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di dalialio
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


Capitolo 1
Disclaimer: i personaggi presenti nella storia non mi appartengono, ma sono proprietà della CW. L'immagine non è di mia proprietà ma di chi l'ha creata (cliccateci sopra per la pagina della creatrice). Questa storia è stata scritta senza alcuno scopo di lucro.

Salve a tutti! Eccomi qui con l'ennesima storia su Supernatural *la folla si lamenta* sì, sì lo so cosa state pensando, ma vi giuro che questa volta non si tratta di una delle solite one-shot. Ebbene, mi sono buttata a capofitto in una multichapter oh povera me!
Dunque, premetto che la storia è in corso d'opera e devo ancora capire dove andrà a parare, quindi la scrittura e pubblicazione sarà abbastanza lenta. Ho voluto, per il momento, pubblicare il primo capitolo per vedere se la storia può interessare e anche per spronarmi ad andare avanti.
La storia è ambientata in un futuro indefinito (o che sarà definito più avanti) ed è principalmente nata dal mio folle amore per Radioactive degli Imagine Dragons. Ci potrebbe essere un cambio di rating e passare al rosso ma chissà: lo scopriremo solo vivendo!
Ma bando alle ciancie, vi lascio leggere! :) vi prego di lasciare una recensione anche piccina picciò per farmi sapere cosa ne pensate e se dovrei davvero andare avanti a scrivere!
Adios!
Chiara











W  E  L  C  O  M  E     T  O     T  H  E     N  E  W     A  G  E





I'm waking up to ash and dust,
I wipe my brow and I sweat my rust,
I'm breathing in the chemicals.

I'm breaking in, shaping up,
Checking out on the prison bus,
This is it, the apocalypse.





Capitolo 1




Ripresi conoscenza con un sobbalzo, tanto improvviso da farmi rimbombare il cuore nelle orecchie. Mi misi a sedere di scatto, spalancando gli occhi e inspirando in un ansimo. Sentii l'aria grattarmi la gola secca e i polmoni gonfiarsi dolorosamente contro la gabbia toracica. Fu come se quello fosse il primo respiro di tutta la mia vita.
Quello scatto improvviso non fu una brillante idea: la testa iniziò a girare e la nausea mi salì dallo stomaco. Le mie braccia cedettero e, quasi senza rendermene conto, ricaddi indietro. Battei la testa contro l'asfalto e solo allora mi resi conto del dolore lancinante che sembrava trapassarmi il cranio da parte a parte. Doveva essere lì già da prima che cadessi a terra. Un conato mi fece tremare lo stomaco, ma non riuscii a rigettare.
Mi voltai su un fianco, mentre lo sforzo di vomito mi faceva tossire come un disperato, strizzando gli occhi a causa dei vortici di polvere che il mio fiato faceva sollevare da terra. Appena riuscii a respirare normalmente, sollevai la testa di qualche centimetro e sputai per terra un miscuglio di saliva e sangue. La mia mascella doleva.
Qualcuno mi aveva proprio conciato per le feste.
Inspirai ed espirai lentamente per cercare di far scendere la nausea. Man mano che i secondi passavano, il dolore si espandeva in tutto il mio corpo: oltre alla testa, ora pulsava anche la mia gamba destra. Mi sollevai sui gomiti con uno sforzo e controllai la situazione: i jeans erano squarciati sul ginocchio, così come la mia carne, e il sangue faceva attaccare il tessuto alla mia pelle come una colla. Il taglio era lungo una decina di centimetri e profondo. Non mancava molto che si vedesse l'osso.
Che cazzo mi era successo?
Mi guardai attorno. Mi trovavo disteso in mezzo alla strada e non si scorgeva anima viva. Il cielo era nuvoloso e formava una cappa di caldo umido sopra la mia testa. Il panorama era desolato.
Mi voltai sul fianco sinistro e iniziai a strisciare, stando attento a tenere la gamba ferita dritta e distante dai detriti della strada. Trascinai il peso di tutto il mio corpo con i gomiti, mentre avanzavo stringendo gli occhi, che lacrimavano a causa della polvere che si sollevava dall'asfalto. Tutta la strada era coperta da uno strato grigio di cenere.
Arrivai al marciapiede e mi sedetti sul bordo, usando tutta la mia forza per sollevarmi e girarmi. Il respiro era affannoso. La gola era secca e bruciava. La gamba faceva un male boia, ma mi preoccupava di più la testa. Sfiorai con le dita la ferita tra i capelli, mordendomi il labbro quando si mise a pulsare. Mi guardai la mano. Era impiastricciata di una sostanza appiccicosa e color ruggine.
Sangue rappreso.
Sospirai, cercando di pensare positivo: almeno per il momento la botta in testa non aveva provocato danni gravi.
Oppure sì?
Mi chiamavo Dean Winchester, mio fratello era Sam e i miei genitori erano stati Mary e John. Non sapevo che giorno fosse e quello mi spaventò. L'ultima cosa che ricordavo era Sam su un letto di ospedale... e prima? Un cielo nero era esploso in migliaia di palle di fuoco, che si dirigevano inesorabilmente verso la Terra. Ricordavo chiaramente di aver fissato una di quelle comete e di averci visto un angelo, cui si erano staccate le ali durante la caduta.
Il mio cuore perse un battito. Dov'era Castiel? E Sam?
Mi guardai attorno, analizzando ogni dettaglio per cercare di orientarmi. La strada era popolata da carcasse di automobili arrugginite, molte delle quali smembrate e girate sottosopra. I muri degli edifici erano grigi e sporchi e quasi tutte le porte e le finestre erano state sprangate con delle assi di legno.
L'atmosfera era surreale. Sembrava che la città fosse stata investita da un'onda radioattiva.  Più mi guardavo intorno, più mi rendevo conto di conoscere quello scenario. L'avevo già visto prima.
La scritta spiccava sul muro dell'edificio dall'altra parte della strada. Mi si accapponò la pelle nel prendere in considerazione l'idea che quella che era stata usata non fosse vernice rossa.
Croatoan.
Figlio di puttana...
La bile mi si fermò in bocca e fui costretto a sputarla. Sentii il naso colarmi e lo pulii con la manica, che si sporcò di sangue.
Quel panorama grigio e desolato mi era abbastanza familiare: ci avevo vissuto tre giorni, quella volta che quel figlio di puttana di Zaccaria mi aveva sparato nel futuro per farmi vedere quale sarebbe stata la conseguenza se non avessi detto il "grande sì" a Michele. Ricordavo chiaramente, in quell'occasione, di aver visto un cartello di divieto di entrata attaccato ad una rete che recava una data.
Duemilaquattordici.
Se mi trovavo nel duemilaquattordici, non ricordavo assolutamente nulla di quello che era successo negli ultimi sei mesi circa. La botta in testa mi aveva fatto davvero perdere la memoria.
In ogni caso, sapevo cos'era lo scenario che si stagliava di fronte a me.
La fottuta Apocalisse.
Un pensiero grattava un angolo della mia mente, mentre si faceva breccia nella mia testa l'idea che ci fosse qualcosa di più che familiare in quella scena. Non era la consapevolezza di essermi già trovato in quell'esatto luogo molti anni prima. Era qualcosa di più recente, ma indefinito, impalpabile. Come quando ci si sveglia e si sente ancora il gusto del sogno sulla lingua, mescolandosi con la realtà, tanto da confonderci per i primi secondi.
Era quello che mi stava accadendo. Avevo l'impressione di essermi appena svegliato e che i miei ricordi fossero solo un sogno. Che quella che avevo di fronte a me era la realtà in cui avevo vissuto tutta la mia vita.
Scossi la testa, cancellando quel pensiero, e mi concentrai su qualcosa di più importante. Dovevo trovare un modo per andarmene di lì, scoprire se esisteva ancora qualche forma di civiltà da quelle parti. Ma non sarei riuscito nemmeno ad alzarmi in piedi con la gamba in quello stato.
Squarciai i jeans con il coltello a serramanico che trovai in tasca, fino a liberarmi il polpaccio, poi sollevai il tessuto per scoprire il ginocchio, stringendo i denti quando la ferita pizzicò. Un fiotto sgorgava lentamente tra il sangue rappreso e gocciolava sull'asfalto. Non sfiorai nemmeno il taglio: le mie mani erano nere e sporche e avrei rischiato un'infezione.
Mi sfilai la maglia, rimanendo a petto nudo, e la piegai a formare una benda. La posai sulla ferita e annodai le maniche dietro il ginocchio, stringendo in modo da non fermare troppo la circolazione. Come fasciatura non era un granché, ma almeno speravo che la ferita non si sporcasse ulteriormente.
Mi guardai attorno, cercando di orientarmi, ma non avevo la più pallida idea di dove mi trovassi e di dove sarei potuto andare. Il mio sguardo si posò su un pullman a una ventina di metri da dove mi trovavo. La scritta sul fianco era sbiadita ma si riuscivano ancora a scorgere le parole "Carcere della Contea". Un bus per il trasporto dei carcerati. Era l'unico mezzo in vista che avesse tutte e quattro le ruote e che non fosse ribaltato.
Mi misi in piedi facendo leva sulle braccia e tenendo la gamba martoriata più dritta che potevo. Mi alzai cautamente, sperando di non essere preso di nuovo da un conato. Una volta in piedi, constatai che il mio stomaco stava tutto sommato bene e mi decisi a muovermi. Provai a spostare il peso sulla gamba ferita, ma un dolore lancinante mi fece tremare il ginocchio. Cattiva idea.
Sospirai. Non mi restava che saltellare fino all'autobus. Sarebbe stata davvero una lunga strada.
Dopo nemmeno sei metri ero già stanco. La gamba sinistra doleva e non sapevo quanto ancora sarebbe stata in grado di sostenere il mio peso. Presi in considerazione l'idea di sedermi a terra per qualche secondo, ma sapevo che se l'avessi fatto poi non sarei più riuscito a rimettermi in piedi. Strinsi i denti e proseguii, un po' saltellando, un po' chinandomi e posando le mani per terra per camminare a tre zampe.
Dopo cinque minuti avevo finalmente raggiunto il bus. Il portello era spalancato e mi lasciai cadere sullo scalino. Rimasi lì per un paio di minuti, lasciando riposare la gamba sinistra, che aveva sopportato tutti i miei ottantacinque chili. Sentii un formicolio salire dalle dita fino alla coscia, segno che il sangue stava tornando a circolare.
Quando mi sentii più in forze, salii zoppicando gli scalini e mi sedetti al posto di guida. Le chiavi non erano inserite, né si trovavano in nessun cassetto o scomparto - non ci avevo realmente sperato -, quindi mi chinai e tirai fuori due fili da sotto il cruscotto, cui feci fare contatto. Il motore accennò ad avviarsi un paio di volte, ma senza risultato. Dopo il quinto tentativo si accese e mi lasciai andare ad un sospiro di sollievo.
Infilai la gamba ferita sotto il volante e mi sistemai in modo da poter premere l'acceleratore pur tenendola dritta. Quella posizione - seduto sul bordo esterno del sedile, tenendo la gamba in tensione - era scomodissima, ma speravo di raggiungere la civiltà in pochi minuti, quindi avrei potuto anche sopportare.
Dopo essere partito, mi accorsi quasi subito che i freni non funzionavano proprio a meraviglia, così continuai ad avanzare ad una velocità massima di venti chilometri orari, tenendo spalancata la portiera del conducente e rimanendo pronto a saltare fuori dall'autobus se ce ne fosse stato bisogno.
Non sapendo dove potessi andare, vagai alla cieca per un quasi un'ora, senza trovare anima viva. Durante il tragitto ebbi qualche difficoltà nelle curve, che affrontavo sempre a velocità troppo elevata. Un paio di volte l'autobus si inclinò pericolosamente da un lato ed ebbi il terrore che si ribaltasse, ma le sospensioni riuscirono a tenerlo dritto. In quelle occasioni sentii l'adrenalina invadere il mio corpo e il cuore battermi all'impazzata.
La gamba continuava a fare un male cane e la maglia usata come benda era ormai imbrattata di sangue. Anche se fossi riuscito a trovare qualcuno, non sapevo come sarebbero riusciti a medicarmi. Avrei sicuramente sviluppato un'infezione.
Avevo ormai perso le speranze, quando, lungo un rettilineo, notai la sagoma di una mezza dozzina di persone ad un centinaio di metri di distanza. Iniziai a rallentare subito, visto che i freni funzionavano molto malamente e mi ci sarebbe voluto più spazio del normale per fermare l'autobus.
Quando mancava ancora una cinquantina di metri, il gruppo di uomini si accorse di me - anzi, dell'autobus. Esplose un colpo, che procurò un buco perfettamente tondo sul parabrezza e sibilò accanto al mio orecchio. Un decimo di secondo dopo mi ero abbassato, mentre altri colpi esplodevano sopra di me, mandando in frantumi il vetro. Pigiai il piede sul pedale del freno più forte che potevo, mentre il ginocchio ferito pulsava così tanto che la mia vista cominciò ad offuscarsi, ma mi sforzai a rimanere piegato.
Gli uomini smisero di sparare, probabilmente pensando di essere riusciti a beccarmi. L'autobus avanzò degli ultimi metri, poi si fermò completamente. Le mie orecchie fischiavano e cercai di cambiare posizione: quando mi ero chinato ero stato costretto a piegare il ginocchio ferito e ora rischiavo di vomitare l'anima dal dolore. I frammenti di vetro sulla mia schiena caddero per terra mentre mi sollevavo cautamente di qualche centimetro.
Un rumore di passi arrivò attutito alle mie orecchie, mentre il mio cervello lo registrava con difficoltà. "Cazzo!", esclamò una voce che non conoscevo.
Mi sollevai ancora un po', voltandomi verso il portello del conducente aperto. Tra la testa che girava e il fischio nelle orecchie, la mia mente non riuscì a riconoscere il volto dell'uomo che mi fissava atterrito.
"È Winchester!", lo sentii gridare, prima che il fischio nelle orecchie si facesse più acuto e mi facesse svenire.




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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


Capitolo 2
W  E  L  C  O  M  E     T  O     T  H  E     N  E  W     A  G  E


I'm waking up to ash and dust,
I wipe my brow and I sweat my rust,
I'm breathing in the chemicals.

I'm breaking in, shaping up,
Checking out on the prison bus,
This is it, the apocalypse.





Capitolo 2





Ci misi un po' a svegliarmi. Il mio primo pensiero fu che dovevo essere morto, ma poi pian piano ripresi il controllo del mio corpo, muscolo per muscolo, e mi resi conto di trovarmi disteso. Le orecchie si stapparono e percepii l'inconfondibile rumore delle ruote su una strada sterrata, accompagnato da un terribile e costante scuotimento.
Aprii gli occhi in una fessura, cercando di distinguere qualcosa con la mia vista appannata. La ferita alla testa si era messa a pulsare e mi sentivo come se fossi stato schiacciato da un carro armato. Mi veniva da vomitare e l'ondeggiare violento del mezzo non aiutava affatto.
Spalancando completamente gli occhi, mi resi conto di trovarmi sul pianale di un pick-up, mentre qualcuno - non il tipo di prima, ma comunque un viso sconosciuto - armeggiava con il mio ginocchio malandato. Forse era stato il dolore a svegliarmi.
"Fermo dove sei!" esclamò quando cercai di mettermi a sedere. Era un ragazzo, non doveva avere più di venticinque anni. "Non pensare nemmeno ad alzarti." Mise una mano sulla mia spalla e mi spinse di nuovo giù.
Ero steso su quella che sembrava essere una barella di plastica e ad ogni dislivello che il furgone affrontava sentivo lo scossone amplificato di diecimila volte. Sembrava di essere sulle montagne russe.
"Che cazzo!" esclamai, quando una fitta mi scosse la gamba.
"Mi dispiace," disse il ragazzo. "Sto cercando di fasciarti meglio la ferita, almeno per il tragitto fino al campo base." Aveva tolto la maglia che avevo usato come benda provvisoria e stava avvolgendo il ginocchio con una garza bianca. Strinsi i denti, cercando di non lamentarmi.
Dopo un tempo indefinito, che avevo passato mezzo rincoglionito dopo che il ragazzo mi aveva imbottito di antidolorifici, riuscii a trovare la forza di aprire bocca. "Chi siete?"
Sembrava confuso. "Chi siamo?" ripeté.
"Prima cercate di uccidermi e poi ti metti a fasciarmi il ginocchio?" esclamai. Le parole mi uscivano impastate e probabilmente quasi incomprensibili. "Chi cazzo siete?"
Il pick-up improvvisamente si fermò. "Siamo arrivati," decretò il ragazzo, senza darmi una risposta. In quel momento mi accorsi che un altro furgone ci aveva seguito per tutto il viaggio. Ne uscirono tre uomini, e altri due dal mezzo in cui mi trovavo io. Qualcuno sollevò la barella e mi trasportò per parecchi metri prima che iniziassi a dibattermi debolmente, gridando che volevo scendere. Nessuno mi diede retta, così spostai tutto il mio peso da un lato, facendo sbandare gli uomini che mi stavano portando.
"Fermo!" esclamò uno.
"Fatemi scendere!" urlai.
"Non riusciresti a stare in piedi," spiegò il ragazzo che mi aveva medicato.
"Non me ne frega un cazzo!" urlai più forte che potevo. "Voi figli di puttana mi fate scendere!"
Il ragazzo guardò uno alla volta i due tizi che mi trasportavano, poi annuì. La barella si piegò in avanti, finché mi trovai quasi perpendicolare al terreno. Posai il piede sinistro per terra, caricai tutto il mio peso e mi sollevai. Poi caddi a terra come un sacco di patate.
"Che cos'avevo detto?" sentii rimproverarmi il ragazzo. Ignorai la punta di sarcasmo nella sua voce.
"Dean?"
Il mio cuore perse un battito quando sentii pronunciare il mio nome da quella voce. In mezzo a sconosciuti in un luogo sconosciuto, quella voce era l'unica cosa che veramente conoscevo. Sentirla mi fece sentire più leggero.
Sollevai lo sguardo appena in tempo per vedere Cas scendere in volata i gradini esterni di un edificio di legno e correre verso di me. Era identico a come lo ricordavo dalla visita forzata di Zaccaria. I capelli gli coprivano la fronte e le guance erano colorate dalla barba di una settimana. La camicia stropicciata che portava era sbottonata per metà sul petto. Si chinò di fronte a me e mi baciò.
Un brusio si levò attorno a noi. Esclamazioni di sorpresa, più che altro. Ma non ci feci caso. La mia attenzione era concentrata da tutt'altra parte.
Era la prima volta che baciavo Cas. Quante volte avevo sognato di farlo? Quante volte mi ero domandato quale sarebbe stata la sua reazione se avessi preso il suo viso tra le mani e avessi posato le mie labbra sulle sue? E ora stava accadendo, come se fosse la cosa più normale del mondo.
Le sue labbra erano morbide e sapevano di incenso. Sentii la sua mano sul mio collo che stringeva i capelli sulla mia nuca, provocandomi un brivido che attraversò il mio corpo fino all'inguine. Mi venne la pelle d'oca su tutto il corpo e mi ricordai di essere a petto nudo. Schiusi la bocca per infilare la lingua tra le sue labbra, ma lui si separò da me troppo presto.
Cas si mise a fissarmi con uno sguardo che non sapevo interpretare, mentre mi perdevo nell'azzurro dei suoi occhi. Le mie orecchie avevano ricominciato a fischiare e non mi permettevano di sentire la sua voce. Vedevo le sue labbra muoversi, ma non usciva alcun suono.
Mi prese il viso tra le mani, scuotendomi e continuando a parlare. Stavolta riuscii a sentire la sua voce, ma sembrava un sussurro lontano. La mia vista tremava e non sapevo ancora quanto sarei riuscito a rimanere seduto dritto.
"È imbottito di antidolorifici, "disse una voce da lontano. Era il ragazzo-dottore? "Sarà meglio portarlo in infermeria."
Venni sollevato dalle spalle e dalle gambe e caricato nuovamente sulla barella, inerme. Fui trasportato dentro un'immensa tenda da campo e scaricato su una branda con un materasso sottile che mi infilzò tutte le sue molle sulla schiena.
Sentii un pizzico sul braccio e mi resi conto che mi avevano infilato un ago attaccato ad una flebo. Mi lamentai debolmente, mentre delle vaghe figure giravano attorno al mio letto e poi sparivano.
Un viso si materializzò troppo vicino al mio. "Dean, ora dovrò ricucirti il ginocchio," mormorò. La sua faccia era sfuocata, ma la voce mi era familiare. Era la stessa che mi aveva ammonito per tutto il viaggio in quel rumoroso pick-up. Quel poppante che mi aveva tartassato la gamba e imbottito di droga.
Il ragazzo srotolò la benda dalla mia gamba, mentre ondate di dolore risalivano dal mio ginocchio, costringendomi a rimanere sveglio, ma strinsi i denti e cercai di non lamentarmi. Poi il tizio si alzò, armeggiò accanto ad un carrello dall'altra parte della tenda e ritornò con le mani inguantate e con qualcosa in mano, poi si sedette accanto al letto trascinando una sedia vicino a sé.
Per un attimo uno dei due oggetti che aveva portato scintillò e riconobbi una siringa. Cercai di sollevarmi e di ritrarmi, ma le mie mani erano ammanettate alla testiera della branda. Provai a piegare le gambe, ma le caviglie erano legate alla struttura di ferro del letto. Quando cavolo mi avevano immobilizzato?
"Stai disteso," mi ammonì il ragazzo.
"Che cazzo stai facendo?" esclamai, ma le parole uscirono dalla mia bocca in un mormorio.
"È un anestetico," spiegò, mentre infilava l'ago nel tappo di un piccolo contenitore di vetro e ne aspirava il liquido. "Non credo che ti faccia piacere essere ricucito a vivo."
Avrei voluto rispondergli che ero abituato a non usare alcun tipo di droghe per togliere il dolore, ma non avevo più la forza di replicare. Mi lasciai cadere con la testa sul cuscino senza lamentarmi più.
Sentii un bruciore al ginocchio, ma dopo un secondo era già sparito. Il ragazzo si alzò e buttò la siringa vuota dentro il cassetto di un carrellino accanto alla branda e tirò fuori un flacone contenente un liquido trasparente, sulla cui etichetta riuscii a leggere di sfuggita la parola "fisiologica", che spruzzò sulla mia ferita, facendola bruciare come se mi stesse andando a fuoco la carne. Mi lasciai scappare un lamento.
"L'anestesia non ha ancora fatto effetto," disse il tizio. "Sarà meglio aspettare qualche minuto." E se ne rimase lì a fissarmi.
Lo guardai con occhi stanchi e a quel punto lui abbassò lo sguardo. "Come ti chiami?" mormorai.
"Mmh?" mugugnò, sollevando la testa di scatto.
"Come ti chiami?" ripetei, cercando di scandire meglio le parole.
Il ragazzo mi guardò per qualche secondo, prima di dire: "Allora è vero."
"Cosa?"
"Che non ricordi."
Non fui sorpreso da quella rivelazione. Avevo già capito che qualcosa non andava in me.  "No, non ricordo," risposi.
"Edward Murray," disse. "Ma tutti mi chiamano Doc."
Annuii, fissando il soffitto della tenda. "Così i soldati lì fuori affidano a te la loro vita? Non sei un po' troppo giovane?"
Il ragazzo sbuffò. Sollevai la testa di qualche centimetro per scrutare la sua espressione e mi resi conto solo in quel momento che aveva iniziato a pulirmi la ferita per ricucirla. Non sentivo alcun dolore, finalmente. "Non sono troppo giovane, così come loro non sono soldati," sbottò. "Potrai pure aver perso la memoria, ma sei rimasto il solito arrogante che crede di essere a capo di un esercito."
Non feci troppo caso alla sua critica. Mentre Doc mi ricuciva la ferita, la mia testa si fece pesante e la lasciai ricadere sul cuscino. La mia mente era offuscata sempre di più dagli antidolorifici che si introducevano a forza nel mio organismo attraverso l'ago della flebo. Quando chiusi gli occhi vinto dalla stanchezza, non riuscii più ad avere il controllo dei miei pensieri, che iniziarono a viaggiare mescolando presente e passato, mostrandomi attraverso le palpebre chiuse delle immagini talmente nitide che mi sembrò di rivivere i miei ricordi.



***



Le braccia di Sam si illuminarono come due neon dentro quella buia chiesa diroccata. Il sangue che usciva dal taglio della sua mano formava dei rivoli sul suo palmo, così gli annodai attorno un fazzoletto.
Poi si sentì male. Lo trascinai all'aperto e si accasciò nel fango, appoggiandosi alla ruota dell'Impala. Alzò la testa e la sua espressione si fece atterrita.
Seguendo il suo sguardo, i miei occhi furono testimoni dello spettacolo più bello e terrificante della mia vita. Delle palle di fuoco bucavano il cielo come fossero comete e creavano una scia verso la Terra. Erano centinaia, forse migliaia. Non riuscivo a fare una stima.
Gli angeli... stanno cadendo.
Urlai il nome di Castiel con tutta l'aria che avevo nei polmoni, ma lui non apparve dal nulla come aveva sempre fatto, insinuandomi nella testa un bruttissimo presentimento.
Nel frattempo gli angeli raggiunsero il suolo. Il primo finì nella palude che costeggiava la chiesa, provocando uno spruzzo alto almeno un paio di metri. La velocità con la quale precipitò doveva aver raggiunto quella di una macchina lanciata in autostrada. L'urto con l'acqua fu orrendamente violento. Il secondo impattò il suolo a pochi metri da me e Sam. La velocità lo fece scivolare per qualche altro metro, creando profondi solchi nel terriccio. Mi alzai per andare a controllare. Il suo collo era piegato all'indietro in modo innaturale. Non mi presi nemmeno la briga di verificare se fosse vivo o meno.
Sam nel frattempo era svenuto. Riuscii a svegliarlo scuotendolo, poi schiacciai Crowley nel bagagliaio con non poca fatica e salimmo in auto, sgommando via. Sam vomitò fuori dal finestrino un paio di volte, mentre io guidavo a tutta velocità cercando di schivare gli angeli che piombavano giù come grandine.
Sam svenne di nuovo e fui costretto ad accostare. Cercai di svegliarlo come avevo fatto prima, ma senza risultato. Era pallido e sudato. Sentivo a malapena il suo battito.
Lo portai all'ospedale più vicino. Era l'ultima cosa che ricordavo.

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


Capitolo 3
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Capitolo 3





Ogni tanto mi svegliavo, intorpidito e confuso. Non ebbi mai la forza sufficiente per aprire bocca né per muovermi. Rimasi sempre ammanettato al letto, mentre diverse persone giravano attorno a me, osservandomi. Il viso che vidi più spesso fu quello del ragazzo, Doc. Per lo più cambiava i sacchetti della flebo e mi parlava, chiedendo come mi sentissi, ma non riuscii mai a dargli una risposta perché mi addormentavo subito.
Non riuscii a tener conto di quanto tempo passò. Mi parvero giorni, ma forse furono solo un paio d'ore. In ogni caso, passai quasi tutto il tempo in una specie di dormiveglia, che ogni tanto diventava sonno vero e proprio.
L'unica cosa di cui ero certo era che Castiel non si fece vivo.
La gamba non mi fece mai male e Doc mi aveva medicato la ferita alla testa con qualche punto, ma nemmeno quella pizzicava. Imbottito di antibiotici e antidolorifici, sarebbe stato sorprendente il contrario.
Delle voci arrabbiate erano costantemente fuori dalla tenda. L'unica che riuscii a riconoscere era quella di Doc, che cercava di calmare ogni volta una persona diversa con tono risoluto. L'argomento del litigio era la possibilità che mi fossi beccato il virus Croatoan, visto che - da quanto mi parve di capire - ero sparito dal campo base per quasi un giorno intero. Doc sosteneva che i sintomi si manifestavano entro le prime quattro ore e che per il momento non avevo subito alcun cambiamento, quindi c'era motivo di sperare per il meglio. L'altra persona replicava ogni volta che, imbottito di droga com'ero, sarebbe stato difficile capire se davvero potevo mostrare indizi che il virus mi avesse infettato. Doc concludeva allora dicendo che dopo quattro ore dal mio arrivo mi avrebbe prelevato del sangue per vedere se era presente dello zolfo.
Quando il ragazzo mi aveva infilato un altro ago nel braccio, capii che erano passate quattro ore dal mio arrivo. Mugugnai qualcosa di indistinto, lui mi spiegò la situazione e se ne andò per far esaminare il mio sangue. Mi domandai distrattamente dove avrebbe tirato fuori un apparecchio per analizzarlo.
Altre figure sconosciute si presentarono accanto a me. Erano preoccupate, a causa del mio colorito bluastro e della febbre che continuava a salire, non tanto per me, quanto per la possibilità che fossero sintomi del virus. Mi resi conto solo in quel momento di essere sudaticcio e accaldato. Doc tornò dopo qualche minuto, spiegando che la febbre doveva essere causata dall'infezione alla ferita della gamba, dato che non c'era zolfo nel mio sangue. Poi intimò alle persone di stare alla larga da me, visto che non avevo bisogno di gente che mi ronzasse attorno criticando il mio stato di salute. "Non dopo quello che gli avete fatto!" esclamò, paonazzo. Non avevo idea di che cosa stesse parlando.
Dopo che tutti se ne andarono, Doc si avvicinò al letto, affermando gaiamente che non avevo preso il Croatoan. Continuò dicendo che per sicurezza avrebbe fatto degli esami ogni ora per accertarsi che non comparisse inaspettatamente. Poi presi di nuovo sonno.
Mi svegliò il delicato tocco di un panno bagnato sul mio viso e il rumore di acqua che cadeva in altra acqua. Aprii gli occhi in una fessura, aspettandomi uno dei tanti visi sconosciuti che avevano girato attorno a me nelle ore passate; invece trovai a fissarmi due occhi blu che conoscevo molto bene.
"Cas?" mormorai. La mia voce era uno schifo. Provai a schiarirmi la gola, ma venni colto da un attacco di tosse. Un bicchiere si materializzò tra le mie labbra. Bevvi tutta l'acqua, che grattò la mia gola secca dolorosamente.
Cas posò il bicchiere vuoto sul comodino e mi mostrò uno dei suoi sorrisi a mezza bocca che mi avevano sempre fatto impazzire. I suoi occhi erano luminosi. "Ti ricordi di me, allora" disse. La sua voce era più roca del solito, come se la barba che si era fatto crescere potesse averla resa più profonda.
La mia vista iniziò ad offuscarsi. No, maledetti antidolorifici! Volevo osservare il suo viso per qualche minuto senza prendere improvvisamente sonno. Allungai una mano verso l'ago della flebo per toglierlo.
Cas posò la sua mano sulla mia. "Cosa credi di fare?" mi sgridò.
Lo ignorai, afferrando il tubo della flebo e tirandolo. L'ago uscì dalla mia carne con un pizzicore.
"Fa' come vuoi" esclamò, sorridendo divertito.
Mi resi conto solo in quel momento di essere stato in grado di muovere le braccia liberamente. Mossi cautamente le gambe. Mi avevano slegato.
Castiel rimosse il panno dalla mia fronte, strizzandolo in una bacinella ai suoi piedi. Lo bagnò di nuovo, ma questa volta lo usò per strofinarmi il viso. Il tessuto si macchiò di rosso. Dovevo avere la faccia incrostata di sangue.
"Perché non sei venuto prima?" ruggii, ma la voce uscì più debole di quanto volessi.
"Sei stato tu a dirmi di stare lontano da te nel caso ci fosse il rischio che ti fossi beccato il Croatoan," spiegò.
"Ma... mi hai baciato." La mia voce si ruppe.
"Sì, beh, mi sono fatto prendere la mano."
Nessuno dei due parlò per un paio di minuti. Cas continuava a pulirmi il viso.
"Quando ti avrei detto di stare lontano da me?" domandai confuso.
Abbassò lo sguardo, come se stesse ricordando qualcosa. "Una delle prime volte in cui abbiamo fatto sesso."
Venni colto da un altro attacco di tosse. Di nuovo Cas mi fece bere da un bicchiere.
"La notizia ti ha sconvolto?" scherzò.
"C-cosa?" mormorai, cercando di nascondere il mio imbarazzo
"Ti ha sorpreso sapere che intratteniamo una relazione sessuale?"
La verità era che sì, ero sorpreso. Ma non volevo farglielo capire. "N-no, cioè..." Sospirai, non riuscendo a finire la frase. Castiel sembrò capire il mio disagio. Non ero mai stato bravo a mentirgli.
"Qual è l'ultima cosa che ricordi?" chiese, diventando serio.
"Io... non lo so. È tutto confuso. Non riesco a distinguere nulla."
Cas lavò il panno sporco di sangue nella bacinella e ne approfittai per tirarmi più su a sedere, non senza qualche difficoltà. Avevo i muscoli intorpiditi per essere stato fermo nella stessa posizione per troppo tempo. La fasciatura al ginocchio mi costringeva a tenere la gamba destra dritta, così non riuscii a stirarla, ma l'essermi mosso anche solo di qualche centimetro mi fece sentire molto meglio.
Quando Cas fece per continuare a pulirmi il viso e mi trovò seduto, vidi che il suo sguardo indugiò un secondo in più sul mio petto nudo. "Mmh," mormorò.
"Cosa?" domandai.
"Niente. Mmh... mi sono appena ricordato di averti portato una maglietta," rispose, prendendo l'indumento posato sullo schienale della sua sedia. "Per quanto mi piaccia ammirare i tuoi muscoli, ho paura che tu possa sentire freddo. Avrò altre occasioni in futuro di ammirare il tuo petto." Poi mi porse la t-shirt, ammiccando.
Il suo modo di fare mi sorprendeva. Era molto diverso dal Cas che conoscevo. Presi la maglia e la indossai con movimenti accorti, visti i miei muscoli doloranti.
Cas si allungò verso di me, strofinando il panno umido sul mio collo. Il suo viso era a pochi centimetri dal mio e le sue labbra erano schiuse. Sembrava un gesto automatico dettato dall'attenzione con cui stava pulendo la mia pelle, ma il pensiero che il suo comportamento fosse intenzionale - che stesse in qualche modo giocando con me - grattò un angolo della mia mente. Ma durò solo un secondo.
"Sam?" domandai di punto in bianco, schiarendomi la gola, un po' in imbarazzo.
"Cosa?" mormorò Cas, scostandosi un po'.
"Dov'è Sam?" ripetei. L'idea che quello che avevo visto durante la mia visita nel futuro di parecchi anni prima fosse accaduto davvero mi tormentava, ma finsi di non prenderla in considerazione.
"Sam non c'è," rispose Cas evasivo. Il sorriso era sparito dal suo volto e aveva abbassato lo sguardo, buttando il panno nella bacinella, che aveva schizzato acqua per terra.
Aprii bocca per chiedergli ulteriori spiegazioni, ma fummo interrotti da Doc, che era entrato in infermeria proprio in quel momento. "Devi stare steso," mi sgridò, spingendomi giù per la spalla. Poi si accorse che avevo staccato l'ago della flebo. "Dio, non ti si può lasciare solo nemmeno un secondo," si lamentò, infilandomi l'ago nel braccio. Poi fulminò Cas con lo sguardo. "Per oggi basta visite."
Cas si alzò, prendendo con sé la bacinella. Mi lanciò uno sguardo che non riuscì ad interpretare, un misto tra avvilimento e pietà, e se ne andò.
"Come va la gamba?" domandò Doc, dando un'occhiata alla fasciatura ma senza toccarla.
"Bene," bofonchiai. Non ero dell'umore adatto per parlare. Ero seccato per l'interruzione: Cas avrebbe potuto dirmi qualcosa in più su Sam, se non fosse comparso Doc.
Si sedette dov'era stato prima Cas e tirò fuori un ago sterile dal carrellino e una provetta. "Dovrai rimanere a riposo almeno per un paio di giorni," disse, imbevendo un pezzo di cotone con del disinfettante e passandomelo nell'incavo del gomito, "il che prevede che tu te ne stia fermo a letto senza armeggiare con la flebo". Il suo sguardo storto riuscì ad aumentare il rimprovero. Poi mi infilzò il braccio con l'ago. Sussultai, non per il dolore ma per il gesto improvviso. Gli aghi non mi erano mai piaciuti ed ero stato infilzato due volte nel giro di qualche minuto.
Mi prelevò del sangue e mise il tappo alla provetta. Poi appoggiò un batuffolo di cotone sul forellino sulla mia pelle e mi fece piegare il braccio.
"Mi avete slegato," dissi, mentre si alzava.
"Era solo una precauzione," spiegò Doc, "nell'eventualità che avessi contratto il virus Croatoan e fosse stato necessario tenerti bloccato. Ma non ce n'è più bisogno."
"Da quanto tempo sono qui?" domandai.
"Cinque ore. Sono venuto a prendere la mia dose oraria del tuo sangue," replicò mostrandomi la provetta piena.
"Mmh," mugugnai. Solo cinque ore. Sarebbero stati due giorni lunghissimi.
"Che c'è?" esclamò Doc, esasperato.
"Niente, è solo che mi annoio," borbottai.
"Prova a dormire."
"Se ci fosse la TV via cavo me la passerei meglio."
Doc fece una risata poco divertita. "La TV è sparita tre anni fa."


***


Sognai un ricordo, che cadde proprio a fagiolo. Erano gli ultimi momenti della mia gita nel futuro cui mi aveva spedito Zaccaria anni prima. Mi trovavo in un giardino incolto, dove le erbacce spuntavano dalle crepe di una fontana di pietra e il muschio ricopriva le statue ornamentali. Le siepi erano secche e i rami nudi sembravano delle dita pronte ad afferrarmi per i vestiti. La terra era bagnata e formava una poltiglia fangosa. Un temporale imperversava lontano nel cielo, lanciando qualche lampo che rischiarava l'aria.
Il mio alterego era steso a terra con il collo spezzato e i suoi occhi, rimasti spalancati dai suoi ultimi attimi di vita, mi fissavano come un monito. È questa la fine che farai, sembravano dire.
Sam era in piedi accanto all'unica siepe ancora viva. Stava ammirando una rosa rossa, un bocciolo perfetto. Si accorse di me e mi regalò un sorriso, ma non mi sentii sollevato, anzi mi si accapponò la pelle. La luce nei suoi occhi non era quella che avevo sempre visto fargli brillare lo sguardo: quella era oscura, malvagia. Sapevo che quello non era Sam. Era il Diavolo a sorridermi.
Sam era stato indossato da Lucifero.
Il sogno non ripercorse esattamente ogni attimo di quello che era successo davvero. Sam restava lì a fissarmi con quello sguardo inespressivo, mentre la mia mente faceva tutto il lavoro e mi faceva ricordare: come Lucifero mi avesse detto che capiva il mio disagio nel parlargli attraverso quel tramite, attraverso mio fratello; la storia di come lui fosse stato cacciato dal Paradiso per non aver giurato fedeltà all'umanità come suo Padre voleva; le mie esatte parole di quando l'avevo insultato dicendogli che l'unica cosa che lo differenziava dai figli di puttana che cacciavo da tutta la mia vita era la grandezza del suo ego.
Poi il sogno sembrò mettersi a pari passo con i miei ricordi. Sam si mosse, avvicinandosi a me, senza abbassare lo sguardo. Qualunque scelta tu faccia, qualunque dettaglio tu cambi, finiremo sempre qui, disse. Le sue parole sembravano inconsistenti e si perdevano nell'aria in un'eco lontana.
Mentre continuava ad avanzare, il suo abito bianco si sciolse come se fosse sempre stato liquido, rivelando il suo corpo nudo. La pelle iniziò a fessurarsi e i lembi si scollarono e caddero a terra. Il suo corpo ora era formato solo da muscoli, rossi e pulsanti. Un ghigno si fece strada su quel suo volto mostruoso. Continuava ad avvicinarsi, ma io non riuscivo ad allontanarmi. Quando fu a un passo di distanza da me, Sam si sgretolò sotto i miei occhi e il vento spazzò via la sua cenere.






Note dell'autrice

Eccomi qui con un altro capitolo! La pubblicazione è lenta (come avevo accennato), anzi è addirittura troppo veloce per la mia scrittura perché tra poco finirò i capitoli che ho già scritto e poi mi troverò senza nulla da pubblicare mannaggia a me
Esatto, mi trovo in un periodo di blocco dello scrittore, e per "blocco" intendo che non ho assolutamente idea di dove andrà a finire questa storia. Di solito quando scrivo storie lunghe ho una vaga idea di dove voglio che la storia porti e ho addirittura già in mente scene e dialoghi. Ma con questa storia nada. Questo è davvero un salto nel vuoto per me, ma continuerò a spremermi il cervello perché mi piace quello che ne è venuto fuori fin'ora.
Lo scorso capitolo mi sono dimenticata di ringraziare tutti coloro che hanno inserito la mia storia tra le seguite/ricordate/preferite (davvero, qualcuno l'ha inserita tra le preferite vorrei piangere di gioia) e un grazie gigante a chi ha recensito i capitoli passati, vi lovvo tutti!

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Capitolo 4
*** Capitolo 4 ***


Capitolo 4
W  E  L  C  O  M  E     T  O     T  H  E     N  E  W     A  G  E


I'm waking up to ash and dust,
I wipe my brow and I sweat my rust,
I'm breathing in the chemicals.

I'm breaking in, shaping up,
Checking out on the prison bus,
This is it, the apocalypse.





Capitolo 4





Mi svegliai poco riposato e con gli occhi umidi. Sbattei le palpebre più volte per evitare che le lacrime cadessero, poi mi guardai attorno. Fuori era buio. L'unica illuminazione proveniva da una lampada da campeggio appesa alla parte opposta dell'infermeria.
Un peso mi opprimeva il petto. Da quando Zaccaria mi aveva riportato alla realtà dopo quel salto nel futuro, avevo riallacciato i rapporti con Sam, per paura che, se ci fossimo allontanati, il futuro che era stato predetto si sarebbe verificato. Poi, vedendo che le cose avevano preso una piega ben diversa da quella pronosticata da Lucifero, non avevo più pensato alla possibilità che la situazione potesse diventare realtà. Invece era come se fosse stata sempre in agguato. Come se il futuro fosse stato lì a guardare e a ridere della mia ingenuità, pronto a rinfacciarmi il tutto con un "te l'avevo detto" appena fosse diventato realtà.
Mi sentivo uno stupido, imprigionato in un anno che non era il mio, circondato da persone che non avevo mai visto prima. Nemmeno Cas sembrava più lo stesso. Non riuscivo quasi a riconoscerlo. C'entrava forse con il fatto che era caduto? Non ne ero totalmente sicuro, ma se gli angeli avevano la grazia avrebbero dovuto comunque avere i loro poteri. Cas li aveva ancora? O aveva perso la grazia? Molto probabilmente non l'aveva più, altrimenti avrebbe già fatto il suo trucchetto di magia per rimettermi subito in sesto. Ricordavo che nel 2014 era umano. Quando gli avevo chiesto cosa gli fosse successo, aveva risposto: "La vita."
Rimasi sveglio fino all'alba, fissando il vuoto senza pensare a niente. Una lacrima che cadde sulla mia guancia mi sorprese, ma l'asciugai e feci finta che non fosse successo niente.
Fuori dalla tenda i rumori aumentavano man mano che la luce del sole si rafforzava, tanto che dopo una mezz'ora dall'alba c'era già un gran viavai. Poco dopo, Doc venne a vedere come stavo. Bofonchiai una risposta positiva, ma lui non diede peso alla mia poca propensione nel rispondergli. Ormai doveva aver capito che quello era il massimo che poteva ottenere da me.
Constatò che la febbre era scesa e che avevo ripreso un colorito quasi normale. Cambiò il sacchetto della flebo, poi srotolò la benda per controllare la ferita. Il ginocchio era livido e gonfio e i margini del taglio erano incrostati di sangue. Doc pulì la ferita con della fisiologica e strinsi i denti dal dolore quando il ginocchio si mise a pulsare. Poi Doc si mise a fasciarmi il tutto con una garza pulita.
"Sei venuto a prendermi del sangue?" domandai con tono infastidito.
Doc ignorò il mio umore. "No. Le ultime tre analisi hanno mostrato che sei pulito. Sono passate dodici ore, ormai sei fuori pericolo."
Nessuno parlò per qualche minuto.
"Come va con la memoria?" domandò quando ebbe finito di bendarmi la ferita.
Scossi la testa. "Nada."
Doc si alzò, avvicinandosi per controllare la ferita sul mio cuoio capelluto. "Spero tu non abbia avuto una commozione celebrale," commentò.
"Una... oddio," sospirai. Che cazzo.
"Ma il più delle volte si risolve tutto da solo. Nella maggior parte dei casi la perdita di memoria è temporanea."
Grugnii una risposta indefinita.
"Qual è l'ultima cosa che ricordi?" chiese Doc.
Sbuffai. Avevo sentito quella domanda già un paio di volte e non ero riuscito a dare una risposta. Non volevo fare la figura dell'idiota che non sapeva nemmeno che giorno fosse. Ma sapevo anche che dovevo affrontare la cosa e che dovevo una risposta a Doc, che si stava prendendo cura di me nonostante la mia ostilità. Mi sforzai di pensare. "Ehm... Sam in coma?" dissi. Ero abbastanza sicuro che quella fosse l'ultima cosa che ricordavo.
"Sam in coma?" ripeté Doc.
"Sì, dopo che gli angeli sono caduti," spiegai, vista l'espressione confusa di Doc.
"Ah," rispose soltanto. Poi distolse lo sguardo. Sembrava che mi nascondesse qualcosa.
"Cosa?" domandai.
Doc esitò.
"Cosa?" insistetti.
Nessuna risposta.
Ne avevo abbastanza. "Sono stufo di essere preso per il culo!" sbraitai. "Ho fatto finta di niente, sperando che qualcuno venisse a darmi delle spiegazioni, ma sembra che qui non importi a nessuno di me!" Nemmeno Cas mi aveva dato una risposta quando gli avevo chiesto di Sam. "Adesso mi dici cosa diavolo sta succedendo, ragazzino," gridai, "o appena mi alzo da questo letto, giuro che ti farò pentire di avermi curato!"
"Una cosa per volta," mormorò.
"Dimmi!" esclamai, ignorando le sue parole.
Passò qualche secondo prima che rispondesse. "Gli angeli sono caduti cinque anni fa."
Mi presi qualche attimo per elaborare quell'informazione. "Cinque anni," ripetei. Feci un calcolo a mente. Significava che mi trovavo nel... duemiladiciotto?
"Sono successe diverse cose da allora e non è il caso che te le sbattiamo in faccia tutte insieme. Una cosa per volta."
"Ho perso cinque anni della mia vita?" ruggii.
"A quanto pare."
Ricordavo il commento che lui stesso aveva fatto il giorno prima, quando aveva riso dicendo che la TV era sparita da tre anni. Speravo scherzasse.
La perdita di memoria non mi aveva preoccupato, all'inizio. Avrei potuto sopportare se avessi dimenticato gli ultimi sei mesi, come avevo creduto in un primo momento. Ma cinque anni. No, non volevo crederci.
"Mi dispiace, Dean," disse Doc, "ma troveremo una soluzione. Si risolverà tutto."
"Vattene," mormorai, chiudendo gli occhi e massaggiandomi l'attaccatura del naso. "Voglio restare solo."
Sentii i suoi passi uscire dalla tenda. Rimasto solo, sprofondai nei cuscini, sperando di addormentarmi di nuovo. Improvvisamente la mia mente si era fatta stanca ed era solo con le ultime forze che mi rimanevano che riuscivo a tenere le palpebre semichiuse.
L'ultima cosa che vidi prima di addormentarmi era Cas che entrava in infermeria.




***





Quando mi svegliai, mi sembrò di aver dormito per giorni. Avevo le palpebre incollate e la bocca secca. Mi stropicciai gli occhi e mi accorsi che si era fatta di nuovo notte.
Per quanto cazzo avevo dormito?
Sulla branda a un paio di metri di distanza era steso qualcuno. Russava come se al posto del naso avesse un qualche strumento musicale poco identificato. Era girato su un fianco e mi dava le spalle, ma riconobbi Cas.
Mi allungai verso il comodino, cercando di afferrare la bottiglietta d'acqua per berne un sorso, ma con un gesto maldestro riuscii a farla cadere a terra. L'impatto con il terreno provocò un colpo sordo ma distinto.
Cas grugnì e smise di russare. Passò un minuto prima che si voltasse verso di me respirando pesantemente. "Cos'è successo? E' arrivata la fine del mondo?" cercò di scherzare con la voce impastata. Non risi alla scelta poco felice delle parole.
"No, ho solo fatto cadere la bottiglia," spiegai, scostando il lenzuolo e facendo scivolare le gambe oltre il bordo del letto. Quando piegai le ginocchia, la ferita alla gamba pulsò come se qualcuno ci avesse posato sopra un mattone, ma strinsi i denti e feci finta di nulla.
"Ohi, che fai?" esclamò Cas rizzandosi in piedi, mentre mi allungavo per cercare di afferrare l'oggetto caduto a terra. "Devi stare sdraiato, altrimenti Doc mi ucciderà."
"Che vada al diavolo!" mormorai. Trattenni un lamento quando, piegato com'ero, il dolore al ginocchio aumentò.
"Dai, faccio io," disse Cas. Afferrò la bottiglia e la rimise sul comodino, poi mi fulminò con lo sguardo. "Devi stare a riposo, altrimenti non riprenderai mai le forze."
"Sto bene," grugnii, puntellandomi sulle braccia e facendo forza per sollevarmi. Quando riuscii a mettermi in piedi, trovai il viso di Castiel a pochi centimetri dal mio. La testa si mise a girare e barcollai, ma Cas riuscì a tenermi dritto afferrandomi sotto le ascelle come se fossi un poppante.
"Troppo veloce," constatai. Cas mugugnò in approvazione.
Aspettai qualche secondo per essere sicuro che la testa non girasse più. Sentivo il respiro di Cas sul mio viso e le sue mani - calde anche se il tessuto della maglietta le divideva dalla mia pelle - che stringevano saldamente il mio torace. Gradualmente allentarono la presa, finché non riuscii a reggermi in piedi da solo. Le costole che erano state a contatto con le sue mani sembravano bruciare sotto la mia pelle.
"Il bell'addormentato si è messo in piedi" commentò Cas, divertito. Non l'avevo mai visto così di buon umore. Il Castiel che ricordavo era sempre vestito di un trench e di un'espressione seria. Se Cas sorrideva, il duemiladiciotto non poteva essere così male.
La mia gamba sinistra sosteneva tutto il mio peso e cominciava a dolere. "Non è che ci sono un paio di stampelle da queste parti?" domandai.
"Per fare che?" replicò Cas, accigliato. "Non pensarci nemmeno, Dean. Stare in piedi è il massimo che posso concederti, non te ne andrai a gironzolare con la gamba in quello stato."
"Sono rimasto bloccato a letto per due giorni, è molto di più di quanto sarei riuscito a sopportare," dissi. "Ho bisogno di camminare."
Mi fissò per degli interminabili secondi, poi sbuffò, sconfitto. "E va bene, ma solo per cinque minuti!"
Trovò delle stampelle in un armadio di metallo e con quelle mi trascinai fuori dalla tenda, con Cas al seguito. Dei piccoli riflettori sparsi tra le costruzioni irradiavano abbastanza luce da permettermi di vedere quel tanto che bastava per zoppicare senza andare a sbattere contro qualcosa.
"Dove vuoi andare?" domandò Cas.
Mi strinsi nelle spalle. "Dovunque, mi basta muovermi un po'," replicai.
Fece strada nella semioscurità, mentre le stampelle affondavano nella terra umida e molle. Mi sentivo lento e ingombrante e non nella splendida forma in cui avevo affermato di essere. Ma avevo davvero bisogno di quella passeggiata, dopo essere stato immobile a letto per tanto tempo.
Vagammo per cinque minuti, in cui percorremmo non più di un centinaio di metri a causa della mia andatura, passando tra basse costruzioni di legno costruite a pochi metri di distanza l'una dall'altra. Immaginai fossero le abitazioni di chi viveva lì al campo.
All'improvviso un pensiero mi attraversò la mente. Visto che io e Cas eravamo soli, non poteva non rispondermi quando l'avessi affrontato. Mi fermai di punto in bianco.
Cas si voltò, non percependomi più accanto a lui. Mi fissò nella flebile luce dei fari. "Che c'è?"
"Voglio la verità," dissi. Mi aspettavo che mi chiedesse a cosa mi riferissi, ma se ne stette lì a guardarmi, aspettando che ponessi la mia domanda. Feci un respiro profondo per prendere coraggio. "Cos'è successo a Sam?"
Rimase a fissarmi senza tradire alcuna emozione per parecchi secondi, poi un angolo della bocca si contrasse per un attimo. "Come lo ricordi?" domandò. La sua voce era piatta.
"Come... lo ricordo?" ripetei, confuso. Non sapevo se avrei dovuto raccontargli di quando nel futuro - ormai passato - Lucifero si era impossessato di Sam. "L'ultima cosa che ricordo è Sam in coma," risposi infine.
La sua espressione era sorpresa ma allo stesso tempo confusa.
"Dopo che gli angeli..." Indugiai, non sapendo come affrontare un discorso che riguardava Castiel così da vicino. "Dopo che sono caduti."
Cas mi fissò per dei secondi interminabili. Alzò gli occhi al cielo e si morse il labbro, poi si voltò. I suoi piedi rivelavano il suo nervosismo. Era come se stesse combattendo contro se stesso. Quando tornò a voltarsi verso di me, la sua espressione era determinata. "Vieni con me," mormorò. "Ti porto da Sam."







Note dell'autrice

Sì, sono ancora viva! Mi dispiace di aver pubblicato questo capitolo così in ritardo, ma tra lo studio e gli esami degli ultimi mesi non ho più avuto occasione di scrivere/pubblicare. Ma ora sono qui! Spero di riuscire a continuare la storia al più presto visto la maggiore quantità di tempo libero a mia disposizione (anche se la mia ispirazione potrebbe finire e mi troverei bloccata prima di quanto mi aspetti).
Vi ringrazio per essere così pazienti con me, vedo che la storia è comunque seguita nonostante i miei ritardi! Quindi graziegraziegrazie! :)
Al prossimo capitolo!

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Capitolo 5
*** Capitolo 5 ***


Capitolo 5
W  E  L  C  O  M  E     T  O     T  H  E     N  E  W     A  G  E


I'm waking up to ash and dust,
I wipe my brow and I sweat my rust,
I'm breathing in the chemicals.

I'm breaking in, shaping up,
Checking out on the prison bus,
This is it, the apocalypse.





Capitolo 5





Avrei immaginato di tutto, ma non quello. Mentre mi trovavo dentro una delle tante abitazioni a schiera, fissando il viso di Sam, mille pensieri mi riempivano la mente.
Appena Cas si era incamminato, dopo avermi invitato a seguirlo, era stato solo lo shock a permettermi di zoppicare con le stampelle più velocemente di quanto avessi fatto fino a prima. Finalmente stavo andando a trovare Sam! Significava che era vivo, che Lucifero non era riuscito a possederlo! Ma subito mi erano saliti dei dubbi. Ero tornato da due giorni, dovevano per forza averlo avvisato della mia condizione. Allora perché non era venuto a vedere come stavo?
Fu quando considerai l'unica alternativa possibile che il mio cuore si ghiacciò. Se Cas mi stava portando a vedere la lapide di Sam, non sapevo se avrei potuto sopportarlo.
Il sollievo si era espanso nella mia gabbia toracica quando Cas aveva deviato verso una delle case, bussando piano alla porta d'ingresso. Era venuta ad aprire una ragazza di colore alta almeno due metri, che mi aveva squadrato dall'alto in basso prima di scostarsi per farmi entrare. Cas mi aveva guidato lungo il corridoio verso la parte posteriore della casa, entrando in quella che doveva essere la camera da letto. E uno spettacolo terrificante mi aveva investito come un treno in corsa.
Sam era steso su uno di quei letti d'ospedale super accessoriati e per poco i suoi piedi non uscivano dal bordo del materasso. Era circondato da macchinari di ogni tipo. Un bip ritmato proveniva dall'elettrocardiogramma, mentre numeri e linee a me incomprensibili lampeggiavano sullo schermo. Il petto si alzava e abbassava a ritmo cadenzato, gonfiato dall'aria che veniva pompata da un tubo infilato nella sua bocca. I suoi occhi erano chiusi, il suo corpo immobile. La luce di una lampada sul comodino segnava flebile i contorni delle cose.
Sam era in coma. Di nuovo.
Che cazzo...
Caddi sulla sedia accanto al letto, ormai senza neppure la forza per reggermi in piedi. Le stampelle scivolarono dalle mie mani senza che me ne accorgessi, urtando il pavimento con un rumore metallico. I miei occhi erano fissi sul volto inespressivo di Sam. Aveva i capelli esageratamente lunghi, tanto che ora riuscivano a posarsi sulle sue spalle, e le guance coperte dalla barba di qualche settimana. Era irriconoscibile.
Mi sforzavo di non sbattere le palpebre per non far cadere le lacrime, ma queste si raccolsero nei miei occhi e strariparono sulle mie guance. Sentii freddo, come se l'aria si fosse gelata all'improvviso, ma doveva essere solo una mia impressione. Mi accorsi di tremare.
"Non ci sono stati rilevanti cambiamenti," disse una voce sconosciuta. Sollevai lo sguardo quel tanto che bastava per capire che era stata la ragazza a parlare, consultando un taccuino. "La pressione è scesa verso le quattro di pomeriggio, ma si è subito stabilizzata."
"Grazie, Kristy," disse Cas, con un tono che cercava di farle capire che non era il momento per dilungarsi in futili dati tecnici. La ragazza capì e uscì dalla stanza.
Allungai la mano per toccare il braccio di Sam, per sentire il calore del suo corpo, ma mi fermai a pochi centimetri. Avevo paura a toccarlo. Era come se fosse chiuso in una bolla invisibile, che manteneva stabili le sue condizioni, e temevo che, se l'avessi oltrepassata, sarebbe scoppiata e Sam sarebbe stato male. Ritrassi la mano, tremando, e la posai in grembo.
Sentivo lo sguardo attento di Cas da sopra la mia spalla, che mi osservava come un angelo custode. Sentii il tocco leggero della sua mano sulla mia schiena, ma nemmeno quel contatto servì a confortarmi.
"Cos'è successo?" domandai. La mia voce fu poco più di un sussurro, ma era il massimo che riuscivo a fare.
"E'... una storia lunga," rispose Cas. "Non preoccupartene ora, te la racconterò più tardi."
Non replicai pretendendo che mi dicesse tutto subito, non avendo più voglia di litigare con nessuno. Non m'importava nemmeno più di tanto, in quel momento. In mezzo a tutto il mio dolore, ero riuscito per un attimo a trovare una luce a cui appigliarmi con tutte le mie forze: nonostante la disperazione nel vedere Sammy ridotto a quel modo, ero contento che fosse riuscito in qualche modo a scappare dal suo destino. Se fosse stato posseduto da Lucifero, sarebbe stato difficile per Sam sbarazzarsene, destinandolo a vivere l'eternità chiuso nel proprio corpo mentre il Diavolo lo manovrava come una marionetta. Invece quella situazione mi sembrava migliore, perché dal coma poteva sempre risvegliarsi, no?
Il pensiero che, però, la volta precedente - dopo la caduta degli angeli - il coma lo aveva avvicinato pericolosamente alla morte, spense le mie speranze.
Oppure...
"Da quanto tempo è così?" domandai. Il terrore aveva fatto incrinare la mia voce. Uno scenario peggiore si era fatto strada nella mia mente. Forse non c'era mai stata una «volta precedente». Forse Sam era stato in coma fin dal mio ultimo ricordo. Il mio cuore si mise a battere all'impazzata.
"Quattro anni," rispose Cas.
Quattro anni? Feci un calcolo a mente. Se eravamo nel duemiladiciotto, Sam era in quelle condizioni dal duemilaquattordici, giusto? Significava che non era rimasto in coma dall'ultima volta che lo ricordavo. Era così, no? Doveva esserlo. La testa iniziò a farmi male e mi massaggiai le tempie.
"Quando mi hai detto che l'ultima cosa che ricordavi era Sam in coma, ho creduto per un attimo che ti fosse tornata la memoria. Invece ricordavi la prima volta," spiegò Cas, capendo la mia confusione.
Quindi era così. Quindi Sam si era risvegliato e poi era stato di nuovo male. La cosa non mi fece sentire meglio come speravo.
"Ora è meglio se torni in infermeria," disse Cas, incitandomi con una pacca sulla spalla.
"Voglio stare qui," mormorai. Non volevo allontanarmi da Sam.
"Fa' come vuoi," rispose, sollevando le mani in segno di arresa. "Io vado a stendermi nella stanza qui a fianco." Prima di uscire dalla porta si voltò verso di me. "Ma quando Doc si accorgerà che sei sparito, sarai tu a vedertela con lui."



***



Doc mi trovò addormentato sulla sedia con la testa posata sul letto di Sam. Mi svegliò con vigorose scosse, che mi fecero sobbalzare senza che capissi che diavolo stesse succedendo. Quando i miei occhi stanchi si alzarono, la sua espressione contrariata spiegò tutto. "Non ho parole, davvero," mi rimproverò. "Sei sempre stato uno stronzo, ma quando ti ho ricoverato in passato sei stato più collaborativo."
Mi guardai attorno, spaesato, poi ricordai dove mi trovavo. La luce del sole inondava la stanza attraverso le piccole finestre sulla parete. Sam era ancora immobile.
Il mio collo doleva. Avevo dormito in una posizione scomodissima, ripiegato su me stesso, e ora ne dovevo pagare le conseguenze. Mi massaggiai la nuca trattenendo un lamento.
"Allora?" esclamò Doc, accorgendosi che non lo stavo ascoltando.
Le sue parole rimbombavano nella mia testa. Mi massaggiai le tempie. Avrei voluto dirgli che non c'era motivo di urlare, ma non volevo farlo incazzare ancora di più.
Doc sbuffò. "Non sono il tuo babysitter, Dean, non posso mettermi a rincorrerti per tutto il campo."
"C'era Castiel con me," mi giustificai.
"La cosa dovrebbe tranquillizzarmi?" ironizzò, sospirando. "Forza, torna in infermeria."
"No," mormorai, tornando a fissare Sam per non guardarlo in faccia.
Vidi con la coda dell'occhio Doc aprire la bocca, per poi richiuderla. "Okay, fa' quello che ti pare," disse infine, "ma non venire a lamentarti se la tua ferita non migliora." Poi se ne andò.
Rimasi seduto a fissare Sam, senza realmente vederlo, per un paio di minuti, poi la schiena iniziò a dolere. Dovevo pagare le conseguenze per non aver ascoltato Doc e queste si presentarono come dolori alla schiena e corpo pesante. Raccattai le stampelle dal pavimento e mi issai in piedi con non poca fatica. Mi trascinai fino alla soglia, dando un'ultima occhiata a Sammy, poi uscii dalla stanza.
La porta dalla parte opposta del corridoio era socchiusa. Mi avvicinai, scostandola, e nella fessura intravidi Cas steso su una branda con gli occhi chiusi. Entrai cercando di non fare rumore, con l'intenzione di stendermi sull'altra branda della stanza per dare sollievo ai miei muscoli, ma Cas si mosse. Si stropicciò gli occhi, voltandosi a faccia in su a fissare il soffitto, poi si accorse di me, in piedi sulle stampelle in mezzo alla stanza. "Era Doc quello che ti stava urlando contro, prima?" chiese con un sorriso divertito. La sua voce era impastata. "Ti avevo avvisato che si sarebbe incazzato."
"Sì, beh," risposi, accigliandomi. "So di essermelo meritato, ma non ho intenzione di allontanarmi da Sam."
"No, certo, ti capisco," replicò, lanciandomi uno sguardo dal basso verso l'alto. "Cosa ci fai lì in piedi?" disse, facendo spazio sulla sua branda. "Stenditi un po' con me."
Quella sua proposta mi sorprese, sia per la reazione che mi provocò - lo stomaco andò in sobbuglio -, sia per il modo in cui era stata avanzata. Castiel non si era mai comportato così. Certo, non erano mancate le occasioni in passato in cui era stato un po' troppo diretto, ma la sua sfrontatezza era sempre stata dettata dall'ingenuità. Non c'erano mai stati dei sottointesi sessuali nelle sue parole, né nei confronti di alcuna persona, tantomeno nei miei. Mi domandai come avesse fatto a cambiare così tanto in cinque anni.
Lo sguardo di Cas era insistente. Mi fissava da dietro le sue ciglia scure, con un angolo della bocca alzato con fare malizioso. Distolsi lo sguardo, cercando di riprendere il controllo dei miei pensieri. "In realtà... avrei davvero bisogno di una doccia," mormorai, in imbarazzo.
"Mmh, bastava che lo dicessi," replicò, continuando a fissarmi con quel suo sguardo insistente.
L'immagine di Cas sotto la doccia s'impossessò della mia mente per una frazione di secondo. Scossi la testa, eliminando quella visione. La cosa mi stava sfuggendo di mano e mi metteva a disagio. "Da solo," precisai, schiarendomi la voce, che si era inspiegabilmente incrinata. Sentii le guance andarmi a fuoco. Che diavolo mi succedeva?
"Come desideri," replicò Cas, continuando a guardarmi.
"Non... non è che sapresti dirmi dove posso darmi una ripulita?" chiesi. Speravo che ci fosse un posto migliore dove farsi la doccia della baracca dove c'era Sam.
Cas si tirò su a sedere. "Un posto c'è," replicò, poi si alzò e mi fece segno di seguirlo.
Lanciai un'ultima occhiata a Sam attraverso la porta quando passai di fronte alla sua stanza. Salutai con un cenno la ragazza di colore che il giorno prima ci aveva aperto la porta, che ora era seduta nel piccolo salotto, poi seguii Cas fuori dall'abitazione.
Mentre zampettavo con le stampelle nel fango, la gamba iniziò a implorare pietà. Non prendevo antidolorifici da parecchie ore e ora la mia pessima decisione di non andare in infermeria dava i suoi frutti. Ma avevo solo bisogno di una doccia, di tornare da Sam per qualche ora, e poi avrei affrontato di nuovo Doc.
Cas si fermò davanti ad una bassa abitazione di legno scuro, molto più ben fatta rispetto alla fila di case che avevo appena lasciato. Aprì la porta - che non era chiusa a chiave - e mi fece segno di entrare.
Anche all'interno le pareti erano ricoperte di assi di legno come all'esterno. Un tavolo quadrato con qualche sedia spaiata occupava lo spazio sulla sinistra, mentre sulla destra un angolo cottura con un fornello a gas dava l'impressione di essere poco utilizzato. C'era addirittura un divano a due posti. Niente TV, ovviamente.
Tutto sommato, non era male come sistemazione.
Mi voltai verso Cas, che era entrato chiudendo la porta. "Questa è mia?" domandai.
"Sì, anche se ultimamente ci passo molto tempo anche io," rispose. Il mio sguardo doveva spiegare la mia confusione, perché socchiuse gli occhi e mormorò: "Dovrò spiegarti anche questo. Ma prima vai a darti una ripulita."
A quanto sembrava erano molte le cose su cui io e Cas dovevamo parlare.
"Il bagno è di là," disse, indicando un minuscolo corridoio con due porte. "Sulla destra. Gli asciugamani puliti sono sotto il lavandino."
Mi trascinai  nel bagno, poi chiusi la porta. Posai le stampelle in un angolo, poi mi guardai allo specchio, reggendomi al lavandino. Riconobbi a stento l'immagine riflessa. La barba di qualche giorno copriva le mie guance e la mia pelle aveva un colore che sfiorava il blu. Delle macchie scure segnavano i miei occhi e residui di sangue mi incrostavano ancora la faccia.
Il mio sguardo si abbassò sul lavandino e notai che nel bicchiere c'erano due spazzolini. Quel dettaglio attirò la mia attenzione in modo inaspettato. Sentivo che le cose erano più complicate di quello che credevo. Per un attimo quel particolare fece apparire delle immagini nella mia mente, ma non sapevo dire se fossero frammenti di ricordi o se la ferita alla testa si stesse prendendo gioco di me, mostrandomi immagini di cui non ero mai stato testimone.
Castiel che rideva, e la stanza si illuminava. Castiel nudo sotto la doccia, che si accorgeva di me e si fingeva imbarazzato. Castiel steso sul letto, il lenzuolo che copriva gentilmente il suo corpo.
Scossi la testa, eliminando quelle immagini dalla mia testa. Un'erezione mi aveva sorpreso e premeva contro il tessuto dei pantaloni. Respirai a fondo, cercando di calmarmi, poi mi spogliai lentamente e mi infilai sotto la doccia, sperando di lavarmi di dosso lo spiraglio di felicità che per un attimo si era insinuato nella mia mente.








Note dell'autrice

Lo so, di nuovo in ritardo, ma come avevo previsto la mia ispirazione aveva dato forfait e mi sono ritrovata davanti al pc con le mani ferme sulla tastiera e lo sguardo vacuo perché di idee ne avevo proprio zero.
Ma alla fine un capitolo è saltato fuori lo stesso! Ora però sono sicura che si ripeterà tutto il processo, che inizierà con un vuoto di ispirazione per poi pian piano e con fatica farmi scrivere qualche riga ogni tanto. Il problema è che l'inizio dell'università è alle porte e avrò poco tempo per scrivere (questa estate è durata proprio tre secondi), ma spero di riuscire a scrivere qualcosina ogni tanto.
Ditemi cosa pensate riguardo il capitolo, ci ho messo millanta anni a scriverlo perché temevo che le reazioni di Dean e le sue conversazioni con Cas potessero suonare OOC quindi ho pensato cento volte a cosa fargli dire.
A proposito, cosa sarà mai successo a Sam? Perché si trova ancora in coma? Rimanete con me e lo saprete! xD
Al prossimo capitolo! se ancora avete voglia di seguire la mia storia nonostante la mia pigrizia

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