Don't Cry For The Past. Just Smile, Future Will Change.

di smarsties
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologue ~ ***
Capitolo 2: *** Chapter One ~ He ***
Capitolo 3: *** Chapter Two ~ Skateboard ***
Capitolo 4: *** Chapter Three ~ Ramona ***



Capitolo 1
*** Prologue ~ ***


Prologue ~

<< E rientrerò a casa, fingendo nuovamente che tutto vada bene. Ma non è così.

Farò finta di nulla, fregandomene di tutto ciò che mi accadeva ogni giorno, come un replay.

Sorriderò a mia madre, per poi chiudermi nella mia stanza, come se fossi in punizione.

Per le scale incontrerò sicuramente la mia sorellina. Le scompiglierò i capelli, salutandola in modo affettuoso.

Una volta sola, piangerò lacrime amare, maledicendomi mentalmente per la mia fragilità.

Sfascerò tutto, romperò qualcosa … mi sfogherò, punto.

Farò una specie di rivoluzione ma, fuori da quelle quattro mura, mi comporterò come una persona normale. Una persona dalla vita perfetta, a cui non manca nulla.

Non è la verità, continuerò a mentire a me stessa.

Convincerò gli altri, dicendogli che sto bene.

Che mia brutta cera è dovuta al troppo studio.

Che i miei occhi lacrimano per l’allergia.

Che tutto va come dovrebbe.

Saprò e so già che tutto continuerà nella stessa maniera.

Perché non ne ho mai parlato con nessuno? >>

 

***

 

Se ne stava sdraiata sul suo letto.

Le parole di quei maledetti bulli continuavano a rimbombargli nella testa.

Le lacrime lottavano per uscire.

Guardò un punto indefinito del soffitto, per vincere nuovamente quella battaglia.

Ogni giorno veniva insultata, picchiata, minacciata … a volte anche molestata.

Non ce la faceva più.

Non capivano che anche lei era una persona, esattamente come loro? Una persona che piangeva, mentiva, ma soprattutto soffriva.

La sua fragilità le impediva di reagire, almeno di dirli qualcosa.

Voleva parlarne con qualcuno, sul serio. Ma non ci era mai riuscita.

Si bloccava un attimo, per poi continuare a mentire. Mentire che tutto andava bene, quando non era così.

Era anche sola. Non per scelta, perché costretta.

Non aveva mai avuto amici, nessuno l’aveva mai accettata.

A nessuno aveva mostrato il suo vero io, la vera Avril. Continuava a nascondersi dietro una maschera invisibile. Una maschera che, poco a poco, la stava allontanando dal mondo.

Voleva sbarazzarsene una volta per tutte. Voleva vivere la sua vita, infischiandosene di tutto ciò che la faceva stare male e affrontando ciò che gli sarebbe prostrato davanti, senza paura.

Lo voleva, sul serio. Ma per farlo, aveva bisogno di qualcuno che la spronasse.

Si alzò di scatto e si diresse verso lo specchio, piazzandosi davanti ad esso. Era abbastanza grande per vedersi tutta.

I suoi lunghi capelli biondo cenere gli contornavano il visino piuttosto scherno e pallido. Gli occhi azzurri affranti dal pianto, il naso all’insù e la bocca minuta. Aveva un espressione seria.

Le sue braccia erano piene di lividi e ferite, le guance arrossate – per i troppi schiaffi - e le ginocchia sbucciate.

La maglia che indossava le stava eccessivamente larga, dato il corpicino che si ritrovava.

Ma come si era ridotta!

Qualche anno prima, quando iniziò ad essere vittima del bullismo, aveva qualche chiletto in eccesso.

La prendevano in giro per questo, anche in maniera non molto gradevole.

Sia maledetto il giorno in cui decise di mettersi a dieta, per farli chiudere quella boccaccia.

Quando raggiunse il suo obiettivo, le cose cambiarono. In peggio, però.

Iniziarono a scambiarla per un’anoressica, deridendola sempre più. La escludevano, la guardavano male, insultata ancora più pesantemente e persino picchiata a sangue.

Fissò attentamente il suo riflesso con rabbia, come se fosse una psicopatica.

Ma lo era veramente? Insomma, soffriva di anoressia?

Quella fottuta maschera continuava a distruggerla. Doveva, anzi voleva, assolutamente liberarsene.

Strinse ermeticamente i pugni.

Arrabbiata. Era arrabbiata con sé stessa.

In preda ad un attacco d’ira, spaccò lo specchio, facendo schizzarne i frammenti per la stanza.

Uno di questi, in qualche modo oscuro, le tagliò il polso.

Un rivolo di sangue le colò lungo tutto il braccio, facendo bruciare ancora di più – se possibile – la ferita.

Faceva male, sì. Ma niente era paragonabile al dolore che pativa ogni giorno.

Fantastico, ora ti prenderanno anche per un’emo. Avril la emo, se ci pensi suona anche bene!

Si schiaffeggiò mentalmente, mandando al diavolo la stupida vocina interiore.

Respirò più volte, per tentare di calmarsi. Tentativo vano.

I nervi cedettero e lei, più in collera di prima, iniziò a rovesciare le sedie, a buttare le coperte a terra, a distruggere tutto ciò che vedeva o che gli si prostrava davanti.

Una decina di minuti abbondanti dopo, poggiò le sue spalle contro il muro e scese a terra, con le ginocchia al petto.

Se l’avessero vista, sarebbe stata scambiata sicuramente per una pazza, o perché no, per un’insana.

La vista cominciò ad offuscarsi e le lacrime cominciarono a pizzicarle gli occhi.

Chiuditi, ti prego. Chiuditi.

Ci provò. Provò ad avere la meglio, per l’ennesima volta.

Non ci riuscì. Questa volta avevano vinto loro.

E tra i singhiozzi ormai piuttosto udibili, iniziò a pensare che quella maschera non si sarebbe mai dissolta.

Ma non ci voleva pensare.

In quel momento voleva solo piangere.

Voleva, e in un certo senso doveva, sfogarsi.

 

 

 

 

 

 

Angolo dell’autrice:

Buongiorno!

Giovanni: E’ sera -_-

Allora, buonasera!

Sono tornata con questa nuovissima long, appena sfornata.

L’ispirazione è venuta a farsi benedire, olè!

Che bello, sono molto realizzata.

Questa è la mia seconda ff qui. Se volete andare a leggervi anche la mia shot, mi farà molto piacere.

Giovanni: Dato anche l’alto tasso di popolarità che sta avendo. Zero recensioni, appunto -_-

Ma sei sempre così pessimista? Ah già, tu sei il mio amico immaginario D:

Il mio cervello deve star messo veramente bene, se ha “partorito” un essere “eccitato” (?) come te.

Giovanni: Bene? Benissimo, te lo giuro!
Well, che ne pensate?

E’ la prima volta che tratto argomenti così pesanti, quindi non uccidetemi.

Me la sono cavata così tanto male? E’ da cestinare all’istante quest’obbrobrio?

Giovanni: Ottimista anche l’autrice, a quanto vedo.

Vai all’inferno!

Anyway, se non vi piace, aggiornerò comunque. Muhahaha!

Lo farò, ma non subito. Ho altre tre long da mandare avanti, in un’altra fandom. E quelle hanno la precedenza.

I’m sorry :c

Ora devo lasciarvi, ci si vede prestissimo.

 

Solluxy ♥

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Capitolo 2
*** Chapter One ~ He ***


He ~
(Chapter one
)

Quella mattina era riuscita a precedere persino la sveglia.

Avril, alle sei, se ne stava seduta a gambe incrociate sul letto.

Dalla cucina poteva avvertire solo dei passi poco felpati che si affrettavano a fare qualcosa di indefinito.

Sua madre era già in piedi, ma non c’era da sorprendersene. Oltre ad essere una mattiniera, aveva la mania – o, come la chiamava la figlia, smania – di far brillare a specchio tutta la casa.

Infatti, se non ci pensava la sveglia a buttarla giù, spesso e volentieri era merito suo. Ok, possiamo dire sempre.

Ma, quella mattina, non era merito ne dell’una e ne dell’altra.

In quella ventilata mattina di fine settembre, si era svegliata di sua spontanea volontà.

Aveva avuto l’ardente desiderio di osservare con attenzione le luci dell’alba. Suo padre diceva che infondessero felicità e molta voglia di vivere.

Ma da dove diavolo l’aveva sentito?!

Da troppo tempo, non c’era niente e nessuno che potesse trasmettere un poco di buon umore.

In quanto alla voglia di vivere … beh, aveva tentato più volte di farla finita in tantissimi modi. Per mancanza di coraggio, però, non aveva mai portato a termine il suo intento.

Avril preferiva di gran lunga il tramonto. Misterioso e oscuro, un po’ come lei.

Amava vedere quei raggi di sole – a volte soffocati dalle nuvole - scomparire tra le verdi colline del suo piccolo paesino sperduto.

Aiutata dalla spinta delle braccia, scattò in piedi e si diresse verso la finestra.

Scostò di più i tendaggi bianchi per osservare meglio e poggiò i gomiti sul davanzale.

Doveva ammettere che amava come le prime luci del giorno giocassero, dipingendo il cielo di accecanti colori, mentre il sole faceva capolino.

Il suo sguardo si posò inevitabilmente verso il basso.

Le strade erano desertiche, forse per l’ora o forse perché Napanee popolata non era mai stata. E mai lo sarà.

La cosa positiva era che, abitando in una piccola città, tutti si conoscevano e si volevano bene, come in una famiglia – molto allargata. Tutti tranne lei, però.

Poco più lontano, scorse una panchina sulla quale dormiva un barbone.

Accennò un piccolo sorriso nostalgico.

Ricordò i giorni in cui era piccola e giocava per quei viali alberati, mentre dagli alberi cadeva qualche foglia.

Su quella panchina, invece, ci si sedeva ogni volta che qualcosa non andava. Lo faceva anche ora che era cresciuta. Ma c’era solo una sottile differenza.

Da bambina aveva qualcuno che la consolava, adesso no.

Ogni volta le si avvicinava un biondino e le si sedeva accanto. Sapeva come farla star meglio, anche con un semplice abbraccio. Quel bambino era suo fratello Matt.

Lavorava come chef in Italia, a migliaia di chilometri da lei. Lo poteva vedere solo nelle festività, quando tornava a casa.

Non era mai andata a trovarlo. La sua era una famiglia che non viveva nelle migliori condizioni e non si poteva permettere un viaggio così costoso. Si era dovuto pagare tutti gli studi da solo, svolgendo ogni tipo di lavoro, ma ne era valsa la pena.

Aiutava i suoi familiari a vivere meglio, mandando dei soldi ogni mese e pagando tutte le bollette al posto loro. Lo stimava per questo. Se non ci fossero stati lui e suo padre a mantenerli non voleva nemmeno immaginare cosa sarebbe potuto accadere. Non voleva farlo, già stava male di suo.

A volte aveva la possibilità di chiamarlo ma ad ore assurde, per via del fuso orario. Quella stupida cornetta, però, la separava tantissimo da lui. Lo voleva con sé, voleva parlargli, dirgli quanto le mancava.

Delle lacrime calde iniziarono a scenderle lungo il viso.

L’entrata inaspettata di una persona la fece voltare di scatto. Era sua madre – con un’armata di aspirapolvere e scope.

Rimase paralizzata per un po’, con gli occhi appena umidi e ancora lucidi. Si affrettò ad asciugarli.

-Avril scusami, non pensavo fossi già sveglia. Ti ho disturbata?- sussurrò appena, facendo attenzione a non svegliare gli altri.

La ragazza scosse la testa, come per dire “non ti preoccupare.”

Allora afferrò l’aspirapolvere – uno dei molteplici – e attaccò la spina. Ancora si chiedeva dove li trovava i soldi per comprare ogni dannatissimo “utensile per pulire e non solo” di ogni insignificante marca.

Il rumore assordante le ronzò nelle orecchie in un modo talmente acuto e dannatamente fastidioso che fu costretta a tapparsele. Odiava quel maledettissimo ed inutile … ehm, coso!

Tutti i tentativi di non far svegliare il resto della famiglia erano ufficialmente andati a farsi fottere, come ogni santissima mattina.

Infatti, poco dopo, si materializzò – quasi dal nulla – sua sorella Michelle.

Si stropicciò un occhio mentre continuava a sbadigliare ripetutamente, a ritmi irregolari.

-Cosa succede? Cos’è tutto questo rumore alle … -, si interruppe e lanciò un’occhiata all’orologio a muro. –Sei e un quarto di mattina?-

Avril scosse la testa. Sua madre era sempre la solita.

-Non preoccuparti tesoro, torna a dormire.-

Aprì la bocca, ma fu preceduta.

-Lo so, non vuoi essere chiamata tesoro perché sei grande.

Michelle era tredicenne già da un po’, anche se tutti la trattavano ancora come se fosse una bambina. E, in fondo, ci somigliava vagamente.

In piena età di sviluppo, riusciva a conservare quei preziosi lineamenti infantili. Forse era quello il motivo o, almeno, lo era per quasi tutti. Lei, invece, faceva finta di considerarla ancora tale semplicemente per farla irritare un po’.

Diciamo che era la pecora nera della famiglia. Pareri differenti, aspetto fisico stravolto ma soprattutto stato d’animo opposto.

Anche se non si trovavano esattamente nella migliore situazione economica, riuscivano ugualmente ad essere felici e gioiosi. Lei no.

Lei soffriva ogni giorno e piangeva lacrime amare. Odiata e disprezzata da tutti, paragonabile al peggio più assoluto, insultata come non mai. Era l’esempio da non seguire in tutto il liceo, forse persino in tutta la città.

Si ritrovò nuovamente da sola in quella camera che, a volte, le sembrava fin troppo immensa. Si sedette a terra, con le ginocchia contro il petto e si rabbuiò.

Davanti alla sua famiglia e ai compagni di classe era costretta a sorrisini forzati e ad ironia spudorata, nella sua stanza – magari con le tapparelle abbassate, giusto per dare un tocco di inquietudine – smetteva di fare l’ipocrita e si sfogava.

Darei oro per tornare a sorridere, come quando ero bambina. Darei oro per non essere più trascurata. Darei oro per avere almeno una persona che mi capisca e della quale possa fidarmi …

 

***

 

La campana suonò l’intervallo e tutti si affrettarono ad uscire. Avril, invece, era ancora lì, seduta al suo banco.

Si era imbarcata alla ricerca disperata di un qualcosa su cui scrivere. Quella mattina si era svegliata con una strana ed irrefrenabile voglia di comporre; vedere Napanee desertica – non che fosse una novità – l’aveva ispirata.

Sì, era una scrittrice in erba ma non di romanzi, bensì di canzoni.

Amava cantare, la sua unica e vera passione. Aveva una voce pazzesca, fuori dall’ordinario. Era un vero talento, dicevano.

Secondo suo padre, doveva approfittare di quel dono che pochi potevano permettersi di possedere. Lei ci aveva provato ma non si era mai esibita davanti ad un vero pubblico – solo una volta, davanti ai suoi peluche e ai suoi fratelli -, la sua insicurezza la bloccava.

E se non ne fossi capace? Non sono poi così brava.

Solo chi l’aveva sentita, almeno una volta nella vita, poteva affermare senza ombra di dubbio il contrario.

Riuscì finalmente a trovare l’occorrente, all’interno della sua borsa e si avviò verso il cortile sul retro.

Era sicuramente uno dei luoghi più tranquilli di tutta la scuola, poco affollato anche durante la ricreazione e la pausa pranzo.

Era uno dei suoi posti preferiti ma, soprattutto, adorava la panchina situata sotto il salice piangente.

Quell’albero era in assoluto il suo preferito, per via delle sua strane fronde all’ingiù. Fornivano un’ottima protezione dal resto del mondo, e questo le piaceva.

Si sedette sulla panchina in legno e poggiò la penna sul foglio.

Di solito non scriveva canzoni vere e proprie, bensì partiva da alcuni, come li chiamava lei, “pensieri perversi.” Descriveva, cioè, ciò che provava e lo riportava poi sotto forma di testo.

L’inchiostro nero si estendeva per tutto il foglio, prendendo via via sempre più forma.

Parole lungo quelle righe. Parole che ti emozionano ma che ti fanno anche riflettere. Parole dure, per far intendere a tutti com’è la vita. Parole incise, di quelle che ti colpiscono dritte al cuore, senza troppi raggiri.

Non sapeva perché continuava a scrivere, se a nessuno faceva ascoltare tutto ciò. Forse lo faceva per sfogo personale, ma non era nemmeno lei del tutto sicura di questo.

Ma continuava, continuava senza mai fermarsi. Passava ore ed ore a comporre quelle frasi, non faceva altro. Se non piangeva, infatti, scaricava tutto su un blocchetto. E aveva proprio bisogno di farlo, sempre.

Fiochi raggi di sole si infiltravano tra quelle foglie e le illuminano appena la pelle pallida. Ma, ad un certo punto, si accorse che la luce era stata offuscata.

Deglutì più volte, continuando a tenere lo sguardo fisso a terra. Sapeva di chi si trattava.

Non guardare, potrebbe ferirti. Ti prego non farlo!

Alzò la testa. Sì, erano proprio loro.

Il suo sguardo rimase impassibile. Voleva sembrare naturale, far capire che lei non aveva paura. E infatti non ne aveva, ma continuava ugualmente a soffrire.

I suoi due “persecutori” erano due ragazzi dell’ultimo anno: Jake e Thomas.

Jake era alto e smilzo. Capelli bruni, occhi dello stesso colore e uno stradannato ghigno fastidioso dipinto sempre in faccia. Alle volte si chiedeva come i suoi amici facessero a sopportare il suo atteggiamento all’apparenza menefreghista.

Thomas, invece, era poco più basso ed ugualmente magro. Un cappellino rosso sempre sulla testa, capelli mori e occhi di ghiaccio. All’apparenza poteva sembrare uno di quei ragazzi solitari e chiusi; nessuno avrebbe mai pensato che fosse un bullo.

-Ehi, che fai? Non ci saluti?- domandò Jake, beffardo.

Corrugò appena le sopracciglia e mimò con le labbra un “lasciatemi stare.” Poi lo disse a voce alta, senza rendersene conto. Come avrebbe voluto non farlo …

-Hai sentito? L’anoressica ci sta cacciando via!- bofonchiò Thomas, portandosi le mani alla testa.

La afferrarono per le braccia e la tirarono su nel modo più rozzo che possa esistere. Tentò di dimenarsi, ma la loro presa era forte. Aveva la sensazione che, per un attimo, la circolazione del sangue fosse stata interrotta. Si sentiva debole, poteva accasciarsi al suolo da un momento all’altro … se non fosse stato per quei due.

-Ehi, ma tu guarda!- esclamò il moro, tirando più forte il braccio sinistro e torcendolo.

Soffocò un grido.

Studiarono per un po’ entrambi il taglio sul polso che si era procurata. Ecco, lo sapevo.

Il ghigno sulla faccia del bruno tornò a regnare incontrastato mentre scuoteva la testa.

-Cattiva bambina. Che fai adesso? Cominci anche a tagliarti?-

-Adesso è anche un’emo. La depressione deve fare veramente brutti scherzi … -

Come fare a spiegare a due esseri privi di cervello che era stato un episodio casuale, un incidente? Facile, non puoi!

Thomas sfilò dalla tasca il suo amico fidato coltellino, lo portava sempre con sé. Un altro taglio, vicino a quello che già aveva.

Strinse i denti mentre del sangue cominciava a scendere per tutto il braccio; qualche goccia andò a finire anche sui ciuffi d’erba.

Le figure davanti a lei cominciarono a brillare, ad offuscarsi. Lentamente, cominciava a non mettere più a fuoco nulla. Gli angoli degli occhi pizzicavano, le palpebre si stavano appesantendo.

Non puoi piangere proprio ora, non devi atteggiarti a debole davanti a loro.

-Lasciatemi stare, andate via!- ripeté quella frase più volte: prima balbettando, poi con più convinzione.

Corrugarono le sopracciglia, facendo spuntare delle piccole rughe sulla fronte.

Thomas le prese il viso tra le mani: –Ora ti facciamo vedere che cosa accade a chi ci manca di rispetto.-

Un cenno. Jake le tirò un calcio dietro la schiena, tanto potente da farla barcollare e cadere a terra a gattoni, contando solo sull’appiglio delle mani.

I due bulli si allontanarono con aria soddisfatta lasciando Avril sola.

Lacrime salate cominciarono a solcarle il viso, mischiandosi tra di loro e cadendo sull’erba appena tagliata. I singhiozzi divennero ben presto udibili. Un nodo in gola le impediva di urlare, sfogarsi. Rimase lì immobile, senza muovere un muscolo, come se non avesse il coraggio di rialzarsi e di continuare a vivere.

Tutto il mondo si era fermato, sembrava sparito. Adesso c’era solo lei, l’angoscia, il rimorso e tanta sofferenza.

-Ehi, tutto bene?-

Una voce roca le ricordò in quale luogo si trovava. E non era sola.

Alzò la testa e incrociò lo sguardo di due occhi color cielo. Appartenevano ad un ragazzo biondo e dal bel fisico. La scrutavano come quelli di un bambino curioso ed ingenuo.

Lui le tese la mano per aiutarla a rialzarsi, lei ignorò il gesto di cortesia e scattò in piedi.

-Ti ho fatto una domanda e gradirei una risposta: come mai te ne stai qui tutta sola?-

Avril ricacciò indietro i residui di lacrime che non erano finite ad uscire e cercò di assumere un’espressione irritata, per via della sua presenza.

-Chi diavolo sei e che cosa vuoi da me?- domandò a raffica. –Non ti conosco e vorrei che tu mi lasciassi in pace, se non ti è di troppo disturbo.-

Fece per andarsene. Gli passò davanti ma lui, prontamente, la bloccò, afferrandole l’avambraccio.

Ghignò strafottente.

-Insomma, che diavolo vuoi?- urlò la ragazza, spazientita. –Sei duro d’orecchi? Vattene, ho detto, voglio stare da sola!-

La stretta non era forte, fu facile liberarsi da quella sottospecie di prigionia.

Scappò via veloce e cercò di far cessare le lacrime che, prepotenti, avevano cominciato a solcarle violentemente il viso.

Non sapeva chi fosse quel biondino e che cosa volesse ma, da un passato come il suo, ci si poteva aspettare solo tanto dolore. In fondo tutti la conoscevano in quel liceo, lui non poteva rappresentare un’eccezione.

 

***

 

Finalmente quella noiosissima lezione di storia era giunta al termine.

Evan ripose i libri dentro la sua borsa blu e, con lo stomaco vuoto, s’incamminò verso la mensa.

Per tre ore non aveva fatto altro che rimuginare sull’incontro con quella ragazza, l’aveva urtato pesantemente. Non riusciva ancora a capire perché gli avesse risposto in modo così preparato e, soprattutto, brusco.

Apparte il fatto che non conosceva il verbo “essere rifiutato” dato che era uno dei più popolari della scuola e che, per ogni ragazza, mettersi con lui rappresentava la via della popolarità e del successo.

Proprio non capiva perché, non ci riusciva.

Intanto era arrivato in mensa ed era già in coda per accaparrarsi il pranzo, prima che potesse finire e prima che fosse stato costretto a mangiare strani miscugli verdi scaduti da tre settimane o forse più.

Non riusciva a smettere di pensare a quella mattina e a quella figura affranta. Si stava facendo complessi mentali per un incontro durato pochi secondi, istanti, non ci poteva credere.

Si aggirava per quella stanza spaesato, come se fosse nuovo di lì … finché non sentì due voci familiari che gli fecero da navigatore. Non che ce ne fosse realmente bisogno …

-Ehi amico, vieni qui!-

-Sì, dai, siediti qui con noi. È da un po’ che non si parla.-

Si voltò ed incrociò i sorrisi strafalsi di Thomas e Jake. Li conosceva da quando aveva sette anni, erano sempre stati i suoi migliori amici. Si stimavano a vicenda e  tutti godevano di una certa popolarità.

Non ne era del tutto certo – non era mica così informato – ma alcune voci dicevano che quei due erano dei bulli – e fin qui ci siamo, ne era consapevole – e che avevano preso di mira una ragazzina da diversi anni.

Stentava a crederci, erano sempre stati dei bravi ragazzi … per quanto ne sapeva. Ma non conosceva la loro vera identità o, almeno, non conosceva la reputazione che si erano guadagnati in quel liceo. Era da tempo che non li frequentava.

-Scusate ragazzi, ho una questione urgente da sbrigare.-

Questione urgente? Stai perdendo colpi, caro.

Le sue gambe cominciarono a camminare da sole, tanto che si chiese anche lui dove stesse andando. Ormai correva, aveva fretta di arrivare in quel luogo, sapeva che lei era lì.

Continuava a percorrere quel corridoio e rischiò quasi di urtare un professore. Poco gli importava.

Arrivò al cortile con il fiatone, ma realizzato: la scorse pochi metri più avanti, sdraiata sul manto verde. Accarezzava i ciuffi d’erba e osservava rapita il cielo.

Mille domande gli frullavano in testa, tipo “Cosa ci fai qui all’ora di pranzo?” oppure “Perché prima stavi singhiozzando?” Sì, decisamente domande troppo stupide, anche per uno come lui.

-Sapevo che ti avrei trovata qui.- fu la frase che, sibilando, uscì dalla bocca del ragazzo.

E con questo ti sei appena aggiudicato il premio “frase più stupida dell’anno”, congratulazioni!

Lei, abituata a percepire anche il rumore più piccolo, si voltò di scatto. Pareva spaventata ma, dopo aver realizzato la situazione, la sua espressione tornò seria. Non dopo essersi concessa un sospiro di sollievo, ovvio.

Lo guardava in cagnesco. Brutta mossa, amico.

-Cosa diavolo vuoi ancora da me?- ringhiò.

Questa è una bella domanda. Tralasciando sempre il fatto che nemmeno lui sapeva che cosa voleva sul serio.

Si avvicinò e si abbassò fino a raggiungere la sua altezza. In quel momento le sembrò la cosa più giusta da fare, oltre che la più ovvia.

-Evan David Taubenfeld.- si presentò, allungando la mano verso la ragazza.

Rimase inizialmente sorpresa: mai si sarebbe aspettata una reazione del genere. Poi parve addolcirsi.

-Avril Ramona Lavigne.- rispose, stringendogliela calorosamente.

Era felice. Finalmente aveva trovato qualcuno di cui poteva fidarsi ciecamente. Qualcuno che poteva essergli amico e stargli accanto.

 

 

 

 

 

Angolo dell’autrice

Perdonatemi gente. Lo so, sono in un ritardo ABISSALE!
I’m sorry.

Il fatto è che mi sono concentrata molto su un altro fandom ed ho trascurato questo.

Cercherò di farmi perdonare, oltre che con questo aggiornamento, anche non una futura e probabile shot. Non ne sono del tutto sicura ma… chissà.

Allora, che ne dite del capitolo?

Ok, forse nella parte finale sono entrata un po’ troppo nello scontato. Ma dovevo pur farli conoscere! E ci tenevo tanto.

Giovanni: Almeno sei consapevole delle idiozie che scrivi. L’importante è che ci credi tu.

Ehm… grazie .-.

Ora devo correre e mi aspetto più recensioni in questo capitolo, anche se tre sono buone (soprattutto per iniziare).

Solluxy ♥

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Capitolo 3
*** Chapter Two ~ Skateboard ***


Skateboard ~
(chapter two)

Il salotto era rimasto in penombra, illuminato soltanto da quei pochi raggi che filtravano dai sottili tendaggi bianchi.

Da circa un’ora Avril sostava su quel divano: era sdraiata e poggiava la sua testa sullo zaino. Aveva un sorriso abbozzato sulle labbra e gli occhi socchiusi.

La sua mente vagava, viaggiava tra i ricordi, ripercorreva la sua vita e si concentrava su quell’incontro. Era stato breve ed era bastato a farla entrare in confusione: le aveva offerto aiuto ma lei non accettò, poi lo scacciò. Tornò – era sicura che lo avrebbe fatto – e si presentò, prima di scomparire nuovamente all’interno di quell’imminente edificio.

Gli era sembrato una specie di eroe, accorso in suo aiuto forse nel momento meno opportuno. Non aveva quintali di spandex addosso – come ogni paladino che si rispetti - ma rimaneva pur sempre un eroe!

Dopotutto, solo lui era stato talmente curioso e andare a vedere cosa avesse fatto quella povera ragazza. Solo lui era stato così premuroso nei suoi confronti, negli ultimi anni. E adesso sapeva che solo lui poteva rivelarsi un vero amico, un vero eroe.

Non credeva nell’esistenza di “principi azzurri” ormai da anni. Erano solo delle insulse favolette che le raccontava sua madre per farla addormentare. Sempre lo stesso lieto fine, mai una volta che ci fosse qualcosa di diverso. Ma i lieti fine non esistono nella vita reale, l’aveva imparato da esperienze personali. Eppure lui corrispondeva alle descrizioni di tali esseri: biondo, occhi azzurri e un fisico da paura.

L’aveva trovato piuttosto premuroso e stranamente… dolce? Sì, dolce è la parola giusta. Non aveva mai visto tanta bontà umana ed interesse verso di lei. Si era preoccupato, pur nemmeno conoscendola. Forse era anche un po’ stranito della sua visione, non se lo aspettava.

Non riusciva a spiegarselo: in lui aveva rivisto, per pochi attimi, la figura di suo fratello. Pensandoci, anche di aspetto fisico non era poi così diverso. Per non parlare del carattere, poi: teneri allo stesso modo. Forse erano proprio loro due i suoi eroi, i suoi angeli custodi.

Non dire idiozie, Avril! Lo conosci sì e no da qualche oretta.

Si alzò, finalmente e un po’ indolenzita, da quel divano e i suoi piedi la condussero in un luogo ben preciso, facendole assumere un atteggiamento da ballerina. In fondo, si sentiva molto importante quando andava da lui. Pareva una principessa o, almeno, lei si immaginava così.

E, come ogni volta, si sedette davanti al suo amato pianoforte – impolverato perché non lo aveva utilizzato da un paio di mesi – e accadde la magia. Improvvisamente, si sentì più matura, più grande. La stessa cosa accadeva quando strimpellava le corde della sua chitarra, la “reliquia” – come la chiamava Michelle – ricevuta per Natale cinque anni prima.

Era stato suo padre ad insegnarle a suonare più strumenti, da bravo professore di musica. Così facendo, le aveva fatto capire qual’era la sua vera vocazione: lei doveva dedicarsi al canto. Non aveva mai preso lezioni, era un talento naturale. E se non fosse stato per lui, avrebbe ancora le idee molto confuse.

Le sue dita cominciarono velocemente a giocare sui tasti, componendo melodie sconosciute: stava improvvisando. Accelerava volontariamente, per rendere il tutto più ritmico. Suonava note che, all’apparenza, potevano sembrare sconnesse. Ma non era così: quella era la musica del suo cuore, quella che rappresentava il suo stato d’animo.

Quel giorno era strana perché non sapeva nemmeno lei come si sentiva realmente. Un misto di emozioni a freddo miste assieme: fragilità, tristezza, confusione e felicità. Non aveva mai provato tanti sentimenti assieme nell’arco di una giornata, si sentiva spaesata.

E, a confondere il tutto di più, ci pensarono i pensieri che, prepotenti, si imponevano: volevano tornare a galla per forza. Ma questa volta non si trattava di pensieri negativi, tutto il contrario: erano positivi, felici. Poteva vedere una bambina correre spensierata per i prati – lei – ed un altro bambino che la seguiva a ruota – suo fratello. La sua infanzia si mischiava, nuovamente, con gli eventi di quella mattina.

Era da quando lo aveva visto che non faceva altro che pensare a lui. Stava ricoprendo un ruolo molto fondamentale nel suo cervello, ancora non era riuscita a realizzare il tutto. E forse ci avrebbe messo tempo…

Coinvolta talmente tanto in quell’uragano magico, non si accorse che qualcuno si era appoggiato e stava ascoltando rapito quella melodia. Quando scaricò finalmente tutto, quel qualcuno la applaudì calorosamente, rovinando così la sua “identità.”

-Sei diventata brava.-

Avril alzò la testa e capì di chi si trattava.

-Papà? Cosa ci fai qui?- domandò.

Lui si accomodò sul divano e le fece cenno di seguirlo. Per farsi spazio, poi, buttò lo zaino della figlia a terra.

-Questo è il tuo concetto d’ordine?- chiese con ironia, strappandole un sorrisetto.

-Non hai risposto alla mia domanda.- cambiò argomento.

-Ascoltavo la tua musica. È da tanto che non suonavi un po’ per il tuo vecchio papone.-

Le circondò le spalle con un braccio mentre la ragazza allargava sempre più il suo sorriso. Ma si rabbuiò presto.

«Tutto era cominciato al Ballo di Fine Anno avvenuto pochi mesi prima. Sia maledetto quel giorno in cui, non sa nemmeno lei perché, ha deciso di salire sul palco per fare un bell’assolo di pianoforte. Tutto procedeva per il meglio, ma presto tutto finì - grazie a due soggetti, conosciuti comunemente come Jake e Thomas. Non si accorse di niente, era successo troppo in fretta. Loro volevano suonare e se li era ritrovati dietro; l’avevano cominciata ad insultare e a minacciarla: se non fosse scesa immediatamente, l’avrebbero picchiata.

Aveva cercato di opporsi, voleva difendere i sui diritti. Pessima scelta: la spinsero con forza di sotto e, per sbaglio, mise il piede in un buco del parquet. Si ritrovò ben presto ai piedi del palco, con una caviglia dolorante e i gomiti sanguinanti.

Sarebbe rimasta lì in eterno se non fosse stato per una ragazza - una neodiplomata crede, non si ricorda nemmeno il suo nome. L’aveva portata subito in ospedale a farsi fasciare la caviglia, ma aveva mantenuto sempre un atteggiamento distaccato nei suoi confronti.

-Ti do un consiglio: stai lontana da quei due, portano solo guai.- le aveva riferito, in un momento in cui i medici le avevano lasciate sole. -E non li provocare se ci tieni alla pelle. Possono sembrare innocui, ma ti assicuro che sono l’esatto contrario.-

Parole che, in quel momento, le erano sembrate più vere di ogni altra.

-Perché mi hai aiutata? Nessuno mi sopporta.- aveva chiesto ingenuamente, tenendo lo sguardo fisso verso il suolo.

-È vero: la tua non è una delle reputazioni migliori. Ti conoscono tutti dentro al liceo, nessuno ti sopporta. Avrei anche potuto lasciarti là a terra e seguire la massa, ma sono diversa da loro.-

Dopo quel giorno non aveva avuto più contatti con lei e non l’aveva più vista in giro.

Quella sera stessa, tornando a casa, aveva raccontato l’ennesima balla. Disse che si era ferita ballando, facendo rimanere indenne tutta la seconda parte della serata.

Da allora, non aveva più suonato né il piano e né la chitarra. Si era sentita insicura e, ogni volta che vi si avvicinava, riaffiorava alla mente quel ricordo.

Ma quell’incontro le aveva fatto tornare il coraggio, aveva scacciato via quella festa. Era come fosse rinata, si sentiva più forte.»

-Ehi tesoro, tutto bene?- le chiese suo padre, accorgendosi che aveva la testa altrove.

Non preoccuparti, papà. Stavo solo pensando ad un evento avvenuto quest’estate, da dove sono ritornata con una fasciatura. Ricordi vero? Bene, ti annuncio che vi ho raccontato una balla colossale. Non sono caduta mentre ballavo, ma sono stata spinta da due bulli che mi perseguitano sì e no da tre anni… o almeno, è quello che dovresti dirgli!

Si alzò dal divano e si diresse verso il corridoio, con passo quasi strisciato.

-Tutto ok, ho solo bisogno di farmi una camminata.-

Prese la sua amata ed ampia felpa bianca, adagiata comodamente vicino all’appendiabiti.

-A proposito!- si ricordò, prima di varcare la porta d’ingresso. –Ci pensi tu allo zaino? Grazie mille.-

Non gli dette tempo di formulare una risposta: era già per strada, ormai.

 

***

 

Non c’era niente di meglio di una bella doccia calda, per scaricare ogni tensione … e per staccare la spina dai molteplici compiti, i quali provocano soltanto stress. Questo era il parere di Evan.

S’infilò di getto dentro la cabina, quando intravide quel leggero tepore che caratterizzava la nebbiolina, la quale puntualmente andava ad appannare il vetro.

L’acqua scorreva veloce lungo tutto il suo corpo e, oltre al sapone, lavava via anche i suoi pensieri. Ma non tutti, quelli indelebili rimanevano scolpiti nei meandri della sua mente.

Il suo cervello gli inviava in continuazione, come un replay, immagini dell’incontro di quella mattina. Era stato talmente particolare che lo aveva lasciato piuttosto confuso.

Ogni tanto il viso di quella ragazza, così strana all’apparenza, appariva prepotentemente davanti ai suoi occhi, come un miraggio. Forse sarebbe meglio dire “allucinazione”.

Più cercava di dimenticare – o quantomeno di riporre tutto in qualche cassetto nascosto – e più quello sguardo ghiacciante, dannatamente penetrante, saltava fuori chissà da dove e se lo sentiva puntato fastidiosamente contro la sua pelle.

Cavolo, non mi sono mai rimbecillito tanto per una ragazza! Non sapeva nemmeno più lui cosa gli era successo.

Ne aveva avute a migliaia di storie, alcune durate anche solo una notte. Le ragazze facevano a botte per stare con il figlio – che, diciamocelo, è veramente figo – del prestigioso e famosissimo avvocato Taubenfeld.

Ma lei era così diversa, più unica che rara. In tutta la sua vita mai aveva visto una “creatura” simile, così piccola, distrutta e con un bel caratterino.

Non aveva mai avuto un simile comportamento da ebete con nessun essere umano di genere donna. Eppure, perché in sua compagnia si era sentito tanto inferiore? Perché aveva provato qualcosa di strano? Perché il suo cuore aveva cominciato a battere a mille?

Amico, non credi sia da idioti giudicare qualcuno che conosci da nemmeno ventiquattro ore ed esprimergli i tuoi sentimenti confusi? Come al solito, la sua vocina interiore aveva interrotto tutto.

La maledisse più volte, mentre si infilò l’accappatoio e uscì dalla vasca.

Bastò mettere un piede nella sua camera, per fargli ritornare tutto lo stress di cui un essere umano può essere dotato: dozzine di libri sopra la scrivania, illuminati soltanto dalla luce dell’abat-jour e altrettanti libri e fogli pieni fitti di appunti sparsi su tutto il pavimento.

Sembrava che i professori ci provassero gusto a riempire i propri alunni di compiti, tutti per il giorno seguente. Forse non sapevano che anche loro avevano una vita sociale, fuori da quelle quattro mura, e non solo loro. Insomma, non potevano mica passare tutto il giorno a studiare!

Si infilò un paio di mutande, pescato dal cassetto della biancheria e aprì l’armadio. Dopo pochi attimi di esitazione, decise cosa mettersi: una semplice maglietta a maniche corte, pantaloni larghi e converse rosse.

Prese il suo adorato skateboard – custodito gelosamente sotto il letto, insieme a qualche cartaccia di chissà quale merendina – e uscì dalla stanza, fregandosene dei suoi doveri e sbattendo la porta. In fondo, due passi non avevano mai ucciso nessuno.

Unico ostacolo da superare: suo padre.

Ok, non si tratta di nulla di difficile, penseranno i comuni mortali. Ma quell’uomo aveva dei “superpoteri” dei quali nemmeno Evan, dopo ormai diciassette anni di vita, non era pienamente a conoscenza.

Riusciva a beccarti ogni volta che hai fatto o che stai per fare qualcosa che non rientrava nella sua norma. Il suo udito era talmente sviluppato che riusciva a sentire ogni minimo rumore, anche se camminavi in punta di piedi. La sua vista era acuta forse più di quella di un falco: era capace di vederti anche a più di dieci metri di distanza.

Nascosto dietro al muro divisore, il ragazzo sporse appena la testa per “studiare” attentamente il suo nemico: stava seduto sul divano a leggere il giornale. Posso farcela. Devo farcela!

Mise il suo skateboard al sicuro, sotto la sua maglia, e cominciò la marcia trionfale verso il portone d’ingresso. Fu una camminata tranquilla, arrivò al suo obiettivo in pochi secondi… ma qualcosa sotto il suo piede scricchiolò, nonché un’asse di legno.

Lanciò maledizioni in silenzio a qualsiasi santo si trovi lassù, per avergli portato tutta quella malasorte - o meglio, sfiga.

-Stai andando fuori con quell’aggeggio a quattro ruote, non è così?- a parlare fu suo padre, che non distolse lo sguardo dalle pagine.

In quel momento, avrebbe tanto voluto avere uno specchio con sé, soltanto per vedere quale espressione strana avesse mai assunto. Come diavolo ha fatto? Che qualcuno me lo spieghi!

Si schiarì la voce: -Sì, carissimo ed adorato papino. E comunque, quello non è un aggeggio, ma il mio skate.-

Carissimo ed adorato papino?  Da dove mi è uscita questa?

-Lo sai che se non finisci i compiti, non ti faccio uscire. Lo dice anche quel proverbio famoso, il quale spero ti imparerai a memoria prima o poi: prima il dovere, poi il piacere.-

Già che c’era, lanciò maledizioni anche a colui che enunciò quel detto tanto odiato da ogni forma umana adolescenziale. Insomma, chi mai era stato quel genio?

-Ovvio che li ho finiti!- mentì. –Come potresti mai insinuare di un volto onesto come il mio?-

Ok, questa poteva risparmiarsela. Non ci avrebbe creduto mai, ne era sicuro.

Lui, con un gesto della testa, gli indicò il via libera. No, aspetta! Sta scherzando, vero?

Evan, ancora sorpreso dalla reazione del padre – Se l’era veramente bevuta? -, strisciò velocemente fuori di casa, prima che potesse ripensarci. Poi, quando fu sicuro di essere abbastanza lontano, sghignazzò ma mantenne il voce di tono basso. Non si sapeva mai…

Sfilò dalla maglia lo skateboard e vi salì. Con una spinta del piede, partì a tutta velocità.

Adorava sentire la leggera brezza incastrarsi fra i suoi capelli biondi, scompigliandoli ed affidandoli completamente al vento. La breccia sotto le ruote rendeva la strada poco più sconnessa, ma il tragitto molto più interessante ed eclatante. Era decisamente il suo passatempo preferito, insieme all’hip-hop.

Sì, proprio quell’hip-hop. Evan vi si era appassionato all’età di undici anni.

«Ricordava che stava facendo un giro al centro, senza suo padre per la prima volta, in compagnia di un gruppetto di suoi amici delle medie. Si era voltato per un momento in direzione di una fonte di musica techno, mentre gli altri lo avevano lasciato indietro, noncurandosene minimamente.

Quella melodia così trascinante proveniva dal marciapiede opposto: un gruppo di persone, infatti, stava ballando su quelle note.

Vedendo poco e niente e desideroso di scoprirne di più, attraversò la strada troppo velocemente, rischiando anche di essere investito da un camion – forse questo dettaglio meglio dimenticarselo.

Ora la scena era molto più chiara: si trattava sì di un gruppo, ma erano dei ragazzi, all’incirca con un paio di anni in più di lui. Praticamente, si era innamorato del modo in cui molleggiavano leggeri e respingevano la ghiaia come se fosse bollente. Era fantastico, sembravano veramente delle libellule.

Lo avevano notato e lo avevano invitato ad unirsi a quella battle – aveva scoperto che si chiamava così solo successivamente -, benché fosse ignorante in materia. La cosa più sorprendente era che, appena provò a muoversi su quella musica, riuscì a ricopiare le mosse degli altri quasi perfettamente. Non sapeva nemmeno lui di essere dotato di tanta agilità.

-Ehi piccoletto, tu sì che ci sai fare!- gli aveva urlato uno, battendo a tempo le mani.

Quella stessa sera, aveva chiesto a suo padre di iscriverlo al corso di hip-hop più vicino – semmai ce ne sia uno a Napanee. Pochi giorni dopo si erano recati nell’unica scuola di danza del paese, scoprendo con gioia che vi erano anche lezioni di quella strana espressione del corpo.

Ancora, dopo sei anni, conservava quella passione – che mai avrebbe perso, ne era sicuro.»

Per incrementare ancora più velocità, Evan prese la spinta con il piede più volte fino a quando non fu soddisfatto. Ma ben presto la sua “corsa trionfale” venne stroncata e si ritrovò a terra.

Realizzò la situazione solo quando riuscì a rialzarsi: una ragazza le era precipitata sopra – magari involontariamente. Aveva dei lunghi capelli biondi cenere e indossava una felpa bianca, jeans attillati e scarpe da tennis. Non riuscì da identificare il suo viso soltanto perché era chinato verso terra.

-Che diavolo! Sta’ più attento, la prossima volta!- esclamò lei, massaggiandosi la testa.

-Io? Sei tu che mi sei praticamente venuta addosso!-

Infuriata, scattò velocemente in piedi e finalmente gli fu possibile studiare anche il suo sguardo… per poi rimanere pietrificato nemmeno due secondi dopo. Perché aveva la netta sensazione di aver già visto quei bellissimi occhi azzurri?

Amico, sei uno stimatissimo genio. Ti meriti il primo premio per il miglior comportamento nei confronti di una ragazza dell’anno, dopo quello che le hai fatto in meno di ventiquattro ore.

Non poté fare a meno di notare il suo strano modo di fare ma, quando realizzò chi avesse davanti, diventò ancora più paonazza del ragazzo.

Ci mancava solo questa. Che figura!

-Io… ehm… Non volevo, sono inciampata.-

Lui si chinò a terra e raccolse un piccolo oggetto che le doveva essere caduto dalle orecchie, siccome sparava ancora musica ad alto volume: un lettore mp3 color rosso fuoco.

-Credo sia tuo.- fu la frase più idiota che potesse dire, mentre lei si affrettò a riprendere il suo piccolo tesoro e a spegnerlo. –E, tanto per la cronaca, non preoccuparti. Magari tutte le ragazze carine come te cadessero dal cielo!-

Sapeva di aver fatto centro: era diventata ancora più rossa di prima, mentre balbettò un flebile “Grazie.”

Potrei anche perdonarti per la tua “uscita” demente di prima, dopo questa grande genialata. Ed ottenere stima anche dalla sua mente era fantastico, dal momento che era sempre in continuo contrasto con il suo subconscio.

-Vedo, anzi sento, che punti a perdere l’udito completamente, eh? Nemmeno io alzo tanto il volume del mio stereo,- un’ottima frase per rompere il ghiaccio.

Alle volte si sorprendeva anche lui della sua maestria nel far cadere ai suoi piedi migliaia di ragazze.

Accennò un sorrisetto: -La musica è l’unica cosa che riesce a portarmi lontana, via da questo mondo. La ascolto sempre, appena ho un attimo libero. Mi catapulto sul letto, mi infilo le cuffie e sono pronta per viaggiare con la mente sulle parole della canzone. La definisco la poesia dell’anima.-

Era rimasto decisamente rapito dalla sua affermazione. Non aveva mai conosciuto nessuno prima di allora che sapesse comporre delle frasi talmente perfette, creando giochi di parole continui.

Iniziava ad intrigarla veramente tanto quella ragazza, così perfettamente diversa dalle altre.

Avril si sporse, per notare meglio un obiettivo poco più dietro di loro: -Tu vai su quello?- chiese, indicando lo skate fermo pochi metri più dietro.

-Ti presento il mio amico fidato: chiamalo pure Bob. Trattalo con rispetto che ci tiene.- disse cordialmente Evan, scherzando un po’.

Finalmente anche lei cominciò a sentirsi a suo agio.

-Dai anche nomi agli oggetti, adesso?- chiese scoppiando a ridere –Non sei normale!-

Se il primo impatto non era stato dei migliori, adesso doveva proprio ricredersi. Erano passati due anni da quando Matt se ne era andato di casa e da quando non aveva avuto più nessun amico; era bello provare nuovamente quegli stessi sentimenti, desiderava riviverli ormai da tempi remoti e finalmente poteva farlo.

-In realtà questo me lo sono inventato al momento. E ti avviso da subito che, se continuerai a frequentarmi – il che è molto probabile – non sarà l’ultima stranezza che noterai in me, te lo assicuro. Sono un tipo molto originale, in compenso.-

Bè, era certo: non esisteva sicuramente un’altra persona da ricoverare con urgenza nel manicomio più vicino come lui.

-Mi piacerebbe provare ad andarci. Posso o ti ingelosisci che ti rubo il tuo unico amico?- ironizzò.

-Sì che mi ingelosisco. Nessuno mi sequestra Bob, è solo mio. Chi si azzarda a toccarlo, è morto. E poi io ne ho a tonnellate di amici, ma lui è il più speciale.- fece il finto offeso, strappandole un’altra piccola risatina.

Avril poggiò un piede sulla tavola e con l’altro si dette la spinta necessaria per iniziare a far muovere le ruote. Non aveva mai provato ad andarvi prima d’ora, eppure le piaceva sentire il vento “sbattere” contro il suo viso; sembrava lottasse pur di avere la meglio. Sensazione stupenda, oserebbe dire, che purtroppo non durò nemmeno venti secondi: si sbilanciò col peso troppo all’indietro e rischiò di cadere nuovamente, ma in modo più violento… se non fosse stato per Evan che la prese a tempo al volo, ovviamente.

«Quel breve attimo sembrò ad entrambi una frazione d’eternità, forse anche di più. I loro sguardi si erano incrociati appena, eppure mai avevano sentito battere forte il loro cuore così tanto.»

-Ehm, grazie per avermi presa.- mormorò arrossendo lievemente.

Se continui così, credo proprio che dovrai ringraziarlo chissà ancora quante volte. E ti ricordo che la giornata non è ancora finita!

-Di nulla, anzi! Grazie a te per essere caduta.- ghignò di tutta risposta.

Non sapeva veramente come prendere quella frase, non capiva cosa intendesse. O forse era lei che non voleva capire? Forse non si sforzava per niente di vedere la realtà perché non voleva conoscerla, non voleva affatto.

Lui le afferrò la mano che, in confronto, sembrava quella di una bambina. Sentì di nuovo le gote andarle a fuoco. La sollevo di poco da terra e la sistemò delicatamente sulla tavola, mentre la ragazza tolse velocemente le braccia da intorno al suo collo che aveva poggiato prima per evitare di cadere.

Ora si sentiva spaventata. Perché tutta questa premura? Ci teneva veramente o era un modo per farla soffrire ulteriormente? Un ragazzo come lui poteva avere chissà quante donne dietro, perché stava perdendo tempo con una come lei? Se prima voleva fidarsi ciecamente, ora non ci riusciva più: un dubbio troppo grande per le sue dimensioni la stava opprimendo.

-Ehi, cos’hai?- le domandò, risvegliandola dai suoi pensieri.

Doveva averla vista rabbuiarsi e si era preoccupato. E se fosse solo strategia?

-Niente, non preoccuparti. Piuttosto, perché mi hai messa qui sopra?- cercò di cambiare discorso.

Lui iniziò a lavorare sul suo corpo, modellando parte per parte, articolazione per articolazione, come da più abile falegname il quale cerca di non rovinare il pezzo di legno più pregiato al mondo e di ottenere la perfezione da ogni suo incarico, per accontentare in ugual modo ogni suo cliente.

Ogni volte che sfiorava il suo corpo, sussultava lievemente. Il contatto della sua mano grande e calda su ogni centimetro della sua pelle candida era qualcosa di indescrivibile. Qualcosa di nuovo e mai provato prima. Lo adorava da impazzire, eppure ne aveva paura allo stesso tempo, come se un semplice tocco potesse ferirla.

Anche lui era alquanto persuaso da ciò che stava facendo e, per quanto gli sarebbe costato ammetterlo - aveva una reputazione da difendere! -, si stava divertendo un mondo nello giocare con quella bambola con quella carnagione così pallida che le ricordava la cera. Passava in punti che, magari, aveva aggiustato più volte soltanto per allungare quel piacere immenso che si stava creando da solo. Ed era sicuro di un’altra cosa: lei stava godendo. Pure se di poco, era sicuro che fosse così.

Si allontanò, ma non prima che si fosse accertato se si trovasse ben in equilibrio sulla tavola: -Prova di nuovo.- le disse, spingendola delicatamente dietro la schiena mentre la ragazza, con il suo piede, fece lo stesso.

Questa volta Avril poté vivere più a lungo quel momento e studiarlo attentamente. Di sicuro, però, era ancora certa della mezza idea che si era fatta prima: andare sullo skate era come una chiave verso la libertà, quella eterna. Il vento, contrario ad ogni movimento, era ciò che più contribuiva a questa sensazione, mischiandosi con i suoi capelli fin troppo lisci - come degli spaghetti - e scompigliandoli nell’aria in modo tale che, anche loro, potessero “provare” lo stesso.

Dopo un paio di giri, forse contro ogni sua volontà, si fermò nello stesso preciso punto in cui era partita.

-Wow! Cioè, è una cosa così diversa… e mi piace veramente tanto!- esclamò, riprendendo fiato più volte.

Nel sentirla pronunciare una frase del genere, Evan rimase ancora più sorpreso di prima.

Era la prima ragazza in assoluto a cui piaceva andare sullo skateboard, considerato come qualsiasi altra donna che avesse mai incontrato come “un oggetto rozzo ed insignificante”. Lei era stata la prima a considerare quell’attività come qualcosa di diverso, eppure estremamente splendido.

Era lei quella diversa e lo aveva capito da subito, sin dall’istante in cui l’aveva vista, così piccola e fragile, accovacciata su quel manto verde.

Quei vestiti, che nessun’altra si sarebbe azzardata mai ad indossare.

Quel carattere, che nessun’altra avrebbe mai adottato nei suoi confronti. Così suscettibile e allo stesso tempo tanto indeciso.

Quella luce, che non aveva mai visto brillare negl’occhi, così azzurri ed intensi, di nessun’altra.

Quella sua personalità, il suo modo di essere, che lo aveva attratto come nessun’altra avesse mai fatto.

Non era mai stato tanto curioso nel conoscere una donna prima d’allora, dal momento che tutte quelle che era riuscito ad accaparrareuell erano state ideate tutte dallo stesso stampo: delle ochette viziate con la mania degli abiti all’ultima moda e dei capelli e unghie sempre perfetti.

Era pronto a scommettere che a lei, invece, tutte quelle cosucce frivole non interessavano minimamente. E lo si poteva capire da lontano.

Forse era ancora troppo presto per dire che provava qualcosa - per lui, quel qualcosa equivale a molto di più -, ma di certo nutriva un certo interesse: era più unica che rara, non poteva di certo lasciarsela scappare così facilmente.

-Bè, se ti piace così tanto, puoi anche tenertelo.- le disse con un sorriso sulle labbra.

Come conquistare una ragazza, fase uno. Direi che l’ho vinta: un punto per me. Ora cos’hai da dirmi, subconscio caro?

Avril prese da terra lo skate ma, proprio quando stava per chiedergli se faceva sul serio e ringraziarlo, lo vide allontanarsi, quasi scomparire in fondo alla strada, mentre si portava le mani dietro la nuca.

Non capiva davvero cosa potesse mai significare quel gesto. Era come un addio, come per farle capire che non voleva avere nulla a che fare con lei? O magari aveva qualche altra intenzione?

Ma come poteva averne, dopotutto?! Non si conoscevano quasi per niente e a malapena ricordava il suo nome! Davvero aveva sperato, anche solo per un secondo, che lui potesse essere quella persona che aspettava da tempo?

Era come tutti gli altri, lo sapeva: aveva soltanto finto di tenerci, mentre il suo scopo era quello di scappare via il prima possibile da lei, quella che era emarginata e disprezzata da tutti.

Lei era quella disonesta, loro quelli giusti.

Lei era quella strana, loro quelli normali.

Lei era quella pazza ed insana, loro quelli con la testa al posto.

Lei era quella che doveva soffrire, loro quelli che godevano.

E lui? Lui da che parte stava?
Bè, di sicuro anche lui fa parte della massa.

Eppure quando si voltò in sua direzione, i loro occhi si scontrarono per un attimo e le donò un sorriso, l’ennesimo. Questo, però, sembrava più sincero degli altri che le aveva dedicato. Era come se volesse infonderle sicurezza, come per dirle di non preoccuparsi.

Quel sorriso stava ad indicare una sola cosa: sarebbe tornato e molto difficilmente l’avrebbe lasciata in pace.

 

 

 

Angolo dell’autrice

Ehilà gente, come va da queste parti?

*le passa una padella affianco*

Quale accoglienza!

Lo so benissimo: sono in un ritardo madornale, il quale non merita giustificazioni.

Questo capitolo non voleva proprio essere partorito (notare la lunghezza, infatti): inizio a scriverlo, non so più come continuarlo, poi continuo, mi blocco e, dopo aver ripetuto altri procedimenti per una miriade di volte, arriviamo a questa sera.

Penso, però, che sospenderò questa storia. No, no, calma! È una supposizione, nulla di certo!

Vorrei concentrarmi più su un genere comico/demenziale (il mio campo, insomma), ma, per il momento, mi manca l’ispirazione per qualcosa di originale. Quindi non sospenderò la fic, al momento.

Ho ricontrollato il capitolo all’incirca una ventina di volte, per non progettare un aborto di capitolo introspettivo (e non ci sono riuscita), voi ditemi comunque se vedete altri errori.

Bè, dovrete abituarvi ai miei ritardi: il prossimo capitolo, per cui mi serve un po’ di tempo per progettarlo, non arriverà di sicuro presto. Causa: la scuola e gli esami.

Spero che il capitolo bello sostanzioso sia di vostro gradimento. Credetemi, i prossimi dubito saranno tanto lunghi.

Mi eclisso, prima che qualcuno mi faccia del male sul serio.

Solluxy ♥

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Capitolo 4
*** Chapter Three ~ Ramona ***


Ramona ~

(Chapter three)

 

Pioggia, ancora pioggia scrosciante. Tutte quelle gocce continuavano a precipitare ormai da parecchie ore.

Fuori sembrava che la notte fosse scesa con molto anticipo; le strade erano diventate, più che altro, dei torrenti e le macchine facevano fatica a “sguazzare” in quelle due dita d’acqua; ben visibili erano le tele colorate dei pochi ombrelli che circolavano per strada.

Questo quadretto di una normalità quotidiana durante un giorno qualsiasi di pioggia si prostrava da circa venti minuti davanti agli occhi di Evan, intento a finire di mangiare una brioche ripiena di marmellata alla fragola.

Mentre mandava giù l’ennesimo boccone, era impegnato a osservare le gocce, che ai suoi occhi sembravano sempre più grandi, infrangersi contro il vetro e scivolare velocemente verso il davanzale.

La pioggia: un fenomeno atmosferico che, secondo la gente, è buono soltanto a rovinare un bel weekend; per lui, invece, era molto di più: lo considerava il dissenso del cielo e la “punizione divina” verso comportamenti assurdi e alquanto commentabili dell’uomo.

Adorava quando quell’infinito astro celeste decideva finalmente di vendicarsi, sin da quando era un bambino.

Ricordava ancora quei lunghi pomeriggi passati a giocare sotto l’acqua battente, a saltare dentro le pozzanghere che si formavano sull’erba a piè pari con i suoi stivaletti gialli e a correre lungo tutto il perimetro della casa. E ricordava ancora sua madre, impaziente, ferma sul ciglio della porta d’ingresso, munita già di un asciugamano: sapeva bene che suo figlio sarebbe rientrato zuppo dalla testa ai piedi.

Già, mamma.

I suoi genitori si erano separati quando lui era ancora piccolo - aveva forse cinque o sei anni -, non rammentava più di tanto.

Di sua madre, Evan poteva appena rivederne i lineamenti delicati, la lunga cascata di cioccolato che aveva al posto dei capelli e quei due cristalli che facevano risaltare tanto le sue pupille. Non di più, non di meno.

Era sempre stato tenuto allo scuro su quest’argomento, era come se un pezzo del suo passato era stato strappato dalla sua mente da una forza superiore - in questo caso, suo padre. Le uniche informazioni che aveva ricevuto a riguardo erano che sua madre viveva negli Stati Uniti, a Baltimora - era originaria di lì -, e che aveva deciso di abbandonarli per stare assieme a un altro uomo.

Era ancora un bambino, quando suo padre decise di deliziarlo con un discorso più grande di lui e di renderlo partecipe della situazione familiare, non capiva cosa volesse dire “stare con un altro uomo”. Ora, invece, sapeva benissimo cosa significasse quell’espressione. E lo disgustava.

Inizialmente pensava che volesse raggirarsi il discorso come più gli conveniva, per far sì che la ragione fosse dalla sua parte. Era un avvocato e inventare versioni su versioni di un solo e semplice fatto era il suo lavoro.

Lui, però, voleva rimanere attaccato alla figura materna che vagamente ricordava: comprensiva, ragionevole, dolce e, soprattutto, fedele e rispettosa verso il marito - mai una volta si era azzardata a rispondergli.

Forse voleva semplicemente illudersi che fosse così.

Ma più capiva come funzionava realmente il mondo, più dava ragione al padre. Dopotutto, lui gli era stato sempre vicino - per quanto severo potesse essere - e mai lo aveva lasciato. Non come la madre!

Come lui, era dell’idea che chiunque abbandonava la propria famiglia per vivere con il proprio amante, non meritava alcun tipo di perdono. E lo stesso, pur avendo un legame di sangue, valeva per la donna che lo aveva messo al mondo.

Non c’era stata quando aveva imparato ad andare in bicicletta.

Non c’era stata quando aveva ballato per la prima volta davanti ad un pubblico vero.

Non c’era stata quando aveva dato il primo bacio.

Non c’era stata quando aveva il cuore a pezzi.

Non c’era stata quando aveva bisogno di confidarsi con qualcuno.

Non c’era stata, mai.

Quale riconoscenza, in fondo, merita?

Quando suo padre lo stava preparando a ciò che c’era là fuori, lei dov’era?

Dov’era quando aveva imparato ad andare in bicicletta?

Dov’era quando aveva ballato per la prima volta davanti ad un pubblico vero?
Dov’era quando aveva dato il primo bacio?

Dov’era quando aveva il cuore a pezzi?

Dov’era quando aveva bisogno di qualcuno con cui fidarsi?

Dov’eri, eh?

Era con un altro che non aveva mai visto, uno sconosciuto. Ma, d’altronde, non lo era anche lei?

Può considerarsi mamma una persona che non ti chiama nemmeno per farti gli auguri di compleanno?

Può considerarsi mamma una persona che si è persa un pezzo della vita del proprio figlio?

Può considerarsi mamma una persona che preferisce dedicarsi ad altro, piuttosto che educare con amore il suo bambino?

Può considerarsi mamma una persona che non si è fatta più viva da oltre dieci anni?

E la risposta era tanto scontata: No.

Non poteva, non era plausibile una cosa del genere. Non poteva nemmeno se ci si sforzava.

Il rumore dei passi contro il parquet della cucina fecero risvegliare Evan dai suoi pensieri che, mai come quella mattina, gli avevano oscurato la mente. Si trattava di suo padre che, come al solito vestito in modo impeccabile e in perfetto orario - né troppo tardi, né troppo presto -, faceva il suo ingresso.

-Che ci fai ancora lì alla finestra? Non hai visto che ora è? Sei in ritardo, come sempre. Dovresti già essere alla fermata.- gli fece notare, iniziando a preparare il suo solito caffe delle sette meno cinque.

E, come ogni mattina, fu costretto a richiamarlo. Non sapeva perché suo figlio perdesse tanto tempo a osservare il paesaggio di quella piccola città che, dopotutto, non aveva granché d’interessante.

Eppure, per il ragazzo era qualcosa di speciale, un rituale di cui non poteva fare a meno. Nemmeno lui se lo spiegava, ma guardare quelle strade isolate - tranne quando pioveva: in quelle occasioni tutti si risvegliavano, nessuno escluso - gli diffondeva una strana quiete interiore, una tranquillità indescrivibile e la carica giusta per affrontare al meglio le sue giornate.

-Che c’è? Ti sei perso anche tu nei meandri delle infinite gocce d’acqua, com’era solita tua madre fare?- insistette, marcando parecchio sulla parola “madre”.

Mandò giù l’ultimo boccone di pasta sfoglia mista a quel poco di marmellata che era rimasta all’interno e, caricandosi sulle spalle lo zaino, decise finalmente di incamminarsi per strada.

Com’era solita tua madre fare.

Quelle parole lo avevano colpito profondamente.

Vagamente, se ci provava, le immagini di una giovane donna sognatrice, il cui dito disegnava forme irregolari e infinite, seduta alla finestra durante un giorno di pioggia qualunque, le scorrevano veloci davanti agli occhi.

Una cascata di cioccolato fondente che le incorniciava il viso: questo ben ricordava ogni qualvolta la trovava lì, in quell’angolino. Lui che tornava dal parco giochi, puntualmente sudato, rumoreggiando e, quando la vedeva così intenta nel non sapeva quale attività, taceva improvvisamente e filava mogio mogio in camera. Di solito memorie come queste ricollegava a quei capelli lunghissimi - il più delle volte raccolti in una coda o in una treccia - e in cui tanto adorava infilare le sue manine in un momento di dolcezza.

Com’era solita tua madre fare.

Anche quella mattina - quella in cui l’aveva abbandonato per sempre -, quando era venuta a svegliarlo per andare a scuola, si era seduta accanto alla finestra e aveva guardato per un attimo fuori, come se stesse trovando il coraggio per proferire quelle parole che sicuramente avrebbero ferito molto di più lei.

-Ascoltami, tesoro.- gli aveva sussurrato appena. -Oggi non ti accompagnerò io, ma tuo padre. La mamma deve lavorare e non tornerà prima di cena. Non mi aspettare fino a tardi, tornerò in tempo per rimboccarti le coperte. Ora me lo dai un abbraccio forte forte?-

Gli aveva gettato le braccia al collo senza pensarci due volte perché era certo che avrebbe mantenuto la sua promessa. Quella sera, infatti, si era infilato sotto le coperte e tenne gli occhi aperti un po’ di più, giusto per ricevere il bacio della buonanotte.

Quando si addormentò, esausto, non avrebbe mai immaginato che quella sarebbe stata l’ultima volta in cui l’avrebbe rivista.

Non avrebbe mai immaginato che quello sarebbe stato l’ultimo abbraccio che si sarebbero scambiati.

Non avrebbe mai immaginato che lei lo lasciasse solo.

Come tua madre era solita fare.

Da quando aveva capito come stavano realmente le cose, Evan aveva cercato di evitare ogni contatto con il suo passato e, soprattutto, con i parallelismi che ancora lo legavano indissolubilmente alla madre. Eppure, anche se suo padre era il primo a voler dimenticare, era proprio egli che, per primo, non poteva non fare a meno di ricordare le abitudini della sua ex moglie e di quanto simili fossero a quelle del figlio.

Non riusciva a spiegarsi perché non facesse altro che piazzargli lì, in continuazione, anche solo qualche parola riguardante quella che per lui oramai era come un’estranea.

Alle volte, infatti, arrivava persino a pensare che magari provasse ancora qualcosa - anche solo del semplice affetto, non necessariamente amore - per quella donna. Ma subito dopo capiva che quella cosa era pressoché impossibile: suo padre non era un tipo che manifestava facilmente i suoi sentimenti agli altri, nemmeno a lui che era suo figlio. Come avrà fatto a convolare a nozze con il cuore di pietra che si ritrova?

Lui, invece, nemmeno pensava a quelle sciocchezze, così frivole e prive di significato. Che cosa voleva mai star a indicare se svolgeva le stesse attività della madre - che tale non poteva essere considerata?

Però, anche se non ne dava peso più di tanto, più si ostinava a negarlo ogni qualvolta quell’argomento venisse fuori, più si rendeva conto che, molto in fondo, lui e sua madre avevano realmente parecchio in comune.

Oltre ad essere due “sognatori” - sempre a detta del padre, perché lui aveva smesso di credere nei sogni quando aveva capito come realmente girava il mondo, in modo vorticoso, senza aspettare nessuno, diventando all’improvviso più maturo -, entrambi, ad esempio, avevano gli stessi occhi color cielo - da bambino, pensava infatti che quel colore provenisse dal troppo rimanere a fissare quello scorcio di blu limpido -, quei due cristalli che erano capaci di leggerti l’anima.

Quando raccontava ogni tipo di menzogna a sua madre - innocenti, però. Dopotutto non aveva nemmeno un decennio di vita! -, lei riusciva a capirlo con un semplice sguardo. Non una parola, solo quell’occhiata indifferente. La stessa che bastava per farlo filare in camera sua, muto e rassegnato all’idea di essere stato scoperto pure quella volta.

Anche lui, quando sarebbe diventato grande, desiderava ardentemente di ottenere quel dono più unico che raro: voleva conoscere i sentimenti degli altri per non ferirli e trattarli proprio come loro sognavano. Come se fosse un sensitivo, insomma.

Sebbene ci si sforzasse, però, non gli pareva affatto di comprendere lo stato d’animo delle persone - tranne quello di suo padre, tanto lui era sempre lo stesso: burbero, severo e con strani superpoteri.

Dopotutto, pensava, essendo ugualmente sua mamma, era una cosa normalissima avere i suoi stessi occhi. Ma non riusciva a spiegarsi perché avessero entrambi il fanatismo smodato per gli origami e per la torta al cocco, perché entrambi adorassero le lunghe passeggiate nel parco e, soprattutto, perché avessero la stessa passione: la musica.

Effettivamente, se ci pensava, era stata proprio lei a fargliela amare così tanto, sin dalla tenera età: a quattro anni, gli aveva donato la sua prima chitarra ed era stata lei a insister affinché potesse prendere lezioni di quest’ultima, poiché suo padre non ne voleva sapere. Pensava che con essa la possibilità di fare successo era di una su un milione.

Forse, in parte, avrebbe dovuto esserle riconoscente: se non fosse stato per quel regalo tanto adorato - per quanto potesse ferirlo, lo conservava ancora appeso alla parete della sua camera -, non avrebbe mai conosciuto quella che nel giro di pochi anni sarebbe diventata una delle sue più grandi passioni, nonché il canto.

Anche questo aveva in comune con la madre, la quale aveva l’abitudine di canticchiare mentre volteggiava qua e là per la cucina. Gli piaceva sentirla intonare canzoni a caso intanto che gli serviva la colazione come tutte le mattine dei suoi primi sei anni di vita; suo padre, invece, distogliendo lo sguardo dal solito quotidiano, le “ordinava” di cucirsi il becco, chiamandola affettuosamente Usignolo.

Il fatto strano era che, quando pronunciava la fatidica frase - ovvero: «Ehi Usignolo, cosa ne diresti di mettere a nanna quel becco per un po’?» - tempo fa, la voce - così rammentava - assumeva una sfumatura totalmente differente dal solito, un certo non so che di dolce, soprattutto quando faceva cadere l’accento su quel nomignolo; a distanza di ben undici anni, se il figlio si azzardava soltanto ad accennare qualche semplice nota, il suo tono diveniva improvvisamente brusco e scocciato. Non che fosse proprio intonato - lui stesso si giudicava una campana che suonava a morte, anche se la realtà corrispondeva alla versione opposta -, ma il suo atteggiamento, ogni volta che metteva l’intera casa nuovamente a tacere, suonava come un unico messaggio alle sue orecchie: stava come a simboleggiare di non voler averne più nulla a che fare,  di voler definitivamente chiudere i ponti con il passato.

Del resto, come potete affibbiare torto a una persona a cui, sul cuore, ci hanno praticamente sputato sopra?

Più che a interpretarle, però, Evan, le canzoni, era migliore a comporle.

Già, sebbene il suo caro papà gli impedisse di cantare in sua presenza, non poteva in alcun modo evitare che svolgesse la medesima attività “in silenzio”. Tutto quello che non usciva dalla sua bocca, quindi, finiva dritto sul primo pezzo di carta che gli capitava davanti, sotto forma di pochi versi coincisi. Di quelli che, anche solo con poche parole, riescono a scaldarti dentro.

Aveva scoperto di essere propenso per la scrittura alla tenera età di dieci anni, quando la maestra gli aveva assegnato l’importante compito di concludere la recita di fine anno con una poesia a tema libero, ma che dovesse emozionare a tal punto da far venire la pelle d’oca a chiunque l’ascolti. Inutile dire che fu un successone: non ci fu nessun occhio asciutto nell’intera sala - tranne quelli di suo padre, Mister Cuore di Pietra, il quale non fece una piega dall’inizio alla fine.

In seguito si concentrò più sui testi musicali con le rispettive tracce melodiche. Negl’anni di scuola media, infatti, le compagnie che iniziò a frequentare lo avvicinarono così tanto alla musica che ne rimase praticamente folgorato.

Non aveva composto granché, essendo del parere “L’ispirazione, o ce l’hai per l’intero brano, o no”: la cartellina, in cui li conteneva, ospitava circa una decina di fogli stropicciati e mezzi strappati e forse il triplo in più di corte frasi significative. Frasi di quelle che ti segnano incondizionatamente nel profondo, le quali erano destinate a divenire canzoni di grande successo nei bar della citta dove venivano riproposte ogni sera ma che, invece, rimanevano solo gruppi di lettere sistemate in un perfetto ordine - studiava quelle posizioni anche per parecchie ore, anche a costo di fare diecimila cancellature - per rimanere così e basta, senza nessun tipo di variazione.

A dispetto dei generi che l’adolescenza ti porta a “venerare” al pari di qualsiasi altra divinità ci sia lassù - citandone uno in particolare: rap -, la sua vena romantica parecchio nascosta - ci teneva alla sua reputazione, non poteva di certo rovinarla! - quasi lo costrinse di provare ad ascoltare musica che si avvicinava più a uno stile pop e, soprattutto, ballate melense.

Riservava sempre un posto d’onore all’amore, quello che considerava il sentimento più vero e al contempo più bugiardo che esistesse, destinato a durare per sempre per quanto male potesse farti.

Perché la cicatrice che ti lascia sul cuore è per sempre.

Certo, non era mica il tipo di ragazzo che, nel segreto della sua camera, guardava ogni fiction o telenovela “da diabete” che trasmettevano sul palinsesto televisivo più importante del suo paese; non si metteva nemmeno a sognare davanti a quell’amore così perfetto, il quale i cantanti si ostinavano a citare nei loro pezzi.

Come se, poi, potesse sul serio esistere.

Forse, temendo di poter distruggere la vera essenza di quel sentimento tanto prediletto, non era mai riuscito a comporre una canzone d’amore, mentre, invece, la maggior parte delle frasi che potremmo definire “incomplete” racchiudevano in ogni singola parola una passione immensa.

Evan era sempre stata una persona brillante, originale… e testarda, molto testarda: se si metteva in testa una qualsiasi cosa, niente e nessuno poteva fargli cambiare idea.

C’era, infatti, un motivo - più che valido, oserei - che giustificava questa sua “scelta”: il suo progetto era di scrivere una ballata diversa dal solito. Non doveva parlare della solita storia tutta rosa e fiori, ma neanche di quel tradimento che oramai in molti erano riusciti a banalizzare. Doveva trattare qualcosa di diverso, di nuovo, ma doveva sempre fare lo stesso effetto a coloro che, accendendo il proprio mp3 e inserendo la riproduzione casuale, la ascoltassero, cioè emozionarli e lasciarli fantasticare per un po’.

Come tua madre era solita fare.

Riflettendo così a fondo su quelle sei parole, tanto dannate quanto reali, non si accorse di essere già arrivato alla fermata del bus e lo stava anche per perdere, se non fosse per il fatto che si risvegliò da quella sottospecie di coma in tempo.

E mentre si fece spazio tra la gente rimasta in piedi, scovando un posticino libero affianco a una vecchietta in penultima fila, osservò ancora una volta tutte quelle gocce crescere sempre più d’intensità e oscillare leggere al vento fino a depositarsi sull’asfalto zuppo.

 

***

 

Ritardo. Sono in un ritardo bestiale!

In altri giorni perdere sia il proprio accompagnatore personale - il padre - che, nel frattempo, si era già portata dietro sua sorella e l’autobus non sarebbe stato poi un così grave problema: le bastava correre come una pazza. Ma non appena si accorse che la sveglia segnava già le sette meno cinque e che le strade erano diventati più simili a dei canali d’acqua, Avril accolse con immenso dispiacere la notizia di doversi infilare letteralmente un cornetto al cioccolato e una tazza di latte dritti nell’esofago e di darsi una mossa.

Ecco perché, quella particolare mattina dei primi d’ottobre, si trovava a sgusciare con fatica tra ombrelli, persone e pozzanghere a bordo di una tavola con quattro ruote.

In altri giorni avrebbe adorato la pioggia. Quelle infinitesimali goccioline infrangersi contro la sua pelle di porcellana.

Era pur sempre diversa - o almeno così si considerava - e la sua diversità la portava ad amare cose che altri odiano. E quel fenomeno atmosferico era un perfetto esempio.

Mentre altri la maledirebbero perché appena lavatisi i capelli, lei li avrebbe lasciati infradiciarsi senza alcun tipo di problema.

Mentre altri si sarebbero lamentati di un weekend saltato, lei sarebbe benissimo rimasta alla finestra a guardarla scendere.

Mentre altri l’odiavano, lei l’avrebbe semplicemente amata.

Ma non quella mattina.

Quella mattina decisamente la detestava. Non è che la “detestava” nel senso letterale della parola: era come se non riuscisse ad accettare il fatto di non potersela godere almeno per un po’.

Adorava giornate come quelle, sebbene nascondessero dolore. Molto dolore.

 

Una giornata piovosa. Una quercia al centro di un parco. Una tredicenne di ritorno da scuola.

Sedeva sul suo zaino all’ombra dell’albero e fissava attentamente il paesaggio davanti ai suoi occhi: ridenti colline - non tanto ridenti, quel giorno - avvolte da una fitta nebbia ed acqua piovana.

Una situazione tranquilla, immaginerete. O, perlomeno, una situazione tranquilla sino a quel momento.

Tutto un tratto, due liceali - avevano forse uno o due anni in più di lei - le si avvicinarono senza alcuna valida ragione.

-Ehi bambina, cosa fai fuori di casa a quest’ora?- le chiese il primo, castano dal ghigno perennemente dipinto sul volto.

-Dai, corri, altrimenti mammina incomincia a preoccuparsi!- continuò l’altro, moro con un cappellino in testa.

I soliti simpaticoni che giocano a fare i grandi, pensò ingenuamente. Ma, in realtà, non si capacitano di essere loro i bambini.

Oh, come si sbagliava!

-Non avete niente di meglio da fare che perdere del tempo prezioso?- domandò beffarda, scattando in piedi. -Mi fanno decisamente pena quelli come voi, che se la prendono con chi non è alla propria altezza solo per puro divertimento, perché sanno che con i propri coetanei ci rimetterebbero qualche dente.-

Quelli rimasero perplessi, confusi. Soltanto poi scoppiarono in una risata fragorosa, pensando che si trattasse di qualche assurdo scherzo.

In fondo, chiunque sapeva chi erano i due e qual era la loro reputazione. Lei non poteva rappresentare un’eccezione.

-Ci prendi in giro, mocciosa?- disse il moro. -Sai, è meglio per te che sia così.-

-Già, perché non ci piacciono quelli come te. I saputelli della situazione, per intenderci.- Accompagnato a queste parole, arrivò una forte stretta ai fianchi piuttosto grassocci della ragazzina. -Soprattutto se i santarellini sono dei bambocci obesi come te.-

-Ridicoli.- Lo mormorò, per via dei pizzicotti che, piano piano, si facevano sempre più dolorosi. Quasi si sentiva la circolazione sanguigna interrotta.

Sputò sulle scarpe del bruno indignata, colui che padroneggiava quella morsa, quasi sperando che quel gesto potesse restituirle la libertà. E, soprattutto, dargliela vinta.

Ma quello era solo l’episodio iniziale di un capitolo della sua vita non ancora concluso. Lei, però, questo ancora non lo sapeva.

Dopotutto, come poteva?

Quel gesto, al contrario, finì solamente con il peggiorare le cose.

Uno schiaffo. Due, tre.

Qualcosa riguardo l’acquisto di nuove scarpe. Insulti pesanti ed offese.

Ebbe la strana sensazione di immaginarsi come un’ebrea ribelle, appena scoperta a fare qualcosa che non doveva, maltrattata - in quel caso, però, non in pubblico - da un soldato tedesco, all’epoca della Germania nazista.

Ormai aveva perso il conto degli schiaffi che stava ricevendo in pieno volto.

Si sentiva sanguinare, ma non voleva cedere. Non voleva dare quella soddisfazione tanto ambita a quei due.

Il moro, come per rivendicare l’amico, calciò il suo zaino in un pantano e vi camminò ripetutamente sopra - non prima di essersi accertato che le scarpe fossero abbastanza sporche.

Intanto l’altro, finito con la razione di sberle, la spinse così forte da farla inciampare e successivamente cadere a pancia in giù nel fango.

La lasciarono lì, derisa, mentre loro si allontanarono sghignazzando.

-Spero tu abbia imparato la lezione!- esclamò uno, ma non riuscì a comprendere chi data la sua lontananza.

La pioggia continuava a cadere, infischiandosene del destino di quella ragazzina indifesa. Per la prima volta, quel fenomeno che tanto adorava le parse infinitamente crudele.

 

Come se provasse ancora profonda umiliazione per quel giorno - e il che era vero. Insomma, non era riuscita a difendersi, segnando nel suo destino qualcosa che poteva perfettamente essere evitato -, abbassò lo sguardo.

I suoi occhi si scontrarono contro i suoi piedi ermeticamente premuti contro la tavola di legno. Guardava lo skate correre veloce sul marciapiede e schivare con abilità qualsiasi ostacolo gli si presentasse davanti.

Avrebbe potuto benissimo dire, mentendo spudoratamente, di non aver più rivisto quel ragazzo - di cui aveva difficoltà a rammentare il nome. Ethan? Ivan? Ma il problema non era quello, bensì era che lui, il suo nome, lo sapeva perfettamente! - da quando le aveva donato generosamente il suo skateboard. Tanto, a chi vuoi che importi?

Sebbene mentire era ciò che forse le riusciva meglio, questa volta non poteva. Era come se quella faccenda, in fondo, fosse estremamente importante nella sua futilità.

La Napanee High School - il liceo che frequentava - non era un grande istituto e conteneva un numero modesto di allievi, quindi trovare una qualunque persona al suo interno non risultava un’ardua missione. Ed era forse lo stesso pensiero che anche lui aveva avuto.

Poco tempo dopo quel giorno, si erano rincontrati casualmente nel giardino sul retro, sotto il solito salice. Nessuno dei due avrebbe mai pensato che, di lì ad un mese circa, quello sarebbe stato l’inizio di una serie di ricreazioni - all’esterno o, se pioveva, vicino alla vetrata a guardar piovere - passate a  contemplare tutto ciò che li circondava e, in primis, il cielo.

Avevano trascorso, più che altro, tempo ad osservare le nuvole e a discutere riguardo le forme strane che assumevano, che a parlare di loro stessi e di ciò che preferivano o meno. Eppure, soltanto avendo a disposizione fattori tanto irrilevanti, le sembrava di avere così tanto in comune con lui, con un perfetto estraneo: entrambi erano due tipi riflessivi e piuttosto profondi.

E, diavolo, quanto adorava quando formulava uno dei suoi pensieri poetici!

Nonostante tutto, però, non ancora riusciva a fidarsi, ad aprirsi completamente a quella nuova situazione: le faceva ancora uno strano effetto essere accettata almeno da una persona. Quel passato, il suo passato, la opprimeva con forza, schiacciando anche il più piccolo ed innocente bagliore di allegria.

Aveva paura che ogni sua azione potesse essere influenzata da esso e, a sua volta, influenzare il futuro in modo irreversibile.

Aveva paura di condizionare - e condizionare cosa, poi? - la vita di qualcun altro che non fosse lei con i suoi problemi, di trascinarlo nel suo stesso supplizio.

Aveva paura e basta.

Arrivò finalmente davanti ai parcheggi sul retro della scuola e saltò giù dalla tavola, che, in fretta, ripose al sicuro dentro il suo zaino. Non voleva che quei disgraziati, vedendola, potessero inveirvi contro per il semplice fatto che era lei a possederla, non una miglior presenza.

Quello skateboard aveva uno strano valore affettivo - sebbene fosse stato uno sconosciuto a regalargliela - e non avrebbe permesso a niente e nessuno di farla a pezzi. Per qualche strana ragione ci teneva parecchio.

Si diresse con passo svelto verso l’ingresso, che sciamava di alunni pronti ad affrontare l’ennesima giornata scolastica. Di lì a poco la campanella sarebbe suonata e tutto ciò che voleva era arrivare in tempo in classe, per sfuggire a quei due.

Ma, non appena svoltò l’angolo che l’avrebbe portata sulle scalette d’ingresso, si ritrovò davanti quei due, i disgraziati. Sapeva cosa volevano.

-Ehi, Ramona, bella mattinata, eh?- annunciò Thomas al riparo sotto il suo bel cappellino.

-Perfetta per donarci, generosamente, la tua merenda.- continuò Jake, adagiato comodamente contro il muro dell’edificio. -Chissà cosa ci avrai portato oggi…-

Avril si affrettò a cacciarla dallo zaino e la poggiò sulla mano sinistra del moro, stesa come se volesse chiedere una qualche offerta caritatevole. Non voleva assolutamente perdere tempo con loro, non si meritavano nemmeno la soddisfazione di vederla opporsi.

Inizialmente rimasero attoniti. Insomma, non aveva opposto nemmeno un po’ di resistenza?!

Poi, si congedarono, con un falso sorriso in volto.

-È bello fare affari con te.- sentì dire dal bruno.

Riprese a camminare anche lei, ma più lentamente. Guardava le sue scarpe da tennis nere inciampare in piccole pozzanghere d’acqua e lasciare successivamente leggere impronte lungo la via che percorreva.

Ramona.

Il suo secondo nome.

Aveva iniziato ad usarlo molto, ma molto, meno da quando aveva amaramente scoperto di essere vittima di bullismo, sebbene le piacesse proprio per via della sua particolarità.

Essendo, però, un nome così insolito, era per questo usato anche come oggetto di derisione contro se stessa. Veniva pronunciato con un tale disprezzo da quelli solo per recarle un fastidio immenso.

E qual è il risultato? Era finita con l’odiare il suo secondo nome.

Eppure, se tanto l’odiava, perché a lui lo aveva confessato?

La campanella suonò.

Si strinse un poco di più nel suo cappotto e si mimetizzò tra la folla, che si accalcava sempre più verso l’ingresso, fino ad essere inghiottita da quei lunghi corridoi spogli.

 

***

 

-Non trovi rilassante il modo in cui l’acqua piovana scende dal cielo?- chiese Evan senza, però, ricevere alcuna risposta.

Era una ricreazione come tante e, come ogni ricreazione, non aveva perso il tempo per sgattaiolare fuori dalla classe ed incontrarsi con quella ragazza talmente misteriosa nel corridoio che dava sul retro.

-Se uno non lo studiasse, credo che si penserebbe ad una magia.- aggiunse.

Ma continuava a non ascoltare.

Avril continuava a lanciare delle occhiate fugaci prima fuori dalla finestra, poi al suo viso - quel fantastico viso incorniciato da degli splendidi capelli biondi - ed infine a quella mela solitaria che sostava nel suo portapranzo. Quando si voltò in sua direzione, la sorprese ad osservare proprio quest’ultima.

-Fammi indovinare: questa mattina un barboncino con la rabbia ti ha aggredita strappandoti via la merenda?- ridacchiò ironico.

Effettivamente, ogni giorno si inventava sul momento scuse alquanto improbabili - del calibro “Mi è caduta in un tombino” -, invece di optare per la pura e semplice verità, anche se questa avrebbe potuto avere risvolti negativi sulla prima cosa bella che le stava capitando dopo che Matt era andato a lavorare in Italia.

Finalmente si decise a proferire parola: -Simpatico.- borbottò, cacciandogli la lingua. -L’ho semplicemente dimenticata.-

L’ennesima bugia, sospirò.

Il ragazzo prese istintivamente il frutto, lo pulì appena con la stoffa della sua maglia e glielo cedette. Dal canto suo, non ci pensò due volte: accettò in silenzio la gentile concessione, dandole un morso.

-Posso farti una domanda?- Quella frase uscì fuori senza pensarci due volte. E, magari, nemmeno voleva uscire.

Non appena lo vide annuire, si schiarì la voce ripetutamente: -Cosa ne pensi del mio secondo nome? Ramona, intendo.-

Evan si sporse verso il davanzale.

-Sai qual è il mio parere sui doppi nomi?- la sollecitò. -Fortunato chi li possiede! Non so, è come sentirsi doppiamente importanti. Cioè, uno può chiamarti o in un modo, o nell’altro… o magari entrambi. E quando li pronunci assieme, non so, è come far parte per un attimo di una famiglia reale.-

Vedendo che la ragazza se ne stava lì, ammirata, ad ascoltare, decise di continuare: -Prendi me, ad esempio. Credi che da bambino mi piacesse David? Certo che no, ovvio.  Mi dava fastidio quando veniva pronunciato con sdegno, quasi come fosse reato.-

Sempre più simili.

Si sentiva come… compresa?

Non sapeva spiegarselo. Non provava una cosa del genere da tanto tempo.

-Eppure, col passare degli anni, mi ci sono affezionato. Ho iniziato a vederla così, come se fossi dietro ad una maschera, come se il mio essere David fosse coperto e non volesse venire allo scoperto. David è un po’ la mia essenza, la mia anima. E questo mi piace.-

Staccò un altro pezzo dal suo panino.

Avril è la maschera di Ramona.

Non l’aveva mai pensata in quella maniera. Invece, ora le sembrava un discorso piuttosto sensato per quanto contorto.

Avril era il lato che mostrava in pubblico, quello migliore di sé. La buccia, la maschera.

Ramona era il suo lato, quello più nascosto, quello fragile e debole. La sostanza, l’anima.

Presentarsi con entrambi i nomi era una formalità, come non potesse farne a meno. Ma ciò non significava che sentiva di appartenere entrambi i lati di sé.

Da tempo si vedeva come Avril, quasi si fosse dimenticata del suo vero io, sebbene emergesse nei momenti di sconforto. Ramona era morta e risuscitarla era impossibile.

-Dicevi… Ramona. È così unico. Avrei dato milioni per avere un nome splendido come questo. Non che Avril non lo sia, eh! Non fraintendermi.-

Adorava quando si comportava così. La faceva scoppiare in una risata fragorosa.

Rise anche quella volta.

-Lo adoro, in pratica. Spero lo adori pure tu.-

-Credo sia così.- mormorò con un sorriso appena accennato.

Tornarono a guardare fuori.

-Non hai risposto al mio precedente quesito, però.- disse, riferendosi chiaramente alla pioggia.

Proprio prima che aprisse bocca, la ricreazione decise di concludersi.

Lo vide allontanarsi in fretta. Gli occhi azzurro cielo pieni di tristezza, come se gli dispiacesse di non aver potuto finire quell’interessante discorso

Si girò, diretta per tornare il classe. Ma, dopo nemmeno qualche secondo, una voce la immobilizzò.

-Comunque, il mio nome è Evan!- urlò alle sue spalle.

No, aspetta. Come diavolo ha capito che non mi ricordavo come si chiamasse?

-A domani, Ramona.-

Quando si voltò per salutarlo, purtroppo era già sparito dietro l’angolo.

Arrivederci, David.

E in quel momento tornò quantomeno ad apprezzare quel buffo secondo nome che si ritrovava.

In quel momento si sentì, anche solo per pochissimi secondi, nuovamente Avril Ramona Lavigne.

 

 

 

 

Angolo dell’autrice

Salve gente. *schiva della frutta che le stanno lanciando contro*

Ehi, ehi, calma! So che non aggiorno dal 19 marzo ma non mi sembra il caso di scaldarsi così tanto!

Giovanni: Ma anche no!

Sempre a sostenermi te, eh? Bravo, congratulazioni.

E meno male che gli amici dovrebbero sostenerti…

Sarò veloce, anche perché non ho granché da dirvi.

Cosa ne pensate di questo “bel” capitolo? Io sono abbastanza soddisfatta, non so voi. Ed è anche bello lungo, così mi faccio perdonare l’assenza.

*sottofondo di grilli*

No, eh? No.

Spero di essere più veloce nel prossimo aggiornamento (insomma, peggio di sei mesi non posso fare!), anche perché iniziamo ad addentrarci sempre più nella narrazione.

Comunque, avevo progettato di rendere questa fan fiction piuttosto lunga (un trenta/quaranta capitoli), mentre invece credo ne saranno una quindicina, forse venti (se non anche di meno). Sto progettando anche un sequel di questa storia e non vorrei prolungarmi troppo.

Sì, ho idee molto chiare: sono appena al terzo capitolo e già penso al sequel.

Giovanni: Fortuna che non avevi nulla da dire.

Già.

Tutto qui, credo.

Ci si vede presto al quarto capitolo. E in recensione.

With love,

Solluxy ♥

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