Ramona
~
(Chapter
three)
Pioggia,
ancora pioggia scrosciante. Tutte quelle gocce continuavano a
precipitare ormai
da parecchie ore.
Fuori
sembrava che la notte fosse scesa con molto anticipo; le strade erano
diventate, più che altro, dei torrenti e le macchine
facevano fatica a
“sguazzare” in quelle due dita d’acqua;
ben visibili erano le tele colorate dei
pochi ombrelli che circolavano per strada.
Questo
quadretto di una normalità quotidiana durante un giorno
qualsiasi di pioggia si
prostrava da circa venti minuti davanti agli occhi di Evan, intento a
finire di
mangiare una brioche ripiena di marmellata alla fragola.
Mentre
mandava giù l’ennesimo boccone, era impegnato a
osservare le gocce, che ai suoi
occhi sembravano sempre più grandi, infrangersi contro il
vetro e scivolare
velocemente verso il davanzale.
La
pioggia: un fenomeno atmosferico che, secondo la gente, è
buono soltanto a
rovinare un bel weekend; per lui, invece, era molto di più:
lo considerava il
dissenso del cielo e la “punizione divina” verso
comportamenti assurdi e
alquanto commentabili dell’uomo.
Adorava
quando quell’infinito astro celeste decideva finalmente di
vendicarsi, sin da
quando era un bambino.
Ricordava
ancora quei lunghi pomeriggi passati a giocare sotto l’acqua
battente, a saltare
dentro le pozzanghere che si formavano sull’erba a
piè pari con i suoi
stivaletti gialli e a correre lungo tutto il perimetro della casa. E
ricordava
ancora sua madre, impaziente, ferma sul ciglio della porta
d’ingresso, munita
già di un asciugamano: sapeva bene che suo figlio sarebbe
rientrato zuppo dalla
testa ai piedi.
Già,
mamma.
I
suoi genitori si erano separati quando lui era ancora piccolo - aveva
forse
cinque o sei anni -, non rammentava più di tanto.
Di
sua madre, Evan poteva appena rivederne i lineamenti delicati, la lunga
cascata
di cioccolato che aveva al posto dei capelli e quei due cristalli che
facevano
risaltare tanto le sue pupille. Non di più, non di meno.
Era
sempre stato tenuto allo scuro su quest’argomento, era come
se un pezzo del suo
passato era stato strappato dalla sua mente da una forza superiore - in
questo
caso, suo padre. Le uniche informazioni che aveva ricevuto a riguardo
erano che
sua madre viveva negli Stati Uniti, a Baltimora - era originaria di
lì -, e che
aveva deciso di abbandonarli per stare assieme a un altro uomo.
Era
ancora un bambino, quando suo padre decise di deliziarlo con un
discorso più
grande di lui e di renderlo partecipe della situazione familiare, non
capiva
cosa volesse dire “stare con un
altro
uomo”. Ora, invece, sapeva benissimo cosa
significasse quell’espressione. E
lo disgustava.
Inizialmente
pensava che volesse raggirarsi il discorso come più gli
conveniva, per far sì
che la ragione fosse dalla sua parte. Era un avvocato e inventare
versioni su
versioni di un solo e semplice fatto era il suo lavoro.
Lui,
però, voleva rimanere attaccato alla figura materna che
vagamente ricordava:
comprensiva, ragionevole, dolce e, soprattutto, fedele e rispettosa
verso il
marito - mai una volta si era azzardata a rispondergli.
Forse
voleva semplicemente illudersi che fosse così.
Ma
più capiva come funzionava realmente il mondo,
più dava ragione al padre.
Dopotutto, lui gli era stato sempre vicino - per quanto severo potesse
essere -
e mai lo aveva lasciato. Non come la madre!
Come
lui, era dell’idea che chiunque abbandonava la propria
famiglia per vivere con
il proprio amante, non meritava alcun tipo di perdono. E lo stesso, pur
avendo
un legame di sangue, valeva per la donna che lo aveva messo al mondo.
Non
c’era stata quando aveva imparato ad andare in bicicletta.
Non
c’era stata quando aveva ballato per la prima volta davanti
ad un pubblico
vero.
Non
c’era stata quando aveva dato il primo bacio.
Non
c’era stata quando aveva il cuore a pezzi.
Non
c’era stata quando aveva bisogno di confidarsi con qualcuno.
Non
c’era stata, mai.
Quale
riconoscenza, in fondo, merita?
Quando
suo padre lo stava preparando a ciò che c’era
là fuori, lei dov’era?
Dov’era
quando aveva imparato ad andare in bicicletta?
Dov’era
quando aveva ballato per la prima volta davanti ad un pubblico vero?
Dov’era quando aveva dato il primo bacio?
Dov’era
quando aveva il cuore a pezzi?
Dov’era
quando aveva bisogno di qualcuno con cui fidarsi?
Dov’eri,
eh?
Era
con un altro che non aveva mai visto, uno sconosciuto. Ma,
d’altronde, non lo era
anche lei?
Può
considerarsi mamma una persona che
non ti chiama nemmeno per farti gli auguri di compleanno?
Può
considerarsi mamma una persona che
si
è persa un pezzo della vita del proprio figlio?
Può
considerarsi mamma una persona che
preferisce dedicarsi ad altro, piuttosto che educare con amore il suo
bambino?
Può
considerarsi mamma una persona
che non si è fatta più viva da oltre dieci anni?
E
la risposta era tanto scontata: No.
Non
poteva, non era plausibile una cosa del genere. Non poteva nemmeno se
ci si
sforzava.
Il
rumore dei passi contro il parquet della cucina fecero risvegliare Evan
dai
suoi pensieri che, mai come quella mattina, gli avevano oscurato la
mente. Si
trattava di suo padre che, come al solito vestito in modo impeccabile e
in
perfetto orario - né troppo tardi, né troppo
presto -, faceva il suo ingresso.
-Che
ci fai ancora lì alla finestra? Non hai visto che ora
è? Sei in ritardo, come
sempre. Dovresti già essere alla fermata.- gli fece notare,
iniziando a
preparare il suo solito caffe delle sette meno cinque.
E,
come ogni mattina, fu costretto a richiamarlo. Non sapeva
perché suo figlio
perdesse tanto tempo a osservare il paesaggio di quella piccola
città che,
dopotutto, non aveva granché d’interessante.
Eppure,
per il ragazzo era qualcosa di speciale, un rituale di cui non poteva
fare a
meno. Nemmeno lui se lo spiegava, ma guardare quelle strade isolate -
tranne
quando pioveva: in quelle occasioni tutti si risvegliavano, nessuno
escluso -
gli diffondeva una strana quiete interiore, una tranquillità
indescrivibile e
la carica giusta per affrontare al meglio le sue giornate.
-Che
c’è? Ti sei perso anche tu nei meandri delle
infinite gocce d’acqua, com’era
solita tua madre fare?-
insistette, marcando parecchio sulla parola “madre”.
Mandò
giù l’ultimo boccone di pasta sfoglia mista a quel
poco di marmellata che era
rimasta all’interno e, caricandosi sulle spalle lo zaino,
decise finalmente di
incamminarsi per strada.
Com’era
solita tua madre fare.
Quelle
parole lo avevano colpito profondamente.
Vagamente,
se ci provava, le immagini di una giovane donna sognatrice, il cui dito
disegnava forme irregolari e infinite, seduta alla finestra durante un
giorno
di pioggia qualunque, le scorrevano veloci davanti agli occhi.
Una
cascata di cioccolato fondente che le incorniciava il viso: questo ben
ricordava ogni qualvolta la trovava lì, in
quell’angolino. Lui che tornava dal
parco giochi, puntualmente sudato, rumoreggiando e, quando la vedeva
così
intenta nel non sapeva quale attività, taceva
improvvisamente e filava mogio
mogio in camera. Di solito memorie come queste ricollegava a quei
capelli
lunghissimi - il più delle volte raccolti in una coda o in
una treccia - e in
cui tanto adorava infilare le sue manine in un momento di dolcezza.
Com’era
solita tua madre fare.
Anche
quella mattina - quella in cui l’aveva abbandonato per sempre
-, quando era
venuta a svegliarlo per andare a scuola, si era seduta accanto alla
finestra e
aveva guardato per un attimo fuori, come se stesse trovando il coraggio
per
proferire quelle parole che sicuramente avrebbero ferito molto di
più lei.
-Ascoltami,
tesoro.- gli aveva sussurrato appena. -Oggi non ti
accompagnerò io, ma tuo
padre. La mamma deve lavorare e non tornerà prima di cena.
Non mi aspettare
fino a tardi, tornerò in tempo per rimboccarti le coperte.
Ora me lo dai un
abbraccio forte forte?-
Gli
aveva gettato le braccia al collo senza pensarci due volte
perché era certo che
avrebbe mantenuto la sua promessa. Quella sera, infatti, si era
infilato sotto
le coperte e tenne gli occhi aperti un po’ di più,
giusto per ricevere il bacio
della buonanotte.
Quando
si addormentò, esausto, non avrebbe mai immaginato che
quella sarebbe stata
l’ultima volta in cui l’avrebbe rivista.
Non
avrebbe mai immaginato che quello sarebbe stato l’ultimo
abbraccio che si
sarebbero scambiati.
Non
avrebbe mai immaginato che lei lo lasciasse solo.
Come
tua madre era solita fare.
Da
quando aveva capito come stavano realmente le cose, Evan aveva cercato
di
evitare ogni contatto con il suo passato e, soprattutto, con i
parallelismi che
ancora lo legavano indissolubilmente alla madre. Eppure, anche se suo
padre era
il primo a voler dimenticare, era proprio egli che, per primo, non
poteva non
fare a meno di ricordare le abitudini della sua ex moglie e di quanto
simili
fossero a quelle del figlio.
Non
riusciva a spiegarsi perché non facesse altro che piazzargli
lì, in
continuazione, anche solo qualche parola riguardante quella che per lui
oramai
era come un’estranea.
Alle
volte, infatti, arrivava persino a pensare che magari provasse ancora
qualcosa
- anche solo del semplice affetto, non necessariamente amore - per
quella
donna. Ma subito dopo capiva che quella cosa era pressoché
impossibile: suo
padre non era un tipo che manifestava facilmente i suoi sentimenti agli
altri,
nemmeno a lui che era suo figlio. Come
avrà fatto a convolare a nozze con il cuore di pietra che si
ritrova?
Lui,
invece, nemmeno pensava a quelle sciocchezze, così frivole e
prive di
significato. Che cosa voleva mai star a indicare se svolgeva le stesse
attività
della madre - che tale non poteva essere considerata?
Però,
anche se non ne dava peso più di tanto, più si
ostinava a negarlo ogni
qualvolta quell’argomento venisse fuori, più si
rendeva conto che, molto in
fondo, lui e sua madre avevano realmente parecchio in comune.
Oltre
ad essere due “sognatori”
- sempre a
detta del padre, perché lui aveva smesso di credere nei
sogni quando aveva
capito come realmente girava il mondo, in modo vorticoso, senza
aspettare
nessuno, diventando all’improvviso più maturo -,
entrambi, ad esempio, avevano
gli stessi occhi color cielo - da bambino, pensava infatti che quel
colore provenisse
dal troppo rimanere a fissare quello scorcio di blu limpido -, quei due
cristalli che erano capaci di leggerti l’anima.
Quando
raccontava ogni tipo di menzogna a sua madre - innocenti,
però. Dopotutto non
aveva nemmeno un decennio di vita! -, lei riusciva a capirlo con un
semplice sguardo.
Non una parola, solo quell’occhiata indifferente. La stessa
che bastava per
farlo filare in camera sua, muto e rassegnato all’idea di
essere stato scoperto
pure quella volta.
Anche
lui, quando sarebbe diventato grande, desiderava ardentemente di
ottenere quel
dono più unico che raro: voleva conoscere i sentimenti degli
altri per non
ferirli e trattarli proprio come loro sognavano. Come se fosse un
sensitivo,
insomma.
Sebbene
ci si sforzasse, però, non gli pareva affatto di comprendere
lo stato d’animo
delle persone - tranne quello di suo padre, tanto lui era sempre lo
stesso:
burbero, severo e con strani superpoteri.
Dopotutto,
pensava, essendo ugualmente sua mamma, era una cosa normalissima avere
i suoi
stessi occhi. Ma non riusciva a spiegarsi perché avessero
entrambi il fanatismo
smodato per gli origami e per la torta al cocco, perché
entrambi adorassero le
lunghe passeggiate nel parco e, soprattutto, perché avessero
la stessa
passione: la musica.
Effettivamente,
se ci pensava, era stata proprio lei a fargliela amare così
tanto, sin dalla
tenera età: a quattro anni, gli aveva donato la sua prima
chitarra ed era stata
lei a insister affinché potesse prendere lezioni di
quest’ultima, poiché suo
padre non ne voleva sapere. Pensava che con essa la
possibilità di fare
successo era di una su un milione.
Forse,
in parte, avrebbe dovuto esserle riconoscente: se non fosse stato per
quel
regalo tanto adorato - per quanto potesse ferirlo, lo conservava ancora
appeso
alla parete della sua camera -, non avrebbe mai conosciuto quella che
nel giro
di pochi anni sarebbe diventata una delle sue più grandi
passioni, nonché il
canto.
Anche
questo aveva in comune con la madre, la quale aveva
l’abitudine di canticchiare
mentre volteggiava qua e là per la cucina. Gli piaceva
sentirla intonare
canzoni a caso intanto che gli serviva la colazione come tutte le
mattine dei
suoi primi sei anni di vita; suo padre, invece, distogliendo lo sguardo
dal
solito quotidiano, le “ordinava” di cucirsi il
becco, chiamandola
affettuosamente Usignolo.
Il
fatto strano era che, quando pronunciava la fatidica frase - ovvero: «Ehi Usignolo, cosa ne diresti di mettere
a
nanna quel becco per un po’?» - tempo fa,
la voce - così rammentava -
assumeva una sfumatura totalmente differente dal solito, un certo non
so che di
dolce, soprattutto quando faceva cadere l’accento su quel
nomignolo; a distanza
di ben undici anni, se il figlio si azzardava soltanto ad accennare
qualche
semplice nota, il suo tono diveniva improvvisamente brusco e scocciato.
Non che
fosse proprio intonato - lui stesso si giudicava una campana che
suonava a
morte, anche se la realtà corrispondeva alla versione
opposta -, ma il suo
atteggiamento, ogni volta che metteva l’intera casa
nuovamente a tacere, suonava
come un unico messaggio alle sue orecchie: stava come a simboleggiare
di non
voler averne più nulla a che fare,
di
voler definitivamente chiudere i ponti con il passato.
Del
resto, come potete affibbiare torto a una persona a cui, sul cuore, ci
hanno
praticamente sputato sopra?
Più
che a interpretarle, però, Evan, le canzoni, era migliore a
comporle.
Già,
sebbene il suo caro papà gli impedisse di cantare in sua
presenza, non poteva
in alcun modo evitare che svolgesse la medesima attività
“in silenzio”. Tutto
quello che non usciva dalla sua bocca, quindi, finiva dritto sul primo
pezzo di
carta che gli capitava davanti, sotto forma di pochi versi coincisi. Di
quelli
che, anche solo con poche parole, riescono a scaldarti dentro.
Aveva
scoperto di essere propenso per la scrittura alla tenera età
di dieci anni,
quando la maestra gli aveva assegnato l’importante compito di
concludere la
recita di fine anno con una poesia a tema libero, ma che dovesse
emozionare a
tal punto da far venire la pelle d’oca a chiunque
l’ascolti. Inutile dire che
fu un successone: non ci fu nessun occhio asciutto
nell’intera sala - tranne
quelli di suo padre, Mister Cuore di
Pietra, il quale non fece una piega dall’inizio
alla fine.
In
seguito si concentrò più sui testi musicali con
le rispettive tracce melodiche.
Negl’anni di scuola media, infatti, le compagnie che
iniziò a frequentare lo
avvicinarono così tanto alla musica che ne rimase
praticamente folgorato.
Non
aveva composto granché, essendo del parere “L’ispirazione,
o ce l’hai per l’intero brano, o no”:
la cartellina, in cui li conteneva,
ospitava circa una decina di fogli stropicciati e mezzi strappati e
forse il
triplo in più di corte frasi significative. Frasi di quelle
che ti segnano
incondizionatamente nel profondo, le quali erano destinate a divenire
canzoni
di grande successo nei bar della citta dove venivano riproposte ogni
sera ma
che, invece, rimanevano solo gruppi di lettere sistemate in un perfetto
ordine
- studiava quelle posizioni anche per parecchie ore, anche a costo di
fare
diecimila cancellature - per rimanere così e basta, senza
nessun tipo di
variazione.
A
dispetto dei generi che l’adolescenza ti porta a
“venerare” al pari di
qualsiasi altra divinità ci sia lassù - citandone
uno in particolare: rap -, la
sua vena romantica parecchio nascosta - ci teneva alla sua reputazione,
non
poteva di certo rovinarla! - quasi lo costrinse di provare ad ascoltare
musica
che si avvicinava più a uno stile pop e, soprattutto,
ballate melense.
Riservava
sempre un posto d’onore all’amore, quello che
considerava il sentimento più
vero e al contempo più bugiardo che esistesse, destinato a
durare per sempre
per quanto male potesse farti.
Perché
la cicatrice che ti lascia
sul cuore è per sempre.
Certo,
non era mica il tipo di ragazzo che, nel segreto della sua camera,
guardava
ogni fiction o telenovela “da diabete” che
trasmettevano sul palinsesto
televisivo più importante del suo paese; non si metteva
nemmeno a sognare
davanti a quell’amore così perfetto, il quale i
cantanti si ostinavano a citare
nei loro pezzi.
Come
se, poi, potesse sul serio
esistere.
Forse,
temendo di poter distruggere la vera essenza di quel sentimento tanto
prediletto, non era mai riuscito a comporre una canzone
d’amore, mentre,
invece, la maggior parte delle frasi che potremmo definire
“incomplete”
racchiudevano in ogni singola parola una passione immensa.
Evan
era sempre stata una persona brillante, originale… e
testarda, molto testarda:
se si metteva in testa una qualsiasi cosa, niente e nessuno poteva
fargli
cambiare idea.
C’era,
infatti, un motivo - più che valido, oserei - che
giustificava questa sua
“scelta”: il suo progetto era di scrivere una
ballata diversa dal solito. Non
doveva parlare della solita storia tutta rosa e fiori, ma neanche di
quel
tradimento che oramai in molti erano riusciti a banalizzare. Doveva
trattare
qualcosa di diverso, di nuovo, ma doveva sempre fare lo stesso effetto
a coloro
che, accendendo il proprio mp3 e inserendo la riproduzione casuale, la
ascoltassero, cioè emozionarli e lasciarli fantasticare per
un po’.
Come
tua madre era solita fare.
Riflettendo
così a fondo su quelle sei parole, tanto dannate quanto
reali, non si accorse
di essere già arrivato alla fermata del bus e lo stava anche
per perdere, se
non fosse per il fatto che si risvegliò da quella
sottospecie di coma in tempo.
E
mentre si fece spazio tra la gente rimasta in piedi, scovando un
posticino
libero affianco a una vecchietta in penultima fila, osservò
ancora una volta
tutte quelle gocce crescere sempre più
d’intensità e oscillare leggere al vento
fino a depositarsi sull’asfalto zuppo.
***
Ritardo.
Sono in un ritardo bestiale!
In
altri giorni perdere sia il proprio accompagnatore personale - il padre
- che,
nel frattempo, si era già portata dietro sua sorella e
l’autobus non sarebbe
stato poi un così grave problema: le bastava correre come
una pazza. Ma non
appena si accorse che la sveglia segnava già le sette meno
cinque e che le
strade erano diventati più simili a dei canali
d’acqua, Avril accolse con
immenso dispiacere la notizia di doversi infilare letteralmente un
cornetto al
cioccolato e una tazza di latte dritti nell’esofago e di
darsi una mossa.
Ecco
perché, quella particolare mattina dei primi
d’ottobre, si trovava a sgusciare
con fatica tra ombrelli, persone e pozzanghere a bordo di una tavola
con
quattro ruote.
In
altri giorni avrebbe adorato la pioggia. Quelle
infinitesimali goccioline infrangersi contro la sua pelle di porcellana.
Era
pur sempre diversa - o almeno così si considerava - e la sua
diversità la
portava ad amare cose che altri odiano. E quel fenomeno atmosferico era
un
perfetto esempio.
Mentre
altri la maledirebbero perché appena lavatisi i capelli, lei
li avrebbe
lasciati infradiciarsi senza alcun tipo di problema.
Mentre
altri si sarebbero lamentati di un weekend saltato, lei sarebbe
benissimo
rimasta alla finestra a guardarla scendere.
Mentre
altri l’odiavano, lei l’avrebbe semplicemente amata.
Ma
non quella mattina.
Quella
mattina decisamente la detestava. Non è che la
“detestava” nel senso letterale
della parola: era come se non riuscisse ad accettare il fatto di non
potersela
godere almeno per un po’.
Adorava
giornate come quelle, sebbene nascondessero dolore. Molto dolore.
Una
giornata piovosa. Una quercia al centro di un parco. Una tredicenne di
ritorno
da scuola.
Sedeva
sul suo zaino all’ombra dell’albero e fissava
attentamente il paesaggio davanti
ai suoi occhi: ridenti colline - non tanto ridenti, quel giorno -
avvolte da
una fitta nebbia ed acqua piovana.
Una
situazione tranquilla, immaginerete. O, perlomeno, una situazione
tranquilla
sino a quel momento.
Tutto
un tratto, due liceali - avevano forse uno o due anni in più
di lei - le si
avvicinarono senza alcuna valida ragione.
-Ehi
bambina, cosa fai fuori di casa a quest’ora?- le chiese il
primo, castano dal
ghigno perennemente dipinto sul volto.
-Dai,
corri, altrimenti mammina incomincia a preoccuparsi!-
continuò l’altro, moro
con un cappellino in testa.
I
soliti simpaticoni che giocano a
fare i grandi,
pensò ingenuamente. Ma, in
realtà, non si capacitano di essere
loro i bambini.
Oh,
come si sbagliava!
-Non
avete niente di meglio da fare che perdere del tempo prezioso?-
domandò
beffarda, scattando in piedi. -Mi fanno decisamente pena quelli come
voi, che
se la prendono con chi non è alla propria altezza solo per
puro divertimento,
perché sanno che con i propri coetanei ci rimetterebbero
qualche dente.-
Quelli
rimasero perplessi, confusi. Soltanto poi scoppiarono in una risata
fragorosa,
pensando che si trattasse di qualche assurdo scherzo.
In
fondo, chiunque sapeva chi erano i due e qual era la loro reputazione.
Lei non
poteva rappresentare un’eccezione.
-Ci
prendi in giro, mocciosa?- disse il moro. -Sai, è meglio per
te che sia così.-
-Già,
perché non ci piacciono quelli come te. I saputelli della
situazione, per
intenderci.- Accompagnato a queste parole, arrivò una forte
stretta ai fianchi piuttosto
grassocci della ragazzina. -Soprattutto se i santarellini sono dei
bambocci
obesi come te.-
-Ridicoli.-
Lo mormorò, per via dei pizzicotti che, piano piano, si
facevano sempre più
dolorosi. Quasi si sentiva la circolazione sanguigna interrotta.
Sputò
sulle scarpe del bruno indignata, colui che padroneggiava quella morsa,
quasi
sperando che quel gesto potesse restituirle la libertà. E,
soprattutto,
dargliela vinta.
Ma
quello era solo l’episodio iniziale di un capitolo della sua
vita non ancora
concluso. Lei, però, questo ancora non lo sapeva.
Dopotutto,
come poteva?
Quel
gesto, al contrario, finì solamente con il peggiorare le
cose.
Uno
schiaffo. Due, tre.
Qualcosa
riguardo l’acquisto di nuove scarpe. Insulti pesanti ed
offese.
Ebbe
la strana sensazione di immaginarsi come un’ebrea ribelle,
appena scoperta a
fare qualcosa che non doveva, maltrattata - in quel caso,
però, non in pubblico
- da un soldato tedesco, all’epoca della Germania nazista.
Ormai
aveva perso il conto degli schiaffi che stava ricevendo in pieno volto.
Si
sentiva sanguinare, ma non voleva cedere. Non voleva dare quella
soddisfazione
tanto ambita a quei due.
Il
moro, come per rivendicare l’amico, calciò il suo
zaino in un pantano e vi
camminò ripetutamente sopra - non prima di essersi accertato
che le scarpe
fossero abbastanza sporche.
Intanto
l’altro, finito con la razione di sberle, la spinse
così forte da farla
inciampare e successivamente cadere a pancia in giù nel
fango.
La
lasciarono lì, derisa, mentre loro si allontanarono
sghignazzando.
-Spero
tu abbia imparato la lezione!- esclamò uno, ma non
riuscì a comprendere chi
data la sua lontananza.
La
pioggia continuava a cadere, infischiandosene del destino di quella
ragazzina
indifesa. Per la prima volta, quel fenomeno che tanto adorava le parse
infinitamente crudele.
Come
se provasse ancora profonda umiliazione per quel giorno - e il che era
vero. Insomma,
non era riuscita a difendersi, segnando nel suo destino qualcosa che
poteva
perfettamente essere evitato -, abbassò lo sguardo.
I
suoi occhi si scontrarono contro i suoi piedi ermeticamente premuti
contro la
tavola di legno. Guardava lo skate correre veloce sul marciapiede e
schivare
con abilità qualsiasi ostacolo gli si presentasse davanti.
Avrebbe
potuto benissimo dire, mentendo spudoratamente, di non aver
più rivisto quel
ragazzo - di cui aveva difficoltà a rammentare il nome.
Ethan? Ivan? Ma il
problema non era quello, bensì era che lui, il suo nome, lo
sapeva
perfettamente! - da quando le aveva donato generosamente il suo
skateboard.
Tanto, a chi vuoi che importi?
Sebbene
mentire era ciò che forse le riusciva meglio, questa volta
non poteva. Era come
se quella faccenda, in fondo, fosse estremamente importante nella sua
futilità.
La
Napanee High School - il liceo che frequentava - non era un grande
istituto e
conteneva un numero modesto di allievi, quindi trovare una qualunque
persona al
suo interno non risultava un’ardua missione. Ed era forse lo
stesso pensiero
che anche lui aveva avuto.
Poco
tempo dopo quel giorno, si erano rincontrati casualmente nel giardino
sul
retro, sotto il solito salice. Nessuno dei due avrebbe mai pensato che,
di lì
ad un mese circa, quello sarebbe stato l’inizio di una serie
di ricreazioni -
all’esterno o, se pioveva, vicino alla vetrata a guardar
piovere - passate a contemplare
tutto ciò che li circondava e, in
primis, il cielo.
Avevano
trascorso, più che altro, tempo ad osservare le nuvole e a
discutere riguardo
le forme strane che assumevano, che a parlare di loro stessi e di
ciò che
preferivano o meno. Eppure, soltanto avendo a disposizione fattori
tanto
irrilevanti, le sembrava di avere così tanto in comune con
lui, con un perfetto
estraneo: entrambi erano due tipi riflessivi e piuttosto profondi.
E,
diavolo, quanto adorava quando formulava uno dei suoi pensieri poetici!
Nonostante
tutto, però, non ancora riusciva a fidarsi, ad aprirsi
completamente a quella nuova
situazione: le faceva ancora uno strano effetto essere accettata almeno
da una
persona. Quel passato, il suo passato, la opprimeva con forza,
schiacciando
anche il più piccolo ed innocente bagliore di allegria.
Aveva
paura che ogni sua azione potesse essere influenzata da esso e, a sua
volta,
influenzare il futuro in modo irreversibile.
Aveva
paura di condizionare - e condizionare cosa, poi? - la vita di qualcun
altro
che non fosse lei con i suoi problemi, di trascinarlo nel suo stesso
supplizio.
Aveva
paura e basta.
Arrivò
finalmente davanti ai parcheggi sul retro della scuola e
saltò giù dalla
tavola, che, in fretta, ripose al sicuro dentro il suo zaino. Non
voleva che
quei disgraziati, vedendola, potessero inveirvi contro per il semplice
fatto
che era lei a possederla, non una miglior presenza.
Quello
skateboard aveva uno strano valore affettivo - sebbene fosse stato uno
sconosciuto a regalargliela - e non avrebbe permesso a niente e nessuno
di
farla a pezzi. Per qualche strana ragione ci teneva parecchio.
Si
diresse con passo svelto verso l’ingresso, che sciamava di
alunni pronti ad
affrontare l’ennesima giornata scolastica. Di lì a
poco la campanella sarebbe
suonata e tutto ciò che voleva era arrivare in tempo in
classe, per sfuggire a
quei due.
Ma,
non appena svoltò l’angolo che l’avrebbe
portata sulle scalette d’ingresso, si
ritrovò davanti quei due, i disgraziati.
Sapeva cosa volevano.
-Ehi,
Ramona, bella mattinata, eh?-
annunciò Thomas al riparo sotto il suo bel cappellino.
-Perfetta
per donarci, generosamente, la tua merenda.- continuò Jake,
adagiato
comodamente contro il muro dell’edificio. -Chissà
cosa ci avrai portato oggi…-
Avril
si affrettò a cacciarla dallo zaino e la poggiò
sulla mano sinistra del moro,
stesa come se volesse chiedere una qualche offerta caritatevole. Non
voleva
assolutamente perdere tempo con loro, non si meritavano nemmeno la
soddisfazione di vederla opporsi.
Inizialmente
rimasero attoniti. Insomma, non aveva opposto nemmeno un po’
di resistenza?!
Poi,
si congedarono, con un falso sorriso in volto.
-È
bello fare affari con te.- sentì dire dal bruno.
Riprese
a camminare anche lei, ma più lentamente. Guardava le sue
scarpe da tennis nere
inciampare in piccole pozzanghere d’acqua e lasciare
successivamente leggere
impronte lungo la via che percorreva.
Ramona.
Il
suo secondo nome.
Aveva
iniziato ad usarlo molto, ma molto, meno da quando aveva amaramente
scoperto di
essere vittima di bullismo, sebbene le piacesse proprio per via della
sua
particolarità.
Essendo,
però, un nome così insolito, era per questo usato
anche come oggetto di
derisione contro se stessa. Veniva pronunciato con un tale disprezzo da
quelli solo per recarle un fastidio
immenso.
E
qual è il risultato? Era finita con l’odiare il
suo secondo nome.
Eppure,
se tanto l’odiava, perché a lui
lo
aveva confessato?
La
campanella suonò.
Si
strinse un poco di più nel suo cappotto e si
mimetizzò tra la folla, che si
accalcava sempre più verso l’ingresso, fino ad
essere inghiottita da quei
lunghi corridoi spogli.
***
-Non
trovi rilassante il modo in cui l’acqua piovana scende dal
cielo?- chiese Evan
senza, però, ricevere alcuna risposta.
Era
una ricreazione come tante e, come ogni ricreazione, non aveva perso il
tempo
per sgattaiolare fuori dalla classe ed incontrarsi con quella ragazza
talmente
misteriosa nel corridoio che dava sul retro.
-Se
uno non lo studiasse, credo che si penserebbe ad una magia.- aggiunse.
Ma
continuava a non ascoltare.
Avril
continuava a lanciare delle occhiate fugaci prima fuori dalla finestra,
poi al
suo viso - quel fantastico viso incorniciato da degli splendidi capelli
biondi
- ed infine a quella mela solitaria che sostava nel suo portapranzo.
Quando si
voltò in sua direzione, la sorprese ad osservare proprio
quest’ultima.
-Fammi
indovinare: questa mattina un barboncino con la rabbia ti ha aggredita
strappandoti via la merenda?- ridacchiò ironico.
Effettivamente,
ogni giorno si inventava sul momento scuse alquanto improbabili - del
calibro
“Mi è caduta in un tombino” -, invece di
optare per la pura e semplice verità,
anche se questa avrebbe potuto avere risvolti negativi sulla prima cosa
bella
che le stava capitando dopo che Matt era andato a lavorare in Italia.
Finalmente
si decise a proferire parola: -Simpatico.- borbottò,
cacciandogli la lingua.
-L’ho semplicemente dimenticata.-
L’ennesima
bugia,
sospirò.
Il
ragazzo prese istintivamente il frutto, lo pulì appena con
la stoffa della sua
maglia e glielo cedette. Dal canto suo, non ci pensò due
volte: accettò in
silenzio la gentile concessione, dandole un morso.
-Posso
farti una domanda?- Quella frase uscì fuori senza pensarci
due volte. E,
magari, nemmeno voleva uscire.
Non
appena lo vide annuire, si schiarì la voce ripetutamente:
-Cosa ne pensi del
mio secondo nome? Ramona, intendo.-
Evan
si sporse verso il davanzale.
-Sai
qual è il mio parere sui doppi nomi?- la
sollecitò. -Fortunato chi li possiede!
Non so, è come sentirsi doppiamente importanti.
Cioè, uno può chiamarti o in un
modo, o nell’altro… o magari entrambi. E quando li
pronunci assieme, non so, è
come far parte per un attimo di una famiglia reale.-
Vedendo
che la ragazza se ne stava lì, ammirata, ad ascoltare,
decise di continuare:
-Prendi me, ad esempio. Credi che da bambino mi piacesse David?
Certo che no, ovvio.
Mi dava fastidio quando veniva pronunciato con sdegno,
quasi come fosse
reato.-
Sempre
più simili.
Si
sentiva come… compresa?
Non
sapeva spiegarselo. Non provava una cosa del genere da tanto tempo.
-Eppure,
col passare degli anni, mi ci sono affezionato. Ho iniziato a vederla
così,
come se fossi dietro ad una maschera, come se il
mio essere David fosse coperto e non volesse venire allo
scoperto. David è un po’ la mia essenza, la mia
anima. E questo mi piace.-
Staccò
un altro pezzo dal suo panino.
Avril
è la maschera di Ramona.
Non
l’aveva mai pensata in quella maniera. Invece, ora le
sembrava un discorso
piuttosto sensato per quanto contorto.
Avril
era il lato che mostrava in pubblico, quello migliore di sé.
La buccia, la maschera.
Ramona
era il suo lato, quello
più nascosto,
quello fragile e debole. La sostanza, l’anima.
Presentarsi
con entrambi i nomi era una formalità, come non potesse
farne a meno. Ma ciò
non significava che sentiva di appartenere entrambi i lati di
sé.
Da
tempo si vedeva come Avril, quasi si fosse dimenticata del suo vero io,
sebbene
emergesse nei momenti di sconforto. Ramona
era morta e risuscitarla era impossibile.
-Dicevi…
Ramona. È così unico. Avrei dato milioni per
avere un nome splendido come
questo. Non che Avril non lo sia, eh! Non fraintendermi.-
Adorava
quando si comportava così.
La faceva
scoppiare in una risata fragorosa.
Rise
anche quella volta.
-Lo
adoro, in pratica. Spero lo adori pure tu.-
-Credo
sia così.- mormorò con un sorriso appena
accennato.
Tornarono
a guardare fuori.
-Non
hai risposto al mio precedente quesito, però.- disse,
riferendosi chiaramente
alla pioggia.
Proprio
prima che aprisse bocca, la ricreazione decise di concludersi.
Lo
vide allontanarsi in fretta. Gli occhi azzurro cielo pieni di
tristezza, come
se gli dispiacesse di non aver potuto finire
quell’interessante discorso
Si
girò, diretta per tornare il classe. Ma, dopo nemmeno
qualche secondo, una voce
la immobilizzò.
-Comunque,
il mio nome è Evan!- urlò alle sue spalle.
No,
aspetta. Come diavolo ha capito
che non mi ricordavo come si chiamasse?
-A
domani, Ramona.-
Quando
si voltò per salutarlo, purtroppo era già sparito
dietro l’angolo.
Arrivederci,
David.
E
in quel momento tornò quantomeno ad apprezzare quel buffo
secondo nome che si
ritrovava.
In
quel momento si sentì, anche solo per pochissimi secondi,
nuovamente Avril Ramona Lavigne.
Angolo
dell’autrice
Salve
gente. *schiva della frutta che le stanno
lanciando contro*
Ehi,
ehi, calma! So che non aggiorno dal 19 marzo ma non mi sembra il caso
di
scaldarsi così tanto!
Giovanni:
Ma anche no!
Sempre
a sostenermi te, eh? Bravo, congratulazioni.
E
meno male che gli amici dovrebbero sostenerti…
Sarò
veloce, anche perché non ho granché da dirvi.
Cosa
ne pensate di questo “bel”
capitolo?
Io sono abbastanza soddisfatta, non so voi. Ed è anche bello
lungo, così mi
faccio perdonare l’assenza.
*sottofondo
di grilli*
No,
eh? No.
Spero
di essere più veloce nel prossimo aggiornamento (insomma,
peggio di sei mesi
non posso fare!), anche perché iniziamo ad
addentrarci sempre più nella
narrazione.
Comunque,
avevo progettato di rendere questa fan fiction piuttosto lunga (un
trenta/quaranta capitoli), mentre invece credo ne saranno una
quindicina, forse
venti (se non anche di meno). Sto progettando anche un sequel di questa
storia
e non vorrei prolungarmi troppo.
Sì,
ho idee molto chiare: sono appena al terzo capitolo e già
penso al sequel.
Giovanni:
Fortuna che non avevi nulla da dire.
Già.
Tutto
qui, credo.
Ci
si vede presto al quarto capitolo. E in recensione.
With
love,
Solluxy
♥
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