Where The Streets Have No Name

di A Modern Witness
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I ***
Capitolo 2: *** II ***
Capitolo 3: *** III ***
Capitolo 4: *** IV ***
Capitolo 5: *** V ***
Capitolo 6: *** VI ***
Capitolo 7: *** VII ***
Capitolo 8: *** VIII ***
Capitolo 9: *** IX ***
Capitolo 10: *** X (Prima Parte) ***
Capitolo 11: *** X (Seconda Parte) ***
Capitolo 12: *** XI ***
Capitolo 13: *** Epilogo. ***
Capitolo 14: *** Go find yourself ***



Capitolo 1
*** I ***


Capitolo 1.
Affido la vita di mia figlia, la sua felicità e il suo futuro a Jared Leto.
Perché lui?
Perché non i nonni?
Perché non Amelia?
Perché mamma?
 
Quelle parole le rimbombavano in testa come una sentenza di ergastolo.
Prese la valigia dal nastro e con un sospiro seguì il cartello che indicava gli arrivi. Sarebbe venuto lui a prenderla? E se non era lui chi sarebbe venuto? Shannon? Emma?
Voleva tornare a Londra, ma poteva non esaudire l’ultimo desiderio di sua madre?
S’incamminò verso l’ignoto affollato di domande che sembravano non avere una risposta, se non quella che il suo tutore sarebbe stato Jared Leto.
Cercò di camminare decisa, ma senza avere troppa fretta, non era impaziente di vivere a Los Angeles. A dirla tutta non aveva voglia di incontrare lui e tutto quello che lo circondava. Troppo caotico, troppa frenesia, troppo fuori dal mondo in cui lei era cresciuta.
Sospirò quando vide le porte automatiche aprirsi davanti a lei.
C’era tanta gente che scrutava gli arrivati: chi con i cartelli tra le mani, qualche madre con una mano nel cuore o chi semplicemente aspettava impaziente.
Lei osservò attentamente quella folla, cercando di individuare qualcuno di familiare o qualcuno che avesse in mano un cartello con scritto il suo nome. Tuttavia non c’era nessuno.
Strinse ancora più forte la mano attorno al manico del trolley e superò la folla, che intanto aveva cominciato ad allargarsi, a riempirsi di parole d’affetto, di saluti e singhiozzi di quelli più sentimentali.
Mentre lei rimaneva sola, come sua madre aveva deciso per lei. Aveva deciso di farle lasciare i suoi amici, le persone a lei più care, il suo cane, la sua casa, la pioggia londinese che tanto amava; l’aveva costretta a lasciare la sua vita senza aver possibilità di scegliere.
Camminava per l’aeroporto con la speranza di vedere qualcuno che la cerava o scorgere qualcuno che vagamente poteva conoscere, ma niente e lei si sentiva ancora più frustrata.
«Hey!» Nah, non stanno chiamando me.
«Tu con il trolley nero!» Non sei l’unica ad avere la valigia di quel colore.
«Dannazione…Anthea!»
Si fermò di colpo e si guardò attorno, prima di notare una donna con i capelli neri venirle incontro. La guardò attentamente, non riuscendo a focalizzare chi fosse.
Lei la raggiunse, soddisfatta di aver individuato la persona giusta. Jared era stato un po’ vago sulla descrizione, le aveva semplicemente detto che aveva i capelli lunghi e castani, non molto alta e che portava gli occhiali. Insomma, poteva essere chiunque.
«Sei Anthea?» Le chiese allargando un sorriso.
Lei non parlò subito, scrutandola con gli occhi grigi: chi era quella lì?
«Sì. Tu chi sei?» Chiese senza entusiasmo, insomma era una persona in più di cui ricordarsi il nome.
«Io sono Vicky, la moglie di Tomo. Piacere di conoscerti» Si presentò, allungando una mano alla ragazza.
Anthea osservò la mano che le stava ponendo e poi la fissò dritta negli occhi, prendendola alla sopravista «Non si dice piacere quando si incontra una persona nuova, non si può mai sapere se davvero sarà un piacere averla incontrata o no» Commentò la giovane, sistemando gli occhiali «In ogni caso sarei stanca, possiamo andare?».
Vicky l’ascoltò accigliata, mai nessuno le aveva detto tali parole e non si sarebbe di certo aspettata di sentirle da una diciassettenne. In ogni caso decise che non era necessario replicare, visto tutta la confusione e la fretta con cui si era svolto l’affidamento.
«Bene, allora andiamo. Poss…»
«No, ce la faccio da sola.»
 
«Jared non ci hai detto niente di Anthea è normale che siamo curiosi!» Continuava a ripetergli Shannon, che l’aveva obbligato a fermare le prove per l’album, per rendere lo studio accogliente almeno quel giorno.
«Non c’è niente da dire. E’ una ragazzina normale di diciassette anni, cosa vuoi che to dica che taglia di reggiseno porta? Glie lo puoi benissimo chiedere tu quando arriva!» Gli rispose acido Jared, senza guardarlo in faccia, preso a fare dell’altro con il computer.
Il batterista sospirò scocciato «Almeno assomiglia ad Sophia?»
A quella domanda vide Jared fissarlo truce «Non nominarla Shan! Se non fosse per lei io non sarei in questa cazzo di situazione a dovermi prendere la responsabilità di una adolescente» Sbottò il cantante «Quindi non dire mai più il suo nome, lei e i suoi maledetti sentimentalismi» Continuò, mentre tornava a guardare lo schermo del computer.
Shannon non demorse e gli si sedette accanto «Seriamente Jared, cosa ti passa per la testa? Ma hai sentito cosa hai appena detto? Anthea ha perso sua madre, sta cambiando città lasciando tutto quello a cui era più legata, per venire a vivere qui. Davvero la vuoi accogliere con tanta freddezza e disapprovazione per la scelta di Sophia?» Gli chiese il maggiore, cercando di ottenere l’attenzione del fratello che sembrava avere trovato qualcosa di più interessante anziché ascoltarlo.
Jared si passò mano sul viso «Non voglio essere freddo Shan» Spiegò girandosi verso il fratello «Anzi, ma Anthea porterà scompiglio qua dentro. L’ho vista è distrutta e sua madre l’ha costretta a lasciare tutta la sua vita, per affidarla a me, uno sconosciuto» Aveva gli occhi colmi di tristezza e rabbia mentre pronunciava quella parole «Non farà bene a nessuno averla qui. E detta sinceramente non sono per niente entusiasta di averla qui, proprio durante la registrazione del nuovo album. Non è il suo mondo, non è il mio mondo avere a che fare con una diciassettenne» Guardò il fratello, che sembrava avere compreso i pensieri che l’assillavano.
Dalla prima volta che l’aveva vista a Londra aveva capito che era tormentata dal dolore, ma troppo orgogliosa da farlo vedere. Anthea era in collera con la madre, e allo stesso tempo con sé stessa perché provava rabbia verso la madre ormai defunta.  Era arrabbiata perché non capiva la scelta di Sophia.
«Capisco Jared, però ormai è compito tuo… nostro prenderci cura di lei, non possiamo tirarci indietro» Sembrava convinto di quello che diceva, pensò Jared. Tuttavia lui non l’aveva vista, non l’aveva conosciuta non sapeva quanto dolore riempiva quegli occhi chiari.
Tornò a guardare il computer, non gli rispose e ritornò ad occuparsi di ciò che aveva lasciato.
Shannon aspettò una sua reazione, ma non vedendola arrivare si alzò e tornò in cucina da Tomo che per tutta la mattina che , con l’aiuto di Emma e Costance, aveva preparato cibo per un intero reggimento militare.
«Vicky mi ha mandato un messaggio» Disse Tomo girandosi verso l’amico «Stanno arrivando. Jared?»
Shannon non seppe cosa rispondere «Non lo so. Credo sia solo preoccupato, forse» Fece spallucce, guardando la madre che gli sorrise, cercando di confortarlo. Nessuno sapeva come avrebbe potuto reagire Jared.
«Si abituerà, vedrai.» Le parole della donna anticiparono il suono del campanello e sul suo volto si dipinse un sorriso «Vado io» Disse pulendosi le mani su uno strofinaccio e avviandosi verso la porta d’ingresso, mentre anche Jared si allontanava dal computer.
La porta si aprì e la voce di Costance non tardò ad arrivare «Benvenuta!» L’accolse la donna.
Anthea la guardò brevemente, ricordandosi che quella donna dalla  lunga chioma grigia era la madre dei Leto. Le sorrise semplicemente, giusto per non distruggere l’entusiasmo che le brillava negli occhi. Che poi cosa c’era da essere felici non lo sapeva.
«Come è andato il viaggio?» Continuò la donna, chiudendo la porta e avvicinandosi dalla ragazza.
Anthea vide Vicky lanciarle un’occhiata strana «Terribile, soffro di vertigini» Si limitò a dire, per poi accorgersi che l’entrata della casa si era gremita di persone.
Le vennero le lacrime agli occhi a guardarli. Perfetti sconosciuti a cui sua madre aveva lasciato la vita della propria figlia. Li guardò brevemente tutti, prima di trovare lo sguardo di Jared.
Aveva lo stesso sguardo di quando era venuto a Londra per firmare le carte dell’affidamento: freddo, preoccupato, scocciato. Lui non la voleva lì, ma nemmeno lei voleva essere lì, era stata un’imposizione detta da sua madre e nessuno dei due se l’era sentita di negare quell’ultimo desiderio a Sophia.
Le scappò una lacrima, che cercò di mascherare.
«Ti accompagno di sopra?» Si offrì Vicky, rompendo lo strano silenzio «Tomo..» E indicò il chitarrista «..ha preparato una ottima cena» Le disse con un tono, quasi, consolatore.
Tuttavia ad Anthea crebbe l’angoscia «Sono vegetariana» Affermò, tornando a guardare Jared che sembrò essere preso alla sprovvista. Non se lo era ricordato? Eppure Amelia, la migliore amica di sua madre, glie lo aveva detto.
Infatti Costance s’intromise «Non ci hai detto niente Jared?» Chiese la donna, con una nota di disappunto nella voce.
«In ogni caso non c’è solo carne nel menù» Si difese il cantante.
«Comunque io non mangio. Non ho fame» Avvertì Anthea prima di tornare guardare Vicky «Mi accompagni di sopra?» Chiese. La donna annuì e le fece strada verso le scale, mentre alle loro spalle tutti erano rimasti un po’ confusi.
La sua camera non era niente di speciale, non che si aspettasse un lusso sfrenato in così poco tempo, però nemmeno una sistemazione tanto provvisoria. C’era il minimo indispensabile, ricavato da chi sa quale parte della casa: un letto, con uno strano copriletto marrone e le lenzuola bianche, una cassettiera, uno specchio non molto largo e alto come la parte della stanza, una scrivania con un semplice lucina e la sedia.
«Non è niente di che, ma avrai sicuramente tutto il tempo per renderla più tua..»
A quelle parole Anthea non seppe rispondere e si girò semplicemente verso Vicky, mentre le lacrime scorrevano libere sul suo volto. La donna si fece avanti, ma Anthea scosse la testa «Esci, per favore» La supplicò, mentre si sedeva sul letto.
Vicky uscì e Anthea si sfogò, portandosi con la schiena contro il muro e le gambe al petto. Lasciò che i singhiozzi la travolgessero, che il dolore la spaventasse per ciò a cui stava andando incontro.
Quella camera non sarebbe mai stata sua, niente lì dentro sarebbe stato casa sua.
Casa sua era sua madre, erano i suoi amici e Londra, non con quegli sconosciuti a cui la sua vita ora collegata. Cosa ne sapevano loro di un’adolescente? Lei non era un CD da produrre, non era una folla di gente da entusiasmare, lei voleva essere tolta da quel baratro. Voleva tornare a Londra, perché lì avrebbe potuto accettare il lutto per la madre, che le sarebbe rimasto per sempre.
Invece era lì, da sola contro una città che creava solo illusioni.
 
Si erano seduti a tavola tutti un po’ pensierosi e preoccupati. Ognuno di loro l’aveva vista, non tutti aveva colto la lacrima solitaria che per un momento era apparsa sul volto di Anthea. Tuttavia, ognuno di loro aveva visto il dolore di quella ragazza, ma la loro preoccupazione non poteva che andare anche a Jared.
Quella sera aveva deciso di non mangiare ed era uscito a bordo piscina, seduto sul divano in paglia.
Era addolorato per la perdita di Sophia, non poteva negare il fatto che le volesse molto bene. Gli venne da sorridere nel pensarla. Lei aveva sempre creduto in lui e anche ora che non c’era più, continuava a farlo, forse stavolta si sbagliava. Per lui era difficile accettare questa consapevolezza. Lui che credeva in tutto quello che faceva, lui che pretendeva le sfide impossibili, lui, Jared Leto, l’artista dalla mille sorprese.
Ma Jared? L’uomo di quarantuno anni ce l’avrebbe fatta?
«Jared…» Si voltò verso sua madre, che lo stava raggiungendo con qualcosa in mano «Tieni» Gli disse, passandogli quella che sembrava essere una tazza di camomilla.
«Non servirà a molto, comunque grazie» Disse prendendone un sorso.
«Ce la farai Jared, hai me, tuo fratello, Tomo, Vicky…» Lo incoraggiò, poggiandogli una mano sul braccio.
Lui accennò un sorriso, ma non le rispose.
«Aiutala, stalle vicino. Cerca di farle capire che Sophia non ha poi fatto una scelta così sbagliata…»
«L’ha fatta invece, mamma. Poteva lasciarla a Londra…»
La madre lo bloccò «No, questa è stata la scelta giusta» Sentenziò convinta Costance, lasciando interdetto il figlio «Con noi, Anthea ha la possibilità di riscattarsi. Porterà con sé sempre il dolore per l’assenza della madre, ma qui non sarà circondata da cose che la riguardano. La consoleremo certo, ma lei dovrà essere capace di voltare pagina e ricominciare a vivere, se fosse rimasta a Londra non ce l’avrebbe mai fatta. Qui non ha altra scelta se non quella di cambiare, sfogare il dolore, sprofondare, ma poi sarà in grado di rialzarsi.
Nessuno di noi conosceva Sophia bene, soffriamo per la perdita, ma abbiamo le nostre vite. Nessuno starà qui a ricordarle giorno per giorno la morte della madre, da domani noi continueremo le nostre vite, per quanto poco normali possano essere e lei si dovrà adattare a noi, come noi a lei.»
Sapere sua madre così determinata lo spingeva ad andare avanti. Costance aveva ragione, la lontananza dalla sua vecchia vita avrebbe di certo provocato un cambiamento in Anthea, positivo o negativo che fosse, ma avrebbe in ogni caso potuto liberarsi del dolore.
«Grazie, mamma.»
Costance si lasciò abbracciare dal figlio, ricambiando a sua volta, dopo di che ritornarono in caso, sotto lo sguardo di tutti.



Buongiorno a tutti! 
Non sono molto brava a presentare ciò che scrive, anche perchè parlando forse andrei dire troppo e svelare la trama della storia che si costruirà di capitolo in capitolo. Mmm... quindi, spero vi piaccia se avete qualsiasi cosa di dire: commenti/ bestemmie/ insulti/ tutto quelle che volete, lasciate pure un commento!.

Silence.

 

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Capitolo 2
*** II ***


Capitolo 2.
Era venerdì quando era atterrata a Los Angeles ed erano passati tre giorni.
Ora, lunedì, avrebbe ricominciato a frequentare il college.
Scostò la tenda dalla finestra e poggiò la testa al vetro. Soli tre giorni e già era stanca, benché si fosse fossilizzata in quella camera per tutto il tempo. Nessuno l’aveva cercata da Londra, nessuno l’aveva chiamata dal piano di sotto.
Forse era stato meglio cosi. Forse no, non lo sapeva.
Chiuse gli occhi, stupendosi ancora del magone di lacrime che si portava dentro, convinta di aver consumato ogni singola goccia d’acqua che avesse in corpo.
Si era arrovellata per tutto il tempo sul da farsi. Aveva cercato una soluzione che portasse a vedere quella situazione sotto una luce più positiva, ma non riusciva vederci alcun vantaggio. Anzi, tutto sembra avvolto da una sottile coltre di pessimismo, il cui nocciolo era che doveva rinunciare alla sua vita per iniziarne una nuova. Tuttavia si sentiva troppo vuota per trovare le forze di stamparsi in viso un sorriso, per cercare nuovi amici o semplicemente per presentarsi ad una nuova classe.
Non sapeva neppure che ore fossero. Ciononostante, era già vestita per uscire.
Sapeva che Jared l’aveva iscritta alle stesse lezioni del corso d’arte che seguiva a Londra, unica cosa accettabile di tutto: sarebbe ritornata a riempirsi la testa con la sua passione per l’arte. Una magra consolazione, ma si era detta di provare a farla diventare il filtro per conoscere Los Angels. Forse in quel modo la città le sarebbe piaciuta di più.
Sentì qualcuno entrare, anche se non aveva sentito bussare. Tuttavia, chiunque fosse, aveva avuto l’accortezza di entrare quasi con timore, spalancando lentamente la porta.
«Oh, sei già sveglia…» Anthea chiuse gli occhi, innervosita semplicemente da quel tono di voce. Quasi sicuramente l’avevano costretto ad andare a vedere se fosse ancora viva o se si fosse già data alla fuga.
«…pensavo dormissi» continuò Jared.
Lei riaprì gli occhi, ma non si voltò. Il cielo fuori era abbastanza chiaro da essere prima mattinata, ma molto probabilmente non era proprio l’ora in cui una persona si alzava normalmente. Poco le importava, non aveva più voglia di stare distesa su quel letto a fissare il muro bianco. Tuttavia non aveva nemmeno tanto interesse ad uscire da quella stanza, semplicemente voleva essere lasciata in pace. Lontana da tutti quelli che vivevano in quella casa.
Sentì Jared sospirare, perché era andato lei? Aveva forse paura che non scendesse quel giorno?
«Hai fame?» Chiese il cantante esasperato. Sì, starle vicino gli faceva saltare i nervi, come poche volte gli era successo nella vita. Tuttavia Shannon lo aveva minacciato: se Jared non fosse andato di sua – quasi – spontanea volontà a parlare con Anthea, lo avrebbe preso di peso e li avrebbe chiusi a chiave in quella camera, finché non si fossero detti almeno “ciao”.
Anthea scosse la testa.
«C’è qualcosa che ti farebbe uscire da qui?» Le domandò, sembrando preoccupato.
Lei si girò, trovando subito gli occhi dell’uomo, che la fissarono con compassione. Molto probabilmente aveva gli occhi cerchiati di rosso per tutte le lacrime versate e lo sguardo vuoto, animato solo dalla disperazione.
«Non fingerti preoccupato» Lo accusò «Te lo si legge in faccia, che se fosse stato per te non ci avresti nemmeno messo piedi qui dentro. Sarai pure un attore, ma sei come le altre persone: se non te ne frega una cazzo di qualcuno, non puoi improvvisamente interessarti ad essa.»
Jared non lo negò, sarebbe stata ipocrisia.
«Hai ragione» Disse guardandola «A differenza tua, però, io ho fatto un passo avanti. Non credi di doverlo fare anche tu a questo punto? Non è così che si affrontano i problemi Anthea.» Parlò non calma, cercando di non tradire il fastidio che lo sguardo della giovane gli provocava: accusatore e arrabbiato.
«Problema? Forse Jared tu i problemi gli hai sempre risolti con tuo fratello accanto, ma io non ho più mia madre! E non ho fratelli a cui appoggiarmi, tanto meno i miei nonni o i miei amici. E sai perché?» Solo in quel momento, Anthea, si rese conto su quale consapevolezza si basasse tutto il suo astio per il cantate «Perché per qualche motto di egoismo o Dio solo sa cosa, hai accettato l’affidamento! Perché tu e mia madre avete deciso della mia vita e l’avete rivoluzionate senza il mio consenso. Ti rendi conto di questo?» Non c’erano più lacrime sul suo volto a quel punto, bensì un’aria corrucciata ed esasperata di essersi portata dentro quel peso per mesi, senza mai riuscire a buttarlo fuori. Ora che quelle parole aveva preso una forma, però erano ancora più terribili, perché le stava rivolgendo a Jared, il che voleva dire che lei aveva lasciato liberamente a quel l’uomo la possibilità di decidere cosa farne della sua vita.
E ora era in trappola.
Jared la guardò, furioso. Cosa ne poteva sapere lui di quello che lei voleva? Cosa pretendeva? Credeva davvero che per lui fosse un passeggiata tenersi in casa una persona che lo detestava?
«Dovresti limitarti a pensare alla tua musica e non a interferire nella vita di chi non conosci» Continuò la ragazza.
Il cantante si alzò dal letto e la raggiunse, fissandola dritto negli occhi. Voleva capire se quell’astio che stava dimostrando fosse ben radicato o solo uno scudo per difendersi da qualcosa di nuovo. Tuttavia fu inutile tentare, perché quello sguardo tradiva solo una freddezza che a diciassette anni non si dovrebbe nemmeno conoscere.
«Sarà quello che farò Anthea. Come hai detto tu non mi interessa che tu stia bene o male, sei una sconosciuta, non voglio intromissioni di nessun genere che possano mandare a puttane il mio lavoro. Perciò fai quello che vuoi, salvati da sola. Sii egoista e non accettare gli aiuti, mauna volta che avrai toccato il fondo sappi che io ti salverò in ogni caso, che ti piaccia o meno.» Detto questo si allontanò dalla ragazza, che fissò la figura dell’uomo sparire oltre la porta.

Il suo primo giorno all’Ucla – Università della California di Los Angeles – lo stava tranquillamente trascorrendo nella biblioteca dell’edificio, semi nascosta tra gli scafali e con la testa tra le mani.
Aveva tristemente scoperto che gli argomenti trattati alle lezioni,  cui era iscritta, li gli aveva già studiati e
non aveva la minima intenzione di riascoltarli, così la biblioteca le era sembrata la migliore soluzione. Un po’ per far trascorre il tempo, un po’ per nascondersi.
Per tutto il giorno aveva avuto l’amara sensazione che buona parte degli studenti sapesse chi era, perché fosse lì, dove vivesse e, soprattutto, con chi abitasse. Odiava quella sensazione di solitudine, mista a paura, tant’è che quasi rimpiangeva di non aver mandato al diavolo Jared quella mattina ed essersi chiusa in camera per non vederlo per il resto dei suoi giorni e non mettere piede al college.
Io ti salverò in ogni caso, il sangue le ribolliva  nelle vene ogni qualvolta quella frase le rimbombava in testa. Praticamente ogni mezzo minuto. Non riusciva a staccarsi da quelle parole, che avesse ragione? L’avrebbe salvata nonostante tutto? Si credeva davvero così potente da poter vincere qualsiasi sfida? Quanto detestava la determinazione di quell’uomo.
Si tolse le mani dal volto, quando sentì la sedia davanti a lei muoversi e un fruscio passarle davanti.
Le venne quasi da ridere, quando incontrò le irridi castane del giovane..
Lui la guardò con un mezzo sorriso«Aspetti qualcuno?» Chiese il giovane guardandosi attorno, mentre poggiava un bicchiere di carta colmo di caffè sul tavolo. Ad Anthea venne la nausea al profumo inebriante della bevanda. Da quant’è che non toccava cibo?
Lei lo ignorò. Dopotutto che fastidio poteva darle? Se aveva voglia di conversare aveva sbagliato tavolo e persona, quindi molto probabilmente si sarebbe defilato dopo avere riscontrato la poca loquacità della giovane.
«Di dove sei?» Le chiese il ragazzo, sorseggiando il caffè.
Le supposizioni di Anthea, trovarono conferma con quella domanda. In molti sapeva che lei era “quella nuova” trasferita in California, che poi come dannazione facevano a saperlo? Si ritrovò a sbuffare, mentre continuava ad ignorare il giovane davanti a lei.
«Mmh…dalla carnagione dovresti essere del nord Europa o forse Canadese» Iniziò a indagare il ragazzo.
Lei alzò gli occhi su quelli castani di lui, ma il giovane non reagì, bensì le rivolse un piccolo sorriso.
«Sei canadese?» Tentò nuovamente, interpretando la sua reazione come una risposta affermativa, all’ultimo paese che aveva nominato prima.
Lei non disse nulla. Pensasse quello che voleva, non avrebbe parlato con nessuno lì dentro, neppure con quello lì. Tuttavia il ragazzo non demorse, sembrava quasi divertito dalla situazione, cosa che stava mandato ancor più Anthea su tutte le furie.
«Forse non mi capisci, ma è strano perché tutti ormai capisco l’inglese. Va bene che siamo in America e noi americani abbiamo un pronuncia diversa e anche delle parole differenti, però non mi sembrava di averti fatto delle domande strane né di aver…»
«Sono inglese» Mormorò a denti stretti la ragazza, mandando al diavolo tutte le moine sul fatto di non parlare con nessuno, con quello lì sarebbe stato peggio tacere. Le sembrava d’essere destinata ad incontrare uomini talmente virili, da avere un logorrea peggiore di alcune pettegole.
Il ragazzo annuì, ma Anthea ne rimase stupita. Non era un sorriso di trionfo, come si aspettava: soddisfatto di avere ottenuto quello che voleva. Aveva semplicemente annuito e accolto l’informazione.
L’avrebbe preso a schiaffi: che problemi aveva? Prima si tormentava tanto per capire di cha nazionalità lei fosse e poi annuiva e basta. Come se gli avesse appena detto “ciao”.
Anthea afferrò la borsa e si alzò, ma si trovò nuovamente il ragazzo davanti e dovette cedere alla tentazione di guardarlo dalla testa ai piedi.
Portava il capelli corti di un castano cioccolato, mentre gli occhi erano di una tonalità più scura. La carnagione era meticcia e il volto era coperta da una leggera barba di pochi giorni. I lineamenti del volto erano bene definiti, ma si addolcivano non appena sorrideva.
«Io sono australiano» Iniziò con tono serio «Che t’importa? Niente, è solo per farti capire che tanti qui a Los Angeles sono di altre nazionalità, ma nemmeno questo di interesserà più di tanto. Ti voglio solo dare un consiglio: impara ad amare questa città, altrimenti ti annienterà» Anthea lo guardò accigliata.
Lui le sorrise per l’ennesima volta e poi si allontanò, mentre lei si risedeva al tavolo.
Se c’era una cosa che aveva imparato in quei mesi in cui sua madre era venuta a mancare, in cui era rimasta inerme davanti ai fatti, in cui contava i giorni che mancavano alla data che l’avrebbe allontanata da Londra per un tempo indefinito, una sola consapevolezza, vivida, spietata e ammaliatrice l’aveva dominata nell’anima: annientarsi, annullarsi e toccare il fondo era l’unico modo per esorcizzare il dolore.

Avrebbe dovuto chiamare Emma per farsi venire a prendere dopo le lezioni. Già, beh era tornata alla villa con un taxi, con la chiara intenzione di sparire fino al giorno seguente.
L’unico impedimento che aveva trovato nella realizzazione della sua idea era stata la cucina. Il giorno in cui era arrivata non si era nemmeno accorta che fosse l’ultima porta prima delle scale. Essersene accorta, aveva significato prendere atto che erano tre giorni abbondati, che non metteva niente sotto i denti.
La fortuna aveva voluto che in quella casa ci fosse un vegano.
Abbandonò la tracolla fuori dalla porta, sperando che in quello studio ce ne avessero ancora molto, per darle il tempo di preparasi un sandwich, degno di quel nome, e una buona dose di caffè bollente.
Sua madre l’aveva sempre abituata alla dieta vegetariana, forse l’unico periodo in cui le aveva fatto magiare della carne era stato durante l’infanzia, sotto stretta raccomandazione del pediatra, per garantirsi che Anthea crescesse in modo sano. In ogni caso la ragazza appena ne aveva avuto la possibilità aveva messo da parte la carne.
Quel ricordo le provocò una fitta alla stomaco, ma decise di placarla, almeno per il momento.
Aprì diversi scompartimenti della cucina prima di trovare del pane integrale in fette, mentre dal frigo ne estrasse un po’ di lattuga, pomodori e formaggio spalmabile. Niente di speciale, ma almeno lì dentro si faceva la spesa a differenza di Amelia.
Amelia, perché non si era ancora fatta sentire? Si chiese malinconica.
Adocchiò il bollitore, contenente ancora del caffè, e accese il fornello per scaldarlo, prendendo dalla lavastoviglie una tazza.
In breve si preparò il sandwich e il caffè fu caldo, lo versò nella tazza e fece per uscire.
Eccola lì la rabbia, sempre in agguato. Sentì il respiro farsi affannato davanti a quello sguardo compiaciuto, tant’è che fu costretta a poggiare piatto e tazza per non farli cadere, da quanto le tremavano le mani.
Io ti salverò in ogni caso.
Ti salverò.
In ogni caso.
Potevano esserci parole peggiori dette da quell’uomo?
«Posso mangiare qui con te?» Le chiese, indicando i due sgabelli accanto all’isola della cucina, oltre la quale si trovava Anthea.
«Non avevo intenzione di mangiare qui» Le era passata la fame.
«In camera non ci mangi, mi dispiace» L’avvertì Jared, continuando a mantenere lo sguardo in quello di lei.
Anthea alzò le spalle, come se la cosa non la interessasse «Godi la cena, Jared» Gli disse, allontanandosi da caffè e sandwich, non glie l’avrebbe data vinta per nessuna ragione al mondo.
Cercò di uscire, ma lui la bloccò.
«Non puoi continuare a non mangiare» Sembrava davvero preoccupato, si ritrovò a pensare Anthea e quasi cedette sotto quello sguardo azzurro. Tuttavia, lui la mollò quando lei non gli rispose e con stizza si riprese la tracolla e salì al piano di sopra, in tempo per evitare Shannon e Tomo, che dopo aver congedato tutti per la quella sera, raggiunsero Jared, ancora fermo all’entrata della cucina.
«Jared?» Il cantante si voltò verso il fratello «Cosa ci fai fermo lì?» Gli chiese, superandolo ed entrando in cucina.
«Hai preparato tu questi?» Chiese Tomo, indicando sandwich e caffè.
«No, li ha preparati Anthea. Erano la sua cena» Spiegò Jared, ricevendo di rimando un’occhiata perplessa dall’amico, mentre Shannon lo fissava truce intuendo ciò che era successo.
«Erano?» Ripeté Tomo.
Jared annuì, ma non appariva minimamente toccato dall’aver usato un tempo passato «Voleva cenare di sopra, ma le ho detto che non poteva. Così ha preferito digiunare anche oggi» Spiegò il cantante.
Tomo e Shannon si scambiarono una fugace occhiata preoccupata, entrambi sapevano che non si poteva continuare così e se Anthea non aveva nessuna intenzione di venirgli incontro volontariamente, dovevano almeno provare ad assecondarla nelle piccole cose.
Il batterista prese in mano il piatto e la tazza, sotto lo sguardo perplesso del fratello «Shan?»
«Sta zitto Jared» Lo riprese il maggiore, uscendo dalla cucina e salendo al piano di sopra.
Davvero non riusciva a spiegarsi il comportamento di Jared e oltre tutto l’atteggiamento del fratello lo mandava in bestia. Dopotutto non era stato lui ad accettare l’affidamento? Era stata una sua libera scelta quella di far trasferire Anthea a casa loro, quindi quel comportamento di astio e totale indifferenza di Jared non si spiegava.
Cercò di bussare alla porta e non ci volle molto prima che Anthea apparisse alla porta.
Lo fissò e per la prima volta da quand’era in quella casa, Shannon, poté vedere quegli occhi chiari brillare. Il batterista ne rimase piacevolmente soddisfatto, forse quella era la strada giusta per addolcirla.
«Sono d’accordo con mio fratello sul fatto che non debba mangiare qua sopra, da sola, Tuttavia non posso accettare di lasciarti morire di fame» Le porse il piatto e la tazza, ma Anthea esitò un momento, chiedendosi quali conseguenze ne sarebbero derivate.
«Non ti sto chiedendo di cenare con noi, ma se vuoi o, meglio, se ne hai piacere posso chiedere alla cameriera di lasciarti qualcosa in forno per quando torni la sera e per la mattina beh… » Sembrava in difficoltà
Anthea prese sandwich e caffè «… farò colazione al bar del college. Grazie» Non accettò né rifiutò l’offerta fattagli dal musicista, un po’ perché non glie la voleva dare vinta, ma soprattutto perché aveva talmente tanta fame che se non avesse messo qualcosa sotto i denti non sarebbe nemmeno riuscita  dormire.


NDA:
Inizio con….perdonatemi il ritardo! Il fato, destino, chiamatelo come volete è contro di me ultimamente e ha ingiustamente chiamato in causa la fan fiction.
Comunque, nuovo personaggio, Craig… che ruolo avrà? Ditemelo voi.
Oltre a questo, c’è una cosa fondamentale da dire: OSCAR come Miglio Attore Non Protagonista, io non posso che dire “speriamo non abbia un effetto catastrofico sull’ego della Divah, anche se è stata più che meritato!”.
Colgo l’occasione, anche, per ringraziare chi ha recensito il primo capitolo e colore (anime coraggiose) che hanno inserito la storia tra le seguite/ricordate/preferite *w*
Spero che il capitolo vi sia piaciuto e son ben accette qualsiasi tipo di recensione.
Un saluto,
alla prossima (si spera presto, incrociate le dita)
Silence.

 

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Capitolo 3
*** III ***


Capitolo 3.
Era passata una settimana e Anthea, a quel pensiero, se ne stupì. Si sentiva più rilassata rispetto ai primi giorni, ciò non comportava un cambiamento di comportamento nei confronti di Jared, anzi erano passati all’ignorarsi completamente. Mentre con Shannon, Tomo e il resto dei frequentatori della villa, non c’era grande interazione, ad eccezione del batterista. Aveva notato più volte che le sorrideva o comunque cercava in qualche modo di entrare nelle sue grazie. La prima volta che ci aveva fatto caso si era detta che effettivamente non riusciva ad avere lo stesso atteggiamento che adottava con il cantante.
Tuttavia non le interessava in ogni caso avere un appoggio per il momento, anche perché in ogni caso doveva condividere la casa con Jared.
Altra cosa strana era il ragazzo che aveva incontrato il primo giorno. Più che ragazzo lo poteva definire uno stalker di grande abilità, aveva quasi iniziato a sospettare che la pedinasse. Ogni volta che girava lo sguardo, si ritrova quegli occhi nocciola che la fissavano, ma anche quel caso aveva deciso di lasciarlo fare.
Le lezioni per lei erano finite da un pezzo e, infatti, era pomeriggio inoltrato. Aveva deciso di farsi un giro nei dintorni per cercare una ferramenta o qualsiasi altro negozio che vendesse vernici.
Infatti, durante quella settimana aveva maturato l’idea di dipingere su un angolo della sua camera un albero e, anziché disegnarvi le foglie, le avrebbe sostituite con le lucine natalizie con cui si addobba l’albero di natale.
Sorseggiò il caffè e si alzò.
Come previsto trovò, in fondo al bar del college, gli occhi castani del ragazzo che la guardavano e poi le sorrise, quasi a invitarla a raggiungerlo. Anthea corrucciò la fronte e uscì dalla porta che dava sul parco.
Quella sera avrebbe sentito Amelia che - dopo una brevissima chiamata fattale qualche sera prima - le aveva promesso una videochiamata tramite Skype per quella sera. Forse era anche per quello che in quei giorni, non le interessava niente.
«Hey» La ragazza si voltò «Ciao» La salutò il ragazzo.
Lei si rigirò, mentre un’idea le balenò in testa. Con un aiuto avrebbe trovato prima la ferramenta.
«Sai, dove posso trovare un negozio che venda vernici? E anche pennelli, magari» Chiese Anthea.
Lui la fissò quasi interdetto, ma non perché entusiasta, da che finalmente gli aveva parlato. Bensì perché non se lo aspettava, cioè lo aveva colto alla sprovvista con quella domanda.
«Qui vicino c’è una ferramenta…»
Anthea annuì soddisfatta «Allora andiamo.»
Lui la inchiodò con lo sguardo «Andiamo?»
Lei lo fissò indispettita, era sordo? «Sì, andiamo. Mi ha pedinato per una settimana intera, che ti cambia seguirmi anche fuori dal college?» Gli chiese, mentre varcavano il cancello del college, lasciandosi alle spalle il mormorio degli studenti. Il ragazzo le fece cenno di girare a destra.
Non le rispose e Anthea non se ne risentì, anzi, si ricordava perfettamente quante parole quel ragazzo potesse dire in pochi secondi.
Camminarono per un po’ senza cambiare direzione e con uno strano silenzio che li accompagnava. Non era imbarazzo, ma Anthea poteva percepire la curiosità di quel ragazzo trasudare ad ogni passo. In ogni caso non aveva intenzione di parlargli, le serviva come raggiungimento di uno scopo.
Attraversarono la strada e svoltarono a sinistra, Anthea seguiva i brevi cenni che il ragazzo le faceva e alla fine giunsero davanti ad un piccolo negozietto, dall’aspetto un po’ trasandato. Tuttavia Anthea non commentò e si limitò a spingere la porta, che fece suonare una piccola campanella che avvertì l’arrivo di due clienti. Nonostante ciò, non trovò nessun negoziante ansioso di venderle qualunque cosa, dietro il bancone, tantomeno si sentivano voci provenire da qualche corridoio del negozio.
Anthea si guardò un po’ attorno, cercando lo scafale delle vernici.
«Ti serve della vernice giusto?» Lei si voltò verso il giovane e annuì dirigendosi nella sua direzione di lui, intuendo che avesse trovato lo scafale.
«Posso sapere a cosa di serve?» Le chiese, mentre la osservava fare scorrere lo sguardo su tutte le latte colorate, con impresso sopra il nome e la marca della vernice.
«Devo disegnare un albero» Gli rispose sovrappensiero, mentre prendeva in mano una piccola latta contenente della vernice nera e poi una bianca.
Il ragazzo si stupì della scelta «Perché nero?».
Lei alzò le spalle, mentre si dirigeva alla fine del corridoio dove aveva visto esservi i pennelli «Contrasto. Le pareti della camera sono bianche, il nero risalta di più. Se lo facessi marrone, sarebbe troppo infantile e ingenuo.» Non seppe nemmeno lei perché gli rispose. Prese in mano un paio di pennelli e ne accarezzò le setole cercando quelle più morbide. Una volta che ebbe identificato la marca di pennelli con quelle meno dure, ne scelse uno abbastanza grande e un paio più sottili.
« E le foglie? Fai un albero senza foglie?» Le chiese ironicamente.
Le scosse la testa guardandolo «No. Le faccio con le luci di Natale, quelle con cui si addobba l’albero.»
«Devo dedurre che dovremmo cercare anche quelle?» Le domandò il ragazzo, con un leggero sorriso sulle labbra. Era contento di averla finalmente fatta parlare, anche se si stava trattenendo sul porle un’infinità di domande che gli affollavano la testa. Vicino a lei si sentiva impacciato, ma allo stesso tempo, seppure quegli occhi chiari lo intimorissero, ci vedeva un’opaca tristezza.
Anthea si morse l’interno della guancia, quando stava per protestare quel dovremmo, rendendosi conto che era stata lei la prima a usare un plurale. Annuì «Sai per caso già, dove sono? Così risparmiamo tempo.»
Lui scosse la testa «No, le dovremmo cercare.»
Anthea lo osservò, cercando di capire se la stesse prendendo in giro o se davvero non sapesse dove si trovassero le lucine.
«Ti assicuro che non ho mai messo piedi qui dentro» Si giustificò il ragazzo, notando lo sguardo della ragazza. Anthea si limitò ad alzare le spalle, per poi inoltrasi nel dedalo di scafali, seguita dal giovane, che attentamente ispezionava ogni scafale.
Quel negozio era più grande di quanto appariva, però sembrava anche deserto e questo la insospettiva. Tuttavia si trovò ad accantonare quell’idea, non appena scorse un’area dedicata interamente agli addobbi natalizi. Si rese conto in quel momento quanto fosse vicino Natale, ma s’impose di non pensarci troppo.
Afferrò una scatola di luci.
«Non prendi quelle colorate?» Le chiese il ragazzo, mostrandole la scatola che aveva in mano.
Iniziava a fare un po’ troppe domande «No.» Rispose secca Anthea, prendendo un’altra scatola delle medesime lucine, per poi voltarsi e tornare alla cassa.
«Perché? Gli alberi hanno le foglie colorate, rosse, verdi…perché farle bianche?».
Anthea si maledì, perché era stata una sua volontaria decisione quella di portarselo dietro «Vale la stessa spiegazione che ti ho dato per il tronco. Il bianco contrasta con il nero» Spiegò seccata.
«Però…»
«Nessun però! Senti mi gira di fare un albero in bianco e nero, non cambierò idea perché le mie decisioni non lo rendono un albero a tutto gli effetti. Tronco nero e foglie bianche, punto e fine» Esalò esasperata, fissandolo dritto negli occhi.
Il ragazzo annuì comprensivo, si era esposto un po’ troppo con le domande. Dopotutto non la conosceva, non sapeva come ragionasse e le motivazioni di quelle scelte. S’impose di rimanere zitto e la seguì verso il bancone per pagare.
 
 
Quando sentì il suono di una richiesta di videochiamata di Skype, ebbe un tuffo al cuore.
Accettò e la familiare figura di un’Amelia, un po’ assonnata, le apparve sullo schermo del computer.
«Fuggitiva, come va in California?» Chiese la donna, distendendo le labbra in un caldo sorriso.
Anthea non rispose subito e studiò i tratti che da sempre conosceva di Amelia: i lunghi e lisci capelli corvi, gli occhi da cerbiatta con una forma po’ a mandorla, contornati dalle lunghe ciglia che sempre le aveva invidiato. I lineamenti morbidi della pelle chiara, appena segnata da delle rughe sugli occhi.
Sentì le lacrime riaffioragli agli occhi, ma non voleva farla preoccupare. Si costrinse a dare sfoggio della sua migliore faccia di bronzo e accennò a un sorriso «Me la cavo, mi sto ancora ambientando. Tu?»
Amelia assottigliò lo sguardo, come quando Sophia le mentiva «Menti meglio di tua madre, però a me non sfugge nulla. Racconta.»
Anthea sospirò «Non è casa mia questa e in più c’è Jared. Non riesco a capirlo, sapeva a cosa andava incontro, sapeva di poter evitare di accettare l’affidamento e pure mi ha portato qua. Tuttavia è scontroso, si è dimenticato che sono vegetariana, insopportabile, imp…»
« E tu invece sei tutta zuccherosa, giusto?»
Anthea si accigliò e fu lei, questa volta, a ridurre gli occhi a due fessure «Sono a casa di uno che non mi sopporta, ma che però mi ha messo un tetto sopra la testa! Che cosa dovrei fare, prostrarmi al suo cospetto? Neanche in un'altra vita» Affermò con una punta di acidità in voce.
Amelia scosse la testa ed effettivamente, se Jared si comportava così, c’era un motivo. Perciò non poteva dare torto alla ragazza, anche perché lei stessa aveva avuto modo incontrarlo e vederlo quanto lo infastidisse accettare l’affidamento di Anthea e pure l’aveva fatto.
«Con gli altri?» Cambiò argomento la mora.
Anthea si morse un labbro, confusa «Non lo so. Cioè è strano, perché sembrano facciano di tutto per non incontrarmi, però quando li incrocio cercano di essere carini con me. Però più di tanto non mi danno fastidio, anzi forse è meglio che non abbia troppe persone intorno.»
Amelia annuì, in fin dei conti era a Los Angeles da solo una settimana e tutti si dovevano ancora abituare alla sua presenza, al contrario di lei e i nonni di Anthea, che della sua assenza se n’erano accorti sin da subito.
«Al college invece come vanno le lezioni? Incontrato qualche bel ragazzo?» cercò di sdrammatizzare la donna.
Anthea girò gli occhi, se lo aspettava. «Le lezioni più di tanto non le sto frequentando, perché stanno trattando argomenti che avevo già fatto, farò i primi esami tra una settimana e poi inizierò ad andarci…» Si fermò sentendo qualcuno bussare alla porta.
«Avanti..» Disse, mentre Amelia allungò il collo per cercare di capire con chi Anthea stesse parlando.
Alla porta apparve Shannon, con un accenno di sorriso sulle labbra.
«Hai mangiato?» Le chiese il batterista.
Anthea buttò un occhio all’ora del computer, accorgendosi che da quanto aveva aspettato la videochiamata con Amelia, non si era nemmeno accorta che l’ora di cena era passata da un pezzo.
«No. Non mi sono accorta di che ore fossero, stavo aspettando di parlare con Amelia su Skype» Come aveva detto in precedenza, c’era qualcosa nei modi di fare di Shannon che frenava l’acidità che normalmente rivolgeva al minore dei Leto.
«Noi siamo appena usciti dallo studio e Tomo sta cucinando qualcosa. Gli dico di preparare anche per te?»
Anthea si sentì presa alla sprovvista e senza via di scampo. Aveva fame, non poteva negarlo, e giù loro stavano preparando da mangiare.
«Ricorderò personalmente a Tomo che sei vegetariana, non è un problema.»
Se fosse stato Jared a incitarla a scendere con loro a mangiare, come minimo avrebbe preferito morire di fame per tutta la notte anziché accettare. Tuttavia glie lo stava chiedendo Shannon.
«Se devi andare a mangiare Anthea, ci possiamo sentire un’altra volta. Magari mi chiami quando puoi, non preoccuparti per il fuso orario» Le disse Amelia sorridendo, avendo ascoltato quello che il batterista aveva detto.
«Va bene» Si arrese Anthea, consapevole che avrebbe dovuto mangiare seduta a tavola con Jared.
Shannon non si scompose più di tanto, mentre avrebbe voluto sorridere come un matto a quella piccola vittoria ottenuta.
«Ti aspettiamo giù» Le disse chiudendosi poi la porta alle spalle.
Anthea tornò a guardare lo schermo «Amelia…» Iniziò con un tono lamentoso «Perché?».
Sul volto della donna si dipinse un sorriso amaro «Sophia si fidava di Jared a quanto pare, c’è un motivo se tu sei lì, tua madre non era così pazza. L’ha fatto per il tuo bene e sinceramente, anche se mi costa tanto dirlo, credo che per te sia davvero un bene aver cambiato aria, qui ci sarebbero troppe cose che te la ricordano» Anthea vide gli occhi di Amelia diventare lucidi, mentre si affrettava a sostare lo sguardo altrove.
«Ci sentiamo piccola» Non le lasciò nemmeno il tempo di chiedere dei nonni e di salutarla, che lo schermò si oscurò. Avrebbe voluto essere lì a confortarla, a piangere con lei e sprofondare nei ricordi sulla madre.
 
NDA:
Buondì o Buona sera, dipende da che ore sono xP 
Il capitolo è più breve degli altri (credo), ma mi serviva un momento “sospeso” e tranquillo per Anthea, insomma è pur sempre in California!
Comunque spero vi piaccia anche non è un granché come cosa t.t
Grazie a tutti coloro che seguono silenziosi e a chi lascia recensioni:)
Alla prossima!
Silence.

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Capitolo 4
*** IV ***


Capitolo 4.
Si guardò un’ultima volta allo specchio: i capelli raccolti in uno chignon, la maglia bianca con sopra la camicia in jeans, non avevano una piega come anche il pantaloni marroni, e le converse bianche non avevano una macchia, seppur si vedesse che le aveva usate parecchio. Prese la piccola borsa a tracolla nera e uscì dalla camera.
Craig, lo stalker, il giorno prima, dopo essere usciti dal ferramenta, le aveva chiesto se quel sabato le andasse di uscire con lui, per una cosa tranquilla, come un giro in città, così perché potesse prendere dimestichezza con Los Angeles.
In un primo momento Anthea era stata tentata di rifilargli un “no” secco, però dopo ci aveva ripensato, provando a convincersi che sarebbe stato un vantaggio conoscere quella città un po’ di più, magari avrebbe potuto trovare qualche bel posto da immortalare in un disegno a carboncino.
Scese giù, trovando Shannon intento a guardare la Tv.
«Shannon…» Lo chiamò, fermandosi un momento a guardarsi in torno, con il sospetto che Jared la stesse ascoltando, nascosto da qualche parte.
L’uomo si girò verso di lei «Esci?» Le chiese, con il solito mezzo sorriso sulle labbra.
Anthea, dopo la cena della sera precedente, aveva scoperto che di quell’uomo c’era una cosa che non sopportava: quel mezzo sorriso compiaciuto, che gli spuntava sulle labbra tutte le volte che lei gli parlava.
«Sì. Anche tu a Jared?» Chiese, più per educazione che per interesse.
Il batterista annuì «Sì, andiamo in un locale a Santa Monica. Tu?».
Lei si accigliò «Ehm… non lo so» Disse corrugando la fronte «C’è…una ragazza che ho conosciuto, che si è offerta di farmi fare un giro della città» Evitò di dirgli che era un ragazzo, semplicemente per tenersi lontana da imbarazzanti domande che sarebbero potute nascere.
«Non è poi così interessante Los Angeles di sera, dille che ti porti in qualche locale…» Suggerì il musicista.
«Qualcosa mi dice che stai per dirmi il nome del locale dove andrete sta sera» Suppose lei assottigliando lo sguardo. Come aveva già avuto modo di notare, Shannon aveva un occhio di riguardo per lei, sembrava davvero interessante quando le chiedeva qualcosa oppure appariva sincero quando le proponeva qualcos’altro.
«Touchè» Acconsentì l’uomo, alzando le mani in modo teatrale « Non conosco questa ragazza…» Marcò la parola, lanciando ad Anthea un’occhiata di chi la sapeva lunga «… e perciò non mi fido. Los Angeles sa essere pericolosa anche se si è in due.»
Anthea spostò lo sguardo da quello del batterista. Era davvero preoccupato.
«Perché ti preoccupi per me Shannon? Non sei tu ad esserti preso la responsabilità .» Le era uscita spontanea quella domanda.
Il batterista si alzò dal divano e la raggiunse, costringendola a fissarlo dritto negli occhi.
Era indubbiamente belli, una miscela di verde e marrone. Erano occhi felini, quelli di un predatore. Tuttavia, quello sguardo sembrava celare un passato insidioso. Tanti ricordi da tenere sempre a mente, ma allo stesso tempo da dimenticare per tutto il tempo di una vita.
«Hai ragione, non sono io il tuo tutore, però vivi sotto il mio stesso tetto. Mettiamola così, ho quarantadue anni* e, beh, seppure represso o quasi inesistente, credo di avere un po’ d’istinto paterno. Hai bisogno di qualcuno Anthea, lo so.»
L’uomo vide negli occhi di lei, balenare un lampo di rabbia «Lo sai?» Il tono era duro e divertito «Non hai perso tua madre, Shannon, non sei stato catapultato in una realtà differente…»
«Io e Jared, quando eravamo piccoli…» La interruppe lui «… cambiavamo casa, città quasi ogni mese e nostro padre ci ha abbandonato, per sua volontà, quando eravamo troppo piccoli. Io ho perso me stesso, prima di fondare la band. E ti assicuro che perdere sé stessi è peggio di perdere un parente. Non senti più nulla, tutto ti annienta e niente di salva, ma c’era Jared. Lui mi ha fatto risalire. E ora, io desidero poter fare lo stesso con te. Non ne ho nessun diritto, questo è vero, ma Jared sembra non volerne sapere, quindi spetta a me per… diritto di anzianità? Diciamo così. Qui dentro, dopo mia madre, sono il più vecchio e come tale ho la responsabilità morale, di aiutarti a superare questo lutto.»
Quelle parole non erano state una predica o una paternale, bensì somigliavano più a un consiglio. Lui le stava consigliando di farsi aiutare, di trovare un appiglio, con cui piano, piano trovare la giusta strada per risalire.
Aveva ancora gli occhi puntati in quelli dell’uomo e vi lesse sincerità e disponibilità. Tuttavia, qualcosa, ancora la fermava.
Ciò che lui desiderava non era impossibile, però era giusto che fosse lui a farlo? Che senso aveva che un perfetto sconosciuto le offrisse aiuto?
Sospirò, ancor più confusa, ma quella non era la sera giusta per pensarci.
Shannon, non vedendola rispondere, ammorbidì l’espressione ed estrasse il telefono dalla tasca dei jeans.
«Non pensare che voglia starti alle calcagna, ma sarei più tranquillo sapere che tua hai il mio numero. Per qualsiasi cosa possa succedere, credo sia giusto che tu abbia qualcuno da avvertire.» Le porse il telefono «Faresti questo per un povero vecchietto?».
Gli angoli della bocca di Anthea, si alzarono leggermente. Era riuscito a farla, quasi, sorridere.
«Sì, credo sia giusto» Confermò lei prendendo il telefono dell’uomo e digitandovi il proprio numero di telefono, mentre Anthea porgeva il suo al batterista.


Uno shotino.
Tre shotini.
Cinque shotini.
Anthea spostò i piccoli bicchieri davanti a sé, rendendosi conto dell’errore che, consapevolmente, aveva fatto quella sera. Si era fatta convincere di entrare in quel posto, di cui non sapeva nemmeno il nome.
Aveva creduto a quel non è necessario che tu beva, per divertirti, quando sapeva perfettamente quanto false potessero essere quelle parole e quanta poca forza di volontà, lei stessa, aveva davanti a un barman. Era un po’ come Babbo Natale, lui con un solo gesto, un solo bicchiere e del liquido, poteva farti dimenticare tutto e renderti allegra per degli infinti momenti.
E lei ci cadeva ogni volta, con la scusante di reggere bene l’alcool.
Non era ancora ubriaca, per fortuna, era solo un po’ allegra, cosa che in quella settimana aveva dimenticato.
Dopo la morte di sua madre, ogni sabato era una sbronza sempre più pesante, sempre più distruttiva.
Le annientava i pensieri, ma ben presto aveva scoperto che il ricordo di sua madre le fuggiva ogni giorno sempre di più. Aveva iniziato ad odiarsi e arrivare a fare il peggio.
Sospirò pesantemente, lasciando correre quel pensiero e girandosi verso la pista.
Aveva abbandonato Craig, non appena aveva scorto il bancone e, quasi sicuramente, era rimasta lì a crogiolarsi nei ricordi e cancellarli a sorsi di vodka, per più d’un ora.
Scese dallo sgabello, intenzionata a tornare da Craig e dalla compagnia di amici che si era portato dietro.
Notò con piacere di averci visto giusto nel pensare che era solo un po’ brilla, visto che riusciva ancora camminare senza barcollare vistosamente.
Si ricordava di averli lasciati seduti in qualche divanetto, non molto lontano dal bar.
Infatti, dopo poco riuscì a scorgere Craig : un bicchiere in mano e lo sguardo puntato su di una ragazza, seduta poco più in là, che stava flirtando con un altro ragazzo.
Si avvicinò, portando il giovane a spostare lo sguardo su di lei.
«Hai finito?» C’era rabbia nella voce del giovane. L’aveva osservata per tutto il tempo, bicchierino dopo bicchierino, e ne era rimasto stupefatto. Non se lo aspettava ad essere sincero e si era dato dell’idiota da solo, perché l’avrebbe potuto intuire dall’insistenza con cui Anthea gli aveva chiesto di non entrare.
«Ti avevo detto che non sarei dovuto entrare. E’ colpa tua» Gli ricordò lei, mentre si sedeva sulle sue ginocchia, lasciandolo interdetto e muto.
«Chi è quella ragazza?» Chiese indicando la rossa, che fino a qualche attimo prima Craig stava fissando.
Lo vide abbassare lo sguardo «E’… è July» Rialzò gli occhi castani su quelli di Anthea, sembravano quasi più impenetrabili del solito.
«E ti piace?» Continuò lei, mentre giocava con il bordo della maglia del ragazzo.
Il giovane guardò brevemente July e poi ritornò su Anthea «E’ entrata da poco in compagnia. E’ una bella ragazza, mi piacerebbe sai…parlarci»
Anthea soffiò una risata «Parlarci? Questa mi è nuova. Davvero vuoi solo parlare con lei? Niente di più? Un bacio, che so magari portatela a letto?»
Il volto di lui si fece più vicino a quelle di Anthea. Ne sentiva il fiato denso dell’odore pungente di vodka.
«Anche se volessi baciarla, cosa potrei fare? E’ interessata ad un’altro» Mormorò lui, pochi centimetri li dividevano.
Anthea smise di giocare con il bordo della maglia «Attira la sua attenzione, fatti notare» Si avvicinò. Un soffio allontanava le labbra di lei da quelle di lui «Baciami.»
Craig indugiò qualche secondo, prima di adagiarsi sulle labbra di Anthea.
Il gusto violento di vodka gli invase la bocca, mentre lei lo lasciava fare.
Forse era l’alcool o il bisogno morboso di sapersi protetta e al sicuro, che la stava facendo agire in quel modo, ma desiderava che Craig andasse oltre quel timido tocco.
Il giovane si allontanò appena da lei e la guardò negli occhi un ultima volta, prima di baciarla.
Le prese la nuca con una mano, mentre sentiva il polpastrelli freddi di lei, poggiarsi sul suo collo.
Come le loro labbra anche il loro corpi si avvicinarono l’uno all’altra, mentre l’incessante danza delle loro labbra, diventava più passionale, esplorando l’uno il sapore dell’altra, lasciando che ogni dubbio o pensiero diventasse niente, sotto quel tocco.
La mano di lui scese lungo i collo, facendo rabbrividire Anthea. Craig scese sulla stoffa della camicia, giù lunga la schiena, cercando di farla avvicinare ancora più a lui.
Anthea allo stesso modo, lasciò scendere la mano sul petto di lui, esplorando i contorni dei pettorali, attraverso la stoffa, quasi fastidiosa, della maglia.
Si allontanarono appena per riprendere fiato «Vieni con me» Anthea si alzò e gli porse la mano, invitandolo con lo sguardo a prenderla. Craig si alzò e la prese, lasciandosi condurre verso la pista da ballo, in angolino meno affollato.
«Ti lascerai andare? Con me?» Gli chiese Anthea, portandosi la mano di lui sul fianco.
Craig non capiva, fino a qualche giorno prima non lo sopportava, lo teneva a distanza e ora? Quel bacio, quella domanda, provocatoria. Chi era?
 «Mi sembra di avertelo già dimostrato» Le disse.
«Mentendomi» Lo accusò facendosi più vicina al suo corpo. Non era molto più alto di lei.
Craig sorrise colpevole, ma lei non gli lasciò il tempo di rispondere «Non mi interessa, io ti piaccio e non puoi negarlo. Lasciati andare, lo farò anchio, ma non devi pretendere nulla da me» Lo guardava dritto negli occhi e in quello sguardo c’era qualcosa che Craig, desiderava risolvere. Un enigma che era la chiave di tutto, quelle domande, il comportamento di Anthea.
«Va bene» Concesse, annuendo.
Lei si alzò in punta di piedi, cercando nuovamente le labbra del ragazzo.
Craig la tenne per in fianchi, ritrovando le labbra di lei.
Un bacio, una promessa, più forte, più sensuale, più desiderosa d’essere consumata, sfruttata in tutti i modi.

*******


Chiuse la porta e appese la giacca all’attaccapanni.
Era stata una serata terribilmente noiosa.

«Scusa? Non ti ho mai visto qui.» Quella voce.
«Ehm… è la prima volta. Ho accompagnato mio fratello,
si è appena trasferito da New York, dove ha concluso un ciclo d’incontri.»
«Accompagno un amico. Ti garantisco che sono davvero bravi. Il mio amico ci viene da un paio di mesi e
stanno facendo un ottimo lavoro con lui. Lo fanno parlare di come si sentiva quando si drogava, del perché,
Quello sguardo e tuoi occhi sinceri.
«Capisco, anchio ci sono passato…» Il tuo stupore alle mie parole.
«E perché non sei lì con tuo fratello?» La tua dolcezza.
«Perché sono riuscito a venirne fuori prima di toccare il fondo.»
«E come?» Curiosa, eri davvero tanto curiosa.
«Con la musica.» Il mio orgoglio.
«Sei un musicista?» Il tuo imbarazzo «Oddio scusa, mi sto facendo gli affari tuoi.»
«Non sei invadente, sei solo curiosa. Sì sono un musicista, ci provo almeno, e mi chiamo Jared.»
«Io sono Sophia» La mia condanna
.

Sospirò, ci aveva pensato tutta la sera.
La rivedeva nei suoi pensieri: i capelli rossi arruffati dal vento; le guance porpora per il freddo e la timidezza;il sorriso che sempre nascondeva, per non far vedere il dente accavallato; la voce dolce e morbida, che accarezzava ogni parola con infinita delicatezza, modulando ogni singola parola, senza mai mangiarle; e infine quegli occhi grigi, che Anthea aveva ereditato, ma completamente diversi dalla madre. Uno sguardo sempre carico di speranza, aperto a chiunque avesse voglia di guardarvi dentro, di perdersi in sogni infiniti.
Lei, Sophia.
Si diresse verso le scale, voleva solo dormire o provarci almeno e lasciare che i sogni lo rendessero felice.La luce della cucina era accesa, forse Anthea era tornata e aveva dimenticato di spegnerla. Entrò.
La ragazzza era addormentata sull’isola della cucina, con un bicchiere d’acqua e la scatola d’aspirine vicino.
Le si avvicinò, costatando che attorno le alleggiava un forte odore d’alcool. Tuttavia cercò di sopportarlo e cercando di non svegliarla la prese in braccio, facendole poggiare la testa sul suo petto.
«Mamma…» Jared si ritrovò a sorridere, forse la stava sognando.
Salì le scale, rendendosi conto che non pesava molto e per un breve momento la osservò. Non sembrava troppo magra, ma non sembrava nemmeno in forma. Tuttavia anche sua madre era così, non troppo magra, ma nemmeno del peso più adeguato.
Jared notò anche che avevano la stessa forma del naso di Sophia, un po’ all’insù e con un piccolo neo sulla punta. Se non fosse stato per il colore dei capelli e quel costante comportamento di diffidenza, Jared l’avrebbe guardata come Sophia, avrebbe forse scoperto una po’ della madre in quella ragazza? Avrebbe riconosciuto i tratti tipici dell’animo raffinato di Sophia?
Arrivato in camera, l’adagiò sul letto. Le tolse le scarpe e la coprì.
Si allontanò di qualche passo e la osservò nuovamente. Averla vicina gli dava un senso di angoscia e di rabbia, che Anthea aveva capito e ricambiava. Molto probabilmente mi odia, si disse Jared. Poteva biasimarla?
Tuttavia non aveva nemmeno voglia di spiegare, sapeva che Shannon stava facendo quello per cui lui si era preso la responsabilità.
Sospirò e uscì dalla camera.
Scese al piano di sotto: aveva bisogno di scrivere




NDA:
Intanto.... Buon compleanno Shannon *-*
Bene, dopo il fangirleggiamento per questo giorno, ho una cosa da dirvi: buona parte della fan fiction è scritta *si congratula con sè stessa*, a tal ragione aggiornerò con tempi molto ravvicinanti, non ne vale la pena farvi morire di curiosità (sì, sono buona lo so u.u), quindi i giorni in cui (si spera) aggiorerò sono: mercoledì, venerdì e domenica.

Grazie, ancora tutti quelli che seguono la storia!

Alla prossima,
Silence.

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Capitolo 5
*** V ***


Capitolo 5.
Spense il fornello e tirò via il bollitore con il caffè, mentre sentiva qualcuno scendere; prese due tazze dal ripiano della cucina e vi versò la bevanda calda.
«Buongiorno» Shannon si girò verso Anthea, porgendole la tazza.
«Buon risveglio» Ricambiò il batterista, portandosi alle labbra la tazza, mentre Anthea si sedeva su di un sgabello.
Si era risvegliata a letto, quando si ricordava di essere crollata sull’isola della cucina. La testa non le pulsava più di tanto, grazie anche all’acqua e l’aspirina che aveva saggiamente deciso di prendere la sera prima.
Prese un lungo sorso di caffè. Era ancora vestita come la sera prima e l’odore di alcool, fumo e sudore, le dava la nausea. Tuttavia, appena svegliata si era ritrovata con la gola secca e l’ardente desiderio di bere.
«Grazie per avermi portata a letto sta notte. Non c’e n’era bisogno» Disse, dopo aver allontanato la tazza ed essersi seduta meglio sullo sgabello.
Shannon corrugò la fronte «Non ti ho portata io a letto» La corresse.
Lei gli puntò addosso uno sguardo confuso «No? Io non mi ricordo di essere salita per le scale.»
«Ti ha di sicuro portato di sopra Jared» Iniziò il batterista, aprendo alcuni scompartimenti della cucina alla ricerca di qualcosa da mettere sotto i denti «E’ tornato a casa prima ieri sera, io sono rientrato solo poche ore fa.» Prese un sacchetto di pane e della marmellata e si voltò nuovamente verso Anthea.
La ragazza aveva lo sguardo perso, sembrava quasi shockata.
«Jared…» Ripeté, come se solo in quel momento si fosse ricordata dell’esistenza dell’uomo.
Shannon annuì, mentre metteva le fette di pane nel tostapane «Potrebbe non sembrarlo, ma anche lui è umano» Difese il fratello  «Mi chiedo dove sia» Rifletté ad alta voce il batterista, rigirandosi verso Anthea, ma trovandovi anche Jared che entrava in cucina.
«Sono stato in studio» Mormorò il cantante.
Shannon lo fissò preoccupato: ormai ne era certo, suo fratello non stava bene.
A partire dal punto di vista fisico, visto che aveva perso quasi venti chili per interpretare il suo ultimo personaggio, al quale c’era da aggiungere la tensione e la stanchezza, come conseguenza della produzione del nuovo album. Inoltre c’era l’affidamento di Anthea, che molto probabilmente lo aveva portato a rivangare vecchi ricordi.
«Jared stavo pensando..» Il fratello si girò ad osservarlo, intanto Anthea si era alzata per togliere dal tostapane le fette «Se staccassimo un paio di giorni? Andiamo con mamma a Bossier per il Ringraziamento».
Due paia d’occhio lo fissarono stupefatti.
«Non credo sia una buona idea, Shan» Lo placò Jared, fissando Anthea, che si stava concentrando un po’ troppo per spalmare la marmellata sulle fette di pane «Non vale la pena rovinare la giornata a mamma.»
«Non fare l’idiota Jared! Mamma sarebbe più che contenta, tu verresti con noi Anthea?» Chiese il batterista alla ragazza.
«Appunto per questo è meglio evitare» Il cantante non diede nemmeno il tempo ad Anthea di rispondere.
Lei lo fisso truce «Non vi rovinerei mai il giorno del Ringraziamento, potete andare senza di me se proprio non vuoi che io venga. Non serve che ti inventi le cose» Lo riprese la giovane, girandosi verso il cantante.
Jared la fissò dritta negli occhi «Io non mi invento le cose ragazzina, devo ricordarti come hai tratto nostra madre appena sei arrivata?»
Quello era un colpo basso, ammise sé stessa Anthea, e nemmeno Shannon poté difenderla, si ricordava perfettamente quanto ci fosse rimasta male sua madre per il comportamento scontroso della giovane.
«Cosa pretendevi? Ero appena arrivata…»
Il cantante non le diede il tempo di continuare «Pretendo che tu le porti rispetto! E’ mia, nostra, madre e per ciò non accetto che la si tratti con maleducazione, tanto più da te» Chiunque avrebbe potuto mettere in discussione il suo carattere, ma toccare Costance, sua madre, per Jared era inammissibile. Le doveva tutto i suoi sogni, era in debito con lei per tantissimi sacrifici che la donna aveva fatto per dare a lui e a Shannon una vita, che fosse migliore possibile che aveva da offrirgli.
Anthea non demorse, non glie l’avrebbe data vinta. Capiva quanto bene le volesse, anche lei era cresciuta solo con sua madre e nessuno poteva criticarla.
«Tanto più io?» Riprese le ultime parole dell’uomo «Non sono diversa dagli altri Jared, non m’importa che tu sia arrabbiato con me per questo, chiederò scusa a tua madre non appena la vedrò. Ciò non cambia che non mi prenderei mai la briga di rovinarvi il giorno del Ringraziamento.»
Shannon, fermò il fratello prima che potesse ricominciare.
«Ha detto che si scuserà con mamma, Jared. Adesso smettila» Gli ribadì « In ogni caso, visto la chiara tensione che c’è tra di voi, non ho nessuna voglia di farmi un viaggio fino in Luisiana con voi. Mamma verrà qua, con Tomo e tutti e gli altri, chiuso il discorso» Mise fine Shannon, incrociando lo sguardo del fratello che avrebbe voluto ribattere vivamente, ma si morse la lingua e si liquidò rapidamente dalla cucina, stessa cosa fece Anthea, abbandonando sul piano delle cucina le fette di pane.
 
******

Aprì leggermente la finestra della camera, affinché l’odore di vernice non impregnasse tutta l’aria della casa.
Poggiò il barattolo di vernice per terra, incrociò le braccia e si mise a fissare l’albero che aveva appena terminato.
Non era niente di spettacolare, doveva ammettere di aver fatto di meglio, ma lo voleva così: imperfetto, come quello che aveva dipinto con sua madre nel soggiorno della casa a Londra.
Aveva solo sei anni quando aveva aiutato la madre a realizzarlo, poco prima dell’arrivo del Natale. Dato che Sophia era sempre stata un tantino restia a comprare ogni anno un albero, le era venuta l’idea di disegnare una quercia in un angolo del salotto. Lo stesso albero che Anthea aveva appena finito.
Il tronco tortile, che seguiva la linea dell’angolo, saliva come una spirale, fino quasi al soffitto, dove si diramava dapprima in rami più robusti fino a diventare più sottili.
L’unica differenza erano i colori. Quello di sua madre era un miscela di diverse pennellate, ben evidenti, di differenti tonalità di marrone, mentre il suo prendeva volume dalle sfumature del nero. La vernice nera era stesa in modo uniforme e laddove l’albero presentava delle rotondità, che davano volume al tronco, la pittura si schiariva sulle tonalità del grigio.
Inoltre l’albero di sua madre aveva le foglie, sempre verdi in ogni stagione, mentre nel suo le foglie non c’erano e il motivo era molto semplice.
«Ma in autunno gli alberi perdono le foglie» Aveva fatto notare a sua madre quando aveva dodici anni.
«Si beh, il nostro albero non le perderà mai…perché quelle foglie sono le nostre speranza, Anthea. Ti devi ricordare che la speranza non crolla mai, non devi mai arrenderti, qualunque sia la sfida, indipendentemente da quanto tu abbia paura, nessuna foglia deve cadere.»
Come minimo, sua madre, alla vista di quell’albero ci avrebbe passato sopra con un rullo impregno di vernice bianca e lo avrebbe ridipinto colorato e con le foglie, sopratutto. Tuttavia per Anthea quell’albero la rappresentava: non aveva perso la speranza di poter ritornare alla sua vita a Londra un giorno, ma in quel momento non aveva più niente a cui aggrapparsi e le sue foglie erano cadute una dopo l’altra, senza preavviso.
Quelle foglie, che per sua madre erano la speranza, per lei da sempre rappresentavano tutte le sue certezze: sua madre, i suoi amici, la sua casa, la pittura. Ora tutto era sparito, queste certezze alcune non c’erano ed altre erano troppo lontano per essere definite tali.
Fermò una lacrima, che le era scesa lungo il mento.
 
Shannon salì al piano di sopra, per andarsi a fare un doccia, ma un forte odore di vernice lo investì. Notò che la porta della camera di Anthea era aperta. Si avvicinò incuriosito.
La trovò ferma a braccia conserte che fissava la parete opposta, mentre il letto era spostato rispetto alla sua solita posizione. Anthea aveva uno sguardo perso, più vuoto del solito. Quasi sicuramente si stava facendo sopraffare dai pensieri, pensò il batterista.
«Tutto bene?» Chiese, varcando di poco la soglia della camera.
Lei sobbalzo «Sì, solo pensieri» Si affrettò a dire, mentre andava a chiudere la finestra.
Shannon, sempre più incuriosito, soprattutto dai giornali che coprivano il pavimento e i diversi pennelli, entrò nella camera e si voltò a guardare nel punto che Anthea continuava a fissare.
Uno strano senso d’angoscia lo invase e in automatico andò a recuperare il portafoglio dentro la tasca dei jeans. Cercò tra le varie tasche, finché non trovo un foglietto un po’ spiegazzato ai bordi e ingiallito dal tempo. Su quel pezzo di carta vi era impresso lo stesso disegno: una quercia dal tronco tortile.
Anthea lo fissò incuriosita, notando il foglietto che aveva in mano, passando poi allo sguardo del batterista.
C’era qualcosa di strano: aveva gli occhi lucidi, come se si fosse emozionato.
«Tua madre aveva una vera fissa per questo albero» Mormorò Shannon, porgendo il piccolo disegno ad Anthea.
Lei lo osservò stupefatta «Tu la conoscevi?» Fu l’unica cosa che le venne da chiedere.
Shannon sorrise e ripose il foglietto nel portafoglio «Sì…e no. Quando viveva a Los Angeles…»
«Mia madre ha vissuto a Los Angeles?» Lo interruppe Anthea, sua madre non glie lo aveva mai detto.
Shannon annuì e la invitò a sedersi con lui sul letto «Ha studiato arte qui. Io e Jared l’abbiamo conosciuta per caso, attraverso alcuni suoi amici» Le raccontò, continuando a tenere lo sguardo fisso sull’albero che Anthea aveva appena dipinto.
«Non me lo hai mai raccontato» Sussurrò la giovane, sconfortata perché la madre le aveva tenuta nascosta quella parte della sua vita.
Shannon si girò a guardarla «Non ha vissuto qui molto. Cinque anni se non sbaglio, un piccola parte della sua vita.»
Anthea spostò lo sguardo, chiedendosi – per l’ennesima volta - perché mai sua madre l’avesse affidata a degli uomini che a mala pena conosceva o che comunque avevano fatto parte della sua vita per un tempo minimo. Tuttavia, accantonò quel pensiero e decise di provare a scoprire qualcosa di più.
«Com’era mamma?» Chiese mordendosi il labbro.
Shannon si fece improvvisamente serio, ma iniziò, comunque, a parlare.
«Era arrogante, ma dolce. Spensierata, ma razionalista. Non sapeva ancora cosa voleva» Le raccontò, guardandola «Hai suoi occhi, però quelli di Sophia erano diversi dai tuoi. Dentro quello sguardo ci potevi trovare tutti i suoi pensieri; lei parlava attraverso gli occhi. L’unica certezza che aveva in quel periodo era l’arte e rompeva abbastanza le scatole a riguardo» Si schiarì la voce, ricacciando indietro vecchi ricordi «Come ti ho detto, non la conoscevo molto. Qualche uscita sporadica, niente di particolare, era più simile a Jared. Lei aveva un’opinione su tutto, qualunque cosa le chiedessi, lei ti dava un risposta che sembrava il frutto di lunghi giorni di riflessione, quando, più probabilmente,  era la prima cosa che le era passata per la testa. Era un’artista, guardava gli occhi attraverso i colori, le ombre e la luce, creandone per riflesso un mondo tutto suo.»
Ad Anthea non sembrava che Shannon la conoscesse così poco, come voleva far credere, ma non glie lo fece notare. Aveva negli occhi una luce strana, felice, che non aveva ancora visto nello sguardo dell’uomo.
Quella che lui descriveva, però, non sembrava nemmeno sua madre. Con lei era sempre stata premurosa, ma non troppo. Rifletteva sempre prima di fare una cosa e non l’aveva mai vista fare un quadro, che non fosse una riproduzione. E ciò che Shannon le aveva appena raccontato la stupiva, perché sua madre le aveva sempre detto che non le piaceva dipingere la realtà, le metteva paura riprodurre quel mondo.
Rimasero in silenzio per un po’, entrambi presi dai propri pensieri, ma fu Shannon a spezzarlo.
«Ti ha trasmesso lei la passione per la pittura? Ci metterei la mano sul fuoco.»
Dopo giorni, Anthea si lasciò andare a un sorriso «C’è una cosa che accumuna i miei e i tuoi ricordi: era una fanatica dell’arte, diciamo che se non iniziavo a dipingere avrebbe potuto disconoscermi» Scherzò la ragazza, facendo sorridere anche il batterista «Tutto sommato è stato meglio così».
«Non te la cavi così male» La consolò Shannon.
Lei sbuffò «Volevo che fosse come quello che aveva fatto mamma a casa nostra. Doveva essere imperfetto» Gli spiegò, indicando con un dito alcune sbavature, lungo i bordi dell’albero.
Il batterista la fissò scettico «Certo, dite tutti così. Anche Jared.»
La ragazza lo ascoltò incuriosita «Jared? Dipinge?»
L’uomo annuì «Lui e tua madre sono andati a parecchie mostre insieme. Lui…la conosceva meglio di me» Si lasciò scappare il batterista, maledicendosi poco dopo.
«Jared e mia madre stavano insieme?» Chiese Anthea, quasi spaventata dalla sua stessa conclusione.
Shannon la guardò e un fiume di parole gli riempì la testa, ma niente era giusto da dire in quel momento, quindi preferì prendere una scorciatoia «No, erano solo buoni amici.»
«Amici? Ci sono tante forme di amicizia» Anthea non osava nemmeno pensare a sua madre a letto con Jared.
Shannon sorrise, divertito «Era una semplice amicizia, senza benefici, se è questo che vuoi sapere» la rassicurò « Jared non era il tipo di uomo, adatto a tua madre.»
«Hai detto di non conoscerla molto. Tuttavia sembri sapere tante cose su di lei, perché?» A quel punto le sembrò lecito chiederglielo.
Il batterista si maledì per la seconda volta e cercò di sviare l’argomento «Osservo, Anthea. Comunque dovresti chiedere a Jared di parlartene » Lei lo trafisse con lo sguardo e lui scosse la testa, sollevato «Com’è andata ieri sera, con la tua amica?»
Anthea si alzò dal letto, cosa gli poteva dire?
«Hai qualche problema con la parola amica? Lo dici in modo strano» Glie fece notare cercando di temporeggiare. Non è che non ne volesse parla, semplicemente non sapeva nemmeno lei riorganizzare quello che era successo. Aveva baciato Craig e quella era una certezza che la faceva sentire stupida, perché non capiva perché lo avesse fatto, non aveva nessuno motivo per baciarlo.
«Forse perché non ti credo» Le spiegò il batterista, togliendola dai suoi pensieri.
«Beh… mi sono divertita» Sviò lei, raccogliendo il barattolo di vernice e chiudendolo.
Shannon si stava divertendo. Non era mai a stretto contatto con un’adolescente, quindi quella situazione lo entusiasmava. Gli stava palesemente nascondendo qualcosa che aveva a che fare con quella famosa amica ed era interessante vederla impacciata per un volta, anziché sempre sulla difensiva come faceva di solito.
«Definisci divertire. Sai ci sono molti modi per farlo…»
Ad Anthea quella frase sembrò fin troppo maliziosa, ma si affretto a rispondere «Ballato, bevuto qualcosa…»
«… sei andata a letto con qualcuno?»
Anthea si immobilizzò sul momento, quell’uomo era peggio di sua madre. Ora, lei aveva solo baciato Craig, ma definire quel bacio casto e semplice era una bugia, non escludeva che se avessero avuto la possibilità o semplicemente un po’ di più di alcool in corpo, sarebbero potuti andare ben oltre.
Lei sospirò «No» Disse semplicemente fissandolo negli occhi.
Tuttavia Shannon non aveva finito, voleva andare al punto della questione. Non voleva sembrare curioso, semplicemente voleva capirla. Non si era imbarazzata a quella domanda, ma sembrava solo seccata, come se quegli argomenti le fossero familiari.
«Hai già…»
«Sì! Ho già fatto sesso Shannon, vuoi anche che ti dica anche come, con chi, quando, dove e perché?» Lo interruppe bruscamente lei. Iniziava davvero ad irritarla e no capiva perché fosse così interessato all’argomento.
«No, però sei giovane…» Constatò lui.
Anthea tornò seria, nemmeno lei andava così fiera di come si era data via. Aveva perso la verginità poche settimane dopo la morte di sua madre, cercando qualcosa che la distrasse, che fosse più forte e intenso del dolore che provava.
«Ne avevo bisogno, ma non ne vado fiera» Ammise. Ancora non capiva come Shannon riuscisse a farla parlare e a tirarle fuori quelle cose. Non era gentile, anzi era abbastanza schietto, eppure non la infastidiva.
Lui si alzò sorridendole «Non è importante Anthea. Non ti dico che tu sia giustificata per qualunque cosa tu abbia fatto, però ti capisco. Nel sesso a volte si trova la pace, sembra un paradosso, visto tutte quello che si prova in quel momento, e molto spesso in casi come il tuo si necessita di questa pace. Sappi che se vuoi parlarne, quando posso ti ascolto volentieri» Le sorrise, accarezzandole un guancia e poi uscì, lasciandola ferma in mezzo alla stanza.



NDA:

Rieccomi! Vi chiedo scusa per non avere aggiornatop mercoledì... ma non ho avuto tempo, e il capitolo ahc es egià scritto doveva essere revisionato! 

Silence.

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Capitolo 6
*** VI ***


Capitolo 6.
Dopo che Shannon era uscito, Anthea era rimasta a soppesare le sue ultime parole, chiedendosi se davvero la potesse capire. Dopotutto lui il suo sogno l’aveva realizzato, no? Il suo lavoro era la sua passione, perché la poteva capire?
Aveva cercato una risposta valida: forse era perché non aveva una famiglia, ma poteva avere tutte le donne che voleva, forse, però, non poter contare sulla presenza di una donna fissa era diverso, dal sapere di poter avere chiunque in qualsiasi momento. Tuttavia aveva suo fratello di cui potersi fidare e sua madre, no?
Tante altre domande le affollarono la testa nei minuti successivi a quella chiacchierata, mentre si dava da fare per risistemare la camera. Tuttavia si dovette fermare una seconda volta, quando Jared apparve sulla porta.
Come Shannon, anche lui fu catturato dall’albero da lei appena disegnato. Però, se al batterista quel disegno lo sembrava aver emozionato, Jared appariva furioso.
« Chi ha detto che potevi disegnare quella cosa sul muro di casa mia?» Mormorò a denti stretti, mentre teneva la sguardo fisso sul muro.
 
«E’ per lui?»
«Sì, siamo noi, Jared. E’ la rappresentazione del nostro amore...»
«Mi fai schifo.»
«Sei venuto da solo, qui, ieri sera»
«Lo so.»
«Te la sei cercata, Jared.»
«Tu hai sbagliato con me.»
«No, per me non c’è stato amore questa notte, per te sì. E’ stato solo sesso.»
«Sei crudele, Sophia.»
«Hai deciso tu di amarmi.»
 
 
Il cantante si girò verso Anthea, senza darle tempo di rispondergli. Lei sostenne il suo sguardo, per nulla spaventata, proprio come faceva Sophia, l’unica che fosse mai riuscita a non scappare da quegli squarci di cielo.
Fu un attimo.
La ragazza indietreggiò di qualche passato, portandosi una mano alla guancia calda.
«Chi ti ha dato il permesso?» Urlò il cantante fuori di sé, facendo indietreggiare ancor più la giovane.
«Questa non è casa tua, non puoi prenderti la libertà di fare quello che vuoi. Non puoi!» Jared ormai era una soffio da Anthea, mentre si sentivano dei passi svelti salire le scale e altri arrivare dalla fine del corridoio.
«Non puoi Anthea! Non puoi farmi questo, dannazione!» Disperazione, la ragazza non capiva quelle parole, ma quegli occhi celesti sembravano un mare in tempesta, devastati dal dolore di una passato che lei non poteva conoscere.
Tomo entrò nella camera e incrociò lo sguardo di Anthea, ma Jared non lo avvertì.
In realtà non stava guardando Anthea, ma davanti a lui aveva il volto di Sophia, che ancora una volta gli ribadiva che non lei non lo aveva mai amato, che per lei c’era solo lui.
A quel pensiero un riflesso involontario, lo portò ad alzare una seconda volta una mano su Anthea, ma sta volta Shannon, uscito di corsa dal bagno e con addosso solo i pantaloni, gli bloccò il braccio, facendo voltare il minore.
«Smettila…» Impartì il maggiore «Vieni con me» Gli intimò, mentre gli abbassava il braccio.
Jared lo guardò con odio, non voleva andare con lui, voleva avere la sua vendetta per Sophia.
«No, Shannon!» Tuonò il cantante, cercando di liberarsi dalla presa salda del fratello.
Il batterista lo strattonò lontano da Anthea, che fissava Jared come se fosse un pazzo, senza riuscire a dare un valido motivo a quella reazione sconsiderata e inaspettata.
Shannon lanciò un’occhiata ad Anthea, che ancora si teneva la mano premuta sulla guancia «Andresti giù con Tomo, per favore?» Le chiese, mentre faceva sedere Jared sul letto, cosciente che non sarebbe riuscito a muoverlo da lì.
Lei annui e, a passo svelto, si avvicinò al chitarrista, che era stato bloccato da Shannon, poco prima di fermare Jared. Scesero al piano di sotto lasciando i fratelli da soli in quella camera.
Tomo recuperò da in cucina un bicchiere d’acqua e lo offrì ad Anthea, che accettò bevendone un lungo sorso.
«So che vorresti chiedermi cosa sia preso a Jared, ma non saprei proprio cosa risponderti» Iniziò l’uomo.
Anthea gli sorrise lievemente «Capisco…» Gli disse, anche se in realtà non capiva.
Perché il suo albero aveva scatenato quella reazione in Jared?
Non puoi farmi questo, dannazione! Che cos’è che non poteva fare?
«Andiamo fuori, ti va?» Propose Tomo, indicando con la testa la portafinestra che dava sulla piscina.
Anthea annuì e lo seguì all’esterno. Si andarono a sedere sulle poltrone di vimini, posizionate a bordo piscina, come una piccolo salottino esterno.
Stettero in silenzio e Anthea ringraziò mentalmente l’uomo per quella strana sensazione di calma che sembrava irradiare. Alzò gli occhi al cielo. Il sole stava per tramontare, quindi il manto celeste sopra la sua testa era sporcato di striature rosate e aranciate.
Mentre dipingeva non si era accorta del passare del tempo, era un difetto ereditato da sua madre: l’arte le faceva perde la cognizione del tempo.
Ripensando a sua madre, non poteva non ricollegarsi a quello che era successo. Tuttavia, solo in quel momento, si rese conto che sia a Shannon sia a Jared  quel disegno era familiare.
Se ne rendeva conto solo ora, anche se prima aveva comparato i diversi comportamenti dei fratelli davanti al disegno, non aveva realizzo che entrambi lo conoscevano.
 
«Perché il tronco è una spirale?»
«Non è una spirale, Anthea. Sono due tronchi che si fondono insieme.
L’uno da forza all’altro, così possono dar vita alle cose più belle.»
«E quali sono queste cose?»
«Hai mai visto una quercia con un tronco così?»
«No.»
«Questa è la cosa bella.
Impara una cosa Anthea, l’essere diversi, unici al mondo, come questa quercia
non deve essere un motivo di vergogna o imbarazzo, bensì devi sempre tenere
a mente che l’essere diversi è fonte di bellezza.»
«Come te mamma?»
«Io ho perso la mia diversità Anthea, tu sei unica, piccola mia.»
 
In quel momento le era sembrato un discorso tanto futile, detto da sua madre solo perché per ogni mamma il proprio figlio è unico, speciale, diverso dagli altri.
Ora, però, si chiedeva se in mezzo a quelle parole non ci fosse di più? Se in realtà nascondessero qualcosa che la legavano a Los Angeles o addirittura ai Leto. Tutto sommato, per sua madre quell’albero aveva sempre avuto un profondo significato, poteva quasi dire che fosse l’emblema della vita di Sophia, anche se non ne aveva mai compreso pienamente il significato. Sophia era così, ti spiegava quello che una cosa significava per lei, ma non ti dava mai elementi sufficienti per capire tutto.
Spostò lo sguardo sulla piscina e poi passò a Tomo, che la stava fissando.
«Cosa c’è?» Chiese imbarazzata e nervosa, rendendosi conto di non essere mai rimasta da sola con lui.
Lui fece spallucce «Avevi un’espressione interessante, assorta com’eri nei tuoi pensieri. Comunque vorrei dirti una cosa.» Si fece serio, ma non minaccioso.
«Dimmi pure» Replicò lei, portandosi le ginocchia al petto.
«Jared non è così» Anthea, aveva lo strano presentimento che chiunque avrebbe potuto dire quella frase sul cantante, e Tomo non era il primo che lo affermava «Non riesco a spiegarmi cosa lo abbaia fatto saltare così, era sconvolto. Tuttavia Anthea, tu non gli alleggerisci la situazione…»
«Dovrei avere pietà di lui? Mi ha dato uno schiaffo e non so nemmeno perché.» Ribadì, un po’ alterata, ma mantenendo un tono calmo.
«Non pietà, ma dovresti parlarci. Jared non è bravo con i rapporti è decisamente più bravo con le parole. Parlare con lui può essere completamente distruttivo oppure completamente rigenerante.»
Anche questo le era già stato detto, eppure c’era qualcosa che la bloccava. Non voleva conoscere Jared, quel pensiero la spaventava. Confrontarsi con lui… non sapeva cosa avrebbe potuto venire fuori.
«Io non parlerò con Jared, i suoi occhi dicono già abbastanza.» Sottolineò convinta.
Tomo non le poté darle torno, a volte lo sguardo dell’amico era un libro aperto « A maggior ragione, dovresti farti spiegare le sue motivazioni.»
Fu il turno di Anthea di fare spallucce, non le interessava. Jared non le avrebbe mai detto perché aveva accetto di mettersela in casa, seppure lo infastidisse all’inverosimile, ne era fermamente convinta.
«No.» Replicò la ragazza, alzandosi dalla poltrona. Tutti lì dentro erano a difesa di Jared, perché era a lui che avevano scombussolato tutta la vita, no? Le venne da ridere.
«Dì a Shannon che passerò la notte da un’amica» Aveva bisogno di distrarsi quella sera.
 
Quella notte aveva deciso di lasciarsi pervadere dal suo profumo, pura follia. Si dimenticò di ciò che era giusto, di ciò che era leale e la fece sua, senza pentimento. Non aveva voluto pensare alla delusione della mattina, quando lei gli avrebbe ricordato che il suo amore non era ricambiato; in quel momento non gli era importato.
Amava il suono dolce del suo nome sulla lingua di lei; la morbidezza con cui lo pronunciava e quella notte, avrebbe potuto impazzire. Lei sapeva quanto gli piacesse la sua voce e l’aveva compiaciuto mormorando il suo nome all’orecchio, all’infinto. Tuttavia era stato un triste illusione a cui Jared aveva creduto: Sophia aveva fatto il suo gioco, lo aveva accontento e soddisfatto in tutto, ma senza togliersi dalla testa lui, l’uomo che davvero lei amava.
Strizzò gli occhi, aprendoli.
La stanza era ancora immersa nel buio. Era stata l’unica condizione di Sophia: l’oscurità. Non avevano acceso una luce o lasciato a aperte le tende. Lei non lo voleva vedere.
Sospirò frustrato, desiderando di poter sprofondare in quel morbido cuscino, avvolto da quel profumo di pulito, come ultima magra consolazione.
La sentiva respirare accanto a lui, ma anche lei era sveglia, lo riconosceva dal respiro, non più beato e sereno, ma regolare e ben scandito. Tuttavia Sophia non osava parlare.
Girati, le avrebbe voluto urlare Jared. Voleva guardarla, voleva sapere se quella notte era davvero stata inutile per lei, se ancora si ostinava a dire che non avrebbe potuto amarlo.
Lei si alzò e si diresse verso il bagno.
Anche lui si alzò, accendendo la luce e guardandosi attorno, ripercorrendo con gli occhi la notte prima.
Si era preso le sue labbra contro la porta, spegnendo ogni sua resistenza con un semplice carezza sul braccio. Si era data a lui, per gioco? Per finta? Aveva abbassato le difese solo per compiacerlo?
Con astio afferrò i boxer che giacevano ai suoi piedi e sentì un singhiozzo provenire dal bagno.
Sophia piangeva, quando Jared si sentiva felice.
Si era pentita, fu l’amara conclusione a cui giunse il ragazzo, mentre si rivestiva, desideroso di andarsene.
Si avvicinò alla scrivania, per recuperare il portafoglio.
Sorrise al disordine che regnava sopra di essa, ma qualcos’altro catturò la sua attenzione: era un piccolo pezzo di carta, un rettangolo, sopra di esso, impresso con dei colori a matita vi era un disegno.
L’immagina raffigurava indubbiamente una quercia, perfettamente riconoscibile dai rami che non si muovevano rettilinei, ma bensì si snodavano in tutte le direzioni. Il tronco della quercia era una spirale che univa due querce: l’una rossa e l’altra castana.
«Pensavo fossi già andato» Mormorò Sophia, dopo essere uscita dal bagno avvolta in asciugamano.
«E’ per lui?» Chiese a denti stretti Jared, girandosi a guardarla. Aveva ancora gli occhi lucidi per lacrime versate.
Lei lo guardò negli occhi a sua volta «Sì, siamo noi, Jared, E’ la rappresentazione del nostro amore» Spiegò lei orgogliosa dei propri sentimenti.
Lui strinse un pugno, evitando di avvicinarsi «Mi fai schifo.»
Sophia non sembrò infastidita da quelle parole « Sei venuto da solo, qui, ieri sera» Gli ricordò, mentre raccoglieva le sue cose sparse per la camera.
«Lo so» Mormorò il ragazzo a sé stesso.
Sophia non l’aveva sentito, ma replicò con rabbia in voce «Te la sei cercata, Jared.»
Lui rimase esterrefatto da quel tono «Tu hai sbagliato con me.» Le ricordò puntandole un dito contro.
La rossa lo fissò con astio «No, per me non c’è stato amore questa notte, per te sì. E’ stato solo sesso» Voleva ferirlo, perché lei si era già umiliata abbastanza, solo con l’aver accettato quella notte.
«Sei crudele, Sophia»
«Hai deciso tu di amarmi» Si giustificò lei parandosi davanti a Jared «Ora sparisci.»
 
 
 
NDA:
E ADESSO???
 
Posso sentire la vostra ansia..:)
Uhm, per chi volesse questo è il mio profilo di FB, così intanto per fare qualcosa.
Grazie a coloro che commentano costantemente la storia, non potete nemmeno immaginare la gioia che mi date! Grazie, ovviamente, a chi silenziosamente legge la storia e a chi l’ha aggiunta tra le preferite/ricordate/seguite *w*
Alla prossima,
Silence.

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Capitolo 7
*** VII ***


Capitolo 7.
Si era svegliata da un bel po’ e per tutto quel tempo non aveva fatto altro che osservare i glyphics, che decoravano l’avambraccio destro di Craig, che aveva pigramente abbandonato sopra di lei.
Aveva passato la notte con lui e, sinceramente, poteva ammettere che non aveva aiutato per niente. Anzi, l’inizio del nuovo giorno era persino peggio. Craig era un Echelon e lei era una stupida. Si era lasciata trasportare da non sapeva cosa verso l’appartamento del ragazzo, si era data a lui come se fosse l’unica soluzione al problema, aveva passato una notte davvero piacevole, ma quale era il risultato?
Jared era a casa, Craig seguiva i Mars e lei, beh, straripava di confusione.
Si chiedeva se il ragazzo l’avesse avvicinata, dopo aver visto Emma che l’accompagnava al college o se non l’avesse seguita fino alla villa o, peggio, ancora si fosse tradita da sola. L’ultima era impossibile, ma nel momento tutto gli era apparso una adeguata spiegazione.
Oppure era sfortuna.
Non era mai stato il tipo di persona che credere nella fortuna o nella sfortuna. Sua madre l’aveva cresciuta insegnandole il suo punto di vista, ossia che ogni essere umano ha un destino già definito e non lo si può evitare in nessun modo, ma in quella situazione iniziava a intravedere il frenetico lavorare della sfortuna.
Oppure, a quel punto si chiedeva quale fosse il suo di destino. Se davvero fosse stata vera quella teoria di sua madre, cosa centravano i Mars, Craig con i glyphics, la morte di sua madre, l’affidamento con Jared, Los Angeles. Era forse destinata a diventare il nuovo membro della band?
«Sto impazzendo» Mormorò a sé stessa sospirando pesantemente e passandosi una mano tra i capelli.
Si voltò a guardare Craig, che ancora sembrava dormire.
Prima di addormentarsi avevano parlato un po’ o meglio, il ragazzo aveva cercato di capire perché lei fosse andata lì da lui. Tuttavia, in tutta risposta, Anthea aveva sviato la domanda e avevano spostato la conversazione su cose più banali.
Anthea aveva scoperto che  Craig studiava ingegneria informatica ed era all’ultimo anno. Però, aveva ventiquattro anni e questo ritardo nei confronti degli studi era stata causato da una passato che, lui stesso, aveva definitivo turbolento, ma non si era sbilanciato e Anthea non gli aveva fatto altre domande.
Allungò una mano sul comodino e afferrò la sveglia: mancavano dieci minuti alle otto.
«Non andartene » Biasciò Craig, girandosi verso Anthea, che, però, non si era mossa di un solo millimetro.
«Voglio delle spiegazioni, Anthea ».
Lei incarnò un sopraciglio, mettendosi a sedere «Non le avrai Craig» Gli disse girandosi a guardarlo negli occhi «Non mi interessa come la prenderai, arrabbiati, fai quello che vuoi. Ho avuto ciò che desideravo e molto probabilmente anche tu sei soddisfatto di come è andata la serata. Quindi arrenditi, non ho nessuno intenzione di dirti cosa mi succede» Biascicò, alzandosi dal letto «Mi hai fatto una promessa Craig. Non avresti preteso nulla. La stai infrangendo» Gli ricordò, mentre indossava i pantaloni, abbandonati sul pavimento della camera.
In risposta il moro sospirò con disappunto. Si passò una mano sul volto, chiedendosi perché fosse così difficile farla parlare, perché doveva mettere distanza tra loro quando aveva appena passato la notte insieme, abbandonato ogni imbarazzo, abbandonando ogni routine o regola di conoscenza.
«Fermati almeno a fare colazione» Propose con la voce ancora impastata dal sonno.
«Ci vediamo Craig» Tagliò corto lei, senza prendere in considerazione la proposta.
 
 
Non aveva lezione fino alle nove e mezza, ma di certo non ci poteva andare vestita in quel modo, con addosso ancora i vestiti del giorno prima: i pantaloni blu della tuta e la felpa grigia, di due taglie più grande.
Si guardò i pantaloni, c’erano ancora delle macchie di vernice del giorno precedente. Sbuffò e infilò le chiavi nella toppa.
Quando aprì la porta, Jared era lì. Il volto stravolto dal sonno, ma vivido di rabbia, brillante e sveglio.
 «Divertita? » Le chiese, acido.
Anthea fece una smorfia, infastidita «Più di te, sicuramente»  Ribattè, poggiando le chiavi sul mobiletto accanto alla porta, non le interessava che fosse incazzato, furibondo o carico di tempesta, che si sfogasse, che facesse la sua scenata e la lasciasse ad andare farsi un bagno.
«Shannon…».
A quel nome, Anthea scattò «Shannon?» Ripeté con veemenza «Al diavolo tuo fratello! Non mi interessa che cosa gli sia passato per la testa, di quanto fosse preoccupato Shannon, chi se ne fotte! Tu hai firmato i documenti per l’affidamento, quello preoccupato dovresti essere tu… » Quell’uomo era la frustrazione allo stato brado, libera di girare tra le persone e mandarle in tilt. Non c’era pietà per nessuno.
«Credi che non fossi preoccupato?» Le disse, guardandola dritta negli occhi.
Lei alzò gli occhi «Andiamo, davvero lo eri? Non ti interessa Jared, io non ti sto a cuore» Era una consapevolezza di cui Anthea non si poteva liberare. Quell’uomo non si sarebbe mai preso cura di lei.
«Ti fa comodo delegarmi a tuo fratello, ma io non sono una canzone Jared, di cui puoi discutere su come usarmi, trattarmi o rielaborare! Anzi, magari lo fossi, forse avrei un po’ più di considerazione da parte tua».
Le lacrime le salirono agli occhi, quell’uomo la stava distruggendo, altro che aiutare. Non lo capiva, non si lasciava capire, non le dava spiegazioni. Era soddisfatto cosi? Pensava davvero, che allontanarla dagli affetti fosse sufficiente?
Jared attutì il colpo di quella parole «Te ne sei rimasta giorni chiusa in camera.. »
«Mi hai dato uno schiaffo, Jared!» Lo accusò Anthea, mentre Shannon si avvicinava ai due «Per aver disegnato uno stupido albero sul muro della camera» Si accorse di singhiozzare, quando una lacrima le bagnò le labbra.
Il cantante la guardava, impassibile, sembrava che il pianto di lei non avesse alcun effetto su di lui. Tuttavia, non era così. Non sapeva cosa fare, come reagire, come riordinare le cose.
«Sai benissimo che quello non è uno stupido albero…» Ribatté infastidito, non era pronto a quella conversazione, non così d’improvviso.
Lei lo guardò furente, con gli occhi lucidi di lacrime  «Lo so! So quanto mia madre ci fosse legata…»
«Non sai niente, Anthea. Non puoi nemmeno immaginare cosa volesse dire quell’albero per tua madre!» Continuò disperato. Non voleva che venisse a galla tutto, non in quel mondo. Aveva in sé ancora troppa sofferenza per parlarne. Non si accorse nemmeno che Anthea gli si era avvicinata.
Aveva smesso di piangere, ma le guance erano ancora umide  «Ho sempre avuto il dubbio che mi nascondesse qualcosa » Cominciò pacata, cercando di guardare il cantante negli occhi «…a partire da quel disegno. Jared, se… qualsiasi cosa tu possa sapere, non credi che tenertela dentro non stia giovando né a te né a me?».
Lui la fissò dritta negli occhi.
Lo stesso colore di quello di un donna che lui aveva amato senza rumore, rinchiudendo quel sentimento dentro di sé, come un mostro da cui allontanarsi. L’aveva fatto soffrire, nemmeno Cameron gli aveva spezzato il cuore come Sophia glie lo aveva distrutto.
Lei, che lo aveva ingannato per così tanto tempo, aveva lasciato a lui il compito di smascherare la sua più grande bugia, da cui dipendeva tutto: dolore, sofferenza, odio. Sophia, ancora una volta l’aveva costretto a lei, l’aveva legato impendendogli di non mantenere la parole data.
«Anthea, tua madre non è stata una sconsiderata ad affidarti me» Iniziò piano, distrutto, mentre Shannon lo fissava incuriosito «Io e tua madre eravamo legati…».
Anthea si allontanò da lui, il panico che serpeggiò nei suoi occhi.
La bocca che si dischiuse appena, per lo sconcerto.
Un attimo.
Avvertì un forte dolore al petto, il polmoni stretti in una morsa d’acciaio, che la lasciarono senza respiro. L’aria densa del nulla, non più una goccia d’ossigeno da inalare. Il fastidio al petto e le gambe che cedettero sotto il peso di una realtà che le dava il panico, un’idea che non poteva accettare. Jared, non poteva essere suo padre. Boccheggiò quando quel presentimento si concretizzò nella sua testa, spaventata, nuovamente delusa da sua madre, rattristata da quell’uomo che l’aveva schivata per tutto quel tempo. Non poteva essere lui, perché l’avrebbe tratta così?  Le scosse dei singhiozzi la fecero annaspare ancor più alla ricerca dell’aria, una sollievo che sembrava non essere accessibile.
Il buoi, fu accompagnato da una voce che sussurrava il suo nome e un’altra che le chiedeva scusa.
 
****
 
Nessuno dei due aveva detto una parola, da quando avevano chiuso Anthea in quella stanzetta, dove i medici le stava facendo i controlli di routine per un attacco di panico.
Attacco di panico, un’eco assordante nella testa del cantante. Aveva sbagliato parole, Anthea aveva frainteso quello che lui le avrebbe voluto confessare, ma con che coraggio?
Shannon e Jared erano seduti sulle poltroncine scomode, appena fuori dalla camera, una poltroncina li divideva: il maggiore con la testa appoggiata muro e il minore che fissava il vuoto davanti a sé, assorto.
Dentro la tasca del giubbotto un pezzo di semplice carta da fotocopie.
Si girò a guardare il fratello: il viso contratto dalla preoccupazione, gli occhi chiusi e il petto che si alzava e si abbassava troppo velocemente per un respiro normale.
Non gli aveva chiesto niente a riguardo di quello che stava dicendo ad Anthea, prima di quell’attacco di panico. Appena l’aveva vista respirare a malapena, Shannon, si era precipitato a prenderla tra le braccia, urlando a Jared di chiamare un’ambulanza il prima possibile.
«Shan?» Chiamò, mentre una mano scivolava dentro la tasca del giubbotto.
Il fratello spalancò gli occhi: prima fissò la porta della camera ancora chiusa, e poi si voltò con aria interrogativa verso il fratello.
«Vado… vado a prendere una boccata d’aria» Si scusò, passandogli la lettera.
Shannon l’afferro confuso, guardando il fratello che se andava, quasi stesse scappando.
Non pensò nemmeno di chi potesse essere quella lettera, a cosa ci sarebbe potuto essere scritto. L’aprì senza pensarci.
 

16 Aprile 2012
Londra
 
Carissimo Jared,
Se ora sei seduto a leggere questa lettera, vuol dire che il destino, questo mio vecchio amico, ha deciso di togliermi definitivamente ogni possibilità d'essere felice. Tanto più, mi ha inflitto un dolore ancor più grande di questa malattia che ormai mi ha rapita,negandomi  la possibilità di veder crescere mia figlia, Anthea.
Mia figlia, Jared.
Perdona la mia crudeltà: mia e di Shannon, nostra figlia.
Sono stata meschina a far di te un padre fittizio per tutti questi anni, ma non me ne pento. Giustifico la tua rabbia, ho chiesto io ad Amelia di consegnarti questa lettera dopo che le avessi assicurato, promesso, che ti saresti preso cura di Anthea. Non tirarti indietro, ti chiedo solo questo, negheresti a tuo fratello l'occasione di conoscere sua figlia?
Quando, nel 1994, ti dissi che me ne sarei andata con in grembo tua figlia, mi sono appellata a tuoi sogni e all'amore per tuo fratello, chiedendoti se avresti davvero voluto barattare una famiglia con tuo fratello, tu mi dicesti no. Ora ti chiedo di ribaltare la situazione, odiami, non mi importa io sono già nella fossa, ma non prendertela con Anthea.
Lei è me, è Shannon, è quella quercia che tanto amo disegnare, poiché rappresenta la mia bambina.
Prenditi cura di lei, falla conoscere a Shannon, saprà volerle bene.
Lascia che si conoscano, che si fidano a vicenda l'una della'altro. Sono padre e figlia, anche se non lo sanno, però sono legati, confido in qualche sensazione nascosta, qualcosa di inspiegabile a chiunque, affinché loro due si trovino e possano vivere insieme.
A questo punto, mi sembra giusto spiegarti perché non dissi a nulla a Shannon, perché preferì mentire a te e nascondere la verità a lui.
Tu, Jared, non ti saresti mai opposto. Hai fatto un po’ di resistenza, ma quando ho iniziato a parlare dei tuoi sogni, del tuo futuro, di ridimensionare i tuoi progetti per me, sei sbiancato. Ti sei bloccato, come avevo previsto, mi hai lasciato fare, perché la musica, le tue passioni, sono più prepotenti nel tuo animo da artista. Quando si mettono in discussione i tuoi sogni, quando li si tocca, tu non ti vedi più. Avresti perso l'orientamento, perché sei un'artista che merita di dar sfogo a sé stesso, di condividere quella mente brillante  che ti hanno sempre invidiato; che ti ho sempre invidiato.
Questo sei tu Jared, un giorno ti innamorai, ma, in quel momento, avrai già realizzato i tuoi sogni più grandi e potrei inglobare qualcuno nella tua vita, ma nel 1994, tu non potevi rinunciare ai tuoi sogni.
Invece lui, Shannon, non me lo avrebbe mai permesso di andarmene con sua figlia, mi avrebbe costretta, senza assecondarmi. E io, innamorata di lui, mi sarei fidata ciecamente di tutto. Tuttavia, anche lui, come te è una grande sognatore, e avrebbe comunque scelto la musica, presto  o tardi, prima di qualsiasi cosa. Forse sua figlia avrebbe avuto una grande importanza per lui, ma io non sarei più stata abbastanza. Tutto, forse, sarebbe andato alla scatafascio, perché la fama vi avrebbe portato in giro per il mondo, lo avrebbe portato lontano da me.
E lo sai, Jared, io non condivido niente con nessuno, sono sempre stata troppo gelosa. Shannon avrebbe finito per sentirsi in colpa e iniziare a vacillare tra la sua famiglia e la musica.
Così, per queste mie teorie, stupide, ma credo abbastanza realizzabili, ho preferito farmi portatrice della colpa per la fine del nostro rapporto.
Lo sai, ho sempre amato tuo fratello, non volevo decidesse tra me e la musica. Senza di me lui è comunque Shannon, ma senza la musica  è perso, proprio come lo saresti tu.
Tuttavia, ora, non dico di voler rimettere apposto le cose, perché non lo saranno mai, soprattutto il tuo dolore per quello che ti ho appena detto. Però, il mio unico pensiero, adesso, è Anthea.
Voglio che conosca Shannon.
Starà a loro poi decidere cosa fare, se provare ad essere padre e figlia insieme, o ritornare alle loro vite con la consapevolezza di ciò che li lega.
Su questo non impongo una mia volontà, ho già sbagliato abbastanza.
Perciò Jared, firma l'affidamento e prenditi cura di Anthea, per favore.
Sophia”



NDA:
*SBAM* eeeh? Voglio sapere chi se la aspettava o cosa vi aspettavate!
Mi sembra d’obbligo dire che la fatidica domanda “ ma che cavolo ce l’ha portata a fare Anthea a Los Angeles?” con questa capitolo possa trovare una valida risposta  u.u
Per il prossimo capitolo probabilmente dovrete aspettare un po’, sono indecisa se mettere o no un altro flashback, non vorrei la storia diventasse un pallone con tutti sti balzi a destra e a sinistra, vedremo.
Detto questo,
alla prossimaaaa, Silence.

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Capitolo 8
*** VIII ***


 


Capitolo 8.

Luglio 2012, Los Angeles
Emma afferrò il telefono di Jared, rimanendo perplessa nel leggere il numero sconosciuto che scorreva sullo schermo. Accettò la chiamata, ma non ebbe nemmeno il tempo di rispondere.
«Parlo con il signor Jared Leto?» Proruppe una voce femminile con un forte accento britannico.
«No, sono Emma…»
La donna non la lasciò finire di parlare «Ho bisogno di parlare urgentemente con il signor Leto».
Emma alzò un sopraciglio e iniziò a dirigersi verso la sala d’incisione «Può tranquillamente dire a me» Offrì lei, mantenendo una calma stoica, al confronto del chiaro nervosismo di quella donna.
«Mi dispiace ma è un questione privata, posso parlarne solo con lui» Ribadì nuovamente la donna, affatto toccata dalla gentilezza che Emma aveva provato a dimostrare. Entrò nello studio e cercando di non dare troppo fastidio, limitandosi a picchiettare sulla spalla di Jared, chino su alcuni fogli.
«Jared, c’è una donna, probabilmente inglese, che ha urgente bisogno di parlare con te» Riferì la donna, allungando il Blackberry al cantante.
Lui l’afferro confuso, provando a chiedere ad Emma di chi si trattasse. Tuttavia quella donna non le aveva nemmeno detto come si chiamasse, quindi fece spallucce scuotendo la testa.
«Sono Jared Leto, posso sapere con chi sto parlando?» Rispose, guadagnandosi un’occhiata interrogatrice da parte di Shannon, che lo seguì con lo sguardo mentre usciva sul retro.
«Buongiorno Signor Leto, sono l’avvocato Magda Simons, la sto chiamando da Londra. Mi spiace dirle che la signoria Sophia Campbell c’ha lasciato durante la mattinata di ieri…»
Dopo quelle parole, non riuscì più a capire quello che l’avvocato aveva da dirgli. Si lasciò cadere su un lettino, messo lì a bordo piscina.
Erano passati diciassette anni, dall’ultima volta e quelle parole squarciarono prepotentemente i suoi ricordi.
In due minuti, fu sopraffatto dalla emozione di due anni, che aveva difficilmente archiviato.
Sentì freddo, anche con il caldo di Los Angeles.
«E’…morta?» Gli uscì come un sibilo dalle labbra, il solo pronunciare rendeva tutto più vero.
Magda non rispose subito «Mi dispiace Signor Leto» Quelle parole valsero più di qualunque sì.
Si passò una mano sul mento, sulla bocca, con fare nervoso, non voleva crederci. Gli occhi spalancati fissi sulla superficie immobile dell’acqua. Non doveva essere vero, non così dal nulla. Perché non glie lo aveva detto? Si sentì improvvisamente arrabbiato con Sophia, con quel suo essere testarda fino alla fine.
«Senta…» Riprese la donna, con tono più pacato «…non è una situazione facile Signor Leto. Però, lei dovrebbe presenziare alla lettura del testamento della Signorina Campbell, mercoledì 12 Luglio».
«Perché?».
La sentì sospirare, cosa poteva avergli lasciato?
«E’…non è opportuno parlarne al telefono, mi creda».
Jared si accigliò «Mi sta chiedendo di fare un viaggio in aereo di una ventina di ore, non crede che debba sapere quale sia il motivo?» Le fece notare, per nulla interessata dal tono arrogante che aveva usato.
Magda sospirò un’altra volta, comportamento che fece innervosire ancora più Jared.
«L’ha citata nel testamento in merito alla figlia Anthea. La signorina Campbell ha chiaramente espresso la volontà che sia lei a prendersi cura della figlia

Londra
Gli sembrava così strano essere a Londra per una situazione privata, piuttosto che per un concerto o un’intervista. Era scombussolato dall’idea di essere lì e sapere di non poter vedere Sophia, di non aver un ristretto margine di possibilità per poterla vedere, come gli capitava tutte le volte che si trovava in quella città; inconsciamente c’era sempre quel barlume di speranza.
Lei non c’era più, c’era solo Anthea.
Aveva pensato tanto a quella ragazza, chiedendosi come fosse: il colore degli occhi, i tratti del viso, se somigliasse a Sophia, se aveva ereditato da lei lo stesso carattere arrogante e menefreghista, ma con un’anima dalla sensibilità rara.
Oppure, fosse come lui. Lo stordiva, pensare che Anthea fosse sua figlia. Per tanto tempo era stata solo una consapevolezza, una presenza che aveva sempre collocato a Londra. Per tutto quel tempo sua figlia per lui non aveva nemmeno mai avuto un nome. Sapeva che c’era, ma non la percepiva come una realtà da affrontare, da vivere.
Ed era spaventato da questo, perché lui non aveva mai pensato di poter aver un possibilità con lei. Sophia glie lo aveva impedito sin da subito, andandosene da Los Angeles. Così, sapere che a breve, forse una questione di ore, minuti, l’avrebbe potuta vedere, lo faceva rabbrividire. Gelare sul posto. Era completamente impreparato ad un’incontro del genere, non era nemmeno sicuro di aver metabolizzato al meglio tutta quella storia. Anzi, una parte di lui ancora non aveva accettato la scomparsa di Sophia.
Eppure era lì, cappuccio calato sulla testa e occhiali da sole, nella vana speranza di non essere riconosciuto, dato che non aveva dato notizia della sua partenza per Londra.
Afferrò il trolley e si diresse verso la zona degli arrivi, senza nemmeno alzare la testa verso i cartelli, conosceva fin troppo bene l’aeroporto di Heathrow.
Le porte si aprirono e cercò subito di individuare Amelia, la migliore amica di Sophia. Era stata la Simons a metterlo in contatto con la donna, lasciandogli una numero di telefono. Tuttavia lei aveva preferito una videochiamata per Skype, in modo tale che la potesse vedere.
Non fu difficile individuarla: i capelli color carbone che le cadevano oltre la spalle, gli occhi castani, che in quel momento erano tutto fuorché caldi e dolci. I lineamenti morbidi del volto, infatti, erano contratti in’espressione seria, tesa, evidentemente preoccupata dal fatto di non aver idea di come comportarsi con lui.
Jared le si avvicinò e lei spostò il peso da una gamba all’altra.
«Amelia?» Le chiese una volta che le fu accanto.
Lei annuì «Chiamami Amy. Andiamo» Replicò pacata, precedendolo verso l’uscita dall’aeroporto. Uscirono in completo silenzio. Amelia voleva solo salire in macchina e togliersi la tensione e la paura che qualcuno riconoscesse Jared con lei.
«Uhm…Jared?» Lo chiamò, prima di salire in macchina, dopo aver messo la valigia del cantante nel baule della vettura. Lui alzò la testa verso di lei «Ho immaginato tu non volessi far sapere che eri qui a Londra, ho pensato che prenotare una camera in hotel non fosse il caso. Se per te va bene, io a casa ho un camera in più, potresti stare da me in questi giorni» Snocciolò con un certa velocità, che dava prova di quanto fosse agitata in quel momento.
Jared le sorrise, grato «Se non è un problema, accetto volentieri» Replicò, salendo in macchina, seguito poco dopo da Amelia
«Non è assolutamente un problema» Ribadì lei, mentre metteva in moto.
«Vivi da sola?» Le chiese il cantante, sperando di non ripiombare in quel silenzio di poco prima.
Amelia scosse la testa «No, sono sposata» Si morse un labbro «Con Jocelyn, spero che per te non sia un problema alloggiare da una coppia di lesbiche».
Lui fece spallucce, forse era meglio così «No, anche se non mi è mai successo».
Lei sorrise, forse più serena «E’ una cuoca, quindi puoi chiederle qualunque cosa tu voglia. Anzi, mi ha detto di metterla alla prova con qualcosa di difficile, non ha mai avuto a che fare con vegano» Lo guardò brevemente, indecisa «Anthea è vegetariana come Sophia, con loro è più semplice».
Quell’informazione ebbe in lui un effetto strano, come se già iniziasse a riconoscersi in Anthea.
«Vive con te? Anthea, intendo» S’informò.
Amelia s’irrigidì visibilmente, ma cercò di non pensarci «Fino a ieri sì. Tuttavia, in questi giorni è casa dei nonni, ma non credo la vedrai fino a dopo domani… alla lettura del testamento di Sophia» Indugiò un po’ troppo sulle ultime parole, sapeva cosa aveva fatto Sophia per tutto quel tempo.
Jared annuì, consapevole di non poter chiedere di vederla e che molto probabilmente Anthea avrebbe rifiutato la sua proposta.
«Ci sono un paio di cose di cui Sophia mia ha chiesto di parlarti» Incalzò Amelia, catturando l’attenzione di Jared «Per questo vorrei portati a casa sua, a patto che per te vada bene, ovvio. Saremmo più tranquilli».
Quella non era casa di Sophia, fu il primo pensiero di Jared, una volta varcata la soglia dell’abitazione.
Troppo ordinaria, banale, non c’era nulla che desse l’idea che la ragazza che lui aveva conosciuto fosse vissuta lì.
Ricordava bene il suo appartamento di Los Angeles, il disordine comandava, anche quelle poche volte che si decideva a pulire. Era una locale troppo piccolo e castigato per contenere tutte le sue tele, i colori sparsi qua e là, gli innumerevoli pennelli, tutti raccolti in piccoli vasi o addirittura in una vecchia teiera. Inoltre il pavimento non era mai riuscito a vederlo, sempre tappezzato da fogli di giornale, per non rovinarlo. Tuttavia quell’appartamento aveva sempre rappresentato Sophia, perennemente estraniata da tutto, chiusa nella sua bolla d’arte, tant’è che a volte non usciva di casa per settimane intere per lavorare a un quadro.
Quella casa, invece, un’anonima casa inglese era il completo opposto. Però, Jared, si concesse il dubbio di credere che tutto quell’ordine fosse dovuto al fatto che lei non c’era più.
«E’ sempre stata così?» Chiese ad Amelia, che era appena entrata.
Lei lo guardò confusa «Cosa intendi?».
Il cantante si guardò attorno, alla ricerca di qualcosa che nemmeno lui sapeva «Così ordinato, tutto al posto giusto. E’ sempre stata così questa casa?».
Amelia annuì «A Sophia non piace...» Sospirò, non si sarebbe ma abituata a parlarne al passato «…piaceva il disordine, aveva un’ossessione per le pulizie.» Raccontò «E la rispecchiava molto. Da quando la conoscevo non ha mai esagerato. Era abbastanza pacata, anche nel modo in cui dipingeva. Vieni in cucina, ti offro qualcosa» Lo invitò, recandosi nella stanza adiacente al salotto su cui si apriva l’entrata principale.
Pacata? Sophia? Si trovò a pensare Jared, mentre si sedeva.
«In che senso era pacata?» Chiese, mentre Amelia gli allungava un bicchiere d’acqua.
Lei si sedette «Beh non si lasciava andare molto facilmente, con nessuno. Pacata, nel senso che era molto razionale, quasi prevedibile nelle scelte che prendeva. Solo con Anthea si scioglieva un po’, anche se abbastanza protettiva nei confronti della figlia, ma è sempre stata così che io ricordi».
Jared prese un sorso d’acqua, senza riuscire a riconoscere in quella parole Sophia.
«Ti ha mai parlato di... Los Angeles?» Si ritrovò a chiedere, speranzoso.
Amelia scosse la testa «Mi ha accennato qualcosa, qualche mese fa in un momento di sfogo, ma è quasi niente» Replicò, guardandolo negli occhi, capendo che non era quello che voleva sentire. Jared desiderava che lei gli dicesse che Sophia aveva parlato di lui.
Infatti stava per chiederle qualcosa a riguardo, ma lei non glie lo permise, precedendolo «Hai intenzione di accettare l’affidamento di Anthea?» Gli chiese con una nota d’irritazione che il cantante non comprese.
Il cantante spostò lo sguardo, sulla credenza della cucina. Oltre i vetri delle ante si potevano vedere tutto i piatti, i bicchieri, le tazzine impilate o sistemate con precisione. Quello non era il modo di fare della Sophia che lui ricordava.
«Accetto l’affidamento» Ammise senza scrupoli, aspettando che Amelia gli domandasse quali motivazioni lo avrebbero portato a una decisione simile.
«Ne sei convinto?» Indagò la donna, sporgendosi verso di lui, incrociando il suo sguardo con quello dell’uomo, alla ricerca di qualche titubanza, qualsiasi ombra di dubbio che aleggiasse nella sua testa.
Ne era sicuro? Si domandò a sua volta Jared, sarebbe stato in grado di gestire la situazione? Con suo fratello, svelandogli di essere stato con Sophia poco prima che le partisse e che quell’unica volta aveva messo al mondo una nuova vita.
«Sì» Replicò semplicemente.
«Promettilo Jared, stai togliendo ad Anthea la sua vita qui a Londra» Lo incalzò lei seria.
Jared non le rispose subito. Fino a quel momento non aveva considerato quell’aspetto, mettere Anthea davanti a una scelta già presa da lui e la madre. Non ci aveva pensato, ma, forse, un cambio radicale non era un pessima soluzione per andare oltre quel lutto.
«Lo so, te lo prometto Amelia…».
«Ho la tua parola?» Lo interruppe lei, continuando a guardarlo dritto negli occhi.
Jared non comprendeva quella necessità di certezza. Nonostante questo cercò di mettersi nei panni della donna: sicuramente aveva visto crescere Anthea; probabilmente al conosceva quanto Sophia e vi era affezionata alla stesso modo e il pensiero di vederla partire verso l’altra parte del continente, doveva essere un’orribile consapevolezza.
«Sì, non…» Provò a tranquillizzarla, ma non appena disse “sì”, Amelia si era alzata diretta in salotto, doveva aveva raccolto da una tavolino una busta bianca. Tornata in cucina la porse a Jared, con un espressione indecifrabile in volto.
«E’ da parte di Sophia, voleva che tu sapessi» Mormorò colpevole, prima di sedersi nuovamente davanti al cantante.
Jared l’aprì bisognoso di quelle parole. Bisognoso di sapere che Sophia non l’aveva dimenticato, che lo aveva portato tutto quel tempo nei suoi i ricordi, dato che il suo cuore apparteneva a Shannon.
Iniziò a leggere, lasciando che un piccolo sorriso gli sfuggisse per quell’ironia che Sophia riusciva a ostentare anche nei momenti più difficili. Il destino, questo mio vecchio amico. Tuttavia quel sorriso morì. Evaporò dalle sue labbra, come acqua sotto il cocente dolore del sole. Mia e di Shannon, nostra figlia.
Rimase con gli occhi fissi su quella riga. Interminabili, lunghissimi minuti.
Tradito, illuso, umiliato, ingannato, non sapeva quale tra queste sensazioni era più adatta a sé stesso in quel momento, ma sapeva che c’era una forte componente di rabbia, di rabbia cieca, che lo avrebbe portato a ridurre quel foglio in brandelli di una verità scomoda e crudele, pur di dar retta all’egoismo, pur di non liberarsi dell’idea che Anthea era sua figlia.
Perdona la mia crudeltà. No! Non le avrebbe mai concesso quel lusso, non mentre lui era costretto ad accantonare un’immagine così piacevole di lui nei panni di padre.
Non me ne pento, c’era scritto nella riga successiva. Tipico di Sophia, pensò Jared, abbandonando con stizza la lettere sul tavolo, girandola, in modo da non dover contemplare la presenza di quelle parole.
Illuso, fregato per l’ennesima volta da quella donna, a tal punto di sentire gli occhi pizzicare, a prova di quanto ancora Sophia lo influenzasse ancora.
In pochi secondi era tornato ad essere Jared, Jared Leto il cantante dei Thirty Seconds to Mars, artista eclettico e poliedrico, appassionato oratore; fratello di Shannon e figlio di Costance. Nulla di più, non c’era più una figlia che avesse potuto ereditare parTE di lui. Svanito, spazzato via con una tale brutalità, da lasciarlo sconvolto nel rendersi conto quanto l’idea di essere padre si fosse radicata nella sua testa, mentre questo compito spettava a suo fratello Shannon.
Un’altra volta.
La seconda volta.
Dopo diciassette anni, Sophia aveva mantenuto solo l’amore per Shannon.


NDA:
*Saluta con la manina*
Intanto, perdonate se ci sono errori/orrori di grammatica o qualsiasialtracosa specialmente nell’ultima parte, ma ho praticamente scritto il capitolo di getto e sicuramente avrei potuto aggiungere dell’altro, sarebbe stato solo ripetitivo (mentre, per quanto riguardo per come va avanti il soggiorno a Londra di Jared dopo la ”scoperta”, ci sarà un altro flashback più avanti che si rifarà a questo periodo), e gli ho semplicemente dato una letta straveloce. 
Avrete capito che comunque non sono il tipo da dilungarsi troppo, non sono nemmeno un’appassionata dei capitoli lunghi e che, come stile personale, preferisco di gran lunga una capitolo dalla lunghezza ”normale”, ma che vada diretto al punto, anziché girarci a torno. Perché ve lo sto dicendo? Beh, perché questo capitolo mi preoccupa e non molto, benché l’idea nella mia testa fosse ben chiara, entrare nella testa di Jared non è facile, ma in generale non è mai semplice con persone che non conosci direttamente, tanto più in una situazione del genere.
Perciò spero di avermi trasmesso il quello che io desidero venga fuori dai pensieri del cantante, non vorrei che la brevità de capitolo incidesse su questo, anche se credo sia proprio così.
 
Comunque… per il capitolo devo ringraziare LenahBeau che mi ha dato l’idea, altrimenti questo e quell’altro flashback non ci sarebbero mai stati. Grazie ancora!
Cos’altro? Ah sì, per il prossimo capitolo credo, anzi prevedo una minore attesa…ma non vi do garanzie, dato che ci devo lavorare su.
Ho detto tutto, ora lascio a voi la parola, fatemi sapere che ve ne pare, se avreste voluto sapere di più, se per voi manca qualcosa…insomma, tutto quello che vi passa per la testa, anche insulti, possono sempre essere costrutivi :D
Alla prossima,
Silence.





 

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Capitolo 9
*** IX ***





 

Capitolo 9.

La prima cosa che Anthea vide riaprendo gli occhi, fu la solitudine di quella stanza. Triste, asettica e dall’odore nauseante di disinfettante, dipinta con quegli’improponibile colori che solo gli ospedali compravano. Quelle immagini le fecero balenare davanti agli occhi il litigio con Jared. Si sentì una stupida, quando capì di essere svenuta davanti a quell’uomo.
Spostò lo sguardo verso l’enorme finestra coperta da una pesante tenda color grigio, se non per uno spiraglio che mostrava il cielo limpido del primo pomeriggio. Sentì alcuni brividi attraversarle il corpo alla vista dell’ago del flebo che le avevano sistemato nel braccio.
Sospirò pesantemente chiudendo gli occhi. Aveva dormito, eppure, continuava a sentirsi stanca e le palpebre erano pesanti. Sapeva che dormire su quei lettini per lei non era mai stato comodo e non le aveva mai dato modo di ripose abbastanza. Li aveva provati quando sua madre era in ospedale, quando passava giornate chiusa in quell’edificio per farle compagnia.
Strinse gli occhi a quel ricordo. Si era ripromesse di non finire più in un ospedale, di non passarci accanto nemmeno per errore. Mentre, adesso, era distesa su uno di quei dannati lettini bianchi.
Sentì la porta cigolare e si voltò, riconoscendo la figura del batterista.
«Come va? E’ da molto che sei sveglia?» Anthea notò subito il tono di voce: dolce, preoccupato, ma consolatore e così tremendamente rassicurante.
Tuttavia, lei non rispose alla domanda «Torniamo allo studio, per favore?» Gli chiese, cercando lo sguardo del batterista, che intanto si era avvicinato.
Shannon si sentiva come dentro una bolla, completamente stordito e impacciato. Era l’effetto di quella lettera, che aveva riletto così tante volte, che ora le parole gli volteggiavano davanti agli occhi.
Era confuso, senza orientamento, non sapeva cosa fosse più importante in quel momento: Anthea in ospedale, Anthea sua figlia o Jared. Pensare al fratello gli era difficile per le sensazioni che si combattevano dentro l’animo. Era in collera con lui, perché non gli era stato detto che Sophia era incinta quando era partita per Londra, ma ancor più perché Jared non gli aveva detto sin da subito che Anthea era sua figlia. Nel suo cuore, però, la preoccupazione per il fratello era profonda, come la tristezza di aver compreso il motivo del suo comportamento nei confronti di Anthea.
Per Shannon la relazione con Sophia era stata la più importante e significativa che avesse mai vissuto. Quando lei era sparita da un giorno all’altro, senza nessun avviso, ne era rimasto ferito, arrabbiato per così tanto tempo, che a un certo punto la rabbia aveva sostituito la bellezza dei ricordi che aveva di Sophia.
Erano stati anni splendidi. Sophia non gli era mai appartenuta del tutto e proprio quel suo difetto di essere in catturabile, lo aveva condizionato ad amarla giorno per giorno, senza fare progetti. Tuttavia, il batterista, sapeva che quella ragazza lo amava quanto lui amava lei. Però quella precarietà, che con l’andare del tempo era diventata il loro equilibrio, li costringeva a dare il meglio di loro stessi, li aveva anche sempre fatti litigare pesantemente, lasciando un alone di paura, anche per lunghi periodi. Nonostante ciò, per due anni c’erano sempre stati l’una per l’altro, in un rapporto instabile, insano, ma profondo come il regalo che Sophia aveva deciso di donargli, anche nell’inconsapevolezza del batterista.
Jared invece l’aveva sempre desiderata. Per lui Sophia era la sua anima affine, così simile a lui, un’artista così affascinante. Tuttavia lei lo aveva sempre visto come un buon amico, nulla di più. Aveva commesso il grande errore di passare una notte con lui. Jared non tardava mai a mostrarle l’affetto, l’amore che aveva provato per lei, non si risparmiava in abbracci e gentilezze. Shannon, invece era sempre stato un po’ schivo, anche davanti ai famigliari, a differenza di Sophia che lasciava sempre trapelare l’amore per lui, ovunque e con chiunque fossero.
Shannon sorrise ad Anthea.
« Vedo di trovare Jared, deve firmare lui le carte per l’uscita » La rassicurò, i medici avevano detto che non appena si fosse svegliata l’avrebbero potuta riportare a casa.
«Dov’è Jared?» Gli chiese la ragazza, confusa.
Il batterista si strinse nelle spalle «Dovrebbe essere uscito per un boccata d’aria. Ha qualche problema con i germi e di conseguenza non ama molto gli ospedali» Ironizzò il batterista, facendola sorridere.
Si accorse quanto quel sorriso assomigliasse a quello di Sophia, eppure rivedeva anche quello di Costance.
«E’ arrabbiato?» Indagò Anthea.
Shannon scosse la testa, cercando di sembrare rassicurante e calmo «Affatto. E se dovesse essere arrabbiato, non sarebbe a causa tua» Replicò il batterista con leggerezza.
La ragazza non sembrò convinta «E con chi allora?» Era stata lei ad aver passato una notte fuori casa, senza dire dove e con chi. Lei lo aveva fatto arrabbiare con quel disegno sulla parete. Se la colpa non era sua, di chi era?
Shannon le posò una mano sul braccio, come a volerla tranquillizzare da qualcosa di inaspettato «Non è il caso di parlarne adesso. Ci sono delle cose ch turbano Jared da un po’. Una volta che io e lui ci saremmo fatti una chiacchierata, ti spiegheremo. Va bene?» Cercò di essere il più sereno possibile, pacato e calmo, anche se sapeva che la prossima chiacchierata che avrebbe fatto con il fratello, sarebbe stata tutto fuorché innocua.
Anthea non gli chiese altro, era curiosa di sapere cosa avesse Jared. Una piccola parte di lei sperava di poter appianare i loro dissidi, l’astio che alleggiava tra loro due e per questo, si fidò Shannon e di quelle parole.

****

«Avanti, parla» Lo incitò Shannon, una volta che il minore ebbe chiuso la porta della sala registrazione.
Avevano riportato a casa Anthea e avevano lasciato che andasse a letto, dato che sembrava ancora non essersi ripresa del tutto.
Jared guardò il fratello, non aveva voglia di parlarne.
«Vuoi parlare?» Sbottò Shannon, tirando un mezzo pugno alla scrivania, mentre Jared lo guardava colmo di rabbia anch’esso, verso Sophia che gli aveva passato quell’ingrato compito, verso Shannon che sembrava non volesse capire quanto quella donna condizionasse ancora la sua vita e quanto ne stesse soffrendo.
«L’ha voluto Sophia…» Iniziò a giustificarsi. Dio quanto lo rendeva debole.
Shannon serrò la mascella «E’ sempre stato il tuo problema. L’assecondavi in tutto, quando nemmeno ti considerava» Replicò il maggiore con astio.
«Hai letto la lettera, lei non voleva restare!» Sbottò Jared, lasciando cadere le braccia lungo i fianchi. Sophia era sempre stato il loro argomento tabù, non ne avevano mai parlato dopo la sua partenza, poiché era stata la solo capace di intromettersi tra loro due.
Shannon lo guardò serio, soppesando le parole che aveva in testa. Era suo fratello, non voleva aggredirlo, ma Sophia per lui era…stata importante. Tuttavia aveva accantonato tutti i ricordi che la riguardavano, più velocemente del fratello. L’aveva voluta dimenticare, perché il suo ricordo gli era stampato a fuoco nell’animo, nei sogni; tutto per troppo tempo aveva riportato a lei. Shannon, quindi, aveva imparato ad ignorare quei nessi e a passarci sopra, stringendo i denti o annientandoli.
«Cosa sarebbe successo se fosse restata Jared? Pensaci, saremmo qui?» Gli chiese, incrociando le braccia al petto e con saremmo qui, di certo non si riferiva all’essere rinchiusi sala di registrazione a litigare.
Il cantante si sedette su una sedia «L’avresti al tuo fianco Shan, e io la potrei ancora vedere…»
«No» Controbatté il maggiore «Non dopo che ci sei andato a letto» Disse, senza guardarlo.

«Dovresti….dovresti farlo.»
«Ma mi è indifferente, perché dovrei?»
«Ne sei sicura? Insomma è… simile a te,  c’è intesa tra voi due.»
«Cosa centra l’intesa? Sei tuo l’uomo con cui mi sento protetta, tu mi
fai sorridere il cuore…»
«E se lo facesse anche lui senza che tu te ne accorga?»
«No, lui… è un’amico Shan. Con lui sorrido per divertimento,
non con amore.»
«Fallo per me.»
«Non ti fidi dei miei sentimenti? Credi siano bugie?»
«Voglio essere sicuro»
«Sicuro di cosa?»
«Che non mi lascerai.»
«Ma ti avrò tradito, con tuo fratello.»
«Non se farei solo sesso con lui.»

 

Jared lo fissò interdetto «Tu..?»
Shannon annuì guardando il fratello negli occhi «L’ho spinta io a farlo. Vedevo come la guardavi, volevo…insomma, doveva avere la possibilità di scegliere.» Infatti tre settimane dopo se n’è andata, pensò.
In quel momento gli era sembrata la decisione più saggia, darle possibilità di assaggiare anche l’amore di suo fratello.

«Mi ha amata.» Le lacrime copiose sul tuo viso.
«Shannon,io… non posso dirtelo» Eri spaventata, stupefatta.
«Non mi arrabbierò, promesso
Mi negasti con la testa, quel mio desiderio.
«Per favore, Sophia
«Mi ha toccata come fai tu. I suoi baci erano così dolci,
desiderosi. Gli brillavano gli occhi.»

Me lo aspettavo.
«Mi ha distrutto. Io non pensavo ad altro che alla fine.
Sono un mostro

«Ti ho costretta io a farlo…»
E finalmente te ne rendesti conto.
Jared ti amava oltre ogni misura.
«Lo sapevi! Sapevi che mi avrebbe tormentata.»
«Conosco mio fratello, ti ha amata per primo.»
Eri in collera, perché non lo accettavi.
Non potevi sopportare quell’amore.
Tu volevi me, amavi me.
«Lo so! Ma non mi ha mai interessato,
perché volevi che lo facessi? Dimmelo.»

«Volevo sapere di potermi fidarmi di te. Se eri quella giusta,  quella per cui avrei potuto cambiare i miei sogni…» Quella conversazione era il ricordo più indelebile che Shannon aveva di Sophia. Il peggiore, la verità per cui lei aveva deciso di andarsene. Si era giocato il suo futuro, con quella sola frase, perché all’epoca avrebbe davvero riversato tutto il suo amore in Sophia, dando una nuova forma ai suoi sogni, incastrandoli con la sua relazione.
Jared l’aveva ascoltato in silenzio, continuando a chiedersi perché il fratello glie ne stesse parlando solo in quel momento. Se l’era domandato fino a quella frase, quelle ultime parole.
Non avrebbe mai pensato suo fratello capace di tale azioni, eppure Sophia l’aveva fatto vacillare.
«Perdonami Jared, è stato un atto puramente egoistico. Sophia doveva sapere cosa perdeva ad avere me, ma doveva darmi anche la prova che lei valeva tutto i miei sogni, che non sarebbe stata capace di tradirmi, che nessuno l’avrebbe portata lontano da me. Nemmeno tu.» La voce bassa, mentre Jared ancora non reagiva.
In quel momento, il minore, si chiese se davvero tutta rabbia che aveva riserva in quel periodo a Sophia, fosse legittima.
«Lo avresti fatto davvero?»
Shannon annuì «Sì. Avevo deciso darti una mano con la band, con il tuo sogno, ma… che non ne avrei fatto parte, mi ero convinto di questo» Si morse un labbro, ripensando a quello che c’era scritto sulla lettera che aveva letto poche ore prima «Forse, come ha scritto, me ne sarei pentito più avanti … » Eppure una parte di lui, anche in quel momento, cosciente di quanto la musica gli avesse dato, sarebbe stato capace di scegliere ancora Sophia.
Jared era sorpreso, spaventato da quell’amore che suo fratello gli aveva appena confessato. Si diceva, che lui al posto di Shannon, non avrebbe mai rinunciato ai suoi sogni per una donna, avrebbe cercato di avere il meglio da entrambe. Avrebbe forzato quel rapporto. Tuttavia suo fratello, gli aveva appena rivelato di non vederla allo stesso modo: lui, che in tutti quegli anni aveva evita l’amore, la stabilità che ne comportava, gli impegni, i doveri, come la peste, aveva appena dichiarato di essere stata a un passo dal farlo.
Eppure, Jared, non riusciva a immaginare il fratello da nessun’altra parte, se non dietro la batteria.
Un sorriso gli increspò le labbra: Sophia, lo sapeva.
Shannon si sentiva sempre più confuso e, a sommarsi, c’era la consapevolezza che avrebbe dovuto dirlo ad Anthea. Lui era suo padre.
«Come glie lo dico ad Anthea?» che lei è mia figlia. Era spaventato. Non voleva perderla, non avrebbe voluto perderla nemmeno quando non sapeva di essere suo padre, figurasi ora.
Jared si alzò, si sentiva quasi più libero, anche se gli rimaneva una profondo tristezza al centro del petto, consapevole che quell’amore giovanile, non aveva forma concreta, non era una realtà che aveva avuto la possibilità di vivere. Tuttavia, aveva anche capito, che la rabbia per Sophia la doveva limitare all’inganno che gli aveva rifilato per tutti quegli anni. Ora voleva aiutare il fratello.
«Dovrebbe leggera la lettera. Spiega tutto quello che Sophia ha fatto, i motivi per cui non le ha mai detto nulla…» Propose il cantante.
Shannon rimase in silenzio. Un dubbio reale a distrarlo , su cui Jared non aveva riflettuto. Forse era solo paura inconsistente «E se non fosse mia figlia?» Sibilò, cercando di organizzare le idee.
Il cantante si accigliò «Perché non dovrebbe?» Era confuso. Quella conclusione lo inquietava, era davvero troppo e lui era stanco, disintegrato da quella situazione, che continuava a saltare da una parte all’altra.
« Sarebbe venuta a letto con te se fosse stata in incita?» Domandò, tormentato. Come si poteva spiegare una storia simile ad Anthea?
«Glie l’hai chiesto tu, Shan» Jared provò ad essere razionale, obbiettivo, dando il giusto peso ad ogni piccolo dettaglio del loro passato «E poi, forse non lo sapeva ancora» Era una conclusione plausibile, si disse il cantante. Non aveva più intenzione di rimanere illuso.
«Non c’è un test di paternità…» Pensò a voce alta il batterista, che non aveva prestato attenzione alle parole del fratello. Tutto era possibile a così tanti anni di distanza, senza nessuna conferma concreta. Tuttavia, Shannon non voleva affezionarsi troppo all’idea che Anthea fosse la somma di lui e Sophia. Alzò gli occhi sul fratello. Per quanto gli dispiacesse per Jared, non osava lontanamente immaginare come si doveva essere sentito, quando la convinzione di essere padre gli era stata distrutta senza pietà.
Non voleva quella tristezza; quel dolore. Voleva la felicità di Anthea.
Jared sospirò, quel discorso stava degenerando in un ipotesi che a quel punto lui non voleva nemmeno prendere in considerazione.
«E’ tua figlia Shannon» Sentenziò con troppa decisione, che mise in allarme Shannon «Farai gli opportuni esami dopo che glie lo avrai detto. Sei suo padre, accettalo» Lo fissò negli occhi e il maggiore rabbrividì, avvicinandosi senza nemmeno pensarci. Quelle parole sembravano una supplica prepotente da parte del cantante, stanco di tutto.
«Va bene» Non volle rimarcare il dubbio, anche se per lui era concreto.
Abbracciò Jared, senza lasciargli tempo di obbiettare e lo sentì sospirare, debole sotto la protezione del fratello, che in quel momento gli era necessaria. Per tutto quel tempo gli aveva mentito e non ricordava nemmeno se avesse mai tenuto un segreto per così tanto senza parlarne a Shannon, la reputava una cosa impossibile.
«Non soffrirai più Jared» Mormorò Shannon.
«Grazie.» 


NDA:
Ecco il capitolo…Shannon vs Jared, che ne pensate? Sarà finita qua tra i due?

Alla prossima,
Silence:)



 

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Capitolo 10
*** X (Prima Parte) ***


 

 


Capitolo 10 (Prima parte)
 
«Buongiorno» La salutò Costance, non appena entrò in cucina.
Anthea le rispose con un lieve sorriso, guardandosi attorno e chiedendosi dove fossero Jared e Shannon. Si era svegliata con la sensazione si essersi dimenticata qualcosa, di importante. Si ricordava d’essere svenuta davanti a Jared, ma non ne capiva il motivo.
«Costance, dove sono Jared e Shannon?» Chiese la ragazza accomodandosi su di uno sgabello.
La donna tolse dalla padella un pancake «Chiamami Connie, per favore» Le disse, versando dello sciroppo d’acero sulla pila di pancake «Shannon è andato a prendere la macchina, mentre Jared è uscito presto a fare jogging, dovrebbe rientrare a momenti» Spiegò la donna, poggiando sull’isola della cucina la pila di dolcetti.
Anthea guardò sorpresa Costance.
Li aveva fatti per lei?
Insomma, non avevano mai parlato, quella era la seconda volta che la vedeva da quando era a Los Angeles, ed era stata così gentile da preparale la colazione?
«Cos’è quella faccia?» Le chiede la donna divertita, non era sua intenzione metterla in difficoltà.
Anthea spostò lo sguardo sui pancakes e poi agli occhi celesti di Costance «Non avresti dovuto disturbarti così per me» Avrebbe voluto dirle che lei la mattina non era abituata ad abbondare nella colazione, ma optò per mordersi la lingua e accettare quella gentilezza.
«Non è assolutamente un problema Anthea, l’ho fatto per anni per Jared e Shannon-»
«Loro sono i tuoi figli, io…» La interruppe morsicandosi un labbro «… ti chiedo scusa per come ti ho trattato il primo giorno. La rispostaccia che ti ho riservato era davvero fuori luogo, ingiusta oltretutto» Snocciolò Anthea, sotto lo sguardo sereno della donna.
Costance le si avvicinò, spostandole un ciuffo di capelli castani «Nessuno era pronto ad averi qui, tanto meno tu ad avere noi attorno. Ammetto, che forse, ho preteso un po’ troppo che tu fossi contenta di essere qui. Tuttavia non me la sarei mai presa quel gesto» La rassicurò sorridendole tranquilla.
La sera prima Jared l’aveva chiamata avvisandola di quello che era successo, ma dicendole di rimanere a casa e che, se avesse voluto, sarebbe potuta passare da loro la mattina seguente. Costance aveva assecondato il figlio, riconoscendone il tono turbato, quasi agitato e non aveva indagato. Tuttavia, quella mattina, non si aspettava di sentire quello che Shannon, provato dal sonno mancato di quella notte, le aveva raccontato.
Ammetteva di aver sospettato sin dall’inizio che Anthea fosse sua nipote, ma non era ben sicura chi dei suoi figli fosse il padre. Dapprima avrebbe azzardato a dire Jared, ma era stato Shannon ad avere avuto una lunga relazione con Sophia, quindi aveva accantonato l’idea e aspettando che fosse uno dei due a parlare.
Entrambi avevano dormito poco quella notte, troppi pensieri a vorticare in testa. Il maggiore dei fratelli, in particolare, che non sapeva come porsi con Anthea, gli sembrava così assurdo ritrovarsi padre all’improvviso, che il cuore sembrava pensare un grammo.
Anthea le sorrise in imbarazzo «Grazie, Connie» Si limito a dire, sentendosi piccola davanti alla bontà di quella donna. Agguantò il piatto con i pancake e le posate lì vicino, cosciente che nessun poteva superare quelli ai mirtilli di sua nonna Giselle: soffici come un cuscini, non troppo dolci e soprattutto dalle dimensioni esagerate.
«Hai dormito bene?» Le chiese Costance, osservandola con un occhio critico per scorgere qualche segno di una nottata agitata.
La giovane scosse la testa, mentre infilzava la prima frittella «Sì, credo sia stata a causa di tutto quello che mi hanno dato in ospedale» Suppose, addentando il primo boccone: pura estasi per la sue papille.
«Si vede che sei riposata…oh, Jared!» La donna sorrise la figlio, mentre Anthea si voltava.
L’uomo salutò la madre con un breve cenno della mano, per poi rivolgersi ad Anthea «Shannon ti sta aspettando fuori» Cominciò pacato, mentre lei mandava giù il boccone, confusa.
«Queste sono le chiavi di casa mia, dì a mio fratello di non perderle» Le riferì, allungandole un mazzo di chiavi.
«Perché devo andare a casa tua con Shannon?» Gli chiese. Pensava avrebbe parlato tra loro quella mattina di quello che era successo il giorno prima. Invece, adesso, lui se ne veniva fuori con questa storia.
Jared sospirò «Te lo spiegherà lui.» Si affrettò a dire lasciando le chiavi accanto al piatto, prima di sparire tanto velocemente quanto era entrato in cucina.
 
 

****

Shannon le aveva chiesto di aspettarlo, mentre saliva al piano di sopra. Anthea, allora, era uscita sul retro e si era seduta sul divanetto di vimini a bordo piscina, guardandosi attorno.
Casa di Jared era completamente immersa nel verde, fiancheggiata da due boschetti suggestivi, che le ricordavano molto un quadro si Sisley. Il verde brillante delle chiome rigogliose degli alberi, spegneva quell’atmosfera cupa che di solito apparteneva a quel luogo. Inoltre l’aria sembrava immobile, sospesa, una pace inquietante, ma talmente affascinante che, forse, capiva perché Jared avesse scelto proprio quel posto. Uno scorcio si solitudine, di staticità, al di là della frenesia della città degli angeli, a quel turbine incessante di scandali che la caratterizzavano.
Si portò le gambe al petto, poggiando il mento sulle ginocchia.
In quel momento, stare lì da sola, con tutte quel silenzio assordante non le piaceva. Le domande rumoreggiavano nella sua testa, l’una sovrasta dall’altra, chiassose, dispettose, prepotenti…
«Anthea?» La chiamò Shannon, sporgendosi dal balcone del piano superiore. Lei alzò gli occhi «Vieni su» La incitò, prima di sparire dalla sua vista.
Lei rimase a guardare quel punto qualche istante, sospirando. Non le aveva chiesto niente durante il tragitto in macchina, nemmeno come si sentiva. Semplicemente l’aveva ringraziata per avergli riferito quello che Jared le aveva detto a riguardo della chiavi.
Scese dalla divano e si diresse dentro, verso le scale. Nemmeno l’interno della casa riusciva ad apprezzarlo a pieno. Si vedeva che non era vissuta, c’era del disordine che spiccava negli scaffali dei libri o sui tavolini, ma nulla che desse l’idea quella era una vera casa, in cui abitare. Era più un rifugio, suppose Anthea. Quattro mura dove Jared poteva spegnere ogni contatto, poche ore molto probabilmente, ma necessarie per rimane intatto abbastanza da non farsi sopraffare da tutto.
«Shannon?» Chiamò, raggiunta la fine della scala, guardandosi attorno, notando quanto bianco ci fosse.
Il batterista uscì dalla stanza davanti a lei «Di qua» Si limitò  a dire, prima di sparire nuovamente.
Anthea lo raggiunse, in quella che era la camera da letto del cantante.
Rimase sulla soglia, costatando che le macchie di disordine del piano inferiore, non erano nulla a confronto di quella stanza. Caos in piena regola, al di fuori del letto. C’era una scrivania, che sembrava uno scafale in esposizione di un edicola ben fornita. Un paio di custodie di chitarre rigide, una sopra l’altra, sicuramente vuote e alcuni contenitore di plastica, su cui Anthea non soffermò la propria attenzione, sarebbe stato inutile cercare di capire cosa ci fosse dentro.
Tuttavia fu Shannon ad attirare la sua curiosità, seduto al bordo del letto con una scatola vicino. Era grande, ma non molto alta, un diecina di centimetri forse, non di più, e aveva l’aspetto di essere stata per molto tempo dimentica sopra qualche armadio a prendere la polvere.
Gli si sedette di fronte, soppesando con lo sguardo il contenitore. Era vecchio, ma non rovinato.
«Cos’è?» Chiese alzando gli occhi su quelli del batterista, che stava indugiando già da un po’ sulla figura della ragazza.
Le sorrise «Aprila, ti piacerà quello che c’era dentro» La incoraggiò, poggiando le mani sulle cosce. Conosceva bene il contenuta di quella scatola anche se erano anni che non l’apriva. Tuttavia ne ricordava perfettamente il contenuto.
Anthea prese il coperchio, constatando che vi era un bello strato di polvere sopra, e l’alzò stando attenta a non respiraci troppo vicina, altrimenti la polvere sarebbe svolazzata ovunque, creando una fastidiosa nuvoletta di pulviscolo. Tolse il coperchio e Shannon glie lo prese dalle mani, poggiandolo sul pavimento, mentre lei osservava il primo disegno.
Erano di sua madre. Non aveva visto molti disegni creati interamente da lei, ma quei pochi era riuscita a trovare nel suo studio, richiamavano lo stile e le pennellata di quel disegno su cartoncino. Era una tratto uniforme, non troppo pastoso, infatti sembrava quasi acquerello.
Lo prese in mano, cercando di capire quale fosse il soggetto.
«E’ Venice Beach…» Le venne in aiuto Shannon «E’ un dei primi disegni che tua madre mi mostrò» Le raccontò, vedendola alzare gli occhi su di lui.
«Questa invece è San Francisco» Continuò, prendendo in mano il secondo disegno. Quello era fatto a matita però, osservò Anthea, ma notò anche con quanta delicatezza Shannon stesse tenendo tra le mani il foglio.
Faceva un strano effetto.
«E questo è un panda» Lo sentì dire a mezza voce, prendendo il terzo disegno dalla pila di fogli. Una nota dolce, quasi malinconia nella sua voce e uno sguardo vacuo che si spostava sulla superficie del foglio.
 

«E’ un peluche…»  Ti feci notare.
Tu facesti spallucce, ormai l’artista aveva preso
Il sopravvento.
«E allora? Guardo se le metto davanti alla finestra, ci sono
le chiome degli alberi e il cielo, che fanno da sfondo
e quindi da l’idea che sia fuori e poi…»
Prendesti una stecca di legna
«…questa è il parapetto dello zoo…»
«Peccato che l’insieme sia decisamente,
troppo sproporzionato
Scoppiasti a ridere, come piaceva a me.

 
Il risultato però era fenomenale. Sembrava davvero di sporgersi dalla recinzione di uno zoo e guardare poco più in basso, dove un ristretta colonia di panda si stava godendo un giornata di primavera, attorniata da un’alta vegetazione e delle canne di bambù. Poteva davvero passare per un disegno fatto sul momento, anziché un’ispirazione avuta da una banalissimo panda di peluche che, anni prima, Shannon aveva regalato a Sophia.
Anthea, intanto, aveva poggiato altri fogli sul letto, ma la maggior parte erano schizzi di paesaggi che non conosceva, oltretutto non era nemmeno finiti e quindi aveva preferito accantonarli, mentre Shannon si rigirava ancora tra le mani il disegno. Finché non arrivò ad una busta di carta, che sembrava contenere altri fogli. La prese in mano, chiedendosi perché metterli lì dentro, per non farli rovinare forse? Per un attimo fu dissuasa dall’idea che non avrebbe dovuto vederli, che quello era un passato che sua madre non le aveva raccontato e forse c’era una motivo.  Tuttavia, fu Shannon ad aprire la busta.
Erano ritrattati.
 

«E dai, Sophia!»
«No Amy, lo sai che non faccio più
ritrattati da una pezzo…»
«Ma…se sono splendidi, quelli che facevi.
Sei stata proprio tu a dirmi che era il genere
che ti piaceva di più. »
«Un tempo
«Perché non riprenderlo?»
«Non voglio più rubare emozioni a nessuno.»

 
E quella non era stata la prima volta che glie lo aveva sentito dire. Tutti quelli che proponevano di commissionarle un ritratto, anche ben pagato, erano costretti a cambiare artista. Sua madre accettava solo di realizzare copie di quadri più o meno famosi, oltre quelle commissioni non l’aveva mai vista dipingere. Lei si giustifica sempre che il lavoro d’insegnate di storia dell’arte le prendeva troppo tempo per iniziare a lavorare da zero a una quadro indipendente. A volte, però, quando realizzava le copie si dimenticava di correggere i compiti o di preparare le lezioni.
«Chi sono?» Domandò la ragazza, cercando di scorgere i volti delle persone impresse sulla carta.
«Chiunque. Però questi sono solo alcuni, gli altri li ha portati con sé a Londra» Spiegò porgendole i fogli «Il primo e Daniel, era il suo migliore amico.»
Anthea annui. Era realizzato con le matite colorate e poi doveva averci sopra della vernice trasparente o un protettivo, in modo tale che non si rovinasse.
Il ragazzo raffigurato aveva capelli scuri, quasi color carbone. Due occhi verdi, splendidi che risaltavano sulla carnagione olivastra. Ed erano proprio quel tocco di verde smeraldo su cui si focalizzava lo sguardo. Era palese che sua madre fosse andata oltre il colore nature dell’irride, poiché era troppo luminoso troppo chiara, quasi fluorescente. Eppure non erano inquietanti, ma si adattavano perfettamente al sorriso sfoggiato dal ragazzo. Smagliante, luminoso, come il colore degli occhi. Era gioia quella che sua madre aveva impresso sulla carta. Una felicità contagiosa, che molto probabilmente era il tratto più incisivo di quel ragazzo.
Anthea avrebbe voluto sorride, ma si sentiva stupida a farlo solo per una sensazione emanata da una semplice disegno. Proprio quel pensiero le fece comprendere cosa intendesse sua madre con rubare le emozioni. Quella era un’emozione rubata, che sarebbe rimasta per sempre su quel foglio, rubata, intatta nel tempo.
 
Alzò gli occhi sul batterista «Non ne ha più fatti » Disse, ritornando a guadare il volto del ragazzo «Vive qui a Los Angeles?».
«Non lo so, ma non credo. Da quello che mi ricordo, si voleva trasferire a New York» Snocciolò. Non lo aveva mai conosciuto veramente, ci aveva parlato solo poche volte nei primi tempi in cui viveva a Los Angeles.
Anthea fece spallucce «E quest…» L’ultimo disegno della scatola: Shannon, o meglio il suo sorriso.
Tutto il volto era solo abbozzato con delle linee nere di contorno grossolane, mentre le labbra dell’uomo incurvate verso l’alto erano perfettamente disegnate con una semplice matita nera. Il gioco di chiaro scuri, per dar volume e sostanza alla pelle e alle labbra carnose del batterista.
«Giralo» Le suggerì Shannon.
Perplessa seguì il consiglio del batterista.
 

Ti amo Shannon.
Ti amo come le città dove le strade non hanno nome:
passo, passo, man mano che il tempo scorre, sempre di più.
Sophia.

 
«Beh…potevi finirlo, prima di darmelo.» Sottolineò lui, dopo essere ritornato al guardare il disegno non ancora finito. Era strano vedere il proprio sorriso impresso su quel foglio. Si sentiva quasi in soggezione, come se non lo avesse mai visto e fosse qualcosa di stupefacente. Insomma, cosa doveva voler dire un disegno del genere?
Sophia alzò gli occhi al cielo «Lo finirò…» Gli sorrise.
«Quando?».
«Quando ti amerò di più. Col tempo» Spiegò bonariamente, mentre lui era sempre più confuso.
«Ma tra qualche anno non sarò più così» Le fece notare, indicandosi con la mano.
Lei annuì «Lo so» Sembrava lo stesse prendendo in giro.
«Non puoi farmene uno ogni anno?» Le propose dubbioso.
Sophia scosse la testa «No».
Shannon si stava innervosendo «Allora perché il sorriso?».
Lei fece spallucce «E’ l’unica cosa che non cambierà mai di te. E, oltre ai muscoli, è la cosa più bella che possiedi».


 

NDA:
Quanto tempo! So che non vi sono mancata xD
Ho delle cose da dire a proposito del capitolo:
1. Non è un gran che...ma ultimamente ho avuto poco tempo e, piuttosto che lasciarvi a secco, ho preferito mettere questo capitolo un pò più "soft" e concentrarmi per bene sul prossimo.
2. Si ritorna al passato di Shannon e Sophia, dato che per lo più il capitolo è dedicato a questo, ed è la strategia del batterista per affrontare il discorso "padre e figlia", per questo ho deciso chiamarlo "Prima Parte".
3. Ho cercato di dare una spegazione al titolo della Fan Fiction. Where The Streets Have No Name è un canzone degli U2 (
qui per ascoltarla), personalmente preferisco la cover fatta dai Mars (asoltatela) (ciò che ho appena detto potrebbe essere ritenuto blasfemo, mi dispiace ma sono gusti) e vi consiglio di ascoltarla, se non la conoscete già u.u. La spiegazione del titolo beh, è un pò quella della dedica che Sophia lascia dietro al disegno: con il tempo si impara ad amare/voler bene e scoprire nuove cose anche dei posti/persone di cui non conosciamo  nulla. Ed è quello che è successo ad Athea e Shannon.

Ok, detto questo ringrazio chi segue, chi commentata, chi legge, chi ha messo la storia tra le seguite/ricordate/preferiti.


Alla prossima,
Silence.

 

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Capitolo 11
*** X (Seconda Parte) ***


 

 


 

 

Capitolo 10 (seconda parte)

 

Capita, ogni tanto, di avere delle sensazioni, pensati. Impossibili d’affondare, come il piombo. Galleggiano nella testa, agitate, così chiare ed evidenti. Iniziano a farsi strada tra i nostri pensieri, quando improvvisamente metti insieme i pezzi di momenti, apparentemente slegati tra di loro. Un semplice uno più uno, determina qualcosa di ovvio, sciocco. Tuttavia, per quanto semplice possa sembrare, illogicamente lo si tende a rifiutare, a negare quella consapevolezza, perché ci appare strana, imprevedibile.
Anthea si sentiva così mentre rileggeva quelle parole: sciocca, perché c’erano una mezza dozzina di motivi per cui se ne sarebbe dovuta accorgere che sua madre e Shannon avevano avuto un passato. Primo fra tutti Shannon stesso e il suo modo di porsi nei suoi confronti. Eppure le veniva difficile crederlo, anzi c’era una vocina nella sua testa che non riusciva ad accettarlo. Non poteva, perché implicava qualcosa, un legame, forse? Non lo sapeva, non ci riusciva. Perché far accettare l’affidamento al fratello di un uomo di cui era stata innamorata?
«Perché…» Iniziò tentennate, alzando gli occhi sul batterista «Perché Jared e non tu?».
Shannon le tolse il disegno di mano e lo riposò nella scatola, senza incrociare lo sguardo di Anthea. Riusciva solo a percepire la testa vuota, blackout assoluto, eppure c’era una frenesia illogica in quel vuoto. Un moto continuo di immagini di Sophia, che correva da una ricordo all’altro, saltando furiose, come il battito del suo cuore. Dire ad Anthea di essere suo padre avrebbe concretizzato tutto.
«E’ stata una precauzione» Vaneggiò portando lo sguardo su quello della ragazza.
«Per cosa?» Indagò Anthea, non capendo quella frase vaga, indefinita.
Shannon sospirò «Per tua madre è stata più semplice rivolgersi a Jared» Iniziò «Io e tua madre siamo stati insieme, ma anche Jared è stato innamorato di lei. Tuttavia Sophia non ricambiava, ma Jared non si è mai perso d’animo. Le stava vicino, esprimeva il suo affetto nei suoi confronti. Voleva sopperire alla mancanza di un rapporto  concreto, viziandola con quello che lei amava di più: l’arte. Come ti ho detto, non so di preciso a quante mostre siano andati insieme. Su questo lato c’era una profonda intesa, al di là di quanto tua madre volesse ammettere, anche se non era amore. Semplicemente Jared era più simile a lei, e non solo per l’arte. Si assomigliavano, erano la metà di un’unica cosa, si capivano al volo, perché avevano la stessa visione delle cose. Sogni, tanti, impossibili, ma accattivanti. Due persone sincere, senza peli sulla lingua e nessuna censura, dicevano quello che pensavano. Schietti, a tratti stronzi e arroganti, ma dolci, intelligenti come pochi» Era come rivivere quei momenti: i pomeriggi passati ad ascoltarla mentre parlava della mostra a cui era andata o dei suoi progetti, gli era sempre sembrato di ascoltare Jared. Erano uguali, non c’era parola che li potesse descrivere meglio. Eppure, Sophia era stata la sua donna e non aveva mai dubita del suo amore, seppure avesse dubitato di essere la scelta migliore.
Anthea taceva, silenziosa, ma attenta a quel discorso così insensato per lei, perche quella non era sua madre. Non poteva essere la stessa donna che l’aveva cresciuta con regole stabilite od orari da rispettare.
«Per questo motivo ho commesso un errore Anthea» La voce incrinata, dispiaciuta, mentre gli occhi assumevano un’aria vacua, indistinta da ogni emozione «Ho chiesto a tua madre di passare una notte con Jared, non ero sicuro di me stesso. Non ero certo di poter essere il partito migliore tra i due. Jared, poteva essere qualcosa di più» All’epoca ne era convinto, forse era la paura di perderla, di sapere che lei era quella giusta, che indipendentemente da ogni cosa Sophia avrebbe influenzato il suo rapporto con le donne.
«E Jared non fa le cose a metà. O tutto o niente, nessuna via di mezzo. Quella sera le ha dato sé stesso» Non erano una azzardo quelle parole, non era nemmeno esagerato. Era la verità, pura e semplice.
«Se n’è andata per questo? Per Jared?» Era confusa, sempre di più. Quella non era sua madre, non la riteneva capace di una cosa simile. Le sembrava di sentir parlare di una sconosciuta, come se sua madre si fosse mascherata per tutti quegli anni con il volto della donna normale, quando il suo passato era intriso errori…si potevano definire tali?
«No. Tua madre conosceva il valore dei sogni» Snocciolò, passando una mano sul bordo della scatola «Dopo quella notte era rimasta…turbata, ma non era cambiato molto tra me è lei» Un sorriso spontaneo gli dispiegò le labbra «Avevo deciso di essere suo. Rivalutare i miei desiderio, preferendo tua madre e concederle il giusto tempo nelle mia vita, allontanandomi da l’idea di fondare la band con Jared. Sapevo che l’avrei trascurata, che la musica mi avrebbe preso troppo. Non volevo trascurarla…» Shannon glie lo disse guardandola dritta negli occhi velati di tristezza. Credeva in quelle parole e odiava l’idea che Sophia non ci fosse più. Non riusciva a coesistere con quell’assenza, proprio ora che scopriva di esservi legato per la vita. Proprio ora che la sua carriera s’impennava, ritornava quella normalità che lo aveva ammagliato tanti anni prima.
«Se n’è andata per questo, non voleva togliermi dai miei sogni. Non voleva che me ne pentissi più avanti».
Anthea si riavviò i capelli, non sapendo cosa dire o fare. Si sentiva a disagio davanti a quella storia, le sembrava impossibile, inconcepibile. Quella doveva essere un’altra donna, perché se davvero sua madre aveva vissuto a Los Angeles, aveva davvero avuto una storia con Shannon, aveva davvero fatto innamorare entrambi i fratelli…lei era legata ad uno dei due.
Jared o Shannon. Uno di loro era suo padre.
Vuoto. La stanza le vorticò attorno alcuni secondi. Chiuse gli occhi.
«Quindi se n’è andata perché aveva paura di distruggere i tuoi sogni? perché credeva di non essere abbastanza? Si essere d’intralcio?» Chiese riaprendo gli occhi, ritrovandosi in quelli di Shannon.

Il batterista annuì.
«C’è dell’altro?».
L’uomo annuì nuovamente.
«Cosa?»
Chi di voi due?
«Tua madre disse a Jared di essere incinta, quando partì…» Le parole gli scivolarono sulla lingua, senza contegno. Libere, sfrattate dalla sua testa ormai esasperata di doverle tenerle dentro.Gli occhi della ragazza si spalancarono. CHI? Ma prima di quella domanda, un ricordo. Io e tua madre eravamo legati, no, no, no… non stava con Shannon?
«Sono tuo padre. Sono io, non Jared. Sei mia figlia Anthea

«Sono questi i momenti da ricordare. Quelli dove le persone ci sono realmente, quando possono dire “Io sono qui con te”, anche se sono cose semplici come passeggiare sulla spiaggia. E’ solo un attimo rispetto alla lunghezza di una vita, no? Cosa sono tre ore comparate a ottanta o novant’anni? Niente, eppure per noi sono più importanti i cumuli di niente che periodi di tempo lunghissimi. Quando sarai più grande e avrai la mia età, non ricorderai il periodo dell’adolescenza, ma ricorderai le giornate, gli stralci di pomeriggi, le serate con gli amici…ma non ricorderai mai un anno, sì fosse lo ricorderai ma non lo rivivrai come lasso di tempo, ma come un contenitore numerico di attimi a te importanti. E’ questo quello che ci porta ad andare avanti, la certezza che ci prima o poi arriverà  un momento di felicità, in contrasto con un lungo periodo di noia. Perché il troppo, le lunghe durate sono vuote. Le azione sono dilazionate e diluite nel tempo, non le vivi a pieno, ma ti concedi di assaporarle piano, piano, però prima o poi perdono sapore. Invece un momento, un singolo istante è un concentrato di gusto, un’esplosione prelibata che rimarrà sempre impressa nella mente. La brevità a volte può essere sinonimo di vita. Sono i piccoli attimi le cose speciali, non gli anni. E’ vero ci vuole tempo per trovare un attimo, ma quando lo si trova…oh, bisogna viverlo come se fosse una vita intera. Oltretutto queste frazioni di tempo diventano ancora più ricche se le si condivide con qualcuno. Non ti parlo di promesse, perché io sono la prima ad non essere in grado di mantenerle, ma ti parlo delle presenze. Una presenza che non ha bisogno di convincerti con un promessa, ma che per propria volontà vuole esserci, anche in momenti slegati tra loro. Non importa, se un colpo c’è, invece nell’altro no, quello che conta è quanto rimanga costante alla volta precedente in cui c’era, che il suo desiderio di vivere quel momento con te sia concreto, sincero, incondizionato… Anche se manca per tanto, se è più assente che presente, bisognerebbe dare una possibilità. Non importa quanto è mancato, importa quanto desidera essere parte della tua vita, quanto tu desideri che ne faccia parte e quanto siete disposti a sacrificare. Una possibilità non la si nega a nessuno, tanto a meno a qualcuno di cui ci potremmo fidare.»

 

C’era solo il brusio della Tv e l’eco della voce di Shannon.
Sono tuo padre. Sono io, non Jared. Sei mia figlia Anthea.
Glie l’aveva detto con gli occhi lucidi, mentre lei singhiozzava confusa e fusa nell’abbraccio di suo padre.
Oh.
Anthea aprì gli occhi. Non si ricordava d’essersi addormentata, anche perché non si era sentita stanca, eppure era crollata tra le braccia di Shannon e lui l’aveva lasciata dormire. Era proprio stata un’imbecille, lui le diceva di essere suo padre e lei cosa faceva? Scoppiava a piangere come una bambina e si addormentava, pure. Bel modo di iniziare.
Tuttavia, inconsciamente sapeva che poteva evitare di sentirsi così. Shannon era suo padre. Suo.
Era bello pensarlo. Era troppo bello. Era troppo egoistico pensarlo, tanto da diventare strano concepirlo.

Anthea Leto, non suona così male.

Anthea Leto, figlia di Shannon Leto, non era nemmeno tanto strano.

Anthea Leto, figlia di Shannon Leto batterista dei Thirty Seconds To Mars, era questo a non essere normale.
Tuttavia, adesso, poteva avere la stessa percezione della normalità? Normale per lei era vivere a Londra, uscire con le sue amiche, aiutare sua madre a sistemare casa, litigare con quest’ultima, insomma quello che migliaia di altre ragazza della sua età facevano.
E ora? Aveva già mosso i primi passi verso il cambiamento, ma questo era passare da una sconosciuta ad essere la figlia di una noto batterista. Sarebbe davvero cambiato qualcosa? O sarebbe riuscita, in qualche, modo a mantenersi fedele a sé stessa a non lasciare che tutto la travolgesse?
Doveva ammettere che sapere di poter contare su Shannon come genitore, come qualcosa di più di una semplice persona, era rassicurante. Le aveva sempre trasmesso quel senso di protezione che aveva pensato di trovare in Jared, invece era stata il batterista che con semplici gesti aveva fatto in modo che fosse lei ad avvicinarsi a lui.
Eppure era impreparata.
Lei era stata la figlia per diciassette anni e poi in pochi mesi si era ritrovata senza ruolo all’interno di una famiglia. Era nipote, ma c’era una sottile differenza tra i due compiti. Ora, invece, le appariva così inusuale essere figlia, insomma Shannon era pur sempre un uomo, ma non era stata abituato ad essere padre per tutto quel tempo. Sua madre la conosceva, sapeva quali erano i cibi che preferiva, la conosceva caratterialmente, l’aveva vista crescere, c’erano dei ricordi comuni ad entrambi, con Shannon no. Addirittura l’unica figura che avevano in comune, era completamente diversa.
Si mise  a sedere, in mezzo a letto, immersa nel buio.
Voleva davvero creare un legame con Shannon?
Non lo sapeva, anzi si chiedeva come fosse possibile farlo. Costruire un rapporto padre-figlia con due vite così differenti, ma non solo. Forse lo stile di vita del batterista era l’ultimo pensiero a frastornarla.
Il problema che più sentiva pesante era il tempo. Diciassette anni, senza sapere dell’esistenza l’una dell’altro.
Sarebbe bastata la buona volontà?
O il presupposto di provarci, di darsi una possibilità?
E lui?
Che casino.

 

Era scesa al piano di sotto.
Voleva parlare con Shannon, aveva bisogno di  parlarci, di capire cosa ne pensava lui.
Il batterista allungato sul divano a guardare la Tv, sembrava tranquillo, se non per il fatto che non stava minimamente guardando la televisione. Aveva le mani sotto la testa e lo sguardo alzato sul soffitto candido, mentre Anthea era ferma sul penultimo scalino della scala.
Era imbarazzo quello che sentiva?
Non voleva mostrarsi riluttante all’idea di averlo come padre, ma non poteva nemmeno nascondersi da tutti i dubbi che la stavano disturbando. Erano davvero troppi.
«Shannon?» Forse dormiva.
Il batterista si girò come meglio poté verso Anthea «Riposata?» Le chiese, rimanendo a fissarla. Non aveva idea di quanto assomigliasse a Sophia, se non fosse che aveva il suo colore di capelli.
Anthea si limitò ad annuire, mentre scendeva gli ultimi gradini e Shannon si metteva sedere sul divano, spegnendo la televisione. La ragazza lo raggiunse, mettendosi a sedere girata verso di lui.
«Vorrei fare il test di paternità se per te non è….un problema» Inizio, era inutile che le chiedesse come stava, non sapeva nemmeno lui come sentirsi sapendo di essere padre.
Anthea lo guardò confusa, non era sicuro?
«Jared, insomma…tua madre gli ha fatto credere per tutto questo tempo che fosse lui tuo padre» Snocciolò, rendendosi conto subito dopo di non aver mai accennato prima a quell’argomento.
Jared.
Sua madre gli aveva davvero fatto credere questo?
«Mi dispiace…» Riuscì a dire, capendo ora cosa  il cantante volesse dire con Non puoi farmi questo, dannazione! Cosa aveva fatto?
«Quindi la quercia, i due tronchi siete tu e Sophia?» Chiese e Shannon annuì.
Aveva dipinto l’amore di sua madre per Shannon davanti agli occhi si Jared, senza nemmeno saperlo.
Ora lo capiva e si sentiva in colpa.
Gli occhi le si inumidirono nuovamente. Cosa aveva fatto? Sua madre aveva mentito a Jared  per tutto quegli anni, con una bugia orribile, repellente e lei aveva le dato forma.
Una lacrime le scivolò lenta lunga la guancia, ma la mano di Shannon la fermò.
«Cosa c’è?» Le domandò dolcemente.
Anthea abbassò lo sguardo «Jared mi odia, ma come dargli torto? Mia madre….è terribile quello che gli ha fatto credere per tutto questo tempo. Io... gli sono stata tolta, quando lui era convito che potessi essere sua figlia, quando lui hai convissuto per diciassette anni con l’idea di essere padre, invece non lo è. E’ orribile» Ma mano che parlava, lo stato d’animo del cantante il sono comportamenti diventano più giustificali. Legittimi all’ingiustizia che Sophia gli aveva inferto.
Shannon l’abbraccio, in quel momento non ci voleva pensare, perché era davvero troppo.
«Non ci pensare Anthea, non adesso, sono troppe cose messe insieme» Tentò accarezzandole la schiena per tranquillizzarla «Sono sicuro che non ti odia. Non è stata un tuo sbaglio, ma di tua madre.»
Anthea si lasciò stringere, cullata dal senso di protezione che Shannon emanava.
«Lo affrontiamo insieme?» Domandò lei, speranzosa, spaventata. 
Shannon sorrise.
«Sono qui con te, lo affronteremo insieme piccola.»
Anche Anthea sorrise.


NDA.
Uh, ma chi si rivede!
Beh il capitolo è un pò, anzi....un pò tanto naschifezza.
Insomma, dato che è pasqua vi regalo le uova da tirnarmi dietro.

Detto questo, diciamo che qui immaginariamente si chiude la prima parte della storia, dal prossimo capitolo ci sarà un salto di un mese o una paio di mesi, per vedere come la notizia è stata metabolizzata.

Se non l'aveste notato il ho cambiato nickname, ma non è quello definitivo :D
E sono pure riuscita a fare un dannato banner....non è chissàchecosa, però mi piaceva la foto e non volevo rovinarla più di tanto u.u 

Alla prossima,
Black.

 

 

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Capitolo 12
*** XI ***


 

Capitolo 11.
 
Due mesi dopo
Sei stata fortunata.”
 
“Dopo tutto questo tempo? Non potevi tornate a Londra?”
 
“Benvenuta in famiglia.”
 
“Sei solo un’arrivista sociale.”
 
“Sei stata sfortunata, a cambiare vita così. Non vorrei essere al tuo posto.”
 
“Andrai in tour con loro?”
 
“Sono confusa, ma in ogni caso sappi che hai acquisito miglia di fratelli e sorelle.”
 
“Shannon non è tuo padre, non ci credo.”
 
“Non allontanare troppo Shannon da noi, per favore.”
 
“Mi dispiace per tutto quello che ti è successo, davvero.”
 
Aveva centinaia di frasi del genere salvate nel computer e quasi ogni giorni ne aggiungeva di nuove. Più o meno simili, tranne alcune davvero troppo personali di Echelon che le parlavano di quanto la band contasse per loro, chiedendole di farle leggere a Shannon o Jared o Tomo. E così aveva fatto, lasciandole in anonimo però, alcune le aveva stampate e lasciate a suo padre sul mobiletto all’entrata in modo tale che le potesse leggere. Lei invece non si era mai espressa sull’argomento, alcune era davvero speciali.
La figlia di Shannon Leto, etichettata poche ore dopo che Shannon aveva fatto un Vyrt per raccontare tutto di lui e Sophia, della morte di sua madre, dell’affidamento e di lei, tranne di Jared, lo avevano lasciato fuori perché lui stesso lo aveva richiesto “Non ne posso più Shan, lasciami fuori è la cosa migliore, anche per Anthea e per gli Echelon, sarebbe davvero troppo complicato spiegare tutto per filo e per segno”. E aveva ragione.
Proprio per questo aveva lasciato lo studio e si era trasferita nel loft di Shannon, consapevole che più Jared l’avrebbe vista più i suoi sensi di colpi sarebbe lievitati e il cantante non ci avrebbe più messo una pietra sopra. Perché lei con Jared non ci aveva più parlato, non ci riusciva. Era diventato sfuggevole e lei non poteva che dargli ragione. Insomma ora che non aveva più nulla da nascondere, era più facile scorgergli negli occhi l’infinita tristezza, per la delusione che Sophia gli aveva inferto, gli era diventato superfluo nascondersi.
Loro due non potevano stare nella stessa stanza, senza che Anthea si sentisse colpevole.
Non è colpa tua, le ripeteva in continuazione Shannon, ma invano. Era un’idea radicata, profonda, non poteva liberasene perché lei rappresentava il dolore di Jared che gli camminava accanto. Come poteva guardarla e non vedere il torto che Sophia gli aveva fatto?
Era un pensiero fisso per Anthea.
Spense il computer, notando l’ora.
Quella mattina si sarebbe dovuta presentare al college per consegnare un progetto che non poteva inviare per e-mail, dato che seguiva le lezione online. Altra precauzione, troppa gente, Echelon e non, quella storia era un po’ sulla bocca di tutti e le sue foto erano state facili da trovare nel suo profilo facebook, che aveva provveduto a cancellare poco dopo. Perciò non seguiva più le lezioni al college.
 In compenso però Los Angeles aveva iniziato a piacerle, non sapeva quando fosse avvenuto il cambiamento, semplicemente un giorno guardando fuori dalla finestra aveva sentito di conoscere quella città. Forse era dovuto alla personalità bipolare che ci aveva trovato, che rispecchiava il modo in cui si sentiva: divisa in due persone diverse, con tendenze differenti, pensieri contrastani e una dominava l’altra. Un po’ come quella città. Una città che offriva sogni, ma creava illusioni. Un viale di sogni infranti, dopotutto non era tanto diverso da un viale di delusioni, no?
E proprio come la fama di essere la città che realizzava i sogni, predominava su Los Angeles, allo stesso modo in Anthea era forte il desiderio, la necessità di conoscere Shannon, tutto il resto si dissolveva davanti a quella realtà: aveva bisogno di suo padre.
 
 
Alzò il cappuccio della felpa e si sedette sulla sabbia tirando fuori dalla borsa il blocco da disegno.
In quei momenti si sentiva un po’ come Monet mentre cercava di dipingere la cattedrale di Rouen attraverso i cambiamenti atmosferici. Inutile dirsi che aveva abbozzato al meno una decina di volte Venice Beach, senza mai riuscirci veramente. Si ricordava vagamente il disegno di sua madre, ma l’era rimasta impressa la gamma di colori che aveva usata: opachi, pastello, anche se l’aveva dipinta al tramonto, quando l’arancio e il rosa sono più forti che durante l’alba. Eppure era sicura si trattasse del tramonto, dato che in angolo un po’ nascosta tra le nuvole c’era la luna, quindi non si spiegava la tonalità dei colori.
Era frustrante non riuscirci, ma era l’unico momento in cui Anthea svuotava la testa, troppo concentrata a imprecare contro i colori che non si decidevano a diventare come lei voleva.
Unico momento in cui ritornava sé stessa.
Sobbalzò quando partì la suoneria del telefono, era Shannon.
«Ciao» Lo disse sistemandosi la matita dietro l’orecchio e chiudendo l’album.
«Che felicità, è andato male il progetto?» S’informò l’uomo, notando il tono cupo in cui la figlia aveva risposto.
Anthea scosse la testa, anche se il padre non la poteva vedere «No no, ho preso A» Lo rassicurò.
«A? Come mai? Quel quadro era da A più, più, più, più, più…» Cercò di farle tornarne il buon umore, gli piaceva quando vedeva Anthea tranquilla e serena, anche se era davvero raro farla sorridere o trovarla con un sorriso spontaneo sulle labbra.
«Non è vero, c’erano troppe sbavature, te lo avevo anche detto. Però non importa, mi basta averlo fatto» Le era stata assegnato il compito di disegnare qualcosa in prospettiva e che desse l’idea di profondità. Aveva deciso di disegnare un ripiano di libri…già, dalla serie: come complicarsi la vita. Ci aveva messo quasi un mese per disegnarlo. Tutte le volte che lo prendeva in mano si annoiava e abbandonava poco dopo oppure non aveva voglia, così alla fine si era presa due giorni per concluderlo, fregandosene se sarebbe venuto male, se la maggior parte delle linee erano sbavate, voleva finirlo e basta.
«Voi, a che punto siete?» Chiese per non far cadere la conversazione, come succedeva ogni tanto. Avrebbero avuto tanto, troppo di cui parlare, ma farlo per telefono non era conveniente per nessuno dei due.
Parlarne al telefono era come sminuire l’argomento.
«Noi beh… siamo a buon punto, la settimana prossima iniziamo a registrare un paio di brani…»
«Hai parlato dell’idea per Depuis le Debut?» Lo interruppe consapevole che non l’aveva fatto.
Shannon tacque a suo parere l’idea era abbastanza scontata.
«No, ma…»
«E dai! E’ un’idea splendida.» Lo incoraggiò Anthea, le piaceva sentirsi utile.
Shannon sospirò divertito «E secondo te posso presentare l’idea come l’ho descritta a te?» C’era del scetticismo nelle parole del batterista.
«Sì» Affermò decisa «In fondo di cosa parla la canzone? Del successo no? Di quello che c’è dopo, oltre il successo. E che cos’è più importante se non la famiglia? Connie in particolare che vi ha cresciuti, quella pezzo del lago dei cigni che vi faceva da ninna nanna, è un po’ il simbolo dell’innocenza. Il contrario perfetto di una vita di peccato, che incarna in sé la vita di un’artista. La beatitudine che tanti credono, quando invece c’è tanto di quel male.» Si stava rigirando una ciocca di capelli tra le mani con lo sguardo fisso sull’oceano.
Shannon l’aveva ascoltata attento. L’aveva spiegato meglio di quanto lui avesse fatto con lei e lo stupiva, perché significava che davvero ci credeva in quell’idea, che fosse un’ottima idea. Ecco, questo le piaceva di Anthea, la capacità di cogliere quello che le persone volevano dire, andare oltre leggere tra le righe.
Un po’ come Jared. Un po’ come Sophia.
Tuttavia il test di paternità aveva confermato che lui era suo padre e non poteva che andarne fiero.
«Sai che a Connie, piacerebbe essere chiamata nonna?» Sdrammatizzò, perché a Costance non interessava essere chiamata ‘nonna’ o ‘ Connie’, le bastava semplicemente che Anthea fosse contenta.
Lei sorrise, imbarazzata «Ci proverò…» Rispose come da copione «Non cambiare argomento però, glie lo proporrai?» Era sottointeso il destinatario.
«Ci proverò…» La scimmiottò «Sai che deve venire nonna sta sera, no?» Persino a lui faceva strano affibbiare a sua madre il ruolo di nonna.
Anthea spalancò gli occhi «Quando?»
«Tra dieci minuti, sono quasi le sette» Specificò il batterista «Le ho detto di venire a Venice Beach, ho fatto bene?»
Anthea trattenne un’imprecazione, ormai aveva fatto gli anticorpi a lato sarcastico del padre: prima ti faccio spaventare e poi ti tranquillizzo.
«Sì.» E tu? Si morse una guancia a quel pensiero. Non doveva interferire con il lavoro del padre, ma a volte le assenze erano davvero troppo lunghe ed era snervante chiamarsi solo al telefono quando si era nella stessa città, per quanto grande fosse.
«Io sta sera torno.»
«Davvero?» Si pentì del tono troppo contento con cui lo aveva chiesto.
Shannon sorrise «Sì e domani Jared ha dato giornata libera, quindi mi dovrai sopportare!»
Anthea avrebbe voluto mettersi a saltare come una bambina.
«Oddio…» Commentò con finto disgusto.
«Ti stai abituando troppo bene a non avere nessuno che impartisce un paio di regole.»
Anthea alzò un sopraciglio, curiosa «Tipo?»
«Tipo non andare a letto tardi…»
«…ma non devo andare a lezione la mattina» Lo interruppe.
Shannon sospirò «Appunto, dobbiamo parlare anche di questo» Snocciolò il batterista. L’aveva lasciata fare perché si sentisse più a suo agio, ma in certo senso a lui dava fastidio. Non sopportava l’idea che Anthea non potesse seguire le lezioni personalmente.
La ragazza chiuse gli occhi, consapevole che questa volta non l’avrebbe vinta facilmente. Shannon si sera rivelato un padre comprensivo, disposto a trovare un punto comune, ma per un po’, giusto per farci l’abitudine, poi ritornava a imporsi con insistenza, soprattutto per quanto riguardava il college. Quella non era la prima volta che dava al suo scontento.
«Va bene» Tagliò corto lei, a sorpresa del batterista «Non ti aspetterò sveglia, allora.»
«Brava. Adesso vado, ci vediamo mattina, ok? Divertiti sta sera.»
Anche Anthea lo salutò, lasciando poi cadere la chiamata.
 
****
 
Chiuse la porta, staccando la foto che c’era attaccata sul retro. Tuttavia, prima di guardarla la girò.
Ok, beh…mmm, sono finite le polaroid. Poi è finito anche lo zucchero (Connie ha fatto i brownies!),però è rimasto quello di canna. Ah sì, Connie ha anche trovato il tuo pacchetto di sigarette ‘di fortuna’ e non lo troverai nel cestino, se l’è portato a casa. Mi ha chiamato Amelia, mi ha raccontato che lei e Lyn stanno tentando di adottare una bambina. ‘ Amelia ti dice ciao’, voleva che ti salutassi =) Altro? Ah…ben tornato a casa, Anthea”.
Girò la foto, trovando sua madre mentre mescolava l’impasto per i brownies. Anche se aveva chiesto anche ad Anthea di comparire nelle foto, sapeva che non l’avrebbe mai fatto a meno che non ci fosse stato lui a scattarla. La ragazza detestava farsi fotografare, proprio come Sophia.
Però quello era uno stratagemma che aveva ideato in modo tale che Shannon sapesse cosa lei aveva fatto durate la sua assenza. Infatti sul mobiletto dell’entrata c’era un’altra piccola pila di foto.
Il batterista le prese in mano.
La prima aveva immortalato qualche bottiglia di detersivo, una scopa e le lenzuola ancora piegate.
Visto? Io ti servo a casa, sennò chi pulisce?
La seconda invece era con Vicky e questa volta c’era anche Anthea anche se girata di spalle.
“…ci sono anchio.”
La terza era la schermata del computer, su cui si poteva vedere il logo dell’Università.
Un esame la settimana prossima, su… boh, non me lo ricordo.”
La quarta e ultima, era sempre la stessa di tutte le volte. Erano un paio di scarpe di Anthea, vicino alle sue.
Io non voglio i tuoi piedi, mi vanno bene i miei da principessa.”
Tuttavia in quella foto c’era di più di quattro scarpe. Queste infatti era dentro la scarpiera, dove Anthea aveva sistemato il resto delle scarpe, come i vestiti che aveva trovato un po’ di posto nell’armadio di Shannon. Ormai si era insediata in quella casa, rendendola una vera casa. Viva, familiare, non era più solo un contenitore di cose ‘necessarie a vivere’, ma era un luogo in cui Shannon tornava volentieri.
Era casa di Shannon e Anthea, la piccola famiglia Leto.
Poggiò le foto sul mobiletto e si diresse in camera, dove sapeva di trovare Anthea.
Purtroppo a causa degli impegni, non aveva tempo sufficiente per far sistemare la camera vuota che non ci serviva a niente e renderla una seconda camera da letto per Anthea. Nonostante questo, dato che dormiva la maggior parte delle volte allo studio, aveva lasciato alla figlia la libertà di dormire sul suo letto.
Shannon, infatti la trovò avvolta come un bozzolo nelle coperte blu.
Un sorriso semplice gli increspò le labbra e si andò a cambiare.


NDA.
Buondì:)
Allora una cosa... questi sono i famosi studi di Monet su
la cattedrale di Rouen

Poi, quello che dice a proposito di Depuis le Debut e una mia bislacca teoria che mi è nata, perchè per me quella canzone è davvero un mistero, non riesco a capire se mi piace o no, e soprattuto che senso abbia in particolare la parte del lago dei cigni alla fine. Perchè mettere alla fine di una canzone(con quel titolo) la ninna nanna di quando si era piccoli? Ecco per questo motivo la mia testa ha partorito la spiegazione che da Anthea, quindi non dateci tanto peso:)

Altra cosa...
questo è l'ultimo capitolo.
Il prossimo sarà l'epilogo.
So, che forse rimaranno delle cose 'in sospeso' e vi chiedo scusa, ma purtroppo non ho più idee e forse si è visto in questi ultimi capitoli. Quindi meglio darci un taglio, prima di diventare ripetitivi.

Ah, nick cambiato una seconda volta, ma è quella definitiva.

Alla prossima,
Blume.  

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Capitolo 13
*** Epilogo. ***


 

 

Epilogo.

Dei passi.
Non erano di Shannon, i suoi erano più trascinati e pesati.
Non erano di Connie, lei si annunciava sempre con un “Anthea, dove sei?”.
Non erano di Craig, perché lui di certo non aveva le chiavi per entrate. Intinse il pennello nella tempera rossa, ripensando a quest’ultimo, appuntandosi che quella sera lo avrebbe dovuto chiamare per sentire com’era andata con July. Già, Craig era diventato il suo migliore amico, anche le aveva apertamente confessato che inizialmente aveva cercato di conoscerla perché l’aveva vista con Emma.
I passi si fermarono e la punta del pennello toccò la tela.
 
«Vorrei parlare con Jared…» L’aveva buttati lì una mattina a colazione.
Shannon l’aveva guardata per un istante e poi aveva risposto.
«No» Secco, deciso.
«E vuoi andare avanti così?» Non era offesa.
«Così?» Il batterista finse di non capire, quando sapeva che Anthea aveva la risposta.
«Ad essere combattuto.»
Il batterista sospirò, posando la tazza di caffè «Voglio bene ad entrambi…»
Lei scosse la testa «Ci stai proteggendo, troppo» Gli fece notare con un piccolo sorriso.
«E’ un male?» A volte non la capiva.
«Sì, perché così sei tu a non stare bene e… non lo voglio. Credo che nemmeno Jared lo voglia.»
Shannon si passò una mano tra i capelli, ormai lunghi «Finché vuoi due state bene…»
«Io non sto bene.»
«Anthea è mio fratello, più piccolo. Non posso costringerlo a parlare con te, non di Sophia, non con quello che tua madre ha fatto. Sarebbe girare il coltello in una piaga troppo grande.»
«Ma Jared, io, tu stiamo tutti e tre soffrendo… perché non possiamo essere uniti. E in parte è perché io e Jared non abbiamo ancora parlato. »
«Avrebbe troppe cose da dire, credimi, si farebbe del male da solo…»
«… ma se ne liberebbe.»
«Aspetta che sia lui, lo farà lo conosco, non lascia le cose in sospeso. Non forzare la situazione, per favore.»
 
Tre mesi c’aveva messo Jared a varcare quella porta.
Quei passi erano troppo incerti, leggeri, riservati per non essere i suoi. Anthea non aveva nemmeno sentito la serratura scattare, segno che nemmeno lui era sicuro di quello che stava facendo. Aveva forse sperato che lei non lo sentisse? Di poter dare un’occhiata senza essere notato?
Sì, ma non ci aveva creduto.
Sapeva di trovarla a casa, dato che Shannon ogni tanto diceva che se ne stava da sola troppo tempo, che forse sarebbe stata meglio a Londra. Tuttavia Jared non era della stessa opinione anche se non l’aveva mai esternata al fratello. Anthea stava bene così, inglobata nella sua realtà sconosciuta. Un bolla di colore, che preferiva condividere solo con sé stessa, come Sophia.
Quella non era solitudine, era creazione.
«My sweet rose di Waterhouse» Aveva annunciato la ragazza girandosi verso il cantante e indicando la foto attaccata al muro del salotto, da cui stava copiando il quadro.
«Preraffaelliti, giusto?» Ne era sicuro, ma intanto continuava a rimanere alla spalle di Anthea che era ritornata alla tela, cominciando a dedicarsi ai capelli rossicci della donna. Sentiva lo sguardo Jared sulla sua mano, gli occhi chiari che fissava attentamente i suoi movimenti l’agitavano. Tuttavia Jared spostò lo sguardo, avvicinandosi alla ragazza, in particolare alla cartellina appoggiata sullo schienale del divano.
L’aprì, trovandovi il disegno di un ananas, alcune foglie, una piccolo pezzo della trama di un cesto di vimini e un mucchietto di ciliegie. Molto probabilmente erano studi per una natura morta.
Appoggiò il disegno sul divano e passò a quello dopo, mentre Anthea chiuse gli occhi imbarazzata. Quelli erano i bozzetti di Venice Beach e… facevano semplicemente schifo. Erano più di una ventina e il paesaggio era solo delineato da semplici linee nere, alcuni punti li aveva iniziati a colorare con le matite, ma erano tutti rimasti incompiuti dato che non riusciva ad ottenere lo stesso effetto di sua madre.
Jared li sfogliò con attenzione. Era sempre Venice Beach, ma in ogni disegno c’era qualcosa di diverso.
Una persona in più, una in meno. Più riflessi sull’oceano, più nuvole in cielo.
Arrivò l’ultimo, ancora bianco perché Anthea c’aveva definitivamente rinunciato.
Il cantante si girò a guardarlo «Non c’hai nemmeno provato?» L’apostrofò, con dolcezza.
Anthea lo fissò sorpresa dal tono «C’ho rinunciato, ma…» Si bloccò, poteva dirlo?
Jared annuì con la testa. Prese la cartellina, girò attorno al divano per poi sedersi e aprire l’astuccio abbandonato sopra al tavolino del soggiorno. Estrasse il rosso, l’arancio, la gomma e il temperino, mentre Anthea l’osservava incuriosita mettendo il pennello nell’acqua e chiudendo i contenitori delle tempere.
Jared, intanto aveva colorato una porzione di cielo, ma non aveva amalgamato il rosso e l’arancio. Li aveva lasciati definiti, limitata in zone. Poi prese la gomma, la girò sul lato lungo e la passò sopra ai colori, indugiando con più forza sui bordi delle macchie, finché sparirono le linee di divisione e i colori non si attenuarono. Dopo questo prese il temperino e sistemò la punta del rosso fra le lame e iniziò girare, qual poco che bastava per ricavarne un po’ di polvere colorata, che poi distribuì sul disegno dove prima c’erano le macchie rosse. Fece lo stesso con l’arancio.
Quando il cielo fu ricoperto da mucchietti di polvere colorata, con due dita la schiacciò e poi iniziò a muovere la mano, in modo tale che le polveri colorate aderisse al foglio.
Anthea osservava stupefatta, perché il risultato era identico a quello di sua madre. L’opacità, il tono tenue, quasi pastello.
«Era una tecnica di Sophia, una delle tante…» Esordì il cantante, con i polpastrelli della mano destra ancora sporchi di colore, porgendole il disegno. Sophia quel metodo l’aveva usato una sola volta, per quel particolare disegno, ma non lo aveva ripetuto una seconda volta: troppo tempo per un risultato banale. Jared era d’accordo con la questione del tempo, ma che fosse banale no. Con quella tecnica era riuscita a togliere al rosso e all’arancio la tonalità prepotente che li caratterizzava, ma ne aveva lasciato il calore del colore.
Come aveva fatto con lui. Gli aveva tolto il fiato, l’animo, ma gli aveva concesso di respirare, di vivere.
Ecco perché non aveva mai dimenticato quella tecnica.
Quel modo di disegnare era Sophia. Toglieva tutto quello che poteva, puliva i colori delle loro peculiarità, ma poi riusciva a pretendere che queste ritornassero, ma nel modo in cui voleva lei.
Anthea aveva lasciato perdere il disegno e gli si era seduta accanto, guardandolo pensare.
«Non mi ha mai insegnato le sue tecniche» Intervenne, destando il cantante dai ricordi.
Lui le sorrise, ma tacque. Voleva davvero parlare di come dipingeva Sophia?
No, non aveva voglia di parlare. Allora perché era lì?
Alzò gli occhi su quelli della ragazza. Uguali a quelli di Sophia.
Shannon era orgoglioso di lei e non gli servivano parole per dimostrarlo, bastava semplicemente guardarlo.
Oh, se era cambiato. Però non era quei cambiamenti assurdi, dal bianco al nero. Erano meno sensibili, più impalpabili, qualcosa di leggero, ma concreto. Dei segni che la sua vita si era trasformata perché era diventato padre. Erano emersi quei lati del carattere che Jared già conosceva di suo fratello: l’essere protettivo, la maturità, la serietà… elementi che di solito non metteva in mostra sempre, ma quando era giusto usarli.
Ora invece spuntavano con più regolarità, anche nella musica. Era diventato più puntiglioso, ma aveva anche una visione più ampia di quello che si poteva fare.
«Hai mantenuto la promessa» Jared la fissò perplesso « io ti salverò in ogni caso» Rievocò le parole del cantante «Lo hai fatto per davvero. Mi hai tolta dalla solitudine in cui credevo di essere e mi hai ridato una famiglia, mi ha permesso di essere figlia un’altra volta, in modo di diverso, in una realtà differente» Gli occhi immersi in quelli celesti del cantante «Grazie Jared, da parte mia e se lo vuoi, anche di mamma.»
Lui spostò lo sguardo.
«Non ne vorrò mai parlare, lo sai?» Lo sguardo fissò sulle mani.
Anthea guardò la tela «Non credo, altrimenti non saresti qui. Che ci saresti venuto a fare sennò?» Qualcosa le diceva che in quel momento nessuno dei due si sarebbe interessato del tono di voce dell’altro.
Dovevano parlare, comunicare in qualche modo.
«Per mio fratello.»
Lei sbuffò «No.»
Jared la fissò curioso «No? Come fai a dirlo?»
Lei ricambiò lo sguardo «Non lo so, ma nemmeno io volevo parlarti solo per papà…» Jared ebbe un sussulto a quella parola.
«Dovevo essere io» Borbottò a denti stretti, ma Anthea era abbastanza vicina da sentirlo.
«Sei mio zio…» Cercò di consolarlo.
Lui scosse la testa, cosa aveva detto? Perché lo aveva detto?
«C’è una sottile differenza» Le fece notare «Sei una parte di mio fratello e di Sophia, io non sono niente in tutto questo. Non ho nessuno compito» Era frustrante, distruttivo.
Anthea sospirò, la stava guardando dal lato sbagliato.
«Non è vero, non in questo caso. Cos’ho io Jared adesso, qui a Los Angeles? Connie, Shan… ma ho anche te. Tutti e tre, perché voi siete così uniti, una piccola famiglia, con un membro in più adesso. Shannon è mio padre, questo è vero, ma… non credi che anche un zio, posso avere la sua importanza. Che tu possa essere importante?»
Il cantante scosse la testa «Forse, ma… è difficile starti vicino.»
Anthea si morse un labbro «Lo è anche per me» Confesso, guadagnandosi la curiosità del cantante «I giorni che sono rimasta alla studio dopo aver scoperto che Shannon era mio padre, non volevo starti vicino. Non ci riuscivo, troppi sensi di colpa. Lo so che guardandomi tu rivedi Sophia, ne sono consapevole, come so di essere il dolore che provi per il torto subito, l’egoismo di mia madre, la sua cattiveria. L’odio che probabilmente le stai riservando. Sono la personificazione di tutto questo e non puoi immaginare quanto mi dispiaccia saperlo» Aveva stretto le mani a pugno, cercando di mantenere un tono udibile, mentre sentiva la rabbia ammontare in quelle parole.
Era un consapevolezza bruttissima, e realizzarla voce era stato anche peggio.
Jared la guardò sorpreso.
Allungò una mano su quella della ragazza e la trasse a sé, lasciando che adagiasse sul suo petto. L’abbracciò.
No, Anthea non era quello. Anthea non era Sophia.
«Non dire mai più cose simili» La rimproverò, mentre la sentiva sospirare «Non sei così. Non pensavo di averti indotta a pensare cose del genere.»
Lei si lasciò cullare in quell’abbraccio goffo e da quelle parole, rimasero così dei lunghi minuti, in attesa di trovare la tranquillità di elaborale le ultime parole di rendersi conto che, forse, da quel momento avrebbero potuto esserci l’uno per l’altra.
Fu Anthea a sciogliere l’abbraccio.
«Parlami di Sophia» Gli chiese ritornando a sedersi davanti a lui.
Shannon lo aveva fatto e lo faceva in continuazione, sembrava venirgli spontaneo parlare di lei, paragonarla alla figlia, ai modi di fare di Anthea. Era come se in lui si fossero risvegliati i ricordi e non li volesse più perdere, ma renderli ancora più preziosi dando loro forma con le parole.
Per Jared quella era una cosa impossibile, troppo personale.
Aveva lasciato la semplicità dell’amore in quei ricordi.
L’ingenuità di un bacio.
La superficiale bellezza di uno sguardo.
Un sorriso.
Una lacrima.
Un’illusione.
«Ti ho detto che non lo farò» Le ricordò alzandosi dal divano, sereno, guardando Anthea.
Sophia, nella sua testa, lo stava salutando allontanandosi, perdendosi, annullandosi completamente e lasciando i suoi pensieri.
Aveva Anthea, era un frammento della donna che aveva amato, e lui doveva prendersene cura, con suo fratello, con sua madre, renderla parte di quel nucleo in cui lui stesso riponeva tutta la sua forza, anche lei doveva imparare ad essere una Leto.
Riguardò la tela con la dama dai capelli rossi. Era già un buon inizio.
 
Ci sono dei punti da mettere di qua di là nella vita, ma non è così difficile allungarli in virgole o prendere una pedana, alzarli e poggiarci sotto una virgola. Un punto e virgola è pure sempre un segno forte, anche se non sarà mai perentorio come un punto. Un punto e virgola e dolce, un mezzo sorriso con quel rivolo nero.
E’ come se dicessimo…è finito, ma continua, c’è un novità. La prima parte non mi è piaciuta, ma dare una seconda possibilità non mi costa così tanto. Non voglio chiudere definitivamente la storia.”
 
 

Shannon e Sophia. Jared punto e virgola Jared, Anthea e Shannon.




 

NDA:
E' stato brutissimo spuntare la casellina Completa? ç__ç
Ok, non voglio fare la melodrammatica...ma insomma è normale essere melodrammatici in questo momento no? E' finita.
Prima di ringraziarvi però un paio di cose che credo vi farà piacere vedere:
1. "My sweet rose di Waterhouse (qui) e un quadro che io personalmente adoro e appunto appartiene al movimento/fratellanza dei preraffaeliti (wikipedia per chi ne volesse sapere di più).
2. Torna Craig, ora non ho dato una particolare descrizione di costui ma... se ve lo volete immaginare ecco a voi! Craig. Vi sta un pò più simpatico? xD 
3. La storia del disegno di Venice Beach e la tecnica descritta....sono una mia pura invenzione (mai provata oltrettuto) quindi non prendetela per vera, non so neanche come mi sia venuta D: 

Ok, iniziamo...
Vi ringrazio chi ha recensito la storia facendomi sorridere tutte le volte a leggere quello che vi aspettavate, cosa vi è piaciuto, cosa avreste voluto scoprire di più....GRAZIE! GRAZIE! GRAZIE!
Chi ha avuto il coraggio di metterla la storia tra i preferiti.
Chi l'ha seguita, chi l'ha letta, chi l'ha ricordata....Grazie a tutti!
Questa storia è stata un esperimento, la prima che scrivevo sui Mars e mi sono andata a ingarbugliare su un argomento del genere. Beh, mi piace complicarmi la vita u.u 
So che per qualcuno sarà rimasto in sospeso qualcosa, me ne rendo conto....ma chissà che Anthea non torni:)

Mmmm....è proprio ora di andare?
Ok.
Un bacio, un abbraccio, un saluto...
Blume.






 

MA HEY! GUARDATE QUA....

Notti di Febbraio.
Si tratta sempre di tempo. Tempismo, pardon.



Lo so che la vostra faccia adesso è così  Ahahahaha xD 
Non vi liberate di me tanto facilmente!


 

 

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Capitolo 14
*** Go find yourself ***


And the story goes on...



"Le costava ammetterlo, ma essere la figlia di Shannon Leto si era dimostrato difficile, anche dopo aver abbandonato il college ed essersi rifiutata di stringere qualsiasi amicizia, passando così la maggior parte del tempo a casa o in spiaggia. Le mancava l’anonimato o il semplice riuscire a chiacchierare con una persona senza aver il timore di ritrovarsi la conversazione su qualche giornale di gossip".



Go find yourself

 

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