Still against NHK

di ness6_27
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Chapter 1 ***
Capitolo 2: *** Chapter 2 ***
Capitolo 3: *** Chapter 3 ***



Capitolo 1
*** Chapter 1 ***


Tatsuiro! Scendi, che è pronta la colazione!”

La luce che penetrava dalle tapparelle nella stanza di Sato non era molta. La sua voglia di alzarsi era ancora meno.

“Arrivo!”

Un giorno come un altro, Tatsuiro viene svegliato da sua madre per fare la colazione, consapevole che tutto quello che deve andare a fare dopo è già predestinato: dovrà semplicemente andare a svolgere il suo lavoro part-time, andare a frequentare quel corso al quale è stato iscritto dalla madre “perché Tokyo offre molte possibilità”, tornare a casa per la sera, cenare, e infine, se si ha ancora la forza, mettersi un po' al computer per giocare a qualcosa oppure a masturbarsi.

È un copione già scritto, da una persona che ha davvero cattivi gusti, oppure che odia la vita. Ma in effetti, per quale motivo non si dovrebbe odiare la vita? Cosa ti sta ad offrire? Una serie di dettami da importi da solo per vivere secondo decoro? Le macerie fangose dentro la quale ti rigiri per rifiutarli? Io so cosa vogliono dire sia la prima che la seconda cosa. Io sono stato un relegato della società per ben quattro anni. Non ho mai parlato con nessuno, all'inizio perché lo ritenevo inutile e anche dannoso, ma poi perché non ne sono stato più capace. Mi sono ritrovato nell'ansia più totale quando dovevo parlare con le persone, ritenevo molto più semplice chiudermi nel mio guscio. Ma non come una lumaca. ma come un parassita.

Come un parassita della lumaca, sulla quale ormai avevo preso il controllo e la costringeva a ledersi sempre più, danneggiando infine anche me stesso. Mi sono crogiolato felicemente nella mia solitudine a scapito degli altri. Di chi mi vuole bene.

Poi...

Poi ho conosciuto un angelo. Un angelo dalle lunghe ali bianche, così come candido era il suo viso, che mi aveva detto di volermi tirare fuori dalla mia condizione. E io non gli ho dato ascolto. Cioè, sono sempre stato circospetto, mi sono sempre chiesto perché, come mai un angelo candido e bellissimo come Misaki volesse aiutare un parassita come me. Non so se ho fatto bene, perché purtroppo, e lo dico col cuore in mano, lei non è un angelo. Non come possiamo immaginarlo, almeno. Quelle sue piume bianche sono in realtà lacrime amare, versate e poi solidificate, dimenticate dentro un oblio dal quale escono solo le cose peggiori. Il suo volto candido come la neve inoltre, è così dolcemente niveo solo per nascondere il pallore dei suoi attacchi di panico. È solo una persona già distrutta di suo, che ha solo trovato una persona più sgretolata di lei.

E ha provato tanta, tantissima pena.

Si vestì con una maglietta tutta spiegazzata trovata proprio dove l'aveva lasciata la sera prima, insieme a un paio di bermuda. Si buttò sulla sedia della sua scrivania, a contemplare la sua postazione. Quanto poteva dire di essere suo quel pc, ora che doveva stare attento a chi entrava in camera sua?

Prima lo era molto di più.

Poggiò la testa sulla scrivania, un misto di sensazioni lo percorsero, le conosceva. Sentimenti contrastanti, che lo squartavano e si prendevano un pezzo, non prendendosi praticamente niente. E lui per evitare tutto ciò non poteva fare niente. Si ricordava di quando per la prima volta scoppiò in lui questa scissione tra due: parlava di come fosse diventato lolicon con il suo ex vicino di casa Yamazaki, e alla fine esplose, corse davanti un liceo, e si mise a fotografare ragazzine nascosto dietro un cespuglio, per mostrare quanto un personaggio simile fosse squallido. Lui stesso si trovava squallido, ma nel suo squallore non riusciva a smettere. E si mise anche a piangere.

E pianse anche stavolta. Poggiato sul del legno freddo, pianse come non faceva da tanto, come non fece nemmeno quella volta, nell'inutilissimo tentativo di conservare davanti a Yamazaki della dignità che, oggettivamente parlando, aveva perso.

 

Ma insomma Tatsuiro! Scendi o no?!”

Si asciugò le lacrime, e scese le scale. Salutò tutti e si mise a mangiare.

Hai parlato ieri col capo per quell'aumento?”

“Sì, mi ha detto di ripresentarmi oggi da lui dopo il lavoro.”

Sarebbe così bello! Non hai idea di quanto quell'aumento ci farebbe comodo, visto quello che è successo a tuo padre.”

Mio padre...classico esempio di chi viene ripagato male dalla vita. Si può dire che lui è stato il mio esatto contrario: fin da ragazzo ha avuto una forte dedizione al lavoro. Non dico abbia trascurato il resto, ma era il classico padre che usciva la mattina e tornava la sera. E ora, con cinquanta anni d'età sulle spalle è stato licenziato. Riduzioni di personale, crisi nel mondo del lavoro, e cazzate così. E lui è rimasto fregato, non arriva certo a ottenere la pensione in questo modo, né la vorrebbe. È un serio problema, non sappiamo che fare. Speriamo che riesca ad avere quell'aumento.

 

 

“Beh, poteva andare, peggio, di come stavo per reagire, mi avrebbe potuto pure fare licenziare.”

Alla fine l'aumento non glie lo diedero. Un collega di Sato ebbe un incidente per un problema noto in quell'azienda da tanto. Impaurito dalle probabili cause legali future, il capo di Sato chiuse i battenti a qualsiasi trattativa. Tatsuhiro non la prese tanto bene. Fece un discorso concitato, senza peli sulla lingua, a tono alto, contro di lui e tutto il lavoro che aveva fatto in vista di quell'aumento.

La risposta del capo fu abbastanza laconica: dopo averlo guardato con uno sguardo freddo disse “Ringrazia che hai tuo padre disoccupato, evito di prendere provvedimenti solo per lui.”

Dopo che uscì dall'azienda, Sato s'incamminò verso il corso, e fu allora passò davanti una farmacia. All'inizio girò la testa verso la vetrina senza nemmeno pensarci, poi si bloccò. Ripensò a un evento successo alla fine del suo quarto anno recluso in casa, alla folle scelta che decise di fare, e alle conseguenze che ne susseguirono. Sostanze. Un delirio che lo aveva portato a perdere completamente la poca fiducia rimasta nella società e negli altri.

Credo...sia meglio non pensarci.

Riprese a camminare a passo lento verso quello stupido corso che doveva frequentare.

 

 

Da lì a dieci minuti Tatsuiro si doveva trovare davanti una scuola per seguire un corso. E invece era corso a casa, precipitandosi in garage, e frugando in mezzo a degli scatoloni che non aveva mai aperto da quando era tornato a casa dei genitori. Era sicuro che lì c'era ancora una dose quel mix di farmaci che assunse quella volta. Lo trovò con le lacrime agli occhi, desideroso di scappare via, dove le gambe, neppure quelle della sua fantasia e della sua mente, potevano portarlo. Le narici si riempirono di illusioni, per diventare cianotiche, insieme a tutto il viso, nel buio della sua stanza, con la certezza che nessuno lo avrebbe disturbato. Un giramento di testa, una botta sul pavimento.

E riconobbe subito i suoi vecchi compagni: signor amplificatore e signora tv.

E io sto a manovrarli.

“Signor amplificatore, era da tanto che non ci vedevamo...s-signora tv...”

Parlava con la bava alla bocca, lo sguardo perso tra questi due oggetti.

Come va, Tatsuiro?”

“Eh, come deve andare? Sono quasi due mesi che sono ritornato nel buco di culo della mia città...ormai sono una brava persona. Eheh, ormai lavoro...proprio sono messo benissimo!”

Ridacchiava in preda alle convulsioni come una iena in preda al pasto, mentre sbatteva contro i mobili con gli arti e lasciava bava per terra.

“Eppure...nonostante io lavori, mi sento lo stesso una merda! Mi sento la carogna che ero quando ero un hikikomori! Con la differenza che ora sono costretto ad avere rapporti con le persone...mi sembra sempre lo stesso schifo...e non so seriamente che farci...”

Noi ti avevamo avvertito, Tatsuiro. La condizione di hikikomori non è la tragedia, è forse il male minore. La vita sociale t'impone degli schemi per il puro gusto di farteli seguire, senza ricompensarti mai.”

Tutti gli sforzi che hai fatto per uscire dalla tua condizione da cosa sono stati dettati? Dagli schemi che la società ha cercato subito di importi! E sai attraverso cosa, o meglio chi, lo ha fatto?”

A quell'idea gli occhi smorti di Sato di bagnarono di lacrime, e incominciarono a piangere ininterrottamente.

“No! Basta, non ditemi questo! Vi prego...”

Ma è la pura e semplice verità! Noi avevamo provato ad avvertirti, Tatsuiro, dovevi subito tagliare i ponti.”

“Lei, lei voleva solo farmi del bene! Voleva solo aiutarmi!”

Voleva solo aiutarti con quel suo dannato progetto?! Guarda, il suo progetto non è mica fallito, tu sei uscito dalla tua condizione, non sei più relegato in casa, ma cosa ne hai ottenuto?”

“I-io...”

Esatto, niente, se non altre sofferenze.”

E secondo te, questo quella maledetta Misaki Nakahara non lo sapeva?!”

Sato doveva riuscire a trovare il momento di minore intensità del suo stesso pianto per riuscire a parlare, per rispondere a quelle voci che gli facevano tanto male.

“N...no! No, lei non poteva immaginarlo! Sono io che sono semplicemente un debole, che riesco a dannarmi per tutto quanto, che non riesco a farmi piacere niente!”

Pur ammettendo ciò, fidati, lei lo sapeva...”

“Basta...”

Guarda in faccia la realtà, Sato!”

“BASTA!

Cosa vorresti fare?”

“Voglio smetterla di soffrire! Non ne voglio sapere più niente, né di hikikomori, né di lavoro, di vita, di amore, di niente!”

...E pensare che stavi per intraprendere quella strada per una motivazione stupida come l'amore non corrisposto per la senpai Kashiwa.”

“Proprio quello è un altro discorso che non dobbiamo prendere!”

Perché metterebbe in luce tutta la tua mancanza di spina dorsale?”

“...esattamente...”

Beh, comunque, quella volta stavi per fare una cosa...”

“E tu...tu dici che quella è la soluzione?”

Certo! È sempre la soluzione a tutto!”

“M...ma, i miei genitori? E poi...Yamazaki?”

Cosa, Yamazaki?”

“Sì, ne ho passate delle belle con lui, e lui ancora aspetta me per il gioco...”

Ma tu pensi che ancora quello sta a perdere tempo con i galge? Ormai ha la sua famigliola, la sua azienda agricola da mandare avanti, è distante anni luce da te.”

“Forse hai ragione...ma Misaki?”

Misaki? Sta godendo della riuscita del suo progetto, e se ne sta fregando delle conseguenze. Non devi pensare a lei. Piuttosto...”

Vedi i farmaci che hai preso ora? Ne hai ancora per un bis, forse anche per un tris. Starai meglio con quelli...certo, i farmaci hanno sempre effetti collaterali...ma non starai nemmeno a pensarci.”

Prendili, e buonanotte ai suonatori!”

Li prese. Non sarebbe giusto dire che non ci ha pensato su, ma alla fine li prese.

“Eh-ehehehe, così starò meglio...”

Certamente, tranquillo! Dovrai sopportare solo uno svenimento...ci vorrà un po'.”

“Ah, ho capito, b-beh, e dove sta il problema...”

Dieci minuti e aveva già il respiro un po' affannoso. Chissà qualche principio attivo di quale medicinale gli stava comprimendo in maniera involontaria i polmoni. O forse era solo la paura? La paura di morire? Gli sarebbe andato bene restare col dubbio. Fino alla fine.

Sei triste per caso, Tatsuhiro?”

Per tutta risposta lui perse l'equilibrio, sbatté con la fronte a terra e incominciò a digrignare i denti per il dolore mentre sbavava, ormai quasi perso nel torpore.

“No...”

No?”

Si stava rimettendo a sedere, riusciva ancora a controllarsi.

Per caso stai compiendo ora quello che non sei riuscito a fare con la senpai?”

“No! Ora è u-un po' diverso...quella volta non volevo più-ù vivere perché ero troppo infelice, ne avevo abbastanza, e ce l'avevo col mondo.”

E ora?”

“E ora invece...ho capito che il problema non è l'essere hikikomori o meno...è solo che non solo tagliato per vivere. E mi sta bene così, perché l'ho finalmente compreso. Non sono tagliato per la vita, ma per la morte.”

Mh. Ho capito, beh, forse non hai tutti i torti...”

Ma perché sto cercando di consolarlo? In fondo, non sarebbe bello vederlo soffrire fino all'ultimo?

Forse, visto che mi sono divertito tanto con lui, visto che io sono quel senso di esasperazione che lo ha accompagnato fin dalla sua ultimissima fase di hikikomori, ora provo un certo senso di rammarico.

Come quando un ragazzo capisce che un gioco non lo diverte più e buttandolo sorride pensando a quanto si sia divertito con quel gioco.

Sì, credo che sia più o meno la stessa cosa. Solo che all'ultimo, quando è tornato dai genitori, era convinto che era lui quello che buttava via qualcosa, ossia me, la sua esasperazione.

Invece sta succedendo proprio il contrario. E ora sorrido, mentre lo vedo che socchiude gli occhi...per l'ultima volta.

Ma...”

“Uh?”

...ora che succede?”

Sato si risvegliò col rumore del telefonino che squillava. Allungò la mano sul tavolo, tastando a caso.

Ma lascia perdere, che t'interessa chi è?”

“Ma non rompere, fammi dire a qualcuno che sto per morire! Tanto, sarà qualche operatore telefonico che lo prenderà per un...”

Lesse, e lessi pure io, quei fastidiosi ideogrammi che componevano il nome “Misaki Nakahara”.

“Dovrei...rispondere...”

Si appoggiò al piede della scrivania, ci strisciò di sopra, e cadde per terra.

Ma no, lasciala perdere, ti ha già fatto soffrire abbastanza!”

“Ehehehe, e se-se soffrisse a sua volta nel s-sapere che sto per ammazzarmi?”

...”

Non capisco seriamente se lo spingeva quel sentimento che qualcuno chiama amore-odio. Io sono un sentimento già di mio, non so quanti e quali altri sentimenti esistano. Ma seriamente è possibile arrivare a tal punto? Mi ricordo cosa si sono detti una volta, si sono detti qualcosa del tipo “ti odio talmente tanto da non poter più stare senza di te!”. Probabilmente si odiavano davvero a tal punto da amarsi. Scaricavano tutta la negatività sull'altro, e solo così riuscivano ad andare avanti. Che amore strano...

Ma ora che lui sta per morire, questa storia non si ripeterà di certo.

“...p-pronto?”

 

Commento dell'autore.
È passato ormai un annetto da quando ho conosciuto quest'opera, molto probabilmente è stato anche il mio primo impatto col mondo degli hikikomori, di coloro che non riescono ad avere rapporti con le altre persone, e di coloro che hanno dubbi su quello che sarà il loro avvenire. È stata un'opera che mi ha davvero colpito, e nella quale mi sono ritrovato. Allora mi ritrovai davvero tanto nei pensieri di quei personaggi e nei loro desideri. Con fatica e tanto tempo(si parla di alcuni mesi) riuscì anche ad avere a casa tutta la serie completa del manga, che custidisco gelosamente.
Ma da pochissimo tempo ho considerato l'idea di scrivere una fanfiction su quest'opera, dopo che lo consigliai a un amico mio fino alla nausea e lui decise di vederlo solo insieme a me. Provai a immaginare di comporre un mio piccolissimo tributo a questa grandissima opera. E venne fuori questa piccola fanfiction che vuole andare a infilarsi nel finale, dove, qualcuno magari ricorda, si legge "sei mesi dopo". Ecco, sto provando a infilare la mia storia proprio lì. Ho cercato davvero tanto di tardare la pubblicazione di questo primo capitolo con la scusa di voler finire la fanfiction nel suo insieme, cercando di rendere tutta la storia perfetta per quanto possibile...ma, vista la mia attuale situazione lavorativa che mi occupa un terzo della giornata(un altro terzo se lo prende il sonno la notte) e il mio stato attuale di umore non proprio allegro, la stesura di questa storia procede troppo, ma troppo lenta, e ho pensato che pubblicando questo primo capitolo potessi darmi una spinta in più.
Staremo a vedere. Ovviamente non mi sono dimenticato di Villa Cascia, anzi, per ora penso più a quella storia originale che a questa fanfiction. Mi devono perdonare quelle persone che aspettano la storia(credo qualcuno ci sia xD) ma la continuerò, lo giuro! Per il momento, recensite in tanti, e stay tuned!

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Capitolo 2
*** Chapter 2 ***


Misaki scendi! È pronta la colazione!”
“Arrivo!”
Una tiepida luce entrava quella mattina dalle tende della stanza di Misaki. Non era mai cambiato niente da tanto tempo, Misaki non ha mai voluto modificare nessun aspetto della stanza, ed è rimasta quindi la graziosa camera forse un po' troppo infantile per una ragazza come lei, ma nella quale lei si sente sempre tranquilla e serena. Quel rosa di quella stanza le ricordava quando da bambina era sempre col sorriso stampato sul viso, meravigliandosi per tutto quello che c'era al mondo, sia dentro e sia fuori da quella stanza. Tra questi c'era anche il pupazzo di quel cagnolino che anche quella notte le aveva fatto compagnia, vegliandola con fedeltà e orgoglio dal comodino.
Da quanti anni aveva quel cagnolino con sé? Troppi. Fin da quando era un'ingenua ragazzina. Fin da allora quando succedeva qualcosa che non andava, perché ahimè scoprì presto che il mondo non è tutto rose e fiori, si stringeva forte forte quel cucciolo, che senza fare nulla la coccolava e la tranquillizzava. Anche ora, non ha mai smesso di prenderlo e guardarlo dritto negli occhi, quasi ad aspettare una risposta, che ovviamente non arriva mai.
Almeno, non come normalmente s'intende. La risposta arriva, ma lo sguardo di quel pupazzo aiuta solo a trovarla.
“Chissà...se Sato ha mai visto questa camera...non me lo ricordo.”
Misaki s'affrettò a scendere subito da letto e a cambiarsi. Oggi aveva grandi motivi per alzarsi presto. Scese di corsa le scale, senza nemmeno pensare a prepararsi, e spuntò in cucina con una camicetta da notte azzurra che sembrava quasi perdersi nel roseo della sua pelle. Anche il suo corpo era rimasto piuttosto infantile, e quella camicetta lo dava a vedere. Non si era mai sviluppata tantissimo in altezza, teneva sempre quel sorrisetto sul viso che le dava molti anni in meno di quanti ne avesse, il suo seno era rimasto sempre piccolo e sodo: era l'esempio più lampante per notare che i suoi tratti erano rimasti morbidi, non erano mai diventati troppo rotondi, mantenevano un'eleganza fanciullesca. Per questo non ha mai rimpianto particolari fisici più “adulti”.
“Ciao mamma!”
“Ehi! Pronta per oggi?”
“Sì!”
Quel giorno era un momento di svolta per Misaki. Si assumeva un grandissimo impegno si assumeva per il passo che stava compiendo, specie per una come lei.
Ebbene, avrebbe ricominciato la scuola. Con le sue conoscenze la madre ci aveva messo una buona parola per una riammissione veloce, si era preoccupata di tutti i preparativi. Ora toccava solo a Misaki continuare, per diplomarsi.
Mi raccomando, Misaki, qui tutti contiamo su di te!”
A Misaki non sono mai piaciute frasi di quel genere, quando le dicevano a lei. Anche se è riuscita a fare grandi cose come reinserire Sato nella società, lo ha fatto solo per la grande insicurezza che provava per sé stessa, messa a confronto con persone “migliori” di lei.
Ma quella volta era diverso. Quella volta ce l'avrebbe fatta.
“Va bene mamma.”
Di gran fretta si vestì dell'uniforme scolastica della scuola che aveva smesso di frequentare qualche tempo fa. Aveva sempre evitato di usare molto trucco, meno che mai a scuola, perciò non perse molto tempo a prepararsi. Prese la cartella e uscì di casa salutando la madre. Rallentò il passo mentre scendeva la collina sulla quale si posava casa sua.
Aveva preso questa decisione un mese dopo essersi separata da Sato e Yamazaki. Ognuno aveva preso la sua strada, nell'incertezza che si sarebbero incontrati di nuovo, mantenendo i contatti solo tramite internet e una telefonata ogni tanto.
Aveva scoperto ben presto che Yamazaki s'era sistemato con l'azienda di suo padre, mentre Sato aveva incominciato a lavorare part-time continuando a vivere dai suoi. Lei era l'unica che ancora aveva una meta da raggiungere. Anche se purtroppo non era una di quelle mete che aveva deciso di prefissarsi, era una cosa giusta da fare, che la poteva portare a una vita più felice con Sato. Tutti s'impegnavano in un modo nell'altro, ne era certa. E ora anche lei doveva impegnarsi.
Raggiunse in una decina di minuti la scuola. Un brivido di paura le percorse la schiena.
Alzò lo sguardo e contemplò quell'edificio. Una classica scuola dall'aspetto semplice e inespressivo, con quel suo bianco freddo che risplende nel sole mattutino.
Un edificio simile decide la sorte di tante persone, di troppi ragazzi che la prima volta entrano qui sospettosi. Chi felice, chi triste, chi sfiduciato, chi indifferente, chi tranquillo; ma sono tutti sospettosi. Sospettosi del fatto che si riuscirà o meno a essere accettati e ad andare avanti. Perché in queste scuole viene messo in atto la peggior guerra fredda che il mondo abbia mai visto. Io lo so. Lo so che si formano i gruppetti e tutti stanno lì a competere. E questo perché? Perché a nessuno viene in mente cosa si dovrebbe davvero fare. Nelle scuole inferiori, specie all'asilo, oltre a insegnare, ti spiegano le basi per comportarti con gli altri, s'impara a giocare, a divertirsi. Le aule sono sempre colorate, sia da disegni e fogli imbrattati di colori con le mani che dalle urla e le risate. Oppure dalle storie raccontate per far passare il tempo. E invece, a cosa si riduce la scuola dopo? A pareti bianche, silenzio, divieto di correre nei corridoi, e sguardi di sfida. Solo durante il festival scolastico tornano sempre i colori, ma anche lì tutto viene inteso come una pura e semplice sfida tra classi o club scolastici.
Di certo i ragazzi arrivati all'adolescenza hanno ancora bisogno di tante spiegazioni. Ma non di certo spiegazioni sul giapponese. Quanto su come si ci comporta nel mondo degli adulti, col primo amore, quando succede una cazzata, con i genitori che ancora ti vorrebbero il piccolo bambino che eri per paura che un giorno te ne andrai e li supererai. Oppure che cadrai nel baratro di quelle persone senza aspettative sul futuro.
La risvegliò di soprassalto dai suoi pensieri la campana della scuola e il vociferare di alcune ragazze che entravano. Alzò lo sguardo al cielo e cercò la luce del sole per riprendersi dal torpore della sua riflessione. Ma proprio davanti la soglia dove lei si era fermata a pensare era coperta da un albero al quale non aveva fatto nemmeno caso, quindi si dovette accontentare di quegli spiragli che oltrepassavano il groviglio di foglie e rami e fiori. Lasciò perdere, si voltò verso l'ingresso e lo varcò.
Si fermò ad ammirare gli armadietti delle scarpe, ricordandosi di quante parole dette lì, e di quanti messaggi venivano lasciati attraverso le fenditure. Cambiatasi, ignorò il corridoio centrale e mirò alle scale. Si ricordava bene dove doveva andare, sapeva la pianta di quella scuola. Si ricordava tanti particolari di quel posto, il medico troppo carino dell'infermeria, il box del bagno “maledetto”, e tanti aneddoti. Cose che ancora i diplomandi vanno a raccontarsi.
Toh, ecco le macchinette automatiche.
Lei ovviamente seguiva un corso particolare per recuperare quanto già fatto nell'anno. Sarebbe stato tutto un po' complicato, molte cose si sarebbero dovute fare bene ma con tanta fretta. Per iniziare al meglio il corso, teoricamente avrebbe dovuto riprendere tutto quello che era stato fatto prima. Misaki lo ha fatto, ma alla bell'e meglio.
Però ci sarebbe riuscita. Non avrebbe dovuto deludere nessuno.
Un raggiò di sole colpì la sua nuca, riscaldando irrimediabilmente la sua fronte. Quell'abbraccio caloroso la riportò con i piedi per terra, facendole notare di aver passato di alcune porte l'aula del suo corso.
Troppi pensieri per la testa.
Corse indietro precipitandosi verso la porta giusta.
Di scatto, due professori, leggermente spaventati per l'impeto col quale la ragazza aprì la porta, si girarono verso di lei staccando gli occhi dal programma di studio che avevano davanti.
Ah, direi in orario...bene signorina...Nakahara.”
La puntualità è importante, specie nelle condizioni in cui siamo messi ora...”
Misaki si bloccò sulla porta.
S-sono ironici? O sono stata puntuale sul serio? Oddio, non mi sarò messa in cattiva luce già da ora...no. No, così non va bene.
Cercò un aiuto girando gli occhi lungo la stanza vuota, ad eccezione dei banchi davanti la cattedra. La luce filtrava dalla finestra che si allungava lungo tutta la parete di fronte a lei,, dividendosi solo al centro, colpendo tutto il pavimento in legno, e mettendo un po' in controluce l'orologio messo in mezzo alle due vetrate. L'ora che segnava quell'orologio era perfetta, era anche arrivata in anticipo di un minutino...
Come vede, abbiamo anche qualche minuto per presentarci come meglio si deve!”
“Ah...va bene!”
Si accomodi pure.”

--


Come cinque ore prima quella porta si era aperta per lasciarla entrare, ora da lì Misaki esce, stanca, ma non esasperata o dubbiosa su quanto stava facendo. Aveva capito che i suoi timori erano fondati: il corso era vasto, e condensato in poco tempo. Ma i professori si erano detti soddisfatti da questo primo incontro con Misaki, e fiduciosi in lei, e anche lei era fiduciosa in sé stessa. Nulla le si metteva contro quel foglio di carta che era la sua meta.
L'ostacolo ora era un altro. Una paura che che aveva fin dai primi anni di scuola. L'uscita da scuola, passando per gli armadietti. Quei maledettissimi armadietti potevano riservare bruttissime sorprese, ma anche una lettera d'amore. Potevano capitare gli scherzi più brutti aprendo un semplice armadietto. E lei lo sapeva, le era capitato. A qualsiasi grado scolastico si trovasse, le era successo di ritrovarsi l'armadietto aperto e le scarpe scomparse, oppure l'armadio pieno di qualsiasi possibile cosa: più schifosa era, meglio veniva lo scherzo.
“Ma siamo ancora al primo giorno...non può essere...tranquilla, tutto andrà per il meglio!”
Si avvicinò al suo armadietto e si sedette. Nell'armadietto non trovò nulla se non le sue scarpe, ovviamente.
Nessuno aveva un'idea così negativa di lei al punto da punzecchiarla già il primo giorno. E in ogni caso, nessuno la vedeva per la stragrande maggioranza del tempo, quindi sarebbe passata molto probabilmente inosservata. Non ci sarebbero stati problemi. Semplicemente, tutto sarebbe andato bene.
Ehi, lo sai quale grande figura è tornata a scuola oggi?
Eh?”
Eh?
Ma si, l'hai vista pure tu, no?!”
...”
È tornata quella Nakahara.”
Misaki si era appiccicata all'armadietto nella speranza di sentire al meglio quello che avveniva dall'altro lato, col cuore in gola e ansimando.
Ma cosa avrebbe intenzione di fare?”
C-credo voglia solo prendersi il diploma ad anno iniziato.”
Certo, con quei corsi scemi che organizza la scuola!”
Rivoli di sudore incominciarono a scendere giù dal viso di Misaki, sempre più sconvolta da quelle parole.
Io lo so che vuole fare! Ha iniziato la scuola in ritardo approfittando di quel corso per evitare tutti noi! Si è sempre creduta una spanna più sopra di tutti gli altri in classe. Non ha mai voluto capire che in fondo era messa peggio di noi in tutto!”
No...non è vero nulla. Non andavo peggio di voi a scuola! E poi non è vero che vi ritenevo peggio di me: non ho mai avuto occasione di rapportarmi con voi! Non me lo avete permesso! Vi conoscevate già tutte, e io ero quella che si ritrovava sempre in disparte...e n-nel dire la mia voi eravate sempre pronti a controbattere e a denigrarmi.
Si accovacciò per terra, con la testa fra le mani, pregando solo di non sentire più quelle voci che sparlavano di lei aldilà del suo armadietto.
Che pezzo di perdente che era...”
N-no, non è vero. Non lo sono.
Chissà com'è ora?!”
Stanca di quelle parole, con tutta la rabbia che aveva dentro si alzò di scatto per uscire dalla scuola. Sarebbe stato corretto definirla una fuga, ma non lo voleva accettare. Diede un sonorosissimo colpo sul metallo degli armadietti per alzarsi e si mise a correre. Percorse tutta la stanza per uscire dall'altro lato e non dover incrociare gli sguardi di quelle due. Nel farlo, colpì con un braccio lo spigolo di un armadietto due file più avanti. Non pensò nemmeno al dolore, pur di fuggire al più presto da lì.
Una volta fuori, il sole diede fuoco al rancore che aveva dannatamente soffocato dentro la scuola.
Si mise a correre, incurante delle lacrime che, scendendo sulle guance, le rigavano il viso per buttarsi poi nel nulla dietro di lei, creatosi col vuoto che sentiva dentro.
“M...maledetti!”
Strillò fino a quando non giunse alla riva di un fiume. Nonostante fosse l'ora di uscita dalle scuole, in quel momento non c'era nessuno sull'erba arrossata dal tramonto.
Gridò inveendo contro i suoi ex compagni di classe, sperando che almeno il sole rossastro la ascoltasse.
Urlava.
“Brutti bastardi! Non mi avete mai accettata! Perché?!”
Piangeva.
“Non vi ho mai fatto nulla! Non ho col...Non ho colpe! Nessuna, capito?! Volevo solo che mi accettaste!”
S'accasciò sull'erba per sfogarsi immersa nel verde della perseveranza: ha sempre collegato il verde delle piante al loro necessario bisogno di seguire una legge naturale ben precisa per mantenersi in vita, e al fatto che seguissero questa legge in maniera fin troppo perseverante.
Anche lei doveva mostrarsi perseverante. Anche lei doveva completare quel cammino.
Ma in realtà, subito dopo, spuntò il dubbio a serpeggiare lungo la strada che aveva deciso di intraprendere.
Ce l'avrebbe fatta a sopportare i suoi compagni per tutto il resto dell'anno? Non era poco...
Non poteva fallire, ma nemmeno sarebbe riuscita a sopportare le probabili angherie...
“MERDA!”

--

Si era messa in cammino da un pezzo, ma in effetti non aveva trovato altre soluzioni. Lei la sua perseveranza non l'aveva persa, così come non aveva tolto la mira su quello che era il suo traguardo.
Semplicemente, doveva cambiare postazione, o usare un altro effetto.
Si armò di coraggio, e andò a confessare la sua decisione a sua madre. La reazione non fu di certo positiva, ma nemmeno alterata.
Io non ho idea di come debba fare con te. Non ho capito come mai tu non voglia semplicemente ammettere che quel diploma non lo vuoi prendere.”
“Non è così! Io voglio prendere il diploma! Ma le materie da studiare non sono l'unico problema...”
Ora stammi a sentire: tutti, e dico tutti, i problemi che devi affrontare durante la scuola sono importanti. Non ti credere che passare la scuola voglia dire solo sapere delle nozioni: la scuola deve anche a comunicare con gli altri e a risolvere tutti i problemi derivanti da questi rapporti. Non sto a dire che l'unico modo è diventare amico con tutti, ma ognuno affronta la questione soggettivamente. E serve per i rapporti che dovrai costruirti nel futuro in tutte le situazioni! Non riuscire ad affrontarla non è cosa positiva...è da debosciati!”
Dalla semplice ramanzina si era passati agli epiteti gratuiti...
E questo Misaki non lo sopportava. Stava per rispondere alla madre, ma preferì serrare la bocca e abbassare lo sguardo, alzandosi bruscamente da tavola.
Arrivò davanti alla porta della cucina e si fermò lì pensando a una frase da dare alla madre per chiudere lì quella discussione.
Però doveva girarsi...girarsi e risponderle negli occhi.
“A te interessa solo che io prenda quel diploma, no? Dovrebbe darti dimostrazione di come sappia affrontare tutti i problemi derivanti da quel foglio.”
...sì.”
Forse quel sì della madre era un sì non dettato dalla sicurezza della figlia, ma dalla sua stanchezza derivata da tutti gli sforzi fatti da sua madre nell'educare la figlia.
“E allora lo avrai...”
Va bene...”
Iniziò a correre su per le scale andandosi a rivestire.
“Sono una cretina!” pensò tra sé e sé.
Non si girò a guardare sua madre.
“...pronto?”
“...Sato?”
Si sentì un sospiro di stupore dall'altro lato.
“M-misaki! Ciao! E-era da tanto che non ci sentivamo!”
“Già...senti, te lo avevo detto che avevo intenzione di prendermi il diploma con un corso accelerato?”
“E-eh? N-no non mi sembra...”
“Sì beh...però...”
“M-ma questa è una bellissima notizia! Non hai idea di come mi rendi felice a dirmi questa cosa!”
“S-sì però aspetta!”
“C-cosa c'è?”
Ecco, ora come gli spiego che sono stata piena di buone intenzioni e prospettive, ma non ci ho messo abbastanza volontà per continuare per più di un giorn...
I pensieri di Misaki vennero improvvisamente interrotti da un rumore che proveniva dall'altro capo del telefono.
“Sato, ma è tutto apposto?”
Un pesante e affannoso respiro coprì la comunicazione tra Misaki e Tatsuhiro. Ed quest'ultimo ad avere il sospiro pesante.
“Sato, ma è tutto apposto?”
“B-beh, non proprio...vedi in realtà...”

|-|

Sato non aveva ancora compreso dove si trovasse realmente Misaki.
Non sapeva che lei fosse sotto casa sua. Strabuzzò gli occhi stupendosi per la velocità con la quale la ragazza salì in camera sua, pur non essendo mai entrata dentro quella casa.
“Ah eccoti!”
“Ma che ci fai con quella pera in mano?!”
“Beh, sono scappat...”
“Sei scappata?!”
“Nonono! Sono uscita di fretta – gesticolando Misaki si corresse – da casa e non mangio niente da stamattina. Avevo sbagliato strada ed ero capitata in cucina. E quin...ma tu che hai?!
“I-io credo che dovresti s-semplicemente chiamare un'ambulanza...”
“Ma c-che?!”
E Sato svenne lì sul pavimento. Misaki girò convulsamente la testa cercando un telefono, allungandosi verso il cordless sulla scrivania calpestò una cannuccia corta e un fazzoletto. Misaki si accovacciò e si rigirò tra le mani questi due oggetti. Perplessa, li gettò cestino vuoto che c'era accanto la scrivania. Si accorse allora di avere le mani sporche di qualche sostanza. Si girò allora infuriata verso Sato svenuto per terra.
“Ma che cazzo fai, stupido?!”
Si sfogò afferrando il cestino e lanciandoglielo sul petto. Ma non le bastava. Si buttò su di lei e incominciò ad agitare la braccia sopra il suo addome.
“Stupido stronzo, stupido stronzo, stupido stronzo!”
Era meglio se non perdeva altro tempo.

|---|

Commento dell'autore.
Ecco questo secondo capitolo che non sapevo nemmeno se/quando sarebbe uscito.
Sarò breve: pensavo di pubblicare una storia per ogni personaggio che ho scelto di usare(potrebbero essere solo loro due come potrebbero essercene altri), ma ovviamente non sono riuscito. Non riesco mai nei miei intenti originari. Chissà se va bene comunque.
Anyway, non vi dimenticate mai le recensioni, positive o negative che volete, e stay tuned.
A presto!(forse)

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Capitolo 3
*** Chapter 3 ***


Ero davvero l'emblema della nullità. In quel piccolo lasso di tempo che ho vissuto, cosa ho davvero guadagnato di quanto desideravo? Se non farmi schiacciare dalle volontà, non mie, che mi hanno portato a compiere atti che non volevo, e che me ne riservavano tanti altri per il futuro? Sono riuscito solo a illudermi, come fanno tante, troppe persone. Sono riuscito a illudere me, e le persone che mi stavano intorno, che avrei potuto fare qualcosa. Non dico tanto, ma qualcosa che avesse il mio nome stampato sopra, qualcosa di maledettamente mio. Il periodo di permanenza a Tokyo, il professionale, quel videogioco che non abbiamo fatto più. Di quello è rimasta una demo senza anima e senza contenuti. Non mi sono mai incazzato abbastanza con la causa di quello schifo di gioco che è uscito fuori, perché è colpa sua se non ce l'ho fatta.
P-però, quel poco che ha fatto lui...lo ha fatto maledettamente bene. Sì, va bene, io mi sono fatto il mazzo per la parte tecnica e di gameplay, ma non è mai stata una cosa originale come la sceneggiatura che aveva scritto lui. Ne ho giocati tanti di eroge, ma quello che sarebbe venuto fuori è ben diverso, avendo come base quella sceneggiatura.
Però, come ho detto, non sono mai riuscito a concludere nulla, e non sono quindi nemmeno riuscito a far completare a Sato il suo lavoro. Me ne sono andato, me ne sono tornato a casa.
Casa. Quel che mi vogliono far credere. Sarebbe più facile definirlo un ufficio statale. Come mi sveglio la mattina devo stare a pensare a un macchinario che non va, oppure a una bolletta in scadenza. E quanto tempo è passato?! Qualche mese! E io dovrò fare questo per tutta la mia cazzo di vita! A mala pena arrivata la sera riesco a pensare a me, ai miei videogiochi, a tutto quello che sognavo di creare...e nella quale ho sempre fallito.
Ma forse è giusto così? Ho avuto il tempo e la possibilità di fare tutto quello che volevo. Se non ci fosse stato Sato, nemmeno avrei pensato di ideare questo videogioco. Non avrei fatto nulla.
Ora mi verrà reso pan per focaccia. Ora sarò condannato a non fare nulla e a osservare dal posto umido e scuro nella quale sono stato scaraventato l'immagine, calda e purissima, del successo e della fama pubblica. Per delle vite contenute negli strati di un CD. Per lo squallido denaro che mi avrebbe permesso di fare tutto quello che volevo. Ora al contrario, il gruzzoletto che riesco a guadagnare ogni mese mi costringe a fare cose a me impensabili. Ci devo pagare le tasse, le bollette, la manutenzione dei macchinari, le nuove bestie e la loro cura...
Insomma, guadagno giusto per sopravvivere durante il mese e per guadagnare la stessa somma il mese dopo. Se non va male. Sì perché se mi becco due giorni un'influenza, tanto per dire, per tutta la settimana il lavoro si sfascia! Perché qualcosa andrà storto, sicuro.
Arriverà il cliente stronzo che ti andrà sulle furie perché la sua commissione non sarà stata completata in tempo. Arriverà il dipendente che, scemo, ti sputtana qualcosa perché ha dovuto fare una commissione al posto mio. Arrivano sempre gli imprevisti.
Anche mio padre che non è più riuscito a lavorare, e perciò mi ha chiamato per prendere il suo posto.
Aah, la famiglia. Esiste forse qualcosa di più complicato da spiegare e da descrivere se non una famiglia? Cos'è una famiglia? Cosa dovrebbe significare per me una famiglia? Un insieme di persone accomunate dalle discendenze frutto di unioni e unioni, libere oppure decise, amorose oppure combinate, o peggio coatte. Trovata la definizione però, c'è dietro un abisso. Si dice che la famiglia sia l'istituzione base della società civile. Ed è proprio a causa di quell'abisso che sta dietro la definizione di famiglia che la società civile sta andando a puttane. Anche se si sceglie un'angolazione diversa, nella famiglia ci sarà sempre qualcosa di sbagliato, qualcosa che non va, qualcosa che succhia l'anima ai suoi componenti. Volendo provare a cambiare situazione economica, paese, cultura, etnia, perfino volendo tentare di cambiare l'epoca temporale, non vedremo mai, ma mai una famiglia perfetta. Non vedo di cosa devo stupirmi, visto che alla base della famiglia c'è sempre l'uomo, lercio nella sua intelligenza e libertà.
Volendo andare nel piccolo, cosa dovrebbe significare per me famiglia? Sono vittima di un'allegra élite di persone che decidono il destino di loro parenti per preservare il guadagno e il buon nome della famiglia. Ho cercato in tutti i modi di evitare questa condanna, e i miei hanno pure fatto finta di darmi corda mandandomi a Tokyo, ma sapevano che sarei tornato qui, a fare il contadino. Il semplice fatto che il mio DNA derivi da questo gruppo di persone mi costringe a fare ciò che vogliono. Anche ora, anche qualche oretta fa, la scena è sempre stata quella.


Com'è tipico delle case di campagna, quella casa era completamente costruita in legno, così come i capannoni. Il legno lì era il materiale più usato e il preferito, anche se non era il più adatto, visto che quei luoghi nei periodi invernali erano colpiti molto spesso da tempeste e tutti gli edifici andavano rinforzati di anno in anno.
Forse un difetto dell'uomo stava anche in questo: spezzarsi la schiena per mantenersi. Non per puntare più in alto o per risaltare tra gli altri: per mantenersi sempre nella stessa posizione, accettando lavoro in più solo perché non si volevano trovare soluzioni alternative.
Questi discorsi si potevano fare nell'età della pietra, quando lavorare significava semplicemente vivere. Oggi è sempre rimasto necessario lavorare, ma bisogna stare attenti al lavoro che si sceglie, perché questo riveste un ruolo importante nella figura che ti fai nella società, e così è da tanto tempo. Chi accetta un lavoro umile giusto perché vuole campare e seguirsi le sue passioni il più possibile viene preso per pazzo e rischia sempre di essere relegato ai margini della società. Io ho deciso di non essere così, posso essere qualcos'altro, perché sono stato messo a capo di una ditta e ho qualche nozione di base per mandarla avanti. Ma sopratutto ho qualche idea per rivoluzionarla un po'. Ma queste idee sembrano non essere così accettate dai miei parenti.
“Ma per quale motivo?! Aprire un canale di comunicazione diretto con il consumatore finale ci darà la possibilità di sapere cosa effettivamente va e non va dei nostri prodotti!”
Ma noi siamo sempre stati dietro la grande distribuzione, non il consumatore. Tutte le catene che si servono da noi che dovrebbero pensare di questo cambio di rotta?”
“Non sarebbe un cambio di rotta, il nostro prodotto principale resterà a loro. Ma le esigenze cambiano, ed ecco che dovremmo incominciare a inserirci anche lì.
Persone diabetiche, intolleranti al lattosio, intolleranti al glutine, coloro che preferiscono cibo biologico...tutte queste persone in questo momento sono costrette a spostarsi anche dalla propria città solo per poter comperare alimenti che non li danneggino. Se invece, attraverso i prodotti che già hanno una loro di posizione di spicco nei supermarket facciamo sapere alla gente l'esistenza di tutti questi prodotti e la possibilità di ordinarli da casa, sarebbe una cosa positiva per tutti.”
Kaoru era convinto di aver fatto un ottimo discorso, di essere stato preciso e convincente, per indurre i suoi parenti comproprietari a fare questo investimento. Ma i bronci e gli sguardi dubbiosi non svanirono dopo questo mio discorso.
Questo è un investimento troppo grande per noi Kaoru. Queste sono azioni degne di qualche multinazionale grossa, non è una cosa che noi possiamo permetterci.”
“Quindi...mi state dando un no di risposta?!”
Esattamente.”
Le risposte arrivarono da più parti, piene di scontentezza e dissenso.


Il pensiero fisso dopo quella riunione con i comproprietari fu sostanzialmente era basato su come era divisa l'azienda, e gli oneri che toccavano a ognuno. In pratica, solo lui della famiglia Yamazaki era costretto a gestire tutta la parte pratica. Agli altri bastava investire la propria quota e curarsi le proprie mansioni amministrative.
Tutto ciò portò Kaoru a passare un paio di notti insonni, a girare in tondo sulla sedia girevole della sua stanza, di fronte la scrivania, di fronte un pc.
Quel pc. Non era infatti riuscito ad abbandonare tutte le emozioni e i progetti legati a quel pc, che ristagnano in quelle unità magnetiche in attesa che qualcuno le riscopra e le faccia conoscere al mondo. In quelle due notti, dimenticandosi di famiglia e di lavoro, perse il sonno spulciandosi tutti i lavori che aveva incominciato e mai concluso con Tatsuhiro. Risultati di un impegno forse preso troppo alla leggera tutti e due, ora lui guardava con nostalgia quei progetti, complice qualche lacrima che sfuggiva e scendeva giù per il viso. Avrebbe fatto qualsiasi cosa per riottenere quelle emozioni e tentare di pubblicare quel videogioco.
Verso le quattro della seconda notte insonne, armatosi di coraggio, decise di andare a parlare con il padre. Doveva per forza esserci un modo per uscire da quella situazione. Lui non voleva passare il resto della sua vita rinchiuso in una azienda solo per mandarla avanti e andare avanti lui fino a dare questo fardello a suo figlio.


A sentire le richieste del figlio e la risolutezza con la quale queste richieste venivano poste, il padre non poté fare altro che provare un minimo di pietà verso quel ragazzo, pieno di energie, come il sole che si stava alzando. Un sole che ancora non sapeva se in quella giornata avrebbe potuto splendere bene come voleva. Il sole giovane è un concentrato di energia pronta a esplodere e illuminare tutto quello che c'è da illuminare. Senza farsi troppi problemi, il sole vuole vedere risplendere tutto grazie al suo lavoro. Non immagina però, che non sempre si riesce nei propri intenti. In giornate ventose come quelle è molto facile l'addensarsi di nubi che non fanno passare il sole, e rendono il suo lavoro meno fruttuoso. La stessa cosa si poteva dire per Kaoru.
“Io...credo che questo sia un discorso che qualsiasi padre ha fatto a suo figlio. Ma, Kaoru, alla tua età la pensavo esattamente come te. Provavo il desiderio di sbancare, di ottenere tutto nella vita facendo solo quello che mi piaceva fare. Ripudiavo il lavoro qui in azienda, lo consideravo inutile e ripetitivo. Volevo andare in città. Secondo te per quale motivo ti ho concesso di andarci? Perché anche io nel mio piccolo, ho sempre desiderato conoscere la città, e non stare rinchiuso qui. Io non ho avuto questa libertà di scelta, e sono sempre rimasto qui. Ti prego, non fare l'errore di pensare che non ho mai ottenuto niente dalla vita. Io ho ottenuto tutto quello che ho scoperto essere abbastanza per me: un posto dove tornare la sera per mangiare, una moglie e un figlio.”
Interruppe il discorso per guardare gli occhi ardenti di Kaoru, che volevano una risposta a tutti i costi.
“Un figlio del quale ammiro il suo fortissimo desiderio di voler conoscere il mondo. L'unico mio timore è che il mondo non sia quello che tu ti aspetti, e che possa rimanere ferito anche tu. Non devi credere che non dovrai impegnarti se andrai a fare qualcos'altro, che non rimarrai immerso in miliardi di problemi, che non desidererai che semplicemente tutte le preoccupazioni svaniscano. Non succederà.”
Incominciò a piovere. Purtroppo tutta la parte stupefacente del grandissimo lavoro del sole, tutti i suoi frutti più succosi e saporiti erano andati persi in un ammasso di nuvole grigie, cariche di pioggia.
“Ma io lo so ormai cos'è la vita. O almeno...ne sono abbastanza sicuro. Ormai riesco a immaginarmi di tutti gli incarichi e gli oneri che a chiunque riserba la vita. La mia vita non è mai stata rose e fiori, nemmeno al liceo, perciò so cosa vuol dire impegnarsi in qualcosa.”
Pensò al progetto suo e di Sato ancora non finito che, fedele, aspettava di essere rispolverato dai due. Forse ancora non sapeva cosa vuol dire impegnarsi fino in fondo...
“Lo so che non può succedere.”
Rassegnato e stanco della convinzione del figlio, dura come l'acciaio, cercò di porgli in faccia la realtà.
“Kaoru, non puoi fare molto. Ogni persona che ha una quota non fa molto di più di quanto non sia necessario: versa la sua quota e ottiene dei profitti. Ovviamente la parte più grande spetta a noi, ma dovendola in parte spendere per l'azienda stessa, arriviamo alla stessa somma degli altri comproprietari, che però non fanno nulla. Nessuno, nemmeno tu, puoi vendere la tua quota a un'altra persona, perché tra tutti ci sono degli accordi per l'assicurazione sulla vita, e se uno vende la sua quota, tutto quello che gli spetta secondo gli accordi decade. E il nuovo proprietario non saprebbe nulla di questi accordi. Ma in ogni caso nessuno vuole vendere la propria quota, nemmeno io l'ho mai voluto fare, quindi problemi di questo tipo non si sono mai posti.”
“Loro si prendono tutto dal nulla. Loro, loro...”
“Ma tieni conto che loro hanno anche un secondo lavoro, perché la sola somma che ottengono da qui non basta.”
Loro, loro, loro...
All'improvviso in Yamazaki si accende una lampadina.
“Potrei teoricamente scambiarmi una quota? Dare la possibilità a qualcuno di diventare il comproprietario principale e cedermi in cambio la sua quota?”
In questo modo avrei il tempo di finire quello che avevo incominciato!
“Beh, secondo l'assicurazione tu sei il proprietario principale, ma i cambi di nominativi sono sempre possibili, ti spetterebbe di meno in quanto non saresti più il comproprietario principale. Ma si può fare.”
“L'unico da convincere...”
“È Yasuhiro.”
Yasuhiro sarebbe uno dei comproprietari della ditta agricola, ma anche il proprietario dell'agenzia di assicurazioni col quale la nostra famiglia stipula assicurazioni sulla vita da generazioni.
Un uomo tranquillo, che ha sempre fatto metodicamente il suo lavoro, da dietro la scrivania dove era finito. Aveva moglie e figli, e tutti lavoravano nella sua azienda di assicurazioni. Nessuno di questi aveva mai pensato di incominciare a lavorare nella ditta agricola: troppo degradante.
Quella volta che Kaoru vide la sua vita scritta nero su bianco su un foglio, era stato il pugno di Yasuhiro, o di chi per lui, a scrivere.
“Dimentichi che nessuno molto probabilmente vuole cambiare la sua posizione. Come farai?”
Un altro ostacolo posto davanti i suoi progetti.
“...in ogni caso andrò a parlare con Yasuhiro!”
Girò le spalle al padre e, fissando la porta, lo ringraziò.
Ho la mia idea di famiglia, ma mio padre nel suo piccolo ha sempre cercato il meglio per me.


I locali dell'ufficio di Yasuhiro erano maledettamente formali. Il bianco spiccava ovunque, sui tavoli, sui muri, perfino sul tetto, e pochissime cose spezzavano questo bianco: qualche oggetto sulle varie scrivanie bianche, e qualche pianta messa vicino a delle finestre. Nulla di più, non c'erano altre cose. Perfino le uniche cose che spuntavano dal tetto, ossia dei neon, riflettevano una luce di un bianco caldo che si mescolava col resto. Ogni dipendente non spiccicava parola, se non per dire le cose necessarie. Erano tutti vestiti con dei completi eleganti e delle camice, qualche coraggioso portava anche la cravatta. Le donne invece invece indossavano tutte degli ingombranti tailleur.
La vita negli uffici di un'azienda era questa?
TOC
Lui avrebbe sopportato una cosa simile?
TOC
In azienda non c'erano tutte queste formalità, che lui sicuramente non sarebbe riuscito a...
Sì sì, ti ho detto che è tutto apposto!” urlava Yasuhiro nella sua stanza.
Come lui si accorse che Kaoru aveva bussato e aperto la porta, gli fece cenno di rientrare e chiudere la porta. Con la porta chiusa, tutto quello che si sentiva da fuori era un brusio.
Sì, ovvio che voglio includere anche queste due fatture con le altre dell'impianto di aerazione! Va bene, va bene, ora vado. Sì sì, ciao.”
Staccò il telefono, fingendo con dei sospiri che la telefonata riguardava qualcosa di grandissima importanza. Con un cenno fece accomodare Kaoru e si concesse un minuto per raccogliere varie carte e riporle. Fatture, bolle di trasporto, cose così. Il ragazzo aveva imparato a riconoscere questi documenti, lavorando al posto di suo padre. Liberata la scrivania, incominciarono i convenevoli di Yasuhiro riguardo la salute di Kaoru e di suo padre. Invece, Yamazaki non ci mise molto ad arrivare al punto: voleva sapere della possibilità di scambiarsi la quota con qualcuno.
...come mai t'interessa sapere una cosa simile?”
“Ti prego di rispondermi.”
Tono educato al punto giusto, forse giusto un po' più sotto del punto giusto, troppo fermo e pretenzioso.
Il sorrisetto farlocco che Yasuhiro aveva mostrato fino a quel momento svanì. Troppo, troppo rapidamente, il suo viso si trasformò in un grugno beffardo e superbo. Lo guardò dritto negli occhi, come un anziano si permette di fare con un ragazzo.
Sappi che tu non mi sei mai piaciuto. Non mi è mai calata giù la storia che te ne sei andato a Tokyo per studiare robaccia inutile. Hai solo prolungato di un annetto le agonie a tuo padre, che ormai non ce la faceva più di lavorare.”
A Kaoru non si stupì di questa reazione, anzi era certo che non gli stava molto a genio. Ma era meglio mantenersi calmi, in fondo lui è solo un ragazzo che ha dovuto prendere in mano un'azienda, ma è ancora troppo inesperto per destreggiarsi in mezzo a tutti i cavilli, e manca di consenso tra i comproprietari. Invece, visto il suo ruolo di direttore di una conosciuta azienda di assicurazioni, lui tutte queste cose le aveva.
“Quello che io ho fatto a Tokyo è stata una cosa che abbiamo deciso tra me e mio padre. È solo una questione tra noi due. Magari avrò fatto robaccia, ma non è stata un'esperienza inutile.”
Il grugno si tramutò in un sorriso, che non mancava però di superbia. Un sorriso sadico, il sorriso tipico di chi guarda le persone dall'alto verso il basso.
In ogni caso, sì, è teoricamente possibile. Solo che per essere attuabile una cosa di questo genere ci deve essere qualcuno favorevole a ottenere la quota principale. Non credo che lo troverai.”


Uscito da quell'ufficio, Yamazaki tornò a respirare l'aria aperta, vuota di trucchi e di abiti eleganti, a vedere gente dalle movenze informali di ogni giorno. Si sentiva un pesce fuor d'acqua lì dentro. Varcata la soglia, si sbrigò a girare l'angolo e a riordinare i pensieri. Non sapeva nemmeno lui cosa avrebbe voluto ottenere da quella discussione, ma suo padre lo aveva disincantato abbastanza da sperare in positivo. Almeno sapeva che quello che voleva fare era possibile. Solo che nessuno glie lo avrebbe permesso. Non poteva mandare a far benedire tutta la ditta e il lavoro e l'orgoglio di suo padre, ma aveva bisogno di qualcosa per...
Il suo cellulare si mise a vibrare. Perplesso, lo raccolse dalla tasca: un email. Non ricordava nemmeno di aver lasciato funzionante la rete dati. In campagna da lui era abbastanza inutile, ma già vicino agli uffici di Yasuhiro funzionava bene. Un email da Tatsuhiro.
“Yamazaki, mandami presto la sceneggiatura. Sato.”
...
Quindi pure Sato pensava ogni tanto al loro videogioco. Lui nemmeno si ricorda quando è stata l'ultima volta che si sono visti.
Cosa dovrebbe fare? Tutti si aspettano qualcosa da lui. Lui stesso si aspettava tanto da sé. Quando era ancora a Tokyo voleva fare la rivoluzione. Da dove gli era saltata l'idea di incominciare una rivoluzione coltivando piante? Certo, erano piante piuttosto “rivoluzionarie”, ma di certo non avrebbe ricominciato una rivoluzione, se non tra un gruppetto di sbandati.
Ci pensò mentre mescolava placidamente una tazza di cioccolata calda in un bar posto di fronte gli uffici di Yasuhiro. Lui ancora poteva permettersi di pensare alle rivoluzioni? Stava per mettere su famiglia, si era già preso in mano una ditta, e doveva pensare a mandarla avanti. Fissò l'orologio appeso sopra l'ingresso.
Ventiquattro ore non bastano più per farsi piacere la vita. Ma del resto, la vita lo ha imposto, così come impone un sacco di cose che non piacciono a nessuno. E dobbiamo vivere per saperci regolare, no?
Saperci regolare significa saper fare una scelta. Saper scegliere cosa ritagliarci in quelle cazzo di ventiquattro ore.
E io non riesco a vedere nient'altro se non due alternative: me e Sato, oppure mio padre e l'azienda.
Cosa dovrei scegliere? Cosa dovrei mandare allo sfacelo? Chi devo deludere?
Ripensò a Sato, a Kashiwa, e ai loro complotti.
N.H.K., l'organizzazione che ci manopola a nostro piacimento. Ma ha un senso una cosa del genere? Perché?
Alzando lo sguardo, noto Yasuhiro che usciva dal suo ufficio, tutto indaffarato a controllare l'orario e a fare mente locale sui suoi impegni. Non era ancora l'orario di chiusura, ma lui poteva permettersi di uscire prima. Teneva in mano la sua valigia piena di documenti, molto probabilmente gli stessi che gli aveva visto sulla scrivania.
Facciamo finta che lui sia dell'N.H.K.. Sono abbastanza dell'idea che in questo momento mi faccia fare quello che vuole. Anzi, lo fa, grazie a quella fottuta assicurazione sulla vita. Perché lo fa? Cosa ne trarrebbe?
La risposta è semplice: soldi, e notorietà tra i suoi colleghi. Lui ovviamente non guadagna tutto il necessario con Kaoru, però grazie a me si fa bello con gli altri comproprietari, e sopratutto si può permettere di pensare tranquillamente alle altre assicurazioni che stipula. Lavoro per ottenere altro lavoro, che da più soldi di prima. Tutto lì.
“L'N.H.K. vorrebbe solo questo? Manipolarci per ottenere soldi e manipolare altre persone per ottenere ancora più profitti? In effetti per logica il ragionamento fila: manipolo il merchandising degli anime così le persone comprano, magari diventano hikikomori e inizieranno a spendere solo per questo. E magari si inizierà a spendere in movimenti e associazioni in aiuto agli hikikomori.”
A un tratto un particolare saltò in mente a Kaoru. Sato voleva combattere proprio contro l'N.H.K., senza doverci convivere. E lui si convinse che poteva riuscire a battere Yasuhiro. La sua mente iniziò a macinare idee e ipotesi, se è possibile una cosa di quel genere. Pensava a documenti, a tutti i documenti che gli sono passati davanti in azienda. Aspettò fremendo che Yasuhiro se ne andasse, dentro la sua Alfa Romeo. Si alzò frenetico e rientrò dentro gli uffici, dove trovò una segretaria.
Prego?”
“Oh, di nuovo buongiorno, mi ha visto prima, ero andato a parlare con Yasuhiro nel suo ufficio, ma mi sono dimenticato lì due miei documenti.”
Quella lo fissò dalla testa ai piedi, chiedendosi se mai un ragazzo come lui potesse essere in affari col suo direttore.
“Non si ricorda di me?” si chiese Yamazaki.
Ah, sì, tu sei Yamazaki! Quasi mi dimenticavo di te e di tuo padre. Eh, grande lavoratore...sì sì, prenditi quello che devi!”
“Grazie!”
Tornando verso l'interno degli uffici si guardò intorno. Fissò il bianco impeccabile del tetto e dei neon.
“Sì cazzo, avevo ragione!”
Si fiondò nell'ufficio del direttore. La scrivania era praticamente vuota, ad eccezione del monitor del suo pc e di materiali di cancelleria. Ma nei cassetti sicuramente avrebbe trovato quello che cercava.
E invece questi erano vuoti, a parte altra cancelleria. Come è giusto che sia, visto che tutti i documenti li aveva lui.
“No, non può essere, deve avere delle copie...forse...”
Accese il pc. Doveva fare in fretta. Sperava che un tipo come Yasuhiro fosse abbastanza smemorato per tenere una password nel suo pc di lavoro. Si sbagliò, ma scoprì che in fatto di pc Yasuhiro era combinato molto, ma molto male. Aveva scritto la password nel suggerimento.
“E la mia famiglia da anni stipula assicurazioni con lui...”
Lo sgomento passò quando riuscì a trovare quello che cercava. Ordinatamente in una cartella vi erano tutte le fatture.
“Ecco! Lo sapevo! Una fattura per un impianto di aerazione, per dei condizionatori...il tutto portato fin qui e installato, come è giusto che sia. Se non fosse che qui non c'è nessun impianto di aerazione, tanto meno dei condizionatori!”
Mandò tutto soddisfatto una mail, cancellando poi le tracce, e si copiò queste fatture in un cloud on-line.
Sapeva di un sacco di rimborsi IVA e di agevolazioni che lo stato offre alle aziende che spendono in migliorie per gli edifici. Yasuhiro voleva approfittarne.
Ha detto di voler dichiarare queste fatture, false, che riguardano acquisti che non ha fatto. Ciò, a casa mia, si chiamerebbe dichiarazione fraudolenta.

Commento dell'autore:
Mi sono sentito abbastanza sollevato nell'aver finito questo capitolo. E mi sono rivisto un attimo in Yamazaki. S'era sentito perso e poi è riuscito a capovolgere la situazione. Io, all'inizio della stesura di questo capitolo, sudavo freddo. Non avevo la minima idea di come fare finire la storia di Yamazaki. Due settimane fa, o forse anche una, mi sono poi deciso che dovevo per forza darmi una mossa e fargli dare una mossa. Ho scritto abbastanza di getto, come al mio solito, questa storiella infilandoci pure un attimo di intrighi di aziende e cose così. Sono dubbioso sul risultato finale, ma posso dire di essermi divertito.
Il prossimo capitolo molto probabilmente sarà l'ultimo. E niente, non è un informazione utile, ma volevo condividerla.
Stay tuned!

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