Let's get lost

di BlackSocks
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo Primo - Ciliegie e cannellini. ***
Capitolo 3: *** Capitolo Secondo - Pensieri e Pallottole ***
Capitolo 4: *** Capitolo Terzo - Pace e Precipizi ***
Capitolo 5: *** Capitolo Quarto - Scuola e Scintille ***
Capitolo 6: *** Capitolo Quinto - Merletti e Mense Scolastiche ***
Capitolo 7: *** Capitolo Sette - Sentimenti e Sorprese ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Prologo
 
Luglio 1928, nei pressi di Matera, Lucania.

«Rocco!»
L'urlo rimbombò in tutto il piccolo paese. In parecchi alzarono la testa e si voltarono in quella direzione.
«ROCCO!» ripetè
Ogni sillaba era scandita con la lieve flessione dialettale del paese, diversa da quella della città.
A gridare era un bambinetto, definibile con l'unico aggettivo di “scuro”: i capelli erano corvini, gli occhi neri, la pelle abbrozata. Rocco, l'uomo che il bambinetto stava chiamando tanto rumorosamente, era il medico del paesino. Anche se medico non si poteva veramente definire: aveva frequentato il primo anno e poi aveva lascito l'università, ma in qualunque caso era sempre lui il più esperto da quelle parti.
«Antò, ma che vuoi dal dottore?» chiese una vecchietta affacciata dalla sua finestra al piano terra, di fronte alla strada. «E' per mamma!» rispose il Antonio.
A quel punto anche il dottor Rocco si affacciò dalla finestra. «Antò, è arrivato il momento?» chiese al bambino. «Io... non lo so! Vieni a vedere tu!» rispose il bimbo ricominciando a correre verso la fine della strada. Il dottore, visto che erano le tre del pomeriggio, era in pigiama, intento nel suo sonnellino pomeridiano, ma si vestì in fretta e corse verso la casa di Antonio.
Antonio stava andando ad avvisare il padre, che era uscito per lavoro. Quando il bambino arrivò con il padre a casa, ad attenderli c'era una mamma sfinita ma sorridente che cullava un neonato, anche lui scuro, con la pelle olivastra, come tutti i membri della famiglia, ma con particolari occhi verdi chiaro.
Il dottor Rocco salutò il papà Rocco -si chiamavano quasi tutti Rocco lì poiché quello era il santo patrono del paese- ed uscì dalla stanza da letto per lasciar loro un po' d'intimità. Rocco, il padre, abbracciò la mamma, e contemplò suo figlio. Era un bel bimbo. «Nunzia, decidilo tu il nome stavolta.» disse non smettendo di fissarlo.
Mamma Nunzia ci pensò su, poi disse: «Angelo, perché è stato un angelo che l'ha portato da me»


Aprile 1935, Velletri, Lazio.

«Sto per partorire. Portami subito all'ospedale!» strillò Elisa.
«Cara, le doglie sono appena incominciate, ci vorrà tempo...» incominciò pazientemente Lino.
«Mi hai sentita?! Su-bi-to!» lo interruppe.
«Va bene, bene.»
Arrivarono in ospedale nel giro di venti minuti e furono necessari altri dieci per compilare i moduli ed entrare, poi ci vollero altre sei ore perché le doglie fossero tanto forti da chiamare il medico.
Era mezzanotte quando una nuova vita incominciò il suo corso. Era una bambina, sana, forte, con una bella voce acuta e penetrante, di due chili e otto, aveva detto il medico. Prese il nome della madre di Elisa, ovvero Giovanna.
Era una bambina dolce, non si lamentava mai.
«Torniamo a casa domani, Elisa cara» la informò suo marito.
«Così presto?» domandò con sconcerto
«Beh, è la prassi, no? Un paio di giorni.» disse Lino.
«Mmh, hai chiamato tua madre? Dille di venire già da domani» annunciò sbuffando lasciandosi andare sui cuscini. «Ah, e portami un caffè»

 

  ANGOLO AUTRICE: Salve! Eccomi con una nuova storia, cui, in realtà, sto pensado da moltissimo tempo. 
Ho pensato di iniziare raccontanto la nascita dei due personaggi "principali" per far capire un po' la differenza tra i due, tra le loro vite e le loro origini, insomma. Angelo nasce in un piccolo paesino sperduto in Lucania, cioè la Basilicata, mentre Giovanna nasce sette anni dopo vicino Roma, a Velletri, che a quei tempi era un luogo abbastanza agiato e di moda, tipo di villeggiatura.... più o meno.
Insomma, un bello spacco, anche sociale, no?
Che ne pensate? Spero di avervi incuriosito almeno un po'. Che ne dite di lasciare una recensioncina? Suvvia, è semplice :) Okay, adesso mi sto zitta perché è più lungo l'angolo dell'autrice che la storia! .______.

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Capitolo 2
*** Capitolo Primo - Ciliegie e cannellini. ***


Capitolo Primo - Ciliegie e cannellini


Maggio 1928-1929, nei pressi di Matera, Lucania.

Era mezzogiorno. Il sole picchiava sulla terra, la induriva e la seccava, le pietre diventavano incandescenti, gli uomini sudavano, gli animali soffrivano. Quasi tutti si erano riparati dalla calura di maggio in paese. All'ombra c'erano quasi trenta gradi.
Eppure c'era chi di tutto questo ne approfittava.
«Antonio, io però questo...non lo voglio fare» disse Angelino.
«E invece si, lo farai. Dammi na mano!» ordinò il fratello maggiore.
Antonio salì sulle mani congiunte del fratello e si aggrappò ad un ramo del grosso ciliegio.
«Muoviti! Sali!» gli intimò.
Angelino tentennava. Non voleva salire. Non perché avesse paura dell'altezza o fosse pigro, anzi. Di solito quando il fratello gli diceva di fare qualcosa la eseguiva subito, ma quello... era tutta un'altra storia. L'albero apparteneva al signor Grossi, un uomo che abitava fuori città, con una piccola masseria e qualche ettaro di ulivi. Inoltre, sul suo terreno, c'era un grande ciliegio, che proprio di quei tempi faceva i più buoni frutti della zona. Erano la tentazione di molti. Il signor Grossi però era troppo impegnato per raccoglierli e li lasciava marcire lì, inutilmente, come uno sfregio nei confronti della natura.
«Angelo, prendi almeno le ciliegie che ti lancio!»
Proprio in quel mentre dietro di loro sentirono delle urla. Grossi, con tutta la sua enorme stazza, avanzava minacciosamente verso di loro. Antonio cercava di scendere dall'albero il più velocemente possibile, mentre Angelo era indeciso se andare o aspettarlo. La bretella di Antonio però si era incastrata in un ramo. «Idiota, vattene!» gridò allora al fratellino.
Angelino corse come il vento.
Quando arrivò a casa trovò i genitori seduti in cucina, la mamma che cullava il piccolo Vito, il nuovo nato di casa, e il padre che leggeva il giornale.
Raccontò loro la storia. Quel giorno le prese da suo padre, che gli mollo uno scapaccione sul sedere prima di uscire alla volta della Masseria Grossi. Rubare era peccato, glielo avevano detto un centinaio di volte. Quando tornarono anche Antonio, che sebbene allora fosse un tredicenne alto e robusto, si massaggiava sedere. Il Papà si sedette di fronte alla Mamma.
«Dovevi vederli, Nunzietta!» disse ridendo. «Grossi lo minacciava con una sega! Voleva tagliare l'albero!» disse guardando Antonio, che non sembrava per niente divertito.
Anche la Mamma rise.
«E' sempre stato... matto quell'uomo» commentò.
Angelino si avvicinò al padre timidamente, abbassò gli occhi contemplando il pavimento. Si avvicinò ancora di più, fino a quando non gli fu accanto. Allora Rocco alzò la mano e gli accarezzò la testa: era perdonato.
Quella sera dormì bene. Il mattino dopo però la voce della nonna lo svegliò all'improvviso e orribilmente. La nonna. La nonna!
«Oh no!» gridò Antonio svegliato anche lui da quel terribile e inconfondibile suono. I tre fratelli condividevano la stanza, anche se Vito dormiva il più delle volte con i genitori ancora, avendo meno di diciotto mesi.
«Che ci fa la nonna qui?» chiese allarmato Angelo a nessuno in particolare.
«Scappiamo!» esclamò Antonio indicando la finestra mentre si infilava i pantaloni.
Purtroppo la porta si aprì prima che il piano potesse essere realizzato. La nonna entrò nella camera senza bussare, come suo solito, e si posizionò davanti ai nipoti. Era una donna piccola, bruna e magra, per nulla spaventosa, a prima vista. «Quanti anni hai?» chiese ad Angelo anche se lo sapeva benissimo. Antonio si iniziò a rilassare, non era con lui, quella volta, che lei voleva prendersela.
«I-io ne ho s-sei» rispose lui.
«Perchè non hai incominciato la scuola a settembre?» chiese alzando il tono della voce.
Angelino non rispose, in realtà non lo sapeva nemmeno lui.
«Rispondi» gli intimò.
«Non lo so!» disse allora il bambino. La nonna pareva soddisfatta. «Ci andrai da subito. Non voglio un altro nipote ignorante nella mia famiglia» disse alludendo ad Antonio, che si era fermato al diploma di terza media. «Tu da grande andrai anche alle scuole superiori, mi hai sentita bene?»
Angelino aveva sentito e ne era terrorizzato. Aveva sentito dai suoi coetanei storie inquietanti sulla scuola. Ti bruciavano con i ferri roventi, ti appendevano a testa in giù... ti picchiavano con una frusta! No, lui a scuola non volava andare, per nessuna ragione al mondo!
Di scatto, senza pensare, sorpassò la nonna ed uscì dalla porta, poi superò la mamma che portava il pane sulla tavola e la urtò, infine si ritrovò in strada.
Corse, sapendo già dove andare. Era solito andare a trovare il suo cane, Baiamonte, che abitava in una piccola casa nelle campagne di suo padre. Era una masseria piccola, dove di solito gli uomini alloggiavano quando andavano a caccia. Lì c'erano Baiamonte e sua madre, Sentinella.
Baiamonte era il cane di Angelino, ed Angelino era il padrone di Baiamonte, non c'era legame più forte. Erano inseparabili. Inoltre li legava un segreto. O meglio, Angelo credeva fosse un segreto anche se non lo era propriamente: nessuno sapeva il nome di quel cane, tranne lui, e nessuno sapeva come chiamarlo. Era per questo, forse, che erano così legati.
Si andò a rifugiare nella masseria, nonostante fossero diversi chilometri a piedi.
A mezzogiorno gli venne fame. Accentuata dalla sua fantasia, per mezzo della quale si paragonava agli eroi dei suoi racconti preferiti, la sua fame divenne un tormento incredibile, torturato da terribili demoni che lo facevano patire per privarlo del suo coraggio.
Correva in giro saltellando e gridando “Non mi avrete, sporchi demoni maligni!” trascinandosi dietro il povero Baiamonte accaldato.
Alla mezza decise che era ora di tornare a casa e salutò Baiamonte. Una volta arrivato sentì il profumo delle patate al rosmarino e prezzemolo, dei taralli freschi in forno e della zuppa di cipolle.
Sbirciò dalla porta d'ingresso, che era sempre aperta come consuetudine nei piccoli paesi, e non vide nessuno, tranne Vito, seduto su una panchetta che mangiava le sue patate. Entrò.
Mentre si avvicinava furtivamente al fratellino minore, sentì la porta sbattere dietro di lui e si voltò di scatto. La nonna la bloccava con le braccia e lui era in trappola.
«Andrai alla scuola pomeridiana!»
A quella nonna, così terribile, così odiosa, così temibile, si deve tutto il futuro di quel bambino.
Se lui non avesse messo piede in quella scuola io non sarei qui a raccontarvi questa storia.
Non solo a scuola nessuno lo appese a testa in giù, anzi!, a scuola si divertì come non mai. Era bravo con i numeri per natura, aveva un istinto naturale che lo spingeva ad andare sempre avanti, ad essere il migliore. Sapeva già leggere meglio di tutti i suoi compagni, merito della madre e della sua passione per la poesia e i romanzi, e presto si ritrovò ad essere il preferito dell'insegnante.
«Ecco qui il nostro geometra!» esclamava il padre quando tornava.
«Macché, lui sarà un medico!» ribatteva la madre.
Solo Antonio lo guardava di sottecchi. Angelo però non se ne accorgeva. La sera sognava tutti i cannellini e le caramelle che avrebbe ricevuto come premio il giorno dopo.
Così passò un anno.
«Oggi quanti anni compi?»
«Sette!» rispose lui pronto alla signora che gli pizzicava insistentemente la guancia.
«Bravo!» esclamò lei come se fosse merito suo il fatto di essere arrivato a quella veneranda età.
«Angelino! Vieni, veloce, che facciamo tardi!» esclamò il padre.
Quel giorno andarono fino a Matera per vedere il cinema. Era un regalo stupendo. Angelo non c'era mai andato. Fu lì che per la prima volta si innamorò.
«Sposerò Mary Pickford» sussurrò.

 


ANGOLO DELL'AUTRICE: SALVE! Ringrazio veramente
chi segue questa storia, è meraviglioso sapere che ho interessato qualcuno!
So di aver cambiato nome alla storia tremila volte, ma sono un po' scema e spero mi perdoniate. Alla fine QUESTO è il TITOLO DEFINITIVO.
Parliamo di questo capitolo? PERDONATEMI!
Non c'è ancora la storia d'amore. Si, si lo so: la sto facendo troppo lunga...ma l'infanzia mi sembra un periodo importante. Non vorrei tralasciarla.
Penso che nel prossimo capitolo già inizierà a succedere qualcosina.
Comuque vi ho dato un'indizio. Molto probabilmente non conoscete la Pickford, sinceramente nemmeno io la conoscerei se non me ne avessero parlato i miei nonni e mia madre non avesse una passione sfrenata per i vecchi film (che condivido in parte).
In questo capitolo ho parlato solo di Angelo, è vero, nel prossimo non sarà così.
Allora, spero, a sabato prossimo bellezze.
-Blacksocks

 

P.S. le recensioni non sono d'obbligo, ma sono assolutamente gradite ;)
 

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Capitolo 3
*** Capitolo Secondo - Pensieri e Pallottole ***


Capitolo Secondo - Pensieri e Pallottole
 
Aprile 1945, nei pressi di Avellino, Campania.

Jo scese le scale di corsa, anche se era buio, e si precipitò in cucina. Nella stanza aleggiava odore di caffè, come sempre ogni mattina. Suo padre era già uscito per raggiungere la caserma a piedi, sua madre si era alzata per fargli compagnia e aveva bevuto la solita intera macchinetta di caffè, poi era tornata a letto. Infondo erano soltanto le cinque del mattino. E Jo era in ritardo.
Aveva i folti capelli biondi legati in una treccia ed era vestita con una gonna blu lunga fin sotto il ginocchio, calze di lana, cardigan di lana pura e pesanti stilali di cuoio. Nella borsa aveva delle scarpette di ricambio.
Prese due uova, le ruppe in un bicchiere, ci versò tre cucchiai di zucchero ed un po' del caffè che era rimasto nella macchinetta di sua madre, mescolò il tutto.
Dopo la sua colazione uscì di casa, era pieno aprile, ma lei aveva ancora freddo, come del resto aveva sempre avuto da quando si erano trasferiti su quella montagna isolata e solitaria.
Il suo paesino distava quasi otto chilometri dalla città principale, Avellino. Non erano solo l'aria umida ed il freddo che le facevano rabbrividire le ossa, per completare il quadro mancavano le luccicanti bombe che qualche volta cadevano persino lì. Era solo una bambina quando la guerra era scoppiata e aveva vissuto la sua infanzia tremando mentre guardava case a pochi passi da lei andare a fuoco, crollare.
Avrebbe voluto rimanere nella sua vecchia casa, a Velletri, ma sua madre aveva deciso che era troppo pericoloso, così si erano trasferiti lì, in un paesino tanto piccolo da non essere nemmeno segnato sulle mappe. Eppure anche là qualche volta i disastri accadevano.
Si diceva che la guerra sarebbe finita presto, che tutto sarebbe tornato alla normalità. Jo lo sperava talmente ardentemente da sentirsi quasi il piccolo cuore andare a fuoco.
Arrivata appena fuori dall'atrio della scuola si tolse i pesanti stivali e infilò le belle scarpette più eleganti. Non poteva certo presentarsi con degli scarponi a scuola!
Aveva solo dieci anni, ma frequentava già la terza media. Era intelligente e soprattutto ostinata. Voleva riuscire negli studi, voleva diventare un medico e aveva bisogno di tempo.
Entrò nella sua classe, dove tutti la superavano in altezza di almeno due palmi, e si sedette.
Le lezioni la interessavano, ma adorava in particolar modo l'ora di musica. In classe erano in pochi, giusto una decina, nessuno voleva mandare i propri figli a scuola con il rischio che gli cadesse una bomba in testa. Nemmeno sua madre aveva voluto mandare il suo fratellino, Lorenzo, nonostante ormai avesse sei anni. A volte Jo aveva l'impressione che sua madre volesse più bene a lui, poi però si rimproverava molto per questi cattivi pensieri e cercava di essere grata per quello che aveva.
Quando tornò a casa trovò sua madre che si preparava ad uscire. Andavano a trovare lo zio, in ospedale, e a portargli qualcosa da mangiare. Lo zio Vincenzo era un medico che si era trasferito lì per stare vicino alla sorella, che con due figli piccoli ed il marito quasi sempre assente aveva bisogno d'aiuto.
«Vuoi venire?» le chiese la madre.
«Certo!» rispose prontamente Jo. Ogni occasione era buona per conoscere meglio il mestiere che avrebbe fatto, quindi amava andare dallo zio. E poi sentiva che era la cosa giusta da fare, anche se non sapeva bene il perchè.
«Perfetto, così terrai buono Lorenzo» sorrise la madre soddisfatta.
Lorenzo era un bambino... vivace, forse un po' capriccioso, forse un po' viziato. Giovanna però gli voleva bene. L'ospedale era pieno, come al solito, più di soldati che di civili. Erano stati tutti feriti, o peggio, uccisi, mentre cercavano di salire per le montagne. Il piano non era andato molto bene, si può dire. Forse era quello il problema: i comandanti non sapevano quello che stavano facendo ed impartivano ordini a caso. Tipico. «Jo, resta qui.» le ordinò la madre.
Jo si sedette su uno sgabello, con il suo paffuto fratello in braccio, che le dava calci nella pancia. Cercava di tenerlo buono, gli carezzava la testa, gli cantava ninnananne ma Lor non ne voleva proprio sapere. Non voleva disubbidire alla madre, ma quando Lor le dette un calcio così forte da farle mollare la presa e scappò non ebbe altra scelta che seguirlo. «Ehy! Lor, no!» gli gridò inutilmente.
Il bambino si era già infilato dietro una tenda. Jo non si domandò nemmeno se potesse o meno entrare, perché seguì il fratellino senza pensarci. Si infilò anche lei dietro la tenda.
Lanciò un urletto di sorpresa.
La prima cosa che vide fu il sangue. Tanto sangue. La seconda cosa che vide fu suo fratello che saliva sulla barella. La terza cosa furono due occhi verdi.
Guardò il ragazzo disteso sulla barella. Non era gravemente ferito, ma dalla spalla gli usciva del sangue per via di una pallottola. Non era particolarmente urgente, quindi nessuno al momento si occupava di lui.
Lorenzo era salito sul letto, mentre il ragazzo ridacchiava, per osservargli meglio la ferita. I bambini trovano sempre interessanti le cose più strane. Angelo si voltò per vedere il suo secondo visitatore e le sorrise. «Ciao»
Jo guardò il ragazzo. Non sapeva cosa rispondere, l'ipotesi di dire a sua volta “ciao” non le passava nemmeno per la testa. Lo guardava con occhi sgranati.
Alla fine optò per un “salve” poco convinto.
Angelo era disteso sulla barella con il torso scoperto e ogni tanto si premeva una garza sulla ferita mentre Lorenzo lo guardava, estasiato dalla vista di una vera ferita.
Jo uscì dal suo stato si catalessi ad occhi aperti e si rese conto all'improvviso di cosa stesse accadendo. «Lorenzo! Scendi subito da lì!» disse mentre lo tirava per le braccia. Lorenzo ebbe la tentazione di mettersi a piangere e pestare i piedi per terra, ma poi si calmò per non sfigurare davanti al suo nuovo amico. Metteva in soggezione anche lui.
«Non ti preoccupare, non mi da fastidio» disse Angelo sorridendo «Non mi fa nemmeno tanto male» aggiunse.
«Ma non hai freddo?» gli lei chiese indicando con un cenno al petto.
Angelo scosse un poco la testa. «Non direi freddo, forse un po' freschetto»
Jo prese lo scialletto che aveva intorno al collo e glielo diede. «Grazie»
«Non sei un po' troppo giovane per... essere nell'esercito?» gli chiese. In effetti, nonostante la barbetta che stava cercando di farsi crescere Angelo aveva ancora dei tratti un po' infantili.
«Non sono nell'esercito, sono nella guardia di finanza... e poi...» disse abbassando la voce quasi ad un sussurro «si... ho diciassette anni.»
Lei lo guardò come se fosse pazzo. Ed in effetti era quello che pensava. La guerra sarebbe finita a breve e lui si arruolava anche senza obbligo, solo per farsi sparare? Inoltre era illegale mentire sull'età, anche se qualcuno lo faceva lo stesso.
«Non guardarmi così...» disse lui abbassando lo sguardo, poi sorrise di nuovo «non sono matto»
Jo non poté fare a meno di ricambiare il sorriso. Non aveva mai conosciuto un ragazzo così avvenente. Lei però non era quel tipo di ragazza, ne mai lo sarebbe stata.
Con un gesto brusco si allontanò un po' dal lettino e si sedette su una sedia poco lontana.
«E allora cosa sei?» chiese un leggermente acida.
«Mmh» Angelo si portò due dita sulle labbra per pensare prima di rispondere «quando ero piccolo, mio fratello maggiore ed io eravamo molto legati. Lui si è arruolato nell'esercito quando ha compiuto diciotto anni. Tutti erano orgogliosi di lui, me compreso. Da allora è stato promosso tenente. Allora... io ho sempre sofferto la sua mancanza da quando è andato via.» a questo punto la guardò, era solo una bambina, si chiese perché le stesse raccontando tutto questo, ma poi si lasciò andare. Aveva bisogno di sfogarsi.
«Io ho sempre frequentato la scuola del paese, e sono arrivato al diploma un anno prima del solito, ma ho sempre avuto l'impressione che non fosse abbastanza. L'università costa... parecchio, sai? Non siamo una famiglia povera, anzi, ma mio padre ha sempre voluto educarci in un certo modo, a me ed ai miei fratelli, intendo: ci siamo dovuti pagare tutti gli svaghi, tutti gli studi, con il sudore. Andavamo a tagliare gli alberi delle nostre foreste, per poi rivenderne la legna, se volevamo andare al cinema, capisci? Per andare all'università avrei dovuto disboscare mezza Basilicata» rise lui.
Jo incominciava a comprendere. Di solito nell'esercito o nella finanza gli uomini studiavano con delle agevolazioni. Poi Angelo continuò «Comunque così posso laurearmi dando gli esami con la finanza. Mi sto laureando in legge. Quindi direi che per ora sono solo un laureando» concluse accennando alla prima domanda di Jo.
«Non potevi aspettare un anno?» gli chiese lei.
«La guerra sta per finire... io... volevo contribuire all'aiutare il paese.» rispose incerto.
«GIOVANNA!»
La voce rimbombò in tutto l'ospedale e in parecchi, compresi i malati meno gravi, girarono la testa.
«Oh caspita!» disse Jo prendendo suo fratello per il polso.
«Quindi, mi pare di capire che tu ti chiami Giovanna» disse lui.
«Jo» precisò.
«Io sono Angelo. Spero a presto» disse mentre lei sgattaiolava fuori dalla tenda.
Non aveva mai conosciuto una bambina così intelligente.
«Il tuo scialle...» bisbigliò quando lei era ormai lontana.

 
ANGOLO AUTRICE: Salve! Allora... che ne pensate? 
Vi piace il soprannome Jo? Io l'adoro *^*
Sinceramente ho amato scrivere questo capitolo. Vi piace il modo in cui si sono incontrati? So che tra i due c'è molta differenza d'età, ma è anche questo il romantico della storia... anche se a volte è un po' difficile da gestire :S
Oggi è il mio compleanno! Però regalo io questo capitolo a voi (spero gradito v.v).
Ci rivediamo sabato prossimo dolcezze.
P.S. GRAZIE A CHI A RECENSITO, CHI HA AGGIUNTO QUESTA STORIA ALLE SEGUITE E CHI LEGGE! MI RENDETE FELICE *^*

 

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Capitolo 4
*** Capitolo Terzo - Pace e Precipizi ***


Capitolo Terzo - Pace e Precipizi 

LA GUERRA ERA FINITA! L'OTTO MAGGIO LA GERMANIA SI ERA ARRESA, PER LE STRADE C'ERA GIOIA E I CUORI DI TUTTI CANTAVANO: FINALMENTE LA PACE!

Dopo i primi festeggiamenti la vita era tornata alla normalità in Europa: si riavviavano i pochi negozi rimasti, si riaprivano le serrande delle case, si ricostruivano gli edifici crollati, il tutto molto, molto lentamente.


Seconda metà di Giugno 1945, Avellino, Campania.

Aveva temuto quel momento fin dal principio, fin da quando gli era stato annunciato.
Aveva sempre odiato quel genere di sorpresa. Ed inoltre la vedeva come una cosa inutile e fastidiosa.
Non tanto per il fatto che era anche umiliante, starsene lì in piedi nudi fino all'ultimo calzino, insieme a tutti i propri commilitoni, in una stanza piccola e stretta, con lo sguardo attento e penetrante delle infermiere puntato addosso, ma la cosa che lo terrorizzava era l'ago lungo come minimo quindici centimetri che incombeva contro di lui.
Si domandò se ne valesse la pena. Quasi quasi preferiva ammalarsi... se non fosse stato obbligatorio...
Quando uscì, come tutti gli altri prima di lui, si massaggiava la natica violentata.
Doveva però rimettersi in forma. Quella sera Angelo sarebbe uscito con l'incantevole Claudia. Ora la guerra era finita, i cinema stavano riaprendo (o meglio, l'unico cinema aveva riaperto) e la gente aveva voglia di passeggiare e ballare.
Indossò la grigia divisa perfettamente stirata e le scarpe lucide, poi si pettinò i baffetti e i mossi capelli scuri, che portava corti come tutti i soldati, nonostante odiasse quanto mettessero in evidenza le orecchie.
Il venerdì era la sua serata di libertà. Uscì con due suoi amici, Carlo e Gianni, dalla caserma e si diresse verso il quartiere più bello e ricco della città. Avevano appuntamento per le sette.
Giusto in tempo per la fine del turno delle ragazze, come domestiche, e l'inizio del cinema.
«Un giorno abiterò in un palazzo così» sussurrò Angelo sovrappensiero, ma non così lievemente perchè gli altri non lo sentissero.
«Si! Ti piacerebbe eh!» lo canzonò Carlo. Angelo non si risentì più di tanto, soprattutto poiché in quel momento fu distratto dall'arrivo delle tre ragazze.
«Buonasera!» dissero in coro i ragazzi. Le tre ragazze si guardarono tra loro e sorrisero.
Che figura da idioti che abbiamo fatto pensò Angelo. Poi prese Claudia sottobraccio e incominciarono ad incamminarsi verso il cinema.
«Ti fa ancora male la spalla?» gli chiese lei.
«Mmh, non proprio... però dovrò andare di nuovo all'ospedale a farmi ricontrollare.» rispose lui.
«Che coraggioso!» esclamò la ragazza. Angelo sorrise.
«Non direi. Comunque che vi va di vedere?» chiese lui, cambiando imbarazzato argomento, rivolto a tutti.
«Qualcosa di divertente!» propose Claudia, e le altre ragazze annuirono convinte.
Le labbra di Claudia erano morbide e sapevano di dolce, adorava baciarla. Le piaceva il suo profumo, il suo corpo, i suoi capelli... ma non era sicuro di volerla un giorno sposare. Di certo lei si aspettava questo. Comunque Claudia credeva, anche, che lui ne avesse venti, di anni. Le aveva lasciato credere quello che lei pensava, quindi non la considerava un vera e propria bugia.
A diciassette anni sposarsi è fuori questione, anche se con una ragazza bella come quella. Non riusciva ad immaginare di svegliarsi tutte le mattine con lei al fianco, anche se riusciva benissimo a congetturare le notti.
Quella sera quando rientrò in caserma si sentiva oppresso leggermente dal senso di colpa. Non stava forse ingannando quella ragazza? Non era come tradirla?
«Angelo Del Colle?» chiese il portinaio.
«Si?» rispose Angelo avvicinandosi all'uomo, mentre i compagni lo aspettavano.
«Una lettera» disse consegnandogli una busta di carta marrone, sulla quale l'indirizzo era scritto in maniera sicura, ma sbadata, infatti c'erano macchie d'inchiostro.
«Grazie!» rispose. Andò nello stanzone dove dormivano e si sdraiò sul letto.

 
Caro Angiolino,
ti sto scrivendo per informarti che nel giorno del 30 Giugno papà partirà nuovamente per l'America. Questa volta starà via poco, dice. Parte, come sempre, dal porto di Napoli. Ora che la guerra è finita, prenderà la prima nave. Tu sei abbastanza vicino da venirlo a salutare, Antonio forse non verrà, perché la settimana scorsa è andato a Roma.
Qui tutti bene. Mamma ha sempre mal di schiena,lavora troppo.
Nonna ultimamente riposa molto più spesso, credo sia la vecchiaia, ma non si è niente affatto raddolcita. Baiamonte sembra malato di nostalgia, gli manchi molto. Appena puoi fai un salto a casa a salutarlo. Io sto benone invece: tra poco avrò il diploma di terza, lo sai già, e credo che prenderò proprio un bel voto! Ho chiesto alla mamma di fare il liceo in una città più grande, dove si studi sul serio, ma per ora non ne vuole parlare, finché papà non torna, ha bisogno di qualcuno in casa.
Ora ti lascio e vado a studiare. Spero che la lettera ti arrivi in tempo, o che almeno ti arrivi.
 
Saluti, tuo fratello Vito.



Fine Giugno 1945, Napoli, Campania.

Due occhi verdi incontrarono un paio di occhi neri.
«Vito!»
I due fratelli si abbracciarono. Non si vedevano da quasi sei mesi.
«Sei arrivato giusto in tempo: la nave parte tra mezz'ora. Papà ti sta aspettando!»
Prima di abbracciare suo figlio Rocco lo guardò attentamente, notando che era cresciuto. Gli sembravano pochi giorni da quando lo aveva visto nascere e crescere. Era sempre stato così vivace!
Era felice di averlo rivisto dopo tanto tempo. Lo strinse tra le braccia come aveva già fatto con Vito, e lo baciò sulla guancia. Sarebbe stato via per qualche mese, forse sei, come al solito.
Ora che la guerra era finita non c'era un attimo da perdere: bisognava riallacciare tutti i vecchi contatti per vendere l'olio e il grano delle proprie terre, anche oltreoceano.
Prese le sue due piccole valigie e salì sulla transoceanica girandosi indietro un'ultima volta. Sorrise a sua moglie e ai suoi figli.
Rimasero tutti lì, su quel molo, fino a quando la grande nave non si vide più.
«Quando torni?» gli chiese la madre.
«Stasera... ho un permesso solo per una giornata, ma c'è tempo... possiamo farci una passeggiata» sorrise Angelo.
«Noi partiamo con te. Restiamo ad Avellino per qualche giorno» lo informò la madre.
«Mi fa piacere! Ma non potremo comunque vederci spesso... non mi fanno uscire tutte le sere»
«Oh, non ti preoccupare! Troveremo qualcosa da fare» disse allegro Vito.
Il piccolo era contento di vedere Avellino, come lo era di vedere Napoli, perché sperava, un giorno, di venire a studiare lì.
«Qui la città è ancora in rovine, più o meno, quindi per ora non c'è molto da visitare. L'hanno rasa al suolo... ad Avellino è andata meglio, sapete? Lì ci sono state delle bombe, ma fortunatamente alcune sono inesplose. E poi c'era la Madonna di Montervergine a proteggerci. Possiamo andarci, se vi trattenete abbastanza» disse loro Angelo.
La madre era molto religiosa, molto più dei figli, ed era felice di rendere omaggio, quindi acconsentì.
Napoli era quasi distrutta. Era stata bombardata quasi senza sosta durante la guerra. Il porto aveva ripreso a funzionare per i civili, ma il resto della città era paralizzato. Migliaia di persone erano rimaste senza casa, molti, a distanza di settimane, non sapendo dove andare, erano rimasti a vivere nelle cisterne dell'acqua che erano state usate come tunnel sotterranei anti-bombardamento.
Il bellissimo lungomare, il centro storico, la parte alta della città: tutto era stato preso di mira.
Verso sera una macchina della finanza diretta ad Avellino diede loro un passaggio.
Il due visitatori dormirono in un hotel, mentre il cadetto tornò in caserma.
Il venerdì successivo Angelo prese in prestito una macchina e li accompagnò al Santuario, che si trovava su una montagna.
La strada era molto tortuosa, ispida, piena di curve. Di notte sarebbe stato ancora più difficile guidare. C'erano molte persone però, come loro, che facevano quella strada, sia in macchina che a piedi.
«Angelo stai attento! Oh!» gridava la madre ad ogni curva «Vai troppo veloce! Poi ti fa anche male la spalla, è pericoloso! Rallenta!»
«Mamma, più piano di così... facciamo prima ad andare a piedi»
«Siamo arrivati? Io dovrei andare in bagno» disse Vito.
«Quasi!»
Alla fine arrivarono presso il luogo di culto, dove c'erano già più di un centinaio di persone.
«Va bene, io vado» disse Vito dirigendosi verso il bosco. Angelo e la madre invece decisero di visitare il monastero. «Non vieni con noi? Va bene, ci rivediamo qui tra due ore, capito?»
«Va bene!» disse Vito, anche se non aveva un orologio. Si sarebbe basato sulle proprie percezioni e sarebbe arrivato in ritardo, beccandosi la solita sgridata.
Il bosco che circondava il posto era grandissimo, tutto in salita. Lì le curve strette continuavano fino alla cima della montagna, e qualche volte erano a precipizio sul vuoto. Gironzolò un po' a caso. Gli piaceva la natura, l'odore della terra e degli alberi, il canto delle cicale, l'aria fresca sul viso. Era salito piuttosto in alto, tanto da non sentire più le voci dei pellegrini, era il caso di tornare indietro, pensò. Forse erano già passate le due ore.
Un urlo.
Voltò la testa ed iniziò a camminare, a correre in quella direzione.
In quel momento sentì qualcuno. «Aiutami!» gli disse
Vito si avvicinò alla staccionata «Ma cosa diamine stai facendo?» le chiese mentre le porgeva la mano per aiutarla a scavalcare.
Con un saltello Jo atterrò sui piedi. «Volevo guardare di sotto» gli disse.
«E perché?» domandò lui, alzando la voce, stupito.
«Per vedere cosa c'era di sotto» rispose lei semplicemente.
«Sei per caso matta?»
«No! Non era mia intenzione di sicuro finire fuori dalla staccionata... sono scivolata!» rispose lei offesa. Vito continuò a guardala in modo strano. Sembrava effettivamente un po' toccata, quella bambina. Si diressero verso il santuario, in discesa.
«Allora... sei anche tu in visita alla Madonna?» chiese Jo.
«Più o meno.»
«Lo hai già visto il Santuario? Io almeno un milione di volte, è molto bello, vero?»
«No, non l'ho visto» rispose lui. Era sempre stato timido con gli estranei, in particolar modo quelli che giudicava strani.
«Ma come! Se vuoi ti faccio da guida» gli propose. Vito annuì sbadatamente.
Jo al contrario trovava simpatico quel ragazzo e voleva rendergli il favore di poco prima, dimenticando che l'aveva chiamata matta. Era estroversa con chi si trovava bene, con i ragazzi della sua età.
Arrivarono nel parcheggio, Jo lo portò a vedere la splendida vista. Poi dentro al monastero, anche se alcune zone era vietate alle donne, Jo riuscì a sgattaiolare senza farsi notare. Le statue era bellissime, come i quadri, e Jo amava tutto ciò che era arte.
«Come ti chiami?» gli chiese.
«Vito» rispose lui, poi, rendendosi conto che lei stava ancora aspettando, le domandò «e tu?»
«Giovanna, ma chiamami Jo»
Il monastero era un luogo molto tetro e scuro, ma con un suo fascino. Alla fine del giro Jo salutò il suo nuovo amico e andò a cercare sua madre.
Vito invece si diresse al parcheggio.
«Allora! E' un'ora che aspettiamo!» lo sgridò la madre.
«Scusa»
Quando, il giorno dopo, partirono in treno, ci furono grandi abbracci.
«Vito, cercherò di convincere mamma a lasciarti venire, ma non prometto nulla» gli disse il fratello maggiore dandogli una pacca sulla spalla.
«Grazie» annuì Vito, raggiante. 

 
ANGOLO AUTRICE: allora, allora! Finalemte un po' di intrecci e intrallazzi, eh? Lo adoro. Il capitolo è uscito più lungo di quanto volessi, quindi magari anche meno scorrevole, mi spiace u.u
Comunque, che ne pensate?
La piccola Jo ha appena conosciuto il suo principe azzurro o preferirà il bel cadetto? Susu, aspetto le vostre opinioni!
A Sabato!
P.S. grazie per le recensioni e per aver messo questa storia tra le seguite, sul serio, vi adoro c:


 

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Capitolo 5
*** Capitolo Quarto - Scuola e Scintille ***


Capitolo Quarto - Scuola e Scintille

Fine Agosto/inizio Settembre 1945, Avellino, Campania.

La Domenica Jo era solita andare in ospedale, dopo la Messa, per osservare e magari anche aiutare suo zio. Adorava la medicina, non la impressionavano ne sangue ne viscere e aveva una mano ferma e leggera.
«Allora piccoletta, tra poco ricomincia la scuola, eh? Che cosa fai quest'anno?» le chiese lo zio mentre consultava una cartella.
«Quest'anno farò il quarto ginnasio, zio» rispose lei.
«Che brava! E invece Lorenzo?» continuò lui.
«Lui farà la prima elementare, anche se la mamma sta cercando di fargli fare il salto in seconda»
«Ah bene! Finalmente. Sai, certe volte non capisco proprio tua madre. Poteva tranquillamente iniziare l'anno scorso, no? Sei ce l'hai fatta tu, poteva farlo anche lui. Adesso partirà già svantaggiato. Comunque, piccoletta, che ne pensi di aiutarmi con questa signora qui? Questa bellissima signora! Buongiorno signora Sammarco!» disse lui, rivolto ad una donna seduta su una sedia con l'aria molto annoiata.
«Le fa ancora molto male, la gamba?» chiese lui, mentre la faceva stendere sul lettino. Poi prese una siringa e una boccetta contenente l'antidolorifico e li diede a Jo. Le indicò il punto in cui doveva pungere e, ignorando il borbottio della signora Sammarco, le fece praticare la puntura.
«Bene, adesso vai a vedere se la signorina Lontacci ha bisogno di aiuto, Jo» le ordinò.
Jo andò a cercare l'infermiera.
«Signorina, ha bisogno di aiuto? Lo zio mi...» la sua voce si affievolì di colpo quando notò che vicino alla signorina Lontacci, steso sul lettino, c'era il ragazzo che aveva incontrato qualche mese prima, proprio in quello stesso punto, in ospedale.
«Oh, Jo, ciao! Si, in effetti perchè non cambi tu la fasciatura? Non ti preoccupare, ragazzo, lei è molto brava» aggiunse rivolgendosi a lui. «Quando hai finito, Jo, vieni da me al piano di sopra, va bene?» chiese. Jo annuì. Poi l'infermiera si allontanò.
«Sbaglio, o io e te ci conosciamo già?» chiese lui.
«Mmh, mi pare di si...» disse lei voltandosi a prendere la garza ed il disinfettante. La verità era che lei vi aveva pensato molte volte, ed ogni volta che si recava in ospedale sperava intensamente di rincontrarlo.
«Ho ancora il tuo scialletto, sai?» continuò lui.
«Ah si? Puoi tenerlo, ne ho tantissimi uguali... li fa mia madre» disse lei.
«Beh, grazie» disse lui, sorridendo, mentre si sbottonava la camicia. Jo notò che aveva dei lividi sul busto.
«Non sono gravi, risse da caserma» disse Angelo seguendo il suo sguardo «nessuna costola rotta, mi hanno già visitato all'infermeria della finanza» concluse.
«Ah, quindi sei un tipo che... fa a botte» disse lei, mentre sbendava la spalla.
«Uhm, diciamo solo per le giuste cause» rispose lui, sempre sorridendo. Gli piaceva quella bambinetta, era sveglia e loquace.
«Non esistono giuste cause per la violenza. Comunque, la ferita è quasi del tutto guarita.» disse mentre passava il disinfettante sulla pelle, con delicatezza.
«Giusto. Quanti anni hai per essere così saggia?» chiese lui per prenderla in giro, anche se lo pensava veramente. Jo sorrise.
«Ne ho quasi undici.» rispose, alterando solo di poco la verità.
«Molto matura per la tua età! Io ad undici anni non pensavo ad altro che giocare»
«Si? A cosa?» chiese lei interessata.
«Mmh, mi piaceva molto giocare alla guerra ed io ero il generale. Certe volte mettevo i vecchi stivali di mio padre, che erano il doppio dei miei piedi, e comandavo tutti i bambini della mia scuola, anche quelli più grandi. Ora che ci ripenso mi trovo leggermente ridicolo, soprattutto perchè ora in guerra ci sono stato sul serio» disse lui rabbuiandosi.
«Com'è la guerra? Cioè, intendo dal campo di battaglia...» chiese lei seria.
«Uhm... forse la definirei polverosa. Avevo sempre terra e polvere dappertutto» rispose Angelo.
Jo sorrise. Quel ragazzo le piaceva sempre di più: era simpatico, gentile, sincero.
«Ecco, ho fatto» disse la bambina allontanandosi.
«Ti ringrazio» disse lui, mentre lei andava alla ricerca della signora Lontacci.
Quella sera Jo tornò a casa saltellando al fianco dello zio.
«Sei felice che ricominci la scuola, eh, piccoletta?»
«Ehm... si, si.»
Quando venne settembre l'aria incominciò ad essere più fresca ed una mattina sua madre l'accompagnò a prendere le cose per la scuola nel negozio più fornito della città.
«Vado a cercare i quaderni, mamma» disse Jo, mentre la madre conversava amabilmente con una signora che frequentava la loro stessa chiesa.
Le servivano dei quaderni con i righi e con i quadretti. Mentre, dopo averli presi, stava ritornando verso la cassa notò una figura familiare. «Ciao» disse esitante toccando la spalla del ragazzo di fronte a lei, che si voltò di scatto. Due occhi la scrutarono, poi all'improvviso il viso cambiò espressione.
«Mi hai riconosciuta?» gli chiese.
«S-si, ciao» disse Vito, voltandosi di nuovo alla ricerca delle penne.
«Allora... che ci fai qui?» chiese lei insistentemente, girandogli affianco.
«Quello che vedi: compro le cose per la scuola» rispose lui, seccato.
«Oh, beh si... io lo stesso. Quindi anche tu vieni a scuola qui? Che coincidenza! Io farò il quarto ginnasio, tu in che classe sei?» continuò lei, ignorando il tono del ragazzo.
«Si, anche io» rispose, sperando, senza dirlo, che non andassero nella stessa scuola. Quella bambina era fin troppo loquace «Aspetta, ma tu quanti anni hai? Nove? Come fai ad andare al liceo?»
«Ne ho dieci, di anni» precisò lei «e comunque, io, sono di qualche classe avanti»
«Quindi sei tipo... un genio?» chiese lui sarcastico.
Jo non rispose, osservando attentamente la struttura di una matita. Odiava essere presa in giro riguardo la sua età, e ciò non accadeva di rado. Era sempre stata la più piccola in qualunque situazione.
«Tu hai un accento strano» disse poi posando la matita e cambiando argomento.
«Non è strano... sono di Matera, o meglio, di un paesino vicino a Matera» disse lui, leggermente offeso.
«Oh, vi siete trasferiti?»
«No, io solo. Sono qui al convitto.»
«Non ce ne era uno a Matera?»
«Non così importante. Io vorrei studiare sul serio. Sai, uno dei miei fratelli si sta laureando e diventerà avvocato. Voglio essere all'altezza» disse Vito, serio.
«Anche io voglio prendere una laurea» disse lei e, ignorando il sorrisetto beffardo di Vito, continuò «...in medicina»
«Non esistono i dottori femmina, al massimo le infermiere»
«Non è vero» disse lei, arrabbiandosi.
«Non sono fatti miei, comunque» disse lui mentre se ne andava.
Lei lo rincorse dopo qualche secondo e prima che il ragazzo uscisse dalla porta lo afferrò per la manica e sorrise, dimenticandosi della scortesia di poco prima, dicendo «Ci rivediamo a scuola... anche io frequenterò il Convitto»


 
ANGOLO AUTRICE: Buonaseraaa/giornoooo! Allour, che ne dite?
E' corto, si, non ho avuto molto tempo... nemmeno per correggerlo, scusate gli eventuali errori grammaticali e/o lessicali, ma ho riletto solo una volta in tutta fretta perchè sono abbastanza occupata (e tipo sto uscendo di testa).
Allora... Vito e Jo andranno in classe insieme eh? Ohoh... però non sembrano andare molto d'accordo. Nel prossimo capitolo inoltre accadrà un fatto inaspettato (vabbè, si, dai, inaspettato... per quanto concede la mia "grandissima" fantasia...).
Okay, ora vi lascio, spero vi piaccia e... ricordatevi di recensire :)

 

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Capitolo 6
*** Capitolo Quinto - Merletti e Mense Scolastiche ***


Capitolo Quinto - Merletti e Mense Scolastiche

Fine settembre 1945, Avellino, Campania

Vito era disteso sul suo letto, nel camerone che divideva con altri nove ragazzi, nella parte del dormitorio maschile del Convitto. Era sicuro che domani sarebbe stata una giornata tremenda. Non solo perché lo spaventavano le materie -parlando con gli altri ragazzi aveva capito di essere molto indietro- ma c'era anche quella bambina stramba che cercava insistentemente di far amicizia con lui. Dopo l'episodio in cartoleria l'aveva incontrata ancora e lei non aveva fatto altro che chiacchierare amabilmente, anche se lui non aveva fatto niente per incoraggiarla. Inoltre lo imbarazzava il fatto di non avere una cartella nuova o scarpe dal taglio più elegante da mostrare. Sua madre spendeva molti soldi per mandarlo in quella scuola, non voleva di certo che ne spendesse di più, ma in un certo modo si sentiva a disagio con i suoi abiti.
Quella notte dormì male, e non solo per il ragazzo che russava accanto a lui.
Quando la mattina scese, prima nella mensa e in seguito in classe, si rese conto però che la differenza non era poi così marcata. C'erano, si, ragazzi vestiti con eleganza e ragazze con i colletti di merletto, ma anche ragazzi come lui, con gli scarponi ai piedi.
Si sedette al penultimo banco, vicino alla finestra. Da quel punto vide entrare dalla porta la bambina che tanto lo aveva angosciato. Aveva i lunghi capelli biondi legati in una treccia, un vestito di mussola azzurra e calze bianche. Era molto elegante e sembrava veramente provenire da una famiglia ricca, anche se non era propriamente così. La madre teneva che la figlia vestisse come una principessa, anche a costo di risparmiare altrove.
Jo guardò i suoi nuovi compagni, anche se non notò Vito, e prese posto nella seconda fila delle cinque.
La osservò. Era molto più bella e delicata di tutti gli altri compagni, anche delle ragazze più grandi e di condizioni economicamente più agiate.
Quasi tutti sedevano nei propri banchi, parlando con i vicini, chiacchierando, ridendo, alcuni erano in piedi, tranne Jo e Vito.
Ad un certo punto un ragazzotto si avvicinò a Jo.
«Che ci fai qui? Questo è il quarto ginnasio, non la quarta elementare» disse acidamente mentre le prendeva la treccia tra due dita.
Jo si girò. Lo osservò bene. In quel momento Vito si chiese se fosse il caso di intervenire.
«E tu invece? Questa è una classe, non un porcile» rispose lei tranquillamente.
Vito si irrigidì. Perchè andava sempre in cerca di guai quella ragazzina?
«Come ti permet-» iniziò col dire il ragazzo, ma proprio in quel momento entrò l'insegnate.
Lasciò andare la treccia e tornò al suo posto sotto lo sguardo severo della professoressa. Tutti gli studenti si alzarono. Vito si accorse, con suo disappunto, di essere in ansia per Jo.
Ridicolo, pensò, cosa me ne importa?
La professoressa si sedette alla cattedra. «Buon giorno!» disse sorridendo.
«Buon giorno professoressa» risposero loro mentre tornavano a sedersi, nello stesso modo in cui salutavano l'insegnate alle medie.
«Io sono la professoressa Fellaci e vi insegnerò lettere. Questo comprende: italiano, letteratura, greco e latino... e più in la anche filosofia. Spero che queste materie vi piacciano. Allora! Il primo giorno, eh? Siete contenti? Beh, comunque, oggi inizieremo a studiare l'alfabeto greco. Qualcuno qui già lo conosce? Pochini...» disse la professoressa mentre guardava solo Jo con la mano alzata.
«Ragazzi, ormai siamo grandi, no? Io credo in un metodo di insegnamento meno tradizionale. Per prima cosa cominciamo a cambiare i posti, così non va. Un ragazzo ed una ragazza per banco. Voi, si, voi tre la dietro, perchè non venitè qui in prima fila? Bene, grazie. Piccola, tu resta lì, sei bassina... ragazzo ecco tu vai qui, e tu vai lì, laggiù- sei alto!- ecco... ci siamo! Adesso passiamo alle presentazioni.» concluse un po' affannata dal grande agitar di braccia.
Jo sorrise al nuovo compagno di banco. Lui, nonostante tutte le sue suppliche, era capitato proprio vicino a chi non voleva. «Te l'avevo detto che ci saremmo rivisti a scuola!» sorrise la bimba.
Vito voltò la testa.
Nel frattempo la signorina Fellaci era già andata avanti con le presentazioni, ed era il turno di Jo.
«Io sono Giovanna Grandimiglia, sono di un paese in provincia di Roma, ma mi sono trascferita qui con la mia famiglia qualche tempo fa. Ho quasi undici anni ed ho un fratello, Lor, più piccolo» disse seria.
«Caspita! Undici anni! Una bambina prodigio» commentò l'insegnate, fancendo diventare Jo rossa fino alle orecchie. «Andiamo avanti» disse riferendosi a Vito.
«Emh, mi chiamo Vito Del Colle, ho tredici anni, sono di Matera e sono qui al convitto»
Si presentarono tutti e le lezioni passarono, finalmente arrivò lo spacco di metà giornata e tutti scesero nella mensa.
«Allora, che te ne pare? Ti piace la nuova scuola? Ti trovi bene? Che ne pensi della signorina Lontacci? Io la trovo molto carina... ehy, allora? Mi rispondi?» chiese Jo agitatissima mentre cercava di stargli dietro mentre lui invece cercava di allontanandosi da lei. «Perchè mi segui?» chiese esasperato.
«Mica ti sto inseguendo! E' questa la strada per la mensa! Cooomunque, mi rispondi?»
«Non riesco a capire nemmeno una parola di ciò che dici! Vai troppo, troppo, troppo veloce.» disse lui fermandosi improvvisamente.
Jo sorrise «Scusa»
«Niente.» rispose Vito, sorridendo a sua volta.
«Ecco qui la bambina prodigio!» disse ridendo il ragazzotto della stessa mattina, accompagnato da altri tre ragazzi. Per schernirla tutti quanti passarono acconto a lei inchinandosi ripetutamente.
«Lasciali stare, sono degli idioti» disse Vito vendendo che Jo era diventata molto rossa in viso. «Tu arrossisci facilmente, eh?»
«Si... mia madre dice che secondo lei soffro di cuperosi» rispose portandosi le mani fredde sul viso.
Vito la guardò strabuzzando gli occhi e allontanandosi da lei di qualche passo.
«Ehy! Non è mica contagiosa!» rise lei dandogli un colpetto sulla spalla «Significa solo che ho i capillari sangugni fragili»
Rise anche lui. Infondo, non è tanto male, pensò, carina e simpatica... più o meno.
«Come ti è parso il ginnasio?» gli chiese cambiando argomento.
«Molto difficile, per ora.» rispose lui leggermente sconsolato.
«Ma dai... non così difficile. Io lo trovo molto più interessante della scuola media, sai? Lì era tutto abbastanza noioso, sempre le stesso cose, le stesse materie... chissà, magari qui sarà tutto più divertente!»
«Mah, io non ci conterei...»
«Ma sei tu che sei voluto venire qui!»
«Si, e non me ne pento. Sono sicuro si ciò che ho fatto ma... certe volte credo che forse... nah, niente»
«Dimmi!» ordinò lei toccandogli la spalla.
«Niente, niente... forse non ho abbastanza testa per andare così avanti negli studi, ecco.»
Lei lo guardò, seria, negli occhi e capì che quel che lui stava ammettendo con tanto imbarazzo poteva essere vero. Era diffcile diplomarsi per chi veniva dai paesi, lì le scuole erano molto più facili. In quel momento decise che lo avrebbe aiutato. Era un bravo ragazzo, era gentile più degli altri, anche se forse era introverso?, si, forse era quella la parola adatta, o semplicemente timido. Sapeva però che non avrebbe mai accettato l'aiuto se gli fosse stato offerto così direttamente... era meglio giocare d'astuzia.
«Lo pensano tutti, credimi. Non ti scoraggiare, vedrai che presto ti abituerai a questi ritmi... se ti va possiamo studiare insieme! Così ci aiutiamo a vicenda... sai, così è più facile» disse lei mentre sorrideva.
«Mmh, credo di... si» disse Vito titubante, c'era qualcosa nel modo in cui lei glielo aveva proposto che ricordava una velata beneficenza.
Entrarono nella mensa e assaggiarono per la prima volta un tipo di cibo che non avrebbero dimenticato mai più. «Oddio, mi sta salendo su! Che roba è?» disse disgustata lei portandosi una mano allo stomaco.
«Se fossi in te non lo finirei... c'è qualcosa di nero in questa pasta e fagioli... credo si stia muovendo»

 
ANGOLO AUTRICE: Oddio, scusate per il ritardo, il mio ENORME ritardo, ma sono stata in vacanza senza pc! In pratica isolata o quasi dal mondo... e scrivere dal telefono mi sembrava veramente da pazzi (sopratutto se vedeste il mio piccino, piccino telefono).
E mi spiace.
Cooomnque.... che ne pensate del capitolo? DITEMI TUTTE GENTE! Dai, dai, che sono felice oggi :3

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Capitolo 7
*** Capitolo Sette - Sentimenti e Sorprese ***


Capitolo Sette - Sentimenti e Sorprese
 

«Vuoi ancora una fetta di torta?» chiese Elisa gentilemente. Chissà perché quando c'erano ospiti sue madre diveniva improvvisamente molto gentile.
«No, grazie, ma era buonissima» rispose Vito.
«Oh, non fare complimenti!» contunuò la donna mettendogliene un'altra bella fetta nel piatto. Vito guardò Jo, uno sguardo disperato. Gli sembrava di essere nella casa di Hansel e Gretel, all'ingrasso per poi essere fatto arrosto.
«Mamma, penso che Vito stia per fare un'indigestione...» ridacchiò la bambina.
«Oh, che sciocchezze! Guardalo, è un mucchietto d'ossa, proprio come te! I bambini hanno bisogno di zucchero, per crescere!»
«Non sono sicura che tre fette di crostata, due panini con la marmellata, due mele, una torre di frittelle e un'arancia gli facciano tanto bene...» continuò lei, ma la madre finse di non sentire. Suonò il telefono.
«Ora vi lascio studiare, eh.» disse mentre andava a rispondere velocemente.
Vito si portò una mano allo stomaco. «Non mi sento molto bene, Jo»
«Oh, dammi qui.» prese la crostata, l'avvolse in un fazzoletto e gliela mise in cartella.«La darai a qualcuno stasera, va bene?» chiese preoccupata, perché il suo amico stava diventando quasi viola.
«Mmh» annuì lui.
«Ce la fai a tornare al greco?» domandò lei.
«S-si» rispose lentamente.
Ogni pomeriggio, alle cinque, quando finiva la scuola, andavano a casa di Jo e studiavano fino alle sette. Ormai era un'abitudine. Elisa trovava Vito simpatico, perchè stava quasi sempre zitto e lei poteva raccontargli tutte le sue storie. Vito non trovava altrettanto simpatica Elisa, però... ecco da chi aveva preso la parlantina Jo! Sotto qualunque altro fronte, però, erano completamente diverse.
«Penso che stasera ci fermeremo qui. Ti va una passeggiata?»
«Per digerire, intendi? Si!» annuì energicamente lui.
Uscirono fuori in giardino, nel fresco delle sere di Aprile.
«Dopodomani è il mio compleanno...» buttò lì Jo.
«Undici anni? Farai una festa?»
«Magari, spero che mia madre dica di si. Sto cercando di convincerla, sai... ma chiederò a mio padre.»
Vito annuì. A lui non piacevano le feste, a parte quelle che si facevano nel suo paese in giorni particolari come Ferragosto o il giorno della Festa della Bruna, ma lì era diverso... era con tutta la sua famiglia. Gli mancavano, sopratutto sua madre.
«Perché sei triste?» chiese Jo.
«Stavo pensando alla mia famiglia.» rispose sinceramente. Ormai le comunicava ogni suo pensiero, erano diventati amici in quei mesi e lui sentiva di potersi fidare, inoltre non lo giudicava o prendeva in giro, mai.
«Ti manca?» chiese, preoccupata.
«Un po'. Soprattutto ora che mio fratello partirà. Sai, va con gli alpini... quindi non lo rivedrò per un pezzo» rispose.
«Tuo fratello, quello che di solito vai a trovare la domenica?»
Vito annuì.
Jo gli passò un braccio intorno alle spalle. «Dai, tra poco ci saranno le vacanze estive! E poi vedrai che il mio compleanno ti tirerà su.» sorrise lei.
«Ah, il mio compleanno è tra un mese: vorrei un regalo bello grosso, grazie» scherzò Vito.
Jo rise.
«COSA CI FATE VOI DUE QUI FUORI? VOLETE PRENDERVI UNA POLMONITE?! SENZA NEMMENO IL CAPPOTTO, CIELO!»
Jo e Vito si scambiarono un'occhiata e poi scoppiarono nuovamente a ridere, correndo al caldo nella casa.
Il mattino dopo Jo cercava ancora di convincere sua madre a lasciarle fare una festa.
«Mamma, per favore! E' proprio il destino, quest'anno è capitato precisamente di Domenica. Per favore!»
«Dai, Elisa, lasciaglielo fare...» si intromise Lino.
«Oh! Adesso ci ti metti anche tu, eh!» disse esasperata Elisa puntando l'indice sul marito. «E sia. Ma sia chiaro che non ho intenzione di cucinare per trenta bambini, lo farai tu.» disse sempre rivolta a Lino.
Jo guardò preoccupata il padre, forse alla sua festa avrebbero mangiato solo prugne secche in scatola, pazienza... avrebbe dato la sua prima vera festa! Sorrise entusiasta.
Lino aggrottò la fronte. Certe volte sua moglie lo lasciava perplesso. Annuì rassegnato.
«Jo, cosa... cosa mangiano di solito i bambini?» chiese in un sussurro quando Elisa fu lontana. «Mmh... credo pane e marmellata, percoche al tè, qualcosa al cioccolato e una torta.» rispose lei. In realtà quelli erano i suoi cibi preferiti.
Il giorno dopo avrebbero iniziato i preparativi. Suo padre si svegliava sempre prestissimo, per andare in caserma, e con lui anche la madre. Poi, poco prima che suo padre uscisse Jo scendeva di corsa le scale, mezza addormentata, per salutarlo. Erano le cinque meno venti quando saliva a svegliare anche suo fratello. Di solito ogni mattina si beccava un paio di calci nelle costole. «Nooooooooooooooooooo!» urlava il bimbetto.
«Lor, faremo tardi. Devi alzarti, presto» lo rimbeccava lei.
Di solito era costretta a sollevarlo per le braccia, ma qualche volta anche quel sistema era inutile poiché continuava a dormire in piedi.
«Lor, arriveremo in ritardo!» cercava di scuoterlo dolcemente, ogni mattina.
Poi lo portava in bagno, lo vestiva e lo pettinava. Lo accompagnava al piano di sotto, in cucina, dove lo lasciava a fare colazione. Poi di corsa saliva di nuovo su, si vestiva e si intrecciava i capelli biondi, che ormai erano lunghi fino alla base della schiena.
Dopo aver mangiato la sua super veloce colazione a base di uova crude usciva di corsa di casa, con il saluto “il signore vi accompagni” della madre.
A passo svelto attraversava le campagne che separavano la sua casa di periferia al centro della città, dove lasciava Lor a scuola, e poi correva verso il convitto.
Erano le otto e cinque. Dannazione! Bussò piano alla porta della sua classe.
«Avanti» sentì.
Entrò. Dannazione! La fissavano tutti. Imbarazzata e arrossita si sedette accanto a Vito. Tutti tornarono alle loro occupazioni.
«Tutto bene?» gli chiese a voce bassa e lei annuì. «Ho convito mia mamma» sussurrò sorridendo.
«Bene» rispose lui, non troppo sicuro. Domani sarebbe stato un giorno non proprio divertente. Doveva andare ad una festa, dove c'erano bambini e adulti pronti fare domande, a voler chiacchierare, giocare... e poi c'era il fatto di suo fratello. Dopodomani sarebbe partito, sarebbe andato lontano e non lo avrebbe rivisto per tanto tempo. Il distacco dalla sua famiglia, da suo padre che ora si trovava a migliaia di chilometri di distanza e ora anche da suo fratello... aveva la testa che gli scoppiava.
Guardò Jo, affianco a lui. Era così serena, felice, intelligente... aveva parenti e amici accanto a se e sembrava non le mancasse niente. Sentendosi osservata lei si voltò e ricambiò lo sguardo. E allora, inspiegabilmente, lui si sentì di nuovo felice.
Quando uscirono da scuola lei lo invitò a casa sua per aiutarla nei preparativi. Passarono a prendere Lorenzo e poi corsero a casa. Suo padre aveva comprato tutto il necessario e Jo emise un gridolino di gioia. Lor aprì la bocca meravigliato.
«Grazie papà!» disse mentre lo abbracciava.
Cucinare una torta non fu tanto facile come si aspettava. Una volta finito era piena di farina dalla testa ai piedi, aveva sporcato mezza cucina e c'era più impasto sul pavimento che nel forno. Osservò furiosa i tre uomini che la fissavano dalla porta. «Cosa c'è?» chiese seccamente. «Nulla, nulla, tesoro» rispose suo padre sghignazzando insieme a Vito.
Dopo aver pulito e poi sistemato i festoni, tolto tutti i vasi e gli ammennicoli preziosi, tutti si rilassarono, stesi sul divano, stanchissimi.
«Ho invitato tutta la classe, anche le ragazze della danza, verranno quasi tutti e poi... mamma credo abbia invitato le commari e i cugini. Saremo tantissimi!» disse entusiasta.
«Ma entreranno tutti? Intendo, come faremo stare tutti in questa casa?» chiese Lino, preoccupato. Jo alzò le spalle.
«Il cibo basterà, secondo te?» chiese la bambina.
«Secondo me, no...» iniziò Vito «...sento odore di bruciato...».
«LA TORTAAA!!!» gridò Jo alzandosi dal divano e catapultandosi in cucina.
Si sentì un suono di pentole e tagami e un «Ahià!»
Poi Jo sbucò dalla porta. «Si è...salvata!» gridò esultante.
Vito se ne andò alle sette, prima che facesse troppo buio. Uscì in fretta e percorse le campagne che ormai conosceva come quelle in cui era cresciuto. Tornò in tempo e si sedette su suo letto, ma era talmente stanco che si addormentò quasi subito.
La Domenica arrivò. Un raggiò di sole lo fece svegliare.
Si chiese se anche Jo fosse già sveglia, molto probabilmente si. Si alzò a sedere e poi si vestì. Non voleva affrontare quella giornata, proprio no. Alle sette si teneva la Messa, e tutti gli alunni erano tenuti a presenziare a quella o a quella successiva, alle undici. Di solito alle sette la chiesa era piuttosto vuota, quindi avrebbe avuto il tempo per pensare.
Dopo si recò in caserma e chiese di suo fratello.
«Vito!» gli sorrise.
Vito si gettò tra le sua braccia, anche se non era un gesto da vero uomo, in quel momento non gli importava. Abbracciò suo fratello sentendosi meno solo.
«Mi mancherai anche tu, fratellino...» disse piano Angelo.
«Vorrei che tu non partissi»
«Non preoccuparti, tornerò. Questa potrebbe essere l'occasione che aspetto da molto, potrei diventare tenente, finalmente.» rispose, come sempre sorridente, il fratello maggiore. Teneva molto a questa promozione e quasi sicuramente l'avrebbe ottenuta. Era tra i migliori dei cadetti, aveva ottenuto i migliori risultati nello studio e ora avrebbe avuto ancora più possibilità dopo l'esperienza sulle montagne.
Angelo arruffò i capelli al fratellino. «Ti scriverò tutte le settimane» promise.
Vito annuì, non avrebbe ricordato a suo fratello che le lettere molto spesso si perdevano.
Erano ormai le quattro meno venti quando lasciò la caserma e si diresse a casa di Jo. Aveva quasi pensato di non andare, lei avrebbe capito, ma suo fratello aveva insistito. Forse anche lui aveva qualcosa da fare dopo...
«Eccoti!» lo accolse Elisa. Vito la salutò, cercando con gli occhi Jo. Era attorniata dalle sua compagne della classe di danza. Cercò di incrociare il suo sguardo.
«Sai, Carmela, questo bambino qui» disse Elisa rivolta ad una donna anziana, con strani capelli bordoux e un abito a grandi fiori arancioni «viene molto spesso a studiare con Jo! E vero?» gli chiese. «Frequentano, la stessa classe, sai...» continuò senza aspettare la risposta.
«Oh! Ma che bel bambino!» gracidò l'altra signora avvicinando la sua mano alla guancia di Vito. Il ragazzo indietreggiò. «Dovrei andare... in bagno, scusate» disse allontanandosi dalle ventose di quella donna.
«Vito!» sentì gridare dietro di sé, ma non si voltò finché non si sentì tirare per il colletto.
«Sono io, ehy!» continuò Jo «tutto okay?» chiese, vedendo la sua faccia.
«Certo, si. Auguri.» rispose portandosi una mano alla tasca.
«Grazie» sorrise lei, poi gli prese la mano e lo tirò in giardino. «Tah daaaaah!» urlò «Ti piace?» domandò lei, indicando tutti gli striscioni e le bandierine appesi agli alberi e alla staccionata. Vito annuì con un sorriso poco convinto. Si sentiva in colpa, ma non riusciva a fingere di sentirsi felice, non in quel momento.
Jo continuò a tirarlo per la mano, lontano dal rumore e dalla folla. «Hai salutato tuo fratello?» chiese lei sedendosi sulle radici della quercia. «Si, poco fa.» rispose lui, sedendosi accanto a lei. Non voleva parlare di questo, però. Non voleva intristire nessuno, non quel giorno, non la sua amica. Così tirò fuori dalla tasca un pacchettino. «Per te.» annunciò, porgendoglielo. «Oh.» disse Jo. Non se lo aspettava. Guardò il regalo, impacchettato con la carta di una rivista e colla, e se lo rigirò tra le mani. Si capiva che aveva speso del tempo a cercare di dargli una dignità. «Cos'è?» chiese. Lui fece un cenno del capo per dire di aprirlo.
Ruppe la carta e tra le sue dita scivolò una catenina, poi un medaglione. Jo poggiò la carta a terra e aprì il piccolo gioiello d'argento. C'era una loro foto, fatta forse durante una gita, ritagliata lì dentro. Erano loro due, insieme.
«Oh» ripeté di nuovo Jo. Alzò lo sguardo e incontrò gli occhi scuri di lui. Si alzò e andò ad abbracciarlo. «Grazie, Vito.»
Allentò l'abbraccio. Sentiva il suo cuore battere fortissimo e contro il suo petto sentiva anche quello di Vito. Sciolse le braccia, confusa. Cosa... cosa?
I suoi occhi, lentamente si avvicinarono e poi le loro labbra si sfiorarono.
Un piccolo bacio, innocente. 

 
Angolo scrittrice: Mi scuso, mi prostro in gincchio e chiedo perdono. Sono in ritardo, di molto.
Spero che i miei lettori non si sieano scocciati di me...
Comunque questo capitolo è piuttosto lungo, per farmi perdonare! Aggiornerò sabato prossimo, a presto!

 

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