la fine del liceo mi ero trasferita in California per frequentare il college insieme a Kim e una volta laureata avevo abbandonato la mia piccola stanzetta nel dormitorio per trasferirmi in una graziosa casetta vicino al mare con David, quello che al tempo ritenevo essere l'uomo della mia vita. Erano passati tre anni da allora ma la nostra storia, logorata dall'abitudine e dalla brutta abitudine di David di fare sesso con i calzini, era naufragata dopo due anni. Avevamo deciso di sfatare il mito secondo cui due ex non possono essere amici e così avevamo continuato a convivere fino al giorno prima, quando David mi aveva annunciato che sarebbe andato a vivere da Jessica, la sua nuova ragazza, e io non potendo sostenere da sola le spese della villetta mi ero vista costretta a lasciarla, per evitare di essere sfrattata.
«Vivevo con il mio ex», mugugnai controvoglia.
Ogni volta che rivelavo a qualcuno la nostra stramba convivenza, questo spalancava gli occhi incredulo e mi domandava se fossi pazza.
I tre stranamente non fecero domande e si limitarono a scambiarsi uno sguardo allibito tra loro.
«Single? Oppure vivevi con il tuo ex ma avevi un ragazzo?», domandò dubbioso Nat.
Sbuffai infastidita dal suo tono sarcastico: «Single», mugugnai.
«Perfetto! Potremmo appendere un cartello fuori dalla porta con scritto 'Terra di cuori solitari'! Che ne dite?», chiese entusiasta Jacob balzando in piedi e spargendo nachos ovunque.
Maximilian alzò gli occhi al cielo mentre Nathaniel allungò un braccio e lo costrinse a risedersi e, dopo aver immerso una mano nella ciotola unticcia, gli ficcò in bocca una quantità esorbitante di patatine.
«Oh, siamo tutti sulla stessa barca allora! Se volete fanno una festa intitolata 'Anima gemella dove sei?' e io volevo proprio parteciparvi ma non volevo fare la figura della povera scema sola, anche se in fondo è quello che sono, ma questi sono dettagli, ma se voi venite con me potremmo in un colpo solo conoscerci e accoppiarci! Non è un'idea meravigliosa?», trillai eccitata.
Di fronte ai loro sguardi sconvolti mi corressi: «Cioè...io non intendevo accoppiarci, ehm, tra di noi, ma...con altri, si, insomma, avete capito?», balbettai sentendo la mia euforia spegnersi pian piano.
Ecco, brava Lottie! Sei riuscita subito a farti riconoscere e a conquistarti l'etichetta di squilibrata dell'anno.
«Vengo io!», esclamò a sorpresa Nat «Un rubacuori come me, in una sala piena di donne tristi e solitarie, farà furore! Si festeggia piccolo duca!», esclamò guardando verso il basso.
Non volevo credere ai miei occhi. No, non era possibile.
«Vi prego, ditemi che piccolo duca non è il nome del suo...», chiesi allucinata.
Maximilian ridacchiò e annuì: «Oh sì».
Nat mi fissò offeso e poi mi si avvicinò piano: «Suvvia non scandalizzarti tanto, sono sicuro che anche la tua patatina ha un nome. Dico bene?», domandò ghignando.
Patatina?! Qualcuno mi salvi!
Evidentemente ero finita in una gabbia di matti, mio habitat naturale a dire in vero, che non avrebbe messo in evidenza le mie stramberie.
«Assolutamente no!», esclamai imbarazzata.
Nat sembrò deluso e se ne tornò al divano a testa bassa.
Maximilian tossicchiò per richiamare l'attenzione e mi chiese: «Manie, fobie, ossessioni o abitudini da psicopatica?».
Uhm, ahia! Ero piena di manie ed ossessioni. David aveva impiegato un anno ad abituarsi a Bambù, il peluche a forma di koala a grandezza naturale, se non di più, con cui dormivo. Diceva che ogni notte rischiava la morte per soffocamento e che da solo occupava metà letto, la sua in particolare.
«Mmh, mi fanno paura le cavallette e non mi piacciono i luoghi affollati», mormorai poco convinta.
Diciamo che non avevo mentito, no, avevo solo omesso il 99,9% delle mie fisse.
Max sembrò capirlo perché sogghignando aggiunse: «In questa casa vige la regola del DTAT, Dico Tutto A Tutti. Vogliamo la verità».
Deglutii mentre mi torturavo le mani.
Non dicono 'fuori il dente, fuori il dolore'?
Dovevamo convivere quindi era meglio scoprire le carte subito senza celarle inutilmente.
«Se vedo un telefilm che mi piace o leggo un libro che mi appassiona ne divento ossessionata, letteralmente ossessionata. Ho appena passato il periodo Game of Thrones ed è stato terribile; mi sono comprata la divisa da guardiano della notte, un corvo impagliato e le gigantografie a figura intera in cartone di Jaime Lannister e Jon Snow», feci una pausa per scrutare i loro volti, che, con mia grande sorpresa, non sembravano sconvolti.
Jacob, con gli occhi che luccicavano, mi chiese estasiato: «Posso toccare il corvo impagliato?».
Sorrisi e gli comunicai che se voleva era suo, provocando in lui uno scoppio di gioia.
Maximilian mi fece segno di continuare e io ripresi: «Non mi taglio i capelli da cinque anni perché i parrucchieri mi terrorizzano da quando, a quindici anni, chiesi una spuntatina e dei riflessi biondi e mi ritrovai mezza testa rasata e l'altra metà a strisce rosse e blu. Ho una passione quasi morbosa per i cereali al miele, quelli a forma di ape, e ne sono molto gelosa. Al college ho picchiato la mia compagna di stanza perché aveva osato assaggiarli. Quindi alla larga dai miei cereali. Non scherzo. Ogni volta che mi sento male ascolto Justin Bieber per ricordarmi che c'è sempre qualcuno messo peggio di noi. Mi fanno ribrezzo i calzini bianchi da uomo e se ne vedo uno mi viene letteralmente il voltastomaco, vi comprerò uno stock di calze nere e blu. Sono terribilmente ingenua e mi fido di tutti: una volta un signore mi ha fermato per strada e mi ha chiesto se poteva vedere la mia carta di credito perché stava facendo un sondaggio sui colori dei tesserini, io gli diedi la mia e lui scappò con quella».
Fui interrotta dalle loro risa.
«Davvero credevi alla storia dell'inchiesta?», mi chiese Nat asciugandosi le lacrime e cercando di riprendere fiato.
«Bé si...», replicai stringendomi nelle spalle.
Quelli'episodio mi era anche valso un imbarazzante articolo sul giornale, nel quale venivo definita come un'idiota fattasi abbindolare da un ladruncolo dilettante.
«Nat sta in bagno per ore, non sto scherzando, per ore. Nessuno sa cosa faccia lì dentro ma se devi andare in bagno mentre è occupato da lui rinunciaci, fatti la pipì addosso o falla nel lavandino perché lui non uscirà mai, neanche se lo pregherai e gli prometterai la luna», mi disse Jacob per distogliere l'attenzione generale dalle mie disavventure.
Nat, punto sul vivo, replicò velenoso: «Traditore! Come credi che faccia ad avere la pelle morbida come quella del culetto di un bambino? Ore e ore di ginnastica facciale, creme idratanti e maschere rinfrescanti. E i miei capelli? Hanno bisogno di impacchi di banane e birra per mantenere intatta la loro morbidezza setosa. Tocca, Charlotte, tocca!», esclamò balzando in piedi e avvicinandosi a me.
Mi afferrò la mano e la guidò fino alla sua chioma scura. Mossi la mano leggermente e rimasi sorpresa da quanto fossero soffici.
Gli accarezzai i capelli e mormorai: «Wow».
Lui annuì gongolante e si sottrasse alla mia mano brontolando: «Non esagerare altrimenti la mia cute ne risente».
Max sbuffò di fronte a quell'uscita: «Jake una volta ha chiamato da ubriaco sua madre annunciando di aver trovato la donna della sua vita che altri non era che la sua tavola da surf, con cui ha pomiciato e dormito, scambiandola per una bella ragazza californiana», concluse rivolgendo un ghigno a Jacob.
Quest'ultimo furioso si vendicò subito: «Max a volte è sonnambulo e una notte fummo svegliati dalla vicina di sotto infuriata perché qualcuno aveva fatto pipì sul suo balcone, corremmo sulla nostra terrazza e trovammo Max, addormentato, intento a fare pipì al di là del parapetto. Si beccò cinquecento dollari di multa e da allora la vicina non ci parla più».
Max fece una smorfia e tirò un cuscino a Jake, il quale lo afferrò al volo e lo rispedì fulmineo al mittente.
Erano dei bambini in corpi adulti quindi era impossibile non adorarli e mi ritrovai a sorridere quasi senza accorgermene.
«Bene!», esclamò Nat alzandosi in piedi e porgendomi una mano «È giunta l'ora di mostrarti la tua camera, mademoiselle».
A malincuore abbandonai i morbidi cuscini della poltrona e lo seguii, ignorando le risatine degli altri due alle mie spalle.
Arrivammo di fronte ad una porta nera e un attimo prima di aprirla Nat si voltò e mi guardò imbarazzato.
Max, pratico come sempre, spezzò il silenzio dicendo: «Apri Nat, tanto prima o poi dovrà vederlo».
Vederlo? Vedere cosa?
Il letto sfondato? Il soffitto con infiltrazioni? L'armadio senza ante?
La risposta arrivò pochi secondi più tardi quando la porta venne spalancata da Nat e di fronte a me si stagliò in tutta la sua maestosità quello spettacolo alquanto vietato ai minori.
«Mmh molto...caratteristico», mormorai scioccata, incapace di distogliere lo sguardo.
Jacob si grattò la testa a disagio e mormorò: «Fernando era un po' eccentrico».
«Diciamo pure che era un artista ninfomane con una fissa per il mio piccolo duca!», lo corresse Nat.
Bé, il lato positivo era che di notte, nell'oscurità non avrei dovuto essere spettatrice di quel grande murales a luci rosse. Il lato negativo era che per più di dodici ore al giorno c'era chiaro.
«Posso ridipingere la stanza?», chiesi, sperando con tutto il cuore di ricevere una risposta affermativa.
Altrimenti potevo tappezzare la parete di foto o girare per la stanza senza occhiali e senza lenti.
«Certamente, quando vuoi», mi rispose gentile Max.
Gli sorrisi grata: «Lo farò già questo weekend».
Cercando di ignorare i disegni, mi avvicinai al letto e mi ci lasciai cadere sopra.
Chiusi gli occhi e mi mossi un po', per controllare che fosse comodo.
«Non avete mai avuto una coinquilina donna?», domandai curiosa, sollevandomi sui gomiti per guardarli.
Si scambiarono una sguardo complice e risero, ignorando bellamente il mio sguardo interrogativo.
«Ragazzi? Ehi! Smettetela di comunicare nel vostro linguaggio da maschi primitivi che non hanno ancora scoperto l'uso della parola!», esclamai offesa.
Jake ammise sospirando: «Ahhh Georgine, Georgine perché ci hai abbandonato?».
«Georgine?», domandai aggrottando la fronte.
Loro continuarono ad ignorarmi e si avviarono verso la porta e prima di lasciarmi sola li sentii dire: «Quelli si che erano bei tempi, dove la condivisione regnava sovrana...»
Mmh, chissà come mai se ne era andata quella Georgine, da come ne parlavano sembravano quasi rimpiangerla.
Sospirai e mi sfilai gli stivali.
Mi guardai curiosa attorno, osservando quello che sarebbe diventato il mio rifugio nei mesi a venire. Un grande letto matrimoniale occupava il centro della stanza, illuminata dall'ampia vetrata, posizionata esattamente di fronte alla porta laccata di nero. Ai lati del letto si trovavano due comodini e una poltrona bordeaux dall'aria invitante. Ai piedi del letto c'era una scrivania grigia affiancata da una porta scorrevole.
Mi avvicinai curiosa di scoprire cosa ci fosse al di là. Quasi urlai dalla gioia quando davanti ai miei occhi si presentò la paradisiaca visione di una piccola stanzetta adibita a cabina armadio.
Avevo sempre sognato di averne una per potervi riporre tutti i miei vestiti, senza essere obbligata una volta ogni due anni a buttare via vecchi abiti per far posto a qualcosa di nuovo.
Il mio momento di contemplazione fu interrotto da uno scampanellio subito seguito dalla voce di Nat che urlava: «Wooo».





Sono stata super veloce nello scrivere questo capitolo perché, essendo all'inizio della storia, il mio entusiasmo è ancora a livello stellare. In verità in questo capitolo non succede molto, ma mi serviva per introdurre e presentare in modo ordinato i nostri quattro coinquilini. Chi sarà alla porta? Lo scopriremo presto!
Fatemi sapere cosa ne pensate lasciando un graditissimo commento.
Grazie a tutti,
S. xxx

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Capitolo 3
*** Paint your life ***




Insospettita dall'urlo entusiasta di Nat mi affrettai a raggiungere il salotto dove si parò davanti ai miei occhi uno spettacolo a me familiare.
Nat, Jake e Max guardavano rapiti verso la porta come se avessero avuto una visione mistica.
Peggio di una visione mistica perché Nat stava letteralmente sbavando e avevo paura che da un momento all'altro potessero cadergli gli occhi fuori dalle orbite.
Sulla soglia di casa, mozzafiato come sempre, si trovava Kim, la mia migliore amica, la quale non appena mi vide emise un sospiro di sollievo subito seguito da uno sguardo interrogativo rivolto ai tre bambocci andati in fissa.
«Entra pure», le dissi abbracciandola e chiudendo la porta alle sue spalle.
«T-tu la conosci?», mi chiese speranzoso Jake.
«Ovvio. Ragazzi, lei è Kimberley, mia migliore amica, da cui voi dovete tenere lontane, molto lontane, le vostre manine. Intesi?», chiesi con voce minacciosa.
Loro annuirono senza distogliere lo sguardo dalla mia amica, o meglio dalle sue gambe lasciate scoperte dalla gonna a pieghe.
Kim si sedette sul divano e io ne approfittai per presentarle i miei tre intelligentissimi coinquilini.
«Loro sono Jacob e Maximilian e quello che sta per morire disidratato a forza di sbavare è Nathaniel», spiegai brevemente.
«Ehi! Dille il mio nome completo!», protestò Nat, che sembrava aver riacquistato almeno momentaneamente la capacità di parlare, per dire sciocchezze ovviamente.
Kim mi guardò con gli occhi spalancati prima di sussurrarmi: «Avevi omesso il fatto che i tuoi coinquilini erano maschi!».
Sbuffai di fronte alla sua espressione arrabbiata.
Kim dall'alto del suo metro e ottanta era sempre circondata da corteggiatori, tuttavia, nonostante lei non volesse ammetterlo io sapevo che lei sognava una relazione stabile e una famiglia.
Si era illusa di averla trovata in Brian, che però, dopo un anno, l'aveva abbandonata senza nessuna spiegazione, lasciandola colma di odio nei confronti di tutti gli appartenenti al sesso maschile e delle relazioni serie.
«Ehm Kim giusto?», chiese Jake avvicinandosi con un sorriso a trentadue denti stampato in volto, «Mi vuoi sposare?».
Lei lo guardò incredula prima di scoppiare a ridergli in faccia.
«Mi viene una reazione allergica al solo pensiero di stare con lo stesso ragazzo per più di una settimana. Ora come ora l'unica cosa che potrebbe indurmi al matrimonio è la proposta di un emiro arabo con un conto in banca a nove zeri», esclamò scuotendo la testa, «Mi dispiace ciccino», disse scompigliando i capelli di Jake, che aveva un'espressione da cucciolo bastonato.
«Io non cerco una relazione seria. Bleah le relazioni serie. Orrore. Chi mai vorrebbe una relazione seria?», saltò su Nat gonfiando il petto e ammiccando in direzione di Kim.
«Non mi piacciono gli uomini che indossano camicie a quadri: fa troppo taglialegna», sancì la mia amica lanciando un'occhiata schifata agli indumenti indossati da Max e Nat.
Brian portava solo camicie a quadri di conseguenza Kim aveva iniziato ad odiare anche quelle.
Questa storia mi stava esasperando; solo due settimane prima le avevo proposto di ordinare cinese e lei mi aveva assalito, strappandomi di mano il menù, facendolo in mille pezzi e urlando che tutta la Cina con i suoi cinesi doveva andare a fuoco in modo da non poter più produrre il cibo cinese tanto amato da Brian.
Una settimana fa mi ero presentata da lei indossando un maglione azzurro e lei me lì aveva sfilato in malo modo per poi buttarlo nel cestino della spazzatura perché Brian ne aveva uno simile.
Max le riservò uno sguardo offeso mentre Nat, in preda alla follia, si strappò di dosso la camicia, facendo saltare un paio di bottoni e urlando: «Io odio le camicie a quadri! Ma questa era un regalo di Max e si sarebbe offeso se...»
«In verità io non...», provò a difendersi Max.
Ma venne prontamente zittito da Nat che gli intimò: «Taci!»
Kim li guardò stralunata e si alzò dal divano: «Ok, dopo essermi accertata del fatto che sei sistemata e convivi con tre squilibrati posso andarmene con il cuore in pace», mi schioccò un bacio sulla guancia, «Ci vediamo sabato tesoro! Adios», e se ne andò lasciandosi alle spalle i cuori infranti di Nat e Jake.
«Non rinuncerò a quella pura ed illibata creatura fatata!», urlò Nat prima di dirigersi svelto verso la sua stanza, «Vado ad elaborare un piano di conquista».
Io ridacchiai alla sola idea di una Kim pura ed illibata e mi diressi scuotendo la testa verso il mio morbido e nuovissimo lettone.

«Marrone. Ho sempre sognato di avere una stanza marrone per illudermi di abitare in una casa con pareti di cioccolato»
«Ti rendi conto delle stupidaggini che dici? Secondo me un bel rosa tenue è quello che ci vuole»
«Il rosa è da femmina!»
«Jake lei è femmina!»
«Oh, giusto. Allora io consiglierei un bel rosa»
«È quello che ho appena detto io...»
«Bene e io l'ho ripetuto, problemi?»
«Sì, perché quella è stata una mia idea e adesso arrivi tu, proponi la medesima cosa facendo in modo che la mia idea non sia più originale, unica e favolosa!»
«La tua idea non è originale, unica e favolosa!»
«Lo era prima che tu la copiassi! Le idee di Nathaniel Edward Louis Spencer sono sempre originali, uniche e favolose»
«Le idee di Jacob Davis sono e sempre saranno più originali, uniche e favolose di quelle di Nathaniel-ho-soprannominato-il-mio-pene-piccolo-duca!»
«La stanza è mia e io voglio che sia un luogo rilassante e così le pareti saranno color verde acqua», sancii stanca di quel battibecco infantile, «e dato che voi due siete due neonati travestiti da scimmioni e io sono una donna, sì Jake, sono una femmina, e sono indipendente ed emancipata vi lascio ai vostri litigi senza fine e me ne vado con la mia pittura!», conclusi fiera.
Mi chinai e afferrai i manici di due grandi secchielli colmi di pittura. Rivolsi a Nat e Jake, che mi fissavano scettici, uno sguardo di sfida.
Cosa credevano? Se loro non avessero insistito tanto per accompagnarmi ce l'avrei fatta anche da sola perché io non avevo bisogno di maschi buzzurri per cavarmela.
Sollevai i due contenitori e con un grido di dolore li lasciai cadere.
«Cavolfiore! Quanto pes-», non riuscii a terminare la frase perché fui interrotta dall'urlo spacca timpani lanciato da Jake.
Mi voltai per vedere che cosa l'avesse causato e lo vidi impegnato in una buffa danza, che consisteva nel saltellare su un piede solo tenendo con le mani l'altro piede sollevato in avanti.
«Cazzo Charlie!», esclamò con il viso contratto in una smorfia di dolore, «perché ce l'hai con me?»
Dispiaciuta capii di aver lasciato cadere il pesante barattolo sopra il suo piede e così lo abbracciai per consolarlo.
«Che stai facendo?», mormorò perplesso.
«Che sta facendo?», chiese curioso Max raggiungendoci e lasciando cadere una misteriosa confezione nel carrello.
«Ti sto chiedendo scusa», mormorai staccandomi e guardandolo con la mia miglior espressione da cucciolo ferito.
Jake mi coprì gli occhi con le mani e mi fece ruotare su me stessa in modo da dargli le spalle.
«Accidenti a te e ai tuoi maledetti occhi azzurri giganti! Solo a guardarli inizio a sentirmi in colpa io quando la quasi assassina sei tu!», esclamò.
Ridacchiai e feci per afferrare nuovamente i manici dei barattoli di pittura ma fui fermata da un «NO» strillato da Jacob, che preoccupato per l'incolumità del suo piede già malandato me li strappò di mano e senza fatica li depositò nel carrello.
Lo ringraziai con un buffetto e mi misi a spingere il carrello verso la corsia delle vernici per legno.
«Cosa vuoi fare?», mi chiese preoccupato Maximilian.
Lo ignorai e continuai a percorrere la corsia fino ad arrestarmi di colpo non appena vidi ciò che cercavo.
«Mi sei appena venuto addosso Nat. Madre natura non ti ha fornito di occhi per vedere cosa c'è davanti a te?», chiese scocciato Max.
Nat sbuffò e incolpò me: «Charlie si è fermata senza preavviso e io stavo guardando la commessa bionda laggiù», si giustificò.
La sua ultima affermazione ebbe il potere di catalizzare in meno di mezzo secondo l'attenzione di tutti e tre. Strano vero? Ahhh i maschi e i loro cervellini atrofizzati.
Schioccai le dita davanti ai loro visi imbambolati per richiamare la loro attenzione.
«Max, prendimi in braccio su», esclamai voltandomi verso di lui.
Lui mi fissò perplesso e io ne approfittai per scivolare rapida alle sue spalle e aggrapparmi alla sua schiena in modalità koala.
Lui, preso in contropiede, mi afferrò saldamente le cosce per evitare che cadessi e mi domandò: «Spiegami perché sono in un negozio di pittura e bricolage con una donna folle abbarbicata sulla schiena?».
Gli rifilai uno scappellotto e gli indicai lo scaffale di fronte.
Una volta avvicinatosi mi sporsi leggermente ed afferrai un barattolo di vernice blu e vittoriosa scivolai giù dalle sue spalle, tenendo ben stretto tra le braccia il mio prezioso bottino.
«Bene! Possiamo tornare a casa e metterci al lavoro», conclusi euforica.
Misi un piede sul retro del carrello e con l'altro mi diedi un'energica spinta e urlando «Pistaaa!» Percorsi tutto il corridoio usando il carrello come se fosse un monopattino.
Adoravo farlo da piccola e mi ricordo che ogni volta che mia madre doveva andare al supermercato io la supplicavo di  portarmi con sé mentre lei si rifiutava perché ogni volta combinavo una nuova marachella.
Quando avevo sei anni mi trovarono seduta vicino al banco frigo dei latticini intenta nella costruzione di un castello con i vasetti di yogurt.
Jake entusiasta si procurò in poco tempo un secondo carrello e mi sfidò a percorrere il lungo corridoio che conduceva alle casse in un tempo inferiore al suo.
Ci mettemmo in posizione e quando Nat ci diede il via iniziammo una folle corsa coi carrelli scansando i poveri malcapitati che si trovavano sulla nostra strada.
Arrivai alla fine del corridoio e diedi il cinque a Max cinque secondi prima che lo facesse il mio avversario e così, trionfante, scesi dal carrello e improvvisai un balletto per celebrare la mia vittoria.
«Voglio la rivincita», mugolò deluso Jake.
«Signori? Siete pregati di riporre i carrelli, pagare i vostri articoli e  lasciare il negozio prima che chiami la sicurezza», esclamò una voce antipatica alle nostre spalle.
Frettolosamente pagammo e sotto lo sguardo arcigno dei commessi abbandonammo il negozio ridendo a crepapelle.

«Ragazzi siete pronti?», esclamai apparendo in soggiorno dopo essermi cambiata.
Sé pensavo di trovarli impazienti di aiutarmi a dipingere mi sbagliavo di grosso.
Max stava leggendo uno dei suoi giornali filosofici e non sembrava intenzionato ad alzare il suo regale didietro dal divano.
Nat si stava pettinando di fronte allo specchio mentre mormorava al suo riflesso: «Specchio, specchio delle mie brame chi è il più bello del reame? Ovviamente tu Nathaniel!».
Jake invece aveva la testa infilata del frigorifero e sculettava canticchiando una vecchia canzone dei Backstreet Boys.
«Come ti sei conciata?», mi chiese Max alzando per un momento lo sguardo dal suo maledettissimo giornale.
Abbassai lo sguardo e guardai perplessa il mio abbigliamento.
Cos'aveva che non andava? Di solito le persone quando pitturano casa non indossano i loro vestiti migliori giusto?
Io avevo scelto una vecchia salopette di jeans e una maglietta a mezze maniche a righe rosse e bianche, antico cimelio risalente ai tempi del liceo.
«Bé, se nessuno vuole aiutarmi farò tutto sola soletta. Potrei cadere dalla scala, subire danni alla spina dorsale e restare paralizzata a vita. Potrei affogare nella pittura e morire intossicata. Potrei, per caso, mangiare la pittura e...»
«Ok, ok. Vengo io. Non sia mai che ti venga la malsana idea di assaggiare la pittura solo per farci sentire in colpa per averti abbandonato», esclamò sbuffando Max, che si alzò e lasciò cadere sul divano la sua stupidissima rivista per intellettuali.
Mi fiondai tra le sue braccia e lo strinsi forte, strusciando il viso contro la sua t-shirt.
Lui mi picchiettò imbarazzato su una spalla e mormorò brontolando: «Ancora un po' e fai le fusa».
«Se abbracci anche me ti aiuto volentieri», disse Jake, riemerso dal frigo in compagnia di un sandwich a tre strati.
Gli feci una linguaccia: «Io abbraccio solo le persone che devo ringraziare. Se ti impegnerai e sarai un bravo imbianchino ti regalerò un abbraccio lungo un quarto d'ora», promisi sorridendo.
Lui mi raggiunse e, dopo avermi spettinato i capelli, biascicò a bocca piena: «Ci conto!»
«Sai Nat, nell'ultimo numero di 'Scientific World' ho letto un articolo nel quale dicevano che la pittura, pur essendo tossica, possiede dei componenti che  giovano alla pelle», disse Max con nonchalance.
Il furbacchione era riuscito con poco a conquistarti la completa attenzione di Nathaniel il vanitoso, che interessato chiese: «Dovrei spalmarmela su tutto il corpo?».
Dovetti mordermi il labbro inferiore per evitare di scoppiargli a ridere in faccia.
«No amico, basta stare in una stanza dove viene utilizzata.  Queste sostanze si diffondono nell'aria...», continuò Max, sorridendo candidamente al povero ingenuo.
«Allora credo che vi aiuterò. Farei di tutto per la mia pelle vellutata», sancì felice Nat.
Alzando gli occhi al cielo feci dietrofront e mi diressi nuovamente verso la mia stanza, nella quale ogni mobile giaceva già sotto strati di cellophane protettivo.
Era bello vivere lì, non ti sentivi mai solo e avevi sempre qualcosa a cui pensare.
Finalmente quella sottospecie di graffito pornografico sarebbe sparito dalla mia vista, sostituito da un elegante e semplice verde acqua.

Tre ore più tardi mi stesi stravolta sul letto impacchettato nella plastica e ammirai il frutto del nostro sudatissimo lavoro.
La porta laccata di blu chiaro era una meraviglia e la stanza grazie a quel nuovo colore sembrava un'oasi di pace e tranquillità.
O almeno lo credetti fino a quando quel decerebrato di Jake non mi colse alla sprovvista passandomi il pennello sul naso e lasciando dietro di sé una striscia di pittura verde.
«Vuoi la guerra Davis?», esclamai immergendo un dito nella pittura avanzata nel barattolo e dirigendomi minacciosa verso di lui.
Lui cercò di scappare ma alla fine si trovò con le spalle al muro.
«Non osare appoggiarti alla parete», gli sibilai stringendo gli occhi.
«Lasciami passare allora», mi rispose lui sorridendo.
Mi feci da parte ma non appena lui si fu allontanato dal mio muro fresco di pittura gli saltai addosso tracciando con il dito colorato il contorno del suo volto.
«Ah! Sei un essere malefico!», urlò lui cercando di sottrarsi alla mia tortura.
«Mi unisco anche io!», strillò Nat arrivando con una mano grondante di pittura blu.
Mollai la presa su Jacob e mi scansai per evitare di essere colpita e così la mano blu di Nat si stampò in bella vista sulla pittura verde chiaro della parete accanto al letto.
Quando realizzammo cosa aveva fatto ci immobilizzammo tutti quanti, anche Max smise di sgranocchiare il grissino che aveva in bocca.
Quello fu il momento della calma innaturale che precede un brutto evento. Una tempesta. Un'esplosione. Un tornado. Io che mi scagliai contro Nat con le mani sporche di pittura con la chiara intenzione di infilarle tra i suoi adorati capelli.
Lui urlò consapevole di cosa lo aspettasse ma messo in un angolo non poté scappare e così cercò di difendersi dal mio feroce attacco.
«Brutto zuccone! Ti farò diventare più blu di un puffo!», urlai.
Lui alzò le mani in segno di resa e mi supplicò: «Pietà, pietà per i miei poveri ex capelli vellutati e setosi».
Contenta del mio operato mi tirai indietro lasciandogli la possibilità di alzarsi.
E alla fine avrei dovuto prevederlo: il nemico colpisce sempre quando tu, ormai sicuro di avere la vittoria in tasca, ti permetti di avere un attimo di distrazione.
E fu in quell'istante che Nat balzò in avanti, afferrò la mano ancora sporca di blu di Jake e la sbatté contro la parete.
Una nuova mano affiancò così quella già lasciata da Nat.
Feci per urlare ma fui preceduta da Jake: «Però sono carine le nostre mani vicine; dovreste fare le vostre impronte anche voi, Max, Charlie, perché messe tutte accanto l'una all'altra ci danno l'idea di quello che noi siamo: una famiglia. E anche se sei con noi da soli quattro giorni ne fai già parte anche tu, cara Charlotte Addams».
Lo fissai senza sapere cosa dire mentre Max, dopo aver immerso la mano nel barattolo di pittura, lasciava la sua impronta accanto a quelle dei suoi due amici.
Mi fissavano tutti e tre, in attesa.
E così titubante mi avvicinai e appoggiai la mano sotto alle loro tre impronte.
Poi mi allontanai per fissare la parete verde sulla quale spiccavano vicine tre grandi mani e una mano più piccola.
E non potei far altro che sorridere.


 


Ecco qui il terzo capitolo!
Conosciamo Kim, che sarà spesso presente (trae ispirazione dalla Cecilia della serie tv ma non sarà uguale uguale a lei), e poi abbiamo un quadretto di vita quotidiana, che vede i nostri quattro amici alle prese con pittura e pennelli.
Fatemi sapere cosa ne pensate perché ci tengo molto.
Grazie a tutti!
Un bacio,
S.

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Capitolo 4
*** Una mela al giorno toglie il medico di torno ***




Allungai le gambe al di sotto della trapunta leggera e mi stiracchiai.
Avevo il brutto vizio di appallottolarmi nel sonno e così ogni mattina mi risvegliava indolenzita, dopo aver trascorso troppe ore in posizione fetale.
Sbadigliai stropicciandomi pigramente gli occhi.
Adoravo il momento del risveglio; ti trovavi in una sorta di limbo felice a metà tra il mondo dei sogni e le coperte calde.
«Non osare!», sentii urlare dal soggiorno, «Jake sei un panzone senza fondo!», si lamentò Max.
Meraviglioso, non esisteva risveglio più dolce di quello, accompagnato dagli strilli dei coinquilini isterici.
Chiamando a raccolta la mia forza di volontà ancora mezza addormentata scostai le lenzuola e abbandonai il tepore del mio accogliente rifugio.
Infilai le mie pantofole a forma di coniglio e ciabattai verso il bagno.
Fortuna delle fortune lo trovai deserto e così ne approfittai per fare pipì e sciacquarmi il viso.
Mi stavo asciugando il volto con un asciugamano di spugna verde quando Nat fece capolino dalla tenda della doccia.
«Ommioddio!», esclamai facendo un balzo spaventata.
«'Giorno», biascicò con voce assonnata.
«Cosa cappero ci facevi nella doccia?», domandai guardandolo furiosa.
In quella casa la parola privacy era un concetto sconosciuto. Forse prima che arrivassi io, essendo maschi, erano abituati a non chiudere mai le porte, a fare pipì in compagnia e a dormire abbracciati nella doccia, a quanto pare.
«Dicono che dormire in ambienti umidi favorisca l'idratazione cutanea...», borbottò cercando di sbrogliarsi dalla tenda di plastica e di uscire dalla doccia.
Sbuffai scuotendo il capo incredula e mi incamminai verso la cucina, seguita a ruota dal principino dei pavoni.
Davanti ai miei occhi si parò uno spettacolo semplicemente raccapricciante.
Jake stava spalmando la Nutella su tutte le fette contenute nel pacchetto del pan bauletto. Finita questa operazione, le impilò facendo attenzione a far combaciare le varie fette, fino a formare una torretta di pane e Nutella che finì divorata in pochi secondi da quell'essere affamato.
Storsi il naso di fronte a quello spettacolo e mi voltai verso Max.
Se speravo di trovare in lui un appetito inferiore o un livello di bon ton più sviluppato mi ero sbagliata di grosso.
Quest'ultimo aveva fritto in padella l'intera confezione di bacon, accompagnato da ben quattro uova strapazzate. Quattro uova!
Nat mi superò e si diresse verso lo stipetto sopra il lavello, dove tenevamo le varie pentole, dopodiché ne estrasse un'insalatiera e la riempì di cereali al cioccolato, conditi con salsa al cioccolato.
Mangiava i cereali nell'insalatiera. Oh santo cielo. Ora capivo perché ogni due giorni si lamentava che fossero finiti. Era un uomo trita-cereali. Solitamente facevo colazione da sola perché ero la prima ad alzarmi, dovendo recarmi presto a scuola per accogliere i bambini.
Scossi la testa e misi a riscaldare in un pentolino un po' di latte, che versai nella mia tazza a forma di rana insieme ai miei cereali al miele.
Decisi che finita la colazione avrei fatto loro un bel discorsetto.
«Ehiehi fermo lì!», urlai afferrando il polso di Max, che era saltato giù dallo sgabello diretto verso la sua camera.
«Che c'è Grande Puffo?», mi domandò sorridendo.
Ah, se avesse saputo cosa stavo per dirgli il suo bel sorriso si sarebbe spento rapidamente.
Indicai con una smorfia i resti della loro colazione e sancii con aria da maestrina, cosa che dopotutto ero: «La vostra alimentazione è completamente squilibrata e certamente poco salutare. Non siete più dei giovincelli ormai, i trenta sono alle port-», non riuscii a terminare la frase interrotta dalle urla isteriche di Nat.
«Nooooo», strillò portandosi disperato le mani al viso, «Non dirmi così! Se la vecchiaia è alle porte, spranghiamole. Io non posso sopportare di diventare un anziano rinsecchito, rugoso, bavoso, che si diletta giocando a briscola o coltivando insalata e pomodori. Non posso permettere che la mia bellezza sfolgorante venga rovinata dal passare del tempo...», mormorò tristemente.
«Nat hai ventotto anni, non novantatre!», esclamai guardandolo stranita.
«Stavi dicendo?», mi chiese Max.
Gli sorrisi riconoscente e tossicchiai per richiamare l'attenzione di Nat: «Allora, volevo dire che d'ora in poi, considerato che sono io la donna della spesa, in questa casa si mangeranno solo cibi sani. Niente più take-away a domicilio tre volte a settimana, niente più donuts grondanti di olio, niente più carne rossa tutti i giorni».
I tre mi fissavano esterrefatti e non osavano parlare e interrompere la mia filippica.
Jake mi guardò con gli occhi lucidi mormorando: «Posso almeno mangiare le ciambelle con la glassa rosa?»
Nonostante la sua aria da cucciolotto fosse molto tenere non mi feci trarre in inganno.
«No, Jake. Mi dispiace», gli risposi dandogli un buffetto affettuoso, «Però potrai sostituirle con dei dischi di riso soffiato».
Il suo sguardo triste mi fece intendere che non li trovava degli ottimi rimpiazzi per le sue adorate ciambelle.
«Tanta frutta e verdura, pesce e carne bianca. Legumi e cereali integrali, pasta e riso conditi con sughi freschi. Si comincia da domani!», conclusi contenta e aggiunsi, «Dubbi, domande, perplessità?».
Nat alzò la mano e io gli feci cenno di parlare.
«Come farai a controllarci a pranzo?»
«Giusto, durante la pausa pranzo, lontani da te piccola dittatrice, potremo ingozzarci di porcherie e poi raccontarti di aver mangiato germogli di soia con tofu», gli diede manforte Max.
Strinsi gli occhi minacciosa e mi portai lentamente alle loro spalle e poi all'improvviso, cogliendoli impreparati, afferrai le loro belle orecchie e le tirai con forza.
«Vi farò controllare attentamente, e, se scoprissi per caso che voi non avete rispettato la dieta stabilita, le conseguenze saranno molto molto dolorose», sussurrai angelica con il viso tra i loro volti.
Mi risollevai soddisfatta del lavoro svolto e decisi di seguire il motto che recitava: il mattino ha l'oro in bocca.
«Andate a vestirvi, su! E poi andremo tutti insieme appassionatamente a fare la spesa», esclamai sciacquando le tazze nel lavello.
«Ma io in verità dovrei...», tentò di sfuggirmi Nat.
«Stasera viene a cena Kim; lei mangia solo cibo macrobiotico, sano e con pochi grassi. Quindi si va a fare la spesa senza protestare!», ribattei io, certa che giocando la carta Kim sarebbero stati tutti e tre in mio pugno.
E come volevasi dimostrare nessuno di loro protestò.
Mezz'ora più tardi varcavamo la soglia del supermercato del quartiere, armati di carrelli e lista della spesa.
Riuscire a vestirsi in tempi rapidi era stata un'impresa quasi impossibile. Dopo cinque minuti io e Jake eravamo già pronti mentre Nat strillava e rovistava nell'armadio alla ricerca di una mise adatta a fare la spesa e Max sbraitava accusandomi di aver messo a lavare tutte le sue magliette contemporaneamente senza lasciargliene neanche una da indossare.
E così, dopo aver asciugato con il phon una maglia di Max e aver assicurato a Nat che le cassiere del supermercato avevano tutte più di cinquant'anni in modo da convincerlo a infilarsi un semplice pullover e un paio di jeans, avevamo finalmente lasciato il loft.
«Bene, ora ci dividiamo. Io e Jake ci occupiamo della frutta e della verdura mentre voi due pensate ai latticini, alla pasta e ai legumi. Ci vediamo tra un quarto d'ora nel reparto biscotti», dettai rapidamente spingendo il carrello verso il banco frigo delle insalate.
Mi piaceva fare la spesa ed ero molto scrupolosa nello svolgere questo compito: leggevo attentamente gli ingredienti, per assicurarmi che non fossero presenti troppe schifezze chimiche, controllavo accuratamente la data di scadenza e appuravo che il prodotto non provenisse da paesi oltreoceano, preferendo prodotti americani a chilometri zero.
Jake, se opportunamente istruito, era un ottimo compagno di spesa.
«Charlie, quanti peperoni prendo?», domandò soppesando con le mani ricoperte dai guanti di plastica due peperoni, uno verde e uno rosso.
«Prendine quattro: due rossi e due gialli», risposi sovrappensiero guardandolo di sfuggita, «Poi prendi anche una decina di mele rosse», aggiunsi afferrando una cassetta di succosa uva verde.
Dieci minuti più tardi ci dirigemmo al punto di incontro stabilito con il carrello colmo di mele, uva, insalata, zucchine, pomodori e fragole.
«Allora ragazzi fatemi un po' vedere...», esclamai giungendo alle loro spalle.
Loro sussultarono dalla sorpresa e si pararono di fronte a me in modo da nascondere il carrello e il suo contenuto ai miei occhi.
«Spostatevi», sibilai, gli occhi stretti a due fessure.
«Ehm Charlie guarda un po' chi c'è, il tuo amico Brandon!», esclamò improvvisamente Nat indicando un punto alle mie spalle.
Io tentai di allungare il collo per sbirciare dietro di loro ma Max captò il mio movimento e si spostò celando nuovamente il misterioso contenuto del carrello.
«Non saluti il tuo caro amico Brandon?», chiese candidamente Max.
«Non ho nessun amico che si chiama Brandon», dissi a denti stretti strattonando in malo modo Nat affinché si spostasse.
Niente. Due monoliti di pietra.
«Ehi tu! Sì, tu, Brandon! Vieni qui un attimo...», urlò Max attraverso la corsia.
Un ragazzo moro si avvicinò titubante e indicandosi domandò: «Dici a me? Io non mi chi-».
«Sì, sì, Brandon, sto parlando proprio con te», lo rassicurò Max con un ghigno divertito stampato in volto, «La conos-».
«Non osare! Max giuro che ti castro se solo provi a giocare a...»
Non riuscii a finire perché lui mi anticipò: «La conosci Charlotte?», chiese al ragazzo dall'espressione sempre più confusa.
Lui mi guardò non sapendo cosa dire e scosse la testa: «Ehm...in verità no», balbettò porgendomi una mano, «Io sono Fr-».
Un movimento alle sue spalle catturò la mia attenzione e così mi accorsi che i due imbroglioni, approfittando della mia momentanea distrazione, erano fuggiti con il carrello.
«Tornate subito qui!», strillai inseguendoli lungo la corsia, un attimo prima di svoltare nel corridoio seguente all'inseguimento dei due, mi voltai e urlai in direzione del ragazzo, che mi guardava allucinato: «È stato un piacere Brandon!», poi mi rimisi a correre, sulle tracce dei fuggitivi.
Dalla corsia affianco mi giunse un grido sommesso: «Non mi chiamo Brandon!», ma ridendo lo ignorai e continuai il mio folle inseguimento.
Poverino, si era ritrovato invischiato in una questione a cui era completamente estraneo. Era assurdo pensare a quanto fosse immaturo ed infantile il comportamento dei miei coinquilini; si comportavano esattamente come i miei alunni: tu dicevi loro di non fare una cosa e loro ovviamente tentavano in tutti i modi di farla, ignorando elegantemente il divieto. Stare con loro mi ricordava la mia adolescenza, nella quale, volendo fare la ribelle a tutti costi, sostenevo che le regole erano fatte per non essere rispettate. Tu imponi una regola e i ragazzi subito pensano che sia un loro dovere morale ignorarla e trasgredirla.
Poi mi resi conto che io stavo correndo come una pazza per le corsie di un supermercato e non potei fare altro che sorridere nel pensare che il mio comportamento di certo non era un esempio di maturità.
Arrivata a metà della corsia dedicata agli alimenti per celiaci mi fermai per riprendere fiato.
Sbirciai nel corridoio affianco e vidi il retro della maglia gialla di Jake svoltare rapidamente a sinistra.
Ah ah, beccati! Feci il giro largo in modo da incastrarli e da non dargli possibilità di fuga.
Corsi più veloce che potei, ignorando gli sguardi allibiti dei clienti e i rimproveri dei commessi. Arrivata nella zona delle casse, presi un bel respiro e svoltai veloce nella corsia dei vini trovando, come avevo giustamente preventivato, i miei tre pollastrini.
Afferrai il carrello e li guardai in tralice: «Fuga finita», esclamai truce, «Ora esaminerò il contenuto del vostro carrello; ad ogni prodotto bandito dalla nostra dieta che troverò corrisponderà un vostro pranzo a base di minestrina».
Jake chiese suadente: «Io sono stato un ottimo collaboratore, no? Non merito forse un premio?».
Gli rifilai uno scappellotto: «Ti meriti un passato di verdura extra per esserti fatto trascinare in questa pazzia».
Abbassai lo sguardo e per poco non svenni a faccia in giù nel carrello. Dentro c'erano tutti i cibi più buoni, unti, fritti, grassi e calorici del mondo.
Vaschette di gelato al cioccolato con caramello, sacchetti di patatine alla paprika, vasetti di Nutella e burro di arachidi, sandwich ripieni di pancetta fritta, pacchetti provenienti dalla gastronomia macchiati di unto, pizze al triplo formaggio e salsiccia, tavolette di cioccolato, biscotti al burro e una torta alla panna.
«Direi che avete proprio seguito alla lettera le mie istruzioni...», mormorai senza riuscire a staccare gli occhi dai deliziosi bignè ripieni di candida e spumosa panna ricoperta di gocce di cioccolato che decoravano la torta.
«Charlie stai sbavando sul nostro cibo», mi fece notare sghignazzando Nat.
Io avevo inventato quella storia della sana alimentazione e della dieta equilibrata, quindi io dovevo farmi forza, distogliere lo sguardo da quelle leccornie e dare il buon esempio consolandomi con sedano e finocchi.
«Bene. Jake vai a recuperare il nostro carrello di frutta e verdura, Nat vai a rimettere negli appositi scaffali il cibo di questo carrello e Max, seguimi, andiamo a finire di fare la spesa», dissi afferrando il braccio di quest'ultimo e trascinandolo lontano da quel carrello tentatore.

«Che buon profumino! Cos'hai cucinato?», trillò allegra Kim entrando in cucina.
Alzai il viso dalla pentola fumante che avevo davanti e le sorrisi: «Ciao tesoro! Aspetta e vedrai, vai pure a sederti di là con i ragazzi. Tre minuti ed è pronto!».
Ero così concentrata che non avevo sentito suonare il campanello. Mi passai una mani sulla fronte e spalancai la finestra accanto al frigorifero. Ero accaldata ed era senza dubbio colpa del lungo tempo trascorso tra il forno e il piano cottura, invaso da pentole e padelle.
Pochi minuti più tardi mi sedetti a tavola, dopo aver servito ai miei amici alcuni stuzzichini leggeri, che erano stati spazzolati nel giro di pochi secondi.
«Che cos'è?», chiese sospettoso Jake fissando il contenuto del suo piatto.
Avevo trovato un sito internet molto utile, nel quale ti spiegavano passo per passo, con tanto di video esplicativi allegati, come preparare alcune ricette delicate ma light, adatte anche ai palati più fini senza però sconfinare nell'eccessiva elaborazione.
«Cous cous con erba cipollina, mandorle, zucchine, pomodorini, gamberetti e menta», gli spiegai.
Lui fece una smorfia ma dopo aver borbottato un buon appetito iniziò a mangiarlo e in poco tempo il suo piatto fu bello pulito.
«Mi costa ammetterlo ma è delizioso!», esclamò sorpreso Max, portandosi alla bocca una nuova cucchiaiata di cous cous.
«Ah uomini», sbuffò infastidita Kim, «Volete sempre giudicare prima di provare».
Anche la seconda portata fu molto gradita e dopo aver servito la macedonia Nat constatò sarcasticamente: «Immagino che in questa dittatura il dolce non sia ammesso...»
Sorrisi complice a Kim, che si alzò e si diresse sinuosa in cucina.
Sorpresi Nat intento a fissare con occhi sognanti il suo fondoschiena e gli rifilai una sberla sussurrandogli minacciosa in un orecchio: «Lei è off limits».
«Ecco qua, ghiottoni!», esclamò euforica Kim appoggiando in mezzo alla tavola una scatola di plastica.
Gli occhi dei miei tre coinquilini furono catalizzati dal quel contenitore trasparente mentre io e Kim scambiandoci uno sguardo complice cercavamo di trattenerci per evitare di scoppiare a ridere.
«Questo è un delizioso budino», spiegò la mia amica indicando la confezione.
Tre paia di occhi si accesero speranzosi, immaginando probabilmente meravigliosi budini al cioccolato o creme caramel.
«Un delizioso budino, la cui ricetta mi è stata insegnata da un mio caro amico vegano. In pratica consiste in una sorta di gelatina di verdura triturata, zucchero e latte», spiegò aprendo la scatola e svelando il budino color verde menta.
Nat finse di doversi soffiare il naso, Max simulò un attacco di tosse mentre Jake si chinò sotto il tavolo per raccogliere un fantomatico tovagliolo.
«Chi vuole assaggiarlo?», domandò felice come una pasqua Kim.
«Io!», esclamai sorridendole e facendole l'occhiolino.
«Voi lo volete?»
«Ehm mi sono ricordato di non aver dato da mangiare al pulcino del mio Tamagotchi», mormorò Jake alzandosi.
«Io devo andare urgentemente in bagno, evidentemente questo tuo cibo salutare Charlie ha un effetto lassativo», lo seguì a ruota Nat.
Posai gli occhi su Max, in attesa della sua scusa poco credibile.
«Io, ehm...mia nonna mi ha inviato un messaggio di sos, sì un messaggio per...via telepatica, perché...non le è caduta la dentiera nella lavatrice e non la trova più», concluse sorridendo imbarazzato.
Kim indossò la sua miglior maschera: quella della povera vittima innocente.
«Voi volete dirmi che non volete neanche assaggiare il mio budino? Ho impiegato tutto il pomeriggio per prepararlo», mormorò abbattuta, «Mi sono impegnata molto e ci ho messo tutto il mio amore e ora...ora nessuno vuole mangiarlo perché è una schifezza!», concluse asciugandosi addirittura una finta lacrima.
Era un'attrice strepitosa! Altro che modella e modella, Kim era nata per recitare. Lei, con le sue bugie e i suoi occhioni da cucciolo, riusciva sempre ad intortare chiunque.
I ragazzi di fronte a quella scena iniziarono a cedere; Nat sospirando si sedette porgendo a Kim il suo piattino mentre Max e Jake, dopo essersi scambiati un'occhiata sconsolata, seguirono il suo esempio.
Nessuno di loro osò fiatare per esprimere il proprio giudizio sul dessert preparato da Kim e lei sorrise vittoriosa mentre li obbligava a servirsi il bis minacciando di scoppiare a piangere se non lo avessero mangiato.
Verso mezzanotte i ragazzi si ritirarono e io rimasi sola con Kim, che si offrì di aiutarmi a sistemare la cucina.
«Charlie?», mi chiamò lei prendendo in mano il piattino con il budino avanzato.
«Sì?»
«Com'era il mio budino?»
«Onestamente?», lei annuì e io le dissi la verità, «Era orribile!»
Lei scoppiò a ridere e si mise a battere le mani.
«Ce l'ho fatta allora! Si!», esultò saltellando.
«No, fammi capire. Il tuo intento era che fosse immangiabile?», le chiesi esterrefatta.
«Siii! Mi sono divertita tantissimo nel prepararlo; in pratica ho buttato nel frullatore qualsiasi verdura o frutta mi capitasse sotto mano», trillò soddisfatta.
Scossi la testa ridendo.
Era tipico di Kim. Adorava inventare nuovi miscugli terrificanti. Una volta al liceo mi aveva portato un frullato fatto da lei e io lo avevo bevuto, ignara del fatto che fosse un concentrato di finocchio, cipolla e mandarino.
«Sono simpatici dopotutto», esclamò all'improvviso.
«Già», confermai pensando divertita a quanto la mia vita fosse stata movimentata da quando mi ero trasferita in quella casa. E la cosa mi piaceva parecchio.
Le mie cene solitarie o al massimo in compagnia di David erano state sostituite da quelle divertenti, trascorse a pancia in giù sul tappeto o in terrazza, con i ragazzi. La mia vita era molto più allegra da quando avevo conosciuto loro e io mi sentivo più viva.
Venti minuti più tardi salutai Kim, promettendole di accompagnarla presto a fare shopping, e mi avviai verso la mia stanza. Ma prima di raggiungere il mio caldo lettino mi fermai sulla soglia della stanza di Max, l'unica con la porta socchiusa, ed infilai dentro la testa. Lui dormiva pacifico e beato, stringendo al petto un cuscino e respirando lentamente. Sorrisi davanti a quella scena e piano piano feci dietrofront.

Non posso di certo dire che la mia idea di dieta sana venne rispettata. Tutte le mattine preparavo loro insalate e sandwich, accompagnate da un frutto e un frullato fatto da me, per assicurarmi che mangiassero cibo salutare anche quando non erano sotto il mio controllo. Purtroppo un giorno, per puro caso, beccai Jake a due isolati da casa, intento ad ingozzarsi di hotdog e patatine fritte. Lo riportai a casa trascinandolo per un orecchio, dove egli accusò Max e Nat di aver fatto la medesima cosa. Il mio progetto fallì con una sorta di confessione comune  finale, nella quale tutti e tre mi rivelarono i loro misfatti. Decisi di alzare bandiera bianca e di abbandonarli al loro triste destino di futuri quarantenni con pancetta e colesterolo a mille.
Ogni mattina prima di uscire lasciavo sul bancone della colazione un cesto di frutta.
Il mio messaggio subliminale venne altamente ignorato: ogni mattina contavo i frutti presenti e poi la sera ero costretta a constatare tristemente che non erano diminuiti.
Ma come si dice: la speranza è l'ultima a morire.






Eccomi nuovamente qui con un nuovo capitolo dedicato al cibo  salutare! Il giochetto de 'La conosci Charlotte?' l'ho rubato da un'altra serie tv: How I Met Your Mother. Sì, sono una drogata di serie tv :)
Lì un amico di Ted, il protagonista, ogni volta che sono in un locale, picchietta sulla spalla di una ragazza e dopo averle detto: «Lo conosci Ted?» se ne va, lasciando Ted con la sconosciuta.
Allora? Pareri, appunti, commenti, perplessità, domande?
Tanti baci e budini verdi per voi!
S.

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Capitolo 5
*** Sfuriate e turpiloquio ***




«Perché devi essere così maldestro?», chiesi stizzita mentre stringevo spasmodicamente tra le mani un antistress a forma di pinguino. Era un ottimo metodo per tenere le mani impegnate ed evitare di schiaffeggiare il mio adorato coinquilino.
Jacob guardò dispiaciuto il guaio che aveva combinato.
Avevo passato una domenica intera a ritagliare immagini e parole da riviste e quotidiani per creare un collage da mostrare ai bambini il giorno seguente. Cioè oggi. Peccato che ora l'unica cosa che avrei potuto mostrare ai miei poveri alunni era un foglio impregnato di latte e cornflakes mollicci. Più che un collage sembrava un quadro astrattista.
«Wow!», esclamò Nat facendo la sua teatrale entrata. Era coperto solo da un misero asciugamano verde legato in vita e in testa portava un voluminoso turbante. Era scalzo e ai suoi piedi si stava formando una miniatura del lago Michigan.
«Non mettertici anche tu, brutto grizzly vanesio!», abbaiai nella sua direzione.
«Doppio wow!», rincarò Max, giunto in quel momento avvolto dal piumino del suo letto, «Nat, mi dispiace ammetterlo ma avevi ragione».
Si scambiarono uno sguardo complice e scoppiarono a ridere.
Ridevano di me? Osavano prendersi gioco di me? Perché se la risposta era si allora le conseguenze sarebbero state nefaste. Già mi ero alzata con un orribile brufolo, che capeggiava in tutto il suo splendore al centro della mia fronte, manco fosse un bindi indiano. Poi avevo ricevuto un messaggio da parte della mia banca, nella quale mi avvisavano che quel mese avevo già sforato il budget mensile prefissato per evitare che, a causa della mia scarsa parsimonia, finissi in bancarotta prima dei trent'anni. Poi Jake aveva visto bene di scambiare la mia meravigliosa creazione in una tovaglietta per la colazione. E ora, beffa delle beffe, ero anche oggetto di scherno per un troglodita nudo e un troglodita freddoloso.
Respira Charlotte, Respira profondamente. Pensa a verdi colline, caprette con campanellini al collo che saltellano felici e a soffici nuvolette bianche. Incrociai le braccia, giusto per tenerle ferme ed evitare di schiaffeggiare qualcuno per sbaglio.
«Vado a vestirmi», borbottai a denti stretti, sorpassandoli e dirigendomi verso la mia stanza, dove avrei potuto calmarmi definitivamente o in alternativa spaccare una finestra immaginando fosse il bel visino di uno dei miei coinquilini.
Cinque minuti più tardi saltellai verso il soggiorno piazzandomi di fronte ai miei tre coinquilini, che mi fissavano come se fossi un alieno.
Avevo deciso che la rabbia era una cattiva alleata e che avrei combattuto cattivi umori e giornate no con il sorriso.
Avevo così indossato il mio vestito preferito, quello rosso a pois, che mi faceva assomigliare a Minnie e mi ero preparata psicologicamente ad una giornata di fuoco.
«Soffri di bipolarismo?», domandò Max guardandomi stupefatto.
Feci una piroetta e il vestito si gonfiò facendo la ruota.
«Assolutamente no!», risposi regalando loro un sorrisone a trentadue denti, «Il fatto che viva con tre macachi non deve compromettere il mio buonumore».
Lanciai loro un bacio volante e, dopo aver afferrato al volo la mia borsa di Mary Poppins, uscii dal loft.
Sarebbe stata una giornata molto lunga.
Dieci ore e sette tazze di camomilla più tardi mi trovavo sdraiata sul divano con la testa appoggiata su una torre di cuscini e i piedi sulle gambe di Max, intento a guardare una partita di football.
«Pensi mai che il mondo complotti contro di te?», chiesi passandomi stancamente una mano sulla fronte.
Ero fisicamente e mentalmente distrutta.
A scuola i bambini non avevano preso bene la notizia che l'ora di arte di sarebbe trasformata in un dettato di due pagine e avevano iniziato a ribellarsi, lanciando matite, litigando e continuando ad interrompermi.
Il mio brufolo da piccolo punto rosso si era trasformato in un cratere vulcanico pronto ad esplodere da un momento all'altro.
E il mio assistente finanziario si era dichiarato molto scontento della mia amministrazione e aveva proposto di abbassare il budget mensile in modo da alzare la somma destinata al mio fondo risparmi. Traduzione: niente weekend a Disneyland. Conseguenza: depressione curabile solo con indigestione di biscotti al cioccolato e overdose di cartoni Disney.
Max distolse lo sguardo dalla tv e lo fissò pensoso su di me: «Spesso. Tutti lo pensano quando sono nel mezzo di periodi neri, durante i quali ti senti una sorta di calamita attira sfiga. Poi passa, Charlie, te lo posso assicurare», mi rispose sorridendo lievemente.
Bé, se non passava mi sarei fatta anestetizzare fino a quando la nuvoletta di Fantozzi non sarebbe divenuta la migliore amica di qualcun altro.
Improvvisamente mi si mozzò il respiro e sentii un peso insopportabile gravarmi sul petto e sull'addome. Nat e Jake, come se fossi un cuscino decorativo, si erano accomodati su di me.
«Levatevi subito!», urlai arrabbiata con il poco fiato rimasto, «Brutti fichi d'india alzatevi!».
Iniziavo a pensare che l'anestesia non sarebbe servita perché sarei morta per soffocamento prima quando improvvisamente mi sentii leggera e finalmente libera di respirare a pieni polmoni.
Mi alzai di scatto e tirai uno scappellotto ad entrambi.
«Siete dei grandissimi babbani babbei! Voi...arghhhh!», strillai agitando le mani.
Non sapevo neanche come insultarli. 
«La nostra tesi è ulteriormente confermata», mormorò Max fissandomi curioso.
«Quale tesi?», domandai sospettosa.
Errore. 
Mai chiedere a quei tre gorilla cosa stanno tramando.
In due secondi ti trovi coinvolta in piani suicidi.
Loro ghignarono e si guardarono scuotendo la testa.
Sbuffando li lasciai al loro confabulare e andai a preparare la cena.
«Santissima madre di tutti i cereali al miele dammi la forza di non uccidere, tagliuzzare, sventrare, sezionare quei tre trichechi con cui condivido la casa!», esclamai respirando piano per cercare di mantenere il controllo.


 
No. No. No.
Dove erano finiti i miei amati cereali? Dove? D o v e? DOVE?!
Fissai la scatole vuota mentre mi appellava a tutto il mio autocontrollo per evitare di fare una strage di prima mattina.
Stringendo i denti feci colazione con latte e biscotti il più rapidamente possibile in modo da uscire di casa prima di incontrare uno dei tre ragazzi e compiere il primo omicidio della mia vita.
 
 
Infilai il dvd nel lettore e pigiai il tasto play, mentre mi spaparanzavo comoda sul divano.
Il martedì era uno dei pochi giorni nei quali riuscivo ad avere il monopolio del telecomando e così ne approfittavo per guardarmi uno dei miei adorati dvd di cartoni animati. 
Quel giorno avevo deciso di andare sul classico e stavo per piangere per l'ennesima volta sulle disavventure di Rapunzel e Eugene.
Appoggiai il capo sul mio cuscino preferito, quello verde di velluto morbido, e aspettai che sullo schermo comparisse il famoso castello su sfondo azzurro della Disney.
«Aahhhh, Dio si, continua così»
Balzai in piedi cercando disperatamente di fermare quello che sembrava tutto tranne un cartone per bambini. Pigiai stop e aprii stizzita e rossa di rabbia lo sportellino del lettore dvd. 
Magicamente il mio disco era stato sostituito con un filmino porno, che io avrei volentieri fatto a meno di vedere.
Concentrato Charlotte, immagina di essere in un castello di pasta di zucchero, sdraiata su un sofà di panna montata con cuscini di zucchero filato. Riposi il cd nelle custodia lottando contro l'istinto di spezzettarlo o di lanciarlo fuori dalla finestra.
 
 
«Somewhere over the rainbow...», canticchiai a mezza voce mentre l'acqua calda mi bagnava il corpo, trasmettendomi una scarica di benessere.
Allungai il braccio verso il portaoggetti appeso alla parete piastrellata per prendere il mio shampoo all'albicocca.
La mia mano afferrò il vuoto e così fui costretta ad interrompere il mio canto e ad aprire gli occhi.
Sparito. Il flacone arancio che da sempre faceva bella mostra di sé nel piccolo ripiano pensile era scomparso. Mi guardai attorno, perlustrando attentamente il perimetro della doccia. 
Mancavano all'appello tutti i miei prodotti, non solo lo shampoo, ma anche il mio bagnoschiuma al cioccolato e la mia maschera per capelli al caramello.
Con i capelli bagnati e il corpo gocciolante non avevo molta scelta e così, dopo aver sferrato un pugno alle piastrelle azzurre del bagno – procurandomi senza dubbio un signor ematoma- mi insaponai i capelli con il primo shampoo che mi capitò sottomano.
Un odore di bosco si sparse per tutta la doccia e insospettita afferrai il barattolo di shampoo e lessi: Vuoi essere un vero uomo? Allora lavati con YOMO, l’unico shampoo al pino che non ti farà puzzare di calzino!
Puzzare di calzino? Io non puzzavo di calzino! Con o senza questo apparentemente magico YOMO io profumavo sempre. E no, non me lo dico da sola! Molte persone nel corso della mia esistenza hanno osservato il fatto che io sia una specie di Arbre Magique umano. David sosteneva che fossi una sorta di deodorante per ambienti umano e stava sempre ad annusarmi il collo e i capelli, manco fosse un cane da tartufo.
Mi sciacquai e mi avvolsi nel mio morbido accappatoio decorato con tante piccole e graziose mucche viola. Aprii l’anta dell’armadietto accanto allo specchio, zona off-limits riservata esclusivamente a me, e mi misi alla ricerca della mia crema idratante allo zenzero. Nulla. Stanca di tutte quelle misteriose sparizioni decisi di vendicarmi e, dopo aver controllato che in corridoio non ci fosse nessuno, feci scivolare in tasca la preziosissima maschera al sale del Mar Morto per visi delicati di Nat.
Volevano sfidarmi? Volevano vedere fino a che punto avrei sopportato quei soprusi? E allora avrei giocato anche io, perché non era giusto che a divertirsi fossero sempre gli altri.
Mi vestii rapidamente e, dopo essermi accertata che i tre fossero intenti in altre faccende in soggiorno, mi infilai di soppiatto nella stanza di Max.
La cosa a cui Max teneva di più al mondo era una mazza da baseball tutta consunta, regalatagli da non so quale giocatore quando era ancora un adolescente brufoloso.
Lui amava quella mazza e ci dormiva addirittura assieme, sostenendo che per lui era una sorta di coperta di Linus.
Strisciai sotto il letto e, cercando di non emettere versi schifati, mi feci strada tra quella specie di museo degli orrori.
Pacchetti di pringles abbandonati, calzini puzzolenti e in decomposizione, vecchi cd, un cactus, un sacchetto di semi di zucca, tre riviste di conigliette sexy, un fischietto e poi, in un mare di briciole e pelucchi di polvere, eccola: la famosa mazza.
Evidentemente temeva che qualcuno potesse rubargliela e così ogni mattina la nascondeva al sicuro nella sua discarica personale. Chi mai volesse rubare quel pezzo di legno mangiucchiato e scrostato solo Max lo sapeva.
Quatta quatta uscii dalla sua camera e con uno scatto felino feci ritorno nella mia stanza, dove misi al sicuro il mio bottino insieme alla miracolosa crema da mille verdoni di Nat.
Ultima vittima: il caro Jacob.
Per mettere a segno quel colpo avrei dovuto attendere che tutti lasciassero liberi la cucina e il soggiorno.
La vendetta è un piatto che va servito freddo e così pazientai in attesa del momento perfetto per agire.
Aiutai ad apparecchiare il tavolo, tagliuzzai pomodori e carote e cenai tranquilla, aspettando che l’occasione arrivasse.
E lei non si fece attendere.
Verso le undici Nat mi diede la buonanotte e si chiuse in camera, lasciandomi così regina incontrastata di cucina e salotto. Cercando di non far cigolare lo sportello del congelatore, prelevai dal freezer la teglia di lasagne formato famiglia composta da quindici membri, preparata con tanto ammmore dalla mamma di Jake per il suo cucciolotto adorato. Corsi, in pigiama e con una teglia gelata in mano, verso la mia auto e partii a tutto gas in direzione della casa di Kim.
«Ho capito: è meglio se non faccio domande», mi accolse la mia amica, dopo avermi la porta d’ingresso e avermi squadrato perplessa.
Nascosi sotto il suo letto la mazza e il barattolo di crema e misi al sicuro nel suo freezer la teglia colma di succulente e deliziose lasagne.
La ringraziai e dopo aver scambiato due chiacchiere veloce tornai velocemente a casa, dove il mio lettuccio caldo mi attendeva invitante.
Ora non restava che aspettare.
 
«Dov’è? Dove cazzo è la mia crema? Io senza di lei non posso vivere e diventerei tutto rugoso in meno di due secondi. La mia pelle sarà destinata a lasciarsi andare e a formare delle antiestetiche borse e pieghe attorno ad occhi e bocca. Non posso permetterlo!», un urlo squarciò la calma notturna e mi strappò dal mio dolce sonno.
Sorrisi malefica e infilai la testa sotto il cuscino per riprendere a dormire come se nulla fosse accaduto.
«Chi ha rubato la mia amatissima mazza? Chi cazzo ha osato tanto? Se solo scopro chi è stato io gli cavo il cervello dal naso come facevano gli antichi egizi e poi lo mummifico a suon di pugni. Maledetti tutti! Io non posso dormire senza Ernestina, la mia compagna di letto», mugolò una voce, che mi costrinse a riaprire gli occhi per la seconda volta nella stessa notte.
Mi sentivo molto soddisfatta e gongolavo in modo quasi sadico di fronte alle loro reazioni.
Evidentemente quella notte ero destinata a passarla in bianco perché, quando stavo per riappisolarmi, un nuovo strillo isterico riempì l’aria, mettendo fine alla mia possibilità di condurre sonni tranquilli.
«NOOOO! No! No, no, no. Dove siete lasagnette mie? Perché qualcuno mi vuole così male da privarmi della mia unica ragione di vita? Che bruci all’inferno quell’essere spregevole mentre delle aquile gli mangino il fegato e degli avvoltoi si scaglino contro i suoi bulbi oculari! Cazzo no!», uggiolò Jake sofferente.
Speravo vivamente che non mi succedesse nulla di tutto ciò che mi avevano augurato altrimenti la mia vita sarebbe presto finita tra atroci sofferenze.
La porta della mia camera si spalancò e io emersi timorosa dal mio soffice cuscino.
«Avete finito di inscenare una sorta di spettacolo circense in piena notte?», chiesi scocciata fissando i loro volti.
Mi guardavano con un sorrisetto maligno stampato in volto.
«Quasi», mormorò Max.
E poi accadde tutto in un attimo. Senza preavviso saltarono sul letto, strapparono le coperte a cui mi ero aggrappata e mi sollevarono di peso.
Nel giro di due secondi mi ritrovai scaraventata quasi di peso sullo zerbino di casa.
Quei bruttissimi figli di Barbamamma mi aveva chiuso fuori di casa!
Ok, Charlotte, come sempre, adottiamo il piano anti-ira: caprette, zucchero filato e unicorni, ok? No, ok un corno. La verità era che ero stufa di trattenermi sempre, di cercare di contenere le mie emozioni e le mie reazioni.
Dentro di me qualcosa scattò e mi ritrovai intenta a riempire di pugni la porta d’ingresso chiusa davanti a me.
«Brutte teste di barbabietola che non siete altro! Io vi trasformo in un pudding natalizio e poi vi mangio a colazione! Si può sapere che cavoloi di problemi avete? Da piccoli siete caduti dal seggiolone? Dal balcone? Avete visto vostra nonna nuda in bagno alla tenera età di tre anni e da allora il vostro unico neurone si è congelato? Sapete che vi dico? Va...a trotterellare con i trentatré trentini!», urlai con tutto il fiato che avevo.
Non mi persi d’animo; a forza di urlare e picchiare sarebbero stati costretti ad aprirmi per evitare una denuncia per schiamazzi notturni. Anche se a dire la verità ero io quella che stava schiamazzando e non loro.
«Aprite subito questa porta! Nat, hai presente la tua meravigliosa maschera idratante che vale quanto il mio intero guardaroba? Ecco, se non apri questa porta immediatamente la uso sul cane di Kim, vedrai dopo che pelo morbido e lucido avrà», feci una pausa e in risposta alla mia minaccia sentii lo strillo disperato di Nat, che però non aprì la porta.
«Max, la tua mazza, regalo di Colui-che-non-deve-essere-nominato, la userò per accendere il fuoco durante una gelida notte invernale e Jake, le tue lasagne le mangerò presto da Kim, insieme a tutti i nostri amici, esclusi voi. Pensateci, potete vivere sapendo che la vostra adorata mazza è servita solo a riscaldare una stanza per qualche ora e che una maxi teglia di lasagne, fatte dalla tua amata mammina Jake, sarà stata sbaffata da perfetti sconosciuti? Se la risposta è no allora aprite questa cazzo di porta!», conclusi con una nota isterica nella voce.
«L’ha detto!», esclamò Nat.
«Ha proprio detto cazzo», osservò trionfante Max.
La porta si spalancò e Jake mi abbracciò sussurrando commosso: «La tua prima parolaccia».
Mi scostai allucinata.
«Voi avete fatto tutto questo solo per farmi fare una scenata e farmi pronunciare una parolaccia?», domandai esterrefatta.
Loro annuirono venendomi incontro sul pianerottolo e sorridendomi soddisfatti.
«Sapete che vi dico?», chiesi aggirandoli e superando la soglia dell’ingresso, «Vaffanculo!».
E li chiusi fuori di casa.
 
 
 


 
Lo so, lo so. Questo capitolo è assolutamente assurdo e senza senso ma è uscito così e ne ero più o meno soddisfatta. Questa storia deve essere leggera, scherzosa e un po’ scema. Io le storie serie non le so scrivere quindi mi diletto descrivendo episodi che sfiorano il nonsense.
Voi cosa ne pensate?
Ah, prima o poi arriverà anche qualche storiella d’amore ;)
Bacioni,
S.

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Capitolo 6
*** Qualcosa sta cambiando ***




«La cantante pop Britney Spears ha promesso una ricompensa di diecimila dollari a chi troverà e riporterà a casa sana e salva la sua migliore amica: la piovra Ursula. L’animale è stato visto per l’ultima volta domenica scorsa verso le sei di pomeriggio, dopodiché, sono state smarrite le sue tracce e nessuno ha più ricevuto sue notizie. Inizialmente si è ipotizzato si trattasse di un probabile suicidio nella tazza del wc, che avrebbe condotto il cadavere del povero esserino in mare aperto; tuttavia la signorina Spears, in lacrime, ha dichiarato che Ursula era la creatura più gioiosa sulla faccia della terra e che non sarebbe mai arrivata a compiere un gesto tanto estremo. Che dire quindi? A caccia di Ursula!»
Strofinai il viso contro il tessuto verde di uno dei cuscini del divano e mi strinsi nel mio bozzolo di coperte.
«Che sciocchezza!», mugugnai, «Diecimila dollari per una stupida piovra quando ci sono bambini che muoiono di fame, anziani abbandonati e malati, ragazzi promettenti che non hanno libero accesso agli studi».
Jake non sembrava del mio stesso parere dato che fissava come spiritato lo schermo e faceva strani segni con le mani.
Lo ignorai, così come stavo cercando di fare da ventiquattro ore con il mio mal di testa martellante.
«Vuoi dire qualcosa tesoro?», cinguettò Kim, intenta ad applicare, con scrupolosa precisione, lo smalto sulle dita dei piedi.
Jake balzò in piedi e iniziò a starnazzare riguardo alla “fantasticità” di questa occasione che avrebbe potuto renderci più ricchi senza che noi facessimo il minimo sforzo. Iniziò a blaterare riguardo alla fantastica gita di due giorni finanziata dalla signorina Britney ad Orlando al parco giochi a tema di Harry Potter che avremmo potuto fare in caso di miracoloso salvataggio della creatura marina.
Odiavo Jake e il suo perenne entusiasmo.
«Non so tu ma io non chiamerei minimo sforzo il setacciare un intero oceano alla ricerca di uno stupido essere con tentacoli», borbottai acida, «E la parola “fantasticità” non esiste, zuccone!».
Lui mi dedicò una smorfia: «Non ti ascolto, non vorrei che i tuoi bacilli da donna mestruata in piena fase cattiveria mi infettino».
Grugnii prima di nascondere la testa sotto il plaid sperando di trovarci silenzio e sollievo per la mia emicrania.
I miei coinquilini in quanto idee assurde ed impraticabili erano semplicemente imbattibili.
Idioti.
Li sentii parlottare per alcuni minuti prima che la spossatezza, unita all’effetto degli antidolorifici, prese il sopravvento e mi condusse nel mondo dei sogni.
 
 
 
Il mio risveglio non fu dei migliori: niente uccellini cinguettanti, nessun tiepido raggio di sole ad accarezzarmi il volto e soprattutto nessun invitante profumino di pancake nell’aria a darmi il buongiorno, o perlomeno, il bentornata nel mondo dei vivi.
Il dolce canto degli uccellini fu sostituito dalle urla eccitate di Nate e Jake, seguite dagli insulti di Kim e dalle profezie apocalittiche di Max.
«Ho appena ordinato su Amazon cinque tute termiche corredate di bombole per l’ossigeno e kit cattura squali», annunciò soddisfatto Nate, «Ho pagato 100$ per avere la spedizione più rapida possibile quindi non dovrebbero impiegarci molto…»
Il campanello squillò in quell’istante esatto, lasciando di stucco tutti.
Nonostante pagare cento verdoni per un corriere express mi sembrasse assurdo e assolutamente stupido, quando la porta aperta rivelò un ragazzo intento a trasportare uno scatolone formato maxi decorato con pesciolini e granchi, non potei obiettare che fosse stata una scelta senza dubbio funzionale e corrispondente alle promesse.
Magari in casi disperati, ad esempio liti con il mio ragazzo o morte di un gatto, potevo prenotare e ricevere a domicilio gelato, cioccolato e d abbracci, il tutto nel giro di pochi minuti.
Charlie, tu non hai un ragazzo e tantomeno un gatto.
Vero, quindi non dovevo neanche pormi il problema.
«Nate, probabilmente annegherai e il tuo corpo giacerà sul fondale abissale per secoli e secoli stile relitto del Titanic», gufò cupo Max, appollaiato sul bracciolo del divano alle mie spalle, «Sei un pessimo nuotatore e questo è dovuto al fatto che da piccolo ti inventavi strane ed improbabili scuse per saltare il corso in piscina».
«Max ti ricordi la storia della zia in carrozzina che non riusciva a raggiungere il forno per togliere la teglia di biscotti?», ridacchiò Jake.
Il diretto interessato scribacchiò una firma veloce sul palmare del ragazzo delle consegne e si affrettò ad aprire il grande scatolone, aiutato da Kim, o meglio, dai suoi artigli affilati e laccati di porpora.
«La signora Marge non riusciva sul serio a sfornare i biscotti!», esclamò Nate, con la testa infilata nello scatolone.
Dopo essermi privata del mio scudo protettivo di coperte, azione che mi costò parecchia fatica e richiese un gran dispendio di buona volontà, mi diressi in cucina, guidata dai brontolii insistenti del mio stomaco affamato in cerca di cibo.
Tramezzini risalenti all’età della pietra, direi di no, al loro interno sembravano esserci pezzetti di uovo sulla via di decomposizione.
Un casco di banane che aveva un colore più simile alla carnagione di Morgan Freeman che a Laa-Laa il Teletubbie. Bocciato.
Tre pomodorini tristi tristi molto avvizziti, parevano tre pesciolini rossi dopo un mese passato a prendere il sole alle Maldive. Passiamo oltre.
Il mio occhio attento fu attratto da un vasetto viola, contenente marmellata di mirtilli. Sospettosa, la afferrai e controllai che non fosse scaduta. Strano ma vero era ancora fresca, strano, nel nostro appartamento, solitamente, il sabato mattina era una sorta di territorio al tempo della carestia. In attesa di essere rifornito dalla spesa pomeridiana, il frigorifero pareva il deserto del Gobi, deserto appunto, e costellato solo da sparute presenze decorate di muffa o abbandonate lì dalla regina Maria Antonietta in persona. Svitai il tappo, sicuramente se non era scaduta doveva essere per forza finita. Sorpresa delle sorprese il vasetto era chiuso ermeticamente. Al colmo della gioia, dopo aver afferrato due fette di pane in cassetta e un coltello, mi sedetti al bancone della cucina e mi preparai pane e marmellata.
Mentre io ero intenta nella mia ricerca, Nate si era denudato e si stava infilando la sua tuta da sommozzatore. Jake indossava una maschera con boccaglio e cercava, con i piedi calzati in ingombranti pinne gialle, di camminare in avanti, ottenendo come unico risultato dei continui ruzzoloni in giro per il soggiorno. Max teneva tra le mani una fiocina e tentava di leggere il libretto delle istruzioni per capire come funzionasse ma finiva sempre per puntarla verso Kim, la quale urlando gli intimava di allontanare da lei quell’aggeggio se non voleva veder colpito il suo di aggeggio.
«Ragazzi non entra, è peggio di un barattolo sotto vuoto, di una seconda pelle e di Joanna, la bambina stalker dell’asilo…», mugugnò saltellando su un piede solo mentre tentava di infilare una gamba nella muta di materiale tecnico ed iper-super aderente.
«Ma i sub non sono nudi sotto?», chiese Kim, togliendosi dalla traiettoria di Max e tirandogli una scappellotto, prima di rifugiarsi dietro il bancone, di fianco a me.
Io le tirai una ciocca di capelli: «Kim! Che idee malsane gli…»
Non riuscii a concludere il mio rimprovero perché l’idiota in questione annunciò a gran voce: «Signore, preparatevi ad assistere ad un meraviglioso spettacolo…signori, preparatevi a…»
«Rivedere per l’ennesima volta il tuo uccellino che svolazza libero ed indisturbato, grazie ma è uno spettacolo a cui rinuncio volentieri», concluse rapidamente Max prima di defilarsi nella sua stanza.
«Almeno ha ammesso che è uno spettacolo», si difese Nate prima di chinarsi per liberare la sua gamba dalla presa soffocante della muta.
Kim balzò in piedi rapida e, in un tempo record, afferrò giubbino, borsa e chiavi, mi lanciò un bacio e urlò ciao-a-tutti-Nat-sei-un-essere-schifoso, prima di scomparire al di là della porta d’ingresso, subito seguita da Jake, con la scusa dello jogging mattutino.
Nate, indifferente all’improvvisa sparizione di tre persone, atterrite dalla prospettiva di vederlo come la sua mammina lo aveva messo al mondo, si stava chinando per sfilarsi i boxer blu chiaro.
Feci un balzo felino e, dopo aver arraffato la confezione del pane, il vasetto viola e un coltello, corsi il più velocemente possibile nella prima stanza del corridoio, chiudendomi la porta alle spalle, giusto in tempo per vedere il sederino del mio coinquilino.
«Credo dovrai trattenere il tuo respiro di sollievo per dopo dato che ora devi uscire e tornare nella tua celletta da suorina in clausura…», mormorò una voce divertita alle mie spalle.
Spalancai gli occhi e davanti a me si parò lo spettacolo, e questa volta si trattava davvero di uno spettacolo per i miei occhietti miopi, di Max, senza maglietta, sdraiato sul suo letto.
«Scordatelo!»
Mi lasciai cadere di fianco a lui e disposi sul suo copripiumino blu notte il mio goloso bottino.
Non avevo nessunissima intenzione di tornare là fuori, in balia di quel pazzo rinchiuso in una muta per sommozzatori e convinto di poter esplorare i fondali oceanici alla ricerca di una piovra uguale a dieci milioni di altre piovre.
«In cambio di asilo io ti offro una deliziosa colazione a letto, accetti?», gli domandai sgusciando sotto le coperte, senza aspettare una risposta.
Sprofondai il viso nel cuscino e annusai piano il tessuto scuro della federa.
«Perché ti stai comportando tipo cane da tartufo? Smettila, è inquietante…», mormorò imbarazzato Max cercando di sfilarmi da sotto la testa il cuscino.
Mi aggrappai con tutte le mie forze al tessuto in cotone per impedirgli di portarmi via quel cuscino morbido che sapeva di caramello.
Da piccola mia mamma, prima di separarsi da papà, la prima domenica del mese, cucinava sempre il budino al caramello. Crescendo ho sempre associato quell’odore dolciastro e zuccheroso all’immagine di noi tre, seduti al tavolo con la tovaglia bianca ricamata posizionato davanti alla finestra, affacciata sul ciliegio che dominava il nostro giardinetto. Mamma indossava sempre il suo grembiule bello, azzurro con le trine bianche, mentre papà, sbuffando e protestando, abbandonava le sue solite camicie sformate a quadri e si metteva un pullover elegante. Prima di iniziare a pranzare ci tenevamo per mano e, a bassa voce, ringraziavamo un dio senza nome della felicità che ci aveva donato. I miei genitori erano credenti ma non si identificavano in nessuna religione, così almeno sostenevano, anche se io credevo fosse solo una scusa dietro cui celare la loro pigrizia e la scarsa volontà di impegnarsi sul serio in un credo. Era un odore familiare eppure, allo stesso tempo, mi sembrava sconosciuto, legato ad un ricordo lontano e sbiadito, alla memoria di momenti di gioia e affetto relegati in un cassetto del passato, cassetto destinato a non riaprirsi più. Erano anni ormai che mamma e papà si evitavano e io, contro la mia volontà, mi trovavo sempre partecipe di continue ed estenuanti faide familiari combattute a distanza.
Sospirai piano e mollai la presa. Odiavo quel senso di melanconico rimpianto che mi avvolgeva quando pensavo alla mia infanzia.
Mi allungai quasi inconsapevolmente, forse in cerca di quel sentore di caramello, che dentro di sé serbava la mia infanzia felice e perfetta, intrappolata in quell’odore e in quell’immagine di serenità familiare poi venuta meno, o forse in cerca di calore umano, dopo tanto tempo trascorso a fingere di essere forte ed indipendente, capace di vivere senza nessuno al mio fianco.
Sprofondai il viso nell’incavo del collo di Max e inspirai lentamente.
Caramello. Mi inebriai di quell’odore fortissimo, davanti agli occhi l’immagine di una Charlotte bambina, con una gonnellina rossa e la bocca sporca di budino, un sorriso sdentato e il piattino porto verso mia mamma, in attesa di una nuova deliziosa porzione di dolce.
Max alzò lentamente un braccio e temetti volesse allontanarmi, invece iniziò ad accarezzarmi piano la schiena, percorrendo lievemente la linea della mia spina dorsale, disegnando cerchi concentrici sulla mia pelle, coperta solo dal cotone leggero della maglia del mio pigiama, facendomi venire migliaia di brividi.
Restammo in quella posizione per tantissimo tempo. Piansi qualche lacrima silenziosa, che scivolò piano sulla pelle di Max, senza mai abbandonare il morbido nido offertomi dalla curva del suo collo. Lui non smise mai di cullarmi e di comunicarmi, con una semplice carezza, quella comprensione e quell’affetto di cui avevo bisogno in quel momento. Non fece domande e apprezzai tantissimo la sua riservatezza e la sua volontà di proteggermi pur senza tentare di andare oltre, nella zona buia del mio cuore, dove albergavano tutte le mie paure e le mie insicurezze, dove non ero pronta a far entrare nessuno.
Almeno per il momento.
 
 
 
 
 

Perdono, perdono, perdono. Invoco il vostro perdono, so che dopo questa assenza prolungata questo mini capitolo non vi soddisferà e avete perfettamente ragione. Ho iniziato l'università e non riesco a trovare mai tempo per scrivere tra lezioni, ore in treno, studio e crolli sul letto a fine giornata. Cercherò di trovare una soluzione.
Mi dispiace davvero.
Detto questo: qualcosa sta cambiando? Chissà...
Bacioni,
S.

 

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Capitolo 7
*** Santa Claus is coming to town ***





Oro o rosso? Rosso o oro?
Altro che essere o non essere il vero dilemma era di che colore fare l’albero di Natale.
Le feste si stavano avvicinando e io, da vera folletta mancata di Babbo Natale, stavo già progettando la scaletta della festività più bella che ci sia.
«Ragazzi, voi che fate il 25?», chiesi, curiosa di essere messa al corrente dei loro progetti natalizi.
Nate e Jake, ipnotizzati dallo schermo della tv e dal videogioco idiota per bambini di otto anni a cui stavano giocando, ignorarono bellamente la mia domanda, troppo impegnati a lanciare torte in faccia al povero omino bersaglio virtuale.
Max, nascosto come sempre dietro ad uno dei suoi benedetti libri da intellettuale, mugugnò un distratto: «Festeggio Natale».
Grazie tante, ero proprio convinta che il 25 dicembre si festeggiasse la nascita di San Paolo! Vivere con loro era un vero e proprio toccasana per il mio cervellino che, confrontato con il loro, pareva simile a quello di Albert Einstein.
Sbuffai e decisi di passare alle cattive maniere, piazzando la mia silhouette tutt’altro che invisibile davanti alla televisione in modo da impedire loro di continuare ad ignorare la mia presenza.
Zittii le loro proteste domandando minacciosa: «Che cosa avete intenzione di fare per Natale??».
Nate sbuffò: «Mamma farà il solito pranzo con diecimila invitati, novemila novecentonovantanove dei quali ai miei occhi saranno perfetti sconosciuti, e cercherà di accasarmi con lontane cugine con gambe di legno, occhi di vetro o dentiere».
«Wooo sono ricche almeno?», si informò Jake.
«Schifosamente aristocratiche», rispose sogghignando Nate, «Motivo per cui prima o poi cederò alle loro avances…», concluse il grande saggio.
Quando si dice che al peggio non  c’è mai fine secondo me si riferivano a questi esseri con cui ho la sventura di condividere l’appartamento.
«Bè, allora potrei chiedere a tua mamma di aggiungere un posto a tavola per me».
Ormai non perdevo neanche più tempo ad indignarmi di fronte alle loro uscite alquanto infelici. Potevo rimproverarli finché volevo ma loro avrebbero continuato imperterriti a suonare ai campanelli dei condomini e a scappare lasciando a me gli insulti degli abitanti del palazzo e a travasare il balsamo nel barattolo del bagnoschiuma e lo shampoo in quello della crema corpo. Idioti si nasce e idioti si muore a quanto pare. E io nonostante tutto volevo loro un gran bene e me li tenevo così: difetti e stramberie comprese. Da quando ero diventata così sentimentale?! Ahhh, lo spirito del natale si stava impossessando di me.
«Max, ti prego, dimostrati più maturo di questi due e pronuncia qualcosa di sensato», lo pregai.
Lui abbassò il libro e mi scrutò per qualche secondo, prima di dedicarmi un ghigno malefico a trentadue denti ed esclamare: «Nat, c’è posto per me a casa tua?».
Afferrai la prima cosa che mi capitò sottomano e gliela lanciai dritta in faccia. Lui ovviamente la prese al volo, una frazione di secondo esatta prima che lo colpisse sulla fronte. Maledetto il suo passato da giocatore di baseball.
«Charlie non essere gelosa su, se può interessarti ho anche un prozio alquanto benestante e relativamente giovane!», esclamò tutto pimpante Nate come se questa notizia sensazionale avrebbe dovuto riempire il mio cuore di gioia incontenibile.
«Mmh giusto per curiosità, quando parli di ‘relativamente giovane’ cosa intendi?», mi informai sospettosa.
Lui si spaparanzò bello come il sole a pancia in su gettando Jake giù dal divano e mettendo i piedi in faccia a Max che lo colpì prontamente in testa con il suo tomo.
«Ahi!», protestò lui, «Zio Hugo non ha ancora novant’anni. Un giovanotto insomma!».
Giovanotto di settant’anni fa! Scrollai le spalle esasperata e mi diressi in camera decisa a non abbassarmi al loro livello e a cavarmela da sola.
Mi sfilai la morbida tuta di ciniglia color ciliegia che indossavo come tenuta domestica e la sostituii con una gonnellina scozzese abbinata ad un semplice cardigan verde bosco, che riprendeva la tonalità del tartan. Infilai gli stivali e il cappotto e afferrai la mia fidata borsetta a tracolla, accertandomi che ci fosse qualche banconota al suo interno. Mi diressi decisa verso l’ingresso cercando di non degnare neanche di un’occhiata quei tre bradipi che avevano fondato una colonia nel mio soggiorno.
Mi chiusi la porta alle spalle e chiamai l’ascensore.
Mi diressi alle scale sbuffando dopo aver passato tre minuti buoni a fissare le porte metalliche. Vivere al settimo piano era bello perché riuscivi a vedere il mare dalla terrazza ma diventava un inferno se avevi un vicino che occupava 24/24 l’unico ascensore del palazzo per portare su e giù in continuazione sua nonna in carrozzina.
E cosa potevi dire ad un’anziana disabile il cui unico divertimento consisteva in viaggi in ascensore?
Trotterellai fino all’ingresso e mi diressi sorridendo verso la cassetta della posta ricoperta di scotch corrispondente al nostro loft.
Sorriso che morì in una frazione di secondo sulle mie labbra non appena mi resi conto che cosa fossero quei giornali e dépliant che intasavano la nostra cassetta fino quasi a farla scoppiare. Accidenti a loro e ai loro giornaletti ‘da maschi’ con donnine svestite e segreti per farsi venire la tartaruga. Evidentemente i consigli delle loro riviste da due soldi non funzionavano perché io più che tartarughe ed addominali scolpiti, quando facevo la coda in bagno per la doccia, vedevo pancette e rotolini di ciccia in abbondanza. Sul fondo metallico giaceva una busta tutta stropicciata, che si rivelò essere un richiamo per non aver pagato il conto di luce e gas dell’ultimo trimestre. Doppio accidenti a loro! Avevo fatto un cartello gigante e colorato, con tanto di frecce, post-it e brillantini, con la tabella di divisione dei compiti ma l’unica cosa a cui era servita era a fare da lettiera alla famiglia di criceti di Polly, ultima fiamma di Jake.
Contai fino a cento nella mia mente per cercare di ritrovare un po’ di calma ed evitare di risalire alla velocità della luce le scale e trascinarli per le orecchie a pagare la bolletta arretrata.
È natale, Charlie, è natale, mi ripetei come un mantra nella mente per convincermi che potevo farmi contagiare dall’imminente arrivo delle feste ed essere più buona e permissiva.
Uscii dal portone d’ingresso e respirai a pieni polmoni l’aria frizzante di quella mattinata di dicembre. Adoravo San Francisco proprio per il suo clima sempre mite: niente inverni con freddo polare e tempeste di neve o estati roventi e siccità.
Mi guardai intorno e alla sola vista della renna gonfiabile nel giardino del Signor Martin, nostro dirimpettaio, un sorrise nacque spontaneo sul mio viso.
Due mani sbucarono all’improvviso e mi avvolsero intorno al collo la mia morbida sciarpa di lana rossa.
«Perché sorridi?»
Mi voltai e il mio sorriso si allargò ancora di più nel vedere il naso arrossato e i capelli spettinati di Max.
Indicai la strada e risposi stringendomi nelle spalle: «Adoro l’atmosfera di dicembre».
Ed era vero: le lucine colorate che costellavano le case, il profumo dei biscotti allo zenzero decorati con la glassa colorata, l’attesa dei bambini per l’arrivo di Babbo Natale e dei tanto attesi doni, l’ansia di non riuscire a comprare tutti i regali e preparare tutto per il cenone della vigilia, le classiche canzoni natalizie che ti mettevano di buonumore, il tempo trascorso in casa, magari davanti ad un caminetto, insieme alle persone a cui vuoi bene. Tutto ciò mi faceva stare bene e mi faceva tornare un po’ bambina.
Lui rispose con un sorriso sghembo e prendendomi per mano esclamò: «Allora, Grande Puffo, dove andiamo a prendere l’albero?».
«Da dove spunta tutta questa voglia di accompagnarmi?», domandai sospettosa.
Solo due minuti prima era sprofondato sul divano a leggere il suo libro e a dare manforte agli altri due tontolotti nel prendersi gioco di me e ora spuntava senza preavviso. I suoi cambi repentini mi disorientavano a volte e mi facevano anche venire mal di testa perché faticavo a stargli dietro.
Max era un eterno indeciso; una volta per colpa sua e del suo non saper decidersi tra gli involtini primavera e i noodles  avevamo creato una coda di trenta persone al ristorante cinese ed eravamo stati letteralmente sbattuti fuori dal proprietario.
«Su, Chas, non fare la donna emancipata ed indipendente a tutti i costi! Come avresti fatto a portare a casa un abete alto due metri?», chiese retoricamente sogghignando.
Sbuffai e borbottai: «Non sottovalutare la mia forza».
Lui ridacchiò divertito: «Oh, io non la sottovaluto, anzi, infatti ti farò portare le palline di natale al ritorno».
Gli tirai uno scappellotto, e per farlo dovetti alzarmi sulle punte, ma lui scansò prontamente la mia mano.
Sbuffai infastidita e lo strattonai affinché si fermasse ad aspettare che il semaforo diventasse verde. Lui brontolando mi intrappolò a tradimento tra le sue braccia e mi caricò sulla sua schiena, attraversando la strada, ignorando bellamente le mie proteste.
Infuriata iniziai a scalciare e a tirargli i capelli, urlandogli nelle orecchie: «Neanche i miei bambini fanno così! Anche perché se osano attraversare anche solo con il giallo gli piazzo una bella nota disciplinare sul diario! E se ci investivano?».
«Fossi in te smetterei di agitarmi tanto; se ben ricordo indossi una mini gonnellina e dietro hai un pubblico: non vorrai traumatizzare dei bambini innocenti e puri vero?», mi provocò non accennando a fermarsi e a farmi scendere.
Le mie mani corsero istintivamente al mio fondoschiena e incontrarono la stoffa pesante del mio cappotto.
Questa volta nessuno si frappose tra la mia mano e il retro del suo collo e così SLAP, gli diedi una sberla, giusto per punirlo almeno per lo scherzetto finale.
Poco dopo arrivammo davanti al grande magazzino verso cui eravamo diretti e ci dirigemmo, o meglio io mi diressi sempre in groppa al mio cammello personale, verso il reparto dedicato al natale e alla decorazione della casa.
Una cinquantina di alberi delle più svariate misure facevano bella mostra di sé, piccoli, giganti, verdi, innevati, con pigne o senza, ma tutti tristemente di plastica.
Ero così impegnata a guardare con disappunto quegli alberi finti che quando il mio sedere si abbatté dolorosamente sul pavimento di linoleum del reparto ci impiegai qualche secondo a capire cosa fosse accaduto.
Balzai in piedi e mi scagliai contro quel troglodita che mi aveva scaricata senza preavviso.
«Brutto bambino cattivo che non sei altro!», esclamai riempiendo di pugni il suo petto, dato che il suo viso era decisamente troppo in alto per i miei standard di pigmea, «Babbo Natale non i porterà niente perché sei incredibilmente dispettoso e idiota e non dico di peggio solo perché so che alle tue spalle c’è un bambino che mi sta guardando spaventato e non voglio spaventarlo e rischiare di far arrabbiare Babbo Natale e non ricevere una nuova canna da pesca», esclamai tutto d’un fiato.
Lui si voltò ad incontrare gli occhioni spalancati di un piccoletto di circa cinque anni che ci fissava e io in quel momento ne approfittai per assestargli un bello spintone finale approfittando della sua momentanea distrazione.
Lui perse l’equilibrio e, contro ogni mia aspettativa, caracollò in avanti e cadde tra gli alberi di natale.
Presa in contropiede mi affrettai ad allungare una mano per aiutare Max quando il bimbo si mise a strillare: «Signore, non farlo! Quella donna è pericolosa, non appena ti alzi lei ti prende e con la presa del cobra ti spezza il collo».
Entrambi lo guardammo stupefatti. Come facevano un bimbetto a sapere quelle cose?
Lui si accorse del nostro sguardo perplesso e si strinse nelle spalle con aria furbetta: «Mamma pensa che io guardi Peppa Pig ma poi io giro e guardo il uesling!», spiegò contento.
«Wrestling?», domandai dubbiosa.
Lui mi guardò minaccioso: «Non mi credi? Se voglio ti metto al tappeto!».
Grazie al cielo arrivò sua madre che dopo averci lanciato un’occhiata di rimprovero lo trascinò via.
Una risata proveniente da quel folto bosco di plastica mi fece voltare.
«Ora anche i bambini ti minacciano e ti sfidano a lottare con loro, sapendo di avere già la vittoria in mano ovviamente!», mi prese in giro il gentiluomo degli alberi di natale.
«Taci!», gli intimai, «Alzati da lì e andiamo a cercare un abete vero e proprio».
Lui mi raggiunse e mi spettinò affettuosamente i capelli prima di depositare un bacio sulla mia testa e mormorare sottovoce: «Permalosa».
Nascosi un sorriso e segui la freccia che indicava il giardino interno del negozio dove capeggiavano bellissimi e imponenti decine e decine di splendidi abeti in vaso.
«Ora si che si ragiona!», esclamai contenta avvicinandomi per leggere le etichette dei prezzi.
«Io ho sempre avuto un mini albero di plastica biodegradabile comprato alla bancarella dell’Unicef», commentò piano Max alle mie spalle.
«Come mai?», gli domandai mentre gattonavo tra due vasi alla ricerca del benedetto cartellino che mi avrebbe rivelato che non potevo permettermi quel meraviglioso albero.
«I miei oltre ad essere un po’ hippie sono anche ecologisti e ambientalisti, oltre che un sacco di cose che finiscono con -isti», borbottò come a scusarsi.
«Noi invece ogni anno andavamo a prendere un abete enorme e lo decoravamo con tutti gli addobbi di cristallo di nonna, era meraviglioso», esclamai sognante, «Questo però era prima del divorzio, poi non ci sono più stati né gli abeti veri né le decorazioni di cristallo», conclusi in tono amareggiato.
Perché dovevo rovinarmi l’umore per pensare a cose successe secoli fa? Cose che non avevo ancora accettato e superato ovviamente ma che cercavo di tenere sepolte molto profondamente.
Strappai il cartellino e mi rialzai in piedi: «Costa troppo, andiamocene», esclamai rapidamente, il buonumore sparito nel giro di pochi istanti.
Poco distante da noi c’era una famigliola che stava decidendo di che dimensione acquistare l’albero. Osservai il braccio del marito, amorevolmente allacciato attorno ai fianchi della moglie, la quale sorrideva mentre rifaceva rapidamente la treccia a sua figlia. La bambina guardava sognante verso l’albero più grande presente nel giardino e  tirava la manica della giacca di suo papà per mostrarglielo.
La bambina avrà avuto otto anni, l’età che avevo io quando i miei genitori si separarono. Osservai quasi invidiosa quell’attimo cristallizzato di felicità familiare e, come avevo già fatto migliaia di volte volendo farmi del male da sola, provai a immaginare come sarebbe stata la mia vita se la mia famiglia fosse rimasta unita. Probabilmente sarei rimasta a Boston. Ma non è con i se e i probabilmente che si va avanti. Scossi impercettibilmente la testa e voltai le spalle alla famigliola allegra.
Una mano mi afferrò il polso, costringendomi ad arrestare la mia fuga.
Max mi sollevò il mento e mi guardò preoccupato: «Charlie, tutto bene?».
Sorrisi debolmente per rassicurarlo. Che senso aveva oscurare quella bella mattinata con un ricordo di anni prima? Ormai avevo imparato a convivere con quel senso di non appartenere a nessun luogo, eredità del mio continuo peregrinare tra due città, due case, due genitori.
«Comunque, leggi là!», esclamò per stemperare la tensione, indicandomi un cartello color oro appeso alla parete.
 
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Rilessi sempre più perplessa. A cosa ci servivano due alberi di Natale? Il nostro soggiorno strabordava di oggetti inutili già così. C’era il tapis roulant di Jake, il pianoforte di Max, l’angolo meditazione di Nate e la zona dove io stavo facendo un puzzle da 5000 pezzi.
«Vado a cercare un commesso», mi informò tutto contento Max, «Quest’anno avrai un albero come quello di quando eri una bambina, te lo prometto».
Gli gettai le braccia al collo e lo strinsi forte. Sprofondai il naso nel suo collo e gli sussurrai piano all’orecchio: «Grazie».
 
 
«Bè, non potremo più guardare fuori dalla finestra…»
«E giocare a Just Dance…»
«E fare lo yoga mattutino…»
«E accarezzare il tappeto…»
«Jake, perché mai dovresti accarezzare il tappeto?!», domandai perplessa.
Lui mi guardò con il suo solito sguardo da cucciolo: «Perché è morbidoso».
Beata innocenza!
«Potremmo provare ad infilarci tra i rami degli alberi e sdraiarci sul tappeto a guardare dal basso verso l’alto le lucine…», tentò.
Io gli sorrisi angelica: «Puoi provarci, ma ti avverto: fai cadere anche solo un angioletto di cristallo e userò te come tappeto morbidoso!».
Nat continuava a guardare preoccupato gli alberi di natale giganti che occupavano metà soggiorno: «Dovrei assicurarli? Ho come l’impressione che siano i migliori amici degli incendi».
Ma perché invece di essere contenti trovavano problemi inutili dove non ce n’erano?
«Non prenderanno fuoco», lo assicurai.
«Ehm…in verità lo hanno già fatto…», balbettò impaurito.
COSACOSACOSA???
Mi avventai su di lui: «Come, quando, dove, perché???», strillai scrollandolo.
Lui tentò invano di sottrarsi alla mia presa.
«Stavo salutando il sole che tramontava e discutevo con il mio io quando…ehm uno dei bastoncini di incenso ha appiccato il fuoco all’albero», cercò di giustificarsi.
Ma non c’era giustificazione per il delitto da lui commesso.
Corsi in soccorso del mio povero ed amatissimo albero #1 e quando mi sporsi per vederne il retro feci un balzo all’indietro. Orrore e raccapriccio. La parte inferiore del retro dell’abete era completamente carbonizzata.
«Nat, per farti perdonare dovrai comprarmi un super regalo per natale e ringrazia il fatto che ho fatto la promessa di essere più buona in questi giorni altrimenti alla vigilia avrei sfoggiato i tuoi bulbi oculari come orecchini!».
«E quando avresti fatto questa promessa?», domandò offeso Max, con cui non ero stata propriamente carina.
«Dopo averti gettato tra gli alberi di natale», risposi facendogli una linguaccia, «Su, andiamo a preparare i biscotti che tra poco arriva Kim. Nate, metti il cd di natale per favore».
E così ci spostammo tutti allegri in cucina.
Eh si, il natale si avvicinava.







Perdonate, se potete, l'assenza prolungata.
 

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