Ashes House

di Anushka
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 - Quindici anni ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 - cosa fa di una villa una casa ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 - Diverse città, stessi occhi ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 - Quindici anni ***


Chiamiamola Provvidenza.
Sì, quella radiosa forza vitale che sospinge gli esseri umani alla massima gioia.
L’ostinata insistenza della felicità nel dispiegarsi tra i casi della vita come un sottile filo di luce nelle azioni, nei pensieri, nelle fatalità, ricamando le vite le une nelle altre.
Chiamiamo Destino il bagliore del mattino che filtra tra le foglie degli accadimenti e mormora sulle gote morbide delle fanciulle, sui fiori in boccio, sulle vedute silenziose di montagna.
Chiamiamo Fato l’istinto irrefrenabile che Jane Eyre aveva provato un tempo, molti anni prima, quando era stata trascinata dal suo cuore alle rovine di Thornfield Hall, ormai in cenere.
Quel genere di amore che Adele aveva sognato per tutta la vita. Quello stesso che non aveva provato mai.
Il collegio era stato, davvero, una buona esperienza. Le sale spalancate sui pomeriggi assolati, le buone compagne che con lei avevano affrontato la separazione da una casa amata, i canti che aveva imparato, le lezioni che aveva ripetuto. I cinque anni che aveva trascorso da austera studentessa non avevano goduto forse del fascino della dedizione che Jane era solita infondere nelle sue lezioni, tuttavia avevano sortito un buon effetto: la delicatezza che Jane aveva cercato di trasmettere alla figlia adottiva aveva trasformato un’allegra bambina in una dolce fanciulla. Sbocciava nei suoi quindici anni, aveva maturato una lodevole eleganza, e le delizie del suo cuore erano ben celate sotto le ciglia nere, nei teneri occhi blu.
Aveva coltivato un'incantevole predisposizione per il canto e il pianoforte, interpretando con il suo talento la freschezza che le apparteneva. Era poco meno che una donna, e quanto di più somigliante a un angelo si potesse trovare.
Ma, ancora, aveva conservato un’invidiabile ingenuità: era sinceramente bendisposta nei confronti della vita, delle persone, tanto che, senza scampo per alcuno, si faceva amare. E se pure la sua vita era iniziata in una nebbia densa e gelida, una sola scintilla di quel sentimento angelico che legava Jane ed Edward aveva rischiarato la sua vita per sempre, come un tiepido mattino sa addormentare una bufera. Non poteva capirlo, ancora. Ma era incondizionatamente, infinitamente grata.

 

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 - cosa fa di una villa una casa ***


La carrozza svoltò d’un tratto abbandonando il bosco, e si spalancò in una silenziosa vallata. Il sole si assopiva piano lungo la linea di un orizzonte nebbioso, il cielo infuocato si spegneva nelle tonalità scure del paesaggio. Seguendo il sentiero non si distingueva rumore, come se la natura intera fosse in raccoglimento, in preghiera. Stringeva ancora tra le mani la lettera che Jane le aveva scritto. Come dimenticare la sua grafia precisa? Quasi le sembrava di udire all’orecchio la sua tenera voce leggere quelle parole. Avevano dovuto abbandonare Thornfield dopo l’incendio: i danni erano stati tanto tragici da rendere vano qualunque sforzo di recuperare quel luogo. Con il cuore gonfio avevano perciò detto addio a quelle pietre familiari, a quel nido di felicità, ed avevano trapiantato le radici della loro nuova famiglia in una tenuta, a nome Ashes House, in Cornovaglia. Si mostrava come una costruzione semplice ma spaziosa, sviluppata su due piani, di dimensioni di poco più modeste rispetto alla vecchia Thornfield, ma graziosa nelle fattezze. E, certo, ben più gioiosa, dal momento che la lunga separazione aveva fatto di quella dimora una meta attesa e sospirata. Il giardino era davvero un delizioso guadagno, poiché era largo e ben curato, abbastanza esteso da poter passeggiare nelle giornate di sole e offriva un rifugio all’estremità della proprietà tra gentili fronde d’albero. Appunto tra quelle fronde potè scorgere, scendendo dalla carrozza, la ricurva e ombrosa sagoma di Edward, mentre quella esile e composta di Jane quasi non poteva contenere la gioia nell’accoglierla al grande cancello in ferro battuto. L’abbracciò a lungo, non potendo trattenere le risa. Si rese conto di essere cresciuta quando dovette chinarsi appena per ricambiare la stretta materna di Jane. L’allontanò da sé e, salutandola, l’osservò: cinque anni avevano illuminato quel viso una volta tanto malinconico, e avevano dissolto le ombre che aleggiavano sul suo capo. Se non aveva dimenticato i modi composti ed eleganti, aveva però coltivato nel suo cuore quella scintilla che Edward aveva saputo accendere e che sfavillava sempre più ogni giorno. Anche lui sembrava godere di quel prodigio: nonostante l’occhio destro ancora fosse annebbiato, un largo sorriso si apriva sul suo volto come non ne aveva mai visti. Ed era certo una bella novità, per il dannato che era stato. Non potè non notare una ciocca di capelli grigi sulla sua fronte matura. Il viaggio l’aveva molto stancata. Dopo la prima cena di nuovo tra le carezze della famiglia, si congedò, e fu scortata nella sua stanza. Era al piano superiore, con un’ampia finestra che dava sul giardino, non troppo lontano dal boschetto ai margini della tenuta. Non avevano dimenticato quanto amasse leggere, e le avevano conservato una stanza che rimanesse illuminata quanto più possibile. Non era una camera troppo grande, come di suo gusto, ma non mancavano un caminetto, un comodo letto con delle tende leggere, uno scrittoio ancora nuovo regalatole per l’occasione. Sfilando l’abito da viaggio vennero meno anche le sue ultime forze, e scivolò nel sonno senza accorgersene, baciata dalla luna e cullata dai grilli nella sera.

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 - Diverse città, stessi occhi ***


Si era stabilito a casa della cara cugina da qualche giorno lasciando per la prima volta in diciannove anni il suolo natio. Londra sorrideva fuori dalla finestra, ma non poteva fare a meno di chiudere gli occhi e immaginare dietro a quei vetri le sue montagne verdi e il mare tempestoso ai piedi delle scogliere. Non aveva mai avuto altro se non quella vista che ora distingueva chiaramente nella sua fantasia, e quello scenario gli era stato compagno fedele nei giorni tristi, nei segreti conservati nel cuore, nelle giornate di noia e in quelle di felicità. Al di là delle case, da bambino, poteva vedere il mare lambire le insenature che i secoli avevano scavato nelle montagne, stanco, come un anziano saggio con molte storie da raccontare. Quelle storie senza parole le ascoltava nelle giornate grigie, accanto a quella finestra dalle tende bianche, e immaginava come solo i bambini sanno fare. Ma era un uomo, ormai. E oltre il vetro c’erano le strade, le carrozze, I passanti. Aveva scoperto una piccola delizia: nei momenti di noia aveva affinato l’arte di osservare i personaggi che avevano la compiacenza di calpestare la strada dove i suoi occhi potevano vedere. La campagna gli aveva sempre mostrato volti di altro genere. C’erano molti mendicanti: in quella via passavano zoppicando, stringendosi in stracci logori, alcuni strattonando bambini in lacrime, altri inseguendo gli uomini ben vestiti o importunando le signore. Lì, comunque, non si fermava mai nessuno di questi, preferivano gli incroci e i sagrati delle chiese. Margareth gli diceva sempre che il Parlamento avrebbe provveduto, che la corona avrebbe provveduto, in sostanza che avrebbe provveduto qualcun altro. Passavano ancor più spesso anziani e anziane. Novembre aveva ormai stretto la sua gelida presa sulla città, e i cappotti lunghi e neri trasformavano i cittadini in viandanti spettrali all’alba. I giovani invece sedevano quasi esclusivamente nelle loro carrozze. La vista dal secondo piano sembrava particolarmente favorevole a questo tipo di studi. Aveva anche cominciato a disegnare qualcuno di quei volti, per passatempo, ma quando stava per terminare una sua creazione la trovava così lontana dall’originale che si vedeva costretta a stracciare quella pallida imitazione d’arte. La sua compagnia, nelle giornate solitarie come quella, erano i libri. Una delle ragioni per cui aveva accettato di seguire Margareth era stata proprio la sua passione per la letteratura, i romanzi specialmente: rappresentavano per lui un mondo ignoto e affascinante nel quale non aveva mai messo piede. Suo padre era stato un pastore e, certo, la sua biblioteca era ben nutrita, ma quasi esclusivamente di volumi in latino, raccolte di sermoni e, nel caso più felice, di trattati di scienza che la sua mente inesperta non poteva cogliere. Sua madre poteva tollerare anche quelli a stento, perché la sua istruzione grossolana non faceva che tormentarla ogni volta che il marito citava una frase in qualche lingua che non capiva. Quando si ricongiunse al cielo imparò ad apprezzare la loro vista, ma non tollerò mai che altri volumi fossero introdotti in casa, soprattutto romanzi. Era cresciuto con Galilei, ma ambiva ad altro. Incespicava quando incontrava Sant’Agostino, la sua gioventù reclamava storie appassionate, per comprendere il fuoco che ardeva nei suo vent’anni e che mai aveva sperimentato nell’infanzia. Comprendeva velocemente, imparava volentieri, ma non aveva mai compreso pienamente l’avversione della madre nei confronti della fantasia e del sentimento fittizio. Diceva che un giorno l’avrebbe rovinato, che un giorno l’avrebbe ringraziata, perciò semplicemente smise di leggere e si dedicò al pianoforte. Se la signora Davies avesse goduto di una mente più brillante, di una cultura solida o perlomeno di un intuito vivace avrebbe capito, prima che fosse tardi, quanto la musica fosse infinitamente più pericolosa per un giovanotto cupo e introverso come lui, e quanto per lei fosse più semplice intuire ciò che la lettura avrebbe rivelato a fatica. La musica poteva parlare al suo cuore di ragazzo con la chiarezza di un’amica, e quando suonava gli raccontava del mare e dell’orizzonte, dei gabbiani liberi nel cielo, di potenza e grandezza, dell’Italia, della Grecia, delle isole esotiche, dei grandi ghiacciai, le raccontava del futuro, le spiegava il presente. Suonare era per lui come tornare in patria, e il pianoforte era la sua lingua madre. A volte cantava anche, cantava in italiano perché sapeva che la signora non avrebbe capito una parola. Cantava arie di eroi sovrastati dal Fato, con una lama tra le mani pronti a dare la propria vita per amore. Certo, avrebbe intuito chiunque. Un passante alla finestra si sarebbe chiesto quali impeti slanciavano quell’ombrosa figura. La giovinezza, la curiosità, anche la vanità, talvolta, quella innocente che prova chi si squadra per la prima volta allo specchio e si concede di trovarsi piacente. La signora Davies, tuttavia riteneva che la musica fosse un ottimo svago da salotto e il miglior espediente contro una compagnia taciturna attorno al tavolo della cena. E Tristan amava così, sognava, cresceva, e maturava il suo senso dell’arte, della bellezza e del cuore. Coltivava l’anima senza che se ne accorgessero, mascherando tutto nella cortina dell’abitudine. Margareth gli aveva fatto notare che da quando era in quella casa non si era ancora avvicinato al pianoforte. Il fatto era che stava cercando di conciliare in sé alcuni aspetti dissonanti. Non era ancora uscito di casa, perché doveva prima rappacificarsi con i mobili antichi, con le tende rosse e polverose, con le accecanti finestre, con la propria stanza bianca e luminosa, con il panorama urbano al di là degli infissi. Stava addestrando la sua mente al volo, spiegava al vento le deboli ali con i piedi ben saldi nel nido. Sarebbe arrivato il tempo per tutto. Quel giorno stava ancora guardando dalla finestra, come si diceva. La bella cugina Margareth stava per ritornare al piano di sopra, l’aveva vista arrivare dal suo osservatorio. E infatti in meno di un minuto era trafelata, affannata alla sua porta. “Ebbene?” Le domandò ansioso. Non rispose, non mutò espressione. Gli porse un fagotto. Tristan l’aprì. Dentro la stoffa ben avvolta per proteggere il prezioso contenuto dall’umidità vi era il suo manoscritto, quel manoscritto che, come un’esca, gli aveva mostrato per convincerlo a seguirla in città una settimana prima, quel manoscritto che più e più volte era stato solcato da un’abile penna di donna e più volte era stato stirato da ansiose nocche pronte a cogliere la minima imperfezione nella stesura. Ecco questo si trovava ora tra le sue mani così come era stato presentato agli editori, così come loro l’avevano letto, valutato, così come il loro calcolo aveva intrecciato la fantasia. Volse gli occhi verso Margareth, e notò che i suoi brillavano di lacrime. Tornò all’involto. Scostò il manoscritto. Ecco, sotto quei fogli scritti a inchiostro un libro, un vero libro stampato. Con gli occhi brillanti alzò il capo e l’autrice gli stava innanzi ansiosa di conoscerne il parere. “L’hanno pubblicato, cugino!” scoppiò infine, e l’abbracciò stretto, ridendo. Era certo che sarebbe stato pubblicato, era un magnifico romanzo. Tristan, pur non avendo troppa esperienza a riguardo, l’aveva trovato appassionante e vi si era immerso fino a terminarlo in pochi giorni, voltando l’ultima pagina con il cuore pesante di chi lascia un vecchio amico per sempre. La sua giovane ospite aveva tanto lavorato a quel romanzo che certamente avrebbe fruttato quel denaro che sperava ricevere per ovviare alle molte spese dopo la morte del marito. Era una donna ricca, la sua eredità abbondante, ma non infinita, e lei non era il genere di donna dotata di senso della misura. Amava divertirsi, amava le feste da ballo, le notti in società, i libri pervasi di passione e di amori folli. Lei stessa era un po’ un’eroina simile alle sue preferite. Aveva amato in modo travolgente il marito, ma ora, medicata la ferita, era tornata più viva di quanto non fosse mai stata, certa dell’amore, vestale del sentimento. La storia che dormiva tra quelle pagine era un po’ questo, Margareth vendeva, incarnava e scriveva quello che Londra desiderava possedere. Tuttavia aveva avuto l’accortezza di utilizzare uno pseudonimo, e così le sue righe iniziarono a circolare tra gli scaffali delle piccole librerie a nome Mattew Madison.

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