Over The Mu

di A li
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Rebirth (Rinascita) ***
Capitolo 3: *** Life and Memories (Vita e Memorie) ***
Capitolo 4: *** Possibilities (Possibilità) ***
Capitolo 5: *** Return (Ritorno) ***
Capitolo 6: *** To Know The Truth (Sapere la verità) ***
Capitolo 7: *** Who I Am (Quello Che Sono) ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Over The Mu

Over The Mu

- Oltre Il Nulla -

 

Prima o poi, tutti gli esseri umani muoiono.

Dopo la morte, non vi è nulla.

 

 

Prologo

 

Sento la testa scoppiarmi.

Non riesco a capire nulla, vedo tutto nero.

Non sono più sulla terra, forse?

Sto morendo?

Perché? Non voglio, non voglio morire.

Per favore, lasciatemi stare. Non sono ancora pronto per andarmene. Ho solo ventitré anni, sono giovane.

Vi prego, Kira… Kira non può scomparire… Per il bene dell’umanità, vi prego lasciatemi vivere… Costruirò un mondo migliore, per tutti. I deboli non saranno più oppressi, la giustizia trionferà.

Un dolore opprimente alla cassa toracica mi schiaccia, ma per quanto io cerchi di aprire gli occhi, quello che mi trovo davanti non è altro che il buio totale.

E freddo. Fa tanto freddo.

La paura s’impossessa di ogni mia piccola parte.

Non voglio scomparire. Per favore, non voglio.

Io…!

Il buio mi avvolge, mi graffia. Sento il mio corpo ribellarsi a me. Sento che vuole finirla, che desidera andarsene. Il buio lo accontenta, lo stritola in una morsa eterna.

Eterna.

Come l’oscurità che mi circonda. Sarà quello che vedrò per l’eternità.

No! Non voglio morire!

Io… Io…!

Io voglio vivere!

 

Fine Prologo

 

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Capitolo 2
*** Rebirth (Rinascita) ***


Over The Mu

Over The Mu

- Oltre Il Nulla -

 

Prima o poi, tutti gli esseri umani muoiono.

Dopo la morte, non vi è nulla.

 

I. Rebirth (Rinascita)

 

La prima cosa che vidi fu una luce strana, pallida.

Non riuscii a capire dove mi trovassi. Non ricordavo neanche il mio nome.

Vedevo tutto sfocato. Ma intorno a me potevo identificare delle pareti color pesca e dei quadri che immortalavano paesaggi costieri e orizzonti azzurri. Di fronte a tutto quel colore, a quella luce, per qualche strano motivo mi sentii bene.

Cercai di aprire di più gli occhi, per mettere a fuoco meglio gli oggetti. Ma lo sforzo mi generò una fitta acuta alla fronte. Lanciai un gemito roco, soffocato.

- Oh! Sei sveglio? -

Socchiudendo le palpebre, guardai al di là dei miei piedi avvolti nelle coperte, una figura accovacciata al fondo del letto.

Era un ragazzino che doveva avere pressoché quindici anni. Era magro, spigoloso in un certo senso, con i capelli neri corti e spettinati, composti da una frangetta che gli ricadeva sugli occhi grandi.

Neri.

Quel nero mi mise i brividi, come se potesse ingoiarmi da un momento all’altro.

Il ragazzino fraintese la mia reazione.

- Hai freddo? – mi chiese.

Il suo tono era innocente, aveva una purezza anomala per la sua età. Mi squadrò interrogativo e mi affrettai a scuotere la testa.

- Ah… - sussurrò.

Restò a fissarmi dalla sua postura strana ai miei piedi, con le ginocchia davanti a sé, allacciate dalle braccia. Nei suoi occhi potevo vedere una luce particolare, una scintilla d’intelligenza che non avrei mai potuto ignorare.

Fu un attimo intenso di armonia; una specie di parentesi nel tempo e nello spazio, che il futuro non avrebbe contemplato.

- Chi sei? – domandai, alla fine.

Lui sorrise, muovendo appena le labbra.

- Mihael Kheel. – rispose – Ma mi chiamano anche Mike. -

Rimase un secondo soprappensiero. – E tu? –

La domanda mi sorprese. Un po’ perché l’espressione del suo viso sembrava lasciar intendere che già sapesse tutto, un po’ perché non sapevo che rispondere.

- Io… - bisbigliai – Non lo so. -

Spalancò gli occhi e la cosa mi mise in agitazione. Non pensavo che qualcosa avrebbe potuto sorprendere quel ragazzino. M’immobilizzai mentre lui tornava a sfoggiare la solita espressione neutra.

- Non lo sai, eh? -

Sembrò riflettere sulle parole da scegliere.

- Non sai nemmeno la tua età? – domandò.

Negai. Non ricordavo proprio nulla.

- Beh… - enunciò – Guardandoti potrei dire che hai dieci anni, circa. – 

Non sapevo cosa rispondere. Continuai a fissarlo, sperando che mi desse altre risposte e mi permettesse di conoscere meglio me stesso.

Ma, quando stava per parlare, la porta si aprì.

Ne venne fuori una donna sulla trentina, dallo sguardo dolce color miele e le labbra carnose su un viso dai lineamenti morbidi. Aveva un fisico bilanciato e mani sottili.

- Mike! – esclamò – Dovevi dirmi che si era svegliato! –

Il ragazzino si alzò dal letto e si piazzò di fianco a me, in piedi.

- Scusa, Deborah. – rispose – Ha appena aperto gli occhi. -

La donna mi venne incontro, con un sorriso equilibrato sul viso, come se avesse paura di spaventarmi. Si sedette all’altezza dei miei fianchi, e sfiorò le coperte nel punto in cui c’era la mia mano.

- Allora, come ti senti, Nate? -

La fissai confuso, aggrottando le sopracciglia.

- Nate? – sussurrai appena.

- Sì – mormorò, accompagnando le parole con un movimento del capo – E’ il tuo nome. Non te ne ricordi? -

Scossi la testa, come avevo fatto prima con Mihael.

- Oh… - sospirò – Forse hai perso la memoria nella caduta. -

La mia espressione non mutò. Ma rimasi in silenzio, perché le domande erano troppe. Continuai a guardare la donna che stava seduta accanto a me, sperando che mi raccontasse ancora qualcosa.

Sembrò capire, perché si alzò, prese una sedia appoggiata al muro in fondo alla stanza e la posizionò vicino al letto, sedendoci sopra.

- Vuoi che ti dica quello che so di te? – chiese, educata. – Forse in questo modo potresti ricordare… -

Annuii. La voce ancora faticava ad uscire ed era roca e spenta.

La donna prese un respiro e si preparò ad iniziare. Con la coda dell’occhio vidi Mihael, dalla parte opposta del letto, attendere, evidentemente interessato alla storia di cui io non conoscevo nulla.

- Non so partire dall’inizio della tua vita, se devo dirti la verità. – cominciò la donna – Ma posso iniziare dai tuoi primi mesi di vita.

Innanzitutto il villaggio in cui abitiamo è Loch. Siamo in alta Scozia, vicino ad uno dei laghi minori da cui questo antico villaggio ha preso il nome. Sai dov’è la Scozia? –

Riflettei un momento e, incredibilmente, riuscii a ricordare la geografia del mondo, sommariamente. Annuii, sorridendo.

La donna rispose al sorriso e procedette col racconto.

- Vicino a questo villaggio c’è un orfanotrofio, in cui vengono abbandonati ogni anno decine di bambini. Sono bambini con anomalie fisiche o psichiche, con cui i genitori non possono o non vogliono avere a che fare. Questi bambini crescono grazie all’aiuto dei tutori, ma ad un certo punto della loro giovinezza, che può andare dai dieci ai quindici anni, essi scompaiono.

Non si sa perché e spesso non vengono più trovati, ma succede a tutti. Prima o poi, spariscono e non lasciano più traccia. –

S’interruppe un momento, soppesando la mia espressione. Ma io ero immobile e la fissavo curioso.

- Tu sei stato abbandonato all’età di sei mesi. Ti lasciarono sulla porta dell’orfanotrofio in un giorno di novembre di dieci anni fa. Sulla cesta in cui eri stato messo, c’era un piccolo foglio. Vi erano scritte poche parole: Nate River – 6 mesi – soffre di attacchi di disperazione improvvisi, in cui piange come un adulto e chiede perdono – aiutatelo.

L’orfanotrofio ti prese. In effetti soffrivi di questi attacchi, ma riuscirono a calmarti pian piano e a farti guarire. A tre anni non eri più malato.

Sei vissuto all’orfanotrofio fino a poche settimane fa. Hai compiuto dieci anni il mese scorso. Una settimana fa i responsabili dell’orfanotrofio hanno organizzato una passeggiata fino a questo villaggio. Si tratta di un percorso un po’ pericoloso, con sentieri che si inerpicano per i dirupi che proteggono il villaggio. Mentre attraversavate il passaggio più difficile, a bordo di una scarpata che da sul lago, tu hai avuto una specie di mancamento. –

S’interruppe ancora e mi lanciò un’occhiata. Il suo viso dolce era attraversato dalla tristezza e dal timore. Io la fissavo calmo: anche sforzandomi, non riuscivo a ricordare nulla. Lei sembrò rasserenarsi un poco.

- La tua tutrice – riprese – ti ha visto spalancare gli occhi e aprire le braccia. Hai sussurrato qualcosa, poi sei caduto. Non sono riusciti ad afferrarti e sei precipitato nel lago.

Ti hanno cercato per un giorno intero, senza trovarti. Lo stesso giorno, sei apparso alla porta di casa mia, fradicio e congelato, svenuto.

Ti ho preso e ti ho messo nell’unico letto ancora disponibile. Ho cercato in giro informazioni e le ho trovate dalla tua tutrice che, con i bambini, era appena giunta al villaggio. Ha capito subito che il ragazzino eri tu. E’ venuta a trovarti ieri, ma mi ha dato il permesso di tenerti qui. Hai dormito per una settimana. –

Tacque.

Continuai a guardare verso di lei per un momento, sorpassandola con gli occhi, puntando ad un momento indefinito di una settimana addietro, che non riuscivo minimamente a ricordare.

- Non mi ricordo. – mormorai.

Lei sospirò, ma sorrise.

- Non fa niente, Nate. Ora non interessa. Quello che conta è che tu sia vivo. L’unica cosa che devo chiederti è se desideri rimanere con noi. -

Indicò Mihael, che si appoggiava distrattamente al letto, dalla parte opposta, guadandomi interessato. Pensai alla vita che avrei potuto fare con loro, ma non riuscii ad inquadrarla: non sapevo assolutamente cosa volesse dire vivere.

Ma era l’unica possibilità che avessi: non volevo tornare all’orfanotrofio.

- Sì. -

La donna sorrise.

- Sono felice. - disse, e sembrava sincera – Io sono Deborah. E lui è Mihael. -

Sorrise ancora e si alzò dal letto. – Ora risposa… -

Fece segno a Mihael di seguirla, poi uscì insieme a lui dalla stanza.

Prima che se ne andasse, sussurrò ancora: - Benvenuto, Nate. – e chiuse la porta.

Rimasi solo a guardare il soffitto, che finalmente distinguevo bene. Il color pesca mi instaurava un senso di pace che mi rilassava. Chiusi gli occhi e cercai, per l’ennesima volta, di riportare alla mente un qualunque ricordo.

Buio. Era solo buio e nero il mio passato.

Quella parola, così come era stato per il colore degli occhi di Mihael, mi mandò nel panico. Improvvisamente, l’oscurità accogliente che potevo scorgere dietro le palpebre, mi apparve opprimente e ostile.

Spalancai gli occhi e assaporai la luce del sole che entrava dalla finestra alla mia sinistra.

Tutta quella luminosità, per un motivo a me sconosciuto, mi riportò alla mente il viso di Mihael, neutro, placido come la bonaccia. Un viso per qualche ragione innocente, ma allo stesso tempo dall’intelligenza palpabile. Mi ritrovai ad osservarlo, a perdermi in quegli occhi di un nero incredibile.

Non so quanto tempo passò, ma poi la porta si aprì.

Era quasi calato il buio e la luce morente illuminò stanca il volto che io stavo attentamente osservando nei miei pensieri.

- Nate? – mormorò – Sei sveglio? -

- Sì. – replicai, con la mia voce spenta, malata.

Entrò nella stanza lentamente, senza fare alcun rumore. Prese la sedia che era tornata al fondo della stanza e la mise davanti alla finestra. Ci si sedette sopra, in quella sua strana posizione, con le ginocchia davanti a lui, quasi come una barriera.

Rimase in silenzio a contemplare i raggi caldi del sole. Quelli, indifferenti, disegnavano delle ferite immaginarie sul suo volto pallido, con strisce di luce che andavano dagli occhi ai capelli, in orizzontale.

Non parlò. Non disse nulla.

Alla fine la luce sparì e le ferite sul suo viso si rimarginarono.

- Sei come me? – chiesi, senza capire perché avessi fatto quella domanda.

Non si girò a guardarmi. Passarono alcuni secondi prima che mi rispondesse.

- Sì. – mormorò.

Non capii a cosa si riferisse. Le parole mi scivolarono addosso: forse non voleva dirmi nulla.

Eppure continuò.

- Di notte… - bisbigliò, tanto che dovetti tendere le orecchie per sentire, - …il buio mi fa paura. -

Quelle parole mi sorpresero. Possibile che capisse cosa provavo io a chiudere gli occhi?

Finalmente, si voltò verso di me.

- Ma non è dell’oscurità che ho paura… -

Lo fissai senza capire, questa volta. Forse mi ero sbagliato a pensare che provasse le mie sensazioni.

- Io ho paura della morte. -

Lo disse così, pacatamente. Ma percepii comunque il suo turbamento.

Dentro di me, compresi la verità.

Era esattamente ciò che provavo io.

 

Fine I

 

Commentate, mi raccomando! ^_^

Sperando che vi sia piaciuta…

A fra poco!

 

Aki

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 3
*** Life and Memories (Vita e Memorie) ***


Over The Mu

Grazie MILLE a:

Matta_Mattuz (per la splendida e immediata recensione, cinque minuti dopo che avevo postato)

BlackMoclips

SakuraSsj

cicoria

che hanno commentato! XD

E a:

Matta_Mattuz

BlackMoclips

ila_sabaku

che hanno messo questo mio parto nei loro preferiti! XD

 

Ed eccomi di nuovo qui, con questo secondo capitolo.

In questo passaggio mi sono dedicata anima e corpo al mio figlio preferito, Mihael, caratterizzandolo e donandogli quanto più potessi l’anima del mio adorato Elle.

Fatemi sapere se vi è piaciuto e cosa invece magari non torna!

Buona lettura…

 

Over The Mu

- Oltre Il Nulla -

 

Prima o poi, tutti gli esseri umani muoiono.

Dopo la morte, non vi è nulla.

 

II. Life and Memories (Vita e Memorie) 

 

Per tutta la sera, ripensai alle parole di Mihael.

Paura della morte. Dopo una breve riflessione, avevo capito che era esattamente quello che provavo anch’io. Non era solo paura del buio. Era il terrore di rimanere intrappolato nelle tenebre per l’eternità, essere avvolti dall’oscurità e rimanervi per sempre.

Mi chiesi perché soffrissi di una paura del genere. Non era normale per un bambino di dieci anni avere paura di morire.

Forse nel passato che non ricordavo ero stato un ragazzino inquieto e sensibile, che si poneva domande troppo grosse per avere una risposta soddisfacente e completa.

Scacciai dalla mente quei pensieri, ma non ci riuscii del tutto.

Quando mi addormentai, era passato molto tempo.

Mi svegliai alle prime luci dell’alba. Aprii gli occhi con il viso scaldato dai raggi del sole, che invadevano anche i miei sogni, popolati da precipizi, laghi, montagne e ragazzini coi capelli neri.

Spostai l’attenzione sulla sedia nella stanza e notai che era ancora davanti alla finestra. Sopra era seduto Mihael, lo sguardo lontano e i capelli ancora davanti agli occhi scuri. Immobile, totalmente, sembrava un uomo sorpreso e pietrificato dal sole nascente.

Cercai di non fare rumore mentre sbadigliavo contro la mia volontà e restai a fissarlo, incantato dalla sua figura sottile.

Ma mi sentì e si girò di scatto verso di me, interrompendo la quiete silenziosa dell’alba.

- Nate… - sussurrò.

- Ciao, Mihael. – risposi, con la voce roca e impastata dal sonno.

Mi stirai, ormai libero di muovermi e cercai di tirarmi in piedi. Non fu un’impresa facile: sembrava che il lungo tempo di immobilità avesse danneggiato i miei muscoli.

Mugolai sottovoce per lo sforzo che dovevo fare. Ma alla fine riuscii a mettermi seduto con la schiena appoggiata al muro dietro di me. Sospirai rilassato, poi tornai a guardare Mihael, che aveva osservato tranquillamente i miei movimenti. Ora era sceso dalla sedia e in piedi sembrava molto alto: il giorno prima non lo avevo notato.

- Riesci ad alzarti? – mi chiese.

La sua voce atona mi infastidì: mi sentivo trattato come un estraneo. E anche se non avevo motivo di sentirmi uno di famiglia, la cosa non mi piacque molto.

- Spero di sì… - risposi, con una smorfia.

Senza preavviso, mi si avvicinò e mi prese con un braccio dietro la schiena, tentando di sollevarmi. Ci riuscì e, quasi senza difficoltà, sfruttando anche un po’ della mia energia, dopo un attimo ero in piedi di fianco al letto.

Mihael continuava a sorreggermi, come se potessi cadere da un momento all’altro. E, considerando la mia forza, non potevo essere certo di affermare il contrario.

Parve leggere i miei pensieri, perché mi fissò un attimo in più del solito.

- Ce la fai a stare in piedi da solo? – chiese, testando un’altra volta le mie capacità.

Mi morsi un labbro e poi cercai di staccarmi da lui. Incredibilmente le mie gambe non cedettero sotto il mio peso e riuscii a fare qualche passo senza bisogno dell’aiuto del ragazzino.

- Bene. – fu il suo commento – Ora vieni, ti ho preparato la colazione. -

- Oh… -

Mi aprì la porta, lasciandomi passare per primo, forse per controllare che non cadessi. Mi seguì subito e mi guidò attraverso il corridoio in cui eravamo, fino alla cucina. Le pareti continuavano a sfoggiare vanitose il loro color pesca, ma i quadri cambiavano: a volte erano campagne verdeggianti, altre fiordi immensi che svettavano verso il cielo in ipotetica ricerca di salvezza.

La cucina era piccola, ma calda e accogliente. Al centro vi era un tavolo coperto da una tovaglia di stoffa a fiori, verde e gialla. La osservai un secondo e mi sentii strano, senza sapere perché.

Sulla tavola erano poggiate una tazza bianca e un cucchiaio di metallo; di fronte una scatola di cereali.

- E’ per me? -

Mi pentii subito della domanda. Doveva sembrare davvero stupida.

Ma Mihael non fece commenti, né con lo sguardo, né con le parole.

- Sì. – rispose semplicemente.

Mi sedetti al tavolo e lui mi versò nella tazza del latte appena scaldato. Poi si accomodò sulla sedia di fronte alla mia, dall’altra parte del tavolo e restò a guardarmi. Cominciai subito a mangiare, anche se il suo sguardo mi metteva a disagio.

- Quindi non ricordi nulla… - iniziò, mentre addentavo un biscotto.

Deglutii e scossi la testa.

- Dov’è Deborah? – domandai all’improvviso.

Lui mi fissò un secondo e una volta ancora pensai che stava soppesando la sua risposta rispetto alle mie intenzioni.

- E’ andata al lavoro. Siamo da soli. -

- Dove lavora? -

La mia curiosità andava ben oltre le sue aspettative, probabilmente, ma la sua espressione non mutò di una virgola. Continuò a sfoggiare il suo equilibrio e la sua calma, senza scomporsi.

- Lavora in un negozio poco distante da qua. Fa la commessa. Se vuoi possiamo andarci all’ora di pranzo, mentre fa un po’ di pausa. -

Annuii distrattamente. All’improvviso avevo davvero voglia di sapere qualcosa in più su di lui. Non sapevo perché mi interessasse così tanto la sua vita, ma c’era qualcosa che mi diceva che quel ragazzino somigliava molto a me.

- Mihael… - cominciai, studiando le sue espressioni – Tu sei figlio di Deborah? -

La domanda forse stupì anche lui, ma di certo non lo diede a vedere. Ci fu un attimo di silenzio, mentre mi guardava pacato.

- No. – rispose – Lei mi ha trovato, esattamente come te. -

Senza che avessi bisogno di fargli altre domande, si mise a raccontare. Forse aveva capito che volevo conoscere un po’ il suo passato, o molto più probabilmente gli andava semplicemente di raccontarmelo.

- Mi trovarono davanti all’orfanotrofio all’età di tre anni. Il motivo per cui mi avevano lasciato è che la mia intelligenza era troppo sviluppata per la mia età. Mi presero senza pensarci. Non mi servì andare a scuola, né avere lezioni private: tutti si stupirono di come io sapessi già fare tutto. Conoscevo persino la storia: quando gli insegnanti cominciavano a spiegarmi un argomento, la mia memoria si accendeva e lo completavo io stesso, pur senza aver mai aperto un libro.

Non mi sono mai chiesto il perché. E’ una cosa irrazionale che io conosca delle cosa senza averne mai sentito parlare. Ma non mi importa.

A dieci anni, era il 2004, un giorno, all’ora di pranzo, non mi presentai in mensa. Al contrario di te, però, mi ricordo cosa successe: è il mio unico ricordo di prima dei miei dieci anni.

Ero in camera mia e stavo bevendo qualcosa con un cucchiaino, di questo sono sicuro. Forse del tè. Ad un tratto ho sentito un male insopportabile al petto, come se mi stesse scoppiando. Mi sono messo a tremare e sono caduto a terra.

Poi, non so come, ho aperto gli occhi davanti a questa casa. Ho bussato e Deborah mi ha aperto, facendomi entrare. Non ricordavo nulla del mio passato, se non quell’atroce dolore al petto, che non ho mai scordato.

Deborah mi ha adottato, dopo aver scoperto chi ero. Mi ha preso con sé nonostante non avessi più memoria. Le devo molto. –

Tacque come aveva fatto la donna il giorno prima.

Non tentai di chiedergli altro, forse non voleva condividere con me i cinque anni passati con Deborah in questa casa.

- Anche tu non ricordi nulla del tuo passato? – chiesi, distratto.

- Esatto. -

Avevo finito la colazione, perciò mi alzai e posai le stoviglie e la tazza nel lavandino. Mentre le sciacquavo ripensavo al racconto di Mihael e all’accenno alla sua straordinaria intelligenza.

- Usciamo? -

Quella voce interruppe i miei pensieri e mi costrinse a smettere di sprecare acqua rilavando per l’ennesima volta la stessa tazza. Misi tutto a posto velocemente, poi annuii in direzione di Mihael  e lo seguii mentre varcava la porta.

Passammo per l’ingresso, dove era posizionato un grande specchio dalla cornice in legno. Mentre lo sorpassavo, diedi un’occhiata alla mia figura: ero un bambino relativamente alto per la mia età, i capelli castano chiaro e gli occhi di un’indefinibile sfumatura scura. Osservai i miei tratti gentili per un momento, cercando di immaginare se fossi attraente oppure no, ma non ne avevo la minima idea.

Mi affrettai a seguire Mihael fuori di casa e ci ritrovammo subito in un vialetto acciottolato, che serpeggiava in salita tra due file di casette alte e colorate.

Il panorama cambiò arrivati in cima alla stradina: di fronte, in discesa, si apriva una piazza anonima e, oltre, una distesa di un incredibile verde brillante, che si gettava dritta in un lago scuro, dalla superficie piatta. Il sole lo sfiorava premuroso come un padre che veglia da lontano sul proprio figlio.

Dall’altra parte della piccola piazza, Mihael si fermò di fronte ad un negozio di alimentari abbastanza frequentato, che era probabilmente l’unico della sua specie nel villaggio. S’intrufolò svelto all’interno e si diresse deciso verso la cassa.

Dietro il bancone stava Deborah, che prendeva il resto da un’anziana signora.

- Oh, Mike! – esclamò, sorridendo. – Nate! – aggiunse, quando mi vide.

- Ciao, Deborah. – la salutammo entrambi, con un leggero senso di distacco che lei sembrò non notare, o forse ignorò deliberatamente.

Mentre preparava la borsa per un uomo di mezz’età, ci rivolse la sua attenzione.

- Allora, come mai siete venuti? -

Mihael rispose per entrambi. – Volevo far vedere a Nate il villaggio. –

- Hai fatto bene… -

Poi fu assorbita da una cliente che non trovava quello che stava cercando e non poté proseguire. Quando si liberò fu solo per dirci che non poteva proprio stare qui a parlare con noi.

- Non importa – sussurrò Mihael, tranquillo, - Tanto veniamo a mezzogiorno. -

Lei sorrise e si allontanò.

Mihael mi fece strada tra la gente nel negozio, per raggiungere l’uscita, e sbucammo fuori in un attimo. Continuando per la strada, cominciammo a scendere verso il lago.

Ad una certa distanza dalla piazza centrale, potei osservare le alture verdeggianti che si stagliavano, come una mano protettrice, dietro il paesino arroccato di Loch. In un certo senso, era come se questa mano lo spingesse verso il lago, senza però farlo tuffare.

Arrivammo alla riva del lago in pochi minuti: le case si diradarono a poco a poco, finché non ne rimase nessuna. Il sentiero si fece sterrato e poi sparì.

Il lago era immenso e, anche se Deborah aveva detto che era uno dei più piccoli, a me sembrava davvero enorme. Si estendeva a perdita d’occhio, fino ad una collinetta del solito verde brillante che lo delimitava.

Giunto sulla riva, corsi verso l’acqua e la sfiorai con le dita, sentendo il gelo percorrermi il braccio. Lo ritrassi subito, impallidendo, con un terribile senso di dejà-vu in tutto il corpo. Quel freddo così intenso mi fece paura e non capii perché.

- Che c’è? -

Mi voltai di scatto verso Mihael che, accostatosi a me silenziosamente, si era seduto e aveva immerso i piedi nel lago.

- Niente – farfugliai, a disagio. Non potevo certo dirgli che avevo paura di quel gelo.

Superando il timore, rimisi una mano nell’acqua e, tentando di tenere a bada la mia insensata inquietudine, mi sedetti di fianco a Mihael. Quello mi fissava senza far trasparire nulla e mi chiesi perché non si stupisse del mio comportamento.

- Anche a me le prime volte dopo la perdita di memoria il freddo faceva paura. -

Trasalii. Ma come aveva fatto a capire? E poi come poteva anche lui provare la stessa cosa?

- E’ così – continuò, prendendo la mia espressione per incredulità. – Non riuscivo a stare con un dito nell’acqua gelata per più di qualche secondo, ma poi ci ho fatto l’abitudine… -

Incoraggiato dalle sue parole, immersi i piedi nell’acqua. All’inizio provai quel senso di terrore, ma, cercando di ignorarlo, questo si attenuò. Alla fine sbattevo i piedi assaporando la freschezza del lago senza problemi.

Sul viso di Mihael mi sembrò di scorgere quasi un sorriso.

- Come mai… – cominciai, interrompendomi alla ricerca delle parole.

- …conosco le tue sensazioni? – concluse lui per me.

Annuii, cercando di nascondere la sorpresa alle sue parole.

Lui sospirò, poi guardò il cielo, mentre parlava.

- Le ho provate anch’io, subito dopo aver dimenticato tutto. E poi credo che ci sia un motivo per cui abbiamo perso entrambi la memoria, alla stessa età. Penso che alla radice di questo ci sia qualcosa che la razionale mente umana non può capire. -

Corrugai le sopracciglia, pensando alle sue parole. – Quindi… Qualcosa di sovrannaturale? –

Per la prima volta, lo vidi sorridere. – Qualcosa del genere… - rispose – Penso che ci sia il 50% delle possibilità che questi avvenimenti siano qualcosa di irrazionale e inspiegabile scientificamente. –

Non replicai, ma soppesai la sua frase. Possibile che le nostre perdite di memoria, le nostre sensazioni identiche fossero qualcosa di…  magico? Non potevo crederci. Eppure come spiegare la nostra affinità?

Cercando di distrarmi, fissai un punto alla mia destra, nel prato verde di muschio che circondava il lago blu di gennaio. Non capivo come in una stagione così fredda potesse esserci così tanta vegetazione.

Ad un tratto un movimento in lontananza attirò la mia attenzione. Guardando meglio, notai una strana figura che veniva verso di noi. Sembrava un vecchio, ma man mano che si avvicinava potei identificarlo meglio e il sangue mi si gelò. Era un mostro, una specie di assurdo essere grigio e ricoperto da strani abiti e pendagli, con un orribile ghigno stampato in volto. Gli occhi grandi e dalle iridi rosse mi fissavano intensamente.

Quando mi fu a pochi metri, si fermò.

- Light Yagami… - sussurrò, poi ridacchiò, come se avesse scoperto una cosa divertente.

Mi girai verso Mihael, ma lui mi guardava interrogativo. Quando tornai a girarmi dalla parte del mostro, quello non c’era più.

Nella mia mente, uno strano nome continuava a tamburellare, ripescato da un abisso di oblio.

Ryuk.

 

Fine II

 

Fine anche di questo capitolo.

Allora… Come vi è sembrato Mihael?

Commentate, ok?

A presto!

 

Aki

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Capitolo 4
*** Possibilities (Possibilità) ***


Over The Mu

Grazie MILLE a:

Matta_Mattuz

kokuccha

che hanno commentato! XD

Grazie, siete la mia gioia!

E a:

retsu89

che ha messo da poco la mia figlietta nei suoi preferiti!

Spero commenterai! XD

 

E sono arrivata al terzo capitolo!

Scusate il ritardo… La scuola m’impegna non poco…

Spero che la trama della storia cominci a piacervi! Il finale e tutto il resto sono già scritti, perciò non rimarrà di sicuro inconclusa, ma nemmeno potrà cambiare secondo i vostri consigli.

In questo terzo capitolo, alla presenza di Mihael si oppone quella di Ryuk e, nella mente di Nate, Light comincia a farsi vedere… Finalmente!

Ed ora non mi resta che augurarvi buona lettura!

 

Over The Mu

- Oltre Il Nulla -

 

Prima o poi, tutti gli esseri umani muoiono.

Dopo la morte, non vi è nulla.

 

 

III. Possibilities (Possibilità)

 

Rimasi a fissare il punto in cui era sparito l’essere, ancora per un momento, poi distolsi l’attenzione. Forse mi ero semplicemente immaginato tutto. Ma quel volto dal ghigno orribile rimaneva impresso nella mia mente e, per qualche strano motivo, non riuscivo a liberarmene.

Mihael mi guardava curioso, senza capire perché mettessi tanta concentrazione per osservare il paesaggio incantevole del lago: era evidente che non aveva visto il mostro.

Mi sentii tremendamente stupido. Oltre a quelle assurde sensazioni di dejà-vu, ora mi mettevo anche ad avere le visioni.

- Stai bene? -

Tornai ad incrociare lo sguardo di Mihael, che attendeva una mia risposta.

- Certo… - replicai, cercando di esternare una specie di sorriso.

Lui alzò le spalle, liquidando la questione, con mio sollievo.

Ricadde quel silenzio di quiete che la presenza di Mihael ispirava sempre e mi godei quella sensazione stupenda, sperando che non finisse mai. Dal canto suo, il ragazzino sembrava non accorgersi della pace che infondeva e se ne stava semplicemente accovacciato come suo solito, abbracciando le gambe, fissando un punto indefinito dell’orizzonte.

Mi sembrò quasi che cercasse di scoprire qualcosa del suo futuro. Ma probabilmente non era affatto così, meditai. Era molto più facile che tentasse di far riaffiorare il suo passato.

- Vorresti conoscere davvero il tuo passato? -

La sua domanda m’incuriosì, perché non ne capivo la motivazione.

- Penso di sì. – risposi, quieto, - Tu no? -

- Io credo che ignorare il proprio passato consenta una libertà enorme. Perdere la memoria significa ricominciare a vivere, ad imparare, a conoscere. Significa avere una seconda possibilità. – spiegò.

Riflettei un secondo e non riuscii ad essere in disaccordo. I ragionamenti di Mihael erano sempre così logici, che cercare di andarci contro sarebbe stato come tentare di spegnere il sole.

- Una seconda possibilità… - mormorai, saggiando sulla lingua la dolcezza e il valore di quelle parole.

Avere una seconda possibilità di nascere e vivere. Una chance ulteriore di crescere e comprendere la vita. Forse, un modo di provare a migliorarsi, di smettere di fare errori.

- Andiamo. – disse ad un tratto – E’ tardi. -

Alzai lo sguardo, che avevo tenuto puntato sui piedi, e mi accorsi che il sole aveva compiuto metà del viaggio e ora picchiava sulle nostre teste, scaldandoci.

Annuii e mi affrettai a seguire Mihael che si era già alzato e aveva cominciato a risalire, verso il sentiero. Non ci mettemmo molto a raggiungerlo: qualche minuto, poi lo sterrato ci portò su fino all’asfalto e entro una mezzora eravamo tornati al limitare del villaggio.

Le strade erano praticamente deserte, così come lo erano state la mattina: la gente, dopo aver lavorato, si ritirava nelle case per pranzare e riposarsi.

Attraversammo vicoli stretti e strade lastricate, fino al vialetto acciottolato in cui abitava Deborah. Mihael prese dalla tasca le chiavi di casa che portava con sé e aprì la porta. Il color pesca mi rilassò ed entrai senza accorgermene, sorpassando Mihael.

Quello, sulla soglia, non accennava a muoversi.

- Io vado da Deborah. – disse, quando mi voltai verso di lui, - Le avevo detto che saremmo passati. In cucina trovi della pasta, se vuoi farti pranzo subito, altrimenti torno presto e faccio io. -

Gli sorrisi e annuii, assicurandogli che me la sarei cavata. Lui non rispose, chiuse la porta e se ne andò.

Restare solo in quella casa mi fece uno strano effetto. Era come se fossi vissuto lì da sempre, perché infondo era l’unico edificio che potessi chiamare casa scolpito nella mia memoria. Il resto l’avevo sepolto nel passato dimenticato.

Cercando di orientarmi (e non fu difficile, perché la casa era piccola), mi mossi alla ricerca della stanza da letto che avevo occupato evidentemente per una settimana. La trovai subito, in fondo al corridoio, di fronte ad altre due che dovevano essere quelle occupate da Deborah e Mihael. Vi entrai con un certo timore, come se all’interno potessi trovare il caos infernale.

Ma era tutto esattamente come lo ricordavo: il letto candito, le pareti color pesca e l’armadio di legno, i quadri dai paesaggi marittimi e la sedia davanti alla finestra. Solo, mancava Mihael seduto sopra. Quell’assenza era palpabile: senza di lui, l’aria aveva un altro sapore, la luce un altro aspetto.

Ignorando i morsi della fame che cominciavano a farsi sentire, mi sedetti sulla sedia e cercai di guardare fuori come faceva Mihael. Ma ero sicuro di non riuscirci: nessuno sarebbe stato capace di assumere la sua espressione quieta, la sua posizione così particolare e il suo sguardo lontano.

Sorrisi tra me e me, ripensando al suo passato: era talmente evidente che fosse troppo intelligente rispetto alla sua età! Non ci sarebbe stato bisogno che me lo dicesse: lo avrei comunque capito io stesso.

Mentre riflettevo, osservavo con curiosità la stanza. Anche se la conoscevo, c’era una strana atmosfera di novità: sentivo che non avevo ancora scoperto tutti i suoi segreti. Ero certo che ne nascondesse.

Svogliatamente, mi accomodai meglio sulla sedia, con le braccia dietro la nuca e i gomiti aperti. Mi sentii sereno: forse avevo trovato una casa, qualcosa che sarebbe stato mio per sempre.

- Che strana cosa… -

Mi voltai di scatto verso il letto, da cui avevo distolto lo sguardo un attimo prima. Seduto sopra le coperte, ora, stava il mostro che avevo visto al lago, con quel perenne ghigno che sembrava deridere i miei gesti.

Saltai in piedi, facendo cadere la sedia. La pace parve spezzarsi proprio quando questa si rovesciò.

Ryuk. Ryuk. Ryuk.

Mentre fissavo con gli occhi spalancati quell’essere comodamente appoggiato al mio letto, la mia testa ripeteva incessantemente quel nome assurdo. Non sapevo da dove venisse, ma rimbombava nel mio cervello come una pallina da golf impazzita che rimbalzasse sulle pareti di una stanza. Mi afferrai le tempie, premendoci le mani sopra, tentando di far cessare l’eco insopportabile della parola.

- Ryuk… - sussurrai.

Non so perché lo feci. Forse perché speravo che, gettandolo fuori, quel nome avrebbe smesso di tormentarmi.

E in effetti lo fece. L’eco si placò all’istante. Feci un profondo respiro, cercando di calmarmi.

- Uhm… - mormorò l’essere, - Ti ricordi? -

Non capii le sue parole. Non risposi. Ma forse si riferiva alla sua apparizione giù al lago.

- Eri… - tentai di dire, ma mi uscì solo una specie di rantolo e rinunciai.

- Oh! – sghignazzò il mostro – E pensare che eri un fenomeno con le parole… -

Ancora una volta non replicai. Non ne avevo la forza, ma nemmeno avrei saputo che dire. Non capivo il significato delle sue frasi enigmatiche, né le sue allusioni ad una nostra passata conoscenza.

Poi un’idea mi balenò alla mente, mentre lui giocherellava con un anello dorato che portava al dito.

- Ci siamo già conosciuti? – chiesi.

Mi guardò sorridendo, ma non rispose. Era evidente che mi avrebbe detto solo ciò che voleva. La cosa mi innervosì.

- Per favore – riprovai – Rispondimi. -

La mia frase lo divertì. Non capii perché, ma infondo non capivo un sacco di altre cose.

- Chiedi anche per favore, eh? – ridacchiò. – Sembri davvero cambiato… -

Si voltò verso di me, con gli occhi spalancati e rossi. Li vidi ardere di una prospettiva futura che ero sicuro di ignorare. Mi si avvicinò con lentezza e quando mi fu davanti sorrise.

- Ma sono sicuro che in realtà sei quello di prima. – affermò.

Deglutii. Le sue parole e il suo viso mi mettevano addosso un’inquietudine che aveva poco a che fare con la paura. Anche questa sensazione, come quella provata al buio e al gelo del lago, era una specie di tremendo dejà-vu. Questa volta però era diverso, era molto più intenso.

Per un attimo mi parve di ricordare un’altra stanza, un altro anno, forse, e un altro paese. Ma ero sempre io, una volta ancora davanti a questo mostro. Solo, mi sembrava di conoscerlo.

No, Ryuk. In effetti non sono affatto sconvolto.

La voce con cui quella frase venne pronunciata mi mise i brividi. Era apparsa nella mia testa all’improvviso, insieme a quella strana specie di ricordo che si era impossessato di me.

Ma tutto sparì in un attimo e mi ritrovai consciamente di nuovo di fronte a quel mostro. Anche se ora mi sembrava di riconoscerlo.

La cosa mi fece paura, questa volta: possibile che l’avessi incontrato, in passato? Forse prima di perdere la memoria?

Ma non era possibile: il ricordo che avevo di lui non corrispondeva a i miei anni passati. Mi sembrava più lontano e, in un certo senso, sentivo che non aveva niente a che fare con la vita che avevo dimenticato.

In realtà, mi sembrò che non fosse nemmeno mio.

Ryuk ridacchiò. Avevo capito che era il suo nome, ormai. Mi fissò come se potessi fare qualcosa si divertentissimo da un momento all’altro. Pareva che tutto lo divertisse, come se vivesse per quello.

- Vedrai, Nate, - pronunciò il nome come se non mi appartenesse e la cosa lo fece ridere – Ricorderai tutto, presto. -

Ridacchiò ancora, poi si allontanò. Raggiunse la finestra e uscì fuori con un balzo. Appena fu a mezz’aria, un paio di enormi ali nere spuntarono dalla sua schiena e si spalancarono, frenando la sua caduta.

Vidi il suo corpo stendersi e opporsi all’attrito dell’aria, poi librarsi in cielo, sopra le teste dei passanti che, nel viottolo, continuavano tranquillamente le loro attività.

Non potevano vederlo, così come era stato per Mihael? O forse non l’avevano notato?

Senza sapermi rispondere, notai solo che era passata mezz’ora da quando ero entrato in casa e che presto sarebbe tornato Mihael. Dovevo prepararmi pranzo prima che arrivasse. Avrei potuto cucinare anche per lui, magari.

Corsi in cucina, sperando che tardasse ancora un po’.

Attingendo da una parte della mia memoria che non era andata perduta, feci cuocere un po’ di pasta, sperando che Mihael non volesse altro e preparai il tavolo con quello che trovai nei cassetti.

Quando sentii la porta aprirsi, avevo appena preso la pentola di pasta dal fuoco e la stavo mettendo in tavola. Mihael entrò in cucina con passo lento, come al solito. Quando mi vide con la pentola in mano, fui sicuro di scorgere una scintilla di sorpresa nei suoi occhi, ma la sua espressione, naturalmente, non mutò.

- Hai cucinato? – chiese semplicemente.

- Sì. -

Posai la pentola sul tavolo e servii la pasta nei piatti. Lui si sedette e, dopo aver visto che avevo iniziato a mangiare, mi imitò. Restammo in silenzio, mentre finivamo in fretta quel semplice pranzo, tranquillamente.

Ogni tanto, tornavo col pensiero all’incontro di pochi minuti prima, ma cercavo sempre di scacciarlo dalla mente. Non volevo arrovellarmi più di tanto sulle parole del mostro, perché sapevo che non avrei risolto nulla senza ulteriori indizi.

- Sei strano. – disse. E non era un dubbio, ma una constatazione. – E’ successo qualcosa? -

Deglutii l’ultimo boccone e negai, con un movimento del capo. Non mi andava di raccontargli dei miei nuovi dejà-vu, né di quella specie di ricordo che sembrava appartenere ad un’altra persona, e sicuramente non di Ryuk.

Poi ripensai alle parole che Mihael aveva pronunciato quella mattina, al lago. Qualcosa di irrazionale, di inspiegabile. In un certo senso, anche la comparsa del mostro e di quel nuovo ricordo non erano razionali. Come spiegare l’esistenza di un essere del genere?

- Tu credi davvero che la nostra situazione sia qualcosa di sovrannaturale? – chiesi.

Mihael mi fissò un attimo. E ancora una volta capii che stava decidendo come rispondere.

- C’è il 50% delle possibilità che lo sia, a mio parere. – rispose, - Tutto qui. -

Sorrisi. Sembrava proprio che non volesse mai sbilanciarsi, né dire qualcosa di sbagliato. Perché quella paura di commettere errori? Sembrava una cosa quasi patologica: una forma di malattia psicologica dell’insicurezza, o qualcosa de genere.

Ma mi pareva assurdo che uno come lui potesse commettere un qualche genere di errore.

Finito di mangiare, presi i piatti di entrambi e li misi nel lavandino, per lavarli. Mihael mi disse che sarebbe andato a lavorare un po’ al negozio dove Deborah era commessa, come suo solito e che io, il giorno dopo, avrei iniziato la scuola.

A suo parere, non ne avevo bisogno.

La sua affermazione mi stupì. Mi credeva così intelligente? Forse quanto lui?

Mi sentivo lusingato, ma allo stesso tempo faticavo a credere di poter essere alla sua altezza.

Ci avrei provato, questo era certo. Perché una strana forma di orgoglio, nata da chissà quale parte di me, aveva cominciato a farsi spazio e a reclamare il suo posto. Dovevo superare Mihael e batterlo, mi diceva.

Ridacchiai a quella mia strana affermazione. Forse ero nato per la competizione e la rivalità.

Dopo aver lavato i piatti e messo tutto a posto, tornai in camera. Controllai che la finestra fosse chiusa e mi coricai sul letto: mi sentivo ancora stanco (forse non ero ancora del tutto ristabilito), ma non volevo sorprese.

Cercai di chiudere gli occhi, ma l’assenza di Mihael e quel buio che mi ritrovavo a dover affrontare erano troppo intensi.

Ci rinunciai definitivamente già pochi minuti dopo. Mi alzai dal letto e mi misi in piedi accanto alla finestra, fissando la parte opposta della stanza. Appoggiata alla parete, seminascosta dal buio, c’era una scrivania. Incredibilmente, non l’avevo notata fino ad ora. Come se in realtà prima non ci fosse stata.

Mi avvicinai e la scrutai, perplesso. Sopra erano appoggiati solo un quaderno con la copertina nera e una biro. Sul quaderno era scritto il nome Nate River. Probabilmente era un regalo di Deborah perché avrei iniziato la scuola il giorno dopo.

Mi sedetti alla scrivania sorridendo. Iniziare la scuola, per qualche motivo, mi entusiasmava: era comunque una cosa nuova per me.

Con un gomito appoggiato al ripiano in legno, aprii il quaderno.

In quel momento un dolore lancinante mi trafisse la fronte. Portai le mani intorno alla testa, gemendo.

Ah! Gli ostaggi sono usciti!

Ci è appena giunta un’informazione! Dicono che il sequestratore è deceduto all’interno dell’asilo!

Pare proprio che il colpevole sia morto!

Sul quaderno che tenevo stretto, la mia mano scrisse un nome.

Kuro Otoharada.

 

Fine III

 

Spero che il finale abbia avuto l’effetto sperato…

Commentate, ok? XD

Alla prossima!

 

Aki

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Capitolo 5
*** Return (Ritorno) ***


Over The Mu

Grazie MILLE a:

kokuccha

che ha commentato! ^-^

Grazie, tesoro!

 

Ed eccoci al quarto capitolo…

Mi spiace che solo una persona abbia commentato il terzo, dato che questa storia è nei preferiti di cinque.

Spero che abbiate il buon cuore di lasciare un commentino…

Finalmente, in questo capitolo Nate comincerà il suo ritorno nel passato: pian piano si accorgerà di quello che è realmente. E allora… Quale sarà la sua scelta?

Buona lettura!

 

Prima o poi, tutti gli esseri umani muoiono.

Dopo la morte, non vi è nulla.

 

IV. Return (Ritorno)

- Ah…! -

Ansimando, con gli occhi chiusi, cercai di impedire a quella esplosione di parole sconosciute di entrarmi in testa. Ma sembravano provenire proprio da lì.

Mentre stringevo con forza la testa tra le mani, alcune lacrime mi scesero: il dolore alla fronte era insopportabile e il volume di quelle immagini e suoni che mi assalivano era altissimo. Digrignai i denti, rinunciando ad eliminare gli intrusi. Lentamente, provai ad ascoltare. Incredibilmente, il volume si attenuò al mio consenso.

Pian piano, svanirono tutte le urla e tutte le immagini.

Sconvolto, provato dal dolore e dallo sforzo, mi accasciai con il busto e la faccia sul piano della scrivania, voltato di lato. Accanto a me, il quaderno che Deborah mi aveva regalato era aperto sulla prima pagina. Era del tutto bianca, se non per quel nome minuscolo che vi avevo scritto: Kuro Otoharada.

Mi chiesi perché la mia mano avesse tracciato quella scritta. Non conoscevo nessuno che si chiamasse così. In realtà, conoscevo ben poche persone e tutte vivevano in questa casa.

Presi nella mano tremante il quaderno e lo fissai, confuso. Le immagini che mi erano scoppiate d’un tratto in testa non le avevo riconosciute. C’era una stanza buia, forse la stessa della strana visione avuta con Ryuk, e una televisione. Era in onda un telegiornale giapponese, di questo ero sicuro, in cui stavano identificando il colpevole di un sequestro.

Forse era proprio lui: Kuro Otoharada.

Ma perché avrei dovuto segnarmelo sul foglio? L’avevo già fatto nel mio passato?

No, non era possibile: non ero mai vissuto in Giappone, per quanto sapessi. E, sicuramente, se vi ero stato, non sapevo ancora scrivere.

Senza punti di riferimento, non potevo arrivare a nulla.

Stremato, mi coricai sul letto. Restai a guardare il soffitto, chiedendomi se fosse possibile credere nella magia. O credere in qualcosa di irrazionale, di sovrannaturale. Nel profondo, sapevo di crederci.

Forse, ero sicuro che esistesse qualcosa al di là della materia visibile. Forse in passato ne ero venuto a conoscenza.

Sorrisi a quell’idea, ma il sorriso era più che altro una smorfia.

All’improvviso qualcuno bussò alla porta.

Sobbalzai, sorpreso, gli occhi spalancati. Per un attimo avevo visto Ryuk sorpassare la porta e venirmi incontro.

Mi riscossi quando una voce famigliare si fece sentire.

- Nate? -

La testa di Mihael spuntò davanti allo stipite, emergendo alla luce del pomeriggio. Mi fissò un secondo, poi entrò nella stanza senza fare rumore, come al solito. Andò a sedersi sulla sedia che occupava sempre e si girò a guardarmi.

- Cosa c’è? – chiese.

Ancora una volta, non me la sentii di raccontargli le mie visioni. Continuavo a sentirmi patetico.

- Niente. – risposi.

Non sembrò convincersi, ma Mihael non era invadente, né curioso. Capiva quando non volevo parlargli e, semplicemente, ne prendeva atto: si ritirava nel suo silenzio e nei suoi pensieri, senza aggiungere nulla.

Dentro di me, mi sentii male: forse se gli avessi spiegato le cose, sarebbe stato meglio.

- Mihael… - provai.

Il suo sguardo non si spostò dal solito punto indefinito al di là della finestra. Ma capii che mi aveva sentito. Passò solo un secondo prima che rispondesse.

- Dimmi. – sussurrò.

Subito, mi chiesi cosa dovessi dirgli esattamente. Avrei dovuto parlargli delle mie visioni-ricordo? O di Ryuk?

Propensi per la prima possibilità: non mi sentivo di rivelare la presenza di un essere che solo io sembravo vedere.

- Io… - iniziai – Già questa mattina e poi poco fa, ho avuto delle… - cercai la parola adatta - …visioni. -

Attesi la sua risposta, ma quella non venne. – Una specie di ricordi che però non possono essere miei… -

Mi morsi un labbro. Pessima idea: ora mi sentivo davvero ridicolo.

Ma Mihael non fece commenti, come quel giorno a colazione, e gliene fui grato. Restò un momento soprappensiero, poi rispose.

- Come fai a dire che non possono essere tuoi ricordi? -

- Beh… - replicai - …ad esempio, il secondo apparteneva a qualcuno vissuto in Giappone, ne sono certo. E io non posso essere vissuto in Giappone dopo i sei mesi. Se anche fosse, non me ne ricorderei, no? Ero troppo piccolo. -

Alzai lo sguardo sulla figura di Mihael e quello che vidi mi lasciò di stucco. Si era irrigidito.

- Hai detto qualcuno vissuto in Giappone? -

Si girò verso di me, nel suo sguardo potevo intravedere una strana agitazione. Annuii.

Forse cercò di recuperare del contegno, perché si mosse nervosamente sulla sedia e si morse distrattamente un labbro. Ma cos’era che lo rendeva così irrequieto?

- Anche io… - sussurrò, pianissimo, - …Anche io ho avuto una specie di visione come la tua. Anche io ho riconosciuto il Giappone. -

Spalancai gli occhi. Le nostre visioni avevano una relazione tra loro? Forse ci conoscevamo già prima di perdere la memoria?

Mihael sembrava essere arrivato alla mia stessa conclusione. Mi fissò un secondo, prima di parlare.

- Se ci fossimo conosciuti già prima di perdere la memoria, non sarebbe stato comunque in Giappone. Sia io che te siamo vissuti qui in Scozia da quando eravamo piccolissimi. Non avremmo ormai ricordi della nostra conoscenza in Giappone.

Questo vuol dire che, alla conclusione a cui sono giunto, quelli non sono affatto i nostri ricordi. –

Riflettei un momento sulle sue parole, come sempre.

- Non sarebbero i nostri ricordi, quindi? Sì, è logico… -

Ci fu un attimo di silenzio. In quella quiete, si potevano percepire le nostre menti lavorare, alla ricerca della soluzione.

Ad un tratto un’idea mi fulminò.

- Forse… - mormorai.

Scesi dal letto e cominciai a camminare per la stanza.

L’unica soluzione che poteva esserci, l’unica risposta al dilemma era quella. Del resto, nel mio ricordo io sapevo già scrivere e, ora che ci ripensavo attentamente, ero sicuro di conoscere bene il giapponese anche in questo momento. Quindi, in Giappone, avrei dovuto essere una persona adulta, o almeno un ragazzo.

Perciò, l’unica risposta…

Possibile? Possibile che esistesse un fenomeno del genere?

Per un momento, pensai alle mie idee. Al mio credere in qualcosa di sovrannaturale.

Dopo la morte? Cosa pensavo ci fosse dopo la morte?

Forse il nulla. Ma, qualcosa mi diceva che non era vero. Che c’era una differenza. Che c’era un’altra possibilità.

Se era così, quello che pensavo poteva essere la verità.

Mi voltai a guardare Mihael. Quello, dalla sedia, mi scrutava corrucciato, cercando probabilmente di capire quello che avevo in testa.

- Forse… - ripetei, - C’è una risposta. -

La sua espressione neutra non cambiò. Attese, quieto.

- I ricordi che ho devono essere quelli di una persona adulta. Lo è anche per te? -

Lui annuì.

- Allora, l’unica risposta…

Una reincarnazione? –

In una delle rare volte, mi sorrise. – Esattamente ciò che pensavo. – disse.

Risposi al sorriso con sincerità. Cominciavo a provare uno strano affetto per questo ragazzino, come per un fratello. Vivevamo in un’atmosfera di rivalità e competizione, ma ero sicuro che anche lui ricambiasse i miei sentimenti.

Amicizia.

Perché Light… E’ il mio primo amico.

- Il mio primo amico… - sussurrai, come in ipnosi.

Non sapevo dove avessi trovato quella frase. In una recondita parte di me?

Forse anche questa era una testimonianza dell’uomo di cui ero reincarnazione. Ma la voce non era la sua.

- Come hai detto? – chiese Mihael.

- Niente. -

Qualunque cosa fosse stata la nostra perdita di memoria, qualunque fenomeno ci fosse stato all’origine delle nostre stranezze, l’avremmo affrontato. L’avremmo risolto. Insieme.

Sorrisi ancora tra me e me. Ero sicuro che, anche nella mia vita passata, avessi una relazione particolare con Mihael. Lui mi guardava curioso dalla sua sedia. Forse non capiva. Forse invece capiva fin troppo bene.

Lo osservai un momento mentre pensava e arrivai alla conclusione che, certamente, doveva essere stato così intelligente già nella sua vita precedente. Sempre che ci fosse stata, aggiunsi mentalmente.

- Puoi raccontarmi quello che hai visto? – chiese.

Acconsentii. Probabilmente era il modo migliore per cercare di capire se quelle visioni fossero veramente appartenute ad una persona già morta.

Gli spiegai tutto. Ma ancora una volta, lasciai fuori Ryuk. Non lo consideravo fondamentale per le nostre ricerche. O almeno la mia mente cercava di convincermi di questo. Mentre, in realtà, Ryuk era quello che sembrava sapere più cose di questa storia ed ero solo io a non volerlo coinvolgere. Non me la sentivo. Non ancora.

Quando ebbi finito, lui restò un momento in silenzio.

- Un quaderno si cui hai scritto il nome di un sequestratore… - rifletté – Per quale motivo avresti dovuto annotarti il suo nome? Forse era una persona che conoscevi? -

Scossi la testa. – Veramente non penso… - risposi – Nelle mie visioni, io sento anche quello che prova la persona. E non mi è sembrato che la conoscesse. –

Mihael annuì, accantonando quell’ipotesi.

Mi grattai la testa, nervosamente. Era impossibile andare avanti così, senza maggiori informazioni. Era come brancolare al buio in mezzo ad una stanza piena di oggetti impossibili da riconoscere.

- Forse è meglio se lasciamo perdere, per oggi. – dissi.

In effetti era calata la sera e il giorno dopo avrei dovuto iniziare la scuola: la cosa migliore era dormirci sopra. Sperando che, per davvero, la notte portasse consiglio.

Mangiammo una cena frugale, perché Deborah non era ancora tornata e in frigo non c’era molto. Consumato il pasto, ci salutammo solo con un cenno della mano, poi ci infilammo ognuno nella rispettiva camera.

Quella notte, stranamente, mi ritrovai a desiderare che Ryuk tornasse a farmi visita. Sapeva di certo molte cose, forse conosceva la verità intera: era l’unico che avrebbe potuto aiutarci. Dormii un sonno piacevole, al contrario di quello che mi sarei aspettato.

Mi alzai all’alba, fui svegliato dal sole che entrava dalla finestra.

Era presto, ma uscii comunque dal letto e camminai fino alla cucina. Mi preparai una tazza di latte e, quando stavo per prendere lo zaino posato su una sedia che sembrava essere stato preparato da Deborah, la donna apparve sulla porta.

- Oh, Nate… - sospirò, - Te ne volevi davvero andare a scuola il primo giorno senza salutare? -

Sorrisi e ricambiai l’abbraccio con cui mi strinse.

Uscii di casa poco dopo, seguito dal ‘buona fortuna’ di Deborah. Mentre chiudevo la porta che dava sulla strada, intravidi Mihael in corridoio, che veniva verso di me. Sorrideva.

Col pacifico e dolce ricordo di quel sorriso, così inusuale per lui, mi avviai nella direzione indicatami da Deborah. Arrivai alla scuola in pochi minuti: era davvero vicina, perché il paese era molto piccolo. Si trovava sulla piazza in cui avevamo sostato io e Mihael il giorno prima, ma non l’avevo notata. Era relativamente grande, ma semplice, con un piccolo giardino a circondarla.

Non ero l’unico studente, ma sicuramente uno dei più mattinieri. Quelli che entravano, continuavano a sbadigliare ad ogni passo, mentre io mi dirigevo tranquillamente alla mia classe. Deborah mi aveva iscritto alle medie, nonostante avessi l’età di uno studente delle elementari: diceva che Mihael era sicuro che me la sarei cavata nel migliore dei modi.

Nell’aula, occupai un banco in ultima fila e attesi.

Le lezioni durarono poco. Ogni volta, nonostante fossimo a metà dell’anno e quasi alla fine del primo quadrimestre, dimostrai di saper affrontare tutte le materie e di eccellere nella maggior parte. Tutti i professori rimasero impressionati dalla mia intelligenza e la cosa mi procurò un moto d’orgoglio.

Alla fine della giornata, quando gli altri studenti correvano a casa, finalmente liberi, io restai a camminare distrattamente nel giardino, ripensando a quello che era successo. Mi sedetti su una panchina rossa e guardai in alto. Quasi non caddi per terra.

Appollaiato sull’albero che faceva ombra alla zona delle panchine, sorridente come sempre, stava Ryuk, le mani a penzoloni. Con una aveva afferrato una mela e se la gustava.

- Ryuk! – esclamai.

Mi guardò, ghignando, poi indicò un punto davanti a me. Senza esitare, mossi gli occhi nella direzione del suo dito.

Un ragazzo, che riconobbi come un mio compagno, stava uscendo in quel momento dal cancello. Ma, ad un tratto, un libro con la copertina nera gli cadde per terra.

Successe in un secondo: le voci e le immagini tornarono a popolare la mia mente, facendomi gemere e piegare dal dolore.

Death Note… Ovvero il quaderno della morte.

La persona il cui nome sarà scritto su questo quaderno morirà. -

Che pena. Ma perché van tutti matti per ‘ste scemenze? -

Attento, Taku! -

Il quaderno della morte… funziona davvero! -

Ho… ho ucciso… due persone…

- Ho… Ho ucciso! – gridai, tra le lacrime che ormai erano scese, insieme a quella cascata di ricordi.

Io non ero Nate River. Ero Light Yagami.

Ed ero un assassino.

Fine IV

 

Bene!

Ecco concluso anche questo capitolo!

Per favore, commentate! Ç_ç (me si sta deprimendo…)

Alla prossima!

 

Aki

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Capitolo 6
*** To Know The Truth (Sapere la verità) ***


Over The Mu

Grazie MILLE a:

cicoria

retsu89

che hanno commentato! ^-^

Grazie, pensavo di avervi perse ç-ç

 

In questo quinto capitolo Nate, scoperta la sua identità, deve prendere una decisione difficile: dire tutto a Mihael oppure tenere il terribile segreto per se?

Ed ora che quasi tutti i tasselli sono tornati al loro posto…

…si prepara il gran finale! XD

Buona lettura a tutti! E commentate, vi prego! Ç_ç

 

 

Prima o poi, tutti gli esseri umani muoiono.

Dopo la morte, non vi è nulla.

 

 

V. To Know The Truth (Sapere la verità)

 

Corsi a casa velocemente, più di quanto il mio fisico da bambino potesse reggere. Mi ritrovai ad ansimare in mezzo alla piazza del paese, deserta, con un bruciore intenso in gola.

Ero un assassino.

Assassino.

Continuavo a ripetermi quella parola nella mente, come se abusandone potesse scomparire. Ma più la pensavo, più questa si scolpiva inesorabilmente in me, marchiandomi per l’eternità.

All’improvviso, non mi sentii più così sicuro di voler tornare a casa.

Volevo davvero dire tutto a Mihael, come avevo subito pensato? Volevo davvero che sapesse che ero un assassino?

Non mi sentivo certo di entrare in casa, sudato e sconvolto, gridando come un ossesso contro colpe che sentivo terribilmente mie. Ma sapevo che lo avrei fatto. Forse sarebbe stato meglio stare lontani da casa per un po’.

Scelsi il lago. Lo feci un po’ perché era l’unico posto un po’ isolato che sapessi raggiungere, un po’ perché era lì che era cominciata tutta la storia e la parte meno orgogliosa di me ammetteva che speravo si concludesse in qualche modo.

In realtà, dentro di me, una sempre più grande certezza mi diceva che non si poteva tornare indietro: ero Light Yagami, ero un assassino. E ormai ne avevo preso consapevolezza.

Arrivai al lago di corsa, così come ero giunto in piazza. Mi lasciai cadere sfinito sull’erba che odorava di muschio e pioggia, steso a terra. Con gli occhi ripassavo i contorni di nuvoloni grigi che si stavano addensando al centro del cielo, mentre con le orecchie ascoltavo il ritmo del mio respiro che andava regolarizzandosi.

Chiusi gli occhi quando una goccia di pioggia mi bagnò la punta del naso, senza la forza di alzarmi e mettermi a riparo. Lasciai che la pioggia mi lavasse, sperando che portasse via anche i miei terribili peccati. Ma sapevo che non ci sarebbe riuscita.

Ripensai a quello che avevo scoperto. L’esistenza di un quaderno della morte, della possibilità di uccidere le persone solo scrivendone il nome su una pagina… Tutto questo ora mi appariva dannatamente chiaro, logico, come se lo avessi conosciuto da sempre. Lo sentivo così perché quelle erano le memorie di Light Yagami, di certo.

Terrorizzato ancora dalle atrocità che avevo compiuto, mi coprii il viso con le mani, sotto la potenza sempre più forte dell’acquazzone. Come aveva potuto un ragazzo ammazzare così degli esseri umani? Cosa pensava di fare? Qual’era il suo scopo?

Non sapevo ancora tutta la storia, di questo ero certo. C’erano molte lacune negli avvenimenti. Per esempio, Ryuk cosa c’entrava? Chi era in realtà? E Mihael? Mihael chi era, rispetto a me?

Sperai con tutto il mio cuore che non fosse un mio complice, o qualcosa del genere. Sarebbe stato orribile.

Se lo era, comunque, non doveva assolutamente ricordare il suo passato come avevo fatto io. Sarei andato da lui e gli avrei detto che non volevo più continuare a cercare di scoprire cosa fossimo in realtà. Non avrebbe capito perché, e io non gliel’avrei spiegato, ma non m’importava. Infondo, era un modo di proteggerlo.

Immerso nei miei pensieri, mi chiesi se anche il suo nome non fosse quello vero. Io ero Light. E lui?

Una nuova curiosità s’impadronì all’improvviso di me, ma la feci subito tacere. Non avrei più rivangato nulla. Mi bastava già quello che sapevo.

La pioggia era cessata, quando mi alzai, pochi minuti dopo. Ma le nuvole grigie, che sembravano ancora cariche, non volevano andarsene: probabilmente avrebbe piovuto ancora, quel pomeriggio.

Mi ricordai solo a quel punto che sarei dovuto essere stato a casa già da molto tempo. Forse Deborah si stava preoccupando della mia assenza.

Ritrovata la forza di muovermi, nonostante i vestiti fradici, m’incamminai per ritornare al villaggio. Scosso dai brividi ad ogni minimo soffio d’aria, tentai di fare in fretta, per evitare di ammalarmi. Era gennaio e non era stata certo una buona idea, quella di beccarsi un acquazzone senza ripari.

Giunto all’entrata del villaggio, lo attraversai correndo, perché ormai tremavo da capo a piedi violentemente. Davanti alla porta della casa, dubitai solo un istante del mio coraggio, poi bussai forte. La porta si spalancò.

- Nate! -

Deborah mi aveva letteralmente sollevato di peso e mi stava portando in camera alla velocità di un uragano. Prima di poterlo evitare, pensai che il nome con cui mi aveva chiamato, non mi apparteneva più.

- Nate! – esclamò ancora, nei suoi occhi la preoccupazione si poteva leggere, - Mi hai fatto spaventare! Che hai fatto? Perché non sei tornato subito a casa? -

Mentre mi copriva con la coperta, tutto avvolto nel letto, mi rivolgeva le domande a raffica, senza aspettare le mie risposte, come un distributore impazzito.

- Mike! – disse, ad un tratto, - Vammi a prendere il termometro! -

Solo in quel momento notai Mihael, nascosto dietro la figura snella di Deborah, che mi fissava neutro, come sempre. Ma nei suoi occhi c’era qualcosa di insolito.

Annuì, senza una parola, e uscì dalla stanza. Tornò un attimo dopo, con l’oggetto in mano. Deborah lo afferrò velocemente e me lo diede in mano.

- N-non è necessario…. – cercai di dire, - S-sto bene, davvero… -

- Vedi di tacere, Nate! – esclamò lei, furibonda, - Già mi hai fatto prendere un accidente! Adesso, per favore, vedi di non fare storie e misurati la febbre! -

Ammutolito e rassegnato, misi il termometro sotto un’ascella. Lei, lo sguardo tornato dolce, promise di tornare dopo cinque minuti e uscì. Restammo io e Mihael, mentre lui aveva occupato il suo solito posto davanti alla finestra e io restavo in silenzio.

Passarono diversi minuti prima che parlasse.

- Dove sei stato? – mi chiese.

Non mi aspettavo che se ne interessasse.

- Al lago. -

Rimase in silenzio un secondo, poi tornò a parlare.

- Pensavo che avessi scoperto qualcosa… - sussurrò.

Mi stupii della tristezza che c’era nella sua voce. Forse aveva scoperto già tutto? Forse aveva ricordato di essere stato un mio complice?

Pregai tutti gli dei esistenti che non fosse così.

- Non ho scoperto niente, Mihael. – dichiarai, ma quel nome suonò strano sulle mie labbra, inadatto, - E comunque non voglio più continuare quest’indagine assurda… -

L’ultima parte la mormorai solamente. Lui mi fissò indifferente, ma sapevo che in realtà era sorpreso.

- Perché? – chiese, atono.

- Non mi interessa conoscere il mio passato. – replicai – Lo hai detto tu stesso: perdere la memoria significa avere una libertà enorme, vuol dire avere una nuova possibilità di vivere. Perché adesso dovrei volerla riacquistare? -

Mi guardò sorridendo. Ma era un sorriso triste, tirato. Come i suoi occhi spenti.

- Non avere un passato può rendere liberi, certo. – cominciò, - Ma ti toglie la possibilità di sapere chi sei veramente. -

Non seppi cosa rispondere. La sua frase mi aveva spiazzato.

- Non vuoi sapere da dove vieni? – mi chiese, - Non vuoi capire perché sei fatto così, chi era tua madre? Non vuoi conoscere quello che eri? -

Ancora una volta, non trovai le parole.

- Sapere chi siamo stati ci aiuta a capire quello che siamo e a scegliere chi saremo. -

Calò il silenzio. Quella strana quiete scendeva sempre nelle nostre conversazioni: era uno strano momento fuori dal tempo, una strana parentesi che ci permetteva di essere noi stessi fino in fondo.

Ad un tratto, Mihael sospirò.

Non glielo avevo mai visto fare. Lui aveva sempre una risposta, se non ce l’aveva la cercava. Non si era mai arreso. Perché adesso lo faceva? Era colpa mia, del mio rifiuto?

Mi morsi un labbro, cercando di impedirmi di corrergli incontro e dirgli che lo avremmo cercato insieme, quel passato. Perché io non potevo. Non potevo assolutamente farlo.

Attese ancora qualche secondo, poi si alzò. Fece quattro passi lenti verso la porta e si voltò.

- Pensaci. -

Uscì proprio un momento prima che Deborah entrasse a prelevarmi il termometro e controllarmi la temperatura. Non avevo la febbre, come pensavo, e la cosa mi rallegrò. Volli alzarmi subito dal letto, nonostante gli innumerevoli tentativi della donna di dissuadermi, e corsi in cucina.

Cercai Mihael in tutta la casa, ma non lo trovai. Questo mi mise in agitazione, anche se non capivo perché. La sua assenza mi aveva sempre messo in ansia, ma questa volta era diverso: avevo paura. La paura infondata che non tornasse più.

Rassegnato, mi sedetti sulla sua sedia, nella mia camera, e osservai il cielo. Era diventato plumbeo ora, con l’arrivo della sera e le nuvole non sparivano. Incombevano sempre al centro della volta celeste, minacciando di rovesciare l’acqua da un momento all’altro.

Dov’era Mihael? Non era sicuro che se ne stesse fuori casa a quest’ora, con questo tempo.

Dovevo cercarlo.

Tornai in cucina e presi un coltellino dalle stoviglie messe in un cassetto. Non so perché decisi di portarlo con me. Forse speravo che si rivelasse una buona arma in caso di pericolo, non so. Mi coprii con una giacca a vento appesa in corridoio e spalancai la porta che dava in strada.

- Esco a cercare Mihael! – gridai, sperando che Deborah mi sentisse.

Uscii fuori nel freddo della sera inoltrata e mi accorsi di non sapere affatto dove andare. Non conoscevo bene il paese quanto Mihael, né sapevo dove andasse di solito quando usciva. Non avevo alcun punto di riferimento.

Seguendo l’unica pista che avessi, mi diressi al lago. Mihael mi ci aveva portato il giorno prima, quando non ero andato a scuola, perciò forse era un posto che frequentava spesso.

Scrutando preoccupato le nuvole sulla mia testa, cominciai a correre attraverso il paese, verso il basso. La strada verso il lago mi sembrò più lunga delle altre volte, ma probabilmente era la paura che avevo di trovarmi nuovamente inzuppato che mi dava quest’impressione.

Quando lasciai il sentiero sterrato, però, cominciarono a scendere le prime gocce.

Affrettai il passo, per fare più in fretta. Ma, arrivato sulla riva, mi accorsi che non c’era nessuno. Era buio e di certo non era la condizione migliore per trovare qualcuno, ma ero sicuro che Mihael non ci fosse.

Feci alcuni passi lungo la sponda del lago, analizzando l’erba davanti a me, in lontananza, ma ancora non vidi nessuno. Intanto, aveva iniziato a piovere davvero. Mi girai indietro, per andarmene, ma fui bloccato da un corpo che mi sbarrava la strada.

- Finalmente sei arrivato… - mormorò.

Guardando verso l’alto, vidi gli occhi rossi del mostro fissarmi, ardenti.

- Ryuk? -

Quello ghignò. – Esatto. –

- Dov’è Mihael? – chiesi. Non so perché lo domandai, fu istintivo: me lo impose una parte nascosta di me.

Mi obbligò Light Yagami, a chiederlo.

- Perspicace come sempre, eh? – sghignazzò il mostro.

Spalancai gli occhi. – Cosa? – esclamai, - Cosa c’entra Mihael? –

Non rispose. Mi fissò sorridendo, soddisfatto per qualcosa che non sapevo.

- Stanotte – sussurrò – Saprai tutto.

Tornerai ad essere quello che eri. Come desideravi, Kira non morirà. –

Non capii le sue parole. Ma sentii dentro di me che stava per succedere qualcosa di orrendo.

Fu quando le immagini e le urla iniziarono, che compresi la verità: quella notte, effettivamente, avrei rivoltato il mio vero passato e l’avrei conosciuto.

Gridai di dolore, stringendomi, un’altra volta, la testa tra le mani. Le mie urla si unirono a quelle che sentivo nella testa, alte e forti.

In mezzo a quella sofferenza atroce, sperai che Mihael non arrivasse, pregai con tutto me stesso che almeno a lui questo venisse risparmiato.

Mi sentii barcollare, in preda alla confusione e al dolore. Caddi in acqua.

Il gelo mi avvolse, mi strinse in una morsa mortale. Come il giorno prima al lago, sentii il terrore impadronirsi di me.

Non voglio morire. Ma non ero io a dirlo.

Era Light Yagami.

Affondando sempre di più negli abissi del lago e della reminiscenza, mi preparai ad affrontare il me stesso che sarebbe venuto a galla, a tenere testa ad un assassino senza impazzire.

Ma già la mia testa mi gridava qualcosa che non riconoscevo.

Già iniziava ad abbandonarmi.

Sarò il Dio di un nuovo mondo.

 

Fine V

 

 

Bene, bene! XD

Spero che l’ultima frase abbia dato la giusta suspence… Non temete, nel prossimo ultimo capitolo tutto verrà chiarito! Prima di postarlo, però, aspetterò di avere qualche recensione… Quindi, prima recensite, prima posterò!

Vi prego, fatemi questo piacere… ç_ç

Alla prossima! XD

 

Aki

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Capitolo 7
*** Who I Am (Quello Che Sono) ***


Over The Mu

Grazie MILLE a:

kokuccha

retsu89

vi adoro! XD E scusate il ritardo…

E grazie anche alle 8 persone che mi hanno messa tra i preferiti!

Questo è l’ultimo capitolo: commentate, vi prego! Ç_ç

 

Immerso in un tuffo nel passato, Nate scoprirà finalmente tutto.

E’ ora di scegliere davvero.

 

Buona lettura!

 

Prima o poi, tutti gli esseri umani muoiono.

Dopo la morte, non vi è nulla.

 

End: Who I Am (Quello che sono)

 

Sarò il Dio di un nuovo mondo.

Quella frase mi rimbalzò in testa, mi scosse nelle profondità.

Tutto si fece silenzioso.

Ormai non percepivo più il mio corpo. Il freddo e il buio che avevo sentito ingoiarmi nell’acqua del lago, non c’erano più. Non potevo sentire nulla, né sul mio corpo, né sul mio viso.

Pensai di essere morto. Ero come sospeso in un limbo oscuro di passaggio tra la vita e la morte. Non vedevo luce intorno a me: tutto era buio, come in una notte eterna e gelida. Anche se non potevo sentirne il freddo sulla pelle, ero sicuro che lo fosse.

Cercai di avanzare a tentoni in quell’oscurità infinita, ma muovermi era uguale a rimanere immobile: il buio non mutava, era tutto terribilmente uguale.

Poi vidi qualcosa, una specie di luce bianca.

Ero certo che non fosse una luce di salvezza, né l’entrata dell’inferno. Non era neanche il nulla.

Non fui io a cercare di arrivare a lei, la luce semplicemente mi venne incontro, veloce. Quando mi fu davanti si era trasformata: era un’immagine, dai contorni sfocati. Mi sporsi verso di essa, per cercare di decifrarla.

Entrò in me. Esattamente così.

Mi avvolse, come una coperta senziente e attraversò la mia pelle, la mia carne, fino a confondersi, in un’unica entità, con la mia anima.

E allora, ricordai tutto.

Ero nel giardino del liceo, con in mano un quaderno dalla copertina nera. Mi sembrava sciocco credere ad una cosa de genere, alla possibilità di uccidere scrivendo il nome di una persona. Quaderno della morte?

L’immagine cambiò. Nella mia testa, sapevo già quale sarebbe stata.

Ormai ero Light Yagami. E stavo ricordando la mia vita.

Un motociclista che stava importunando una ragazzina, venne investito da un camion.

Io! Ero stato io ad ucciderlo! Corsi, in preda al panico, cercando di tornare a casa.

Poi mi fermai.

Ero un assassino. Ma a pensarci bene… Esistevano davvero persone che sarebbe stato meglio fare fuori.

Il mondo sarebbe diventato un posto migliore

Nella mia mente, i contorni si fecero sfocati, le parole mute, i dettagli imprecisi.

In camera mia, alla luce della lampada, nella notte, scrivevo nomi di criminali ricercati sul quaderno. E, ad ogni riga, sentivo le vite di quegli uomini passare nelle mie mani e scomparire. Non provavo orrore.

Quella era la giustizia.

“Sembra che ti piaccia…”

Mi voltai. E mi ritrovai a faccia a faccia con un essere mostruoso. Gridai, spaventato.

“Che hai da essere tanto sconvolto?”

Ma il seguito lo conoscevo già. “Sono Ryuk, il dio della morte che ha perso quel quaderno.”

All’improvviso, cominciò a farmi male la testa. Era la prima sensazione che percepivo davvero, da quando ero caduto nel lago. Forse era il dolore di quei ricordi. Che cos’era? Senso di colpa?

O il rimpianto di aver perso quella vita?

“Ascoltami, Kira. A grandi linee posso immaginare cosa ti passi per la testa per agire in questo modo… Ma ricorda che ciò che stai facendo… E’ malvagio!”

Sorrisi, a quelle parole senza senso.

“Io sarei malvagio?” gridai, “Io sono la giustizia!”

Sul quaderno, un nuovo nome.

Lind L. Taylor.

Ma Elle non morì.

Il dolore alla testa si accentuò. Sentivo la rabbia della vergogna farsi spazio in me. Io che mi ero lasciato fregare così, da uno stupido che credeva di potermi catturare…

E, allora, mi ricordai di Mihael. Non so perché mi successe, semplicemente rividi il suo volto davanti a me.

E allora capii.

Un palco, una platea all’Università. Quello sconosciuto che mi si avvicinava.

“Io sono Elle.”

“Cazzo! Mi ha fregato!”

“ …E c’è una cosa che vorrei chiederti.”

“Beh, dopotutto hai vinto tu, chiedimi pure quello che vuoi. Ma prima, dovrei avvertirti di una cosa… In verità, Yagami… Io sospetto che tu sia Kira.

Se ti sta bene lo stesso, chiedimi pure quello che vuoi.”

“Ryuzaki… Non esiste un modo per provarti che non sono Kira? Cosa devo fare perché ti fidi di me?”

“Se non sei Kira, non hai bisogno proprio di fare niente, non ti pare?”

“Ti preoccupi troppo, papà.”

“Beh, forse hai ragione.”

“Giusto… Light non è Kira. Anzi, se lo fosse, sarebbe un bel problema per me. Perché Light…

E’ il mio primo amico.”

“Anch’io ti considero un buon amico, Ryuzaki.”

“Mi fa piacere.”

“L’Università non sembra più la stessa da quando non vieni più. Mi piacerebbe giocare ancora a tennis con te.”

“Anche a me.

Dobbiamo assolutamente farlo di nuovo.”

Tremai, in preda ad un panico che non mi spiegavo. Sapevo che ora sarebbe arrivato il colpo di grazia. Ormai avevo capito che la mia reminiscenza, non era solo un ricordo. Era un esame di coscienza. Era una seconda possibilità.

E, allo stesso modo, avevo capito di non poter cambiare.

“Che ti prende Ryuzaki?”

Le dita tremarono, il cucchiaino cadde. Lui si rovesciò.

Lo afferrai all’ultimo momento, la presa salda.

Sorrisi. Avevo vinto io.

Nei suoi occhi, vidi la certezza affacciarsi. Dopotutto aveva intuito fin dall’inizio la verità.

Poi si chiusero.

Era finita.

Cominciai a ridere, a quel ricordo lontano, in preda all’isteria.

Avevo vinto io! Avevo vinto!

Le voci nella mia testa si placarono.

Davanti a me, vidi Ryuk apparire dall’ombra, con il suo ghigno perenne.

- Bentornato, Light. -

Tremai, perché ero tornato davvero. Ed una nuova scarica di ricordi m’investì.

Rividi i cinque anni del mio regno. Vidi la bozza del mondo giusto che avevo progettato, materializzarsi davanti ai miei occhi.

Rividi il rapimento di Sayu. Rividi Mello.

E poi scorse dinnanzi a me tutta la lotta che avevo avuto con Near. Rividi mio padre morire, Mello fuggire.

Mi riscoprii ad uccidere Kyomi Takada.

E poi mi ritrovai in quel capannone, il 28 gennaio 2010.

Venni attraversato dai brividi, tornai a percepire il gelo. Mentre cominciavo a riprendere coscienza del mio corpo, la mia mente si preparava al gran finale. Spalancai gli occhi, tremando convulsamente.

Non volevo, non volevo vedere!

Ma la pietà non era cosa per me.

“…Anche se non riusciva mai a superarmi, Mello ha sempre detto… Che sarebbe diventato il numero uno e che avrebbe sopravanzato me ed Elle… Ma sapeva che io non potevo superare Elle. Forse perché io mancavo di capacità d’azione, così come lui mancava di sangue freddo.

Ciò che voglio dire è che se nessuno dei due riusciva a superare Elle…

…Insieme potevamo farcela.”

Mi guardò, mi accusò. E mi chiese di discolparmi.

Ma io scoppiai a ridere, semplicemente. Perché era assurdo.

“Hai ragione. Io sono Kira.

E allora? Che vuoi fare? Vuoi ammazzarmi qua?

Ascolta… Essere Kira… fa di me… il dio di questo mondo.”

Ma lui mi guardò. Nel suo guardo rividi la forza e la determinazione di Elle. Solo, era spento: non aveva quella scintilla di umanità che caratterizzava gli occhi di Ryuzaki.

“No. Tu…

…Sei solo un assassino.”

Non avevo scampo. Lo capii all’istante. E sentii qualcosa di nuovo impadronirsi di me. Era una sensazione inesplorata, una sensazione nata dalla consapevolezza di essere finito.

Paura della sconfitta.

Non potevo perdere. La mia vita era stata votata alla creazione di un mondo nuovo, un mondo di giustizia e di ordine.

 Se ora non avessi potuto perseguire il mio obbiettivo, tutta la mia fatica, le mie battaglie… Tutto sarebbe stato vano.

E non volevo.

Tentai l’ultima mia possibilità: cercai di ammazzarlo. Ma non ci riuscii. Matsuda mi sparò alla mano. E poi al fianco.

Sentii la mia coscienza andarsene, la mia mente scollegarsi. Non ragionavo più, gridai cose senza senso, implorai che uccidessero chi ora mi stava sconfiggendo.

Poi vidi Ryuk.

“Ma certo, Ryuk! Scrivi tu i nomi di questa gente sul quaderno!”

Seppi che non lo avrebbe fatto, nello stesso momento in cui glielo domandai. Ma il mio corpo non mi rispondeva più. Risi incontrollato, quando mi rispose che avrebbe usato il quaderno. Dentro di me conoscevo già il finale.

“No, Light, sarai tu a morire.”

Quando pronunciò quella parola, però, i ricordi mi invasero. Tornai con la mente ad un giorno di sei anni prima.

“Per gli umani che hanno utilizzato il quaderno della morte, non esiste né paradiso, né inferno.”

E poi, ripensai alla mia risposta. La verità era che non esistevano affatto paradiso e inferno. Erano solo illusioni per gli esseri umani che non volevano credere alla fine della vita. Era solo una speranza vana,  per chi non si accontentava di vivere inutilmente.

La realtà, era un’altra.

Prima o poi, tutti gli esseri umani muoiono.

Dopo la morte, non vi è nulla.

Iniziai a gridare.

Non volevo morire! Non potevo!

Kira doveva esistere ancora. L’umanità aveva bisogno di me.

Ma poi sentii un bruciore enorme al petto. Nello stesso momento, smisi di percepire qualunque cosa.

Ebbi solo l’enorme, inesorabile certezza della morte che calava su di me.

In quel momento, mi chiesi cosa sarebbe successo se, sei anni prima, non avessi raccolto quel quaderno.

Non ebbi il tempo di darmi una risposta.

Il nulla eterno mi prese con sé.

Tremavo. Tremavo e piangevo.

Il ricordo della mia morte, ancora vivo, potevo percepirlo sulla pelle.

Quel freddo. Quel buio. Capii perché avessi così tanta paura del gelo e dell’oscurità. Era qualcosa di indescrivibile, di orribile.

- Light Yagami… -

Quando sentii quella voce, anche l’ultimo ricordo si fece spazio in me. Erano i miei ultimi pensieri.

Alla fine, solo una speranza.

Io voglio vivere!

Avevo espresso un desiderio. Avevo sfidato Il Nulla. Gli avevo chiesto di risparmiarmi.

- Chi ha lasciato una traccia nel mondo, - disse la voce, che riconobbi come quella di Ryuk, - e desidera con tutto se stesso tornare a vivere, può avere una seconda possibilità. -

Non riuscii a sorprendermi. Il dolore del ricordo, la morsa del gelo, mi impedivano una qualsiasi reazione che non fosse la paura.

- Kira ha cambiato radicalmente il mondo.

Per questo, ora, puoi avere una seconda possibilità di vincere. –

La voce si spense.

Chiusi gli occhi e mi abbandonai all’oblio della mente.

In fondo, sarei dovuto morire già una volta. Ora, volevo solo smettere di soffrire.

- Light! Light! -

Dal mio stato di semicoscienza, riuscii a sentire due braccia avvolgermi e trascinarmi. Non capivo se il mio corpo fosse immerso nell’acqua, o se il freddo che sentivo fosse l’aria gelida della notte. L’unica cosa sicura era che vivevo ancora.

Percepii due mani spingere sul mio petto. Tossii, sputai l’acqua.

Sotto di me, potevo sentire l’erba solleticarmi le gambe, le gocce d’acqua scendere lungo la linea della mia schiena.

- Light! Ti prego, apri gli occhi! -

Cerca di farlo, perché avevo riconosciuto quella voce.

Tornai a vedere sfocato, i contorni della figura davanti a me erano indistinti. Ma lo identificai comunque.

Scattai a sedere, trovando da una parte ignota di me una forza spaventosa. Afferrai le sue spalle e lo gettai a terra, con la schiena sull’erba. Mi guardò un attimo, sorpreso.

Nella mia mente si accavallarono i ricordi.

Mihael. Ryuzaki.

Mi rividi nel letto, mentre lo guardavo seduto in quella strana posizione, a guadare fuori dalla finestra. Lo vidi sorridere, una delle rare volte in cui lo faceva. Mi rividi insieme a lui, seduto sulla riva di quello stesso lago, solo due giorni prima.

E poi rividi Ryuzaki. Lo vidi cercare d’incastrarmi, all’università. Lo vidi sorseggiare il suo tè nel Quartier Generale, tranquillamente.

Lo vidi accusarmi e rinchiudermi in cella per quaranta giorni. Lo vidi, mentre giocavamo a tennis, teso nella concentrazione.

In ogni caso, aveva sempre quell’aria innocente e distratta. Quella sua strana purezza.

E infine lo vidi mentre moriva, accasciandosi al suolo.

Sei anni dopo, a causa del suo erede, ero morto anch’io.

Una rabbia assurda s’impossessò di me.

Ryuzaki aveva la colpa della mia sconfitta, della morte di Kira. Della fine di quel mondo di giustizia che avevo progettato.

Presi il coltello che avevo portato con me dalla tasca dei pantaloni e lo puntai alla sua gola.

Il tempo sembrò fermarsi. Ansimavo, per lo sforzo di respirare coi polmoni pieni d’acqua, stremato. Lui mi fissava stupito.

Nei suoi occhi, rividi la vitalità e la purezza di quelli di Ryuzaki.

Mentre gli premevo il coltello sulla giugulare, inaspettatamente, sorrise.

- Se vuoi uccidermi… - sussurrò, - Almeno prima stammi a sentire. -

La sua voce era bassa e roca. Sembrava stanco e, notai solo in quel momento, era fradicio.

- Ryuzaki… - mormorai, stringendo le labbra, pronunciando il suo nome senza motivo.

Ma lui scosse la testa. – No. – affermò. – Mihael. –

Si prese un attimo di silenzio, respirò.

- Ho ricordato tutto, sai, Light? Ora so esattamente chi ero io e chi eri tu.

Io ero Elle, non è così? E ho sempre sospettato che tu fossi Kira, Light Yagami. –

Sorrise ancora, come in balia di vecchi e sereni ricordi. Non era affatto così.

- Ma ho fatto un errore. E mi è costato la vita. -

Lo guardai senza spostare il coltello dal suo collo. La rabbia di Light Yagami m’invadeva, assoluta.

Elle mi aveva sconfitto. Elle doveva morire. Di nuovo.

All’improvviso emise una risata flebile, gracchiante. Le lacrime scesero sulle sue guance.

- Che stupido, eh? – mormorò – Ho fatto di nuovo lo stesso errore. -

La mia voce venne fuori da sola. – Quale? – sussurrai.

- Quello di avvicinarmi a te… -

Ripensai agli ultimi giorni ed esitai. Mihael non era Ryuzaki, no? Mihael era un fratello, per me.

Ma era davvero lui il problema?

- Ascoltami, Nate… - ricominciò lui, facendo difficoltà a respirare, - Io sono stato Ryuzaki, sono stato Elle, nella mia vita precedente.

Ma ora… - aggiunse – Ora io sono solo Mihael. –

Con una mano tesa verso di me, lentamente, mi sfiorò una guancia.

- Io sono diverso da Ryuzaki. Ho fatto altre esperienze, ho vissuto una vita diversa. Io sono una persona diversa.

E anche tu… - mi guardò negli occhi, con intensità, - …puoi decidere chi essere.

Vuoi davvero tornare ad essere Kira, a perseguire i tuoi obbiettivi di giustizia? Vuoi realmente tornare a soffrire, a metterti contro di me, ad uccidere le persone come formiche? –

Mi fissò un attimo, tacendo. Non risposi. Aspettai solo che continuasse.

- Hai un’altra possibilità. – dichiarò, negli occhi la decisione che avevo visto solo in Ryuzaki, - Puoi decidere di restare qui con me, di ricominciare. Puoi avere una seconda possibilità…

Infondo… - sorrise, ma le lacrime ancora gli appannavano gli occhi neri, - …Abbiamo una partita a tennis da fare, no? –

Non risposi, ancora.

Ma, questa volta, piansi.

Lasciai che le lacrime mi scorressero libere sulle guance, che mi bagnassero i vestiti già fradici, che mi arrossassero gli occhi. Quella, era una prova del fatto che ero ancora vivo.

Io ero Light Yagami. Conservavo la sua essenza nella parte più profonda di me. Ma Light Yagami aveva fatto la sua vita, ora toccava a me. Avrei cercato di fare qualcosa di meglio. Infondo, ero la sua evoluzione.

Ero il suo pentimento e il suo mezzo di redenzione.

Buttai il coltello lontano da me e mi accasciai contro Mihael. Eppure, sapevo che avrei sempre serbato, per Ryuzaki, un affetto particolare. Erano i suoi occhi che cercavo in Mihael. Era la sua purezza, che speravo di trovare.

Ed ero sicuro che ce l’avrei fatta.

- Ryuzaki… - mormorai.

Non fece commenti sul nome. L’unico modo per evitare di fare gli stessi sbagli era quello di ricordare. A partire dai nostri nomi.

– Dimmi. –

- Dicevi sul serio quando mi hai considerato il tuo primo amico? – gli chiesi.

Lui rise, debolmente. – Certo. –

- Anch’io. – risposi, sereno.

Nella quiete che si venne a creare e che, compresi finalmente, non era solo quella di Mihael, ma soprattutto quella che circondava Ryuzaki, ripensai alla verità che mi aveva rivelato Ryuk e che avevo sempre saputo.

Dopo la morte, non vi è nulla, mi dissi.

Perché il resto, ce lo costruiamo noi.

 

Fine

 

E questo è quanto!

Grazie per avermi seguita fin qui! XD

Se vi è piaciuta e anche se vi ha fatto schifo, lasciate un commentino, ok?

Grazie ancora e alla prossima!

 

Aki

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