The Last Journey di xingchan (/viewuser.php?uid=219348)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** C. C. 1484 (prima parte) ***
Capitolo 2: *** C. C. 1484 (seconda parte) ***
Capitolo 3: *** C. C. 1484 (terza parte) ***
Capitolo 4: *** C. C. 1484 (quarta parte) ***
Capitolo 5: *** C. C. 1484 (quinta parte) ***
Capitolo 6: *** C. C. 1484 (sesta parte) ***
Capitolo 7: *** C. C. 1484 (settima parte) ***
Capitolo 8: *** C. C. 1484 – 1502 ***
Capitolo 9: *** C. C. 1502 (prima parte) ***
Capitolo 10: *** C. C. 1502 (seconda parte) ***
Capitolo 1 *** C. C. 1484 (prima parte) ***
The Last Journey
C. C. 1484:
“In primavera giunse nella Terra di Buck un messaggio da Rohan:
Re Éomer desiderava vedere Messere Holdwine per l’ultima volta.
Meriadoc era già anziano (102 anni) ma ancora sano e vigoroso.”
(J. R. R. Tolkien)
In attesa che suo figlio Wilcome, chiamato da tutti “Will”, il maggiore, arrivasse per portargli la nuova edizione del suo libro “L'Erborista della Contea”, Meriadoc riaccese la sua quinta pipa.
L'anziano Brandibuck era entusiasta del successo che le sue argomentazioni sull'erba-pipa stavano riscuotendo, senza parlare della sorprendente facilità di gestione di quella che ora era divenuta la sua terra a tutti gli effetti.
Ma insieme alla soddisfazione, quel pomeriggio aveva avvertito un senso di nostalgia. Quella malinconica e fredda sera di primavera l'aveva trascorsa parlando con Wilcome, ripercorrendo le tappe della sua giovinezza.
Quando la Contea era ancora colma di traboccante gioia e spensieratezza.
Aveva fatto un patto con se stesso: che non avrebbe più sofferto per quella mancanza considerandola come legittima, e fare in modo che la Gente Piccola potesse gioire ancora senza mai dimenticare.
Aveva tratto personalmente insegnamenti dalle sue esperienze, e piano piano li aveva disseminati fra i suoi figli e nipoti, perpetuando la Storia.
Villa Brandy era frequentata da molti più bambini hobbit ora, così come chiunque volesse ascoltare le vicissitudini e godere della compagnia di Meriadoc il Magnifico.
Come era successo per Sam e per Pipino, anche lui aveva avuto la sua fetta di piccoli ammiratori che puntualmente lo cercavano per udire le sue fantastiche avventure; e lui, puntualmente, raccontava con entusiasmo, gongolando per le imprese eroiche da lui compiute ed assumendo toni più seri nei passaggi più delicati. Molto spesso riferiva ai ragazzini anche aneddoti più crudi, ma paradossalmente non trovava nessun tipo di obiezione da parte degli hobbit più grandi.
Aveva rimuginato a lungo sulla decisione di dare anche dettagli un po’ più cruenti degli altri, e aveva concluso che qualsiasi cosa fosse successa, non doveva mai essere nascosta.
A che giovava? I bambini avevano diritto di sapere quanto e come gli adulti, e forse anche di più: erano loro la generazione che si rinnovava, dunque i primi a dover essere a conoscenza del male del mondo, e di evitarlo quanto possibile, qualsiasi ne fosse la causa.
Neanche Frodo nel suo Libro Rosso aveva apportato censure, ora che ci pensava.
Il sole era prossimo al tramonto al di là della Terra di Buck, ora, disperdendo i suoi ultimi raggi sulla dolce serenità di Villa Brandy, e Will non aveva mai fatto così tardi quando era impegnato per commissioni per conto di suo padre.
Ma quanto ci metteva suo figlio ad arrivare?
Merry batté il piede destro con trepidante attesa, mentre un'altra boccata di fumo volava via.
Il rumore che fece la porta aprendo lo fece rizzare in piedi e, fremente, andò incontro a quello che era sicuro fosse Will.
Lo hobbit teneva in mano il voluminoso tomo dalla copertina rossa e verde.
E quella che doveva essere una lettera in pergamena.
“Ecco il tuo libro...” disse il ragazzo porgendoglielo e sbuffando per la stanchezza “e una lettera, credo.”
Meriadoc prese la lettera per prima, liberando il figlio del peso del suo scritto solo per riporlo distrattamente sul tavolino affianco all'ingresso.
Il rotolo presentava una dura macchia asciutta di cera verde, su cui era stato impressa la sagoma di un cavallo rampante pronto al galoppo.
Il sigillo di Rohan.
“Padre, ho già visto quel simbolo.” disse Will. “È di Rohan, vero?”
“Sì!” gli venne risposto in un sussurro.
Merry ruppe il sigillo e srotolò il pregiato rotolo facendo attenzione a non farle subire incrinature, e piano, e con occhi emozionati, ne lesse i caratteri disegnati in linee sinuose e precise.
Messere Meriadoc Brandibuck, Signore della Terra di Buck,
In nome della nostra profonda ed indissolubile amicizia, ti chiedo di porgere a me, vostra amica, Eowyn, Principessa dell'Ithilien, i tuoi servigi.
Tantissimi anni or sono hai dimostrato di essere un hobbit d'arme, meritando l'appellativo di Scudiero del Mark. Un titolo simile non è mai stato affibbiato ad un Uomo originario delle terre esterne ai confini di Rohan, men che meno ad un Mezzuomo.
Ricordate il giorno in cui ti chiesi di tornare a Rohan un giorno, al momento del nostro congedo? Ebbene, ti imploro di esaudire il mio desio, perché è anche ciò che mio fratello brama con tutto il cuore.
La ragione è tanto semplice quanto straziante.
Éomer, Re del Mark, sta morendo.
E' in procinto di lasciare la sua vita terrena, e vorrebbe godere della vostra compagnia prima di raggiungere la Casa dei nostri Padri. Il suo pensiero dopo essersi sentito male è stato per te solo. Ti prego, non negargli il tuo sostegno nell’ora ultima di ogni Uomo.
Rinnovo la mia umile richiesta, Messere Holdwine, affinché possa ricongiungermi a te, ed in egual modo Sire Éomer.
Con sincero affetto,
Éowyn
Meriadoc chiuse la lettera ed emise un lungo sospiro, gli occhi colmi di lacrime a stento trattenute.
Erano passati anni da quando si congedò da loro, e da quel momento non aveva fatto altro che prendere in mano la sua vita nella Contea, com'era giusto che fosse.
Ma ora che aveva oltrepassato i cento anni, 102 per la precisione, si sentì in dovere di recarsi da quei grandi Uomini che tanto gli avevano insegnato.
E, doveva ammetterlo, anche un certo fervore.
Ignorando del tutto il figlio che lo osservava pensieroso, si precipitò ad aprire un grosso baule di quercia, prendendo poi fra le mani, fra tutte le altre cose, il dono che il Re di Rohan e sua sorella gli diedero prima di congedarsi da lui con la speranza di una riunione: il piccolo corno intarsiato d'argento, l'unico regalo prezioso che aveva accettato.
Conservava ancora la sua splendida magnificenza, con quelle incisioni raffiguranti biondi cavalieri al galoppo, e quel balteo verde che in qualche strano modo gli ricordava gli occhi lucenti e battaglieri della bianca Dama di Rohan.
Lo strinse al cuore, scuotendo quelli che ormai erano morbidi riccioli ammantati di neve e sorridendo pacatamente, con dolcezza, ricordandosi di come Éomer dovette ricredersi nell'appurare il suo coraggio, e di quanto sarebbe stato fiero di lui se avesse assistito al comando della loro ribellione contro Saruman nella Contea in nome della libertà, suonando con forza proprio il corno della nobile stirpe dei Signori dei Cavalli.
Chissà, magari avrebbe potuto anche narrarglielo.
Divagando in quegli anni, la sua mente si era soffermata spesso su ciò che doveva a Rohan, ai Signori del Mark, alla Compagnia, e a quel viaggio memorabile, ormai lontano nel tempo, in cui spesso aveva anche rischiato la vita.
Man mano che la vecchiaia avanzava però, distruggendo i propri affetti, anche la speranza di un nuovo viaggio stava svanendo.
La Terra di Mezzo era ormai piuttosto sicura, e gli eserciti avevano soltanto lo scopo di difendere le rispettive patrie da eventuali incursioni.
Ma la sua amicizia e fedeltà alla corona di Rohan non conobbero mai un epilogo: Re Théoden si era accordato un posto speciale nel suo cuore, così come il sovrano attuale e la sua splendida sorella.
Li aveva amati come genitori e fratelli, imparando ciò che c'era da scoprire al di là del loro aspetto imponente: che anche loro erano soggetti ai sentimenti, alle debolezze, alla morte.
Dopo sire Théoden, ora anche suo nipote era arrivato alla fine dei suoi giorni.
Questo rattristò un poco Meriadoc, ma aveva affrontato il concetto della morte già da molti decenni ormai, con la dipartita di sua moglie Estella, e l'aveva più o meno accettato.
Ed ora, avrebbe dovuto fare lo stesso con lui.
Tuttavia, oltre a provare tristezza, sentì una strana forma di euforia pervadergli la mente. Finalmente, aveva fra le mani l'occasione che aveva atteso da tempo di rivedere i suoi amici; per l'ultima volta.
Ripose il corno con tutti gli altri equipaggiamenti di Rohan, con l'impaziente certezza che da lì a breve quel baule sarebbe stato completamente svuotato del suo contenuto.
Rohan non gli era mai parsa così vicina.
NDA
Quando una mia ff parla da sé, non mi dilungo nello scrivere le note, perché potrei tediare inutilmente la gente. Stavolta farò un’eccezione, però, perché voglio spiegare un paio di cose.
Merry è un personaggio leggermente diverso da tutti gli altri hobbit. Leggendo il libro e vedendo i film, mi sembrava quasi fosse il più grande fra i quattro (quando invece lo è Frodo), di conseguenza più “maturo” già fin dall’inizio, e spesso pragmatico, cosa che ho adorato di lui.
È, a mio avviso, proprio il personaggio giusto per guidare e/o spronare gli altri a prendere decisioni, ad avanzare cautela in determinate situazioni, a indagare su quanto c’è da sapere nel mondo, Terra di Mezzo ed oltre. La sua curiosità lo spinge a fare quest’ultima cosa, proprio come Pipino ha lo spirito d’avventura.
Non che avesse doti da leader perfetto, almeno durante il viaggio narrato ne “Il Signore degli Anelli” ma che ci sia in qualche modo “bisogno” di lui, soprattutto per Pipino, proprio perché più piccolo d’età ed ingenuo (un ragazzino delle medie in gita, tanto per citare una scrittrice di queste parti xD) necessita di quel barlume di perspicacia mischiata al buon senso che Merry secondo me possiede.
Qui avrà a che fare con la dura realtà della vecchiaia, della morte, sempre in compagnia del buon (ora vecchio anch’egli) Peregrino. Mi sarà difficile immaginarli anziani, però! *^*
Comunque, ho rispettato e rispetterò le Appendici in modo da non scostarmi troppo dagli eventi originali, per quel che posso.
Ovviamente, a volte per necessità, altre per scelta, ho voluto creare espedienti in modo tale da assecondare anche la mia fantasia (so che Éowyn dimora nell'Ithilien con il Principe Faramir, ma ho pensato che sapendo dell'imminente morte del fratello abbia deciso di recarsi a Rohan, e che si sia incaricata di riferire a Merry le volontà di Éomer nei suoi confronti; così come i figli di Merry che ho inventato di sana pianta).
E' meglio che ora la finisca, non è vero? xD
Vi lascio ai vostri pareri.
Enjoy! :)
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Capitolo 2 *** C. C. 1484 (seconda parte) ***
The Last Journey
“Si consultò con il suo amico il Conte,
e poco dopo ambedue affidarono beni e incarichi ai figli
e passarono Sarnoguado. Non furono mai più visti nella Contea.”
(J. R. R. Tolkien)
Non passò molto tempo che Meriadoc partì alla volta dei Grandi Smial, ove dimorava suo cugino il Conte, con i suoi figli e rispettive famiglie e pony al seguito.
Merry non voleva che essi lo accompagnassero fin laggiù. Wilcome e Primula ormai avevano a loro volta una famiglia di cui prendersi cura, e non era giusto che smuovessero i propri figli dalle loro case per lui.
“No papà, non lo ripeterò. Voglio accompagnarti a Tucboro!” aveva sbottato imperterrita Primula con suo figlio accanto, completamente appoggiata dal fratello.
La ragazza, con riluttanza a causa della lontananza dal padre che avrebbe comportato il suo matrimonio, sposò Frodo Gamgee il Giardiniere avendo da lui Holfast. Qualche tempo prima Wilcome prese in moglie una delle splendide figlie di Samvise, Daisy, sebbene fosse molto più piccola di lui, consolidando in questo modo sempre più il meraviglioso rapporto che già intercorreva fra i Gamgee e i Brandibuck.
Si rammaricava però di non aver avuto la possibilità di rafforzare, ancor più se possibile, la sua parentela con i Baggins: Bilbo e Frodo avevano portato la loro stirpe via con loro, e non c’era più nessun Baggins sotto il Colle, tranne il suo ricordo che riviveva ogni volta che si udiva di loro.
Con questi pensieri costantemente in mente, Merry, con i suoi seguaci, attraversò tutto il Decumano Est, passando per il traghetto di Buckburgo e fermandosi un giorno intero a Chianarana.
Da lì ripresero il cammino alla volta del punto nevralgico della Contea: la Pietra dei Tre Decumani. Null’altro era che una sorta di pietra miliare che marcava il punto d’incrocio dei tre Decumani, eccetto il Decumano Nord.
Dalla Pietra dei Tre Decumani si dipanavano i confini che dividevano i Decumani Sud, Est ed Ovest, confini posti solo come formalità, che veniva rispettata solo quando ci si riferiva al cibo, alla birra o all’erba-pipa.
Fu proprio grazie a quella Pietra che Merry si rese conto che mancavano soltanto poco più di dieci miglia da Tucboro. Si sentì emozionato. Erano anni che non ci metteva piede. L’ultima volta era stato in occasione della nascita dell’ultimo figlioletto di Faramir e Cioccadoro, ossia del quinto nipotino di Peregrino in qualità di nonno, Paladino, sette anni prima. Ricordava come Pipino apparisse quasi rinato ogni volta che suo figlio gli regalava un nipote da poter amare: era come se si aggiungesse un nuovo compagno di viaggio nella sua vita, qualcuno in più da poter deliziare con i propri racconti, e da cui trarre conseguente amore.
Ritornare a quei luoghi era come fare un tuffo nel passato: quello lento e dolce, dove ogni giorno fioriva di moderata gaiezza, e dove ogni notte dissolvendosi moriva, spargendo la sua malinconia.
Per Meriadoc quella malinconia non sarebbe affatto cresciuta, poiché egli non l’alimentava; ma intraprendere un altro viaggio sicuramente comportava una sola cosa: la semplice constatazione che quella a Tucboro sarebbe stata la sua ultima vera sosta nella Contea.
Non c’era un vero e proprio intento di non tornarci mai più, come fece Sam qualche mese prima; ma in un modo o nell’altro sentiva che, dopo aver vissuto tutta la vita nella sua dolce Contea, fosse giunto il momento in cui era doveroso dirle addio. Voleva ricongiungersi a tutti i membri della Compagnia che ancora dimoravano nella Terra di Mezzo, e morire con loro, uniti, come una volta.
Non ci sarebbero stati alcuni componenti, è vero, ma Merry si era già preparato ad accettare questa certezza, così come l’idea della sua dipartita. Ne era ancora turbato, ma in qualche modo avrebbe affrontato lo scoglio vivendo quell’ultimo viaggio che lo attendeva come una nuova avventura.
Dopotutto, a conti fatti era più che plausibile. Sia Pipino che lui erano ormai arrivati a delle età davvero ragguardevoli, per di più nel pieno delle forze, almeno Meriadoc, ed anche loro si stavano avvicinando, più o meno consapevolmente, al fatidico momento ultimo.
Arrivarono alla vista di Tucboro quando Holfast volle stare in sella con il nonno. Il piccolo non parlò per tutta la durata del viaggio, ma era evidente che aveva capito la faccenda. Lo si vedeva da come stringeva il mantello elfico di Merry, e da come i suoi occhietti cominciavano a cerchiarsi di rosso senza mai fra scendere una lacrima.
Poco distante dal primo tratto di sentiero di Tucboro si ergevano numerosi boschetti di castagni, dove lui e Pipino si recavano spesso da bambini: una volta Pipino si punse così forte che non la smetteva più di piangere. Eppure lui gli aveva detto che doveva utilizzare un ramo secco per tirare fuori i frutti dal riccio!
Non ebbe il tempo di terminare il pensiero che una voce familiare chiamò lui e suo figlio Wilcome.
“Messere Meriadoc! Will!”
Faramir Tuc era con il suo fidato pony, che agitava una mano in segno di saluto mentre scendeva a terra. Merry lo imitò prendendo in braccio il nipote, mentre Wilcome era già corso ad abbracciare l’amico di sempre.
Dopo aver dato il benvenuto a tutti, Faramir condusse la compagnia nella zona più a Nord- Ovest della cittadina, al di là del quale sorgevano i Grandi Smial, gl’immensi buchi hobbit dove la famiglia Tuc abitava da innumerevoli generazioni.
“Come sta la tua famiglia?” gli chiese Merry issandosi il piccolo Holfast affinché stesse comodo.
“Molto bene, grazie!” e cominciò a parlare di Cioccadoro e dei loro bambini, di come molti, crescendo, fossero timidi come Sam, e altri bramosi di avventure, da bravi Tuc. Il minore, Bilbo, a breve si sarebbe sposato con una ragazza Soffiatromba, Esmeralda.
“E tuo padre?”
“Così...” rispose Faramir sul vago. “Cerca di non impensierirci, e spesso ci riesce. Ma soltanto lui sa quanto si senta solo la sera, senza di noi.”
Pipino non aveva preso molto serenamente la sua vedovanza. Proprio come successe a Merry, il cuore gli si era straziato; ma al contrario del cugino, non si era mai ripreso del tutto.
I suoi svogliati, quasi falsi, segni di recupero erano volti soprattutto a tranquillizzare il figlio e compiacere i nipoti; e per quanti sforzi facesse per apparire più naturale possibile, difficilmente era in grado di ingannare Faramir.
Il grande complesso di buchi hobbit aveva l’ingresso principale sul finire di una stradina scoscesa, costeggiata da alberelli che facevano ombra a gruppetti di funghi bianchi che rilucevano alle strette chiazze di sole che riuscivano ad attraversare le chiome sovrastanti.
Uno hobbit anziano con una pipa in bocca si affacciò sull’uscio, perdendosi alla vista del verde che si confondeva con l’azzurro limpido del cielo. Fece distrattamente un piccolo anello di fumo, che accompagnò con lo sguardo finché non lo vide dissolversi e sparire.
Per un istante, Pipino aggrottò le sopracciglia per poi distenderle in un’espressione mesta, per poi avere un violento fremito all’altezza delle spalle.
Decisamente non aveva una bella cera. Sebbene nell’abbigliamento fosse abbastanza curato, lo stesso non si poteva dire dell’atteggiamento. Osservava la natura circostante senza prestarle realmente attenzione, molto probabilmente in cerca di qualcosa che, sapeva, non sarebbe mai arrivato. Merry era nel suo medesimo stato prima di tentare di riprendere le proprie facoltà, e ricordandosene ne ebbe compassione.
Chissà come avrebbe reagito il suo amico alla notizia di una nuova avventura con lui; chissà se i suoi occhi si sarebbero risvegliati da quel rigido torpore in cui erano caduti il giorno della morte di Diamante.
Merry era sempre più convinto che la lettera di Dama Éowyn avrebbe ravvivato nel cugino quella sete di avventure dapprima trattenuta, poi completamente abbandonata.
Sarebbe stato molto difficile vederlo rifiutare, se non impossibile.
“Se vuoi battermi nel fare anelli di fumo dovrai darti molto da fare, Pip!”
Udendo la voce del cugino, Peregrino si sentì smarrito per un secondo. Poi si voltò in direzione del sentiero, e credette di avere un’allucinazione.
“Merry?”
C’era tanta dolce commozione sul suo volto. Allargò le labbra in un sorriso stanco, ma sincero, mentre Meriadoc porse il piccolo Holfast fra le braccia della figlia e andò incontro al suo amico, abbracciandolo.
Peregrino si sentì rincuorato della presenza di colui che era il suo caro fratello maggiore. Dopo essersi sposati, ed aver preso in mano le rispettive eredità, non avevano avuto che sporadici momenti per stare insieme. Ed ora, più che mai, aveva bisogno della sua confortante vicinanza.
“Credevo non saresti mai più venuto!”
“Ah, ma che sciocchezza! Sempre il solito pessimista, eh?”
L’anziano Tuc ridacchiò contro gli abiti di Merry prima di rafforzare la stretta e lasciandosi andare ad un pianto liberatorio. Per quanto qualsiasi infausto evento potesse affliggere la sua vita, Meriadoc era sempre l’ancora di salvezza a cui aggrapparsi, e sempre lo sarebbe stato.
“Ah, ma che maleducato che sono!” disse poi sciogliendo l’abbraccio, ricordandosi che non erano soli. “Venite tutti dentro, cari amici!” disse con calorosa accoglienza. “Benvenuti!”
***
Lo studio del Conte Peregrino Tuc si affacciava su una finestra che dava in giardino, e comprendeva uno scrittoio, una sedia e due poltroncine che terminavano in bellezza l’arredamento.
Contrariamente a quanto soleva fare, Pipino si accomodò su una di esse, invitando l’amico a fare lo stesso, mentre l’odore dell’erba-pipa cominciava ad impregnare l’aria.
“Sono davvero felice di vederti, Merry! Uscirei volentieri con te per raccattare qualche cavolo, ma non riuscirei più a correre come una volta!”
Merry si rese conto così d’improvviso come il suo amico fosse invecchiato. Non che lui apparisse come un ragazzo, ma già da molto tempo era cominciata a girare la voce che si mantenesse abbastanza bene per la sua veneranda età, e questo gli ricordava costantemente quanto il tempo avesse corso. A compensare l’ingente numero di rughe che ormai gli solcavano il volto però c’era ancora una prestanza fisica che molti giovani hobbit gli invidiavano.
Pipino era rimasto pressoché com’era, certo, ma se non fosse stato per quella carenza di spensierata allegria sarebbe apparso di gran lunga migliore, a dispetto dei suoi acciacchi.
E pensare che fra loro due era Pipino il più giovane, e il più scanzonato.
“Questa non è una semplice visita di cortesia, vero?” cominciò subito Pipino.
“Da quando sei così astuto?” disse Meriadoc scherzando. “Non è da Tuc, questo atteggiamento! Mi preoccupi, Peregrino!”
Pipino scosse la testa, sorridendo ma poco incline alla burla. Se Merry aveva attraversato la Contea da un capo all’altro con molti dei suoi parenti senza un motivo apparente, senza inviare nessuna lettera che preannunciasse il suo arrivo a Tucboro, sicuramente c’era qualcosa che bolliva in pentola. E quella scintilla penetrante negli occhi, eloquente e vivace, che Pipino aveva imparato a conoscere in gioventù, ne era la prova.
“Ad ogni modo, se vuoi una risposta concisa, no! Sono venuto per consultarmi con te!”
“Riguardo a cosa?”
Senza rispondergli, Meriadoc estrasse da sotto il manto la pergamena della Dama Bianca Éowyn, tendendola verso il cugino. Tenerlo sulle spine in quel modo era sempre divertente. Infatti, benché fosse stato estremamente delicato nell’aprire la lettera, ci mise una certa impazienza che a Merry piacque considerevolmente.
Lesse in silenzio il contenuto rabbuiandosi, senza dubbio per il tragico contenuto.
“Il Re del Mark sta morendo.” prevenne Merry, stando ben attento a non lasciare che la voce tremasse.
“Quindi... te ne vai?”
Non c'era asprezza nel tono del vecchio Tuc, né quella cadenza risentita che utilizzava spesso da bambino: solo molta afflizione.
Merry aveva deciso di abbandonarlo, così, tutto d'un tratto, ed era arrivato fin lì per salutarlo un’ultima volta. Perché sapeva che molto probabilmente non sarebbe mai più ritornato.
“Che è quella faccia, Pip?”
“Beh,” cominciò Peregrino ormai sconsolato “dire addio ad un amico non è da tutti i giorni, sai?”
“Ma che vai blaterando, idiota di un Tuc?!” disse, scimmiottando allegramente Gandalf. “Dirti addio, ma quando mai? Tu verrai con me, ovvio!”
Gli occhi di Pipino si sgranarono dallo stupore. Sentì il sangue che senza remora gli saliva vorticosamente al cervello, ed il cuore battere come mai aveva fatto. Per l’emozione quasi non gli cadde la pipa dalla mano.
Era una vita intera che desiderava uscire dai confini della Contea, ma decisamente non si aspettava che quel momento fosse finalmente arrivato. Come un repentina rassegna delle avventure che visse nell’anno della Guerra dell’Anello, immagini della bianca e lucente Minas Tirith illuminarono la sua mente sopita.
Ma così come si presentò l’irrefrenabile voglia di partire, così i suoi turbamenti frenarono la sua meravigliosa corsa attraverso la Terra di Mezzo. Avrebbe dovuto lasciare i suoi familiari e, cosa ancor peggiore, avrebbe dovuto rendersi consapevole che molte cose erano cambiate. Che quello era un nuovo viaggio, e che conseguentemente non tutto era rimasto com’era.
Ma per quanto una piccola parte di sé voleva rimanere nella Contea, così l’altra molto più grande lo spronava ad intraprendere quel viaggio con Merry. Quella nuova avventura, per quanto ignota, lo invocava come un fiore farebbe per un’ape. La voleva, l’aveva sempre voluta.
Si nascose il volto ormai inondato di lacrime, e provvidenzialmente Merry si alzò per abbracciarlo ancora una volta.
“Lasceremo tutto ai nostri figli, cosicché loro lasceranno le nostre eredità ai loro figli a loro volta. Ogni cosa ha il suo tempo. Ora è arrivato il nostro, Pipino.”
***
“Ricordi quando ti dissi che non tutte le lacrime sono un male?”
“È inutile... cercare di consolarmi, papà...”
I due pony di Meriadoc e Peregrino erano già stati sellati e provvisti di vettovaglie, mentre un nuovo e timido mattino freddo di primavera faceva capolino nella volta celeste.
Le famiglie Tuc e Brandibuck erano radunate all’ingresso dei Grandi Smial, da dove i due anziani Hobbit avrebbero iniziato il loro cammino. Se per Merry era stato abbastanza facile prendere commiato da Wilcome, il nuovo Signore della Terra di Buck, seppure con una certa riluttanza da parte di quest’ultimo, lo stesso non si poteva dire di Primula.
La Hobbit si era avvinghiata saldamente al padre, piangendo in silenzio.
“Mi sento calmo e felice, bambina mia.” disse Merry baciandole i capelli. “Piangi, piangi pure. Ma non essere triste.”
Primula lo guardò in volto, spostando i suoi grandi occhi indagatori in cerca di lacrime, come se potesse trarre beneficio nel sapere che il padre fosse disperato quanto lei.
Ma non c’era nulla del genere. Oltre il suo aspetto ormai appesantito dagli anni, Meriadoc sembrava non provare altro che serenità. Ed allora, Primula comprese. Suo padre era in procinto di partire con il cuore leggero, senza avere rimpianti d’alcuna sorta. Se ne sentì rincuorata, per quanto le fu possibile.
“Non tornerai più, vero?”
In risposta, Meriadoc le sorrise dolcemente: la sua bambina era perspicace quanto lui in determinate questioni.
Comprendendo quanto di eloquente ci fosse al di là dei suoi occhi ridenti, la figlia prese ad osservarlo a lungo, contemplandolo come si farebbe con uno splendido paesaggio, e cercando di imprimere il suo volto nella mente per non dimenticarlo mai. Non voleva che il suo ricordo diventasse sfocato anno dopo anno, come era successo per sua madre.
“Buona, Cioccadoro...”
Ad un paio di metri da loro, contorniati dai parenti, c’erano anche Pipino, Faramir e sua moglie Cioccadoro, nelle stesse condizioni di Primula. Pipino sorrideva amorevolmente alle lacrime della sua cara nuora, mentre Faramir le asciugava con cura le lacrime.
“Abbi cura di lei, e dei Grandi Smial, Faramir, come ti ho insegnato. Ora sei tu il Conte.”
I rispettivi nipotini non furono da meno, ma almeno erano entusiasti all’idea che i loro nonni avrebbero vissuto ancora una volta le avventure di cui tanto avevano narrato. Fecero loro festa cantando le felici canzoni dei tempi passati, facendo girotondi attorno a loro.
Merry e Pipino li abbracciarono ad uno ad uno, riservando a ciascuno delle confortanti parole d’addio.
E così se ne andarono, gli ultimi membri della Compagnia dell’Anello all’interno della Contea.
NDA
Oltre ad agire di mia iniziativa (sia per quanto riguarda Wilcome e Daisy, e Frodo Gamgee e Primula; Tolkien perdonami!!) ho fatto alcune ricerche (che ho trovato solo in inglese, purtroppo). Ed è uscita fuori una notizia (che io non sapevo): i figli di Faramir e Cioccadoro sono del tutto sconosciuti, sebbene sia certo che ne abbiano avuti. Così li ho accennati, anche se non li ho citati uno per uno.
Sfortunatamente da questo capitolo ho dovuto tagliare molto. :(
Nella citazione di Tolkien che ho affidato a questo capitolo c’è anche Sarnoguado. Sicuramente ci sarà una piccola parte al riguardo nel prossimo, don’t worry!
Spero che il capitolo sia di vostro gradimento! ^-^’
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Capitolo 3 *** C. C. 1484 (terza parte) ***
The Last Journey
Intermezzo
Oltre ad essere una ramificazione del sentiero che conduceva al di fuori della Contea, Sarnoguado comprendeva una ridente e soleggiata distesa di campi coltivati di Vecchio Tobia.
Appartenevano ad un agricoltore imparentato con alcuni membri acquisiti dei Boffin, che puntualmente facevano concorrenza ai Soffiatromba di Pianilungone senza riuscire mai a sbaragliarla: sebbene fosse comunque pregiata, la loro foglia-pipa non aveva la stessa popolarità; soprattutto non lo stesso profumo.
Da buon intenditore, Meriadoc nei corso degli anni aveva appuntato tutto ciò nel suo scritto, fermandosi di tanto in tanto per le dovute precisazioni ed accorgimenti.
Tuttavia, era la prima volta che posava gli occhi su quella zona così remota della Contea. In lontananza, il terreno era leggermente più paludoso rispetto alle altre località circostanti, e presentava un ambiente molto più selvaggio rispetto alle aree interne. Un po’ come il sentiero che portava a Brea e a quello della Vecchia Foresta.
Merry stette ad osservare come, intorno a loro, le piantagioni sfavillassero dolcemente contro i raggi del sole postmeridiano creando unici scintillii che danzavano come lucciole.
Appena avanti, il mondo sconfinato sembrava tracciare una via apposta per loro, come ad invitarli ad avanzare, nonostante l’evidente inospitalità selvatica che giaceva su quei luoghi.
Emise un lungo sospiro, mentre incitò il suo pony al trotto. Quel repentino cambio di scenario faceva ben intendere che lì finiva la Contea; e che sul limitare di essa si apriva un varco nuovo, inedito, ma non poi così ignoto. Per un momento si sentì già nostalgico.
“Non avrei mai creduto che un giorno avrei lasciato la Contea ancora una volta.” interloquì Peregrino indovinando i pensieri del cugino.
Meriadoc si voltò, assumendo un’espressione comprensiva. Sorprendente come si intendessero, loro due!
“Te ne dispiace?”
“No. Non molto, almeno.” rispose tranquillamente. “Ho sempre voluto ritornare a viaggiare. In fondo, oramai non apparteniamo solo a lei, no? Non più...”
Merry sorrise a quell’affermazione. Anche lui, dopo il ritorno dal Viaggio durante la Guerra dell’Anello, aveva sempre avuto quell’impressione: che non fossero più solo dei semplici e pasticcioni hobbit della Contea, ma che in qualche modo avessero fatto anche di Rohan e Gondor la loro casa.
Peregrino parve riflettere sulle sue stesse parole, poi continuò. “Nonostante fossimo stati Signori per qualche tempo, laggiù.”
“Conte! Il caro Pipino Conte!” precisò Merry. “Hai fatto davvero progressi da quando ritornammo nella Contea, Pip!”
Pipino lo guardò ironicamente.
“No, sul serio!” rincarò Meriadoc “So bene cosa vuol dire incaricarsi di un titolo così altisonante. Ricordi quando eri assalito dai dubbi, e speravi che qualcosa o qualcuno ti desse la ragione per cui restare nella Contea? Ebbene, da allora sei arrivato così lontano! Sei stato a capo dei Grandi Smial come un vero capofamiglia responsabile! Hai condotto ed istruito Faramir per il ruolo che un giorno gli sarebbe toccato così bene che spesso mi chiedevo se io fossi riuscito altrettanto bene con Will. Ma è ovvio che sì!”
Il petto di Merry si gonfiò d’orgoglio, sia per se che per il suo caro amico. Non che non credesse possibile che Pipino sarebbe stato in grado di portare avanti l’eredità paterna, ma che lo avesse fatto così egregiamente, e con così tanta devozione lo faceva sentire anche fiero di se stesso.
D’altronde, egli rappresentava per Pipino una sorta di fratello maggiore, così come l’altro provava per lui sentimento fraterno a sua volta. Sarebbe stato sciocco e falso ammettere il contrario.
“Faramir è uno degli Hobbit più geniali che io conosca. Non mi stupirebbe se avesse appreso da solo tutto ciò che serve per accollarsi il titolo di Conte e portarlo avanti per le prossime generazioni. Anzi, sono sicuro che ce l’avrebbe fatta anche da sé. Non so se in vita mia sono mai stato capace di guidare qualcuno, in realtà.” sospirò Pipino. “Diamante ed io ci siamo sempre guidati a vicenda senza mai abbandonare l’altro. Non so se merito i tuoi elogi, Merry: non sono capace di far nulla da me. Sono solo un vecchio hobbit che non ha fatto altro che mangiare, bere e fumare tutta la vita.”
Meriadoc dissentì, scuotendo la testa con convinzione. “No, invece li meriti eccome! Diamante non era il tipo da sposare qualcuno che non fosse l’altezza di lei. Era dura, bella e preziosa, proprio come dice il suo nome.”
Lo scalpiccio degli zoccoli riempì il silenzio per qualche istante, mentre alla loro destra il disco solare già toccava l’orizzonte.
Pipino sospirò. “Ancora non riesco a credere come abbia fatto a sopravvivere tutti questi anni, solo, e come sia arrivato fino a questo punto. Non c’è stato giorno in cui non abbia dovuto fingere di star bene, in cui non abbia fallito persino nel recitare la parte di padre che ha a cuore la tranquillità del proprio figlio e dei propri nipoti, quando invece mi consumavo dentro... Perché so di non esserne stato in grado...”
La sua voce s’incrinò, e prima di vederlo scoppiare in lacrime Meriadoc prese la parola.
“Lascia che ti racconti una cosa: quando mio padre morì, mia madre era sul punto di lasciarsi andare. Mangiava solo tre volte al giorno e non usciva quasi mai. Mi presi cura di lei come meglio potei, ma non ci riuscii, Pipino. Tu sai quanto ogni individuo sia insostituibile, no? E questo vale per la gente di qualunque razza. Lo era Frodo, lo era Sam... Bilbo! Anche noi lo siamo!” disse, riuscendo a sollevare il morale di Pipino. “Insomma, ho capito che è meglio prenderla con serenità, per quanto sia doloroso. Quando poi venne il mio turno con Estella, ho fatto in modo che in testa mi passassero solo i momenti felici che trascorsi con lei. Ma non funzionò, anzi! Lei non c’era più ed io tentavo di proseguire come se niente fosse, cercando di consolarmi. Non sai quanto mi sia sentito colpevole di questo, e quanto piansi. Ma poi ricordai il dolore di mia madre, e così cominciai a studiare, a stendere mappe geografiche per la Biblioteca di Villa Brandy e ad occuparmi ancora di erba-pipa, sebbene parlassi davvero poco. Se non fosse stato per Primula a quest’ora avrei perso, se non la ragione, la lingua, e non è un eufemismo. Vedevo i miei figli soffrire con me, e per me, e mi sentii un pessimo padre. Mi sono chiesto che cosa diamine stessi facendo, e mi risposi da solo: stavo trascinando i miei figli nella mia disperazione, non curandomi della loro.”
“Già: ricordo che Wilcome mi inoltrò una lettera affinché ti facessi compagnia.”
“Non aveva altra scelta, all’inizio...” disse con lo sguardo a terra. “Ma Primula ha preso in mano la situazione, per quel che ha potuto. È sempre stata caparbia, come sua madre. E questa sua testardaggine mi ha fatto capire che nonostante la sua morte c’era qualcosa di nostro nel mondo, e che sarei dovuto essere più sereno per gli anni che mi restavano proprio per quelle vite.”
Pipino si sorprese di quanto il suo amico fosse calmo nel narrargli eventi così dolorosi. Merry non si tradiva affatto, nonostante quel groppo che gli serrava la gola impedendogli di deglutire il suo patimento; ma andava avanti imperterrito, come se non raccontare tutto quello ne andasse della sua pace interiore.
Chissà se lui sarebbe riuscito ad affrontare certi argomenti senza destabilizzare il suo già precario equilibrio. Si era ritrovato a dover fare i conti con la propria solitudine, riempita solo dalla consapevolezza di una nuova generazione che pian piano stava cedendo anch’essa il posto ad un’altra ancora, e così all’infinito. Una generazione che doveva andare avanti senza l’intralcio di un vecchio che si contorceva nella propria sofferenza.
Parlarne avrebbe compromesso il suo autocontrollo, Pipino lo sapeva bene. Per questo si asteneva da ciò, dando in famiglia, seppur non riuscendoci, un’immagine di sé accettabile.
Cominciando quel viaggio, ora, era come se si fosse liberato di quella maschera necessaria, ma a lungo detestata. Faceva ancora male rivangare il passato, ma almeno con Merry l’avrebbe accettato una volta per tutte.
“Non è questione di fingere, Pipino. Non possiamo essere tristi per sempre. Piuttosto...” disse con enfasi “quasi me ne dimenticavo!”
Merry ritrasse le briglie del suo pony arrestandogli il cammino, frugando poi dentro il suo mantello; e quando ebbe l’oggetto del suo interesse fra le mani, le sue labbra d’istinto si allargarono.
Il corno di Rohan scintillò nella gradevole e calda luce del tramonto, e il suo bagliore si riflesse proprio verso la Contea, che ora stavano per lasciarsi alle spalle.
Gettarono un ultimo sguardo alla verdeggiante terra natia, ormai lontana, rivolgendole quanto più amore potessero offrirle. Era arrivato il tempo, ormai, di renderla solo un magico ricordo.
“La Contea è stata il nostro inizio...” sussurrò Merry al compagno, che sorrise a sua volta. “Il mondo là fuori sarà il nostro epilogo.”
Accostò il corno alle labbra, e vi soffiò con quanta più gioia e forza potesse impiegarci.
NDA
Vi sarete senza dubbio resi conto che non c’è l’”intro” (quella che io ho reso intro) tolkieniana che aggiungo solitamente ad inizio capitolo.
No, non è che me ne sia dimenticata, ma la prossima frase di Tolkien si trascina già fino al loro arrivo ad Edoras, così l’ho omessa per far spazio a questo capitolo di transizione. So che sarebbe stato meglio se avessi prolungato il capitolo precedente comprendendo questo, ma quel che è fatto è fatto. Amen.
Se mai si ripresenteranno occasioni simili, non me ne vogliate. ^-^’
Nel frattempo approfitto per ringraziare chi mi segue, mi legge e mi recensisce! Siete davvero tanto buoni; non pensavo che questa ff sarebbe piaciuta così tanto! ^///^
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Capitolo 4 *** C. C. 1484 (quarta parte) ***
The Last Journey
Si seppe poi che Messere Meriadoc si era recato a Edoras [...]
(J. R. R. Tolkien)
Edoras si presentò sotto una luce rinnovata.
Il pallido pomeriggio illuminava Meduseld come una carezzevole mano che teneramente ne vezzeggiava la sommità, mentre lo stesso Palazzo d’Oro si ergeva sulla collinetta più alta della città, come se volesse protendersi verso quella luce.
I ricordi dei due Hobbit erano evidentemente molto sfocati, perché difficilmente poterono trattenere dei sospiri di stupore. Anche se ancora molto lontano, il Palazzo d’Oro rifletteva la magnificenza del popolo dei Rohirrim, e i due piccoli viaggiatori sentirono di essere comunque a casa, sebbene la loro fosse già molto lontana.
Le casette circostanti erano molto più grandi e sicure rispetto a tanti anni prima, quando il consigliere del Re era Grima; ed i contadini che si trovavano al di fuori, impegnati nelle loro varie attività, salutarono i due piccoli forestieri. I bambini, nascosti dietro le sottane delle madri, li osservavano con attenzione, chiedendosi come dei bambini potessero essere tanto vecchi.
C’era un tenue odore di ricordasempre appena sbocciati, al di sopra dei tumuli dei re che furono, che docilmente arrivava alle narici risvegliando nuovi antichi ricordi. Merry desiderò coglierne qualcuno. Ma il freddo soffio di tramontana investì i due piccoli viaggiatori, ed essi rabbrividirono. Stava per arrivare sera, e dovettero affrettarsi per raggiungere il castello.
“È bellissimo tornare qui, malgrado ciò che sta avvenendo alla casata di Eorl.” rifletté Merry. “Chissà quanto sono cambiati i nostri amici!”.
Smontarono dai loro pony e giunsero alle maestose scale. Ai lati del portone principale sostavano due guardie fiere ed imponenti, vestite dei colori dei cavalieri di Rohan e recanti delle fredde e lucenti lance nelle loro mani destre.
Osservarono i due viandanti con moderata curiosità, chiedendo soltanto le loro generalità. Dopotutto, gli Hobbit erano ormai famosi in tutta Arda.
“Siamo Meriadoc Brandibuck e Peregrino Tuc della Contea. Sire Éomer Éadig ci aspetta.” disse semplicemente Merry. Appena terminò di presentare se stesso e suo cugino, i due guardiani accennarono un assenso battendo a terra le loro lance, e le massicce porte si schiusero, emettendo un rumore cavernoso, che i due Hobbit riconobbero con nostalgia.
Dall’interno, completamente deserto, si fece avanti un giovane Uomo dai capelli biondi, che accolse i due viaggiatori con movenze quasi spente. Si meravigliò di avere davanti agli occhi quelle piccole creature tanto amate e decantate, ma non mancò dei suoi doveri di ospitalità. Prese in custodia i due pony, porgendo ai viaggiatori un lungo inchino. Non parlò.
“Non lo ricordavo così grande!” proferì Meriadoc, osservando la sala principale di Meduseld con il naso all’insù, sentendosi piccolo dopo tanto tempo.
“Già!” rincarò Peregrino. “Quanto tempo siamo stati lontani da Rohan, se neanche ricordavamo quanto fosse immenso Meduseld! Eppure, sembrava ieri!”
Non passarono molti secondi però, che qualcosa li riscosse dalla rinnovata ammirazione per le massicce colonne che torreggiavano su di loro.
“Chi siete?”
La voce familiare stanca e stupita di una donna in fondo alla sala del trono risuonò per tutto il salone, mentre la sua proprietaria avanzò finché i due Mezzuomini non riconobbero la figura alta ed esile di Éowyn.
I suoi occhi sofferenti parvero illuminarsi di una nuova luce riconoscendo i loro volti, come se rivedere i suoi amici potesse recare nuova gioia nel suo cuore, a prescindere dalle circostanze. Eppure, nel fondo del suo sorriso era così affranta che, per la prima volta nella sua vita, Merry non si sentì all’altezza di riuscire a consolarla, per quanto avrebbe voluto rivedere il suo luminoso sorriso.
Vestiva di un abito verde salvia che le scendeva delicato sul corpo, intonandosi perfettamente con la sua pelle bianca come il latte; i suoi lineamenti dolci erano deturpati dal tempo in maniera del tutto trascurabile, perché mai lo Hobbit fino a quel giorno vide una femmina della razza degli Uomini tanto giovane e bella, così immune dagli impietosi segni della vecchiaia.
La devozione già forte di Meriadoc si tramutò in qualcosa di più, in un senso smisurato di affetto fraterno, in cui ella era sorella maggiore e minore allo stesso tempo.
“Dama Éowyn d’Ithilien, mi riconosci?”
Se lui non ebbe tentennamento alcuno nel riconoscerla, lo stesso non poteva dirsi del contrario. Dopotutto, lui era quello che era cambiato più di tutti.
La donna non rispose, e mentre Merry si accinse ad inchinarsi e Pipino con lui, la Dama Bianca lo prevenne, inginocchiandosi ed abbracciandolo, per poter in tal modo ricevere da lui quanto più conforto possibile. E Merry la cinse con dolcezza, accarezzando il fiume d’oro dei suoi capelli, e si accorse che stava piangendo contro la sua spalla.
Rimasero così a lungo; nessuno dei due avrebbe mai voluto privarsi della presenza dell’altro, specie in un frangente così doloroso.
“Dov’è il Re, mia Signora?”
Si sentì sciocco quando formulò quella semplice domanda, perché gli sembrò di spezzare un dolce e malinconico incantesimo; d’altronde, cosa avrebbe dovuto dire? Di non piangere? Chi era lui per poter controllare le lacrime di una così nobile Dama in un momento tanto difficile come l’imminente morte del proprio fratello?
Senza replicare in alcun modo, Éowyn si ricompose un po’ impacciata, chiedendo all’uomo, Haleth, di seguirli.
“Dalla tua lettera ho compreso che non gli resta molto tempo, ormai.” disse Meriadoc.
“Sire Éomer è molto debole;” ammise la donna, trattenendosi da un’altra crisi di pianto “spesso mi confessa di sentire la morte sopra di sé, ma dice di non preoccuparsi per lui.”
“Come mia moglie.”
Éowyn lo osservò dapprima con curiosità e poi annuì, le ciocche che in precedenza sfuggirono dalla sua complicata acconciatura assecondarono i movimenti del suo capo.
“Che beffa è mai questa, eh Merry?” disse ella sarcasticamente, con un sorriso tirato. “I nostri cari dicono di non temere per loro, ma ahinoi non possiamo farne a meno.”
Percorsero lunghi corridoi lungo i quali erano affissi arazzi dei Re che si succedettero nel tempo, e dopo pochi minuti ebbero accesso alle stanze private del Sovrano di Rohan.
Erano illuminate da torce soffuse, che non avrebbero disturbato troppo la vista già debole del Re, e intorno alle pareti vi era della splendida tappezzeria recante continui ghirigori dai colori caldi, senz’alcun dubbio proveniente dall’estremo Sud.
Sul letto a baldacchino bronzeo giaceva l’uomo più potente quanto magnanimo di Rohan. Ma al contrario di come si aspettava Merry, Re Éomer appariva provato dalla malattia che lo stava consumando. Sui suoi capelli bianchi ancora ne persisteva qualche testardo ancora colorato d’oro, che leggero si confondeva con la barba leggermente incolta.
Le membra tremanti, un tempo tenaci e resistenti, erano celate dalle grandi coperte che sembravano soffocarlo.
Quell'Uomo, grande Re, così forte e ribelle, era ora relegato ad un letto, impotente e prossimo alla morte.
Meriadoc inizialmente non ebbe il cuore di vederlo in quelle condizioni, una visione peggiore di quel valente Rohirrim non poteva esserci, ma non voleva e non poteva negare ad Éomer la consolazione di avere accanto il suo amico più importante; ancor meno volle negargli il suo sorriso.
C’era qualcuno al fianco del letto, seduto su di una modesta sedia di legno lavorato.
La consorte del Re, Lothìriel.
Fiera, bellissima e fragile come rugiada mattutina, la Regina di Rohan non era per nulla da meno dalle altre Dame che gli Hobbit videro in precedenza. I suoi capelli erano una cascata d'inchiostro, sciolti, così da poter essere liberi, cinti soltanto all'altezza della testa da una fascia filigranata d'argento, sottilissima: solo un occhio attento avrebbe potuto vederlo scintillare nella penombra.
Il suo viso affilato eppure dotato di disarmante delicatezza, era purtroppo segnato da lacrime salate. Ma nonostante fosse affranta, e avesse l’aria di chi da giorni non trovava posa alla sua angoscia, la sua bellezza rara la illuminava con la sua sola dolce luce, come il sole all’ora dell’alba, rendendola così nobile ed eterea che i due viandanti credettero di avere davanti a loro un elfo.
Pipino ne rimase incantato; ma più di tutto lo colpì la sua mortificazione.
Ella era triste come lui.
“Messere Holdwine!” bisbigliò Eomer, gorgogliando per la perdita d'aria impiegata “Sapevo che saresti arrivato! Bentornato Messere Peregrino!”
Merry e Pipino abbozzarono un lieve sorriso, quest’ultimo chinò leggermente il capo.
“Come potevo non farlo, mio signore?” Colmo di tenerezza, Merry si avvicinò per stringere la mano del Re. L’anziano Brandibuck sentì quanto la presa del Signore del Mark fosse flebile, ma si rese conto che occultava in sé un’antica ed innata forza dirompente: quella stessa mano in passato brandiva forte la spada, e sapeva gestire redini di destrieri come nessun altro Rohirrim.
Se Merry fosse stato bendato, l'avrebbe comunque riconosciuto. Dalle sue mani.
Lothìriel osservò quelle due mani unite, appurando quanto la differenza di dimensioni fosse marcata. E vide come gli Hobbit racchiudessero più di quanto le loro piccole fattezze non raccontassero.
Il cuore le si strinse ancora di più, e dai suoi occhi scivolò via una lacrima.
Pipino avrebbe tanto voluto asciugargliela, e nello stesso preciso momento in cui formulò quel pensiero, una lacrima scese anche dai suoi occhi.
“Mio zio, Sire Thèoden, ti ha amato come un figlio, ed io e mia sorella ti amiamo come un fratello” disse Eomer. “Non ho mai desiderato altro che vedere coloro che amo come miei parenti in quest’ora per me buia.”
Allora osservò con gratitudine anche Peregrino, il quale se ne stava in disparte. Quel momento doveva essere solo di Merry e di Sire Eomer, per quanto questi volesse renderlo partecipe, ed egli non voleva interferire, affiancandosi al cugino.
“Ed io ho amato lui come un padre, sicché piansi alla sua morte;” sentenziò Meriadoc “e voi come se foste sangue del mio sangue. E non puoi immaginare come sia stato felice di essere invitato qui, e di stare ancora con voi.”
“Anch’io volevo rivederti, Messere Holdwine, fin dalla nostra separazione.”
“Padre, sono qui!”
Dalle porte entrò un uomo alto e bellissimo, con gli stessi capelli d’oro del Re e lo stesso volto nobile della Regina. Ella lo vide, e subito gli fu accanto, accogliendolo.
“Elfwine, ragazzo mio.” sussurrò Éomer contento. “Voglio presentarti due amici a me molto cari.”
Proprio come fece Haleth, Elfwine li squadrò con curiosità, accovacciandosi per poterli vedere meglio. “Voi siete Hobbit!” esclamò con temperante frenesia. “Mio padre e Re Elessar mi hanno parlato molto di voi! Io sono Elfwine, Maresciallo del Mark.”
I due Hobbit si guardarono con occhi che brillavano. Per la prima volta avevano la prova lampante di come la Gente Piccola fosse rinomata negli altri Paesi della Terra di Mezzo. E prima che potessero dire o fare qualcosa, il principe li abbracciò calorosamente, scuotendo i loro riccioli con le mani, incurante che fossero avanti con gli anni.
Nonostante i due viaggiatori si resero disponibili a sostare ancora a lungo nella camera di Sire Eomer, questi pregò loro di recarsi nelle cucine per rifocillarsi. Ormai era notte fonda, e Merry era convinto di non riuscire ad ingoiare niente, per quanto fosse abbastanza affamato.
Quel fastidioso groppo in gola proprio non voleva saperne di sciogliersi, ma pensare al figlio del Re lo faceva sentire meglio. Che portamento nobile, il suo.
Pipino, al contrario, non riusciva a non pensare alla tristezza di Dama Lothìriel. E la sua immagine desolata lo accompagnò fino alla camera che che il Re aveva messo a loro disposizione, passando molti minuti a girarsi e rigirarsi nel suo letto, posto qualche metrò più in là di quello di Merry.
“Prova a dormire, Pipino.”
L’altro gemette piano, mettendosi supino dopo l’ennesimo tentativo di prender sonno. Sbuffò sonoramente, mentre ancora una volta chiudeva gli occhi concentrandosi.
“No, non ci riesco!” disse dopo alcuni secondi, scostando con stizza le coperte da sé. Si alzò a sedere, osservando come Merry lo imitava con più calma, osservandolo con comprensione. E man mano che passavano i minuti, sentirono la pesantezza della notte avvolgerli, come una cupa mantella fatta di velenoso fastidio.
“Stai bene?”
Pipino scosse la testa. Si alzò dal suo giaciglio, uscendo dalla stanza. Non si aspettava che Merry lo seguisse, ed infatti così non fece.
Restò, invece, ad ascoltare tendendo le orecchie come un gatto, in modo da poter cogliere i nitriti dei cavalli che galoppavano per le praterie del Regno, mentre, cullato dalla quella mera distrazione, si addormentò.
Ma Pipino ancora vagava insonne, desiderando cancellare la tristezza della dolce Dama anche solo per un istante; e come se qualcuno avesse voluto esaudirlo, ecco che apparve Lothìriel fissare la Luna da una finestra laterale del Palazzo.
L’anziano Hobbit si avvicinò a lei, e senza voltarsi Lothìriel proferì alcune parole, come se si aspettasse che qualcuno le si affiancasse. Elfwine insisté affinché respirasse aria pulita, ma senza suo marito, effettivamente si sentiva sola.
Lo Hobbit vide ancora lo sconforto indugiare su di lei, e francamente non sapeva se il suo animo sarebbe stato in grado di sopportarlo.
“Ho sempre considerato la morte come una fredda e cupa notte d’inverno, dove gli uccelli ammutoliscono impauriti e il mare terribilmente placido annerisce, contagiato dal buio della notte.” confessò Lothìriel. “Non so se sia questo ciò che Éomer vede ora, ma non credo differisca da quello che penso.”
“E se fosse come bianche sponde al lume di un’aurora,” si azzardò a dire Pipino, sporgendosi quel poco che poteva dal davanzale “dove c’è pace, e serenità, dove nessun’ombra è ammessa, e dove rivedremo i nostri amici...”
Com’era strano! Fino a qualche settimana prima era lui quello da consolare, ed ora lui stesso stava consolando qualcun altro, come se in qualche modo tutte le creature dovessero trasmettersi questo solo potere di cui disponevano.
Lothìriel lo guardò speranzosa: la visione del piccolo viaggiatore era troppo bella per poterla ignorare.
“Come fate ad essere così certo, e così fermo, di quel che dite?”
“Non lo so, mia signora. Ma non avrei motivo di dubitare delle parole di un amico.”
NDA
Perdono, perdono, perdono!
Sono quasi due mesi che non aggiorno questa ff e lo faccio con un capitolo di cui non sono sicura del tutto. Ma ci tenevo a pubblicare il prima possibile nonostante il capitolo sia stato un travaglio, o almeno, prima che la storia venisse dimenticata. xD
Vorrei cogliere l’occasione per ringraziare le magnifiche persone che finora mi hanno concesso il loro appoggio: grazie a leila91 che l’ha messa fra le preferite; a evelyn80, ewan91, Laylath, e MirzamLupin e ancora leila91 per seguirmi con così tanto affetto; e a voi fantastici recensori e silenziosi.
Un bacio! :*
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Capitolo 5 *** C. C. 1484 (quinta parte) ***
The Last Journey
[...] per trascorrere qualche tempo con Re Éomer
prima che morisse in autunno.”
(J. R. R. Tolkien)
E così passo la primavera, e con essa anche l’estate; Rohan si ricoprì di verde, ed anche a salute di Sire Éomer pareva stesse andando meglio: dalla sua malattia non sarebbe mai guarito, ma dal suo volto traspariva energia. Modesto, ma pur sempre un miglioramento, che gli avrebbe alleviato almeno in parte le sue sofferenze.
Per quanto fosse felice di questo, la Regina Lothìriel temeva di cadere nell’illusione che il suo consorte si liberasse delle sue pene tutto d’un tratto. Ma non c’era un vero pericolo, perché le bastava vedere lo sguardo grave di suo figlio Elfwine per capire che da lì a poco sarebbe stato lui a sostituire Éomer, salendo sul trono di Rohan.
Il legame instauratosi fra Elfwine e i due Mezzuomini intanto si rafforzava, al punto che il giovane Maresciallo si ritrovò a confidare loro i suoi più remoti pensieri ed angosce. Molte di queste riguardavano il padre morente, ed il giovane appariva sempre più inquieto, come se il Mare in burrasca avesse deciso di celarsi nel suo corpo.
Sebbene l’impressione dei sudditi nei confronti di Elfwine era più che ottima, il ragazzo ancora non si sentiva all’altezza di ricoprire il ruolo di Sovrano del Mark, e più e più volte Merry tentò di rassicurarlo, e di fargli capire che era una responsabilità che, se portata avanti con onore e giustizia, poteva far nascere soltanto devozione e rispetto non minori rispetto al padre.
Ma più di tutto, i due anziani Hobbit gli consigliarono di attingere quanto più aveva imparato dal proprio padre e dalla propria capacità di giudizio.
Quanto a loro, Merry e Pipino trascorrevano le giornate prevalentemente assieme a Éomer ed Éowyn; ed erano grandissimamente lieti di conoscere i dettagli della loro vita prima della Guerra dell’Anello. Infatti, succedeva spesso che i due fratelli del Mark discorressero delle vicissitudini della loro infanzia, e i due piccoli viaggiatori a loro volta raccontarono anche qualcosa di loro.
“Una volta le sorelle maggiori di Pipino litigarono per chi dovesse tenerlo in braccio!” rise Merry un pomeriggio, al calar del sole “Alla fine, lo portai fuori io, perché per la paura mi si era attaccato ai pantaloni.”
“Anche tu hai i tuoi trascorsi imbarazzanti, mio caro Merry!” rispose Pipino. “Come quella volta che hai detto a Fredegario che Estella era sparita quando poi l'abbiamo trovata a casa dei Cotton per aiutarli nelle faccende di primavera.”
“Non sapevo fosse lì!” si difese Meriadoc. “E della tua scaramuccia con Diamante per chi dovesse mangiare quella mela? Quella sì che era una faccenda ridicola, Pip!”
Con Merry era sempre così: riusciva a far cadere Peregrino prima che questi lo facesse con l’altro; perché era lui, fra i due, quello che ne combinava una più di tutti.
La nivea Dama d’Ithilien in quei momenti finalmente si concedeva risate strappate alla onnipresente ombra che gravava su di lei, così come Éomer, non senza numerosi e preoccupanti colpi di tosse.
Lothìriel invece, sebbene fosse nella loro stessa stanza, spesso rimuginava, con la mano stretta a quella del suo consorte, estraniandosi dall’aria rosea che ogni giorno i due piccoli viandanti creavano intorno a loro. Il suo sguardo sovente vacuo indugiava su quelle scene senza realmente osservarle, e capitava che di tanto in tanto, su un consiglio del Re avuto una sera in cui i suoi nervi sembravano sull’orlo del cedimento, si recasse alle scuderie, e che accarezzasse distrattamente la sua giumenta.
Nessuno la raggiunse mai, perché tutti sapevano che fosse molto sconvolta per ciò che stava per accaderle. Solo Peregrino pensava che era meglio così, che la sua volontaria solitudine era necessaria per lei per riflettere, e lo Hobbit sperava che considerasse anche le parole che le pronunciò il giorno stesso del loro arrivo a Meduseld.
Ed infatti, erano proprio per queste che la bellissima e dolce Regina del Mark si angustiava, e puntualmente lottava contro la disperazione, aggrappandosi quanto più riuscisse ad esse. Tentò di rivalutare il suo punto di vista nei confronti del Dono, in quei brevi mesi fra l’arrivo dei due Mezzuomini e la morte di Éomer, ma ben poco ottenne dalle sue proprie riflessioni.
L’unica realtà benefica, se così si poteva chiamare, che la consolava era quella visione profumata di salsedine, che lei mai avrebbe compreso, ma che in un certo senso le davano la sicurezza che Éomer non sarebbe caduto in un baratro nero e senza fondo come se lo era immaginato.
Questa era il suo solo alleviamento, pur senza farlo realmente suo.
***
Merry una mattina si rese conto che era arrivata la stagione in cui le foglie si tingevano di rosso ed oro, e la mente ritornò alla dolce e quieta Contea. Accadeva molto di rado che i due cugini, specialmente il più anziano, pensassero alla loro terra d’origine, ma ovviamente si chiedevano come stessero i loro figli e rispettive famiglie, concludendo che oramai si fossero abituati alla loro assenza.
Provavano a pensare come scorressero le loro giornate, e a come avessero superato la separazione dai loro padri. Sembrava quasi di rivivere un sogno ora, dove man mano che scorreva il tempo i luoghi amati diventavano sempre più offuscati ed irreali.
Quasi non gli sembrava vero di esser stato sempre laggiù, tanto meno che la vita era passata così presto, e non era raro che guardandosi allo specchio non riuscisse più a rivedere lo Hobbit ch’era un tempo. E per la prima volta si rese conto di quanto fosse strano vedersi nei panni della generazione Hobbit più vecchia, vista sempre con timore e rispetto da quella più giovane.
Éomer ed Éowyn non avevano mai e poi mai fatto accenno alla diversità del suo aspetto confrontato con quello all’epoca della Guerra dell’Anello, ma nei loro occhi c’era qualcosa di diverso quando incrociavano i suoi, come se vederlo in veneranda età fosse più consono a quel tripudio di maturità che lo accompagnava fin da giovane, a prescindere da ogni cosa.
Merry aveva in sé quell’agglomerato di allegria e saggezza difficili da scindere ed allo stesso tempo difficili da accostare; Pipino stesso lo considerava sia compagno di marachelle che saggia guida al contempo, e non erano rare le occasioni in cui ritrovasse nel cugino tutto ciò di cui aveva bisogno.
Qualche mese prima aveva reputato impraticabile avere accanto Merry ogni minuto come ai vecchi tempi, quando erano giovani ed erano separati soltanto per una settimana o poco più.
Oltre questo, però, la gioia di Peregrino era simboleggiata dalla possibilità di rivivere ciò che credeva ormai lontano ed impossibile. Essere lì ad Edoras gli provocava un’emozione che andando avanti con i giorni gli era sempre più complicato arginare; ma più di ogni altra cosa essere ad Edoras con l’amico di una vita intera era il miglior dono che la sua vecchiaia potesse elargirgli.
Peregrino ripensava proprio a questo mentre, voltando lo sguardo anch’egli alla finestra su cui davanzale si erano posati i primi fiocchi di neve, si perdeva negli anfratti dei suoi pensieri.
“Hai riacquistato il sorriso, Pipino.” commentò l’anziano Brandibuck, scuotendogli all’improvviso i riccioli con una mano.
“Cosa?” Preso completamente alla sprovvista, il vecchio Tuc si rifugiò subito nell’espressione tranquilla del suo interlocutore.
“Anche l’altro giorno, quando abbiamo cavalcato insieme a Dama Éowyn appena fuori Edoras! Da quanto non ti vedevo così raggiante? Da quando nacque il tuo ultimo nipotino, se non vado errando. Tenevi in braccio Paladino tanto ed anche più degli altri tuoi nipoti.”
Pipino sorrise al ricordo del più giovane della sua famiglia. Era vero: non c’era istante in cui non stringeva l’omonimo di suo padre, deceduto diversi anni prima.
“È come se mio padre rivivesse in lui, Merry. Ci sono stati giorni in cui non sapevo cosa fare. I miei nipoti mi hanno salvato la vita. E anche tu.”
***
Quella notte Merry, dopo aver discorso con Sire Éomer circa il matrimonio di questi, si addormentò al capezzale del Sovrano del Mark, poggiando la sua candida testa sulla possente mano del Re oramai venata dai segni della vecchiaia.
Ma una sensazione di freddo fin troppo eloquente sulla sua guancia lo fece spalancare gli occhi, nel cuore della notte. Ancora intontito, la prima cosa che vide fu il viso di Lothìriel dormiente semi sdraiata vicino al marito, un fazzoletto di cotone stretto in pugno.
Tastò le dita del sovrano del Mark stringendole delicatamente, capendo che quel gelo proveniva proprio da esse. Guardò il viso, dal quale non traspariva alcun segno di sofferenza.
Il Re era morto. In pace.
Allarmato, cominciò a scuotere con forza il cugino, raggomitolato su di una poltrona, apprestandosi poi a fare lo stesso, anche se con molta più delicatezza, con la Regina.
Non aveva notato nulla che non andasse, che presagisse che quelle passate quella sera fossero le ultime ore di vita di Éomer; ed ora, inavvertitamente, era spirato nel sonno senza che nessuno gli potesse neanche dire addio.
Lothìriel si protese sul corpo del marito, e gli diede un bacio delicato sulle labbra. Cominciò a piangere in silenzio, mentre Pipino uscì dalla stanza per cercare qualcuno che potesse aiutarli.
Ritornò con Haleth, il giovane consigliere, e con Elfwine. I due ragazzi colti da sgomento si inginocchiarono, e anch’essi piansero la morte di Éomer Éadig, il monarca sotto il cui regno a lungo si mantenne la pace ed il secondo re più longevo di Rohan.
Pipino avvertì un groppo in gola. La sua espressione addolorata si contrasse come se fosse sul punto di piangere. Merry se ne accorse, e lo condusse fuori.
“Andiamo, Pipino. Lasciamoli soli...”
***
Fra tutte le perdite che i due Hobbit dovettero subire dalla vita, non si aspettavano che questa fosse una delle più amare.
Merry pensava che la lontananza avesse contribuito ad attiture il colpo, e che in qualche modo la morte non gli avrebbe più dilaniato l’anima, non dopo tutti i suoi trascorsi.
In gioventù aveva affrontato battaglie, conosciuto le più nobili stirpi della Terra di Mezzo, perdendo parti essenziali delle sue amicizie, molte cadute uccise.
Aveva affrontato la morte di Estella, superandola, ed aveva avuto il lascito di suo padre, morto anch’egli, da gestire qualche anno dopo il suo ritorno a casa, quando ancora non era così adulto da comprendere bene cosa significasse, ed ancora non era in grado di prendere la morte con filosofia, mettendosi in testa che la fine di una vita era una cosa naturale, nonostante il dolore fosse sempre lì a sovrastare la ragione.
D’improvviso, gli sembrò che le sue convinzioni fossero vacillate, che la serenità che aveva faticosamente edificato con ciò che restava della sua famiglia era pericolosamente in procinto di cedere e ridursi in granelli di cenere, sempre che l’avesse realmente costruita.
Si sentì falso nei confronti di Pipino, e nei confronti di chiunque avesse consolato in tutta la sua vita. Se aveva preso gli ultimi anni della sua vita in mano e li aveva adoperati fruttuosamente, non era affatto merito suo, ma dei suoi figli e della loro testardaggine.
All’ora di cena, l’anziano Brandibuck non proferì parola, limitandosi a ingerire a fatica un paio di piccoli bocconi, e Peregrino rispettò il suo silenzio a lungo. Alla fine il più anziano si arrese, distendendo la schiena lungo la sedia e allontanando da sé il piatto, sospirando.
Peregrino osservò il suo sguardo e comprese; nei momenti più ardui suo cugino proprio non era in grado di dissimulare il suo stato d’animo.
“Sei proprio uguale a me, quando sei triste.” osservò il vecchio Tuc.
Merry abbozzò un sorriso mesto, replicando.
“Scusami, Pipino. Ho commesso un errore.” ammise. “Non sempre si riesce ad accettare la morte...”
“Questo l’ho capito da me,” annuì Pipino “ma il tuo aiuto mi è stato fondamentale, Merry. E lo è per molti altri.”
***
C’era un’aria così pesante a Edoras che quasi la si poteva sentire gravare sulle proprie teste, e l’odore malsano ed insopportabile della morte aleggiare nel Palazzo d’Oro come un enorme avvoltoio pronto a divorare tutti coloro che vi dimoravano.
I sudditi vestirono a lutto, compresi i bambini, e su ogni finestra vi era un pezzo di stoffa nera che testimoniava la solidarietà del popolo verso la famiglia reale senza che nessuno l’avesse chiesto o ordinato.
Elfwine non lasciò neanche per un momento la salma di suo padre in quelle ore, così come sua madre. Haleth non fece nulla per dissuaderli, anzi rimase con loro finché non furono svolti i funerali; e quando furono davanti ad una tomba spettante a Re Éomer, Éowyn, Merry e Pipino non poterono fare a meno di ripensare a Re Thèoden, composto ad appena un sepolcro indietro.
Éowyn, però, aveva qualcun altro da ricordare: suo cugino Thèodred, colui che tanto l’aveva amata e tanto le aveva insegnato.* Suo nipote Elfwine sarebbe stato entusiasta di conoscerlo.
Il giovane strinse a sé la madre per tutta la funzione, intonando con alcuni Rohirrim un canto di cordoglio. La Dama Bianca invece rimase con Pipino e Merry, sostenendosi a vicenda.
***
Il mattino non fece in tempo a scendere sul regno di Rohan che il principe Elfwine fece ai due piccoli Mezzuomini una richiesta del tutto inaspettata.
“Desidero che voi restiate qui per un altro po’ di tempo.”
Il giovane sperava tanto che i suoi due amici avessero voluto assistere a quello che era un evento nella vita di un Re, forse il più importante.
“Ti ringraziamo, Sire. Ma il nostro viaggio non è terminato, e desideriamo più che mai rivedere i membri rimasti della nostra Compagnia. Non c’è più motivo di restare a Rohan per noi.” asserì Merry.
“L’Incoronazione avverrà fra tre giorni.” disse Elfwine, tentando di convincerli, spostando lo sguardo su entrambi. “Siete stati amici di mio padre, ed anche se per poche stagioni siete stati al nostro fianco e ci avete donato i vostri più saggi consigli: permettetemi di insistere, perché sarò perso se voi non ci sarete.”
Meriadoc e Peregrino rimasero attoniti ed imbarazzati da quanto fu detto loro. Non avevano minimamente pensato che ci sarebbe stata l’incoronazione; solo, avevano già pianificato di recarsi a Gondor, conclusa la loro permanenza a Rohan.
Ma l’espressione supplicante del giovane li convinse a restare senza ulteriori resistenze.
La cerimonia d’Incoronazione ebbe luogo nella sala del Trono di Meduseld, dove un emozionatissimo Elfwine sentì per la prima volta il peso della corona appartenuta ai suoi avi sul suo capo. Le mani tremavano, più di paura che d’eccitazione, e deglutendo rivolse gli occhi a sua madre, che gli donò un sorriso mesto ma carico di amore, e ai due piccoli Hobbit, i quali fecero degli emozionati assensi.
E da allora fu soprannominato il Bello, poiché si distingueva nei tratti per beltà e fierezza.
Nominò suo consigliere Haleth seduta stante, e lo avrebbe fatto anche per Merry e Pipino se non fossero stati così smaniosi di partire.
Ma quando, al momento della partenza, i loro pony furono sellati, il nuovo Re di Rohan li abbracciò e li baciò con le lacrime agli occhi, donando loro la benedizione dei suoi antenati; mentre sua madre, quando fu giunto il suo turno di salutarli, si inginocchiò per poter fare ciò che si era prefissata.
“Ho trascorso la vita in apprensione,” disse Lothìriel “ogni volta che scendeva in battaglia con Re Elessar la paura di non vederlo tornare vivo mi tormentava. Ma ora che so che è spirato in pace, lontano da sangue e violenza, non ho nulla di cui lamentarmi. Ti ringrazio, Messere Peregrino,” sorrise la bellissima Dama “mi hai offerto una visione di luce in grado di far svanire ogni tenebra.”
“Non ringraziate, mia signora. Benché sia oramai incartapecorito, ho ancora molto da imparare.”
Ma la Regina sembrò non dargli ascolto. Mossa da riconoscenza, gli regalò ciò che per lei era un ricordo della sua famiglia di origine: una gemma verde e azzurra, proveniente da Dol Amroth.
“È il mio segno di gratitudine a voi” disse, chiudendola nelle mani di Peregrino. “Il giorno in cui siete arrivati per me è stato uno dei più acuti della mia vita. Mi avete insegnato a riflettere.”
Li cinse entrambi con tutto l’amore che poté trasferire.
Meriadoc poi invitò la principessa d’Ithilien a fare un po’ di strada con loro, almeno fino a Minas Tirith. Ma Dama Éowyn però non volle essere attesa.
“Vorrei rimanere qui per il momento” disse, comunque grata per la premura di Merry. “Non preoccupatevi per me. Voi avete qualcosa di ben più importante. Andate alla bianca e fulgida Minas Tirith, e porgete i miei saluti a Re Elessar e alla sua famiglia; a lungo possano ancora vivere sotto la benedizione dei fiori dell'Albero Bianco.”
“Certo, mia signora. Sire Aragorn sarà molto felice di questo.”
Per quanto si sforzasse di mantenere il sorriso sulle labbra, era fin troppo evidente che non avrebbe retto ancora per molto.
Merry le prese la mano fra le sue. Non avrebbe mai voluto dire quelle parole, ma fu più forte di lui.
“Siete bella e forte. Non vorrei foste infelice per queste separazioni.”
Ancora una volta aveva consolato.
Éowyn annuì commossa. Lothìriel sorrise; e vedendoli allontanarsi, nel vento si udì un suo sussurro.
“Namarië...”
NDA
*Piccolo tributo alla splendida ff “Sole di Primavera” di leila91, a cui questa frase si ispira.
Capitolo sofferto (in tutti i sensi), e che mi convince poco. Ma volevo aggiornare già una settimana fa, e posticipare ancora mi sembrava fuori luogo. Spero comunque che vi piaccia! :)
È probabile che durante il periodo natalizio non aggiorni, a meno che non mi venga l’ondata d’ispirazione tale da lasciare panettone e dolci vari in balia altrui. xD
Ergo, colgo l’occasione per ringraziare chi mi segue, preferisce, ricorda, recensisce, legge, e per augurare a tutti voi un felice Natale e un sereno Anno Nuovo! :*
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Capitolo 6 *** C. C. 1484 (sesta parte) ***
The Last Journey
Intermezzo
Da
quando Sire Éomer era spirato, sembrava che il
clima avesse deciso di getto di farsi più freddo. Sebbene
ora i due piccoli
viaggiatori si stessero spingendo sempre più verso Sud, la
situazione sembrava
peggiorare.
C’erano
ancora vari chilometri che separavano i due
Hobbit dalla Città Bianca, ed il gelo nell’aria e
la neve che mischiandosi alla
pioggia cominciava a cadere rendevano il cammino ancora più
periglioso.
Presero
un sentiero che costeggiava i Monti Bianchi,
affinché fossero il più lontani possibile dalle
gelide vette, per quanto
potessero. Ma se da una parte avevano sapientemente preso la decisione
giusta,
dall’altra c’era il costante pericolo di rimanere
bloccati a causa
dell’eccessiva umidità e delle conseguenze che
aveva sul terreno, che con il
passare delle ore era diventato pericolosamente melmoso. Per questo
avevano
smontato dai loro pony procedendo a piedi, mentre i loro piccoli
destrieri
davano spesso piccoli segni di ribellione, siccome incedevano con
difficoltà.
“Ce
la fai, Pip? Se vuoi ci fermiamo un po’.”
“No,”
replicò l'anziano Tuc “voglio arrivare a Minas
Tirith quanto prima.”
Erano
arrivati ad un punto piuttosto ostico, e una
pioggia battente cominciò a cadere, quando Meriadoc si
preoccupò seriamente per
il cugino. Sapeva di essere ancora molto robusto per la sua
età, e vedere che
Peregrino aveva rallentato il passo lo rendeva estremamente colpevole.
Era la
prima volta da quando partirono che la sua mente formulava il pensiero
di non
aver dovuto trascinarselo dietro, ma era combattuto, soprattutto quando
ripensò
all’aria serena che Pipino in quei mesi ad Edoras aveva
assunto.
Della
tristezza iniziale non rimaneva altro che una
pallida ombra che di tanto in tanto riemergeva, soprattutto nelle
ultime ore,
ma Pipino non era assente come quando era nella Contea, né
dava sentore che
quel viaggio fosse solo un’inutile volontà di
assecondare il cugino.
Al
contrario, ne era davvero entusiasta, nonostante
fosse anch’egli rattristato per gli ultimi eventi.
In
parte rassicurato dalle parole di Peregrino,
Merry riprese faticosamente la marcia; ma non passarono molti secondi
che udì
il cugino starnutire e tirare subito su con il naso, forse sperando che
l’amico
non si fosse accorto di nulla.
Intenerito,
Meriadoc cercò nel suo mantello un
fazzoletto da porgergli che non fosse già bagnato, e senza
pensarci ancora
prese le redini del pony di Pipino, e lo trasse insieme al suo in
direzione
delle montagne, in cerca di un rifugio.
“Che
vuoi fare, Merry?”
“Troviamo
un riparo. Non riusciremo mai ad arrivare
a Minas Tirith in queste condizioni. E poi anche i pony sono
stanchi.”
“Ma...”
“Ti
prenderai un malanno se non riposi. Non
procederemo almeno fino a domattina.”
La
sua cadenza di voce fu così risoluta che Pipino non
osò contraddirlo ulteriormente.
Si
scrollò le spalle, trovandone i muscoli
seriamente indolenziti, e le gambe quasi non sostenevano più
il peso del corpo.
Già, Merry aveva ragione: se non avesse riposato un
po’, non sarebbe più stato
in grado di camminare. Si aggrappò ai finimenti del suo pony
guidato da Merry,
e si avviarono verso il fianco del monte più vicino.
Arrivarono
in quella che rassomigliava ad una
grotta, con migliaia di stalattiti che dall’alto miravano
verso di loro le loro
punte minacciose. Scossero i mantelli fradici appena alla soglia
togliendosi i
cappucci, stando ben attenti ad evitarle quanto più
possibile.
Procedettero
cauti, senza metterci troppa fretta.
Merry
sapeva che, addentrandosi sempre di più nella
caverna, la presenza di quelle punte acuminate di calcare si sarebbe
sensibilmente rarefatta, perciò si fermarono solo quando
furono lontani dalla
loro portata, dove torreggiavano su di loro soltanto pareti rocciose
quasi del
tutto prive di umidità.
Si
sistemarono in un angolo, legando i pony ma lasciando
loro briglia, e con un acciarino accesero un fuocherello sufficiente a
tenerli
al caldo e contemporaneamente ad asciugare i loro mantelli fradici.
I
pony, evidentemente soddisfatti del rifugio,
scossero le loro morbide criniere liberandosi delle goccioline residue
di
pioggia e si sdraiarono alla parte opposta a quella dei loro padroni,
nitrendo
debolmente per il piacere del calduccio sprigionato dalle fiamme.
Merry
diede loro due mele ciascuno, e ritornò ad
occuparsi del cugino, palesemente affranto.
“Forza,
resteremo qui solo per questa notte. Minas
Tirith è sempre lì, non scappa mica!”
disse, aprendo un asciugamano sulla testa
di Pipino strofinandogli poi i capelli. Fece lo stesso con un altro
asciugamano
sui suoi riccioli bianchi, frugando ancora nel suo bagaglio.
“Basta
con quest’aria triste, Pipino! Devono esserci
quegli squisiti dolci che Dama Lothìriel ci ha fatto con le
sue mani! Sono
sicuro che ti risolleveranno il morale!”
Pipino
annuì fissando il fuoco, e mentre fu sul
punto di slacciarsi la cappa, le sue dita tastarono per caso la pietra
verde
venata di azzurro che gli regalò Dama Lothìriel.
La
fatica degli ultimi giorni di cammino lo aveva
spossato al punto da dimenticarsene.
Abbassò
il capo e, osservandola rilucere alle fiamme
rosse davanti a loro, le sue labbra si allargarono. Il pensiero di
Minas Tirith
lo abbandonò per un poco, ma la sua mente, invece di
ritornare a Rohan e a
Lothìriel, si soffermò su Gandalf;
e
gli parve di sentire la sua voce che, quasi divertita, gli mormorava
quanto
fosse orgoglioso di lui.
E
sarebbe stato incredibilmente vero, se non si
fosse scosso la testa dandosi dello stupido.
Merry,
per quanto non volesse dare ancora a vedere
quanto fosse afflitto, non riusciva a togliersi dalla testa
l’immagine di Re
Éomer di quell’ultima notte; e più ci
pensava, più tentava di ricordarlo ancora
giovane, ancora fiero, ancora nel pieno della potenza delle sue membra,
come se
un ricordo bello fosse in grado di cancellare uno brutto, o che il
brutto
potesse convertirsi in modo che la mente non ne rimanesse turbata.
Ma
le immagini sembravano accavallarsi; ed avere la
meglio ora sull’una, ora sull’altra; gli
sembrò di essere ancora sull’orlo
dell’oblio che lo divorò qualche giorno prima,
così come molti anni addietro;
un grande, oscuro vortice, dove il buon senso che consigliava di non
pensare a
niente non c’era, dove era inutile interrompere il flusso di
quei pensieri
subito, e dove l’istinto ritornava sempre, in maniera dannosa
ed inutile, a
falciare l’anima, ad inghiottirlo nel buio.
Infine,
ne uscì un singhiozzo che Meriadoc soffocò
nello stesso istante in cui lo produsse. Suo cugino appariva sollevato,
il
broncio oramai svanito così come se non ci fosse mai stato,
e non voleva
abbatterlo di nuovo presentandogli uno stato d’animo opposto
al suo.
La
vista del cibo però gli rinnovò
l’appetito. Quei
dolci erano simili al viatico elfico, ma diversi sia
nell’aspetto che nella
consistenza. Stando a quanto gli aveva spiegato Elfwine, erano
specialità di
Rohan.
“Quando
verrò
seppellito, assicurati che lo facciano insieme a questa. Mi ha dato
così tanto
questa pietra, nuovi e vecchi ricordi, che non me ne separerei neanche
se a
portarmela via fosse una divinità.” disse Pipino.
Merry
si voltò
contrariato a fissare il cugino, e di nuovo sentì gli occhi
bruciare. Peregrino
aveva confessato quel desiderio praticamente senza tentennamenti,
rimembrandogli come lui avesse fatto lo stesso in precedenza, ancor
prima di
arrivare nella terra dei valorosi Rohirrim.
Aveva
parlato delle sue
sensazioni di quando avevano lasciato la Contea per l’ultima
volta, e di quanto
fosse stato difficile portare avanti la sua vita dopo che le
vicissitudini
l’avevano radicalmente cambiata; e lo aveva fatto con lo
stesso distacco di
Pipino, con quella stessa tranquillità disarmante che aveva
impiegato lui.
Immaginò
come fosse
stato per Pipino sentirlo parlare con così tanta
placidità.
“Perché
dici così?”
“Perché
il prossimo
potrebbe essere uno di noi, e non voglio che sia tu.”
L’anziano
Brandibuck si
avvicinò ancora di più al suo parente, e pian
piano lo coprì con la coperta che
aveva per sé, avvolgendo entrambi.
“Se
ce ne fosse
l’opportunità, vorrei anticiparti.”
Non
disse altro; un po’
perché sarebbe stato superfluo, un po’
perché da lì a breve sarebbero scoppiati
a piangere tutti e due.
Il
debole dissenso di
Pipino venne arrestato da una mano di Merry che lievemente si
posò sulla sua
testa simulando una carezza, invitandolo tacitamente ad ascoltare i
suoni poco
distinguibili delle intemperie che si stavano scatenando fuori, e lo
scoppiettio del falò davanti a loro che se non
l’avessero alimentato si sarebbe
spento nel giro di un’ora.
Ma
non era quello ciò
di cui avevano bisogno, piuttosto di distaccare la mente dal
turbamento, rifocillarsi
e di riposare.
Almeno
per qualche ora.
NDA
Ma
risalve! :D
Prima
di tutto, buon
2015! State facendo dei pieni targati hobbit durante queste feste, eh?
xD
Poi
vorrei chiedere
scusa per non essere passata direttamente a Minas Tirith; per, anzi,
essermi
“fermata” ad un altro intermezzo (che non avrebbe
dovuto esserci). La prossima
volta si arriva alla Città Bianca, promesso! :)
Inoltre,
vi informo che
non ho la più pallida idea di quanti capitoli mancano per
arrivare alla fine di
questa ff. Le frasi di Tolkien sono brevi ma c’è
ancora così tanto da dire;
cercherò di arrangiarmi come posso. xD
Ringrazio
tutti coloro
che mi recensiscono, preferiscono, ricordano e seguono. Siete magnifici
e gentilissimi!
Un
bacio a tutti! :*
|
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Capitolo 7 *** C. C. 1484 (settima parte) ***
The Last Journey
“Poi
Meriadoc e il Conte Peregrino
andarono
a Gondor […]”
Allo spuntar
della quinta alba di viaggio da Rohan,
Merry e Pipino scorsero da lontano uno scintillio simile a quello di un
diamante, come colpito da un dardo del sole. Fu per questo splendido
particolare che i due viandanti si resero conto di essere entrati nel
regno di
Gondor, e di essere in prossimità della Città
Bianca.
Il bel tempo
sembrò far nuovamente capolino sulle
regioni meridionali della Terra di Mezzo, occupando la distesa ora
verde
inondandola di luce. Il paesaggio si stendeva a perdita
d’occhio. Si sentiva
ancora odore di pioggia appena caduta, ma invece di arrecare disturbo
profumava
di freschezza la vegetazione.
“Gondor!”
La
felicità di Peregrino arrivò al culmine, tanto
che spronò il suo pony ad accelerare la velocità
finché non lo si vide
galoppare nei campi di Pelennor, dove anni prima ebbe luogo una delle
battaglie
più sanguinose della Guerra dell’Anello, ma anche
dove ora risplendeva della
sublime magnificenza degli Uomini.
“Aspetta,
Pipino!”
Lievemente
indispettito, Meriadoc incitò il suo
piccolo destriero ad imitare quello del cugino, prendendo la corsa come
una
piccola sfida fra amici.
Ma al richiamo
dello Hobbit più anziano, il vecchio
Tuc non rallentò affatto l’andatura. Solo quando
fu nelle vicinanze
dell’ingresso di Minas Tirith scemò la sua
galoppata, e con essa tentò di
contenere la sua euforia.
“Merry!”
esclamò. “Quante notti ho sognato di
ritornare qui!” disse quando il cugino lo raggiunse.
Difficilmente
però controllò il suo respiro provato.
La vecchiaia costituiva il suo freno costante, che non gli permetteva o
gli
permetteva a stento di fare le cose che faceva da ragazzo.
Vide
spuntare
sul volto di Merry un sorriso nuovo. Quello era il posto in cui
l’allora
giovane Brandibuck diede prova di essere un degno cavaliere di Rohan;
stando al
fianco di Dama Éowyn nella sua impresa più ardua:
l’uccisione del famigerato Re
Stregone di Angmar, uno dei più temuti servi di Sauron.
“Non
voglio perdere un secondo di più!” disse Pipino
impaziente, riscuotendolo dai suoi pensieri.
“Andiamo!”
Avanzarono a
grandi falcate, finché non arrivarono a
quello che era il nuovo ingresso di Minas Tirith: un enorme cancello
fatto
interamente in mithril, ai cui lati
spuntavano, forti e rigogliosi, due querce che dovevano avere almeno
cinquant’anni,
che ricordavano vagamente gli alberi di Bosco Atro, ma che loro
attribuirono
erroneamente a quelli di Lòrien.
I loro rami
parevano circondare le punte sovrastanti
al cancello in un intricato intreccio, come se fossero dotati della
volontà di
voler coronarlo di legno, il più semplice ed umile materiale
della terra.
Laddove c’era un ponte levatoio, ora vi era una delle
più maestose creazioni
mai fatte durante le quattro ere della Terra di Mezzo.
L’insegna
non era più quella dei Sovrintendenti, ma
come i due Mezzuomini ricordavano fu sostituita al momento in cui
Aragorn venne
ufficialmente riconosciuto come il legittimo erede di Isildur.
L’intento
di Peregrino di non fare ulteriore
“ritardo” non fu compiuto.
I due piccoli
viandanti osservarono quell’immensa
nuova struttura con i cuori colmi di meraviglia, mentre nella loro
mente quello
sfavillante materiale evidentemente opera della maestria dei Nani
ricordavano
due nomi, e con essi due volti: Bilbo e Frodo, ancora una volta.
Scossero la
testa, tentando di riprendersi dalla
quella fulgida visione; nel frattempo il corno di Gondor
suonò espandendo le
sue note nel quieto silenzio dei campi. Improvvisamente, sentirono i
cancelli
vibrare, e piano piano si aprirono in un dolce ma deciso suono
tintinnante.
Non avevano idea
di chi li avesse scorti da lontano,
ma erano convinti che qualcuno doveva averli riconosciuti, se avevano
avuto un
così libero accesso ad uno dei più grandi regni
degli Uomini.
“Bentornati
a Gondor, mellon!”
Furono parole
pronunciate da una voce che non
stentarono a riconoscere. Davanti ai loro sguardi apparve Legolas, con
indosso
ondeggianti vesti elfiche e uno sguardo se possibile ancora
più saggio. Sul
volto non portava la benché minima ruga o altri segni
testimonianti la caducità
che i due Mezzuomini invece portavano già da tempo. La testa
era circondata di
una corona fatta di rami recanti con loro ancora delle tremule foglie
primaverili.
Gli Hobbit
scesero frettolosamente dalle loro piccole
cavalcature, e l’elfo sorrise; e con un gesto elegante ma al
tempo stesso
amichevole si acquattò prendendo le mani di entrambi gli
Hobbit, salutandoli
poi con un caloroso abbraccio.
Li
invitò ad entrare, ordinando ad alcune guardie di
chiudere i cancelli.
L’interno
della Città Bianca non deluse le loro
aspettative: era ancora più bella di come la ricordavano. Le
case, le scale, le
stesse strade: tutto era marmoreo, candido, pulito, come se la
battaglia
svoltasi anni ed anni fosse solo un vago ricordo. Ovunque spuntavano
prove
della magnificenza che l’unione fra razze aveva portato alla
città: vi erano
oro, pietra e marmo lavorato e gemme preziose che decoravano Minas
Tirith fin
dai piani più bassi; e fiori ed arbusti che si sollevavano
al cielo recando con
loro frutti di ogni tipo e colore.
I due piccoli
viaggiatori non si sarebbero stupiti
se, proseguendo nella loro visita, avessero trovato ben di
più di quanto già
non vedessero. Ai lati delle strade si resero conto di essere
accompagnati da
dei bassorilievi raffiguranti scene di guerra, intervallate da quelle
delle
incoronazioni dei vari Re e Sovrintendenti fino ad arrivare ai giorni
di pace
di Sire Aragorn.
“Dobbiamo
ricordare i nostri errori, altrimenti come
possiamo fare in modo che non si ripetano...?” disse Legolas,
vedendo il loro
triste interesse verso le scene di battaglia.
Merry
cominciò a chiedere di come stessero tutti,
quando comparve trafelato Gimli.
Alla vista del
Nano, i due Hobbit sobbalzarono, ma
non per la paura: della folta barba rossa di Gimli, impreziosita dai
tipici
ornamenti naneschi, nemmeno l’ombra. Le ciocche ora erano
diventate bianche; ed
a quella visione Meriadoc e Peregrino ne rimasero sconcertati,
nonostante
dovettero aspettarselo.
“Bene
bene!” interloquì il vecchio Nano sorridendo.
“I miei giovanotti sono tornati!”
Come se in cuor
suo lo sapesse da sempre, li
abbracciò entrambi in una sola volta sovrastandoli in tutta
la sua altezza. Per
quanto fosse ormai anziano, certo ne aveva di forza da vendere. Strinse
i due
Hobbit quasi sollevandoli da terra.
“Gimli,
soffochi!” bofonchiò Merry, cercando di
parlare attraverso la barba. Ma era così felice di rivederlo
che non si
divincolò da quell’abbraccio stritolatore neanche
per un momento.
“Re
Elessar sarà felicissimo di rivedervi!!” disse
Legolas tutto allegro. “Anche se vi ha visti altre volte in
passato dopo la
Guerra, aspetta sempre con ansia di potervi avere ancora con
lui!”
“Portateci
da lui, allora!” disse Peregrino
impaziente. “Anche noi siamo entusiasti di essere ancora qui
con voi!”
Salirono tutti e
sette i livelli oltrepassando gli
altrettanti sette cancelli della Città Bianca, scorgendo
Uomini, Elfi e Nani
che convivevano in felicità e fratellanza, ciascuno
dedicandosi a quella che
era la propria arte naturale; quando vedevano Legolas e Gimli chinavano
il capo
chiamandoli signori, e facevano
altrettanto con Meriadoc e Peregrino, come se riuscissero a
riconoscerli pur
senza averli mai visti.
Tutt’intorno
a loro traboccava di ricchezza e grazia
proprio come avevano previsto al momento imminente del loro arrivo, se
non di
più. Un enorme gioiello, ancor più abbellito da
un infaticabile lavoro
congiunto ed impreziosito dai più fulgidi e rari doni della
natura.
Arrivarono
finalmente all’ultimo livello, laddove si
trovava il Cortile della Fontana, e dove ora cresceva
l’Albero Bianco, forte e
robusto, delicato e fragile alla vista.
Sembravano
passati pochissimi istanti da quando la
Gemma Elfica lo piantò con amore, facendo risorgere la
stirpe che fu spezzata,
e posando i resti di quello seccato a Rath Dínen,
perché pur sempre un
discendente dell’argenteo Telperion.
Contrariamente a
quanto i due piccoli Mezzuomini
credevano, Legolas e Gimli non li condussero all’ingresso
della Sala del Trono,
bensì alle stalle. Pipino riconobbe subito la direzione che
avevano imboccato,
perché la percorreva ogni volta che si recava da Ombromanto
per vedere se lo
rifocillassero a dovere, quando Gandalf era via, sempre durante la
Guerra.
“Sire
Aragorn non ha mai amato sostare a lungo nella
Sala del Trono. Preferisce essere fuori, nei giardini, o nelle
scuderie.” disse
Legolas, osservando lo sguardo interrogativo di Meriadoc.
“Già,”
soggiunse Gimli “ed è rimasto praticamente lo
stesso, benché il peso della corona gli ricordi di non
essere più un semplice
Ramingo. Ma è una cosa bellissima, questa, sapete? Rimanere
se stessi con un
titolo come il suo non è così scontato come si
crede.”
Merry e Pipino
sorrisero. Nella Contea forse le cose
erano ben diverse da come potevano esserlo quelle di un grande regno
degli
Uomini, ma anche nella loro terra natia a volte era difficile, sebbene
l’abuso
di potere fosse molto più limitato.
“Ciascuno
di noi è diverso anche se a volte si
lascia intendere il contrario; di sicuro, Aragorn è un Re
molto più nobile
d’animo di Sire Denethor.” puntualizzò
Peregrino.
“Sire
Denethor è stato soggiogato dal suo stesso
dolore” intervenne Legolas “ma sicuramente questo
non giustifica la sua cattiva
condotta, specialmente nei confronti di Sire Faramir. Gandalf una volta
mi
riferì che perse sua moglie qualche anno dopo la sua
nascita; ma avrebbe dovuto
amarlo, quel suo figliolo, proprio per tentare di alleviare la perdita,
invece
di denigrarlo.”
“Magari
avesse ragionato come hai fatto tu!” esclamò
Pipino.
“Sentito,
Gimli?” chiese Legolas ironico. “La
saggezza degli elfi sta acquistando punti!”
Poi
affidò i due pony degli Hobbit ad un elfo
sussurrandogli qualcosa.
Il Nano fece una
smorfia di disappunto alle parole
di Legolas, ma non mancò di ribattere. “Eppure, chi mi disse che quella dei Nani
è grande oltre ogni misura?
Oh, sì!” fece finta di ricordare “un
certo orecchie-a-punta di nome
Legolas Verdefoglia!” e scoppiò in una fragorosa
risata sorniona, alla quale
poi si unirono tutti gli altri, incurante di come la sua voce cavernosa
potesse
spezzare la quiete della Città Bianca.
E mentre Legolas
scuoteva vigorosamente la testa
ridacchiando fra sé, una figura venne attratta fuori. Aveva
lo stemma di Gondor
sul petto, l’Albero Bianco splendette vivido alla luce del
sole. Non portava
armi con sé, ma aveva la mano al fianco: evidentemente era
abituato a portarne.
I capelli e la barba curati risaltavano il suo viso, molto simile a
quello del
Principe Faramir. Perché forse, pensò Pipino, lo
era.
Il nobile
Principe era quasi irriconoscibile. I
lunghi capelli oramai brizzolati scendevano sinuosamente sulle spalle
coperte
soltanto da una leggera veste di lino, per nulla preoccupato dalle
correnti
fresche che sorvolavano la Bianca Città. Sorrideva
frastornato, gli occhi
increduli sgranati come se credesse che la vecchiaia gli avesse
provocato
allucinazioni.
“Messere
Peregrino!”
Il viso gli si
illuminò quando lo rivide, e mentre
Faramir era ancora intento a realizzare, lo Hobbit gli si
gettò addosso
ridendo, facendolo quasi cadere a terra.
“Non
vedeva l’ora di venire, ma non si aspettava di
certo di trovare Sire Faramir!” disse Merry divertito, mentre
assisteva
intenerito all’abbraccio dei due vecchi amici.
“Ma
l’Ithilien...?” chiese il vecchio Tuc,
sciogliendo a malincuore la stretta.
“L’ho
affidato a mio figlio Elboron. C’erano delle
faccende urgenti qui a Gondor, e in assenza di Dama Éowyn ho
dovuto lasciare le
redini a lui. So che darà il meglio.”
“Suppongo
che la Dama Bianca sia ancora a Rohan...”
rifletté Merry.
“Sì,
ha inviato messaggeri qui, dicendo che rimarrà
ad Edoras ancora per molto. Éomer è morto,
infine. Sire Aragorn ne è
addolorato.”
“Di
quali faccende stavi parlando?” domandò Pipino.
“Altri
orchi hanno tentato di invadere Osgiliath, ed
alcuni si sono spinti fin nelle regioni più meridionali del
Regno. Per fortuna erano
alcuni degli ultimi rimasti; non c’è nulla di cui
preoccuparsi.”
E proprio
lì, nel momento in cui Faramir cessò di
parlare, che Aragorn apparve sulla soglia delle scuderie.
Il cuore dei due
cugini perse di un battito. Erano
decenni ormai che non avevano più visto quell’Uomo
misterioso che incontrò
quattro Hobbit alla Locanda del Puledro Impennato, e che videro
incoronato Re
con la lucente e maestosa corona alata di Gondor e insignito dello
scettro di
Arnor dopo tante pene passate.
Ma Re Elessar
non era come lo ricordavano, affatto.
L’imponenza
di una volta era incredibilmente triplicata
come mai si vide in un sovrano; ma come per Gimli, anche lui portava
ciocche
candide di capelli, screziati qua e là di grigio. Al
contrario, le rughe che
gli solcavano il viso erano appena poco meno di quante i due Hobbit si
aspettavano: egli era la discendenza dei grandi di Nùmenor
che si manifestava
ancora bella ed incorrotta da gravi propositi, la sua granitica
dolcezza e
saggezza non ancora soppiantate dall’antico e tragico destino
dell’Ovesturia.
Aragorn recava
ancora con sé il logorio delle battaglie
e delle sofferenze subite. Ma anche orgoglio, gioia e fierezza degne di
un Re.
Le chiare perle dei suoi occhi brillavano di una luce più
antica di quello che
i due piccoli viaggiatori non ricordassero: gli anni passati a
governare Minas
Tirith lo avevano reso internamente più forte: essere Re
è stato il suo vero
destino fin dal principio, anche se a lungo respinto.
Se prima tale
carica lo terrorizzava, ora sembrava
accettata. Ora sembrava diventata lo scopo della sua vita.
“Merry
e Pipino!” esclamò il Re. Ma dopo questo non
si perse in complimenti. Li baciò sulla fronte e li cinse in
un ben più
possente abbraccio di quello del Nano. Le braccia forti emanavano
virilità e
amorevolezza come solo lui poteva dare.
“Provenite
da Rohan, non è così?” disse.
“Mi è stato
informato da Sire Elfwine il Bello che Sire Éomer
è morto. Mi è stato fedele
come un figlio, come lo fu a suo zio Sire Thèoden,
offrendomi la sua nobile
spada con la sua indomita anima!
“Dama
Éowyn ti porge i suoi saluti, Sire.” disse
Merry. “E ti benedice, con tutta la tua famiglia.”
Faramir sorrise.
“La
ringrazio con tutto il cuore, e prego voi di
venire a far visita a Eldarion e alle principesse e a Dama
Arwen.”
“Principesse?”
domandò Merry colto alla sprovvista.
“Sire
Aragorn ha due splendide figlie, le più belle
che si possano desiderare.” interloquì Gimli.
E una volta
giunti all’interno delle residenze reali
videro la nobile famiglia al completo, nel giardino retrostante le
camere
private. Videro Nerwen e Lùthien che sedevano con la madre,
immerse nella
lettura di un libro piuttosto voluminoso: le due ragazze come Dama
Arwen
sembravano ancora dei fiori in boccio. Per Meriadoc e Peregrino fu
impossibile
stabilire le loro età.
Le dame chiusero
il libro e lo lasciarono da parte.
Arwen era vestita di semplice azzurro, i piedi nudi si confondevano con
il
leggero strascico della veste. Dell’abbigliamento delle due
principesse, che
nel frattempo esprimevano curiosità verso i due Mezzuomini,
non c’era colore
all’infuori del verde e del marrone: l’una, la
più slanciata, Nerwen, aveva sul
suo vestito ben tre sfumature che andavano fra il verde del fogliame
d’estate e
quello smeraldo delle pietre sotto la terra; la seconda,
Lùthien, certamente
più giovane, aveva su di sé lo stesso castano dei
suoi capelli leggermente
mossi.
Entrambe le paia
d’occhi rifulgevano come stelle nel
buio cielo, superando quello della Regina di Gondor.
Al richiamo del
padre ed alla sua richiesta di
salutare i due viandanti, le principesse baciarono loro le guance senza
proferire parola, mentre Arwen, riconoscendoli, li accolse con calore,
dando
loro il benvenuto ed invitandoli a ristorarsi.
Ma essi
già conoscevano Eldarion: Aragorn visse
qualche tempo nel Nord, e fu lì che Dama Arwen diede alla
luce l’erede di Re
Elessar, colui che avrebbe seguitato la stirpe Numenoreana.
Ma quando lo
videro nient’altro era che un
bellissimo neonato, con morbidi riccioli castani: della virile figura
che si
erse davanti a loro, qualche istante più tardi, ne
riconobbero solo la
capigliatura.
Luminoso,
Eldarion aveva riflessa sul volto la
bellezza della luce del Silmaril di Eärendil il Marinaio.
Nessun principe, che
fosse Uomo o Elfo, poteva eguagliarlo, se non il suo stesso padre.
I suoi gesti,
eleganti eppure così gioviali e
affettivi, stupirono i due anziani Hobbit. Se erano rimasti a bocca
aperta
contemplando gli altri membri della famiglia di Aragorn, ancor di
più lo furono
davanti al futuro sovrano del Reame di Gondor.
Senza dar tempo
loro di presentarsi, o di riscuotersi
dalla magnificenza della sua persona, cominciò a parlare.
“So
bene chi siete: non c’è stato un solo giorno in
cui mio padre non mi abbia raccontato della Compagnia
dell’Anello. Ho così
impressi nella mente voi e la vostra incredibile storia che, come
vedete, vi ho
riconosciuto senza che voi mi foste presentati. Io sono Eldarion,
figlio di
Aragorn, l’ultimo dei Re diretti di Nùmenor, e
Signore di Arnor. Benvenuti,
Meriadoc e Peregrino. Possa la vostra permanenza a Minas Tirith essere
motivo
di benessere e gioia.”
NDA
Ehilààà!
Avete aspettato,
e me ne scuso. Spero sia valsa la
pena!
Qualcuno di voi
voleva che un certo personaggio
arrivasse: Faramir! *fuochi d’artificio*.
Siccome non
sapevo se introdurlo o meno, non ne
avevo più parlato. Ma eccolo qui! ;) Vedremo che fare di
lui... *risata
malefica*
La mia
descrizione di Aragorn, così come alcuni
tratti del capitolo, non è che mi convinca tanto, ma se non
affrontavo lui
avrei aggiornato fra millemila anni. Ed ero già piuttosto in
ritardo... ^-^’
E
così, siamo arrivati a Gondor, e da qui le
Appendici ci informano che Merry e Pipino passeranno un po’
di anni a vivere
qui, prima di morire. Non so ancora come riassumere i loro anni
trascorsi a
Minas Tirith, per adesso: forse dovrete aspettare tanto quanto avete
atteso ora
per questo capitolo, a meno che non mi venga la ventata
d’ispirazione (spero
presto!).
I nomi delle due
Principesse li ho presi
direttamente dalla mitologia di Arda (ma va’?!), siccome non
se ne fa menzione
(almeno credo xD), mentre i riferimenti... pure :P
Ringrazio voi
tutti che recensite, preferite,
ricordate, seguite o date semplicemente un’occhiata. Siete
fantastici! :D
I love you all!
:*
|
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Capitolo 8 *** C. C. 1484 – 1502 ***
The
Last Journey
“[...] ove
dimorarono durante gli ultimi
brevi anni
di
vita che rimanevano loro; [...]”
(J.
R. R. Tolkien)
Gli
anni vissuti a Gondor furono molto felici e
prolifici per i due Hobbit.
Cominciarono
a chiamare ciascuno di loro Mastro Perian,
e si rivolgevano loro con
grande riverenza e rispetto.
Merry
continuò per un po’ di tempo ad occuparsi di
botanica insieme a Legolas; nell’arco di quel periodo il
vecchio Brandibuck
poté appurare che c’erano ancora molte specie che
gli erano sconosciute: alberi
dalle mille proprietà curative, alberi solidi al punto da
non poter essere
abbattuti, alberi
che non morivano.
Lo
Hobbit apprendeva tutto questo e ancora di più,
ascoltando e annotando e traendo le sue considerazioni come un
giovanissimo e assiduo
allievo assetato di conoscenza. In un solo anno era riuscito a riempire
quasi
cento quaderni che furono presto disposti in una sezione della
biblioteca di
Minas Tirith, insieme all’importante documentazione di cui
già disponeva.
Meriadoc
si ripromise che un giorno, quando non ci
sarebbe più stato nulla da sapere, avrebbe raccolto e
sistemato i suoi appunti.
Volontà che purtroppo non gli fu mai possibile realizzare.
Ma
non si interessò soltanto di quello che era
sempre stato il suo campo.
Dalla
Terra, un giorno d’estate i suoi occhi indagatori
si volsero verso il cielo.
Aveva
sempre guardato le stelle, fin dalla sua
infanzia, riservando la sua compagnia agli amici e parenti
più cari, con la
curiosità di un osservatore attento, desideroso di
scandagliare centimetro dopo
centimetro il firmamento in cerca di prove inconfutabili. I testi di
Villa
Brandy benché offrissero nozioni molto ampie non potevano
competere con
l’entusiasmo dell’osservazione diretta.
Ed
ancora una volta, trovò nel principe di Bosco
Atro un ottimo insegnante da cui imparare e con cui confrontarsi,
condividendo
le proprie conoscenze. Fecero della Torre di Ecthelion il loro
personalissimo
osservatorio astronomico, nel quale si recavano quasi ogni sera, previa
consultazione
di Aragorn.
L’elfo
vedeva chiaramente questi interessi coltivati
da Merry con passione e minuzia, e provava nei suoi confronti
un’inspiegabile
tenerezza, che andava oltre al comune sentimento di commozione: lo
Hobbit
lavorava serenamente e fervidamente, per niente angosciato dalla sua
vecchiaia
avanzata.
Ad
ogni cosa nuova che scopriva manifestava la
stessa euforia di un bambino alle prese con il più bel gioco
mai fabbricato. E
Legolas nel profondo del suo cuore lo invidiava, poiché la
sua anima sembrava
nel fiore degli anni, mentre la sua già cominciava a sentire
la pesantezza dell'eternità.
Una
notte, passata fuori dalla residenza del Re,
appostati sul pinnacolo della bianca Torre di Ecthelion, Legolas, mai
stanco
dell’entusiasmo dell’amico Mezzuomo, gli disse che
la luce delle stelle che
arrivava su Arda era vecchia di milioni di anni, e che quella che
veniva
prodotta in quel preciso istante sarebbe arrivata nell’arco
di altrettanti anni
più tardi. Questo Merry già lo sapeva, ma quello
che lo sconvolse furono le
parole seguenti.
“Così
come sapremo qualche minuto più tardi quando
la stella si trasformerà in supernova.”
“La
stella? Ti riferisci ad una in particolare?”
“Betelgeuse,
quella che è la spalla di Túrin
Turambar. Sono molti anni che se
ne parla, fra gli Elfi di Gondor. Non sappiamo quando, ma quella stella
sta già
collassando, perciò morirà presto. Prima o poi
vedremo manifestarsi
un’esplosione con una luce intensa quanto quella del Sole, e
vicino ad esso
anche.”
“Non
sono sicuro di voler vederla esplodere, e detta
così sembra un’osservazione così
antiscientifica,” sorrise mestamente lo Hobbit
“ma tu sicuramente la vedrai, che tu lo voglia o no. Fammi
questa promessa,
Legolas: osservala tu per me, ed annota le tue considerazioni
personali.”
“Lo
farò, Merry, e ti penserò quando il tempo
sarà
giunto. Dovunque sarò.”
***
Dal
canto suo, Pipino avrebbe voluto ricoprire
nuovamente la sua carica di Guardia come ai vecchi tempi, ma aveva
già appurato
da sé quanto la cosa fosse impossibile da attuare. La
debolezza sembrava avanzare
ogni giorno di un passo, e quella che un tempo era agilità
si era tramutata in
intralcio. Ma ebbe molte distrazioni per dimenticarsi di quel
desiderio.
Da
quando seppe, il giorno dopo il loro arrivo a
Minas Tirith, che i suoi amici Beregond e Bergil erano morti, non
passava
settimana entro cui Peregrino non facesse visita alle loro tombe, poste
a Rath
Dìnen, l’ultima cerchia della Città
Bianca, il luogo di riposo degli individui
che prestarono a Gondor grandi servigi.
Il
vecchio Tuc si consolava del fatto che avessero
ricevuto una morte serena, e non uccisi in battaglia lontano da casa.
Da quel
che aveva imparato dalle sue esperienze, benché cogliesse
tutti, più o meno
impreparati che fossero, essa era di gran lunga migliore quando si era
circondati da amici o parenti fidati, così cari al punto da
non potersene fare
a meno.
Passò
con Faramir quanto più tempo possibile prima
che questi facesse ritorno nell’Ithilien qualche mese dopo il
loro arrivo, raccontandosi
del loro passato, e di quanto avessero fatto nelle rispettive terre.
Fra
i meandri delle loro discussioni, spesso e
volentieri sopraggiungeva la figura di Boromir: Faramir gli raccontava,
con una
cadenza vocale trasudante amore, quanto fosse protettivo nei suoi
confronti,
soprattutto quando loro padre faceva di tutto per umiliarlo; Peregrino
invece
gli illustrava degli aneddoti del periodo in cui la Compagnia
dell’Anello era
ancora al completo. Gli unici, in verità, perché
fu solo in quel frangente che ebbe
modo di stare con lui.
“E
poi,” disse, rabbuiandosi “quando venne ucciso e
ci rapirono gli Uruk, scambiandoci per Frodo e Sam, ho capito che
neanche un
uomo così forte può resistere contro il
Male.”
“Ho
sempre temuto per lui, fin da bambino. Ma sapevo
che quel giorno prima o poi sarebbe arrivato.”
“Quella
Guerra non offriva nessuna garanzia, lo
ammetto.”
“Nessuna
Guerra la offre, Messere Peregrino.”
“Già...”
In
seguito, ebbe modo di discutere con Aragorn sugli
eventi degli ultimi tempi.
Conobbe
lo smarrimento di Re Elessar ogni qualvolta
i loro discorsi convergevano verso Sire Éomer,
così simile a quello provato da
Merry, e la sua validità in battaglia.
La
sua assenza, benché fosse distante, nel cuore di
Aragorn si faceva sentire ogni giorno di più.
Il
Re di Gondor era solito scambiarsi della
corrispondenza con il nuovo sovrano del Mark, Elfwine, ma soltanto per
organizzarsi su quelle che erano le controffensive degli orchi rimasti.
Il
figlio di Sire Éomer gli aveva promesso a sua volta
fedeltà, rispettando così
l’alleanza duratura fra Gondor e Rohan. C’era
sì quella fulgida devozione che
tanto infiammava l’animo di suo padre, ma
l’amicizia che li legava era
puramente formale. Re Elfwine non si permetteva mai neanche di
chiamarlo con il
suo nome, per quanto Aragorn avesse insistito a lungo.
***
Ma
i due Hobbit non si limitavano a confidarsi solo
con chi conoscevano da molto tempo.
Eldarion
strinse con loro un’amicizia profonda, e
non poterono fare a meno di ricordarsi di Elfwine, e della sua
reticenza a
prendere le redini di Rohan. Il Principe di Gondor invece sembrava
tutto l’opposto:
era certo della sua preparazione, e molto spesso sovrintendeva al padre
quando
questi era in viaggio per stanare gli ultimi residui di Male che ancora
ammorbavano la Terra di Mezzo.
Capitò
una volta che Sire Elessar restasse via da
casa per mesi, insieme a Sire Faramir per perlustrare i pressi del
Lebennin, mentre
questi faceva ritorno nell’Ithilien, ed il giovane Eldarion
fece tutto ciò che
era in suo potere per mantenere la Città Bianca intatta. E
questo gli valse
sempre più autostima da aggiungere a quella che
già possedeva, ma anche una
piccola dose di autocritica.
Era
serio ed autorevole; sensibile e paziente.
Merry
e Pipino ebbero modo anche di conoscere le
principesse Nerwen e Lùthien. Erano molto simili
nell’aspetto, ma i due piccoli
viaggiatori si resero conto di quanto fossero sottilmente diverse fra
loro:
Nerwen era la più pacata, quella che non mancava di dare
cenni di riverenza
anche quando i due Hobbit le avevano confidato che non ce
n’era alcun bisogno; l’irrequieta
Lùthien invece a Meriadoc ricordava tanto sua figlia
Primula: spontanea,
testarda, specie quando, una sera, Nerwen raccontò loro
della volta in cui si
smarrì per il primo livello, ritrovandola poi soltanto il
giorno successivo.
Primula
aveva fatto la stessa marachella, una volta.
Glielo
riferì, colmo di nostalgia e di lacrime
trattenute, ma a parte questi dettagli di vita privata, le due dame
sembravano
sapere tutto di loro. Come Eldarion, anche loro erano cresciute con le
storie
sulla fine della Quarta Era.
Lùthien
spesso si lasciava prendere dall’entusiasmo,
trascinando con sé i due viandanti in un vortice di allegria
pura, difficile da
contenere, ma per i due cugini anche carica di ricordi che man mano che
trascorreva sempre, sempre più tempo, nel buio delle loro
stanze, li
consumavano.
“Un
bravo Hobbit non dovrebbe rivangare il proprio passato”
sosteneva suo padre Saradoc, quando Merry era poco più che
un neonato “soprattutto quando gli
fa male farlo.”
E
a Merry molti li facevano eccome, ma per niente al
mondo avrebbe voluto che il sorriso della principessa
Lùthien si spegnesse,
quello che tanto le ricordava sua figlia.
***
Il
giorno che più amavano era il 25 di Marzo.
A
Gondor, i festeggiamenti non erano mai abbastanza,
e Sire Aragorn stesso, così solitamente altero, e segnato da
rughe di
preoccupazione, diventava un'altra persona.
In
quegli anni poi, quando Meriadoc e Peregrino
erano con lui, Legolas appurò che la sua felicità
e la sua focosa speranza erano
notevolmente aumentate.
A
condividere la gioia vi erano anche i suoi figli,
e a sua splendida consorte Dama Arwen Undòmiel che, a
dispetto della perdita
della sua immortalità elfica, appariva raggiante come se non
ne fosse mai stata
privata, immersa nel suo sogno, ormai esaudito, d'amore.
Merry
e Pipino sapevano bene quel che provava, tanto
ed anche più di quanto lei stessa potesse sospettare.
Nel
giorno di quella che fu la loro ultima
celebrazione dell’amata ricorrenza le si avvicinarono, e con
un profondo
inchino le dissero quanto fosse bella, e quanto lei e tutta la sua
famiglia
fossero belli e d’animo gentile e tramiti dei loro
più dolci ricordi.
NDA
Mi
sono presa la libertà di parlare di astronomia,
attenendomi comunque a quella tolkieniana. Non ho trovato il suo
corrispettivo
di Arda, ma la faccenda di Betelgeuse è vera; ed
è la seconda stella per ordine
di grandezza della costellazione di Orione, che nel legendarium del
caro
Professore corrisponde a Túrin Turambar (se ho sbagliato
qualcosa, siete autorizzati
a lanciarmi pomodori xD).
La
data di morte (1502) l’ho inventata da me
(compito ingrato T-T). A quanto ho visto, quelle
“ufficiali” si fermano all’anno
in cui lasciano la Contea (1484) indicando che hanno comunque seguitato
a
vivere ancora per un po’. E vale per entrambi.
Anyway,
per ora godetevi questo capitolo (prima
delle dolenti note): sinceramente non mi soddisfa ma spero che comunque
vi sia
piaciuto! :)
Baci
a tutti! :*
|
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Capitolo 9 *** C. C. 1502 (prima parte) ***
The
Last Journey
Correva
l’anno 1502 per gli Hobbit della Contea, ma
nel regno di Gondor il calendario segnava il 3102 della Quarta
Età.
Le
mattine del mese di aprile di quell’anno furono
imbiancate di una luce risplendente. Non ci fu un solo giorno di
pioggia nel
Reame di Gondor, ma c’era abbastanza umidità per
non far seccare le colture. Le
sere erano fresche, e talvolta qualche nube sorvolava la volta celeste
lentamente, leggere come piume. Ma non passava una sola notte in cui si
attardassero abbastanza da oscurare le stelle.
Meriadoc
era ancora una volta accanto a Legolas
sulla sommità della maestosa bianca Torre di Ecthelion, con
un taccuino nuovo
in una mano e una penna già intinta nel calamaio
nell’altra come sua
consuetudine, e tutto ciò che osservò quella sera
del diciannove aprile lo
ricondusse a tutti
coloro che aveva
conosciuto e che avevano fatto parte integrante della sua esistenza.
Non
sapeva il motivo di quelle elucubrazioni, però era
certo che non le avrebbe scacciate quella volta. Gli apparivano
così remote,
ora, che per niente al mondo lo avrebbe fatto. Anzi, cercò
di afferrarle quanto
più gli fu possibile.
D’improvviso
avvertì un forte giramento di testa.
Posò con fatica la penna sul foglio davanti a sé,
e prima che il mondo gli
vorticasse ancora davanti agli occhi, li coprì con la mano
libera. Solo allora
si avvide del tremore che gli tormentava la mano.
“Merry,
non ti senti bene?”
La
soave voce incrinata dalla preoccupazione
dell’Elfo era come miele per le orecchie, ma per lo Hobbit
era come una
martellata scagliata ferocemente su un pezzo di metallo ardente.
“Per
oggi basta così, Legolas. Non ti dispiace,
vero?”
“No
affatto,” lo rassicurò l’amico
“la tua salute è
ben più importante delle stelle! Hai bisogno di dormire ora.
Domani ci attende
una giornata lunga!” terminò con un sorriso.
Gli
tolse tutto di mano, lasciandolo sul tavolino
messo apposta per i loro strumenti di lavoro.
Poi
lo Hobbit si fece accompagnare nella camera che
condivideva con suo cugino e si raccomandò di non dire
niente a nessuno di
quella brusca interruzione. L’ultima cosa che voleva erano
inutili allarmismi.
Pipino
già dormiva della grossa da un po’,
perciò
non si accorse di nulla.
***
Da
quando erano finalmente insieme, Meriadoc,
Peregrino, Aragorn, Legolas e Gimli avevano preso con il passare del
tempo una
piacevolissima abitudine, divenuta poi quasi come un sacro rito a cui
adempievano almeno una volta ogni mese, salvo impegni del Re: sellare i
loro
cavalli e pony, e sfrecciare nelle vaste piantagioni di Gondor che si
estendevano al di sotto delle mura di Minas Tirith.
Erano
cavalcate, quelle, che gli ultimi membri della
Compagnia presenti sulla Terra di Mezzo si concedevano come unici, veri
momenti
per stare soli come ai vecchi tempi, per quanto l’assenza
degli altri si
facesse sentire.
Arrivavano
sempre ad un punto, solitamente a Est, in
cui Minas Tirith diventava poco più di una bianca visione
grande quanto una
falange. Poi si fermavano a riposare, mangiando e fumando erba-pipa e
discutendo
del più e del meno.
Legolas,
però, quel giorno era all’erta: non aveva detto
niente a nessuno del malessere di Merry della sera prima, ma la
consapevolezza
inquietò la sua dormiveglia.
Contrariamente,
Meriadoc non dava segni
preoccupanti, e se mai li aveva non li diede a vedere.
Fino
alla fine della giornata.
Merry
avvertì un lancinante dolore al petto, un
allarmante sentore che qualcosa non andasse, ma subito tentò
di cancellare la
smorfia che assunse. Si guardò intorno, e nessuno pareva si
fosse accorto di
nulla. Salvo Legolas. Incrociò i suoi occhi con quelli
dell’amico, appurando
che l’avesse adocchiato già da molto tempo.
Il
Mezzuomo abbassò lo sguardo, sentendosi
stranamente colpevole. Stava cercando di coprirsi quando molto
probabilmente
non avrebbe dovuto farlo, e stava trascinando Legolas a mantenere il
silenzio
con lui quando era ben evidente l’intenzione di avvertire
almeno Aragorn.
Passarono
altri minuti, e una nuova fitta gli sembrò
strappare in due il cuore. Emise un gemito soffocato, ma questa volta
l’Elfo
non fu il solo che lo notò.
Aragorn
osservò Meriadoc di sottecchi, e colse
l’espressione dolente dello Hobbit.
“Merry!”
“Sto
bene!” lo anticipò il vecchio Brandibuck,
temendo che Peregrino si impensierisse per lui. “Non
è niente, davvero.”
Ma
nessuno gli diede corda. Gimli e uno
spaventatissimo Pipino l’aiutarono ad alzarsi, e Aragorn lo
fece montare
assieme a lui sul suo cavallo.
E
ritornarono di gran carriera a Minas Tirith.
***
Dopo
molti tentativi di Aragorn di alleviare le
sofferenze di Merry mediante uso di athelas,
dovette arrendersi all’abilità ben più
avanzata dei guaritori del Reame. Ma in
quel frangente, sembrava che nessuna medicamento riuscisse a curare il
piccolo
Mezzuomo. Anzi, tutti i sintomi sembravano farsi beffe dei loro sforzi.
Re
Elessar ne ebbe sentore quasi fin da subito, ma la speranza degli altri
e
nutrita da lui stesso non era mai abbastanza.
“Non
gli resta molto tempo. Anzi, è molto debole, e
la debolezza aumenta. Centovent’anni sono molti anche per uno
Hobbit. Temo che
ne avrà ancora per qualche ora, se non meno.”
Il
guaritore, che si chiamava Ostoher, era
sinceramente dispiaciuto per Meriadoc. Aveva imparato a conoscerlo
quando si
era offerto di insegnarli alcune cognizioni su delle erbe curative
insieme a
Legolas, ed aveva intrecciato un legame fatto di affetto fraterno e
cordialità.
Spesso
aveva definito Merry gentilhobbit
proprio come era d’usanza fra i Mezzuomini, e non si
era mai dimostrato altero o indisponente con lui. E il piccolo della
Contea
aveva fatto altrettanto.
“Non
avrò mai il cuore di dirlo a Pipino...”
“Questo
è vero, ma penso l’abbia già capito da
sé.
Anche se non lo ammetterà mai.”
“Merry
lo sa?”
“Sì,
non ho voluto nasconderglielo. È una personcina
molto giudiziosa, saprà come affrontare la
situazione.”
Sebbene
parlassero a bassa voce, Pipino udì tutta la
conversazione.
E
provò la paura più intensa della sua vita.
Per
molti anni aveva sofferto per le perdite della
sua famiglia, ma ora che era arrivato a quella che spesso temeva,
già da un po’
di anni a quella parte, non sapeva come comportarsi. C’era un
grande vuoto che
lo attendeva ad un passo un po’ più in
là. Le gambe non volevano saperne di
avanzare; sembrava si fosse immobilizzato a causa di un incantesimo.
Ma
voleva comunque vederlo. Lo avevano tenuto sotto
stretta osservazione per ore, e ora più che mai voleva
stargli vicino.
Fu
questa volontà che lo spinse ad eludere i due
uomini entrando furtivamente nella stanza dov’era Merry,
sfuggendo dalle solide
braccia del Nano che nel frattempo ascoltava il guaritore, che
continuava a
discorrere con Aragorn.
Pallido
come un cencio, Meriadoc era steso sul suo
lettino, le coperte tirate fino alle spalle. Aveva il respiro corto ma
da quel
che poteva vedere Peregrino riusciva a dominarlo bene. E questo gli
fece
accendere una luce, per quanto illusoria.
“Merry,
come stai?”
Gli
prese la mano, ma era così fredda che la coprì
con l’altra per fargli calore. Merry la strinse forte
accarezzandola piano. Non
voleva altro.
“Non
molto bene, ma presumo non mi possa
lamentare... Centovent’anni, Pip! Non ho superato il vecchio
Bilbo ma meglio di
niente.”
Rise
debolmente, come se avesse detto qualcosa di
divertente. Ma Pipino era sconvolto, e proprio non era in vena di
scherzi.
“Non...
non dirle certe cose. Ho una paura, Merry!”
balbettò tremante.
“Non
ne hai motivo, Pip. Sei forte, e riuscirai a
vivere anche senza di me. Hai imparato tanto, e hai insegnato molto
anche a me.
Hai consolato la Regina del Mark, ricordalo.”
“Ma
che stai dicendo?” esclamò l’altro,
riprendendosi. Si sentiva così inutile. “Ti
rimetterai, ne sono sicuro! Studierai ancora le stelle, e
faremo altre gite come quella di oggi.”
La
sua voce però si ridusse ad un sussurro
strozzato, e Merry lo vide distogliere lo sguardo carico di lacrime
represse.
Tutto ciò era troppo struggente per Pipino. In fondo, lui
non doveva neanche
essere lì a parlargli. Merry non sapeva se gli potesse fare
bene o male al suo
piccolo cugino, ma sembrava che uscire da quella stanza fosse
l’ultima delle
sue intenzioni. Si rese conto persino che si era acquattato al bordo
del suo
letto per stargli più appresso. E di mandarlo via non se ne
parlava.
“La
tua stessa voce ti tradisce, vecchio mio. Non
sono uno stupido. Sto morendo e voglio prenderla con
tranquillità e filosofia,
tutto qui. Hai presente quando ti raccontai del Dono di Eru, quando
ancora
eravamo giovani e sapevamo poco del mondo esterno? Cosa ti dissi, lo
ricordi?”
“Dicesti
che la morte in fin dei conti è un bene,”
singhiozzò lui “perché non ci rende
stanchi del mondo, e perché ci fa
apprezzare ogni singolo minuto dell’esistenza.”
sentenziò come se fosse una
lezione imparata a memoria. Una lezione che però ora non era
disposto ad
accettare. Una lezione che accostata a Merry non aveva la
benché minima applicazione.
“Sì,
questa era la mia conclusione. L’hai adottata
anche tu, vedo.”
Sorrise
debolmente, e se non fosse stato così
fragile Pipino gli avrebbe tirato una manica per portarlo dove lui
voleva. Come
da bambini.
“Cosa
farai ora, Pip? Hai intenzione di ritornare
nella Contea?”
“No,
resterò qui.” assicurò il vecchio Tuc.
“Resterò
insieme a te, come abbiamo sempre fatto.”
“Resta
con Aragorn e gli altri, e spendi il tuo
tempo con loro più che puoi. Davvero, la loro compagnia
è più di
quanto noi potessimo mai aspirare.”
“E
con te?” chiese ancora.
“No,
io... sarò nel tuo cuore e basta.”
Pipino
non riusciva più a parlare o a fare domande.
Si accucciò contro il fianco di Merry, piangendo in
silenzio. Merry gli
accarezzò i capelli, ricordando tutti coloro che avevano
fatto parte della sua
vita, uno per uno.
Si
chiese se avesse mai fatto qualcosa di male o qualcosa
di cui non ne valesse la pena. Di dispetti ne aveva fatti eccome, e si
era
portato dietro i guai con Pipino che lo seguiva ovunque.
Poi
si era caricato sulle spalle il titolo di
Signore della Terra di Buck, e da lì il suo matrimonio, e la
nascita dei suoi
figli. Vide Pipino condividere con lui tutto questo, e
avvertì perfettamente ciò
che l’altro stava provando in quel momento.
Pipino
aveva un modo tutto suo di concepire
situazioni ardue come quella, e chissà se avrebbe fatto quel
che gli era stato
detto. Probabilmente non aveva sentito una sola parola, preso
com’era dal solo
pensiero di voler stare con lui.
Legolas
e Gimli assistevano a distanza senza dire
una parola. Gimli si asciugava le lacrime con la barba gemendo in modo
incontrollato. Il suo compagno gli cingeva le spalle, spostando gli
occhi ora
su di lui, ora su Merry e Pipino.
Piano
piano Peregrino si rese conto che il respiro
di Meriadoc si faceva sempre più impercettibile.
“Merry,
mi senti?”
Merry
non rispose. Accarezzò il braccio del cugino ancora
una volta ed esalò un respiro strano, che fece tendere le
orecchie del Re.
Riconosceva quando una persona era sul punto di morire,
perciò entrò nella
stanzetta seguito a ruota da suo figlio.
Commise
l’errore di prendere il braccio di Pipino che
tanto amorevolmente Merry aveva toccato, e il vecchio Tuc esplose.
Tutto ciò
era davvero troppo.
“Aragorn,
lasciami con lui!”
A
quella preghiera, sulle guance del Re scese una
lacrima. Quelle di suo figlio Eldarion erano già
completamente bagnate. Il
Principe era in procinto di aiutare il padre a convincere Pipino ad
andarsene
da quella camera; ma si rese conto che sullo stipite della porta di
Merry c’era
sua sorella Lùthien. La giovane osservava
l’interno chissà da quanto tempo,
perché anche lei stava piangendo, gli occhi sgranati
dall’incredulità di quel
che stava accadendo.
Nel
suo deliquio, la mente di Merry la scambiò per
la sua stessa figlia, e ne pronunciò il nome per
l’ultima volta. La sua ultima
parola. Prima di spirare.
“Primula...”
“Merry!”
mormorò la Principessa.
Il
momento era così straziante che Eldarion decise
di accorrere per portar via sua sorella. Le cinse le spalle, e la fece
procedere verso le sue stanze, dove la affidò a sua madre e
a Nerwen, anch’esse
evidentemente afflitte.
“Pipino,
vieni via.”
“Voglio...
voglio stare con lui, ti prego.”
Esaudirlo
significava anche assistere alla sua
inutile, affranta veglia. Per questo Aragorn, cercando di essere il
più
delicato possibile, fu costretto a prenderlo in braccio, costringendolo
a
lasciare la mano del suo amico. Lo Hobbit provò a stento a
dimenarsi: la forza
di Re Elessar era troppo per lui, ma combatté per mantenere
il contatto visivo
con il corpo del suo caro cugino Merry.
Strinse
i lembi delle vesti del Re con forza, tentando
di affacciarsi oltre la grandezza delle sue spalle.
Merry
era lì, solo e pallido. La mano che aveva
tenuto fino a pochi istanti prima era abbandonata appena di fianco al
cuscino. I
riccioli bianchi si confondevano con il candore del suo capezzale. Era
sereno,
ma questa consapevolezza non era di nessun aiuto o conforto.
Non
vide neanche Ostoher che con gli occhi arrossati
gli stendeva un lenzuolo bianco addosso, coprendone anche il volto. Il
suo pianto
avrebbe trovato sfogo dopo, quando Meriadoc si sarebbe trovato nel suo
luogo di
riposo e tutto sarebbe realmente finito.
Le
lacrime di Peregrino invece bagnarono la barba
del Re, che intanto lo abbracciava sussurrando consolazioni che non
erano in
grado neanche di alleviare il suo stesso accoramento.
L’ultima
cosa che vide prima di svenire in preda
alla disperazione fu un buio profondo oltre il baratro, ed un punto
luminoso che
subito si spense.
Tutto
ciò che aveva, lo aveva irrimediabilmente perso.
NDA
In
questo capitolo ho tentato di introdurre per bene
il Fato degli Uomini (come viene chiamato dai mortali del Silmarillion che ne hanno timore) o Dono
di Eru (per quanto le mie capacità potessero permetterlo),
anche perché è Tolkien stesso che lo copre di un
velato
mistero, per quanto sia esplicativo che immortali e non, hanno sorte
differente.
Doveva
essere un capitolo molto più corto e un po’
più d’impatto, ci scusiamo per il disagio! xD
|
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Capitolo 10 *** C. C. 1502 (seconda parte) ***
The Last
Journey
“
[...] quando morirono, furono composti a Rath Dinen
insieme
con i grandi di Gondor.”
(J.
R. R. Tolkien)
Peregrino
si risvegliò qualche ora dopo, rannicchiato su se stesso nel
suo letto.
Strabuzzando
gli occhi annebbiati dal sonno, si rese conto di trovarsi nella
stanzetta sua e di Merry.
Aveva
appena avuto il più terribile degli incubi, di quelli
incredibilmente reali, che fanno svegliare di soprassalto e rimangono
impressi per molto tempo nella mente spazzando via tutto il resto.
La
testa gli doleva e gli bruciava come se fosse in fiamme, ma
cercò comunque di voltarsi di lato per volgere il sguardo
verso il letto di suo cugino, come ogni mattina. Normalmente, Merry
all’alba era ancora addormentato: faceva tardi spesso quando
andava ad osservare le stelle con Legolas. Ma stranamente il suo letto
ora era vuoto e composto.
D’improvviso
ricordò quel che successe qualche ora prima. Il sogno, o
meglio, quel che a lui pareva un sogno, era la realtà,
pura e semplice. Una nuova e impietosa e lancinante ondata di dolore lo
investì come una marea posseduta d’immane potenza
dilaniante, che lo conduceva verso un ostile, terrificante infinito,
sballottandolo malamente, senz’ordine, dove non esisteva una
destinazione ben definita.
Se
la morte di Diamante lo aveva pesantemente destabilizzato, quella di
Merry gli fu devastante.
Avvertì
un freddo intenso, tale da sentire l’esigenza di coprirsi
completamente; e nel calore quasi innaturale del suo giaciglio altre
mute ed inesorabili lacrime sgorgarono dalle palpebre abbassate.
Si
forzò di pensare ai momenti gioiosi, quando ancora la Guerra
non aveva toccato le loro vite, modificandole in quel modo. Sorrise
debolmente quando ricordò le loro scorribande per i campi
colmi di delizie, sfuggendo ad un giustamente inferocito Maggot; oppure
quando puntualmente si sfogava con lui illustrandole quanto Diamante,
all’epoca fidanzata, fosse intrattabile.
Non
c'era niente nella sua giovinezza e presunta maturità che
non fosse in qualche modo legato a Merry.
Ma
invece di consolarlo, quei ricordi sortirono l’effetto
opposto.
Altri
febbricitanti tremori freddi gli attraversarono il corpo, e per un
momento immaginò il caro Merry che si accorgeva del suo
malessere e lo abbracciava con quel senso paterno che lo rendeva
così amabile.
Rammentò
la notte nella grotta sulla strada per Minas Tirith, in cui ciascuno
espresse il desiderio di andarsene per primo. Merry era riuscito a
placare l’animo dell’altro anche se il suo non era
in condizioni migliori. Ma in cuor suo, Pipino non credeva che Merry
sarebbe stato così immaturo da dolersi nel suo stesso modo
se fosse stato al suo posto.
Chi
poteva dirlo se fosse questione di pienezza o no? Aveva una
così grande confusione in testa che non si sentiva in grado
neanche di formulare un frase, figurarsi intavolare quel tipo di
ragionamenti.
Ora
però Merry non c’era e mai sarebbe tornato,
morendo prima di lui; e per quanto provasse ad ingoiarlo,
c’era sempre quel groppo in gola che non si sarebbe mai
sciolto. A dirla tutta, si sentiva uno sciocco quando in quei sporadici
istanti pensava di restare solido; non poteva pretendere di andare
avanti quando sapeva che non ce l’avrebbe mai fatta.
Si
sentiva come un bambino che si aggrappa alle vesti della madre, per poi
scoprire che quelli erano solo indumenti vuoti.
Avrebbe
tanto voluto fare ciò che Merry si era raccomandato. Ma non
vedeva altro che vacuità, e quelli che erano buoni propositi
erano come al di sotto di una luce nera, profonda come lo strato
più basso della terra. Aveva ragione: sarebbe stata davvero
una benedizione, se la morte avesse posto fine alle sue sofferenze.
Perché
più che accettare la morte di Merry, aveva concluso con
l’accettare la sua.
***
I
giardini ove risplendeva la candidezza del discendente di Nimloth non
erano mai stati così silenziosi. Nuvole bianche si
addensarono sulla Cittadella e, avvicinandosi, offrirono al Re di
Gondor l’illusione che si fondessero con le mura di Minas
Tirith: ma era un tocco morbido, calmo, portatore di quiete,
anziché di tempesta.
Arrivarono
cancellando il contrasto fra l’azzurro del cielo e i rami
carichi di tremuli fiori primaverili, facendolo quasi scomparire alla
vista.
L’Albero
Bianco di Gondor fu il primo che Merry si accinse a studiare, anni
prima: aveva rimirato la sua maestosità per diverso tempo,
rammentandolo quando il Re ritornato lo piantò nel cortile
accanto alla fontana. Allora era piccolo, e benché crescesse
rapido mettendo sui suoi rami fiori della più indicibile
bellezza, era lontano da quel che era diventato. Quell’Albero
rappresentava appieno la personale ascesa della Gemma Elfica,
sotto tutti i suoi aspetti.
La
piccola ombra di Peregrino si presentò nel cortile, e il
Mezzuomo sembrò stupefatto di trovarvi il Sovrano.
“Non
volevo disturbarti.” interloquì debolmente.
“Non
disturbi, amico.”
“Ero
venuto a vedere l’Albero Bianco.” Per
l’ultima volta, ma non lo disse. “Che bei giorni
erano quelli, in cui fu piantato dalle tue amorevoli mani.”
Aragorn
fece cenno allo Hobbit di accomodarsi al suo fianco, su una sporgenza
di roccia modellata per lo scopo; e quando Pipino eseguì, al
Re parve ancora più piccolo, pallido, smunto di quanto non
fosse. Ma anche più indifeso ed esposto, come se una
tremenda malattia l’avesse agguantato con mani tenaci.
Proprio
come stava accadendo a lui.
Per
quanto gli Hobbit fossero longevi, Meriadoc era già arrivato
ad un’età considerevolmente tarda, e Aragorn si
sentì uno sciocco per non averlo tenuto in conto. Era
così felice di averli ancora entrambi con sé che
in un recesso della sua mente credeva di poterli avere accanto fino
alla sua, di morte.
Ma
non era nella posizione di poter desiderare altro di quello che
già non possedeva; e la volontà di Eru
Ilúvatar andava rispettata. Ai suoi Figli, che fossero Primo
o Secondogeniti, non era dato pretendere di cambiarla, se non in casi
particolari. E cosa poteva lui chiedere di più di quanto
aveva già ricevuto, per se stesso e per Dama
Undòmiel?
Temette
di cadere nell’ennesimo errore degli antichi Re Numenoreani,
i quali desiderarono possedere l’immortalità degli
Eldar, ma ciò mai avvenne, mai con l’ingente
superbia dei suoi avi, e mai con scopi vanagloriosi.
Sentì
una tenerezza tale da cingere le sue piccole spalle, e nel momento in
cui Pipino si abbandonò a quell’abbraccio, questo
non fu più sufficiente e lo raccolse in braccio,
permettendogli di sedere sulle sue ginocchia.
“Non
hai mangiato da ieri...” disse Aragorn,
suscitandogli un gemito a quella parola, così innocua in
tempi diversi.
“Infatti,
è così.”
“Perché
non andiamo nelle cucine: provvederò di farti preparare
qualcosa.”
“Non
ho molta voglia di mangiare, scusami.” replicò
Pipino, con una punta mortificata. Non voleva proseguire oltre con quel
discorso. Se prima era fonte di interesse, ora il cibo era
l’ultimo dei suoi pensieri.
“Pipino,
non credo che ti farà bene questo digiuno.”
Sapeva
che non era facile, che non era in suo potere tentare di consolarlo
quando lui stesso era preda di quell’intensa amarezza, ma
Aragorn doveva provare a convincerlo, facendo leva sulla naturale
passione e debolezza degli Hobbit, per non perdere anche
lui.
“Ed
io non credo che mi gioverà granché il cibo, se
non posso condividerlo con mio cugino.”
“Merry
non avrebbe voluto che ti abbattessi in questo modo.”
“Merry
mi ha raccomandato di essere forte e di superare tutto questo. Ma non
posso mantenere la promessa. L’uno non può stare
senza l’altro, non c’è Pipino senza
Merry.” mormorò il suo nome riempiendo le guance
di un sorriso perso, rivolto all’orizzonte.
“Perfino lui lo ha compreso prima di morire. Cerca di capirmi
anche tu, Aragorn. Non mi ha mai interessato granché dove mi
trovassi; l’essenziale per me è sempre stato stare
con lui, in qualunque circostanza. L’ho sempre seguito, ed
ora non farà differenza. Certo, ognuno ha dovuto assumersi
le proprie responsabilità, ma il sapersi entrambi vivi e
vegeti riempiva la distanza. Adesso però, non ho mai sentito
lontananza più grande di questa.”
Il
Re pianse, guardando a quelle parole come una condanna per se stesso;
ed il Mezzuomo gli carezzò delicatamente la barba bianca,
inducendolo a smettere, che non ce n’era bisogno.
Si
frugò nei vestiti, per poi rigirarsi fra le mani un oggetto
che Aragorn non riconobbe se non la fattura tipicamente elfica: la
pietra di Lothìriel, scintillante contro il sole coperto da
nubi.
“C’è
una cosa che vorrei tu accettassi, Re Elessar.” La sua
piccola mano cercò quella di Aragorn, e gliela
consegnò, senza preoccuparsi di separarla dalla catenina.
“Questa è la pietra che mi diede in dono Dama
Lothìriel, la consorte di Sire Éomer, appartenuta
da tempo immemore alla sua famiglia di Dol Amroth.” disse.
“Decisi di portarla con me nella tomba, ma voglio regalarla a
te. Considerala come ulteriore segno della nostra amicizia,
dell’amicizia di tutta la Compagnia, come le foglie di
Lórien di Dama Galadriel.” Sorrise, ricordando la
bellissima Signora dei Galadhrim, salpata decenni addietro dai Porti
Grigi con Frodo e Gandalf.
Tutte
quelle parole sapevano di ultimo addio, alle
orecchie del re di Gondor, e quel dono così inconsueto da
uno Hobbit parlava da sé in modo fin troppo eloquente. Per
quanto si ostinasse, non avrebbe convinto Pipino a restare. Il dolore
nella sua voce mansueta era di quelli che non avrebbero mai trovato
posa.
Non
insistette oltre, chinando il capo e piangendo silenziosamente. Lo
strinse a sé in un’ultima, tacita, amorosa
caparbietà, sussurrandogli poche parole di commiato.
“Che
scenda su di te la benedizione di tutte le genti della Terra di Mezzo,
Messere, che tu ed i tuoi congiunti avete salvato.”
“Grazie,
Aragorn.”
***
Cari
Messere Wilcome Brandibuck e Messere Faramir Tuc,
Vi
prego di non meravigliarvi se il Re di Gondor vi scrive di suo stesso
pugno.
Perché
anche se lontani, molta e forte è l’amicizia che
ci lega. Ancor più profondo è l’amore
che i vostri padri Messere Peregrino Tuc, il Conte, e suo cugino
Meriadoc Brandibuck, Signore della Terra di Buck detto “il
Magnifico” provavano per le loro rispettive famiglie.
Mi
rincresce enormemente darvi notizia della loro morte, tanto
più al pensiero di averle dovute affrontare entrambe
soltanto nell’arco di qualche giorno. Appena tre sono passati
dalla morte di Meriadoc dacché Messere Peregrino lo ha
raggiunto, il suo amico migliore e più caro parente, e prego
i Valar che io non abbia a soffrire troppo per questi gravi lutti che
opprimono il mio animo.
Benché
angustiato, il mio cuore si riempie di serenità al
rammentare il loro imperituro luogo di riposo, poiché essi
hanno ricevuto sepolture degne dei più grandi uomini di
Gondor, fondata dai più grandi dell’oramai caduta
Nùmenor, a Rath Dinen, quinto livello della Città
Bianca, laddove riposano i nostri antenati più valorosi.
Ma
al di là del loro essenziale contributo alla pace di cui sta
godendo la nostra bella Terra di Mezzo, essi hanno rappresentato per me
quanto di più bello, di più spensierato, di
più puro ed ingenuo c’è ancora in
questo mondo.
Conservo
sempre con me il ricordo che Pipino volle affidarmi affinché
mi ricordassi di loro, una gemma originaria di Dol Amroth, dono di
Rohan, e le parole di Meriadoc che
mi concesse mentre tentavo di curarlo, nella penombra della sua stanza.
Disse
che niente di tutto quello che era diventato sarebbe stato possibile
senza noi membri della Compagnia dell’Anello. Ed io
risponderei che neanche io sarei Re di Gondor se non ci fossero stati
loro ad offrirmi il loro disinteressato supporto.
Sarò
al loro fianco, quando il mio momento giungerà, e lo
rimarrò finché ed oltre il mondo degli uomini
avvizzirà, e cadrà definitivamente
nell’ombra.
Vi
porgo la mia benedizione su voi ed i vostri discendenti.
Che
la vostra dolce Contea possa prosperare per tutte le ere a venire.
Con
il mio più sentito affetto e più immensa
gratitudine,
Aragorn,
Re di Gondor, e vostro amico.
NDA
Ed
eccoci alla fine! ^o^
Vi
lascerei qui, ma voglio condividere con chi mi legge il percorso che ho
intrapreso con questa ff (se non volete tediarvi ulteriormente, vi
consiglio di chiudere qui la lettura xD).
Ho
sempre considerato queste storie molto difficili da trattare ma
finché si trattava di one-shot la cosa mi riusciva, seppur
con qualche ostacolo di sorta. Imbarcarmi in un’avventura
long qui per me ha significato molto, specie perché ho letto
LotR, Lo Hobbit, il Silmarillion e Racconti Incompiuti in tempi
relativamente recenti (in tutti questi... quanti? tredici anni?! mi
sono attaccata soltanto ai film, come una cozza), quindi credevo che mi
sarei seriamente bloccata, e con bloccata non
intendo gli intervalli di un mese che solitamente mi prendevo (a
proposito, chiedo scusa ma quando non c’è
ispirazione o non sono sicura sono cavoli! xD), ma che la considerassi
troppo per me, finendo con il cancellarla (qualcuno di voi sa che ho
queste idee malsane di cancellare le mie ff da una vita! xD).
Ancor
più difficoltosi sono stati il tema ed i personaggi
principali. Più che la scelta di affrontare determinate
tematiche, premeva in me il desiderio di trattare dell’ultimo
viaggio di Merry e Pipino, un desiderio perlopiù fine a se
stesso, perciò inizialmente avevo un’idea molto
vaga di come avrei maneggiato gli addii, le perdite e
quant’altro. Al contrario, avevo un’idea abbastanza
precisa di come si sarebbero svolti i fatti. Tutto merito di Tolkien e
delle sue Appendici! *^*
Solo
basandomi sulle parole che ci ha lasciato è stata possibile
questa piccola creazione e, per l’appunto, per sottolineare
questo alla stragrande maggioranza dei capitoli ho aggiunto le sue
citazioni.
Fin
dall’inizio vi ho espresso le mie difficoltà
nell’introdurre Meriadoc. Mamma, quante grane mi ha dato!
^-^’
A
differenza degli altri, nasconde in sé
quell’agglomerato di “hobbitudine”
(Benni, ti rubo un attimo il termine xD), di umiltà, di
saggezza e di conoscenza difficili da conciliare. Devo dire che ho
avuto la possibilità di “conoscerlo”
meglio (ovviamente, secondo la versione e l’idea mia propria
che mi sono fatta di lui) e di apprezzarne soprattutto la
curiosità (quella moderata, quella che si può
soddisfare solo attraverso gli studi o semplicemente guardandosi
attorno e riflettere).
Ma
più di tutto, ciò che mi ha colpito è
stato il senso di responsabilità verso Pip, questo
fratellino da proteggere, anche se anziano. :)
Ok,
vedo di finirla presto, altrimenti ci addormentiamo tutti assieme! xD
Spero
solo che a voi sia piaciuta, e che abbia fatto tutto sommato un buon
lavoro.
Voglio
nominare chi mi ha seguita: Betely, evelyn80, ewan91, fay90, fede95,
Freia89, Laylath, leila91, Malika, MirzamLupin, the little strange elf;
preferita:
leila91, nce, Yami sama;
e
recensita finora: Laylath, leila91, the little strange elf, evelyn80,
ewan91, CerseitheChaos, _Son Hikaru e Moriel91!
Non
credevo che sareste stati così entusiasti di questa ff! :D
Ovviamente,
un sentito ringraziamento va anche ai lettori silenziosi: la storia ha
ricevuto un sacco di visite e questo mi fa molto piacere! :)
Sì,
insomma...
Grazie
dande a duddi!
...
spero di avere altra ispirazione per questa sezione, poveri a voi! :P
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