Un eroe mancato

di Lara Ponte
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I ***
Capitolo 2: *** II ***



Capitolo 1
*** I ***



Un eroe mancato.


I

Tre di notte. Mi sveglio madido di sudore in una stanza di questo motel dimenticato da Dio. L'ennesimo incubo è venuto a trovarmi nei miei sogni: so che non finiranno mai di perseguitarmi. Mi sembra quasi di vedere ancora il sangue sulle mie mani: tutta l'acqua di questo mondo non basterà a lavarlo via. Sono passati anni da allora ed ancora non riesco ad abituarmi a tutto questo. Accendo la lampada sul comodino alla sinistra del letto e infine mi decido ad alzarmi.
Di fronte allo specchio logoro del piccolo bagno, unico lusso di questa camera, osservo un perfetto sconosciuto: barba incolta di una settimana e capelli lunghi arruffati. Un tempo sapevo chi ero e cosa credere. Sapevo cosa era giusto. Ora invece non so più nulla. 'Se mio padre mi vedesse in questo stato, direbbe che quello là non può essere suo figlio...' Peccato che lui sia morto da un pezzo. Avevo dieci anni quando accadde. Era stato un eroe di guerra, lo seppellirono con tutti gli onori: il canto triste di una tromba solitaria e la bandiera sulla bara. Una cerimonia commovente, forse fu per quello che a diciotto anni entrai volontario nell'esercito. Forse desideravo soltanto diventare come lui.

Mia madre dovette crescere completamente da sola me e miei fratelli. Il sussidio sociale bastò a malapena per sfamarci e prima dei vent'anni avevamo già “lasciato il nido” per dare un po' di riposo a quella santa donna. Ci aveva allevato con pane, amore e legnate, insegnandoci come cavarcela da soli ed a lottare per i nostri sogni. Maturammo più velocemente rispetto ai nostri coetanei e non fu difficile per ciascuno di noi trovare in fretta la propria strada. Mia sorella in un certo senso fu la più fortunata o semplicemente, la più determinata. Aveva cominciato a lavorare ad appena quindici anni: tutte le ore in cui non stava a scuola era impegnata in questo o quell'impiego e le notti invece le passava sui libri. Alla fine mise da parte abbastanza denaro per pagarsi il college. Ora credo che insegni matematica in non so quale università sperduta nel New Maine. Mio fratello minore che fin da piccolo rivelò una grande devozione a Dio e i suoi Santi, trovò rifugio nella Chiesa ed in questo momento sarà chissà dove coi suoi compagni missionari.

Conservo ancora una foto di quand'eravamo bambini. Uno dei pochi momenti passati tutti insieme, quando nostro padre tornava a casa per il Natale. Non ho bisogno di prenderla dal portafogli per ricordarmela, da tempo è stampata in modo indelebile nella mia mente. In quella foto mia madre aveva ancora dei bellissimi capelli neri lunghi ed ondulati, mentre reggeva in braccio il piccolo Diego di pochi mesi. Mia sorella Rosario, anche se col muso imbrattato di sugo, già si atteggiava a piccola saccente mentre io mi divertivo a tirarle la gonna facendo le smorfie allo zio mentre scattava. Non siamo mai stati ricchi, ma eravamo felici. Per una famiglia di immigrati le cose non sono mai facili e poco importa se “L'immigrato” era stato tuo nonno più di mezzo secolo fa: agli occhi di uno yankee sarai sempre uno straniero. Le cose andarono un po' meglio quando ci trasferimmo nella Nuova California. La gente là era abituata ai tratti ispanici e nessuno faceva più caso a noi di quanto ne facesse a un messicano. Del resto immagino non debba essere facile capire le piccole e grandi differenze che corrono tra un messicano ed uno spagnolo.

Dopo uno sbadiglio lunghissimo mi lavo la faccia: l'acqua gelida è quel ci vuole, poco importa che sia dello stesso colore del piscio. Metto su una vecchia giacca di pelle sintetica quasi del tutto scolorita ed esco a fare due passi. La luna sopra la mia testa è quasi piena, illumina stancamente questi vecchi palazzi sopravvissuti dai primi anni del duemila. 'Avranno almeno trecento anni...'
Soltanto i disperati come me possono trovare rifugio qua : tutto ciò che rimane di quella che un tempo era una delle città più splendide di un pianeta in rovina, la cara e vecchia Los Angeles.
La maggior parte delle persone “per bene” ha terminato l'esodo dalla Terra almeno un decennio fa per stabilirsi definitivamente nelle colonie del secondo sistema solare. Io avevo avuto la fortuna di nascere in uno dei nuovi insediamenti, la mia famiglia così come le altre dei militari, era stata tra le prime a partire. Curioso come stando a ciò che ho visto nei vecchi film, il nuovo mondo sia stato ricostruito a immagine e somiglianza di quello passato. 'Forse per quanto ci sforziamo certe abitudini non cambiano mai...'

Mi si accosta un drogato. Pelle ossa, a mala pena si regge in piedi, non avrà più di vent'anni e ne dimostra il doppio dei miei, eppure non mi fa pena, provo solo disgusto nei suoi confronti. Come se un reietto come me avesse diritto a provare qualcosa. Insiste per farsi dare dei soldi. 'Magari ne avessi!'
Scuoto la testa lentamente deciso ad ignorarlo, non arrivo a fare sei metri che caccia fuori un piccolo coltello e mi urla contro minacciandomi. 'Il suo più grosso errore.' Lascio allora che si avvicini senza sprecare fiato a rispondergli ed appena arriva alla mia portata lo stendo con un colpo tanto rapido che nemmeno riesce a vedere. Prendo il suo coltellino, anche se spuntato e lo lascio a terra piagnucolante. Non mi degno nemmeno di un ultimo sguardo: mene vado come se non fossi mai stato là. Intanto i miei pensieri corrono nuovamente a quel dannatissimo giorno.

 

***

Ricordo tutto come fosse stato ieri.
Appena una settimana prima ero stato promosso a Sottotenente: 'Ufficiale Leandro Castillo' Suonava proprio bene. Non mi ero mai sentito tanto orgoglioso di me stesso, anche mia madre mi prese tanto in giro al telefono che a momenti mi fece pure la predica:
“Ci manca solo che ora il mio figlioletto si monti la testa!” Mi salutò ridendo prima di chiudere.
Ero così felice che coi miei compagni avevamo festeggiato due sere di seguito.
Non avrei mai creduto che il mio primo incarico sarebbe stato l'inizio della fine.
Successe all'improvviso. Una normale ricognizione si trasformò nell'inferno in terra. Nessuno, nemmeno tra i superiori, si aspettava quell'attacco e di conseguenza anche il nostro equipaggiamento era ridotto al minimo.
In realtà la guerra coi Separatisti era da un pezzo in una strana situazione di stallo. Negli ultimi due anni avevano perso molto, ma disponevano ancora dell'appoggio di una buona fetta della popolazione di Marte Secondo e di alcune tra le più potenti famiglie criminali. Al momento c'era una sorta di armistizio che somigliava a quella che un tempo sulla Terra era stata chiamata “Guerra fredda”. Noi tenevamo d'occhio loro e loro spiavano noi.

Quel giorno, mi era stato dato il comando di una squadra di dieci uomini della mia sezione. Uno di loro era stato mio compagno di classe alle medie, era stata una bella sorpresa rincontrarlo in caserma, fu proprio lui a dare l'allarme.
“Merda Leo. Guarda questi segnali, non doveva esserci nessuno, che cazzo sta succedendo?!”
“Calmati Reeves, saranno soltanto di passaggio, andrà tutto bene.” Risposi osservando la mappa satellitare che improvvisamente si era riempita di puntini rossi luminosi. Il nostro campo era ben lontano da ogni percorso strategico o presunto tale ed almeno in linea teorica non sarebbe stato facile trovarci. Ci trovavamo su un satellite artificiale abbandonato il cui unico vantaggio era di offrire un buon punto d'osservazione per gli strumenti che dovevamo piazzare. Il piano era stato deciso da tempo, avevamo soltanto aspettato il momento buono in cui la sua orbita lo avrebbe condotto nelle vicinanze dell'altopiano di Armur. Zona semi-desertica non lontana dalla capitale del pianeta, che a detta dei ribelli meritava l'indipendenza. Stando ad alcune fonti, avevamo motivo di sospettare che là vi fosse una grossa base sotterranea. Dovevamo solamente raccogliere dati di tipo geologico e sparire. Se ci fosse stato anche un solo buco di un metro cubo, l'attrezzatura l'avrebbe rilevato.

Osservai quei segnali come ipnotizzato, più si avvicinavano e meno riuscivo a credere che stessero cercando proprio noi. 'Come diavolo fanno a sapere dove siamo?' Avevamo attivato il 'Ghost-system' prima dello sbarco e nessuna strumentazione comune poteva aver rilevato la nostra presenza, eppure quei maledetti sembravano puntare dritto alla nostra postazione.
Loro sembravano una cinquantina, forse di più. Noi invece undici più quattro droni. Sudavo freddo ma non potevo perdere la calma. Per prima cosa misi la nostra micro AI dentro un razzo-capsula e la inviai a chiedere soccorso al quartier generale: una grossa nave da carico orbitante sopra le nostre teste. Con un po' di fortuna i rinforzi sarebbero arrivati in poche ore.

Ci dividemmo in tre gruppi per nasconderci più facilmente e guadagnare tempo. Con un simile svantaggio, l'idea d'ingaggiare battaglia non mi sfiorò nemmeno da lontano. La mia unica speranza era di riuscire a metterne in salvo almeno qualcuno. Speranza che si dissolse in meno di un secondo: non facemmo a tempo ad allontanarci gli uni dagli altri che un lampo accecante ci piombò addosso all'improvviso. Armi a lunga gittata. Due ragazzi, forse i più fortunati di noi furono travolti e uccisi all'istante, altri rimasero feriti di cui uno gravemente. Il sangue sgorgava come un fiume da una ferita lungo il suo addome, rivelando parte delle interiora. Distolsi lo sguardo, mentre con un ultimo sforzo si puntava la pistola alla tempia. Mi sentii avvilito ed impotente, ma non potevo fare nulla per lui e probabilmente io al suo posto avrei fatto lo stesso. Con la vista annebbiata cercai di ritrovare gli altri prima che arrivasse la fanteria a finirci, ma il danno subito era irreparabile. Il panico si era già diffuso tra le file e solo Reeves era rimasto al mio fianco senza dire una parola mentre io urlavo inutilmente ai fuggitivi di raggiungermi. Un altro boato, fumo, schegge, subito dopo un altro e un altro ancora. Questa volta erano passati ai mortai. Ci bombardavano a distanza con armi di vecchia data, a quanto pareva i bastardi avevano deciso di eliminarci senza sporcarsi le mani. L'ultima cosa che ricordo prima di perdere i sensi è la mia mano stretta inutilmente sul fucile d'assalto.

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Capitolo 2
*** II ***




II



Appena cercai di aprire gli occhi, una luce accecante me li fece richiudere. Mi voltai di lato cercando di capire dove fossi finito. Osservai il mio braccio destro infilzato da aghi e sensori, rendendomi conto di essere in un ospedale. 'Sono vivo...' Riuscii a pensare. Dopo qualche attimo mi accorsi di non essere solo. Un infermiera accanto al letto mi sorrise.
“Andrà tutto bene” Disse.
'I ragazzi...' Avrei voluto chiedere, ma la mia bocca sembrava calcificata. Strinsi a pugno la mano sinistra, volevo sapere se qualcuno tra di loro si fosse salvato ma ero impotente. Forse qualche lacrima sgorgò dai miei occhi, perché all'improvviso li sentii umidi.
“Non si agiti, presto andrà meglio.”
Mi iniettò qualcosa nella flebo, dopo di ché devo essermi addormentato.

“Ce la fa a mettersi seduto?” Questa volta a parlare fu un uomo sulla trentina. Accanto a lui ne era comparso un altro più anziano. Insieme poi mi aiutarono a tirarmi su. Non sapevo quanto tempo fosse trascorso, però stavo meglio. Almeno fisicamente.
“Qualcuno... si è salvato qualcuno dei ragazzi?” Riuscii finalmente a borbottare con una voce che stentavo a riconoscere.
Quello giovane mi strinse forte la spalla, abbassando lo sguardo.
“Mi dispiace signor Castillo. Lei è l'unico.” Fu l'altro a rispondermi.
Quel Dio in cui tanto credeva mio fratello, quel giorno doveva essere troppo occupato per le mie preghiere. Avevo sperato fino all'ultimo che si fosse salvato qualcun altro, ma così non era stato e ancora non riuscivo a credere di essere l'unico sopravvissuto a quella carneficina.
Fui dimesso qualche giorno dopo e mi assegnarono ad una dottoressa che avrebbe dovuto darmi supporto psicologico. Una donna sui trenta di bell'aspetto. Aveva lunghi capelli biondi che portava quasi sempre raccolti e dall'acconciatura spuntava sempre fuori qualche ricciolo ribelle. Per quanto professionale, era stata gentile e disponibile fin dal primo incontro: per i primi due mesi fissò tre appuntamenti a settimana, in seguito avremmo deciso su come continuare la terapia. Intanto ero tornato a vivere in caserma.
Alla mensa mangiavo quel tanto che bastava a sopravvivere, lasciando quasi sempre i piatti a metà. Non riuscivo più nemmeno a contare i giorni. Pensavo soltanto a quello che era successo e continuavo a pormi domande su domande. Alla fine mi feci coraggio e chiesi un appuntamento col capitano della mia sezione. Se c'era qualcuno con cui potevo confidarmi, questo era lui. Aveva seguito la mia squadra fin dal primo giorno, tra di noi lo chiamavamo 'Faccia da orso', per via della folta peluria sul suo volto fin troppo grosso, eppure a dispetto dei suoi modi burberi per me era stato una specie di secondo padre.

Percorsi lentamente il corridoio bianco decorato da una semplice banda rossa a metà altezza della parete, cercando le domande giuste. Quando poi aprii l'ultima porta di metallo alla mia destra tutte le questioni mi morirono sulle labbra. 'E questo chi è?' Pensai ritrovandomi davanti uno sconosciuto. Super rasato e in ordine, sembrava appena uscito da un negozio di manichini.
“Buongiorno. Ho appuntamento col capitano Aymerick.”
“Si accomodi. Lei dev'essere Castillo. Io sono il capitano O'Brian. Roger è stato trasferito durante la sua permanenza in ospedale. Da questo momento per qualsiasi cosa, potrà rivolgersi a me.”
La sua finta cortesia mi diede il voltastomaco, ma non lo diedi a vedere. Io non conoscevo lui e lui non sapeva niente di me: in fondo era presto per giudicare.
“Non riesco a capire come sia potuto succedere, signore.”
Le parole uscivano a stento dalle mie labbra, soffocate dalla rabbia che provavo.
“Non è colpa sua. Mi dispiace per ciò che è successo, ma nessuno poteva prevedere quell'imboscata.”
'Stai mentendo bastardo.' Quel pensiero si formò da solo nella mia testa, non capivo perché ma sapevo, sentivo che era vero. Non aggiunsi altro, lo salutai rispettosamente e decisi all'istante che avrei scoperto da solo la verità. Quando mi congedò disse che sarei tornato operativo non appena la dottoressa avesse dato parere favorevole e che fino a quel momento dovevo solo stare tranquillo e rimettermi in sesto. Probabilmente fu l'unica cosa sensata che potesse dirmi.

Ricominciai a mangiare come si deve e chiesi di partecipare alle sezioni di addestramento delle reclute. Un po' di movimento fisico mi avrebbe fatto bene. Durante l'assalto avevo riportato molte ferite ma tutte superficiali. Tutte tranne quella profonda nel mio animo. Quel che era successo non era normale, qualcosa nella mia testa mi diceva di andare fino in fondo. Avevo molti amici in caserma e qualcuno mi doveva dei favori. Ottenni facilmente l'accesso agli archivi e mi misi a studiare i tracciati radar della zona a partire da quelli di un mese prima, ma non vi era traccia alcuna di spostamenti nemici e nemmeno granché di quelli 'amici' se dovevo dirla tutta. Passai in rassegna anche documenti a cui in teoria non avrei potuto accedere, ma non trovai nulla di nulla.

Dopo quasi un mese di indagini a vuoto, cominciai a pensare che la mia fosse solo una paranoia dovuta allo shock, ma una mattina tutti i miei sospetti divennero certezza. Mi ero addormentato su un banco della biblioteca, dove mi trattenevo col mio portatile fino a tardi. Fui svegliato da due persone che parlavano sottovoce convinte di essere sole: il grosso scaffale davanti a me mi nascondeva alla loro vista. Trattenni il fiato cercando se possibile di diventare ancora più invisibile.
Riconobbi subito la prima voce come quella del capitano Aymerick, ma l'altro non avevo idea di chi fosse.
“L'esca ha funzionato a dovere. Ora tutti credono che gli indipendentisti abbiano ripreso le rappresaglie di loro iniziativa e possiamo finalmente intervenire...” Diceva.
“La tua 'esca' ha sterminato una delle migliori pattuglie da me addestrate. L'unico sopravvissuto adesso non vale nemmeno la metà del ragazzo che ho visto crescere! Non avrei dovuto appoggiare il tuo piano. Per cosa poi? Unificare l'impero? Ormai non ci credi nemmeno tu, io vedo solo nuove ricchezze per le dannate fabbriche d'armi...”
“Capisco la tua rabbia, anche a me è dispiaciuto vedere un potenziale eroe diventare un relitto. Ma andava fatto. Non era previsto ci fossero sopravvissuti. Invece ne manca ancora uno all'appello e nessuno sa che dove sia finito.” 'Un altro? Chi?' Mi domandai d'istinto.
“Castillo era figlio di un amico, non meritava questo.”
“Era l'unico che avevamo al momento, non serve a niente rimuginare.”
“Prego Dio tutti i giorni che si rimetta al più presto. La dottoressa Fingard dice che le nasconde ancora qualcosa, quindi per il momento non sappiamo cosa gli passi per la testa. Forse ha dei sospetti e in quel caso, c'è da sperare non dia troppa retta al suo istinto. E dire che sono stato proprio io ad insegnargli a non mollare.”
“Ci siamo trattenuti anche troppo. Pensa quello che vuoi ma abbiamo fatto la cosa giusta. Il generale Smithson ci teneva a ringraziarti con questo piccolo extra.”
Concluse l'altro passando una busta nelle mani di quello che un tempo era stato il mio mentore.
“Dannato denaro...e fottuti medici!” Gli sentii mormorare tra se, mentre l'altro si allontanava. Mi ricordai subito che sua moglie si era ammalata di tumore lo scorso anno e ciò bastò ad evitarmi domande stupide del tipo 'Perché lo aveva fatto?' o simili.
Fino a quel momento avevo cercato nei posti sbagliati, ora sapevo di quali documenti avrei dovuto appropriarmi ed alla svelta pure. Sapevo anche di non potermi più fidare della dottoressa, quindi decisi di recitare la parte del fallito pieno di sensi di colpa.

Qualche giorno dopo mi presentai a Donaegal La Vega. Un conoscente, quasi un amico, di vecchia data. Sua madre era irlandese e suo padre spagnolo come noi, abitavano a due isolati di distanza dalla nostra casa. Aveva i capelli rossi tipici del nord e gli occhi scuri di noi latini. Era sempre stato abbastanza gracile ma molto intelligente. Quando era diventato caporale accettò felicemente il suo ruolo come topo d'ufficio senza mai chiedere nulla di più. Una volta mi chiese un piccolo prestito. Strano a dirsi ma la sua famiglia era ancora più povera della mia. Doveva andare al matrimonio di una cugina e non aveva nemmeno i soldi per noleggiare un abito decente. Glieli regalai senza pretendere nulla in cambio.
Ora abitava da solo in un appartamento dell'esercito vicino agli uffici di rappresentanza. Il suo lavoro spesso lo portava a consegnar scartoffie in giro per la città 'Alla faccia del progresso!', quindi un alloggio in caserma avrebbe soltanto aumentato i costi per gli spostamenti.
“Leandro! Che piacere rivederti, dopo quello che è successo non oso chiederti come ti senti.”
“Sopravvivo...” Tagliai corto, nel varcare la sua porta.
“Come mai qua?”
“Oggi sono io che ho bisogno di un favore da te...e quello che farai oggi non dovrà uscire da questa casa. Ci stai?” Raccontai subito di ciò che avevo scoperto e di come io e i ragazzi fummo usati da esca. Ciò che mi mancavano erano le prove e lui mi avrebbe aiutato a procurarmele.
“In poche parole devo hackerare il sistema e stamparti documenti riservati. Ammesso che ne troviamo...” Sospirò. “Se quello che dici è vero, c'è dietro un bel giro di tangenti. Sei sicuro che troverai un giudice militare disposto ad incriminare un generale?”
“Devo almeno provarci. Al diavolo tutti: hanno fatto di noi carne da macello. Non lascerò che le vite dei miei ragazzi vengano dimenticate.” Mentre parlavo mi resi conto di avere involontariamente pensato una delle citazioni preferite di mio padre:
'Le guerre vanno e vengono, ma i miei soldati vivranno in eterno...' Fino a quel momento non mi ero mai reso conto di quanto ci tenessi a loro, i miei amici, i miei compagni.
Mi appisolai su un piccolo divano di tessuto mentre Donny si dava da fare al suo computer. Mi svegliò dopo tre ore buone dandomi dei colpetti alla spalla e mettendomi in mano dei tabulati telefonici con relativi testi dei dialoghi.
“Queste intercettazioni sono tutto ciò che ho trovato. Probabilmente le tenevano per ricattarsi l'un l'altro.”
“E' più di quanto potessi sperare!”
“Figurati. Vai prima che si faccia tardi.”
A quelle parole diedi uno sguardo al mio orologio: se non mi sbrigavo rischiavo pure un richiamo.

***

Che ingenuo ero stato. Ottenni un appuntamento con un giudice di nome Sanders la settimana dopo. Quell'uomo, ex colonnello, aveva da poco superato i sessanta, gli mancavano quasi del tutto i capelli ed era abbastanza sovrappeso, tuttavia sembrava onesto. Per scrupolo mi presentai a lui accompagnato da un avvocato. Mi ascoltò senza interrompermi per una buona mezz'ora, tenendo sotto al naso i tabulati telefonici. Nonostante le moderne tecniche chirurgiche per migliorare la vista, preferiva usare gli occhiali. Quando fu il suo turno di parlare li posò piano sul tavolo scuro che ci separava facendo attenzione alle lenti.
“Preferisce una risposta sincera, vero?”
“E' per questo che sono qua.”
“Le sue accuse sono gravi, ma a queste cosiddette 'prove' non crederà nessuno. Diranno che sono contraffate e che l'attentato subito le ha fatto perdere la testa. Nel migliore dei casi la faranno passare per uno che da la caccia ai fantasmi.”
“Non si può fare proprio nulla?”
“L'unico consiglio che posso darle è di chiedere il congedo anticipato e di costruirsi una vita come civile.”
A quelle parole osservai la faccia impassibile del mio avvocato, dove sembrava vi fosse stampato il famoso: 'Te lo avevo detto...'

Dopo aver cortesemente ringraziato entrambi me ne andai. La cosa strana era che in quel momento non provavo nulla. Da una parte sapevo già che sarebbe andata così, ma dall'altra mi sentivo svuotato. La sera nel mio alloggio non riuscivo a chiudere occhio. Avevo spento il terminale presto, subito dopo aver versato all'avvocato la cifra pattuita per il disturbo e da quel momento in poi una strana sensazione di pericolo mi si era attanagliata nello stomaco.
Verso le due senti un lieve rumore nella serratura e poi qualcuno nella mia stanza. Rimasi a letto, pronto a scattare fingendo di essere addormentato. Con la coda dell'occhio notati il movimento di una mano armata di pistola: una banale 10mm con silenziatore. Bloccai subito quel polso, facendo cadere a terra il mio attentatore e appeni accesi la luce vidi subito i riccioli biondi della dottoressa. Mi guardò implorante con le lacrime agli occhi.
“Non potevo disubbidire...mi – mi dispiace.” Singhiozzò senza opporsi.
“Chi ti ha mandato?”
“Non puoi rimanere qua. Sanno cos'hai scoperto e vogliono la tua testa.” Disse ignorando la mia domanda e prima che potessi aggiungere altro mi mise in mano il suo pass per l'uscita riservata e mi intimò di correre. L'allarme si attivò pochi minuti dopo, mentre già mi muovevo lentamente nelle ombre del cortile. La voce dell'altoparlante gracchiava stronzate sul fatto che avevo aggredito la biondina e stavo fuggendo impazzito. E dire che ero stato io quello tradito praticamente da tutti.

***

E così, in quella notte ormai lontana, divenni un disertore. Vagabondai da un pianeta all'altro sotto non so nemmeno quanti nomi. L'unica cosa che sapevo fare era combattere, o meglio uccidere; così mi guadagnai da vivere facendo il lavoro sporco del cacciatore di taglie. Dopo quasi quattro anni di quella vita, alla fine sono approdato qua sulla Terra, o meglio su ciò ne rimane.
Ancora pochi passi e avrei raggiunto il piccolo bar all'angolo dove quelli come me andavano a ubriacarsi fino a perdere i sensi. Almeno così avrei riposato qualche ora. Nulla invece poteva prepararmi alla sorpresa che mi si parò davanti, appena arrivai al bancone.
Stavo per dire al vecchio Josh di servirmi il suo schifo di vokda, quando lo vidi comparire al mio fianco. Il tempo era stato clemente con lui più che con me. Aveva una sottile cicatrice sul lato sinistro del viso, ma era era esattamente come lo ricordavo. Capelli lisci biondi, ora lunghi e stretti in una coda di cavallo. I suoi occhi azzurri mi guardavano sorridenti e una frase si formò sulle labbra.
“Finalmente ti ho trovato.”
“Madre de Dios... Reeves!” Alla sua vista mi venne quasi da piangere, ma subito mi misi sulla difensiva. Potevo ancora fidarmi di lui? Potevo fidarmi di qualcuno? Chiesi a me stesso, senza distogliere lo sguardo.
“Sembra che tu abbia appena visto un fantasma!” Scherzò lui come era suo solito.
“Dannazione, che cazzo ci è successo? Come hai fatto a sopravvivere?”
“E tu che hai combinato? Ho sentito in giro che prima di fuggire volevi attentare addirittura alla vita di un generale... ”
“Non crederai a queste stronzate, vero? ...tu piuttosto?”
“Dopo che ci hanno bombardato, sono venuti a finire i superstiti. Tu sembravi bello che morto, per questo ti hanno ignorato. Io ho solo avuto fortuna: gli serviva qualcuno vivo ed hanno preso me. Dissero che le mie ferite erano facili da curare e che se avessi collaborato mi avrebbero lasciato vivere.”
“Da quello che vedo, almeno loro sono stati di parola...” Sentenziai senza nascondere la mia amarezza.
“Sono in gamba e non ti immagini quanto Leo. Hanno ragione su tutta la linea. Tutti i pianeti hanno diritto alla loro indipendenza. A cosa serve un impero corrotto? Ad ingrassare le tasche dei soliti pochi facendone morire di fame altri milioni?”
“Quindi ora stai dalla loro?”
“Più o meno. Sono in una truppa di mercenari che appoggia la causa. Appena mi è stato dato il permesso ho cominciato a cercarti per i quattro sistemi. Ma lo sai che sei fottutamente difficile da trovare? Quando ho sentito che eri diretto in questo rudere di pianeta non ho faticato ad indovinare quale città avresti scelto....”
Non lasciai nemmeno che terminasse il discorso che lo abbracciai stretto come un fratello.
“Almeno uno..” Dissi tra le lacrime. 'Uno di loro si è salvato...' Solo questo in quel momento aveva importanza, solo questo pensai.
“Ehy! Così mi metti in imbarazzo!” Scherzò nuovamente lui.
“Ora che vuoi fare?” Mi domandò riportandomi alla realtà. “Vuoi continuare a massacrare poveracci per denaro o vuoi unirti alla giusta battaglia?” Nonostante tutti questi anni, mi conosceva ancora meglio di me stesso. Sapeva che odiavo il lavoro che facevo per vivere. Sapeva che odiavo la vita in cui mi ero cacciato. Forse appoggiare i ribelli sarebbe stata davvero la cosa giusta da fare, eppure in quel preciso istante non me la sentii di rispondere.
“Dammi un po' di tempo...” Fu la sola frase che riuscii a dire.

 

Se qualcuno mi avesse detto allora che da lì a due anni, sarei diventato il nemico numero uno dell'impero, probabilmente sarei morto stecchito dalle risate...





Pensieri a mezz'aria...

Per prima cosa ci tengo a ringraziare le due giudici: Manufury e Releeshahn
che mi hanno permesso di partecipare ai loro due Contest (seppur con lo stesso brano).
Non so perchè, ma la prima ispirazione che ho avuto pensando al tema della guerra è stata quella
sulla storia di un disertore.
Ho quindi provato a ricostruire in pohce pagine, gli eventi che possono portare un uomo a tradire la propria patria.
Per la pubblicazione l'ho suddivisa in queste due parti, per poter dare "un attimo di respiro" durante la lettura.
Ringrazio ancora una volta tutti voi che avete letto questa mini-long.

Salutoni
Lara.
 

 

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