L'impero del tempo

di Arepo Pantagrifus
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I. ***
Capitolo 2: *** II. ***
Capitolo 3: *** III. ***
Capitolo 4: *** IV. ***



Capitolo 1
*** I. ***


Sono solo. Solo nell’universo. Raccontando una storia si è abituati a cominciare da un inizio e terminare in una fine, mi trovo invece nell’imbarazzante situazione di dover lasciare la fine inconclusa, o quantomeno a lasciarla in sospeso, poiché il mio solo vivere crea un conseguente proseguimento del racconto. Il mio indissolubile legame con essa, quindi, si manifesta lampante: io sono il racconto della mia vita, e questa è destinata a non finire mai.
Semplice. Chiaro. Io sono, o sono diventato, immortale.

Basta che mi guardi intorno: accanto a me non c’è più nessuno. Tutti morti, tutti ossa, tutti cenere, tutti polvere. Ed io a guardarli, potente, a sovrastarli, a calpestarli tutti. Sono rimasto solo. L’unico e ultimo uomo sulla terra. In tutta la mia vita (ma non so più se chiamarla ancora vita) ho visto tutte le cose: ho camminato a braccetto con il tempo, ho visto la storia degli uomini passarmi sotto gli occhi, ho visto l’umanità degenerarsi, ho visto guerre e atrocità susseguirsi una all’altra. Ho conosciuto chi e come sono gli esseri umani veramente: mossi solo dall’avarizia, dall’egoismo e dall’ingiustizia, e ignari del fatto che tutto ciò che bramavano e per il quale si adoperavano in tutti i modi, non era nient’altro che polvere, come pure loro stessi erano destinati a diventare. Gli uomini non erano altro che un altro mucchietto di terra.

Non sono un uomo. Non lo sono più. Una volta fui un uomo, o credetti di esserlo. Certamente lo sono stato finché un vecchio mago o alchimista mi si avvicinò promettendomi la giovinezza, e con essa la memoria e la vita eterna, solo se gli avessi promesso di seguirlo e servirlo. Accettai tutto questo con sconsiderata leggerezza, preso da vanità e incoscienza. Vanità e incoscienza che mi perseguitarono per tutto il resto della mia lunga vita. Mi costrinse a bere un intruglio nauseabondo, che mi fece quasi portare all’altro mondo. Guarii miracolosamente, ma il vecchio, non contento, continuava a lavorare giorno e notte per perfezionare i suoi poteri e le sue infusioni. Mi costrinse con il bastone a sottopormi a delle umilianti fatiche e a rinunciare alle mie libertà, rinchiudendomi in una cella umida e malsana, come se fossi stato semplicemente una cavia per i suoi esperimenti. I giorni passarono, ma sul mio volto non comparve alcun cambiamento, anzi, lentamente, diventai più sano, più forte e più giovane. Un giorno sorpresi il mio padrone intento a realizzare nuovi filtri di questa portentosa pozione, era intenzionato a provare l’effetto su se stesso e a sottomettere il mondo intero e dominare sugli uomini, sui re, sui papi e sugli imperatori, come prevedeva nei suoi insani vaneggiamenti e nei suoi sogni. Immediatamente cercai di fermarlo, lo bloccai e distrussi ogni filtro e mistura, ma lui furioso, si avventò su di me brandendo un pugnale aguzzo e trafiggendomi proprio in mezzo al petto… Ma furono più grandi la paura e il terrore comparsi nei suoi occhi che il mio stupore. Indietreggiò, inciampando e cadendo a terra sgomento, balbettò: «Tu… tu… bestia immonda! Figlio del maligno! Che tu sia maledetto! Che Iddio ti maledica…!» Per nulla spaventato dalle sue ingiurie, sfilandomi la lama dal petto avanzai verso di lui e lo uccisi. Ebbi cura, poi, di bruciare tutti i suoi libri, i suoi appunti, i trattati di magia e i volumi eretici, per scongiurare al mondo una seconda volta. Così, mentre la sua abitazione era lambita dalle fiamme purificatrici, fuggii il più lontano possibile per tentare di rifarmi una nuova vita, o forse, solo per vendicarmi...  Scappai dalla città, dalla valle, dal paese, e finalmente sperimentai un senso di libertà mai provato prima. Solo io, la mia sacca e le mie gambe per valicare montagne, attraversare pianure e guadare ruscelli.

Da allora fui sempre lo stesso: stesso viso, stessa faccia, stesso corpo, stessa giovane bellezza. Sempre identico un giorno dopo l’altro. Godetti sempre di benessere e buona salute: mai una malattia, una ferita, una sola goccia di sangue. Da questo ne trassi giovamento, dandomi ad una sfrenata vita passionale e libertina. Furono gli anni delle esagerazioni, dei comportamenti smodati e delle massime libertà. Incontrai donne impudiche e libidinose, oltrepassai ogni limite della decenza e scesi a patti con la lussuria e altre sorelle peccaminose: tante donne mi amarono e altrettante ne amai. Anni e anni così: una donna dopo l’altra. Vedendomele tutte morire di vecchiaia sotto gli occhi: sciuparsi nella loro breve e fugace bellezza. Anche se ad una ne seguiva ben presto un’altra.

Amavo e mi nascondevo. Vivevo viaggiando, come un pellegrino, nelle locande e nelle osterie distanti e isolate che incontravo nel cammino. Ed in ogni taverna c’era sempre una donna pronta a concedersi, e a passare notti d’amore e di carezze.
La mia vita continuò così finché non incontrai una donna; non una donna come tutte le altre, non una semplice donna, ma la donna che faceva la differenza fra tutte le altre donne che avevo finora conosciuto.

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Capitolo 2
*** II. ***


Vidi la donna della mia vita. La vidi lì come se avesse aspettato proprio quel momento per girarsi, con quel suo sorriso, cercare tra i mille volti della folla e fermarsi proprio sul mio. Un secondo di sguardi, il tempo di accennare un sorriso imbarazzato, il tempo necessario per conoscersi con un’occhiata, come in un sogno, l’atmosfera si annebbia, per far vedere solo lei, il tempo di ammirarla prima che il tempo la lasci svanire. Di una meravigliosa e abbagliante bellezza, grazia, e leggerezza che a lei comparate le altre donne erano decisamente trascurabili. Una ninfa dai fianchi sinuosi e dal collo con una curva perfetta; le sue labbra sottili e suoi occhi, …occhi come le miniere più segrete non hanno mai visto. Così vivi e profondi, come un diamante, uno smeraldo, uno zaffiro e un turchese posti insieme. Dei capelli neri come penne di corvo e lisci come fili di seta strappati da un prezioso abito orientale, le cadevano sulle spalle sempre con quella grazia e leggerezza innata che la rendevano una soave creatura che può esistere solo una volta in tutta la storia della bellezza.

Ed io quella donna l’amai. L’incontrai in una giornata di mercato di una sconosciuta città e la inseguii per chiederle la mano. Insieme ci amammo come possono amarsi le persone più spensierate del mondo: non ci amammo semplicemente, noi vivemmo l’essenza del vero amore completo e compiuto. L’amai in ogni momento, ogni ora, ogni giorno e ogni anno, e lei mi contraccambiava con lo stesso sentimento. Vivemmo insieme le gioie e i dolori della vita. Ma anno dopo anno lei, cambiava, si trasformava e non era più la stessa. Lei invecchiava, come tutti i mortali, e nella sua metamorfosi, comparvero lentamente nel suo bel viso, grinze, rughe, solchi. Mentre io rimasi sempre lo stesso dannato giovane bello e attraente di chissà quanto tempo fa. Non potevo fermare il tempo, né la sua vita. Non potevo fare nulla: assistetti impotente alla sua corruzione; come una rosa, anche la sua vita doveva appassire. La sua bellezza svanì, ma l’amore rimase: ci amammo ancora con la stessa intensità e lo stesso slancio del primo giorno. L’amore era ancora giovane nei nostri cuori, nonostante l’aspetto esteriore. Con gli anni anche la sua salute cominciò a venir meno, finché, un giorno, non si ammalò. Era debole e vecchia: i suoi capelli erano candidi, il suo corpo cadente, anche la sua mente brillante e intelligente, diventò sempre più lenta e affaticata. Fu per me un’insopportabile agonia: più lei invecchiava, si indeboliva e si rovinava, più me la sentivo portare via e più mi disperavo. Qualche forza più forte di me stava strappandomi dalle mani la mia gioia, il mio amore!

Non potevo fare nient’altro che amarla ancora, amarla e accarezzarle dolcemente i capelli. Furono gli anni più belli e più tristi della mia vita. Non riprovai mai più le stesse sensazioni che provavo quando ero in sua presenza. Mi morì tra le braccia, un giorno, sussurrandomi nell’orecchio frasi d’amore. Mi disse prima di esalare l’ultimo respiro: «Ricordati di me» con tutto l’amore e la dolcezza possibile. Mi sentii inadeguato. Fui incapace di restituirle la stessa dolcezza: il tempo se la portò via.

Rimasi giorni a piangere inutilmente sulla sua bianca lastra di marmo. Ma le lacrime non portarono sollievo. Lei stava diventando sempre di più un ricordo insopportabile: mi stava rovinando la vita. Stava diventando un’immagine ossessiva e martellante. In ogni momento appariva, mi ricordava quanto era bello e meraviglioso con lei, e mi rinfacciava la tremenda miseria in cui vivevo ora! Il vuoto che lasciò era incolmabile. Non riuscii mai più, in seguito, a rivivere come prima. Dopo la sua morte fuggii da me stesso e i miei ricordi, e andai a cercare la solitudine in una montagna, nascondendomi in una grotta. Volli solo dimenticarmi di lei. Se avessi potuto, non avrei più scelto di vivere, ma ero costretto. Ero come imprigionato da una giustizia ingiusta e selvaggia: condannato a patire le pene dell’esistenza. Tutto quell’amore doveva essere dimenticato. Non potevo vivere senza di lei. È impossibile vivere dopo aver provato una gioia del genere: tutto ti appare insignificante e piatto, la vita stessa diventa sofferenza.

Nel mio eremo dopo anni di meditazione e riflessione, compresi che l’amore poteva essere dimenticato solo con l’odio e la violenza, è facendo il male che ci si allontana dal bene. L’equilibrio, da sempre instabile e precario, doveva essere spiegato con la disuguaglianza e con l’ingiustizia. Il vero terrore può comandare su tutti gli uomini, senza il minimo sforzo. L’ordine e la pace devono risolversi in guerre e ingiustizie, così il caos che ne conseguirà dovrà risolversi in un ordine e una giustizia finale, che dominerà su tutto e su tutti, e che durerà per sempre.
Così, dopo chissà quanti anni passati in quella grotta, vivendo miserevolmente, un mattino, ricolmo di arroganza, gridai al sole: «Amico Sole, ora ho capito che Dio dovrà cedere il posto all’uomo stesso: dicono che qualche Dio abbia creato l’uomo, ecco, ora l’uomo si ribellerà e vincerà sul suo creatore, sul dio della guerra, della calunnia, della menzogna, dell’avarizia e delle meschinità! Ti dico, Dio, che ora dovrai rispondere delle tue azioni!»
Discesi dal monte come illuminato, girando di città in città, predicando i nuovi comandamenti di odio e rabbia. Le popolazioni si stupirono di tanta sicurezza. Mai, fino allora, era accaduto che qualcuno si opponesse con tanta fermezza e decisione alla tradizione, alle regole comuni, alla religione stessa. Le genti rimasero unite e ferme nelle loro convinzioni. Troppa paura faceva a tutti il cambiamento e le novità, soprattutto se troppo rivoluzionarie e sovversive. Inizialmente erano riluttanti a cedere, ma un po’ alla volta vandali, fanatici, comunità di rivoltosi, criminali, assassini, ricercati, ladri, gente di ogni razza e paese, addirittura intere popolazioni si unirono al mio ideale e condivisero la mia nuova ideologia. Gli stati più potenti, le organizzazioni mondiali mi intimarono di finirla, ma si vedeva come essi stessi ne erano palesemente terrorizzati. Non potevano più fermare l’ansia di rinnovamento. Si annusava nelle strade di allora il profumo della rivoluzione misto a terrore e paura.

Incombeva in quegli anni una grave crisi internazionale. I popoli mal sopportavano il fatto che i governi ci campassero su quella crisi. La mentalità consumistica occidentale non funzionava più, e le nazioni ne approfittarono per arricchirsi e abbandonare il popolo in difficoltà. Si verificarono con sempre maggiore frequenza episodi di insofferenza da parte della popolazione: gruppi di militanti manifestavano pubblicamente il loro astio e le precarie condizioni dei poteri e delle autorità. Non era in gioco solamente la questione economica e finanziaria, ma la stabilità politica in tutti i paesi; mentre io raccoglievo sempre più consensi, e diventavo sempre più forte.

Organizzai un potente esercito che fu in grado di sconfiggere l’ordine preesistente e tutti i suoi difensori. Bande di pazzi e criminali imperversarono per le città, scatenando il panico, e un esercito di ribelli e malavitosi misero in ginocchio la società mondiale. In anni di guerre, sanguinose e devastanti ristabilii il nuovo ordine mondiale: sottomisi e comandai le nazioni, unificai e divisi, decimai e sfruttai a mio piacimento. Le religioni si unificarono e mi dichiararono il “Nuovo Messia”, mi acclamarono e mi adorarono come un Dio. Mi offrirono il potere ed io li comandai, mi offrirono il governo ed io li guidai, mi offrirono il mondo su un vassoio d’argento ed io li trattai tutti come animali. Obbedirono senza proteste, e dove provavano ad insorgere, li annientavo con il mio esercito. Nessuno mai riuscì ad uccidermi, nei loro patetici tentativi, io fui la loro divinità! Perché io ero l'uomo più potente sulla Terra! Io ero immortale! Io sono immortale!

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Capitolo 3
*** III. ***


Con la nuova tecnologia delle armi distrussi e ricostruii il mondo a mia immagine e somiglianza. Arrivò il tempo di porre l’uomo, forte e potente, nel trono di Dio e deporre le antiche divinità corrotte. L’uomo, l’uomo, l’uomo perfetto e immortale! Solo nell'uomo nuovo si avrebbe potuto riporre la fiducia per costruire il futuro dell’umanità intera! Un uomo creato apposta per eseguire i miei ordini con inflessibile rigore e spietatezza. L'uomo corrotto e sterile doveva essere eliminato, decimato, per lasciar spazio alla nuova generazione, la nuova specie per dominare sui deboli popoli del mondo. Passarono anni, decenni, secoli, millenni. Feci accrescere sempre di più il mio potere e divenni il padrone di tutto: pensai addirittura di essere felice. Ebbi ogni cosa: donne, ricchezze, lusso, potere, ma soprattutto salute. Bastava che pronunciassi un desiderio e presto era esaudito. Scienziati crearono le peggiori macchine di tortura solo per il mio divertimento. Raggiunsi l’apice della magnificenza e grandiosità, fui guardato da tutti con terrore e rispetto, e non esistette mai un uomo che osò contraddirmi. L’umanità fu e rimase per il resto della sua breve vita nelle mie mani. Spianai le disuguaglianze tra gli uomini, tra le razze, plasmai l'uomo nuovo: una nuova razza umana. Creai sulla Terra un unico popolo, un’unica nazione, con le stesse leggi e le stesse idee, con un unico e potente esercito in grado di radere al suolo qualsiasi regione della Terra. Costruirono templi e palazzi in mio nome. Fu eretta una capitale di meraviglie , costruzioni portentose di tecnologia e di scienza, con colonne in marmi pregiati, pietre, ori e stoffe esotiche. Una nuova capitale per un nuovo impero!

Furono anni di pace e prosperità, ma provai più che mai la sensazione che le generazioni mi passassero tra le dita come acqua. Una dopo l’altra si susseguirono senza lasciar traccia: miliardi di impronte spazzate dalle onde del tempo. Neanche il ricordo tramandato bastava a contarne il numero; ed io sempre sopra di loro con il pane e con la forca. Sembrava che mentre io guardavo le opere della mia città, mi passassero davanti mille fantasmi, che poi sparivano per farne ricomparire altri, senza interruzione: una scia interminabile di anonime apparizioni. Diventai uno spettatore delle ridicole vicende umane, per contare poi le lapidi nei cimiteri. Mi stupii di quanto l’uomo si logorasse nel cercare di vivere. Sempre con qualcosa da fare, sempre in movimento, sempre in cerca di qualcosa. Qualcosa che lui ambiva con tutte le sue forze. Qualcosa che non trovava mai, ma che fingeva di conoscere. Eppure lui credeva di vivere. Ma forse la vita non la conosce nessuno. Viviamo per morire e moriamo guardando la nostra vita riempita di ipocrisie e stoltezza. Neppure io saprei che cos’è la vita; io che di vite ne ho viste tante… La vita era sempre destinata a morire.

Un giorno chiamai in udienza un gruppo di saggi e sapienti, per chieder loro: «Che cos’è la morte?» Dopo sette giorni di interrogazioni e dotte consultazioni, mi risposero che non erano in grado di darmi una risposta precisa e tutti i loro sforzi e i tentativi di rispondermi rimanevano vaghi e inconcludenti. Li feci giustiziare il giorno seguente, e ordinai ai miei servitori di portarmi il primo povero mendicante che avessero trovato fuori dal palazzo. Quando me lo presentarono gli chiesi: «Dimmi, che cos’è per te la morte?» Lui subito mi rispose: «La morte è un sollievo dalle sofferenze della vita. Tante volte l’ho invocata, ma quella non mi ha voluto ascoltare, quindi eccomi, costretto a mendicare per le strade della città.» Mi piacque tanto la sua risposta che lo nominai consigliere e lo riempii di ricchezze. Al contrario degli uomini di scienza lui seppe darmi la risposta migliore, perché, onesto e paziente, aveva imparato direttamente dalla sua esperienza, e venne premiato.

I contadini piantarono semi, i germogli crebbero e diventarono alberi, foglie dopo foglie, inverno dopo inverno, gli alberi maturarono di volta in volta i loro frutti, seminarono nuovi germogli, fino a quando i tronchi non si inaridirono, e non vennero tagliati per il focolare. Così passarono gli anni.   
Eppure i figli dei figli diventarono come più deboli, esitanti ed inaffidabili. Cominciò a mancare l’iniziale decisione e vigore nella difesa degli ideali dell’Impero. Serpeggiò il malcontento nella popolazione, soprattutto nei ceti più umili e poveri. Una ad una insorsero diverse nazioni, si ribellarono e crearono uno schieramento opposto all’Impero. L’esercito eliminò queste nazioni, ma le lotte e gli scontri si moltiplicarono in tutto il mondo. Anche l’efficienza dell’esercito imperiale cominciò a venir meno. In tutta la Terra si verificarono sommosse, battaglie, guerriglie urbane e disordini. Componenti dell’esercito abbandonarono i ranghi per andare a difendere i ribelli e rifornirli clandestinamente di armi e munizioni. Il più grande e potente impero che la Terra avesse mai visto si stava logorando in terribili guerre civili. Le nubi della rovina si stavano affacciando all’orizzonte presagendo l’imminente tempesta e oscurando, così, la splendente luce di verità creata dagli uomini, ovvero da me! Si accesero cruente e violente insurrezioni da parte di povera gente, e da stati che imploravano liberà. Ma non capivano che io li avevo liberati dalla malvagità. Avevo aperto loro gli occhi. Li avevo costretti ad aprirli. Avevo donato loro la vera libertà! Erano solo degli ingrati! Irriconoscenti! Dopo la gloria era questo il modo in cui mi ripagavano? Non avrebbero saputo neanche immaginare il mondo se non ci fossi stato più io! Non potevano, o se l’erano dimenticato…

Si sterminarono da soli, come tante piccole formiche: assistetti alla morte della civiltà. La Terra e l’intera popolazione mondiale non si riscossero più dalle continue e insistenti devastazioni e bombardamenti a cui erano stati soggetti. La gloriosa età d’oro venne pian piano dimenticata o ricordata come una leggenda: un sogno lontano e mai più realizzabile. Le città si ridussero drasticamente, iniziando così il declino e lo sprofondamento dell’umanità in un’era cupa, di ignoranza e povertà. I popoli si ridivisero e ricominciarono a farsi guerra tra loro per sciocche e stupide motivazioni. Ma per quanto impegno ci mettessero, le nazioni rimasero ingovernabili, perché l’uomo, abituato com’era ad essere comandato, aveva dimenticato come si dirigeva e come veniva organizzato uno Stato. Questi regimi diventarono sempre più piccoli e sempre più numerosi, finché non si arrivò al punto che ogni città si autogovernava, alla meno peggio. Non esistettero più nazioni ma infinite singole comunità. Queste si chiusero se stesse recidendo più rapporti possibili con l’esterno e recuperando fantasiose usanze magiche e pagane. Anno dopo anno, lentamente, come agonizzando, l’umanità si disperse, ed io venni dimenticato. Rimasi a vivere nella solitudine del mio palazzo, trasformato in un oscuro ed inaccessibile castello, e lontano da ogni centro abitato. I cittadini, quelli rimasti, si raccolsero in piccoli villaggi, dove praticarono l’agricoltura e l’allevamento, e dove, ogni tanto, passava qualche compagine di soldatacci e vagabondi in cerca di cibo e donne, depredando e razziando ogni abitazione. Con il passare delle stagioni la Terra fu percorsa da numerose popolazioni nomadi, che erravano di paese in paese. Gli ultimi uomini vagarono in steppe dove millenni prima sorgevano splendide città, in deserti dove secoli prima si coltivavano i più diversi raccolti, in paludi dove anni prima c’erano prati verdi e foreste. Sparuti gruppi di cacciatori nomadi inseguivano i branchi di animali selvatici per cacciarli con rudimentali lance e frecce. L’ultima volta che incontrai personalmente un uomo, o forse qualche suo successore, mi trovai davanti un rozzo selvaggio: straccione, peloso e privo di ogni cura personale.
Non sopportai oltre tale vista. A questo, dunque, era destinata l’evoluzione?

Gli uomini sopravvissero in simili maniere, cibandosi di bestie selvatiche e dei frutti raccolti, gruppi familiari allargati, che si spostavano appena se ne sentiva l’esigenza, finché una straordinaria unione di condizioni climatiche, eventi catastrofici e fenomeni naturali di eccezionale intensità causarono un periodo di terribili difficoltà. Si stava verificando, secondo il loro prevedibile ciclo, l’ennesima glaciazione: i ghiacciai delle due calotte polari si espansero tanto da occupare quasi metà dell’intera superficie terrestre. Inverni rigidissimi e quasi eterni, estati brevi e di un calore irrisorio. Mi rifugiai nei bunker sotterranei del mio palazzo, che, a suo tempo, avevo fatto opportunamente attrezzare per ogni tipo di evenienza. Qui vissi secoli senza più vedere la luce del Sole, procurandomi autonomamente l’energia necessaria, grazie a sofisticati macchinari tecnologici. Anni di solitudine forzata, in cui mi si rifecero avanti paure, riflessioni, pensieri e ricordi. Anni di riflessioni, ripensamenti e nuove meditazioni, che si fecero lentamente largo nella mente.

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Capitolo 4
*** IV. ***


Quando tornai in superficie non era rimasta traccia di alcun essere umano: la natura li aveva debitamente condotti all’estinzione. Ad inverni meno rigidi si intervallarono estati sempre più calde. L’aspetto della Terra come io lo avevo conosciuto, non esisteva più. Era radicalmente cambiato. Ogni ricordo che se ne aveva era, inoltre, perduto, come pure la memoria degli uomini e gli uomini stessi.

Fui solo. Definitivamente solo. Vidi il mio palazzo anno dopo anno creparsi, rovinarsi, e un poco alla volta sgretolarsi. Era inevitabile: le meraviglie della tecnologia si danneggiarono e si arrugginirono. L’oro e le pietre preziose rimasero chiuse negli scrigni; lì, inutili, a farsi guardare: una volta simbolo di potenza e ricchezza, da esibire davanti agli uomini, ma adesso che non c’era più nessuno, erano rifugio per ragni e vermi. Le stoffe e i mobili lussuosi si lacerarono e marcirono, e tutte le opere dell’ingegno umano stavano andando perdute, divorate dal tempo. Tempo che consuma e nasconde ogni cosa, e che trasforma tutto in cenere.

Del mio meraviglioso palazzo rimasero solo le sue architetture; maestose rovine soggette al freddo e alle intemperie. Anche queste, però, non durarono in eterno, e le vidi sbriciolarsi e trasformarsi in polvere e sassi; da questi nacque nei secoli una foresta, che vidi bruciare e distruggere completamente dal fuoco, poi vidi il mare che sommerse quei tronchi carbonizzati, e quando anche il mare si ritirò, rimase solo un deserto sabbioso. Su questo deserto, un giorno, camminai lasciandomi il sole alle spalle e ammirando un’ombra stagliarsi davanti a me.
Chi era quello? Di chi era quell’ombra? Lui chi era? Io chi ero? Che cos’ero?

Ero un uomo? L’uomo si era estinto: non potevo essere un uomo. Un suo simile, forse, ma l’uomo non era più. Eppure quell’ombra mi diceva chiaramente che esistevo: ero carne ed ero vita, ed ero pensiero! Ero giovane e bello, ero un uomo perfetto, ero un uomo incorruttibile ed eterno, ma la natura intorno a me No. Mi sfiorava, ma non mi toccava: continuamente mutava e si mutava, trasformava e si trasformava, mentre io non mi mutavo e non facevo mutare, non mi trasformavo e non producevo trasformazioni. Ero insignificante e impotente ma al tempo stesso ero potente sul tempo e immortale nel corpo. Ero la forza e la debolezza, ero la potenza e l’impotenza, ero l’onnipotenza e l’impossibilità, ero il bene e il male, ero la gioia e il dolore, ero l’amore e l’odio. Ero nato ed ero destinato a morire, ma quando dovrò morire? Potevo dire di aver vissuto una vita? Una vita identica? Sempre uguale a me stesso? Lo stesso giovane e bel viso del tempo?

Ero, esistevo, ma rinunciai da quel giorno maledetto ad una vita: fui, ma non esistetti, ed esistetti solo per essere e apparire. Ero forzato a vivere aspettando solo di morire, ma la morte rifuggiva da me: sarebbe stata un sollievo, una liberazione, ma non mi era permessa. Vissi una vita vuota e priva di senso, vissi per scontare una crudele condanna: quella di essere nato. Vissi dimenticandomi della mia vita, delle persone, dei miei genitori, della mia nascita. Qual era, qual è stato e qual è il mio nome?

Improvvisamente udii un rumore tanto inatteso quanto dolce. Mi girai e rimasi abbagliato dalla luce e dalla bellezza insostenibile che questa sprigionava. Una luce accecante e meravigliosa, come un sole, un fuoco, una stella, dai capelli di seta e dal corpo velato. Tutto avvolgeva e tutto smorzava: venni proiettato in uno spazio così luminoso che non era sopportabile alla vista, sicché dovetti coprirmi gli occhi con le mani. Udii però la sua voce: la luce parlava come se fosse ovunque intorno a me, produceva suoni e melodie armoniose che incantavano l'orecchio… Tentai allora di riaprire cautamente le palpebre e vidi allora tutta la sua magnifica figura confusamente radiosa e inavvicinabile, come se stesse ripetendo continuamente con la sua voce serena e soave l'infinita interrogazione: «Sei tu?»

Ero l’unico al mondo, come poteva avere dubbi? Io ero sicuro di essere me stesso, di essere io quello che cercava, ma lei ripeteva sempre la stessa domanda. Era impossibile che fossi cambiato: io ero ed ero stato lo stesso di dieci, cento e altri mille anni prima, lo stesso che conobbe in un mercato affollato… perché non mi riconosceva? Perché? «Guardami! Sono io! Non mi riconosci?» Feci un passo verso di lei, ma fu come se lei si fosse spaventata. Immediatamente la magia cessò tutto d’un tratto e lei pure smise di parlare. Forse non mi riconosceva? Forse non guardava all’apparenza, ma vedeva un vecchio storpio e millenario, odioso e malvagio? Vedeva quello che io ero diventato dopo che se ne andò, vedeva il me crudele e sanguinario: non quello che l’amò, ma quello che la odiò e uccise. Non riconobbe più il suo amore, il mio amore per lei: «No! Ti prego! Non ero io quello! Era un folle, un pazzo! Era un uomo che aveva conosciuto troppo bene il tuo amore!» Ma io non potevo mentirle, perché lei aveva nella sua mano il mio cuore, e con questo se ne fuggì lontano. In quegli istanti velocissimamente tutta la luce svanì, come rapita e attratta da lei. Tutto intorno a me venne proiettato in quel punto e prima che io potessi riuscire a pronunciare un’altra sola parola, lei scomparve con un ultimo improvviso bagliore che mi trafisse l’iride. Mi lasciai cadere a terra disperato, con le mani sul viso a nascondere la mia vergogna, per nascondermi da me stesso.

In che cosa mi ero trasformato… Capii in quel momento di essere solo un folle, un folle che preferì morire, fuggire dalla vita e dimenticarsi dell’amore perché aveva amato troppo. Amai troppo, e me ne feci una colpa. Avevo creduto veramente di averla dimenticata per l’eternità? Avevo creduto di esserci riuscito, ma avevo dimenticato pure chi ero. Avevo creduto che dimenticandomi avrei risolto il problema, ma non servì a niente.
Rialzando lo sguardo, vidi nel cielo soffocante un rosso Sole che illuminava le mie orme impresse nella sabbia. Erano l’unica certezza del mio esistere: ero ancora, malgrado tutto, Io, un qualcuno, un qualcosa… Ma quando mi accorsi che il vento le stava cancellando, allora fui preso da un indicibile sgomento.
Forse per questo fui condannato a vivere, a vegliare sui resti dei vissuti, ad esistere, e a contare gli anni che passeranno in eterno, fino a quando un nuovo evento celeste non interromperà il suo ciclo.

Attendere. Aspettare la morte che non verrà. Qui sulla Terra, disabitata da millenni, pugno deserto di roccia, arido e secco in mezzo al nulla. Ero solo. Sono solo. Solo, in un mondo di polveri. Solo, nell’universo.

 

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