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Lista capitoli: Capitolo 1: *** Prologo *** Capitolo 2: *** Rebirth (Rinascita) *** Capitolo 3: *** Life and Memories (Vita e Memorie) *** Capitolo 4: *** Possibilities (Possibilità) *** Capitolo 5: *** Return (Ritorno) *** Capitolo 6: *** To Know The Truth (Sapere la verità) *** Capitolo 7: *** Who I Am (Quello Che Sono) ***
Per favore, lasciatemi
stare. Non sono ancora pronto per andarmene. Ho solo ventitré anni, sono
giovane.
Vi prego, Kira… Kira non
può scomparire… Per il bene dell’umanità, vi prego lasciatemi vivere… Costruirò
un mondo migliore, per tutti. I deboli non saranno più oppressi, la giustizia
trionferà.
Un dolore opprimente alla cassa toracica mi schiaccia, ma
per quanto io cerchi di aprire gli occhi, quello che mi trovo davanti non è
altro che il buio totale.
E freddo. Fa tanto freddo.
La paura s’impossessa di
ogni mia piccola parte.
Non voglio scomparire. Per
favore, non voglio.
Io…!
Il buio mi avvolge, mi
graffia. Sento il mio corpo ribellarsi a me. Sento che vuole finirla, che
desidera andarsene. Il buio lo accontenta, lo stritola in una morsa eterna.
Eterna.
Come l’oscurità che mi
circonda. Sarà quello che vedrò per l’eternità.
La prima cosa che vidi fu
una luce strana, pallida.
Non riuscii a capire dove
mi trovassi. Non ricordavo neanche il mio nome.
Vedevo tutto sfocato. Ma
intorno a me potevo identificare delle pareti color pesca e dei quadri che
immortalavano paesaggi costieri e orizzonti azzurri. Di fronte a tutto quel
colore, a quella luce, per qualche strano motivo mi sentii bene.
Cercai di aprire di più
gli occhi, per mettere a fuoco meglio gli oggetti. Ma lo sforzo mi generò una
fitta acuta alla fronte. Lanciai un gemito roco, soffocato.
- Oh! Sei sveglio? -
Socchiudendo le palpebre,
guardai al di là dei miei piedi avvolti nelle coperte, una figura accovacciata
al fondo del letto.
Era un ragazzino che
doveva avere pressoché quindici anni. Era magro, spigoloso in un certo senso,
con i capelli neri corti e spettinati, composti da una frangetta che gli
ricadeva sugli occhi grandi.
Neri.
Quel nero mi mise i
brividi, come se potesse ingoiarmi da un momento all’altro.
Il ragazzino fraintese la
mia reazione.
- Hai freddo? – mi chiese.
Il suo tono era innocente,
aveva una purezza anomala per la sua età. Mi squadrò interrogativo e mi
affrettai a scuotere la testa.
- Ah… - sussurrò.
Restò a fissarmi dalla sua
postura strana ai miei piedi, con le ginocchia davanti a sé, allacciate dalle
braccia. Nei suoi occhi potevo vedere una luce particolare, una scintilla
d’intelligenza che non avrei mai potuto ignorare.
Fu un attimo intenso di
armonia; una specie di parentesi nel tempo e nello spazio, che il futuro non
avrebbe contemplato.
- Chi sei? – domandai,
alla fine.
Lui sorrise, muovendo
appena le labbra.
- Mihael Kheel. – rispose
– Ma mi chiamano anche Mike. -
Rimase un secondo
soprappensiero. – E tu? –
La domanda mi sorprese. Un
po’ perché l’espressione del suo viso sembrava lasciar intendere che già
sapesse tutto, un po’ perché non sapevo che rispondere.
- Io… - bisbigliai – Non
lo so. -
Spalancò gli occhi e la
cosa mi mise in agitazione. Non pensavo che qualcosa avrebbe potuto sorprendere
quel ragazzino. M’immobilizzai mentre lui tornava a sfoggiare la solita
espressione neutra.
- Non lo sai, eh? -
Sembrò riflettere sulle
parole da scegliere.
- Non sai nemmeno la tua
età? – domandò.
Negai. Non ricordavo
proprio nulla.
- Beh… - enunciò –
Guardandoti potrei dire che hai dieci anni, circa. –
Non sapevo cosa
rispondere. Continuai a fissarlo, sperando che mi desse altre risposte e mi
permettesse di conoscere meglio me stesso.
Ma, quando stava per
parlare, la porta si aprì.
Ne venne fuori una donna
sulla trentina, dallo sguardo dolce color miele e le labbra carnose su un viso
dai lineamenti morbidi. Aveva un fisico bilanciato e mani sottili.
- Mike! – esclamò – Dovevi
dirmi che si era svegliato! –
Il ragazzino si alzò dal
letto e si piazzò di fianco a me, in piedi.
- Scusa, Deborah. –
rispose – Ha appena aperto gli occhi. -
La donna mi venne
incontro, con un sorriso equilibrato sul viso, come se avesse paura di
spaventarmi. Si sedette all’altezza dei miei fianchi, e sfiorò le coperte nel
punto in cui c’era la mia mano.
- Allora, come ti senti,
Nate? -
La fissai confuso,
aggrottando le sopracciglia.
- Nate? – sussurrai
appena.
- Sì – mormorò,
accompagnando le parole con un movimento del capo – E’ il tuo nome. Non te ne
ricordi? -
Scossi la testa, come
avevo fatto prima con Mihael.
- Oh… - sospirò – Forse
hai perso la memoria nella caduta. -
La mia espressione non
mutò. Ma rimasi in silenzio, perché le domande erano troppe. Continuai a
guardare la donna che stava seduta accanto a me, sperando che mi raccontasse
ancora qualcosa.
Sembrò capire, perché si
alzò, prese una sedia appoggiata al muro in fondo alla stanza e la posizionò
vicino al letto, sedendoci sopra.
- Vuoi che ti dica quello
che so di te? – chiese, educata. – Forse in questo modo potresti ricordare… -
Annuii. La voce ancora
faticava ad uscire ed era roca e spenta.
La donna prese un respiro
e si preparò ad iniziare. Con la coda dell’occhio vidi Mihael, dalla parte
opposta del letto, attendere, evidentemente interessato alla storia di cui io
non conoscevo nulla.
- Non so partire
dall’inizio della tua vita, se devo dirti la verità. – cominciò la donna – Ma
posso iniziare dai tuoi primi mesi di vita.
Innanzitutto il villaggio
in cui abitiamo è Loch. Siamo in alta Scozia, vicino ad uno dei laghi minori da
cui questo antico villaggio ha preso il nome. Sai dov’è la Scozia? –
Riflettei un momento e,
incredibilmente, riuscii a ricordare la geografia del mondo, sommariamente.
Annuii, sorridendo.
La donna rispose al
sorriso e procedette col racconto.
- Vicino a questo
villaggio c’è un orfanotrofio, in cui vengono abbandonati ogni anno decine di
bambini. Sono bambini con anomalie fisiche o psichiche, con cui i genitori non
possono o non vogliono avere a che fare. Questi bambini crescono grazie
all’aiuto dei tutori, ma ad un certo punto della loro giovinezza, che può
andare dai dieci ai quindici anni, essi scompaiono.
Non si sa perché e spesso
non vengono più trovati, ma succede a tutti. Prima o poi, spariscono e non
lasciano più traccia. –
S’interruppe un momento,
soppesando la mia espressione. Ma io ero immobile e la fissavo curioso.
- Tu sei stato abbandonato
all’età di sei mesi. Ti lasciarono sulla porta dell’orfanotrofio in un giorno
di novembre di dieci anni fa. Sulla cesta in cui eri stato messo, c’era un
piccolo foglio. Vi erano scritte poche parole: Nate River – 6 mesi – soffre
di attacchi di disperazione improvvisi, in cui piange come un adulto e chiede
perdono – aiutatelo.
L’orfanotrofio ti prese.
In effetti soffrivi di questi attacchi, ma riuscirono a calmarti pian piano e a
farti guarire. A tre anni non eri più malato.
Sei vissuto
all’orfanotrofio fino a poche settimane fa. Hai compiuto dieci anni il mese
scorso. Una settimana fa i responsabili dell’orfanotrofio hanno organizzato una
passeggiata fino a questo villaggio. Si tratta di un percorso un po’
pericoloso, con sentieri che si inerpicano per i dirupi che proteggono il
villaggio. Mentre attraversavate il passaggio più difficile, a bordo di una
scarpata che da sul lago, tu hai avuto una specie di mancamento. –
S’interruppe ancora e mi
lanciò un’occhiata. Il suo viso dolce era attraversato dalla tristezza e dal
timore. Io la fissavo calmo: anche sforzandomi, non riuscivo a ricordare nulla.
Lei sembrò rasserenarsi un poco.
- La tua tutrice – riprese
– ti ha visto spalancare gli occhi e aprire le braccia. Hai sussurrato
qualcosa, poi sei caduto. Non sono riusciti ad afferrarti e sei precipitato nel
lago.
Ti hanno cercato per un
giorno intero, senza trovarti. Lo stesso giorno, sei apparso alla porta di casa
mia, fradicio e congelato, svenuto.
Ti ho preso e ti ho messo
nell’unico letto ancora disponibile. Ho cercato in giro informazioni e le ho
trovate dalla tua tutrice che, con i bambini, era appena giunta al villaggio.
Ha capito subito che il ragazzino eri tu. E’ venuta a trovarti ieri, ma mi ha
dato il permesso di tenerti qui. Hai dormito per una settimana. –
Tacque.
Continuai a guardare verso
di lei per un momento, sorpassandola con gli occhi, puntando ad un momento
indefinito di una settimana addietro, che non riuscivo minimamente a ricordare.
- Non mi ricordo. –
mormorai.
Lei sospirò, ma sorrise.
- Non fa niente, Nate. Ora
non interessa. Quello che conta è che tu sia vivo. L’unica cosa che devo
chiederti è se desideri rimanere con noi. -
Indicò Mihael, che si
appoggiava distrattamente al letto, dalla parte opposta, guadandomi
interessato. Pensai alla vita che avrei potuto fare con loro, ma non riuscii ad
inquadrarla: non sapevo assolutamente cosa volesse dire vivere.
Ma era l’unica possibilità
che avessi: non volevo tornare all’orfanotrofio.
- Sì. -
La donna sorrise.
- Sono felice. - disse, e
sembrava sincera – Io sono Deborah. E lui è Mihael. -
Sorrise ancora e si alzò
dal letto. – Ora risposa… -
Fece segno a Mihael di seguirla,
poi uscì insieme a lui dalla stanza.
Prima che se ne andasse,
sussurrò ancora: - Benvenuto, Nate. – e chiuse la porta.
Rimasi solo a guardare il
soffitto, che finalmente distinguevo bene. Il color pesca mi instaurava un
senso di pace che mi rilassava. Chiusi gli occhi e cercai, per l’ennesima
volta, di riportare alla mente un qualunque ricordo.
Buio. Era solo buio e nero
il mio passato.
Quella parola, così come
era stato per il colore degli occhi di Mihael, mi mandò nel panico.
Improvvisamente, l’oscurità accogliente che potevo scorgere dietro le palpebre,
mi apparve opprimente e ostile.
Spalancai gli occhi e
assaporai la luce del sole che entrava dalla finestra alla mia sinistra.
Tutta quella luminosità,
per un motivo a me sconosciuto, mi riportò alla mente il viso di Mihael,
neutro, placido come la bonaccia. Un viso per qualche ragione innocente, ma
allo stesso tempo dall’intelligenza palpabile. Mi ritrovai ad osservarlo, a
perdermi in quegli occhi di un nero incredibile.
Non so quanto tempo passò,
ma poi la porta si aprì.
Era quasi calato il buio e
la luce morente illuminò stanca il volto che io stavo attentamente osservando
nei miei pensieri.
- Nate? – mormorò – Sei
sveglio? -
- Sì. – replicai, con la
mia voce spenta, malata.
Entrò nella stanza
lentamente, senza fare alcun rumore. Prese la sedia che era tornata al fondo
della stanza e la mise davanti alla finestra. Ci si sedette sopra, in quella
sua strana posizione, con le ginocchia davanti a lui, quasi come una barriera.
Rimase in silenzio a
contemplare i raggi caldi del sole. Quelli, indifferenti, disegnavano delle
ferite immaginarie sul suo volto pallido, con strisce di luce che andavano
dagli occhi ai capelli, in orizzontale.
Non parlò. Non disse
nulla.
Alla fine la luce sparì e
le ferite sul suo viso si rimarginarono.
- Sei come me? – chiesi,
senza capire perché avessi fatto quella domanda.
Non si girò a guardarmi.
Passarono alcuni secondi prima che mi rispondesse.
- Sì. – mormorò.
Non capii a cosa si
riferisse. Le parole mi scivolarono addosso: forse non voleva dirmi nulla.
Eppure continuò.
- Di notte… - bisbigliò,
tanto che dovetti tendere le orecchie per sentire, - …il buio mi fa paura. -
Quelle parole mi
sorpresero. Possibile che capisse cosa provavo io a chiudere gli occhi?
Finalmente, si voltò verso
di me.
- Ma non è dell’oscurità
che ho paura… -
Lo fissai senza capire,
questa volta. Forse mi ero sbagliato a pensare che provasse le mie sensazioni.
- Io ho paura della morte.
-
Lo disse così,
pacatamente. Ma percepii comunque il suo turbamento.
Capitolo 3 *** Life and Memories (Vita e Memorie) ***
Over The Mu
Grazie MILLE a:
Matta_Mattuz (per la splendida e immediata recensione, cinque minuti
dopo che avevo postato)
BlackMoclips
SakuraSsj
cicoria
che
hanno commentato! XD
E a:
Matta_Mattuz
BlackMoclips
ila_sabaku
che hanno
messo questo mio parto nei loro preferiti! XD
Ed
eccomi di nuovo qui, con questo secondo capitolo.
In
questo passaggio mi sono dedicata anima e corpo al mio figlio preferito,
Mihael, caratterizzandolo e donandogli quanto più potessi l’anima del mio adorato
Elle.
Fatemi
sapere se vi è piaciuto e cosa invece magari non torna!
Buona
lettura…
Over
The Mu
- Oltre
Il Nulla -
Prima o poi, tutti gli esseri umani muoiono.
Dopo la morte, non vi è nulla.
II. Life and Memories (Vita e Memorie)
Per tutta la sera, ripensai alle parole di Mihael.
Paura della morte. Dopo una breve riflessione, avevo
capito che era esattamente quello che provavo anch’io. Non era solo paura del
buio. Era il terrore di rimanere intrappolato nelle tenebre per l’eternità,
essere avvolti dall’oscurità e rimanervi per sempre.
Mi chiesi perché soffrissi di una paura del genere. Non
era normale per un bambino di dieci anni avere paura di morire.
Forse nel passato che non ricordavo ero stato un ragazzino
inquieto e sensibile, che si poneva domande troppo grosse per avere una
risposta soddisfacente e completa.
Scacciai dalla mente quei pensieri, ma non ci riuscii del
tutto.
Quando mi addormentai, era passato molto tempo.
Mi svegliai alle prime luci dell’alba. Aprii gli occhi con
il viso scaldato dai raggi del sole, che invadevano anche i miei sogni,
popolati da precipizi, laghi, montagne e ragazzini coi capelli neri.
Spostai l’attenzione sulla sedia nella stanza e notai che
era ancora davanti alla finestra. Sopra era seduto Mihael, lo sguardo lontano e
i capelli ancora davanti agli occhi scuri. Immobile, totalmente, sembrava un
uomo sorpreso e pietrificato dal sole nascente.
Cercai di non fare rumore mentre sbadigliavo contro la mia
volontà e restai a fissarlo, incantato dalla sua figura sottile.
Ma mi sentì e si girò di scatto verso di me, interrompendo
la quiete silenziosa dell’alba.
- Nate… - sussurrò.
- Ciao, Mihael. – risposi, con la voce roca e impastata
dal sonno.
Mi stirai, ormai libero di muovermi e cercai di tirarmi in
piedi. Non fu un’impresa facile: sembrava che il lungo tempo di immobilità
avesse danneggiato i miei muscoli.
Mugolai sottovoce per lo sforzo che dovevo fare. Ma alla
fine riuscii a mettermi seduto con la schiena appoggiata al muro dietro di me.
Sospirai rilassato, poi tornai a guardare Mihael, che aveva osservato
tranquillamente i miei movimenti. Ora era sceso dalla sedia e in piedi sembrava
molto alto: il giorno prima non lo avevo notato.
- Riesci ad alzarti? – mi chiese.
La sua voce atona mi infastidì: mi sentivo trattato come
un estraneo. E anche se non avevo motivo di sentirmi uno di famiglia, la cosa
non mi piacque molto.
- Spero di sì… - risposi, con una smorfia.
Senza preavviso, mi si avvicinò e mi prese con un braccio
dietro la schiena, tentando di sollevarmi. Ci riuscì e, quasi senza difficoltà,
sfruttando anche un po’ della mia energia, dopo un attimo ero in piedi di
fianco al letto.
Mihael continuava a sorreggermi, come se potessi cadere da
un momento all’altro. E, considerando la mia forza, non potevo essere certo di
affermare il contrario.
Parve leggere i miei pensieri, perché mi fissò un attimo
in più del solito.
- Ce la fai a stare in piedi da solo? – chiese, testando
un’altra volta le mie capacità.
Mi morsi un labbro e poi cercai di staccarmi da lui.
Incredibilmente le mie gambe non cedettero sotto il mio peso e riuscii a fare
qualche passo senza bisogno dell’aiuto del ragazzino.
- Bene. – fu il suo commento – Ora vieni, ti ho preparato
la colazione. -
- Oh… -
Mi aprì la porta, lasciandomi passare per primo, forse per
controllare che non cadessi. Mi seguì subito e mi guidò attraverso il corridoio
in cui eravamo, fino alla cucina. Le pareti continuavano a sfoggiare vanitose
il loro color pesca, ma i quadri cambiavano: a volte erano campagne verdeggianti,
altre fiordi immensi che svettavano verso il cielo in ipotetica ricerca di
salvezza.
La cucina era piccola, ma calda e accogliente. Al centro
vi era un tavolo coperto da una tovaglia di stoffa a fiori, verde e gialla. La
osservai un secondo e mi sentii strano, senza sapere perché.
Sulla tavola erano poggiate una tazza bianca e un
cucchiaio di metallo; di fronte una scatola di cereali.
- E’ per me? -
Mi pentii subito della domanda. Doveva sembrare davvero
stupida.
Ma Mihael non fece commenti, né con lo sguardo, né con le
parole.
- Sì. – rispose semplicemente.
Mi sedetti al tavolo e lui mi versò nella tazza del latte
appena scaldato. Poi si accomodò sulla sedia di fronte alla mia, dall’altra
parte del tavolo e restò a guardarmi. Cominciai subito a mangiare, anche se il
suo sguardo mi metteva a disagio.
- Quindi non ricordi nulla… - iniziò, mentre addentavo un
biscotto.
Deglutii e scossi la testa.
- Dov’è Deborah? – domandai all’improvviso.
Lui mi fissò un secondo e una volta ancora pensai che stava
soppesando la sua risposta rispetto alle mie intenzioni.
- E’ andata al lavoro. Siamo da soli. -
- Dove lavora? -
La mia curiosità andava ben oltre le sue aspettative,
probabilmente, ma la sua espressione non mutò di una virgola. Continuò a
sfoggiare il suo equilibrio e la sua calma, senza scomporsi.
- Lavora in un negozio poco distante da qua. Fa la
commessa. Se vuoi possiamo andarci all’ora di pranzo, mentre fa un po’ di
pausa. -
Annuii distrattamente. All’improvviso avevo davvero voglia
di sapere qualcosa in più su di lui. Non sapevo perché mi interessasse così
tanto la sua vita, ma c’era qualcosa che mi diceva che quel ragazzino
somigliava molto a me.
- Mihael… - cominciai, studiando le sue espressioni – Tu
sei figlio di Deborah? -
La domanda forse stupì anche lui, ma di certo non lo diede
a vedere. Ci fu un attimo di silenzio, mentre mi guardava pacato.
- No. – rispose – Lei mi ha trovato, esattamente come te.
-
Senza che avessi bisogno di fargli altre domande, si mise
a raccontare. Forse aveva capito che volevo conoscere un po’ il suo passato, o
molto più probabilmente gli andava semplicemente di raccontarmelo.
- Mi trovarono davanti all’orfanotrofio all’età di tre
anni. Il motivo per cui mi avevano lasciato è che la mia intelligenza era troppo
sviluppata per la mia età. Mi presero senza pensarci. Non mi servì andare a
scuola, né avere lezioni private: tutti si stupirono di come io sapessi già
fare tutto. Conoscevo persino la storia: quando gli insegnanti cominciavano a
spiegarmi un argomento, la mia memoria si accendeva e lo completavo io stesso,
pur senza aver mai aperto un libro.
Non mi sono mai chiesto il perché. E’ una cosa irrazionale
che io conosca delle cosa senza averne mai sentito parlare. Ma non mi importa.
A dieci anni, era il 2004, un giorno, all’ora di pranzo,
non mi presentai in mensa. Al contrario di te, però, mi ricordo cosa successe:
è il mio unico ricordo di prima dei miei dieci anni.
Ero in camera mia e stavo bevendo qualcosa con un
cucchiaino, di questo sono sicuro. Forse del tè. Ad un tratto ho sentito un
male insopportabile al petto, come se mi stesse scoppiando. Mi sono messo a
tremare e sono caduto a terra.
Poi, non so come, ho aperto gli occhi davanti a questa
casa. Ho bussato e Deborah mi ha aperto, facendomi entrare. Non ricordavo nulla
del mio passato, se non quell’atroce dolore al petto, che non ho mai scordato.
Deborah mi ha adottato, dopo aver scoperto chi ero. Mi ha
preso con sé nonostante non avessi più memoria. Le devo molto. –
Tacque come aveva fatto la donna il giorno prima.
Non tentai di chiedergli altro, forse non voleva
condividere con me i cinque anni passati con Deborah in questa casa.
- Anche tu non ricordi nulla del tuo passato? – chiesi,
distratto.
- Esatto. -
Avevo finito la colazione, perciò mi alzai e posai le
stoviglie e la tazza nel lavandino. Mentre le sciacquavo ripensavo al racconto
di Mihael e all’accenno alla sua straordinaria intelligenza.
- Usciamo? -
Quella voce interruppe i miei pensieri e mi costrinse a
smettere di sprecare acqua rilavando per l’ennesima volta la stessa tazza. Misi
tutto a posto velocemente, poi annuii in direzione di Mihaele lo seguii mentre varcava la porta.
Passammo per l’ingresso, dove era posizionato un grande
specchio dalla cornice in legno. Mentre lo sorpassavo, diedi un’occhiata alla
mia figura: ero un bambino relativamente alto per la mia età, i capelli castano
chiaro e gli occhi di un’indefinibile sfumatura scura. Osservai i miei tratti
gentili per un momento, cercando di immaginare se fossi attraente oppure no, ma
non ne avevo la minima idea.
Mi affrettai a seguire Mihael fuori di casa e ci
ritrovammo subito in un vialetto acciottolato, che serpeggiava in salita tra
due file di casette alte e colorate.
Il panorama cambiò arrivati in cima alla stradina: di fronte,
in discesa, si apriva una piazza anonima e, oltre, una distesa di un
incredibile verde brillante, che si gettava dritta in un lago scuro, dalla
superficie piatta. Il sole lo sfiorava premuroso come un padre che veglia da
lontano sul proprio figlio.
Dall’altra parte della piccola piazza, Mihael si fermò di
fronte ad un negozio di alimentari abbastanza frequentato, che era
probabilmente l’unico della sua specie nel villaggio. S’intrufolò svelto
all’interno e si diresse deciso verso la cassa.
Dietro il bancone stava Deborah, che prendeva il resto da
un’anziana signora.
- Oh, Mike! – esclamò, sorridendo. – Nate! – aggiunse,
quando mi vide.
- Ciao, Deborah. – la salutammo entrambi, con un leggero
senso di distacco che lei sembrò non notare, o forse ignorò deliberatamente.
Mentre preparava la borsa per un uomo di mezz’età, ci
rivolse la sua attenzione.
- Allora, come mai siete venuti? -
Mihael rispose per entrambi. – Volevo far vedere a Nate il
villaggio. –
- Hai fatto bene… -
Poi fu assorbita da una cliente che non trovava quello che
stava cercando e non poté proseguire. Quando si liberò fu solo per dirci che
non poteva proprio stare qui a parlare con noi.
- Non importa – sussurrò Mihael, tranquillo, - Tanto
veniamo a mezzogiorno. -
Lei sorrise e si allontanò.
Mihael mi fece strada tra la gente nel negozio, per
raggiungere l’uscita, e sbucammo fuori in un attimo. Continuando per la strada,
cominciammo a scendere verso il lago.
Ad una certa distanza dalla piazza centrale, potei
osservare le alture verdeggianti che si stagliavano, come una mano protettrice,
dietro il paesino arroccato di Loch. In un certo senso, era come se questa mano
lo spingesse verso il lago, senza però farlo tuffare.
Arrivammo alla riva del lago in pochi minuti: le case si
diradarono a poco a poco, finché non ne rimase nessuna. Il sentiero si fece
sterrato e poi sparì.
Il lago era immenso e, anche se Deborah aveva detto che
era uno dei più piccoli, a me sembrava davvero enorme. Si estendeva a perdita
d’occhio, fino ad una collinetta del solito verde brillante che lo delimitava.
Giunto sulla riva, corsi verso l’acqua e la sfiorai con le
dita, sentendo il gelo percorrermi il braccio. Lo ritrassi subito,
impallidendo, con un terribile senso di dejà-vu in tutto il corpo. Quel
freddo così intenso mi fece paura e non capii perché.
- Che c’è? -
Mi voltai di scatto verso Mihael che, accostatosi a me
silenziosamente, si era seduto e aveva immerso i piedi nel lago.
- Niente – farfugliai, a disagio. Non potevo certo dirgli
che avevo paura di quel gelo.
Superando il timore, rimisi una mano nell’acqua e,
tentando di tenere a bada la mia insensata inquietudine, mi sedetti di fianco a
Mihael. Quello mi fissava senza far trasparire nulla e mi chiesi perché non si
stupisse del mio comportamento.
- Anche a me le prime volte dopo la perdita di memoria il
freddo faceva paura. -
Trasalii. Ma come aveva fatto a capire? E poi come poteva
anche lui provare la stessa cosa?
- E’ così – continuò, prendendo la mia espressione per
incredulità. – Non riuscivo a stare con un dito nell’acqua gelata per più di
qualche secondo, ma poi ci ho fatto l’abitudine… -
Incoraggiato dalle sue parole, immersi i piedi nell’acqua.
All’inizio provai quel senso di terrore, ma, cercando di ignorarlo, questo si
attenuò. Alla fine sbattevo i piedi assaporando la freschezza del lago senza
problemi.
Sul viso di Mihael mi sembrò di scorgere quasi un sorriso.
- Come mai… – cominciai, interrompendomi alla ricerca
delle parole.
- …conosco le tue sensazioni? – concluse lui per me.
Annuii, cercando di nascondere la sorpresa alle sue
parole.
Lui sospirò, poi guardò il cielo, mentre parlava.
- Le ho provate anch’io, subito dopo aver dimenticato
tutto. E poi credo che ci sia un motivo per cui abbiamo perso entrambi la
memoria, alla stessa età. Penso che alla radice di questo ci sia qualcosa che
la razionale mente umana non può capire. -
Corrugai le sopracciglia, pensando alle sue parole. –
Quindi… Qualcosa di sovrannaturale? –
Per la prima volta, lo vidi sorridere. – Qualcosa del genere…
- rispose – Penso che ci sia il 50% delle possibilità che questi avvenimenti
siano qualcosa di irrazionale e inspiegabile scientificamente. –
Non replicai, ma soppesai la sua frase. Possibile che le
nostre perdite di memoria, le nostre sensazioni identiche fossero qualcosa
di…magico? Non potevo crederci. Eppure
come spiegare la nostra affinità?
Cercando di distrarmi, fissai un punto alla mia destra,
nel prato verde di muschio che circondava il lago blu di gennaio. Non capivo
come in una stagione così fredda potesse esserci così tanta vegetazione.
Ad un tratto un movimento in lontananza attirò la mia
attenzione. Guardando meglio, notai una strana figura che veniva verso di noi.
Sembrava un vecchio, ma man mano che si avvicinava potei identificarlo meglio e
il sangue mi si gelò. Era un mostro, una specie di assurdo essere grigio e
ricoperto da strani abiti e pendagli, con un orribile ghigno stampato in volto.
Gli occhi grandi e dalle iridi rosse mi fissavano intensamente.
Quando mi fu a pochi metri, si fermò.
- Light Yagami… - sussurrò, poi ridacchiò, come se avesse
scoperto una cosa divertente.
Mi girai verso Mihael, ma lui mi guardava interrogativo.
Quando tornai a girarmi dalla parte del mostro, quello non c’era più.
Nella mia mente, uno strano nome continuava a
tamburellare, ripescato da un abisso di oblio.
che ha
messo da poco la mia figlietta nei suoi preferiti!
Spero
commenterai! XD
E sono
arrivata al terzo capitolo!
Scusate
il ritardo… La scuola m’impegna non poco…
Spero
che la trama della storia cominci a piacervi! Il finale e tutto il resto sono
già scritti, perciò non rimarrà di sicuro inconclusa, ma nemmeno potrà cambiare
secondo i vostri consigli.
In
questo terzo capitolo, alla presenza di Mihael si oppone quella di Ryuk e,
nella mente di Nate, Light comincia a farsi vedere… Finalmente!
Ed ora
non mi resta che augurarvi buona lettura!
Over
The Mu
- Oltre
Il Nulla -
Prima o poi, tutti gli esseri umani muoiono.
Dopo la morte, non vi è nulla.
III. Possibilities (Possibilità)
Rimasi a fissare il punto in cui era sparito l’essere,
ancora per un momento, poi distolsi l’attenzione. Forse mi ero semplicemente
immaginato tutto. Ma quel volto dal ghigno orribile rimaneva impresso nella mia
mente e, per qualche strano motivo, non riuscivo a liberarmene.
Mihael mi guardava curioso, senza capire perché mettessi
tanta concentrazione per osservare il paesaggio incantevole del lago: era
evidente che non aveva visto il mostro.
Mi sentii tremendamente stupido. Oltre a quelle assurde
sensazioni di dejà-vu, ora mi mettevo anche ad avere le visioni.
- Stai bene? -
Tornai ad incrociare lo sguardo di Mihael, che attendeva
una mia risposta.
- Certo… - replicai, cercando di esternare una specie di
sorriso.
Lui alzò le spalle, liquidando la questione, con mio
sollievo.
Ricadde quel silenzio di quiete che la presenza di Mihael
ispirava sempre e mi godei quella sensazione stupenda, sperando che non finisse
mai. Dal canto suo, il ragazzino sembrava non accorgersi della pace che
infondeva e se ne stava semplicemente accovacciato come suo solito,
abbracciando le gambe, fissando un punto indefinito dell’orizzonte.
Mi sembrò quasi che cercasse di scoprire qualcosa del suo
futuro. Ma probabilmente non era affatto così, meditai. Era molto più facile
che tentasse di far riaffiorare il suo passato.
- Vorresti conoscere davvero il tuo passato? -
La sua domanda m’incuriosì, perché non ne capivo la
motivazione.
- Penso di sì. – risposi, quieto, - Tu no? -
- Io credo che ignorare il proprio passato consenta una
libertà enorme. Perdere la memoria significa ricominciare a vivere, ad
imparare, a conoscere. Significa avere una seconda possibilità. – spiegò.
Riflettei un secondo e non riuscii ad essere in
disaccordo. I ragionamenti di Mihael erano sempre così logici, che cercare di
andarci contro sarebbe stato come tentare di spegnere il sole.
- Una seconda possibilità… - mormorai, saggiando sulla
lingua la dolcezza e il valore di quelle parole.
Avere una seconda possibilità di nascere e vivere. Una chance
ulteriore di crescere e comprendere la vita. Forse, un modo di provare a
migliorarsi, di smettere di fare errori.
- Andiamo. – disse ad un tratto – E’ tardi. -
Alzai lo sguardo, che avevo tenuto puntato sui piedi, e mi
accorsi che il sole aveva compiuto metà del viaggio e ora picchiava sulle
nostre teste, scaldandoci.
Annuii e mi affrettai a seguire Mihael che si era già
alzato e aveva cominciato a risalire, verso il sentiero. Non ci mettemmo molto
a raggiungerlo: qualche minuto, poi lo sterrato ci portò su fino all’asfalto e
entro una mezzora eravamo tornati al limitare del villaggio.
Le strade erano praticamente deserte, così come lo erano
state la mattina: la gente, dopo aver lavorato, si ritirava nelle case per
pranzare e riposarsi.
Attraversammo vicoli stretti e strade lastricate, fino al
vialetto acciottolato in cui abitava Deborah. Mihael prese dalla tasca le
chiavi di casa che portava con sé e aprì la porta. Il color pesca mi rilassò ed
entrai senza accorgermene, sorpassando Mihael.
Quello, sulla soglia, non accennava a muoversi.
- Io vado da Deborah. – disse, quando mi voltai verso di
lui, - Le avevo detto che saremmo passati. In cucina trovi della pasta, se vuoi
farti pranzo subito, altrimenti torno presto e faccio io. -
Gli sorrisi e annuii, assicurandogli che me la sarei
cavata. Lui non rispose, chiuse la porta e se ne andò.
Restare solo in quella casa mi fece uno strano effetto.
Era come se fossi vissuto lì da sempre, perché infondo era l’unico edificio che
potessi chiamare casa scolpito nella mia memoria. Il resto l’avevo sepolto nel
passato dimenticato.
Cercando di orientarmi (e non fu difficile, perché la casa
era piccola), mi mossi alla ricerca della stanza da letto che avevo occupato
evidentemente per una settimana. La trovai subito, in fondo al corridoio, di
fronte ad altre due che dovevano essere quelle occupate da Deborah e Mihael. Vi
entrai con un certo timore, come se all’interno potessi trovare il caos
infernale.
Ma era tutto esattamente come lo ricordavo: il letto
candito, le pareti color pesca e l’armadio di legno, i quadri dai paesaggi
marittimi e la sedia davanti alla finestra. Solo, mancava Mihael seduto sopra.
Quell’assenza era palpabile: senza di lui, l’aria aveva un altro sapore, la
luce un altro aspetto.
Ignorando i morsi della fame che cominciavano a farsi
sentire, mi sedetti sulla sedia e cercai di guardare fuori come faceva Mihael.
Ma ero sicuro di non riuscirci: nessuno sarebbe stato capace di assumere la sua
espressione quieta, la sua posizione così particolare e il suo sguardo lontano.
Sorrisi tra me e me, ripensando al suo passato: era
talmente evidente che fosse troppo intelligente rispetto alla sua età! Non ci
sarebbe stato bisogno che me lo dicesse: lo avrei comunque capito io stesso.
Mentre riflettevo, osservavo con curiosità la stanza.
Anche se la conoscevo, c’era una strana atmosfera di novità: sentivo che non
avevo ancora scoperto tutti i suoi segreti. Ero certo che ne nascondesse.
Svogliatamente, mi accomodai meglio sulla sedia, con le
braccia dietro la nuca e i gomiti aperti. Mi sentii sereno: forse avevo trovato
una casa, qualcosa che sarebbe stato mio per sempre.
- Che strana cosa… -
Mi voltai di scatto verso il letto, da cui avevo distolto
lo sguardo un attimo prima. Seduto sopra le coperte, ora, stava il mostro che
avevo visto al lago, con quel perenne ghigno che sembrava deridere i miei
gesti.
Saltai in piedi, facendo cadere la sedia. La pace parve spezzarsi
proprio quando questa si rovesciò.
Ryuk.
Ryuk. Ryuk.
Mentre fissavo con gli occhi spalancati quell’essere
comodamente appoggiato al mio letto, la mia testa ripeteva incessantemente quel
nome assurdo. Non sapevo da dove venisse, ma rimbombava nel mio cervello come
una pallina da golf impazzita che rimbalzasse sulle pareti di una stanza. Mi
afferrai le tempie, premendoci le mani sopra, tentando di far cessare l’eco
insopportabile della parola.
- Ryuk… - sussurrai.
Non so perché lo feci. Forse perché speravo che,
gettandolo fuori, quel nome avrebbe smesso di tormentarmi.
E in effetti lo fece. L’eco si placò all’istante. Feci un
profondo respiro, cercando di calmarmi.
- Uhm… - mormorò l’essere, - Ti ricordi? -
Non capii le sue parole. Non risposi. Ma forse si riferiva
alla sua apparizione giù al lago.
- Eri… - tentai di dire, ma mi uscì solo una specie di
rantolo e rinunciai.
- Oh! – sghignazzò il mostro – E pensare che eri un
fenomeno con le parole… -
Ancora una volta non replicai. Non ne avevo la forza, ma
nemmeno avrei saputo che dire. Non capivo il significato delle sue frasi
enigmatiche, né le sue allusioni ad una nostra passata conoscenza.
Poi un’idea mi balenò alla mente, mentre lui giocherellava
con un anello dorato che portava al dito.
- Ci siamo già conosciuti? – chiesi.
Mi guardò sorridendo, ma non rispose. Era evidente che mi
avrebbe detto solo ciò che voleva. La cosa mi innervosì.
- Per favore – riprovai – Rispondimi. -
La mia frase lo divertì. Non capii perché, ma infondo non
capivo un sacco di altre cose.
- Chiedi anche per favore, eh? – ridacchiò. – Sembri
davvero cambiato… -
Si voltò verso di me, con gli occhi spalancati e rossi. Li
vidi ardere di una prospettiva futura che ero sicuro di ignorare. Mi si
avvicinò con lentezza e quando mi fu davanti sorrise.
- Ma sono sicuro che in realtà sei quello di prima. –
affermò.
Deglutii. Le sue parole e il suo viso mi mettevano addosso
un’inquietudine che aveva poco a che fare con la paura. Anche questa
sensazione, come quella provata al buio e al gelo del lago, era una specie di
tremendo dejà-vu. Questa volta però era diverso, era molto più intenso.
Per un attimo mi parve di ricordare un’altra stanza, un
altro anno, forse, e un altro paese. Ma ero sempre io, una volta ancora davanti
a questo mostro. Solo, mi sembrava di conoscerlo.
No, Ryuk. In effetti non sono affatto sconvolto.
La voce con cui quella frase venne pronunciata mi mise i
brividi. Era apparsa nella mia testa all’improvviso, insieme a quella strana
specie di ricordo che si era impossessato di me.
Ma tutto sparì in un attimo e mi ritrovai consciamente di
nuovo di fronte a quel mostro. Anche se ora mi sembrava di riconoscerlo.
La cosa mi fece paura, questa volta: possibile che
l’avessi incontrato, in passato? Forse prima di perdere la memoria?
Ma non era possibile: il ricordo che avevo di lui non
corrispondeva a i miei anni passati. Mi sembrava più lontano e, in un certo
senso, sentivo che non aveva niente a che fare con la vita che avevo
dimenticato.
In realtà, mi sembrò che non fosse nemmeno mio.
Ryuk ridacchiò. Avevo capito che era il suo nome, ormai.
Mi fissò come se potessi fare qualcosa si divertentissimo da un momento
all’altro. Pareva che tutto lo divertisse, come se vivesse per quello.
- Vedrai, Nate, - pronunciò il nome come se non mi
appartenesse e la cosa lo fece ridere – Ricorderai tutto, presto. -
Ridacchiò ancora, poi si allontanò. Raggiunse la finestra
e uscì fuori con un balzo. Appena fu a mezz’aria, un paio di enormi ali nere spuntarono
dalla sua schiena e si spalancarono, frenando la sua caduta.
Vidi il suo corpo stendersi e opporsi all’attrito
dell’aria, poi librarsi in cielo, sopra le teste dei passanti che, nel
viottolo, continuavano tranquillamente le loro attività.
Non potevano vederlo, così come era stato per Mihael? O
forse non l’avevano notato?
Senza sapermi rispondere, notai solo che era passata
mezz’ora da quando ero entrato in casa e che presto sarebbe tornato Mihael.
Dovevo prepararmi pranzo prima che arrivasse. Avrei potuto cucinare anche per
lui, magari.
Corsi in cucina, sperando che tardasse ancora un po’.
Attingendo da una parte della mia memoria che non era
andata perduta, feci cuocere un po’ di pasta, sperando che Mihael non volesse
altro e preparai il tavolo con quello che trovai nei cassetti.
Quando sentii la porta aprirsi, avevo appena preso la
pentola di pasta dal fuoco e la stavo mettendo in tavola. Mihael entrò in
cucina con passo lento, come al solito. Quando mi vide con la pentola in mano,
fui sicuro di scorgere una scintilla di sorpresa nei suoi occhi, ma la sua
espressione, naturalmente, non mutò.
- Hai cucinato? – chiese semplicemente.
- Sì. -
Posai la pentola sul tavolo e servii la pasta nei piatti.
Lui si sedette e, dopo aver visto che avevo iniziato a mangiare, mi imitò.
Restammo in silenzio, mentre finivamo in fretta quel semplice pranzo,
tranquillamente.
Ogni tanto, tornavo col pensiero all’incontro di pochi
minuti prima, ma cercavo sempre di scacciarlo dalla mente. Non volevo
arrovellarmi più di tanto sulle parole del mostro, perché sapevo che non avrei
risolto nulla senza ulteriori indizi.
- Sei strano. – disse. E non era un dubbio, ma una
constatazione. – E’ successo qualcosa? -
Deglutii l’ultimo boccone e negai, con un movimento del
capo. Non mi andava di raccontargli dei miei nuovi dejà-vu, né di quella
specie di ricordo che sembrava appartenere ad un’altra persona, e sicuramente
non di Ryuk.
Poi ripensai alle parole che Mihael aveva pronunciato
quella mattina, al lago. Qualcosa di irrazionale, di inspiegabile. In un
certo senso, anche la comparsa del mostro e di quel nuovo ricordo non erano
razionali. Come spiegare l’esistenza di un essere del genere?
- Tu credi davvero che la nostra situazione sia qualcosa
di sovrannaturale? – chiesi.
Mihael mi fissò un attimo. E ancora una volta capii che
stava decidendo come rispondere.
- C’è il 50% delle possibilità che lo sia, a mio parere. –
rispose, - Tutto qui. -
Sorrisi. Sembrava proprio che non volesse mai
sbilanciarsi, né dire qualcosa di sbagliato. Perché quella paura di commettere
errori? Sembrava una cosa quasi patologica: una forma di malattia psicologica
dell’insicurezza, o qualcosa de genere.
Ma mi pareva assurdo che uno come lui potesse commettere
un qualche genere di errore.
Finito di mangiare, presi i piatti di entrambi e li misi
nel lavandino, per lavarli. Mihael mi disse che sarebbe andato a lavorare un
po’ al negozio dove Deborah era commessa, come suo solito e che io, il giorno
dopo, avrei iniziato la scuola.
A suo parere, non ne avevo bisogno.
La sua affermazione mi stupì. Mi credeva così
intelligente? Forse quanto lui?
Mi sentivo lusingato, ma allo stesso tempo faticavo a
credere di poter essere alla sua altezza.
Ci avrei provato, questo era certo. Perché una strana
forma di orgoglio, nata da chissà quale parte di me, aveva cominciato a farsi
spazio e a reclamare il suo posto. Dovevo superare Mihael e batterlo, mi
diceva.
Ridacchiai a quella mia strana affermazione. Forse ero
nato per la competizione e la rivalità.
Dopo aver lavato i piatti e messo tutto a posto, tornai in
camera. Controllai che la finestra fosse chiusa e mi coricai sul letto: mi
sentivo ancora stanco (forse non ero ancora del tutto ristabilito), ma non
volevo sorprese.
Cercai di chiudere gli occhi, ma l’assenza di Mihael e
quel buio che mi ritrovavo a dover affrontare erano troppo intensi.
Ci rinunciai definitivamente già pochi minuti dopo. Mi
alzai dal letto e mi misi in piedi accanto alla finestra, fissando la parte
opposta della stanza. Appoggiata alla parete, seminascosta dal buio, c’era una
scrivania. Incredibilmente, non l’avevo notata fino ad ora. Come se in realtà
prima non ci fosse stata.
Mi avvicinai e la scrutai, perplesso. Sopra erano
appoggiati solo un quaderno con la copertina nera e una biro. Sul quaderno era
scritto il nome Nate River. Probabilmente era un regalo di Deborah
perché avrei iniziato la scuola il giorno dopo.
Mi sedetti alla scrivania sorridendo. Iniziare la scuola,
per qualche motivo, mi entusiasmava: era comunque una cosa nuova per me.
Con un gomito appoggiato al ripiano in legno, aprii il
quaderno.
In quel momento un dolore lancinante mi trafisse la
fronte. Portai le mani intorno alla testa, gemendo.
Ah! Gli ostaggi sono usciti!
Ci è appena giunta un’informazione! Dicono che il
sequestratore è deceduto all’interno dell’asilo!
Pare proprio che il colpevole sia morto!
Sul quaderno che tenevo stretto, la mia mano scrisse un
nome.
Kuro Otoharada.
Fine III
Spero che il finale abbia avuto l’effetto sperato…
Mi
spiace che solo una persona abbia commentato il terzo, dato che questa storia è
nei preferiti di cinque.
Spero
che abbiate il buon cuore di lasciare un commentino…
Finalmente,
in questo capitolo Nate comincerà il suo ritorno nel passato: pian piano si
accorgerà di quello che è realmente. E allora… Quale sarà la sua scelta?
Buona lettura!
Prima o poi, tutti gli esseri umani muoiono.
Dopo la morte, non vi è nulla.
IV. Return (Ritorno)
- Ah…! -
Ansimando, con gli occhi chiusi, cercai di impedire a
quella esplosione di parole sconosciute di entrarmi in testa. Ma sembravano
provenire proprio da lì.
Mentre stringevo con forza la testa tra le mani, alcune
lacrime mi scesero: il dolore alla fronte era insopportabile e il volume di
quelle immagini e suoni che mi assalivano era altissimo. Digrignai i denti,
rinunciando ad eliminare gli intrusi. Lentamente, provai ad ascoltare.
Incredibilmente, il volume si attenuò al mio consenso.
Pian piano, svanirono tutte le urla e tutte le immagini.
Sconvolto, provato dal dolore e dallo sforzo, mi accasciai
con il busto e la faccia sul piano della scrivania, voltato di lato. Accanto a
me, il quaderno che Deborah mi aveva regalato era aperto sulla prima pagina. Era
del tutto bianca, se non per quel nome minuscolo che vi avevo scritto: Kuro
Otoharada.
Mi chiesi perché la mia mano avesse tracciato quella
scritta. Non conoscevo nessuno che si chiamasse così. In realtà, conoscevo ben
poche persone e tutte vivevano in questa casa.
Presi nella mano tremante il quaderno e lo fissai,
confuso. Le immagini che mi erano scoppiate d’un tratto in testa non le avevo
riconosciute. C’era una stanza buia, forse la stessa della strana visione avuta
con Ryuk, e una televisione. Era in onda un telegiornale giapponese, di questo
ero sicuro, in cui stavano identificando il colpevole di un sequestro.
Forse era proprio lui: Kuro Otoharada.
Ma perché avrei dovuto segnarmelo sul foglio? L’avevo già
fatto nel mio passato?
No, non era possibile: non ero mai vissuto in Giappone,
per quanto sapessi. E, sicuramente, se vi ero stato, non sapevo ancora
scrivere.
Senza punti di riferimento, non potevo arrivare a nulla.
Stremato, mi coricai sul letto. Restai a guardare il
soffitto, chiedendomi se fosse possibile credere nella magia. O credere in
qualcosa di irrazionale, di sovrannaturale. Nel profondo, sapevo di crederci.
Forse, ero sicuro che esistesse qualcosa al di là della
materia visibile. Forse in passato ne ero venuto a conoscenza.
Sorrisi a quell’idea, ma il sorriso era più che altro una
smorfia.
All’improvviso qualcuno bussò alla porta.
Sobbalzai, sorpreso, gli occhi spalancati. Per un attimo
avevo visto Ryuk sorpassare la porta e venirmi incontro.
Mi riscossi quando una voce famigliare si fece sentire.
- Nate? -
La testa di Mihael spuntò davanti allo stipite, emergendo
alla luce del pomeriggio. Mi fissò un secondo, poi entrò nella stanza senza
fare rumore, come al solito. Andò a sedersi sulla sedia che occupava sempre e
si girò a guardarmi.
- Cosa c’è? – chiese.
Ancora una volta, non me la sentii di raccontargli le mie
visioni. Continuavo a sentirmi patetico.
- Niente. – risposi.
Non sembrò convincersi, ma Mihael non era invadente, né
curioso. Capiva quando non volevo parlargli e, semplicemente, ne prendeva atto:
si ritirava nel suo silenzio e nei suoi pensieri, senza aggiungere nulla.
Dentro di me, mi sentii male: forse se gli avessi spiegato
le cose, sarebbe stato meglio.
- Mihael… - provai.
Il suo sguardo non si spostò dal solito punto indefinito
al di là della finestra. Ma capii che mi aveva sentito. Passò solo un secondo
prima che rispondesse.
- Dimmi. – sussurrò.
Subito, mi chiesi cosa dovessi dirgli esattamente. Avrei
dovuto parlargli delle mie visioni-ricordo? O di Ryuk?
Propensi per la prima possibilità: non mi sentivo di
rivelare la presenza di un essere che solo io sembravo vedere.
- Io… - iniziai – Già questa mattina e poi poco fa, ho
avuto delle… - cercai la parola adatta - …visioni. -
Attesi la sua risposta, ma quella non venne. – Una specie
di ricordi che però non possono essere miei… -
Mi morsi un labbro. Pessima idea: ora mi sentivo davvero
ridicolo.
Ma Mihael non fece commenti, come quel giorno a colazione,
e gliene fui grato. Restò un momento soprappensiero, poi rispose.
- Come fai a dire che non possono essere tuoi ricordi? -
- Beh… - replicai - …ad esempio, il secondo apparteneva a
qualcuno vissuto in Giappone, ne sono certo. E io non posso essere vissuto in
Giappone dopo i sei mesi. Se anche fosse, non me ne ricorderei, no? Ero troppo
piccolo. -
Alzai lo sguardo sulla figura di Mihael e quello che vidi
mi lasciò di stucco. Si era irrigidito.
- Hai detto qualcuno vissuto in Giappone? -
Si girò verso di me, nel suo sguardo potevo intravedere
una strana agitazione. Annuii.
Forse cercò di recuperare del contegno, perché si mosse
nervosamente sulla sedia e si morse distrattamente un labbro. Ma cos’era che lo
rendeva così irrequieto?
- Anche io… - sussurrò, pianissimo, - …Anche io ho avuto
una specie di visione come la tua. Anche io ho riconosciuto il Giappone. -
Spalancai gli occhi. Le nostre visioni avevano una
relazione tra loro? Forse ci conoscevamo già prima di perdere la memoria?
Mihael sembrava essere arrivato alla mia stessa
conclusione. Mi fissò un secondo, prima di parlare.
- Se ci fossimo conosciuti già prima di perdere la
memoria, non sarebbe stato comunque in Giappone. Sia io che te siamo vissuti
qui in Scozia da quando eravamo piccolissimi. Non avremmo ormai ricordi della
nostra conoscenza in Giappone.
Questo vuol dire che, alla conclusione a cui sono giunto,
quelli non sono affatto i nostri ricordi. –
Riflettei un momento sulle sue parole, come sempre.
- Non sarebbero i nostri ricordi, quindi? Sì, è logico… -
Ci fu un attimo di silenzio. In quella quiete, si potevano
percepire le nostre menti lavorare, alla ricerca della soluzione.
Ad un tratto un’idea mi fulminò.
- Forse… - mormorai.
Scesi dal letto e cominciai a camminare per la stanza.
L’unica soluzione che poteva esserci, l’unica risposta al
dilemma era quella. Del resto, nel mio ricordo io sapevo già scrivere e, ora
che ci ripensavo attentamente, ero sicuro di conoscere bene il giapponese anche
in questo momento. Quindi, in Giappone, avrei dovuto essere una persona adulta,
o almeno un ragazzo.
Perciò, l’unica risposta…
Possibile? Possibile che esistesse un fenomeno del genere?
Per un momento, pensai alle mie idee. Al mio credere in
qualcosa di sovrannaturale.
Dopo la morte? Cosa pensavo ci fosse dopo la morte?
Forse il nulla. Ma, qualcosa mi diceva che non era
vero. Che c’era una differenza. Che c’era un’altra possibilità.
Se era così, quello che pensavo poteva essere la verità.
Mi voltai a guardare Mihael. Quello, dalla sedia, mi
scrutava corrucciato, cercando probabilmente di capire quello che avevo in
testa.
- Forse… - ripetei, - C’è una risposta. -
La sua espressione neutra non cambiò. Attese, quieto.
- I ricordi che ho devono essere quelli di una persona
adulta. Lo è anche per te? -
Lui annuì.
- Allora, l’unica risposta…
Una reincarnazione? –
In una delle rare volte, mi sorrise. – Esattamente ciò che
pensavo. – disse.
Risposi al sorriso con sincerità. Cominciavo a provare uno
strano affetto per questo ragazzino, come per un fratello. Vivevamo in
un’atmosfera di rivalità e competizione, ma ero sicuro che anche lui
ricambiasse i miei sentimenti.
Amicizia.
Perché Light… E’ il mio primo amico.
- Il mio primo amico… - sussurrai, come in ipnosi.
Non sapevo dove avessi trovato quella frase. In una
recondita parte di me?
Forse anche questa era una testimonianza dell’uomo di cui
ero reincarnazione. Ma la voce non era la sua.
- Come hai detto? – chiese Mihael.
- Niente. -
Qualunque cosa fosse stata la nostra perdita di memoria,
qualunque fenomeno ci fosse stato all’origine delle nostre stranezze, l’avremmo
affrontato. L’avremmo risolto. Insieme.
Sorrisi ancora tra me e me. Ero sicuro che, anche nella
mia vita passata, avessi una relazione particolare con Mihael. Lui mi guardava
curioso dalla sua sedia. Forse non capiva. Forse invece capiva fin troppo bene.
Lo osservai un momento mentre pensava e arrivai alla
conclusione che, certamente, doveva essere stato così intelligente già nella
sua vita precedente. Sempre che ci fosse stata, aggiunsi mentalmente.
- Puoi raccontarmi quello che hai visto? – chiese.
Acconsentii. Probabilmente era il modo migliore per
cercare di capire se quelle visioni fossero veramente appartenute ad una
persona già morta.
Gli spiegai tutto. Ma ancora una volta, lasciai fuori
Ryuk. Non lo consideravo fondamentale per le nostre ricerche. O almeno la mia
mente cercava di convincermi di questo. Mentre, in realtà, Ryuk era quello che
sembrava sapere più cose di questa storia ed ero solo io a non volerlo
coinvolgere. Non me la sentivo. Non ancora.
Quando ebbi finito, lui restò un momento in silenzio.
- Un quaderno si cui hai scritto il nome di un
sequestratore… - rifletté – Per quale motivo avresti dovuto annotarti il suo
nome? Forse era una persona che conoscevi? -
Scossi la testa. – Veramente non penso… - risposi – Nelle
mie visioni, io sento anche quello che prova la persona. E non mi è sembrato
che la conoscesse. –
Mihael annuì, accantonando quell’ipotesi.
Mi grattai la testa, nervosamente. Era impossibile andare
avanti così, senza maggiori informazioni. Era come brancolare al buio in mezzo
ad una stanza piena di oggetti impossibili da riconoscere.
- Forse è meglio se lasciamo perdere, per oggi. – dissi.
In effetti era calata la sera e il giorno dopo avrei
dovuto iniziare la scuola: la cosa migliore era dormirci sopra. Sperando che,
per davvero, la notte portasse consiglio.
Mangiammo una cena frugale, perché Deborah non era ancora
tornata e in frigo non c’era molto. Consumato il pasto, ci salutammo solo con
un cenno della mano, poi ci infilammo ognuno nella rispettiva camera.
Quella notte, stranamente, mi ritrovai a desiderare che
Ryuk tornasse a farmi visita. Sapeva di certo molte cose, forse conosceva la
verità intera: era l’unico che avrebbe potuto aiutarci. Dormii un sonno
piacevole, al contrario di quello che mi sarei aspettato.
Mi alzai all’alba, fui svegliato dal sole che entrava
dalla finestra.
Era presto, ma uscii comunque dal letto e camminai fino
alla cucina. Mi preparai una tazza di latte e, quando stavo per prendere lo
zaino posato su una sedia che sembrava essere stato preparato da Deborah, la
donna apparve sulla porta.
- Oh, Nate… - sospirò, - Te ne volevi davvero andare a
scuola il primo giorno senza salutare? -
Sorrisi e ricambiai l’abbraccio con cui mi strinse.
Uscii di casa poco dopo, seguito dal ‘buona fortuna’ di
Deborah. Mentre chiudevo la porta che dava sulla strada, intravidi Mihael in
corridoio, che veniva verso di me. Sorrideva.
Col pacifico e dolce ricordo di quel sorriso, così
inusuale per lui, mi avviai nella direzione indicatami da Deborah. Arrivai alla
scuola in pochi minuti: era davvero vicina, perché il paese era molto piccolo.
Si trovava sulla piazza in cui avevamo sostato io e Mihael il giorno prima, ma
non l’avevo notata. Era relativamente grande, ma semplice, con un piccolo
giardino a circondarla.
Non ero l’unico studente, ma sicuramente uno dei più
mattinieri. Quelli che entravano, continuavano a sbadigliare ad ogni passo,
mentre io mi dirigevo tranquillamente alla mia classe. Deborah mi aveva
iscritto alle medie, nonostante avessi l’età di uno studente delle elementari:
diceva che Mihael era sicuro che me la sarei cavata nel migliore dei modi.
Nell’aula, occupai un banco in ultima fila e attesi.
Le lezioni durarono poco. Ogni volta, nonostante fossimo a
metà dell’anno e quasi alla fine del primo quadrimestre, dimostrai di saper
affrontare tutte le materie e di eccellere nella maggior parte. Tutti i
professori rimasero impressionati dalla mia intelligenza e la cosa mi procurò
un moto d’orgoglio.
Alla fine della giornata, quando gli altri studenti correvano
a casa, finalmente liberi, io restai a camminare distrattamente nel giardino,
ripensando a quello che era successo. Mi sedetti su una panchina rossa e
guardai in alto. Quasi non caddi per terra.
Appollaiato sull’albero che faceva ombra alla zona delle panchine,
sorridente come sempre, stava Ryuk, le mani a penzoloni. Con una aveva
afferrato una mela e se la gustava.
- Ryuk! – esclamai.
Mi guardò, ghignando, poi indicò un punto davanti a me.
Senza esitare, mossi gli occhi nella direzione del suo dito.
Un ragazzo, che riconobbi come un mio compagno, stava
uscendo in quel momento dal cancello. Ma, ad un tratto, un libro con la
copertina nera gli cadde per terra.
Successe in un secondo: le voci e le immagini tornarono a
popolare la mia mente, facendomi gemere e piegare dal dolore.
Death Note… Ovvero il quaderno della morte.
La persona il cui nome sarà scritto su questo quaderno
morirà. -
Che pena. Ma perché van tutti matti per ‘ste scemenze?
-
Attento, Taku! -
Il quaderno della morte… funziona davvero! -
Ho… ho ucciso… due persone…
- Ho… Ho ucciso! – gridai, tra le lacrime che ormai erano
scese, insieme a quella cascata di ricordi.
Io non ero Nate River. Ero Light Yagami.
Ed ero un assassino.
Fine IV
Bene!
Ecco concluso anche questo capitolo!
Per favore, commentate! Ç_ç (me si sta deprimendo…)
Capitolo 6 *** To Know The Truth (Sapere la verità) ***
Over The Mu
Grazie MILLE a:
cicoria
retsu89
che hanno commentato! ^-^
Grazie, pensavo di avervi perse ç-ç
In questo quinto capitolo Nate, scoperta la sua identità,
deve prendere una decisione difficile: dire tutto a Mihael oppure tenere il
terribile segreto per se?
Ed ora che quasi tutti i tasselli sono tornati al loro
posto…
…si prepara il gran finale! XD
Buona lettura a tutti! E commentate, vi prego! Ç_ç
Prima o poi, tutti gli esseri umani muoiono.
Dopo la morte, non vi è nulla.
V. To
Know The Truth (Sapere la verità)
Corsi a casa velocemente, più di quanto il mio fisico da
bambino potesse reggere. Mi ritrovai ad ansimare in mezzo alla piazza del
paese, deserta, con un bruciore intenso in gola.
Ero un assassino.
Assassino.
Continuavo a ripetermi quella parola nella mente, come se
abusandone potesse scomparire. Ma più la pensavo, più questa si scolpiva
inesorabilmente in me, marchiandomi per l’eternità.
All’improvviso, non mi sentii più così sicuro di voler
tornare a casa.
Volevo davvero dire tutto a Mihael, come avevo subito
pensato? Volevo davvero che sapesse che ero un assassino?
Non mi sentivo certo di entrare in casa, sudato e
sconvolto, gridando come un ossesso contro colpe che sentivo terribilmente mie.
Ma sapevo che lo avrei fatto. Forse sarebbe stato meglio stare lontani da casa
per un po’.
Scelsi il lago. Lo feci un po’ perché era l’unico posto un
po’ isolato che sapessi raggiungere, un po’ perché era lì che era cominciata
tutta la storia e la parte meno orgogliosa di me ammetteva che speravo si
concludesse in qualche modo.
In realtà, dentro di me, una sempre più grande certezza mi
diceva che non si poteva tornare indietro: ero Light Yagami, ero un assassino.
E ormai ne avevo preso consapevolezza.
Arrivai al lago di corsa, così come ero giunto in piazza.
Mi lasciai cadere sfinito sull’erba che odorava di muschio e pioggia, steso a
terra. Con gli occhi ripassavo i contorni di nuvoloni grigi che si stavano
addensando al centro del cielo, mentre con le orecchie ascoltavo il ritmo del
mio respiro che andava regolarizzandosi.
Chiusi gli occhi quando una goccia di pioggia mi bagnò la
punta del naso, senza la forza di alzarmi e mettermi a riparo. Lasciai che la
pioggia mi lavasse, sperando che portasse via anche i miei terribili peccati.
Ma sapevo che non ci sarebbe riuscita.
Ripensai a quello che avevo scoperto. L’esistenza di un
quaderno della morte, della possibilità di uccidere le persone solo scrivendone
il nome su una pagina… Tutto questo ora mi appariva dannatamente chiaro,
logico, come se lo avessi conosciuto da sempre. Lo sentivo così perché quelle
erano le memorie di Light Yagami, di certo.
Terrorizzato ancora dalle atrocità che avevo compiuto, mi
coprii il viso con le mani, sotto la potenza sempre più forte dell’acquazzone.
Come aveva potuto un ragazzo ammazzare così degli esseri umani? Cosa pensava di
fare? Qual’era il suo scopo?
Non sapevo ancora tutta la storia, di questo ero certo.
C’erano molte lacune negli avvenimenti. Per esempio, Ryuk cosa c’entrava? Chi
era in realtà? E Mihael? Mihael chi era, rispetto a me?
Sperai con tutto il mio cuore che non fosse un mio
complice, o qualcosa del genere. Sarebbe stato orribile.
Se lo era, comunque, non doveva assolutamente ricordare il
suo passato come avevo fatto io. Sarei andato da lui e gli avrei detto che non
volevo più continuare a cercare di scoprire cosa fossimo in realtà. Non avrebbe
capito perché, e io non gliel’avrei spiegato, ma non m’importava. Infondo, era
un modo di proteggerlo.
Immerso nei miei pensieri, mi chiesi se anche il suo nome
non fosse quello vero. Io ero Light. E lui?
Una nuova curiosità s’impadronì all’improvviso di me, ma
la feci subito tacere. Non avrei più rivangato nulla. Mi bastava già quello che
sapevo.
La pioggia era cessata, quando mi alzai, pochi minuti
dopo. Ma le nuvole grigie, che sembravano ancora cariche, non volevano
andarsene: probabilmente avrebbe piovuto ancora, quel pomeriggio.
Mi ricordai solo a quel punto che sarei dovuto essere
stato a casa già da molto tempo. Forse Deborah si stava preoccupando della mia
assenza.
Ritrovata la forza di muovermi, nonostante i vestiti
fradici, m’incamminai per ritornare al villaggio. Scosso dai brividi ad ogni
minimo soffio d’aria, tentai di fare in fretta, per evitare di ammalarmi. Era
gennaio e non era stata certo una buona idea, quella di beccarsi un acquazzone
senza ripari.
Giunto all’entrata del villaggio, lo attraversai correndo,
perché ormai tremavo da capo a piedi violentemente. Davanti alla porta della
casa, dubitai solo un istante del mio coraggio, poi bussai forte. La porta si
spalancò.
- Nate! -
Deborah mi aveva letteralmente sollevato di peso e mi
stava portando in camera alla velocità di un uragano. Prima di poterlo evitare,
pensai che il nome con cui mi aveva chiamato, non mi apparteneva più.
- Nate! – esclamò ancora, nei suoi occhi la preoccupazione
si poteva leggere, - Mi hai fatto spaventare! Che hai fatto? Perché non sei
tornato subito a casa? -
Mentre mi copriva con la coperta, tutto avvolto nel letto,
mi rivolgeva le domande a raffica, senza aspettare le mie risposte, come un
distributore impazzito.
- Mike! – disse, ad un tratto, - Vammi a prendere il
termometro! -
Solo in quel momento notai Mihael, nascosto dietro la
figura snella di Deborah, che mi fissava neutro, come sempre. Ma nei suoi occhi
c’era qualcosa di insolito.
Annuì, senza una parola, e uscì dalla stanza. Tornò un
attimo dopo, con l’oggetto in mano. Deborah lo afferrò velocemente e me lo
diede in mano.
- N-non è necessario…. – cercai di dire, - S-sto bene,
davvero… -
- Vedi di tacere, Nate! – esclamò lei, furibonda, - Già mi
hai fatto prendere un accidente! Adesso, per favore, vedi di non fare storie e
misurati la febbre! -
Ammutolito e rassegnato, misi il termometro sotto
un’ascella. Lei, lo sguardo tornato dolce, promise di tornare dopo cinque
minuti e uscì. Restammo io e Mihael, mentre lui aveva occupato il suo solito
posto davanti alla finestra e io restavo in silenzio.
Passarono diversi minuti prima che parlasse.
- Dove sei stato? – mi chiese.
Non mi aspettavo che se ne interessasse.
- Al lago. -
Rimase in silenzio un secondo, poi tornò a parlare.
- Pensavo che avessi scoperto qualcosa… - sussurrò.
Mi stupii della tristezza che c’era nella sua voce. Forse
aveva scoperto già tutto? Forse aveva ricordato di essere stato un mio
complice?
Pregai tutti gli dei esistenti che non fosse così.
- Non ho scoperto niente, Mihael. – dichiarai, ma quel
nome suonò strano sulle mie labbra, inadatto, - E comunque non voglio più
continuare quest’indagine assurda… -
L’ultima parte la mormorai solamente. Lui mi fissò
indifferente, ma sapevo che in realtà era sorpreso.
- Perché? – chiese, atono.
- Non mi interessa conoscere il mio passato. – replicai –
Lo hai detto tu stesso: perdere la memoria significa avere una libertà enorme,
vuol dire avere una nuova possibilità di vivere. Perché adesso dovrei volerla
riacquistare? -
Mi guardò sorridendo. Ma era un sorriso triste, tirato.
Come i suoi occhi spenti.
- Non avere un passato può rendere liberi, certo. – cominciò,
- Ma ti toglie la possibilità di sapere chi sei veramente. -
Non seppi cosa rispondere. La sua frase mi aveva
spiazzato.
- Non vuoi sapere da dove vieni? – mi chiese, - Non vuoi
capire perché sei fatto così, chi era tua madre? Non vuoi conoscere quello che
eri? -
Ancora una volta, non trovai le parole.
- Sapere chi siamo stati ci aiuta a capire quello che
siamo e a scegliere chi saremo. -
Calò il silenzio. Quella strana quiete scendeva sempre
nelle nostre conversazioni: era uno strano momento fuori dal tempo, una strana
parentesi che ci permetteva di essere noi stessi fino in fondo.
Ad un tratto, Mihael sospirò.
Non glielo avevo mai visto fare. Lui aveva sempre una
risposta, se non ce l’aveva la cercava. Non si era mai arreso. Perché adesso lo
faceva? Era colpa mia, del mio rifiuto?
Mi morsi un labbro, cercando di impedirmi di corrergli
incontro e dirgli che lo avremmo cercato insieme, quel passato. Perché io non
potevo. Non potevo assolutamente farlo.
Attese ancora qualche secondo, poi si alzò. Fece quattro
passi lenti verso la porta e si voltò.
- Pensaci. -
Uscì proprio un momento prima che Deborah entrasse a
prelevarmi il termometro e controllarmi la temperatura. Non avevo la febbre,
come pensavo, e la cosa mi rallegrò. Volli alzarmi subito dal letto, nonostante
gli innumerevoli tentativi della donna di dissuadermi, e corsi in cucina.
Cercai Mihael in tutta la casa, ma non lo trovai. Questo
mi mise in agitazione, anche se non capivo perché. La sua assenza mi aveva
sempre messo in ansia, ma questa volta era diverso: avevo paura. La paura
infondata che non tornasse più.
Rassegnato, mi sedetti sulla sua sedia, nella mia camera,
e osservai il cielo. Era diventato plumbeo ora, con l’arrivo della sera e le
nuvole non sparivano. Incombevano sempre al centro della volta celeste,
minacciando di rovesciare l’acqua da un momento all’altro.
Dov’era Mihael? Non era sicuro che se ne stesse fuori casa
a quest’ora, con questo tempo.
Dovevo cercarlo.
Tornai in cucina e presi un coltellino dalle stoviglie
messe in un cassetto. Non so perché decisi di portarlo con me. Forse speravo
che si rivelasse una buona arma in caso di pericolo, non so. Mi coprii con una
giacca a vento appesa in corridoio e spalancai la porta che dava in strada.
- Esco a cercare Mihael! – gridai, sperando che Deborah mi
sentisse.
Uscii fuori nel freddo della sera inoltrata e mi accorsi
di non sapere affatto dove andare. Non conoscevo bene il paese quanto Mihael,
né sapevo dove andasse di solito quando usciva. Non avevo alcun punto di
riferimento.
Seguendo l’unica pista che avessi, mi diressi al lago.
Mihael mi ci aveva portato il giorno prima, quando non ero andato a scuola,
perciò forse era un posto che frequentava spesso.
Scrutando preoccupato le nuvole sulla mia testa, cominciai
a correre attraverso il paese, verso il basso. La strada verso il lago mi
sembrò più lunga delle altre volte, ma probabilmente era la paura che avevo di
trovarmi nuovamente inzuppato che mi dava quest’impressione.
Quando lasciai il sentiero sterrato, però, cominciarono a
scendere le prime gocce.
Affrettai il passo, per fare più in fretta. Ma, arrivato
sulla riva, mi accorsi che non c’era nessuno. Era buio e di certo non era la
condizione migliore per trovare qualcuno, ma ero sicuro che Mihael non ci
fosse.
Feci alcuni passi lungo la sponda del lago, analizzando
l’erba davanti a me, in lontananza, ma ancora non vidi nessuno. Intanto, aveva
iniziato a piovere davvero. Mi girai indietro, per andarmene, ma fui bloccato
da un corpo che mi sbarrava la strada.
- Finalmente sei arrivato… - mormorò.
Guardando verso l’alto, vidi gli occhi rossi del mostro
fissarmi, ardenti.
- Ryuk? -
Quello ghignò. – Esatto. –
- Dov’è Mihael? – chiesi. Non so perché lo domandai, fu
istintivo: me lo impose una parte nascosta di me.
Mi obbligò Light Yagami, a chiederlo.
- Perspicace come sempre, eh? – sghignazzò il mostro.
Spalancai gli occhi. – Cosa? – esclamai, - Cosa c’entra
Mihael? –
Non rispose. Mi fissò sorridendo, soddisfatto per qualcosa
che non sapevo.
- Stanotte – sussurrò – Saprai tutto.
Tornerai ad essere quello che eri. Come desideravi, Kira
non morirà. –
Non capii le sue parole. Ma sentii dentro di me che stava
per succedere qualcosa di orrendo.
Fu quando le immagini e le urla iniziarono, che compresi
la verità: quella notte, effettivamente, avrei rivoltato il mio vero passato e
l’avrei conosciuto.
Gridai di dolore, stringendomi, un’altra volta, la testa
tra le mani. Le mie urla si unirono a quelle che sentivo nella testa, alte e
forti.
In mezzo a quella sofferenza atroce, sperai che Mihael non
arrivasse, pregai con tutto me stesso che almeno a lui questo venisse
risparmiato.
Mi sentii barcollare, in preda alla confusione e al
dolore. Caddi in acqua.
Il gelo mi avvolse, mi strinse in una morsa mortale. Come
il giorno prima al lago, sentii il terrore impadronirsi di me.
Non voglio morire. Ma non ero io a dirlo.
Era Light Yagami.
Affondando sempre di più negli abissi del lago e della
reminiscenza, mi preparai ad affrontare il me stesso che sarebbe venuto a
galla, a tenere testa ad un assassino senza impazzire.
Ma già la mia testa mi gridava qualcosa che non
riconoscevo.
Già iniziava ad abbandonarmi.
Sarò il Dio di un nuovo mondo.
Fine V
Bene, bene! XD
Spero che l’ultima frase abbia dato la giusta suspence…
Non temete, nel prossimo ultimo capitolo tutto verrà chiarito! Prima di
postarlo, però, aspetterò di avere qualche recensione… Quindi, prima recensite,
prima posterò!
E grazie anche alle 8 persone che mi hanno messa tra i
preferiti!
Questo è l’ultimo capitolo: commentate, vi prego! Ç_ç
Immerso in un tuffo nel passato, Nate scoprirà finalmente
tutto.
E’ ora di scegliere davvero.
Buona lettura!
Prima o poi, tutti gli esseri umani muoiono.
Dopo la morte, non vi è nulla.
End: Who I Am (Quello che sono)
Sarò il Dio di un nuovo mondo.
Quella frase mi rimbalzò in testa, mi scosse nelle
profondità.
Tutto si fece silenzioso.
Ormai non percepivo più il mio corpo. Il freddo e il buio
che avevo sentito ingoiarmi nell’acqua del lago, non c’erano più. Non potevo
sentire nulla, né sul mio corpo, né sul mio viso.
Pensai di essere morto. Ero come sospeso in un limbo
oscuro di passaggio tra la vita e la morte. Non vedevo luce intorno a me: tutto
era buio, come in una notte eterna e gelida. Anche se non potevo sentirne il
freddo sulla pelle, ero sicuro che lo fosse.
Cercai di avanzare a tentoni in quell’oscurità infinita,
ma muovermi era uguale a rimanere immobile: il buio non mutava, era tutto
terribilmente uguale.
Poi vidi qualcosa, una specie di luce bianca.
Ero certo che non fosse una luce di salvezza, né l’entrata
dell’inferno. Non era neanche il nulla.
Non fui io a cercare di arrivare a lei, la luce
semplicemente mi venne incontro, veloce. Quando mi fu davanti si era
trasformata: era un’immagine, dai contorni sfocati. Mi sporsi verso di essa,
per cercare di decifrarla.
Entrò in me. Esattamente così.
Mi avvolse, come una coperta senziente e attraversò la mia
pelle, la mia carne, fino a confondersi, in un’unica entità, con la mia anima.
E allora, ricordai tutto.
Ero nel giardino del liceo, con in mano un quaderno
dalla copertina nera. Mi sembrava sciocco credere ad una cosa de genere, alla
possibilità di uccidere scrivendo il nome di una persona. Quaderno della morte?
L’immagine cambiò. Nella mia testa, sapevo già quale
sarebbe stata.
Ormai ero Light Yagami. E stavo ricordando la mia vita.
Un motociclista che stava importunando una ragazzina,
venne investito da un camion.
Io! Ero stato io ad ucciderlo! Corsi, in preda al
panico, cercando di tornare a casa.
Poi mi fermai.
Ero un assassino. Ma a pensarci bene… Esistevano
davvero persone che sarebbe stato meglio fare fuori.
Il mondo sarebbe diventato un posto migliore
Nella mia mente, i contorni si fecero sfocati, le parole
mute, i dettagli imprecisi.
In camera mia, alla luce della lampada, nella notte,
scrivevo nomi di criminali ricercati sul quaderno. E, ad ogni riga, sentivo le
vite di quegli uomini passare nelle mie mani e scomparire. Non provavo orrore.
Quella era la giustizia.
“Sembra che ti piaccia…”
Mi voltai. E mi ritrovai a faccia a faccia con un
essere mostruoso. Gridai, spaventato.
“Che hai da essere tanto sconvolto?”
Ma il seguito lo conoscevo già. “Sono Ryuk, il dio
della morte che ha perso quel quaderno.”
All’improvviso, cominciò a farmi male la testa. Era la
prima sensazione che percepivo davvero, da quando ero caduto nel lago. Forse
era il dolore di quei ricordi. Che cos’era? Senso di colpa?
O il rimpianto di aver perso quella vita?
“Ascoltami, Kira. A grandi linee posso immaginare cosa
ti passi per la testa per agire in questo modo… Ma ricorda che ciò che stai
facendo… E’ malvagio!”
Sorrisi, a quelle parole senza senso.
“Io sarei malvagio?” gridai, “Io sono la giustizia!”
Sul quaderno, un nuovo nome.
Lind L. Taylor.
Ma Elle non morì.
Il dolore alla testa si accentuò. Sentivo la rabbia della
vergogna farsi spazio in me. Io che mi ero lasciato fregare così, da uno
stupido che credeva di potermi catturare…
E, allora, mi ricordai di Mihael. Non so perché mi
successe, semplicemente rividi il suo volto davanti a me.
E allora capii.
Un palco, una platea all’Università. Quello sconosciuto
che mi si avvicinava.
“Io sono Elle.”
…
“Cazzo! Mi ha fregato!”
…
“ …E c’è una cosa che vorrei chiederti.”
“Beh, dopotutto hai vinto tu, chiedimi pure quello che
vuoi. Ma prima, dovrei avvertirti di una cosa… In verità, Yagami… Io sospetto
che tu sia Kira.
Se ti sta bene lo stesso, chiedimi pure quello che
vuoi.”
…
“Ryuzaki… Non esiste un modo per provarti che non sono
Kira? Cosa devo fare perché ti fidi di me?”
“Se non sei Kira, non hai bisogno proprio di fare
niente, non ti pare?”
…
“Ti preoccupi troppo, papà.”
“Beh, forse hai ragione.”
“Giusto… Light non è Kira. Anzi, se lo fosse, sarebbe
un bel problema per me. Perché Light…
E’ il mio primo amico.”
“Anch’io ti considero un buon amico, Ryuzaki.”
“Mi fa piacere.”
“L’Università non sembra più la stessa da quando non
vieni più. Mi piacerebbe giocare ancora a tennis con te.”
“Anche a me.
Dobbiamo assolutamente farlo di nuovo.”
Tremai, in preda ad un panico che non mi spiegavo. Sapevo
che ora sarebbe arrivato il colpo di grazia. Ormai avevo capito che la mia
reminiscenza, non era solo un ricordo. Era un esame di coscienza. Era una
seconda possibilità.
E, allo stesso modo, avevo capito di non poter cambiare.
“Che ti prende Ryuzaki?”
Le dita tremarono, il cucchiaino cadde. Lui si
rovesciò.
Lo afferrai all’ultimo momento, la presa salda.
Sorrisi. Avevo vinto io.
Nei suoi occhi, vidi la certezza affacciarsi. Dopotutto
aveva intuito fin dall’inizio la verità.
Poi si chiusero.
Era finita.
Cominciai a ridere, a quel ricordo lontano, in preda
all’isteria.
Avevo vinto io! Avevo vinto!
Le voci nella mia testa si placarono.
Davanti a me, vidi Ryuk apparire dall’ombra, con il suo
ghigno perenne.
- Bentornato, Light. -
Tremai, perché ero tornato davvero. Ed una nuova scarica
di ricordi m’investì.
Rividi i cinque anni del mio regno. Vidi la bozza del
mondo giusto che avevo progettato, materializzarsi davanti ai miei occhi.
Rividi il rapimento di Sayu. Rividi Mello.
E poi scorse dinnanzi a me tutta la lotta che avevo avuto
con Near. Rividi mio padre morire, Mello fuggire.
Mi riscoprii ad uccidere Kyomi Takada.
E poi mi ritrovai in quel capannone, il 28 gennaio 2010.
Venni attraversato dai brividi, tornai a percepire il
gelo. Mentre cominciavo a riprendere coscienza del mio corpo, la mia mente si
preparava al gran finale. Spalancai gli occhi, tremando convulsamente.
Non volevo, non volevo vedere!
Ma la pietà non era cosa per me.
“…Anche se non riusciva mai a superarmi, Mello ha
sempre detto… Che sarebbe diventato il numero uno e che avrebbe sopravanzato me
ed Elle… Ma sapeva che io non potevo superare Elle. Forse perché io mancavo di
capacità d’azione, così come lui mancava di sangue freddo.
Ciò che voglio dire è che se nessuno dei due riusciva a
superare Elle…
…Insieme potevamo farcela.”
Mi guardò, mi accusò. E mi chiese di discolparmi.
Ma io scoppiai a ridere, semplicemente. Perché era
assurdo.
“Hai ragione. Io sono Kira.
E allora? Che vuoi fare? Vuoi ammazzarmi qua?
Ascolta… Essere Kira… fa di me… il dio di questo
mondo.”
Ma lui mi guardò. Nel suo guardo rividi la forza e la
determinazione di Elle. Solo, era spento: non aveva quella scintilla di umanità
che caratterizzava gli occhi di Ryuzaki.
“No. Tu…
…Sei solo un assassino.”
Non avevo scampo. Lo capii all’istante. E sentii
qualcosa di nuovo impadronirsi di me. Era una sensazione inesplorata, una
sensazione nata dalla consapevolezza di essere finito.
Paura della sconfitta.
Non potevo perdere. La mia vita era stata votata alla
creazione di un mondo nuovo, un mondo di giustizia e di ordine.
Se ora non
avessi potuto perseguire il mio obbiettivo, tutta la mia fatica, le mie
battaglie… Tutto sarebbe stato vano.
E non volevo.
Tentai l’ultima mia possibilità: cercai di ammazzarlo.
Ma non ci riuscii. Matsuda mi sparò alla mano. E poi al fianco.
Sentii la mia coscienza andarsene, la mia mente
scollegarsi. Non ragionavo più, gridai cose senza senso, implorai che
uccidessero chi ora mi stava sconfiggendo.
Poi vidi Ryuk.
“Ma certo, Ryuk! Scrivi tu i nomi di questa gente sul
quaderno!”
Seppi che non lo avrebbe fatto, nello stesso momento in
cui glielo domandai. Ma il mio corpo non mi rispondeva più. Risi incontrollato,
quando mi rispose che avrebbe usato il quaderno. Dentro di me conoscevo già il
finale.
“No, Light, sarai tu a morire.”
Quando pronunciò quella parola, però, i ricordi mi
invasero. Tornai con la mente ad un giorno di sei anni prima.
“Per gli umani che hanno utilizzato il quaderno della
morte, non esiste né paradiso, né inferno.”
E poi, ripensai alla mia risposta. La verità era che
non esistevano affatto paradiso e inferno. Erano solo illusioni per gli esseri
umani che non volevano credere alla fine della vita. Era solo una speranza
vana,per chi non si accontentava di
vivere inutilmente.
La realtà, era un’altra.
Prima o poi, tutti gli esseri umani muoiono.
Dopo la morte, non vi è nulla.
Iniziai a gridare.
Non volevo morire! Non
potevo!
Kira doveva esistere
ancora. L’umanità aveva bisogno di me.
Ma poi sentii un
bruciore enorme al petto. Nello stesso momento, smisi di percepire qualunque
cosa.
Ebbi solo l’enorme,
inesorabile certezza della morte che calava su di me.
In quel momento, mi
chiesi cosa sarebbe successo se, sei anni prima, non avessi raccolto quel
quaderno.
Non ebbi il tempo di
darmi una risposta.
Il nulla eterno mi
prese con sé.
Tremavo. Tremavo e piangevo.
Il ricordo della mia
morte, ancora vivo, potevo percepirlo sulla pelle.
Quel freddo. Quel buio.
Capii perché avessi così tanta paura del gelo e dell’oscurità. Era qualcosa di
indescrivibile, di orribile.
- Light Yagami… -
Quando sentii quella voce,
anche l’ultimo ricordo si fece spazio in me. Erano i miei ultimi pensieri.
Alla fine, solo una
speranza.
Io voglio vivere!
Avevo espresso un
desiderio. Avevo sfidato Il Nulla. Gli avevo chiesto di risparmiarmi.
- Chi ha lasciato una
traccia nel mondo, - disse la voce, che riconobbi come quella di Ryuk, - e
desidera con tutto se stesso tornare a vivere, può avere una seconda
possibilità. -
Non riuscii a
sorprendermi. Il dolore del ricordo, la morsa del gelo, mi impedivano una
qualsiasi reazione che non fosse la paura.
- Kira ha cambiato
radicalmente il mondo.
Per questo, ora, puoi
avere una seconda possibilità di vincere. –
La voce si spense.
Chiusi gli occhi e mi
abbandonai all’oblio della mente.
In fondo, sarei dovuto
morire già una volta. Ora, volevo solo smettere di soffrire.
- Light! Light! -
Dal mio stato di
semicoscienza, riuscii a sentire due braccia avvolgermi e trascinarmi. Non
capivo se il mio corpo fosse immerso nell’acqua, o se il freddo che sentivo
fosse l’aria gelida della notte. L’unica cosa sicura era che vivevo ancora.
Percepii due mani spingere
sul mio petto. Tossii, sputai l’acqua.
Sotto di me, potevo
sentire l’erba solleticarmi le gambe, le gocce d’acqua scendere lungo la linea
della mia schiena.
- Light! Ti prego, apri
gli occhi! -
Cerca di farlo, perché
avevo riconosciuto quella voce.
Tornai a vedere sfocato, i
contorni della figura davanti a me erano indistinti. Ma lo identificai
comunque.
Scattai a sedere, trovando
da una parte ignota di me una forza spaventosa. Afferrai le sue spalle e lo
gettai a terra, con la schiena sull’erba. Mi guardò un attimo, sorpreso.
Nella mia mente si accavallarono
i ricordi.
Mihael. Ryuzaki.
Mi rividi nel letto,
mentre lo guardavo seduto in quella strana posizione, a guadare fuori dalla
finestra. Lo vidi sorridere, una delle rare volte in cui lo faceva. Mi rividi
insieme a lui, seduto sulla riva di quello stesso lago, solo due giorni prima.
E poi rividi Ryuzaki. Lo
vidi cercare d’incastrarmi, all’università. Lo vidi sorseggiare il suo tè nel
Quartier Generale, tranquillamente.
Lo vidi accusarmi e
rinchiudermi in cella per quaranta giorni. Lo vidi, mentre giocavamo a tennis,
teso nella concentrazione.
In ogni caso, aveva sempre
quell’aria innocente e distratta. Quella sua strana purezza.
E infine lo vidi mentre
moriva, accasciandosi al suolo.
Sei anni dopo, a causa del
suo erede, ero morto anch’io.
Una rabbia assurda
s’impossessò di me.
Ryuzaki aveva la colpa
della mia sconfitta, della morte di Kira. Della fine di quel mondo di giustizia
che avevo progettato.
Presi il coltello che
avevo portato con me dalla tasca dei pantaloni e lo puntai alla sua gola.
Il tempo sembrò fermarsi.
Ansimavo, per lo sforzo di respirare coi polmoni pieni d’acqua, stremato. Lui
mi fissava stupito.
Nei suoi occhi, rividi la
vitalità e la purezza di quelli di Ryuzaki.
Mentre gli premevo il
coltello sulla giugulare, inaspettatamente, sorrise.
- Se vuoi uccidermi… -
sussurrò, - Almeno prima stammi a sentire. -
La sua voce era bassa e
roca. Sembrava stanco e, notai solo in quel momento, era fradicio.
- Ryuzaki… - mormorai,
stringendo le labbra, pronunciando il suo nome senza motivo.
Ma lui scosse la testa. –
No. – affermò. – Mihael. –
Si prese un attimo di
silenzio, respirò.
- Ho ricordato tutto, sai,
Light? Ora so esattamente chi ero io e chi eri tu.
Io ero Elle, non è così? E
ho sempre sospettato che tu fossi Kira, Light Yagami. –
Sorrise ancora, come in
balia di vecchi e sereni ricordi. Non era affatto così.
- Ma ho fatto un errore. E
mi è costato la vita. -
Lo guardai senza spostare
il coltello dal suo collo. La rabbia di Light Yagami m’invadeva, assoluta.
Elle mi aveva sconfitto.
Elle doveva morire. Di nuovo.
All’improvviso emise una
risata flebile, gracchiante. Le lacrime scesero sulle sue guance.
- Che stupido, eh? –
mormorò – Ho fatto di nuovo lo stesso errore. -
La mia voce venne fuori da
sola. – Quale? – sussurrai.
- Quello di avvicinarmi a
te… -
Ripensai agli ultimi
giorni ed esitai. Mihael non era Ryuzaki, no? Mihael era un fratello, per me.
Ma era davvero lui il
problema?
- Ascoltami, Nate… -
ricominciò lui, facendo difficoltà a respirare, - Io sono stato Ryuzaki, sono
stato Elle, nella mia vita precedente.
Ma ora… - aggiunse – Ora
io sono solo Mihael. –
Con una mano tesa verso di
me, lentamente, mi sfiorò una guancia.
- Io sono diverso da
Ryuzaki. Ho fatto altre esperienze, ho vissuto una vita diversa. Io sono una
persona diversa.
E anche tu… - mi guardò negli occhi, con intensità, -
…puoi decidere chi essere.
Vuoi davvero tornare ad
essere Kira, a perseguire i tuoi obbiettivi di giustizia? Vuoi realmente
tornare a soffrire, a metterti contro di me, ad uccidere le persone come
formiche? –
Mi fissò un attimo,
tacendo. Non risposi. Aspettai solo che continuasse.
- Hai un’altra
possibilità. – dichiarò, negli occhi la decisione che avevo visto solo in
Ryuzaki, - Puoi decidere di restare qui con me, di ricominciare. Puoi avere una
seconda possibilità…
Infondo… - sorrise, ma le
lacrime ancora gli appannavano gli occhi neri, - …Abbiamo una partita a tennis
da fare, no? –
Non risposi, ancora.
Ma, questa volta, piansi.
Lasciai che le lacrime mi
scorressero libere sulle guance, che mi bagnassero i vestiti già fradici, che
mi arrossassero gli occhi. Quella, era una prova del fatto che ero ancora vivo.
Io
ero Light Yagami. Conservavo la sua essenza nella parte più profonda di
me. Ma Light Yagami aveva fatto la sua vita, ora toccava a me. Avrei cercato di
fare qualcosa di meglio. Infondo, ero la sua evoluzione.
Ero
il suo pentimento e il suo mezzo di redenzione.
Buttai
il coltello lontano da me e mi accasciai contro Mihael. Eppure, sapevo che
avrei sempre serbato, per Ryuzaki, un affetto particolare. Erano i suoi occhi
che cercavo in Mihael. Era la sua purezza, che speravo di trovare.
Ed
ero sicuro che ce l’avrei fatta.
-
Ryuzaki… - mormorai.
Non
fece commenti sul nome. L’unico modo per evitare di fare gli stessi sbagli era
quello di ricordare. A partire dai nostri nomi.
–
Dimmi. –
-
Dicevi sul serio quando mi hai considerato il tuo primo amico? – gli chiesi.
Lui
rise, debolmente. – Certo. –
-
Anch’io. – risposi, sereno.
Nella
quiete che si venne a creare e che, compresi finalmente, non era solo quella di
Mihael, ma soprattutto quella che circondava Ryuzaki, ripensai alla verità che
mi aveva rivelato Ryuk e che avevo sempre saputo.
Dopo la morte, non vi è
nulla, mi dissi.
Perché il resto, ce lo
costruiamo noi.
Fine
E questo è quanto!
Grazie per avermi seguita fin qui! XD
Se vi è piaciuta e anche se vi ha fatto schifo, lasciate
un commentino, ok?