Welcome to the new age di dalialio (/viewuser.php?uid=139398)
Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.
Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 1 *** Capitolo 1 ***
Capitolo 1
Disclaimer: i personaggi presenti nella storia non mi appartengono, ma sono proprietà della CW. L'immagine non è di mia proprietà ma di chi l'ha creata (cliccateci sopra per la pagina della creatrice). Questa storia è stata scritta senza alcuno scopo di lucro.
Salve
a tutti! Eccomi qui con l'ennesima storia su Supernatural *la folla si
lamenta* sì, sì lo so cosa state pensando, ma vi giuro
che questa volta non si tratta di una delle solite one-shot. Ebbene, mi
sono buttata a capofitto in una multichapter oh povera me!
Dunque, premetto che la storia è in corso d'opera e devo ancora
capire dove andrà a parare, quindi la scrittura e pubblicazione
sarà abbastanza lenta. Ho voluto, per il momento, pubblicare il
primo capitolo per vedere se la storia può interessare e anche
per spronarmi ad andare avanti.
La storia è ambientata in un futuro indefinito (o che
sarà definito più avanti) ed è principalmente nata
dal mio folle amore per Radioactive degli Imagine Dragons. Ci potrebbe
essere un cambio di rating e passare al rosso ma chissà: lo
scopriremo solo vivendo!
Ma bando alle ciancie, vi lascio leggere! :) vi prego di lasciare una
recensione anche piccina picciò per farmi sapere cosa ne pensate
e se dovrei davvero andare avanti a scrivere!
Adios!
Chiara
W E L C O M E T
O T H E N E W
A G E
I'm waking up to ash and dust,
I wipe my brow and I sweat my rust,
I'm breathing in the chemicals.
I'm breaking in, shaping up,
Checking out on the prison bus,
This is it, the apocalypse.
Capitolo 1
Ripresi
conoscenza con un sobbalzo, tanto improvviso da farmi rimbombare il
cuore nelle orecchie. Mi misi a sedere di scatto, spalancando gli occhi
e inspirando in un ansimo. Sentii l'aria grattarmi la gola secca e i
polmoni gonfiarsi dolorosamente contro la gabbia toracica. Fu come se
quello fosse il primo respiro di tutta la mia vita.
Quello scatto improvviso non fu una
brillante idea: la testa iniziò a girare e la nausea mi
salì dallo stomaco. Le mie braccia cedettero e, quasi senza
rendermene conto, ricaddi indietro. Battei la testa contro l'asfalto e
solo allora mi resi conto del dolore lancinante che sembrava
trapassarmi il cranio da parte a parte. Doveva essere lì
già da prima che cadessi a terra. Un conato mi fece tremare lo
stomaco, ma non riuscii a rigettare.
Mi voltai su un fianco, mentre lo
sforzo di vomito mi faceva tossire come un disperato, strizzando gli
occhi a causa dei vortici di polvere che il mio fiato faceva sollevare
da terra. Appena riuscii a respirare normalmente, sollevai la testa di
qualche centimetro e sputai per terra un miscuglio di saliva e sangue.
La mia mascella doleva.
Qualcuno mi aveva proprio conciato per le feste.
Inspirai ed espirai lentamente per
cercare di far scendere la nausea. Man mano che i secondi passavano, il
dolore si espandeva in tutto il mio corpo: oltre alla testa, ora
pulsava anche la mia gamba destra. Mi sollevai sui gomiti con uno
sforzo e controllai la situazione: i jeans erano squarciati sul
ginocchio, così come la mia carne, e il sangue faceva attaccare
il tessuto alla mia pelle come una colla. Il taglio era lungo una
decina di centimetri e profondo. Non mancava molto che si vedesse
l'osso.
Che cazzo mi era successo?
Mi guardai attorno. Mi trovavo
disteso in mezzo alla strada e non si scorgeva anima viva. Il cielo era
nuvoloso e formava una cappa di caldo umido sopra la mia testa. Il
panorama era desolato.
Mi voltai sul fianco sinistro e
iniziai a strisciare, stando attento a tenere la gamba ferita dritta e
distante dai detriti della strada. Trascinai il peso di tutto il mio
corpo con i gomiti, mentre avanzavo stringendo gli occhi, che
lacrimavano a causa della polvere che si sollevava dall'asfalto. Tutta
la strada era coperta da uno strato grigio di cenere.
Arrivai al marciapiede e mi sedetti
sul bordo, usando tutta la mia forza per sollevarmi e girarmi. Il
respiro era affannoso. La gola era secca e bruciava. La gamba faceva un
male boia, ma mi preoccupava di più la testa. Sfiorai con le
dita la ferita tra i capelli, mordendomi il labbro quando si mise a
pulsare. Mi guardai la mano. Era impiastricciata di una sostanza
appiccicosa e color ruggine.
Sangue rappreso.
Sospirai, cercando di pensare positivo: almeno per il momento la botta in testa non aveva provocato danni gravi.
Oppure sì?
Mi chiamavo Dean Winchester, mio
fratello era Sam e i miei genitori erano stati Mary e John. Non sapevo
che giorno fosse e quello mi spaventò. L'ultima cosa che
ricordavo era Sam su un letto di ospedale... e prima? Un cielo nero era
esploso in migliaia di palle di fuoco, che si dirigevano
inesorabilmente verso la Terra. Ricordavo chiaramente di aver fissato
una di quelle comete e di averci visto un angelo, cui si erano staccate
le ali durante la caduta.
Il mio cuore perse un battito. Dov'era Castiel? E Sam?
Mi guardai attorno, analizzando
ogni dettaglio per cercare di orientarmi. La strada era popolata da
carcasse di automobili arrugginite, molte delle quali smembrate e
girate sottosopra. I muri degli edifici erano grigi e sporchi e quasi
tutte le porte e le finestre erano state sprangate con delle assi di
legno.
L'atmosfera era surreale. Sembrava
che la città fosse stata investita da un'onda radioattiva.
Più mi guardavo intorno, più mi rendevo conto di
conoscere quello scenario. L'avevo già visto prima.
La scritta spiccava sul muro
dell'edificio dall'altra parte della strada. Mi si accapponò la
pelle nel prendere in considerazione l'idea che quella che era stata
usata non fosse vernice rossa.
Croatoan.
Figlio di puttana...
La bile mi si fermò in bocca
e fui costretto a sputarla. Sentii il naso colarmi e lo pulii con la
manica, che si sporcò di sangue.
Quel panorama grigio e desolato mi
era abbastanza familiare: ci avevo vissuto tre giorni, quella volta che
quel figlio di puttana di Zaccaria mi aveva sparato nel futuro per
farmi vedere quale sarebbe stata la conseguenza se non avessi detto il
"grande sì" a Michele. Ricordavo chiaramente, in
quell'occasione, di aver visto un cartello di divieto di entrata
attaccato ad una rete che recava una data.
Duemilaquattordici.
Se mi trovavo nel
duemilaquattordici, non ricordavo assolutamente nulla di quello che era
successo negli ultimi sei mesi circa. La botta in testa mi aveva fatto
davvero perdere la memoria.
In ogni caso, sapevo cos'era lo scenario che si stagliava di fronte a me.
La fottuta Apocalisse.
Un pensiero grattava un angolo
della mia mente, mentre si faceva breccia nella mia testa l'idea che ci
fosse qualcosa di più che familiare in quella scena. Non era la
consapevolezza di essermi già trovato in quell'esatto luogo
molti anni prima. Era qualcosa di più recente, ma indefinito,
impalpabile. Come quando ci si sveglia e si sente ancora il gusto del
sogno sulla lingua, mescolandosi con la realtà, tanto da
confonderci per i primi secondi.
Era quello che mi stava accadendo.
Avevo l'impressione di essermi appena svegliato e che i miei ricordi
fossero solo un sogno. Che quella che avevo di fronte a me era la
realtà in cui avevo vissuto tutta la mia vita.
Scossi la testa, cancellando quel
pensiero, e mi concentrai su qualcosa di più importante. Dovevo
trovare un modo per andarmene di lì, scoprire se esisteva ancora
qualche forma di civiltà da quelle parti. Ma non sarei riuscito
nemmeno ad alzarmi in piedi con la gamba in quello stato.
Squarciai i jeans con il coltello a
serramanico che trovai in tasca, fino a liberarmi il polpaccio, poi
sollevai il tessuto per scoprire il ginocchio, stringendo i denti
quando la ferita pizzicò. Un fiotto sgorgava lentamente tra il
sangue rappreso e gocciolava sull'asfalto. Non sfiorai nemmeno il
taglio: le mie mani erano nere e sporche e avrei rischiato un'infezione.
Mi sfilai la maglia, rimanendo a
petto nudo, e la piegai a formare una benda. La posai sulla ferita e
annodai le maniche dietro il ginocchio, stringendo in modo da non
fermare troppo la circolazione. Come fasciatura non era un
granché, ma almeno speravo che la ferita non si sporcasse
ulteriormente.
Mi guardai attorno, cercando di
orientarmi, ma non avevo la più pallida idea di dove mi trovassi
e di dove sarei potuto andare. Il mio sguardo si posò su un
pullman a una ventina di metri da dove mi trovavo. La scritta sul
fianco era sbiadita ma si riuscivano ancora a scorgere le parole
"Carcere della Contea". Un bus per il trasporto dei carcerati. Era
l'unico mezzo in vista che avesse tutte e quattro le ruote e che non
fosse ribaltato.
Mi misi in piedi facendo leva sulle
braccia e tenendo la gamba martoriata più dritta che potevo. Mi
alzai cautamente, sperando di non essere preso di nuovo da un conato.
Una volta in piedi, constatai che il mio stomaco stava tutto sommato
bene e mi decisi a muovermi. Provai a spostare il peso sulla gamba
ferita, ma un dolore lancinante mi fece tremare il ginocchio. Cattiva
idea.
Sospirai. Non mi restava che saltellare fino all'autobus. Sarebbe stata davvero una lunga strada.
Dopo nemmeno sei metri ero
già stanco. La gamba sinistra doleva e non sapevo quanto ancora
sarebbe stata in grado di sostenere il mio peso. Presi in
considerazione l'idea di sedermi a terra per qualche secondo, ma sapevo
che se l'avessi fatto poi non sarei più riuscito a rimettermi in
piedi. Strinsi i denti e proseguii, un po' saltellando, un po'
chinandomi e posando le mani per terra per camminare a tre zampe.
Dopo cinque minuti avevo finalmente
raggiunto il bus. Il portello era spalancato e mi lasciai cadere sullo
scalino. Rimasi lì per un paio di minuti, lasciando riposare la
gamba sinistra, che aveva sopportato tutti i miei ottantacinque chili.
Sentii un formicolio salire dalle dita fino alla coscia, segno che il
sangue stava tornando a circolare.
Quando mi sentii più in
forze, salii zoppicando gli scalini e mi sedetti al posto di guida. Le
chiavi non erano inserite, né si trovavano in nessun cassetto o
scomparto - non ci avevo realmente sperato -, quindi mi chinai e tirai
fuori due fili da sotto il cruscotto, cui feci fare contatto. Il motore
accennò ad avviarsi un paio di volte, ma senza risultato. Dopo
il quinto tentativo si accese e mi lasciai andare ad un sospiro di
sollievo.
Infilai la gamba ferita sotto il
volante e mi sistemai in modo da poter premere l'acceleratore pur
tenendola dritta. Quella posizione - seduto sul bordo esterno del
sedile, tenendo la gamba in tensione - era scomodissima, ma speravo di
raggiungere la civiltà in pochi minuti, quindi avrei potuto
anche sopportare.
Dopo essere partito, mi accorsi
quasi subito che i freni non funzionavano proprio a meraviglia,
così continuai ad avanzare ad una velocità massima di
venti chilometri orari, tenendo spalancata la portiera del conducente e
rimanendo pronto a saltare fuori dall'autobus se ce ne fosse stato
bisogno.
Non sapendo dove potessi andare,
vagai alla cieca per un quasi un'ora, senza trovare anima viva. Durante
il tragitto ebbi qualche difficoltà nelle curve, che affrontavo
sempre a velocità troppo elevata. Un paio di volte l'autobus si
inclinò pericolosamente da un lato ed ebbi il terrore che si
ribaltasse, ma le sospensioni riuscirono a tenerlo dritto. In quelle
occasioni sentii l'adrenalina invadere il mio corpo e il cuore battermi
all'impazzata.
La gamba continuava a fare un male
cane e la maglia usata come benda era ormai imbrattata di sangue. Anche
se fossi riuscito a trovare qualcuno, non sapevo come sarebbero
riusciti a medicarmi. Avrei sicuramente sviluppato un'infezione.
Avevo ormai perso le speranze,
quando, lungo un rettilineo, notai la sagoma di una mezza dozzina di
persone ad un centinaio di metri di distanza. Iniziai a rallentare
subito, visto che i freni funzionavano molto malamente e mi ci sarebbe
voluto più spazio del normale per fermare l'autobus.
Quando mancava ancora una
cinquantina di metri, il gruppo di uomini si accorse di me - anzi,
dell'autobus. Esplose un colpo, che procurò un buco
perfettamente tondo sul parabrezza e sibilò accanto al mio
orecchio. Un decimo di secondo dopo mi ero abbassato, mentre altri
colpi esplodevano sopra di me, mandando in frantumi il vetro. Pigiai il
piede sul pedale del freno più forte che potevo, mentre il
ginocchio ferito pulsava così tanto che la mia vista
cominciò ad offuscarsi, ma mi sforzai a rimanere piegato.
Gli uomini smisero di sparare,
probabilmente pensando di essere riusciti a beccarmi. L'autobus
avanzò degli ultimi metri, poi si fermò completamente. Le
mie orecchie fischiavano e cercai di cambiare posizione: quando mi ero
chinato ero stato costretto a piegare il ginocchio ferito e ora
rischiavo di vomitare l'anima dal dolore. I frammenti di vetro sulla
mia schiena caddero per terra mentre mi sollevavo cautamente di qualche
centimetro.
Un rumore di passi arrivò
attutito alle mie orecchie, mentre il mio cervello lo registrava con
difficoltà. "Cazzo!", esclamò una voce che non conoscevo.
Mi sollevai ancora un po',
voltandomi verso il portello del conducente aperto. Tra la testa che
girava e il fischio nelle orecchie, la mia mente non riuscì a
riconoscere il volto dell'uomo che mi fissava atterrito.
"È Winchester!", lo sentii gridare, prima che il fischio nelle orecchie si facesse più acuto e mi facesse svenire.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 2 *** Capitolo 2 ***
Capitolo 2
W E L C O M E T
O T H E N E W
A G E
I'm waking up to ash and dust,
I wipe my brow and I sweat my rust,
I'm breathing in the chemicals.
I'm breaking in, shaping up,
Checking out on the prison bus,
This is it, the apocalypse.
Capitolo 2
Ci misi un po' a svegliarmi. Il mio primo pensiero fu che dovevo essere
morto, ma poi pian piano ripresi il controllo del mio corpo, muscolo
per muscolo, e mi resi conto di trovarmi disteso. Le orecchie si
stapparono e percepii l'inconfondibile rumore delle ruote su una strada
sterrata, accompagnato da un terribile e costante scuotimento.
Aprii gli occhi in una fessura, cercando di distinguere qualcosa con la
mia vista appannata. La ferita alla testa si era messa a pulsare e mi
sentivo come se fossi stato schiacciato da un carro armato. Mi veniva
da vomitare e l'ondeggiare violento del mezzo non aiutava affatto.
Spalancando completamente gli occhi, mi resi conto di trovarmi sul
pianale di un pick-up, mentre qualcuno - non il tipo di prima, ma
comunque un viso sconosciuto - armeggiava con il mio ginocchio
malandato. Forse era stato il dolore a svegliarmi.
"Fermo dove sei!" esclamò quando cercai di mettermi a sedere.
Era un ragazzo, non doveva avere più di venticinque anni. "Non
pensare nemmeno ad alzarti." Mise una mano sulla mia spalla e mi spinse
di nuovo giù.
Ero steso su quella che sembrava essere una barella di plastica e ad
ogni dislivello che il furgone affrontava sentivo lo scossone
amplificato di diecimila volte. Sembrava di essere sulle montagne russe.
"Che cazzo!" esclamai, quando una fitta mi scosse la gamba.
"Mi dispiace," disse il ragazzo. "Sto cercando di fasciarti meglio la
ferita, almeno per il tragitto fino al campo base." Aveva tolto la
maglia che avevo usato come benda provvisoria e stava avvolgendo il
ginocchio con una garza bianca. Strinsi i denti, cercando di non
lamentarmi.
Dopo un tempo indefinito, che avevo passato mezzo rincoglionito dopo
che il ragazzo mi aveva imbottito di antidolorifici, riuscii a trovare
la forza di aprire bocca. "Chi siete?"
Sembrava confuso. "Chi siamo?" ripeté.
"Prima cercate di uccidermi e poi ti metti a fasciarmi il ginocchio?"
esclamai. Le parole mi uscivano impastate e probabilmente quasi
incomprensibili. "Chi cazzo siete?"
Il pick-up improvvisamente si fermò. "Siamo arrivati,"
decretò il ragazzo, senza darmi una risposta. In quel momento mi
accorsi che un altro furgone ci aveva seguito per tutto il viaggio. Ne
uscirono tre uomini, e altri due dal mezzo in cui mi trovavo io.
Qualcuno sollevò la barella e mi trasportò per parecchi
metri prima che iniziassi a dibattermi debolmente, gridando che volevo
scendere. Nessuno mi diede retta, così spostai tutto il mio peso
da un lato, facendo sbandare gli uomini che mi stavano portando.
"Fermo!" esclamò uno.
"Fatemi scendere!" urlai.
"Non riusciresti a stare in piedi," spiegò il ragazzo che mi aveva medicato.
"Non me ne frega un cazzo!" urlai più forte che potevo. "Voi figli di puttana mi fate scendere!"
Il ragazzo guardò uno alla volta i due tizi che mi
trasportavano, poi annuì. La barella si piegò in avanti,
finché mi trovai quasi perpendicolare al terreno. Posai il piede
sinistro per terra, caricai tutto il mio peso e mi sollevai. Poi caddi
a terra come un sacco di patate.
"Che cos'avevo detto?" sentii rimproverarmi il ragazzo. Ignorai la punta di sarcasmo nella sua voce.
"Dean?"
Il mio cuore perse un battito quando sentii pronunciare il mio nome da
quella voce. In mezzo a sconosciuti in un luogo sconosciuto, quella
voce era l'unica cosa che veramente conoscevo. Sentirla mi fece sentire
più leggero.
Sollevai lo sguardo appena in tempo per vedere Cas scendere in volata i
gradini esterni di un edificio di legno e correre verso di me. Era
identico a come lo ricordavo dalla visita forzata di Zaccaria. I
capelli gli coprivano la fronte e le guance erano colorate dalla barba
di una settimana. La camicia stropicciata che portava era sbottonata
per metà sul petto. Si chinò di fronte a me e mi
baciò.
Un brusio si levò attorno a noi. Esclamazioni di sorpresa,
più che altro. Ma non ci feci caso. La mia attenzione era
concentrata da tutt'altra parte.
Era la prima volta che baciavo Cas. Quante volte avevo sognato di
farlo? Quante volte mi ero domandato quale sarebbe stata la sua
reazione se avessi preso il suo viso tra le mani e avessi posato le mie
labbra sulle sue? E ora stava accadendo, come se fosse la cosa
più normale del mondo.
Le sue labbra erano morbide e sapevano di incenso. Sentii la sua mano
sul mio collo che stringeva i capelli sulla mia nuca, provocandomi un
brivido che attraversò il mio corpo fino all'inguine. Mi venne
la pelle d'oca su tutto il corpo e mi ricordai di essere a petto nudo.
Schiusi la bocca per infilare la lingua tra le sue labbra, ma lui si
separò da me troppo presto.
Cas si mise a fissarmi con uno sguardo che non sapevo interpretare,
mentre mi perdevo nell'azzurro dei suoi occhi. Le mie orecchie avevano
ricominciato a fischiare e non mi permettevano di sentire la sua voce.
Vedevo le sue labbra muoversi, ma non usciva alcun suono.
Mi prese il viso tra le mani, scuotendomi e continuando a parlare.
Stavolta riuscii a sentire la sua voce, ma sembrava un sussurro
lontano. La mia vista tremava e non sapevo ancora quanto sarei riuscito
a rimanere seduto dritto.
"È imbottito di antidolorifici, "disse una voce da lontano. Era
il ragazzo-dottore? "Sarà meglio portarlo in infermeria."
Venni sollevato dalle spalle e dalle gambe e caricato nuovamente sulla
barella, inerme. Fui trasportato dentro un'immensa tenda da campo e
scaricato su una branda con un materasso sottile che mi infilzò
tutte le sue molle sulla schiena.
Sentii un pizzico sul braccio e mi resi conto che mi avevano infilato
un ago attaccato ad una flebo. Mi lamentai debolmente, mentre delle
vaghe figure giravano attorno al mio letto e poi sparivano.
Un viso si materializzò troppo vicino al mio. "Dean, ora
dovrò ricucirti il ginocchio," mormorò. La sua faccia era
sfuocata, ma la voce mi era familiare. Era la stessa che mi aveva
ammonito per tutto il viaggio in quel rumoroso pick-up. Quel poppante
che mi aveva tartassato la gamba e imbottito di droga.
Il ragazzo srotolò la benda dalla mia gamba, mentre ondate di
dolore risalivano dal mio ginocchio, costringendomi a rimanere sveglio,
ma strinsi i denti e cercai di non lamentarmi. Poi il tizio si
alzò, armeggiò accanto ad un carrello dall'altra parte
della tenda e ritornò con le mani inguantate e con qualcosa in
mano, poi si sedette accanto al letto trascinando una sedia vicino a
sé.
Per un attimo uno dei due oggetti che aveva portato scintillò e
riconobbi una siringa. Cercai di sollevarmi e di ritrarmi, ma le mie
mani erano ammanettate alla testiera della branda. Provai a piegare le
gambe, ma le caviglie erano legate alla struttura di ferro del letto.
Quando cavolo mi avevano immobilizzato?
"Stai disteso," mi ammonì il ragazzo.
"Che cazzo stai facendo?" esclamai, ma le parole uscirono dalla mia bocca in un mormorio.
"È un anestetico," spiegò, mentre infilava l'ago nel
tappo di un piccolo contenitore di vetro e ne aspirava il liquido. "Non
credo che ti faccia piacere essere ricucito a vivo."
Avrei voluto rispondergli che ero abituato a non usare alcun tipo di
droghe per togliere il dolore, ma non avevo più la forza di
replicare. Mi lasciai cadere con la testa sul cuscino senza lamentarmi
più.
Sentii un bruciore al ginocchio, ma dopo un secondo era già
sparito. Il ragazzo si alzò e buttò la siringa vuota
dentro il cassetto di un carrellino accanto alla branda e tirò
fuori un flacone contenente un liquido trasparente, sulla cui etichetta
riuscii a leggere di sfuggita la parola "fisiologica", che
spruzzò sulla mia ferita, facendola bruciare come se mi stesse
andando a fuoco la carne. Mi lasciai scappare un lamento.
"L'anestesia non ha ancora fatto effetto," disse il tizio. "Sarà
meglio aspettare qualche minuto." E se ne rimase lì a fissarmi.
Lo guardai con occhi stanchi e a quel punto lui abbassò lo sguardo. "Come ti chiami?" mormorai.
"Mmh?" mugugnò, sollevando la testa di scatto.
"Come ti chiami?" ripetei, cercando di scandire meglio le parole.
Il ragazzo mi guardò per qualche secondo, prima di dire: "Allora è vero."
"Cosa?"
"Che non ricordi."
Non fui sorpreso da quella rivelazione. Avevo già capito che qualcosa non andava in me. "No, non ricordo," risposi.
"Edward Murray," disse. "Ma tutti mi chiamano Doc."
Annuii, fissando il soffitto della tenda. "Così i soldati
lì fuori affidano a te la loro vita? Non sei un po' troppo
giovane?"
Il ragazzo sbuffò. Sollevai la testa di qualche centimetro per
scrutare la sua espressione e mi resi conto solo in quel momento che
aveva iniziato a pulirmi la ferita per ricucirla. Non sentivo alcun
dolore, finalmente. "Non sono troppo giovane, così come loro non
sono soldati," sbottò. "Potrai pure aver perso la memoria, ma
sei rimasto il solito arrogante che crede di essere a capo di un
esercito."
Non feci troppo caso alla sua critica. Mentre Doc mi ricuciva la
ferita, la mia testa si fece pesante e la lasciai ricadere sul cuscino.
La mia mente era offuscata sempre di più dagli antidolorifici
che si introducevano a forza nel mio organismo attraverso l'ago della
flebo. Quando chiusi gli occhi vinto dalla stanchezza, non riuscii
più ad avere il controllo dei miei pensieri, che iniziarono a
viaggiare mescolando presente e passato, mostrandomi attraverso le
palpebre chiuse delle immagini talmente nitide che mi sembrò di
rivivere i miei ricordi.
***
Le braccia di Sam si illuminarono come due neon dentro quella buia
chiesa diroccata. Il sangue che usciva dal taglio della sua mano
formava dei rivoli sul suo palmo, così gli annodai attorno un
fazzoletto.
Poi si sentì male. Lo trascinai all'aperto e si accasciò
nel fango, appoggiandosi alla ruota dell'Impala. Alzò la testa e
la sua espressione si fece atterrita.
Seguendo il suo sguardo, i miei occhi furono testimoni dello spettacolo
più bello e terrificante della mia vita. Delle palle di fuoco
bucavano il cielo come fossero comete e creavano una scia verso la
Terra. Erano centinaia, forse migliaia. Non riuscivo a fare una stima.
Gli angeli... stanno cadendo.
Urlai il nome di Castiel con tutta l'aria che avevo nei polmoni, ma lui
non apparve dal nulla come aveva sempre fatto, insinuandomi nella testa
un bruttissimo presentimento.
Nel frattempo gli angeli raggiunsero il suolo. Il primo finì
nella palude che costeggiava la chiesa, provocando uno spruzzo alto
almeno un paio di metri. La velocità con la quale
precipitò doveva aver raggiunto quella di una macchina lanciata
in autostrada. L'urto con l'acqua fu orrendamente violento. Il secondo
impattò il suolo a pochi metri da me e Sam. La velocità
lo fece scivolare per qualche altro metro, creando profondi solchi nel
terriccio. Mi alzai per andare a controllare. Il suo collo era piegato
all'indietro in modo innaturale. Non mi presi nemmeno la briga di
verificare se fosse vivo o meno.
Sam nel frattempo era svenuto. Riuscii a svegliarlo scuotendolo, poi
schiacciai Crowley nel bagagliaio con non poca fatica e salimmo in
auto, sgommando via. Sam vomitò fuori dal finestrino un paio di
volte, mentre io guidavo a tutta velocità cercando di schivare
gli angeli che piombavano giù come grandine.
Sam svenne di nuovo e fui costretto ad accostare. Cercai di svegliarlo
come avevo fatto prima, ma senza risultato. Era pallido e sudato.
Sentivo a malapena il suo battito.
Lo portai all'ospedale più vicino. Era l'ultima cosa che ricordavo.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 3 *** Capitolo 3 ***
Capitolo 3
W E L C O M E T
O T H E N E W
A G E
I'm waking up to ash and dust,
I wipe my brow and I sweat my rust,
I'm breathing in the chemicals.
I'm breaking in, shaping up,
Checking out on the prison bus,
This is it, the apocalypse.
Capitolo 3
Ogni
tanto mi svegliavo, intorpidito e confuso. Non ebbi mai la forza
sufficiente per aprire bocca né per muovermi. Rimasi sempre
ammanettato al letto, mentre diverse persone giravano attorno a me,
osservandomi. Il viso che vidi più spesso fu quello del ragazzo,
Doc. Per lo più cambiava i sacchetti della flebo e mi parlava,
chiedendo come mi sentissi, ma non riuscii mai a dargli una risposta
perché mi addormentavo subito.
Non riuscii a tener conto di
quanto tempo passò. Mi parvero giorni, ma forse furono solo un
paio d'ore. In ogni caso, passai quasi tutto il tempo in una specie di
dormiveglia, che ogni tanto diventava sonno vero e proprio.
L'unica cosa di cui ero certo era che Castiel non si fece vivo.
La gamba non mi fece mai male
e Doc mi aveva medicato la ferita alla testa con qualche punto, ma
nemmeno quella pizzicava. Imbottito di antibiotici e antidolorifici,
sarebbe stato sorprendente il contrario.
Delle voci arrabbiate erano
costantemente fuori dalla tenda. L'unica che riuscii a riconoscere era
quella di Doc, che cercava di calmare ogni volta una persona diversa
con tono risoluto. L'argomento del litigio era la possibilità
che mi fossi beccato il virus Croatoan, visto che - da quanto mi parve
di capire - ero sparito dal campo base per quasi un giorno intero. Doc
sosteneva che i sintomi si manifestavano entro le prime quattro ore e
che per il momento non avevo subito alcun cambiamento, quindi c'era
motivo di sperare per il meglio. L'altra persona replicava ogni volta
che, imbottito di droga com'ero, sarebbe stato difficile capire se
davvero potevo mostrare indizi che il virus mi avesse infettato. Doc
concludeva allora dicendo che dopo quattro ore dal mio arrivo mi
avrebbe prelevato del sangue per vedere se era presente dello zolfo.
Quando il ragazzo mi aveva
infilato un altro ago nel braccio, capii che erano passate quattro ore
dal mio arrivo. Mugugnai qualcosa di indistinto, lui mi spiegò
la situazione e se ne andò per far esaminare il mio sangue. Mi
domandai distrattamente dove avrebbe tirato fuori un apparecchio per
analizzarlo.
Altre figure sconosciute si
presentarono accanto a me. Erano preoccupate, a causa del mio colorito
bluastro e della febbre che continuava a salire, non tanto per me,
quanto per la possibilità che fossero sintomi del virus. Mi resi
conto solo in quel momento di essere sudaticcio e accaldato. Doc
tornò dopo qualche minuto, spiegando che la febbre doveva essere
causata dall'infezione alla ferita della gamba, dato che non c'era
zolfo nel mio sangue. Poi intimò alle persone di stare alla
larga da me, visto che non avevo bisogno di gente che mi ronzasse
attorno criticando il mio stato di salute. "Non dopo quello che gli
avete fatto!" esclamò, paonazzo. Non avevo idea di che cosa
stesse parlando.
Dopo che tutti se ne andarono,
Doc si avvicinò al letto, affermando gaiamente che non avevo
preso il Croatoan. Continuò dicendo che per sicurezza avrebbe
fatto degli esami ogni ora per accertarsi che non comparisse
inaspettatamente. Poi presi di nuovo sonno.
Mi svegliò il delicato
tocco di un panno bagnato sul mio viso e il rumore di acqua che cadeva
in altra acqua. Aprii gli occhi in una fessura, aspettandomi uno dei
tanti visi sconosciuti che avevano girato attorno a me nelle ore
passate; invece trovai a fissarmi due occhi blu che conoscevo molto
bene.
"Cas?" mormorai. La mia voce
era uno schifo. Provai a schiarirmi la gola, ma venni colto da un
attacco di tosse. Un bicchiere si materializzò tra le mie
labbra. Bevvi tutta l'acqua, che grattò la mia gola secca
dolorosamente.
Cas posò il bicchiere
vuoto sul comodino e mi mostrò uno dei suoi sorrisi a mezza
bocca che mi avevano sempre fatto impazzire. I suoi occhi erano
luminosi. "Ti ricordi di me, allora" disse. La sua voce era più
roca del solito, come se la barba che si era fatto crescere potesse
averla resa più profonda.
La mia vista iniziò ad
offuscarsi. No, maledetti antidolorifici! Volevo osservare il suo viso
per qualche minuto senza prendere improvvisamente sonno. Allungai una
mano verso l'ago della flebo per toglierlo.
Cas posò la sua mano sulla mia. "Cosa credi di fare?" mi sgridò.
Lo ignorai, afferrando il tubo della flebo e tirandolo. L'ago uscì dalla mia carne con un pizzicore.
"Fa' come vuoi" esclamò, sorridendo divertito.
Mi resi conto solo in quel
momento di essere stato in grado di muovere le braccia liberamente.
Mossi cautamente le gambe. Mi avevano slegato.
Castiel rimosse il panno dalla
mia fronte, strizzandolo in una bacinella ai suoi piedi. Lo
bagnò di nuovo, ma questa volta lo usò per strofinarmi il
viso. Il tessuto si macchiò di rosso. Dovevo avere la faccia
incrostata di sangue.
"Perché non sei venuto prima?" ruggii, ma la voce uscì più debole di quanto volessi.
"Sei stato tu a dirmi di stare lontano da te nel caso ci fosse il rischio che ti fossi beccato il Croatoan," spiegò.
"Ma... mi hai baciato." La mia voce si ruppe.
"Sì, beh, mi sono fatto prendere la mano."
Nessuno dei due parlò per un paio di minuti. Cas continuava a pulirmi il viso.
"Quando ti avrei detto di stare lontano da me?" domandai confuso.
Abbassò lo sguardo, come se stesse ricordando qualcosa. "Una delle prime volte in cui abbiamo fatto sesso."
Venni colto da un altro attacco di tosse. Di nuovo Cas mi fece bere da un bicchiere.
"La notizia ti ha sconvolto?" scherzò.
"C-cosa?" mormorai, cercando di nascondere il mio imbarazzo
"Ti ha sorpreso sapere che intratteniamo una relazione sessuale?"
La verità era che
sì, ero sorpreso. Ma non volevo farglielo capire. "N-no,
cioè..." Sospirai, non riuscendo a finire la frase. Castiel
sembrò capire il mio disagio. Non ero mai stato bravo a
mentirgli.
"Qual è l'ultima cosa che ricordi?" chiese, diventando serio.
"Io... non lo so. È tutto confuso. Non riesco a distinguere nulla."
Cas lavò il panno
sporco di sangue nella bacinella e ne approfittai per tirarmi
più su a sedere, non senza qualche difficoltà. Avevo i
muscoli intorpiditi per essere stato fermo nella stessa posizione per
troppo tempo. La fasciatura al ginocchio mi costringeva a tenere la
gamba destra dritta, così non riuscii a stirarla, ma l'essermi
mosso anche solo di qualche centimetro mi fece sentire molto meglio.
Quando Cas fece per continuare
a pulirmi il viso e mi trovò seduto, vidi che il suo sguardo
indugiò un secondo in più sul mio petto nudo. "Mmh,"
mormorò.
"Cosa?" domandai.
"Niente. Mmh... mi sono appena
ricordato di averti portato una maglietta," rispose, prendendo
l'indumento posato sullo schienale della sua sedia. "Per quanto mi
piaccia ammirare i tuoi muscoli, ho paura che tu possa sentire freddo.
Avrò altre occasioni in futuro di ammirare il tuo petto." Poi mi
porse la t-shirt, ammiccando.
Il suo modo di fare mi
sorprendeva. Era molto diverso dal Cas che conoscevo. Presi la maglia e
la indossai con movimenti accorti, visti i miei muscoli doloranti.
Cas si allungò verso di
me, strofinando il panno umido sul mio collo. Il suo viso era a pochi
centimetri dal mio e le sue labbra erano schiuse. Sembrava un gesto
automatico dettato dall'attenzione con cui stava pulendo la mia pelle,
ma il pensiero che il suo comportamento fosse intenzionale - che stesse
in qualche modo giocando con me - grattò un angolo della mia
mente. Ma durò solo un secondo.
"Sam?" domandai di punto in bianco, schiarendomi la gola, un po' in imbarazzo.
"Cosa?" mormorò Cas, scostandosi un po'.
"Dov'è Sam?" ripetei.
L'idea che quello che avevo visto durante la mia visita nel futuro di
parecchi anni prima fosse accaduto davvero mi tormentava, ma finsi di
non prenderla in considerazione.
"Sam non c'è," rispose
Cas evasivo. Il sorriso era sparito dal suo volto e aveva abbassato lo
sguardo, buttando il panno nella bacinella, che aveva schizzato acqua
per terra.
Aprii bocca per chiedergli
ulteriori spiegazioni, ma fummo interrotti da Doc, che era entrato in
infermeria proprio in quel momento. "Devi stare steso," mi
sgridò, spingendomi giù per la spalla. Poi si accorse che
avevo staccato l'ago della flebo. "Dio, non ti si può lasciare
solo nemmeno un secondo," si lamentò, infilandomi l'ago nel
braccio. Poi fulminò Cas con lo sguardo. "Per oggi basta visite."
Cas si alzò, prendendo
con sé la bacinella. Mi lanciò uno sguardo che non
riuscì ad interpretare, un misto tra avvilimento e pietà,
e se ne andò.
"Come va la gamba?" domandò Doc, dando un'occhiata alla fasciatura ma senza toccarla.
"Bene," bofonchiai. Non ero
dell'umore adatto per parlare. Ero seccato per l'interruzione: Cas
avrebbe potuto dirmi qualcosa in più su Sam, se non fosse
comparso Doc.
Si sedette dov'era stato prima
Cas e tirò fuori un ago sterile dal carrellino e una provetta.
"Dovrai rimanere a riposo almeno per un paio di giorni," disse,
imbevendo un pezzo di cotone con del disinfettante e passandomelo
nell'incavo del gomito, "il che prevede che tu te ne stia fermo a letto
senza armeggiare con la flebo". Il suo sguardo storto riuscì ad
aumentare il rimprovero. Poi mi infilzò il braccio con l'ago.
Sussultai, non per il dolore ma per il gesto improvviso. Gli aghi non
mi erano mai piaciuti ed ero stato infilzato due volte nel giro di
qualche minuto.
Mi prelevò del sangue e
mise il tappo alla provetta. Poi appoggiò un batuffolo di cotone
sul forellino sulla mia pelle e mi fece piegare il braccio.
"Mi avete slegato," dissi, mentre si alzava.
"Era solo una precauzione,"
spiegò Doc, "nell'eventualità che avessi contratto il
virus Croatoan e fosse stato necessario tenerti bloccato. Ma non ce
n'è più bisogno."
"Da quanto tempo sono qui?" domandai.
"Cinque ore. Sono venuto a prendere la mia dose oraria del tuo sangue," replicò mostrandomi la provetta piena.
"Mmh," mugugnai. Solo cinque ore. Sarebbero stati due giorni lunghissimi.
"Che c'è?" esclamò Doc, esasperato.
"Niente, è solo che mi annoio," borbottai.
"Prova a dormire."
"Se ci fosse la TV via cavo me la passerei meglio."
Doc fece una risata poco divertita. "La TV è sparita tre anni fa."
***
Sognai un ricordo, che cadde
proprio a fagiolo. Erano gli ultimi momenti della mia gita nel futuro
cui mi aveva spedito Zaccaria anni prima. Mi trovavo in un giardino
incolto, dove le erbacce spuntavano dalle crepe di una fontana di
pietra e il muschio ricopriva le statue ornamentali. Le siepi erano
secche e i rami nudi sembravano delle dita pronte ad afferrarmi per i
vestiti. La terra era bagnata e formava una poltiglia fangosa. Un
temporale imperversava lontano nel cielo, lanciando qualche lampo che
rischiarava l'aria.
Il
mio alterego era steso a terra con il collo spezzato e i suoi occhi,
rimasti spalancati dai suoi ultimi attimi di vita, mi fissavano come un
monito. È questa la fine che farai, sembravano dire.
Sam era in piedi accanto
all'unica siepe ancora viva. Stava ammirando una rosa rossa, un
bocciolo perfetto. Si accorse di me e mi regalò un sorriso, ma
non mi sentii sollevato, anzi mi si accapponò la pelle. La luce
nei suoi occhi non era quella che avevo sempre visto fargli brillare lo
sguardo: quella era oscura, malvagia. Sapevo che quello non era Sam.
Era il Diavolo a sorridermi.
Sam era stato indossato da Lucifero.
Il sogno non ripercorse
esattamente ogni attimo di quello che era successo davvero. Sam restava
lì a fissarmi con quello sguardo inespressivo, mentre la mia
mente faceva tutto il lavoro e mi faceva ricordare: come Lucifero mi
avesse detto che capiva il mio disagio nel parlargli attraverso quel
tramite, attraverso mio fratello; la storia di come lui fosse stato
cacciato dal Paradiso per non aver giurato fedeltà
all'umanità come suo Padre voleva; le mie esatte parole di
quando l'avevo insultato dicendogli che l'unica cosa che lo
differenziava dai figli di puttana che cacciavo da tutta la mia vita
era la grandezza del suo ego.
Poi il sogno sembrò
mettersi a pari passo con i miei ricordi. Sam si mosse, avvicinandosi a
me, senza abbassare lo sguardo. Qualunque scelta tu faccia, qualunque dettaglio tu cambi, finiremo sempre qui, disse. Le sue parole sembravano inconsistenti e si perdevano nell'aria in un'eco lontana.
Mentre continuava ad avanzare,
il suo abito bianco si sciolse come se fosse sempre stato liquido,
rivelando il suo corpo nudo. La pelle iniziò a fessurarsi e i
lembi si scollarono e caddero a terra. Il suo corpo ora era formato
solo da muscoli, rossi e pulsanti. Un ghigno si fece strada su quel suo
volto mostruoso. Continuava ad avvicinarsi, ma io non riuscivo ad
allontanarmi. Quando fu a un passo di distanza da me, Sam si
sgretolò sotto i miei occhi e il vento spazzò via la sua
cenere.
Note dell'autrice
Eccomi qui con un altro capitolo! La pubblicazione è lenta (come
avevo accennato), anzi è addirittura troppo veloce per la
mia scrittura perché tra poco finirò i capitoli che
ho già scritto e poi mi troverò senza nulla da pubblicare
mannaggia a me
Esatto, mi trovo in un periodo di blocco dello scrittore, e per
"blocco" intendo che non ho assolutamente idea di dove andrà a
finire questa storia. Di solito quando scrivo storie lunghe ho una vaga
idea di dove voglio che la storia porti e ho addirittura già in
mente scene e dialoghi. Ma con questa storia nada.
Questo è davvero un salto nel vuoto per me, ma continuerò
a spremermi il cervello perché mi piace quello che ne è
venuto fuori fin'ora.
Lo scorso capitolo mi sono dimenticata di ringraziare tutti coloro che
hanno inserito la mia storia tra le seguite/ricordate/preferite
(davvero, qualcuno l'ha inserita tra le preferite vorrei piangere di
gioia) e un grazie gigante a chi ha recensito i capitoli passati, vi
lovvo tutti!
|
Ritorna all'indice
Capitolo 4 *** Capitolo 4 ***
Capitolo 4
W E L C O M E T
O T H E N E W
A G E
I'm waking up to ash and dust,
I wipe my brow and I sweat my rust,
I'm breathing in the chemicals.
I'm breaking in, shaping up,
Checking out on the prison bus,
This is it, the apocalypse.
Capitolo 4
Mi
svegliai poco riposato e con gli occhi umidi. Sbattei le palpebre
più volte per evitare che le lacrime cadessero, poi mi guardai
attorno. Fuori era buio. L'unica illuminazione proveniva da una lampada
da campeggio appesa alla parte opposta dell'infermeria.
Un peso mi opprimeva il petto.
Da quando Zaccaria mi aveva riportato alla realtà dopo quel
salto nel futuro, avevo riallacciato i rapporti con Sam, per paura che,
se ci fossimo allontanati, il futuro che era stato predetto si sarebbe
verificato. Poi, vedendo che le cose avevano preso una piega ben
diversa da quella pronosticata da Lucifero, non avevo più
pensato alla possibilità che la situazione potesse diventare
realtà. Invece era come se fosse stata sempre in agguato. Come
se il futuro fosse stato lì a guardare e a ridere della mia
ingenuità, pronto a rinfacciarmi il tutto con un "te l'avevo
detto" appena fosse diventato realtà.
Mi sentivo uno stupido,
imprigionato in un anno che non era il mio, circondato da persone che
non avevo mai visto prima. Nemmeno Cas sembrava più lo stesso.
Non riuscivo quasi a riconoscerlo. C'entrava forse con il fatto che era
caduto? Non ne ero totalmente sicuro, ma se gli angeli avevano la
grazia avrebbero dovuto comunque avere i loro poteri. Cas li aveva
ancora? O aveva perso la grazia? Molto probabilmente non l'aveva
più, altrimenti avrebbe già fatto il suo trucchetto di
magia per rimettermi subito in sesto. Ricordavo che nel 2014 era umano.
Quando gli avevo chiesto cosa gli fosse successo, aveva risposto: "La
vita."
Rimasi sveglio fino all'alba,
fissando il vuoto senza pensare a niente. Una lacrima che cadde sulla
mia guancia mi sorprese, ma l'asciugai e feci finta che non fosse
successo niente.
Fuori dalla tenda i rumori
aumentavano man mano che la luce del sole si rafforzava, tanto che dopo
una mezz'ora dall'alba c'era già un gran viavai. Poco dopo, Doc
venne a vedere come stavo. Bofonchiai una risposta positiva, ma lui non
diede peso alla mia poca propensione nel rispondergli. Ormai doveva
aver capito che quello era il massimo che poteva ottenere da me.
Constatò che la febbre
era scesa e che avevo ripreso un colorito quasi normale. Cambiò
il sacchetto della flebo, poi srotolò la benda per controllare
la ferita. Il ginocchio era livido e gonfio e i margini del taglio
erano incrostati di sangue. Doc pulì la ferita con della
fisiologica e strinsi i denti dal dolore quando il ginocchio si mise a
pulsare. Poi Doc si mise a fasciarmi il tutto con una garza pulita.
"Sei venuto a prendermi del sangue?" domandai con tono infastidito.
Doc ignorò il mio
umore. "No. Le ultime tre analisi hanno mostrato che sei pulito. Sono
passate dodici ore, ormai sei fuori pericolo."
Nessuno parlò per qualche minuto.
"Come va con la memoria?" domandò quando ebbe finito di bendarmi la ferita.
Scossi la testa. "Nada."
Doc si alzò,
avvicinandosi per controllare la ferita sul mio cuoio capelluto. "Spero
tu non abbia avuto una commozione celebrale," commentò.
"Una... oddio," sospirai. Che cazzo.
"Ma il più delle volte si risolve tutto da solo. Nella maggior parte dei casi la perdita di memoria è temporanea."
Grugnii una risposta indefinita.
"Qual è l'ultima cosa che ricordi?" chiese Doc.
Sbuffai. Avevo sentito quella
domanda già un paio di volte e non ero riuscito a dare una
risposta. Non volevo fare la figura dell'idiota che non sapeva nemmeno
che giorno fosse. Ma sapevo anche che dovevo affrontare la cosa e che
dovevo una risposta a Doc, che si stava prendendo cura di me nonostante
la mia ostilità. Mi sforzai di pensare. "Ehm... Sam in coma?"
dissi. Ero abbastanza sicuro che quella fosse l'ultima cosa che
ricordavo.
"Sam in coma?" ripeté Doc.
"Sì, dopo che gli angeli sono caduti," spiegai, vista l'espressione confusa di Doc.
"Ah," rispose soltanto. Poi distolse lo sguardo. Sembrava che mi nascondesse qualcosa.
"Cosa?" domandai.
Doc esitò.
"Cosa?" insistetti.
Nessuna risposta.
Ne avevo abbastanza. "Sono
stufo di essere preso per il culo!" sbraitai. "Ho fatto finta di
niente, sperando che qualcuno venisse a darmi delle spiegazioni, ma
sembra che qui non importi a nessuno di me!" Nemmeno Cas mi aveva dato
una risposta quando gli avevo chiesto di Sam. "Adesso mi dici cosa
diavolo sta succedendo, ragazzino," gridai, "o appena mi alzo da questo
letto, giuro che ti farò pentire di avermi curato!"
"Una cosa per volta," mormorò.
"Dimmi!" esclamai, ignorando le sue parole.
Passò qualche secondo prima che rispondesse. "Gli angeli sono caduti cinque anni fa."
Mi presi qualche attimo per
elaborare quell'informazione. "Cinque anni," ripetei. Feci un calcolo a
mente. Significava che mi trovavo nel... duemiladiciotto?
"Sono successe diverse cose da allora e non è il caso che te le sbattiamo in faccia tutte insieme. Una cosa per volta."
"Ho perso cinque anni della mia vita?" ruggii.
"A quanto pare."
Ricordavo il commento che lui
stesso aveva fatto il giorno prima, quando aveva riso dicendo che la TV
era sparita da tre anni. Speravo scherzasse.
La perdita di memoria non mi
aveva preoccupato, all'inizio. Avrei potuto sopportare se avessi
dimenticato gli ultimi sei mesi, come avevo creduto in un primo
momento. Ma cinque anni. No, non volevo crederci.
"Mi dispiace, Dean," disse Doc, "ma troveremo una soluzione. Si risolverà tutto."
"Vattene," mormorai, chiudendo gli occhi e massaggiandomi l'attaccatura del naso. "Voglio restare solo."
Sentii i suoi passi uscire
dalla tenda. Rimasto solo, sprofondai nei cuscini, sperando di
addormentarmi di nuovo. Improvvisamente la mia mente si era fatta
stanca ed era solo con le ultime forze che mi rimanevano che riuscivo a
tenere le palpebre semichiuse.
L'ultima cosa che vidi prima di addormentarmi era Cas che entrava in infermeria.
***
Quando mi svegliai, mi
sembrò di aver dormito per giorni. Avevo le palpebre incollate e
la bocca secca. Mi stropicciai gli occhi e mi accorsi che si era fatta
di nuovo notte.
Per quanto cazzo avevo dormito?
Sulla branda a un paio di
metri di distanza era steso qualcuno. Russava come se al posto del naso
avesse un qualche strumento musicale poco identificato. Era girato su
un fianco e mi dava le spalle, ma riconobbi Cas.
Mi allungai verso il comodino,
cercando di afferrare la bottiglietta d'acqua per berne un sorso, ma
con un gesto maldestro riuscii a farla cadere a terra. L'impatto con il
terreno provocò un colpo sordo ma distinto.
Cas grugnì e smise di
russare. Passò un minuto prima che si voltasse verso di me
respirando pesantemente. "Cos'è successo? E' arrivata la fine
del mondo?" cercò di scherzare con la voce impastata. Non risi
alla scelta poco felice delle parole.
"No, ho solo fatto cadere la
bottiglia," spiegai, scostando il lenzuolo e facendo scivolare le gambe
oltre il bordo del letto. Quando piegai le ginocchia, la ferita alla
gamba pulsò come se qualcuno ci avesse posato sopra un mattone,
ma strinsi i denti e feci finta di nulla.
"Ohi, che fai?" esclamò
Cas rizzandosi in piedi, mentre mi allungavo per cercare di afferrare
l'oggetto caduto a terra. "Devi stare sdraiato, altrimenti Doc mi
ucciderà."
"Che vada al diavolo!" mormorai. Trattenni un lamento quando, piegato com'ero, il dolore al ginocchio aumentò.
"Dai, faccio io," disse Cas.
Afferrò la bottiglia e la rimise sul comodino, poi mi
fulminò con lo sguardo. "Devi stare a riposo, altrimenti non
riprenderai mai le forze."
"Sto bene," grugnii,
puntellandomi sulle braccia e facendo forza per sollevarmi. Quando
riuscii a mettermi in piedi, trovai il viso di Castiel a pochi
centimetri dal mio. La testa si mise a girare e barcollai, ma Cas
riuscì a tenermi dritto afferrandomi sotto le ascelle come se
fossi un poppante.
"Troppo veloce," constatai. Cas mugugnò in approvazione.
Aspettai qualche secondo per
essere sicuro che la testa non girasse più. Sentivo il respiro
di Cas sul mio viso e le sue mani - calde anche se il tessuto della
maglietta le divideva dalla mia pelle - che stringevano saldamente il
mio torace. Gradualmente allentarono la presa, finché non
riuscii a reggermi in piedi da solo. Le costole che erano state a
contatto con le sue mani sembravano bruciare sotto la mia pelle.
"Il bell'addormentato si
è messo in piedi" commentò Cas, divertito. Non l'avevo
mai visto così di buon umore. Il Castiel che ricordavo era
sempre vestito di un trench e di un'espressione seria. Se Cas
sorrideva, il duemiladiciotto non poteva essere così male.
La mia gamba sinistra
sosteneva tutto il mio peso e cominciava a dolere. "Non è che ci
sono un paio di stampelle da queste parti?" domandai.
"Per fare che?" replicò
Cas, accigliato. "Non pensarci nemmeno, Dean. Stare in piedi è
il massimo che posso concederti, non te ne andrai a gironzolare con la
gamba in quello stato."
"Sono rimasto bloccato a letto
per due giorni, è molto di più di quanto sarei riuscito a
sopportare," dissi. "Ho bisogno di camminare."
Mi fissò per degli interminabili secondi, poi sbuffò, sconfitto. "E va bene, ma solo per cinque minuti!"
Trovò delle stampelle
in un armadio di metallo e con quelle mi trascinai fuori dalla tenda,
con Cas al seguito. Dei piccoli riflettori sparsi tra le costruzioni
irradiavano abbastanza luce da permettermi di vedere quel tanto che
bastava per zoppicare senza andare a sbattere contro qualcosa.
"Dove vuoi andare?" domandò Cas.
Mi strinsi nelle spalle. "Dovunque, mi basta muovermi un po'," replicai.
Fece strada nella
semioscurità, mentre le stampelle affondavano nella terra umida
e molle. Mi sentivo lento e ingombrante e non nella splendida forma in
cui avevo affermato di essere. Ma avevo davvero bisogno di quella
passeggiata, dopo essere stato immobile a letto per tanto tempo.
Vagammo per cinque minuti, in
cui percorremmo non più di un centinaio di metri a causa della
mia andatura, passando tra basse costruzioni di legno costruite a pochi
metri di distanza l'una dall'altra. Immaginai fossero le abitazioni di
chi viveva lì al campo.
All'improvviso un pensiero mi
attraversò la mente. Visto che io e Cas eravamo soli, non poteva
non rispondermi quando l'avessi affrontato. Mi fermai di punto in
bianco.
Cas si voltò, non percependomi più accanto a lui. Mi fissò nella flebile luce dei fari. "Che c'è?"
"Voglio la verità,"
dissi. Mi aspettavo che mi chiedesse a cosa mi riferissi, ma se ne
stette lì a guardarmi, aspettando che ponessi la mia domanda.
Feci un respiro profondo per prendere coraggio. "Cos'è successo
a Sam?"
Rimase a fissarmi senza
tradire alcuna emozione per parecchi secondi, poi un angolo della bocca
si contrasse per un attimo. "Come lo ricordi?" domandò. La sua
voce era piatta.
"Come... lo ricordo?" ripetei,
confuso. Non sapevo se avrei dovuto raccontargli di quando nel futuro -
ormai passato - Lucifero si era impossessato di Sam. "L'ultima cosa che
ricordo è Sam in coma," risposi infine.
La sua espressione era sorpresa ma allo stesso tempo confusa.
"Dopo che gli angeli..."
Indugiai, non sapendo come affrontare un discorso che riguardava
Castiel così da vicino. "Dopo che sono caduti."
Cas mi fissò per dei
secondi interminabili. Alzò gli occhi al cielo e si morse il
labbro, poi si voltò. I suoi piedi rivelavano il suo nervosismo.
Era come se stesse combattendo contro se stesso. Quando tornò a
voltarsi verso di me, la sua espressione era determinata. "Vieni con
me," mormorò. "Ti porto da Sam."
Note dell'autrice
Sì, sono ancora viva! Mi dispiace di aver pubblicato questo
capitolo così in ritardo, ma tra lo studio e gli esami degli
ultimi mesi non ho più avuto occasione di scrivere/pubblicare.
Ma ora sono qui! Spero di riuscire a continuare la storia al più
presto visto la maggiore quantità di tempo libero a mia
disposizione (anche se la mia ispirazione potrebbe finire e mi troverei
bloccata prima di quanto mi aspetti).
Vi ringrazio per essere così pazienti con me, vedo che la storia
è comunque seguita nonostante i miei ritardi! Quindi
graziegraziegrazie! :)
Al prossimo capitolo!
|
Ritorna all'indice
Capitolo 5 *** Capitolo 5 ***
Capitolo 5
W E L C O M E T
O T H E N E W
A G E
I'm waking up to ash and dust,
I wipe my brow and I sweat my rust,
I'm breathing in the chemicals.
I'm breaking in, shaping up,
Checking out on the prison bus,
This is it, the apocalypse.
Capitolo 5
Avrei
immaginato di tutto, ma non quello. Mentre mi trovavo dentro una delle
tante abitazioni a schiera, fissando il viso di Sam, mille pensieri mi
riempivano la mente.
Appena Cas si era incamminato,
dopo avermi invitato a seguirlo, era stato solo lo shock a permettermi
di zoppicare con le stampelle più velocemente di quanto avessi
fatto fino a prima. Finalmente stavo andando a trovare Sam! Significava
che era vivo, che Lucifero non era riuscito a possederlo! Ma subito mi
erano saliti dei dubbi. Ero tornato da due giorni, dovevano per forza
averlo avvisato della mia condizione. Allora perché non era
venuto a vedere come stavo?
Fu quando considerai l'unica
alternativa possibile che il mio cuore si ghiacciò. Se Cas mi
stava portando a vedere la lapide di Sam, non sapevo se avrei potuto
sopportarlo.
Il sollievo si era espanso
nella mia gabbia toracica quando Cas aveva deviato verso una delle
case, bussando piano alla porta d'ingresso. Era venuta ad aprire una
ragazza di colore alta almeno due metri, che mi aveva squadrato
dall'alto in basso prima di scostarsi per farmi entrare. Cas mi aveva
guidato lungo il corridoio verso la parte posteriore della casa,
entrando in quella che doveva essere la camera da letto. E uno
spettacolo terrificante mi aveva investito come un treno in corsa.
Sam era steso su uno di quei
letti d'ospedale super accessoriati e per poco i suoi piedi non
uscivano dal bordo del materasso. Era circondato da macchinari di ogni
tipo. Un bip ritmato proveniva dall'elettrocardiogramma, mentre numeri
e linee a me incomprensibili lampeggiavano sullo schermo. Il petto si
alzava e abbassava a ritmo cadenzato, gonfiato dall'aria che veniva
pompata da un tubo infilato nella sua bocca. I suoi occhi erano chiusi,
il suo corpo immobile. La luce di una lampada sul comodino segnava
flebile i contorni delle cose.
Sam era in coma. Di nuovo.
Che cazzo...
Caddi sulla sedia accanto al
letto, ormai senza neppure la forza per reggermi in piedi. Le stampelle
scivolarono dalle mie mani senza che me ne accorgessi, urtando il
pavimento con un rumore metallico. I miei occhi erano fissi sul volto
inespressivo di Sam. Aveva i capelli esageratamente lunghi, tanto che
ora riuscivano a posarsi sulle sue spalle, e le guance coperte dalla
barba di qualche settimana. Era irriconoscibile.
Mi sforzavo di non sbattere le
palpebre per non far cadere le lacrime, ma queste si raccolsero nei
miei occhi e strariparono sulle mie guance. Sentii freddo, come se
l'aria si fosse gelata all'improvviso, ma doveva essere solo una mia
impressione. Mi accorsi di tremare.
"Non ci sono stati rilevanti
cambiamenti," disse una voce sconosciuta. Sollevai lo sguardo quel
tanto che bastava per capire che era stata la ragazza a parlare,
consultando un taccuino. "La pressione è scesa verso le quattro
di pomeriggio, ma si è subito stabilizzata."
"Grazie, Kristy," disse Cas,
con un tono che cercava di farle capire che non era il momento per
dilungarsi in futili dati tecnici. La ragazza capì e uscì
dalla stanza.
Allungai la mano per toccare
il braccio di Sam, per sentire il calore del suo corpo, ma mi fermai a
pochi centimetri. Avevo paura a toccarlo. Era come se fosse chiuso in
una bolla invisibile, che manteneva stabili le sue condizioni, e temevo
che, se l'avessi oltrepassata, sarebbe scoppiata e Sam sarebbe stato
male. Ritrassi la mano, tremando, e la posai in grembo.
Sentivo lo sguardo attento di
Cas da sopra la mia spalla, che mi osservava come un angelo custode.
Sentii il tocco leggero della sua mano sulla mia schiena, ma nemmeno
quel contatto servì a confortarmi.
"Cos'è successo?" domandai. La mia voce fu poco più di un sussurro, ma era il massimo che riuscivo a fare.
"E'... una storia lunga," rispose Cas. "Non preoccupartene ora, te la racconterò più tardi."
Non replicai pretendendo che
mi dicesse tutto subito, non avendo più voglia di litigare con
nessuno. Non m'importava nemmeno più di tanto, in quel momento.
In mezzo a tutto il mio dolore, ero riuscito per un attimo a trovare
una luce a cui appigliarmi con tutte le mie forze: nonostante la
disperazione nel vedere Sammy ridotto a quel modo, ero contento che
fosse riuscito in qualche modo a scappare dal suo destino. Se fosse
stato posseduto da Lucifero, sarebbe stato difficile per Sam
sbarazzarsene, destinandolo a vivere l'eternità chiuso nel
proprio corpo mentre il Diavolo lo manovrava come una marionetta.
Invece quella situazione mi sembrava migliore, perché dal coma
poteva sempre risvegliarsi, no?
Il pensiero che, però,
la volta precedente - dopo la caduta degli angeli - il coma lo aveva
avvicinato pericolosamente alla morte, spense le mie speranze.
Oppure...
"Da quanto tempo è
così?" domandai. Il terrore aveva fatto incrinare la mia voce.
Uno scenario peggiore si era fatto strada nella mia mente. Forse non
c'era mai stata una «volta precedente». Forse Sam era stato
in coma fin dal mio ultimo ricordo. Il mio cuore si mise a battere
all'impazzata.
"Quattro anni," rispose Cas.
Quattro anni? Feci un calcolo
a mente. Se eravamo nel duemiladiciotto, Sam era in quelle condizioni
dal duemilaquattordici, giusto? Significava che non era rimasto in coma
dall'ultima volta che lo ricordavo. Era così, no? Doveva
esserlo. La testa iniziò a farmi male e mi massaggiai le tempie.
"Quando mi hai detto che
l'ultima cosa che ricordavi era Sam in coma, ho creduto per un attimo
che ti fosse tornata la memoria. Invece ricordavi la prima volta,"
spiegò Cas, capendo la mia confusione.
Quindi era così. Quindi
Sam si era risvegliato e poi era stato di nuovo male. La cosa non mi
fece sentire meglio come speravo.
"Ora è meglio se torni in infermeria," disse Cas, incitandomi con una pacca sulla spalla.
"Voglio stare qui," mormorai. Non volevo allontanarmi da Sam.
"Fa' come vuoi," rispose,
sollevando le mani in segno di arresa. "Io vado a stendermi nella
stanza qui a fianco." Prima di uscire dalla porta si voltò verso
di me. "Ma quando Doc si accorgerà che sei sparito, sarai tu a
vedertela con lui."
***
Doc mi trovò
addormentato sulla sedia con la testa posata sul letto di Sam. Mi
svegliò con vigorose scosse, che mi fecero sobbalzare senza che
capissi che diavolo stesse succedendo. Quando i miei occhi stanchi si
alzarono, la sua espressione contrariata spiegò tutto. "Non ho
parole, davvero," mi rimproverò. "Sei sempre stato uno stronzo,
ma quando ti ho ricoverato in passato sei stato più
collaborativo."
Mi guardai attorno, spaesato,
poi ricordai dove mi trovavo. La luce del sole inondava la stanza
attraverso le piccole finestre sulla parete. Sam era ancora immobile.
Il mio collo doleva. Avevo
dormito in una posizione scomodissima, ripiegato su me stesso, e ora ne
dovevo pagare le conseguenze. Mi massaggiai la nuca trattenendo un
lamento.
"Allora?" esclamò Doc, accorgendosi che non lo stavo ascoltando.
Le sue parole rimbombavano
nella mia testa. Mi massaggiai le tempie. Avrei voluto dirgli che non
c'era motivo di urlare, ma non volevo farlo incazzare ancora di
più.
Doc sbuffò. "Non sono il tuo babysitter, Dean, non posso mettermi a rincorrerti per tutto il campo."
"C'era Castiel con me," mi giustificai.
"La cosa dovrebbe tranquillizzarmi?" ironizzò, sospirando. "Forza, torna in infermeria."
"No," mormorai, tornando a fissare Sam per non guardarlo in faccia.
Vidi con la coda dell'occhio
Doc aprire la bocca, per poi richiuderla. "Okay, fa' quello che ti
pare," disse infine, "ma non venire a lamentarti se la tua ferita non
migliora." Poi se ne andò.
Rimasi seduto a fissare Sam,
senza realmente vederlo, per un paio di minuti, poi la schiena
iniziò a dolere. Dovevo pagare le conseguenze per non aver
ascoltato Doc e queste si presentarono come dolori alla schiena e corpo
pesante. Raccattai le stampelle dal pavimento e mi issai in piedi con
non poca fatica. Mi trascinai fino alla soglia, dando un'ultima
occhiata a Sammy, poi uscii dalla stanza.
La porta dalla parte opposta
del corridoio era socchiusa. Mi avvicinai, scostandola, e nella fessura
intravidi Cas steso su una branda con gli occhi chiusi. Entrai cercando
di non fare rumore, con l'intenzione di stendermi sull'altra branda
della stanza per dare sollievo ai miei muscoli, ma Cas si mosse. Si
stropicciò gli occhi, voltandosi a faccia in su a fissare il
soffitto, poi si accorse di me, in piedi sulle stampelle in mezzo alla
stanza. "Era Doc quello che ti stava urlando contro, prima?" chiese con
un sorriso divertito. La sua voce era impastata. "Ti avevo avvisato che
si sarebbe incazzato."
"Sì, beh," risposi, accigliandomi. "So di essermelo meritato, ma non ho intenzione di allontanarmi da Sam."
"No, certo, ti capisco,"
replicò, lanciandomi uno sguardo dal basso verso l'alto. "Cosa
ci fai lì in piedi?" disse, facendo spazio sulla sua branda.
"Stenditi un po' con me."
Quella sua proposta mi
sorprese, sia per la reazione che mi provocò - lo stomaco
andò in sobbuglio -, sia per il modo in cui era stata avanzata.
Castiel non si era mai comportato così. Certo, non erano mancate
le occasioni in passato in cui era stato un po' troppo diretto, ma la
sua sfrontatezza era sempre stata dettata dall'ingenuità. Non
c'erano mai stati dei sottointesi sessuali nelle sue parole, né
nei confronti di alcuna persona, tantomeno nei miei. Mi domandai come
avesse fatto a cambiare così tanto in cinque anni.
Lo sguardo di Cas era
insistente. Mi fissava da dietro le sue ciglia scure, con un angolo
della bocca alzato con fare malizioso. Distolsi lo sguardo, cercando di
riprendere il controllo dei miei pensieri. "In realtà... avrei
davvero bisogno di una doccia," mormorai, in imbarazzo.
"Mmh, bastava che lo dicessi," replicò, continuando a fissarmi con quel suo sguardo insistente.
L'immagine di Cas sotto la
doccia s'impossessò della mia mente per una frazione di secondo.
Scossi la testa, eliminando quella visione. La cosa mi stava sfuggendo
di mano e mi metteva a disagio. "Da solo," precisai, schiarendomi la
voce, che si era inspiegabilmente incrinata. Sentii le guance andarmi a
fuoco. Che diavolo mi succedeva?
"Come desideri," replicò Cas, continuando a guardarmi.
"Non... non è che
sapresti dirmi dove posso darmi una ripulita?" chiesi. Speravo che ci
fosse un posto migliore dove farsi la doccia della baracca dove c'era
Sam.
Cas si tirò su a sedere. "Un posto c'è," replicò, poi si alzò e mi fece segno di seguirlo.
Lanciai un'ultima occhiata a
Sam attraverso la porta quando passai di fronte alla sua stanza.
Salutai con un cenno la ragazza di colore che il giorno prima ci aveva
aperto la porta, che ora era seduta nel piccolo salotto, poi seguii Cas
fuori dall'abitazione.
Mentre zampettavo con le
stampelle nel fango, la gamba iniziò a implorare pietà.
Non prendevo antidolorifici da parecchie ore e ora la mia pessima
decisione di non andare in infermeria dava i suoi frutti. Ma avevo solo
bisogno di una doccia, di tornare da Sam per qualche ora, e poi avrei
affrontato di nuovo Doc.
Cas si fermò davanti ad
una bassa abitazione di legno scuro, molto più ben fatta
rispetto alla fila di case che avevo appena lasciato. Aprì la
porta - che non era chiusa a chiave - e mi fece segno di entrare.
Anche all'interno le pareti
erano ricoperte di assi di legno come all'esterno. Un tavolo quadrato
con qualche sedia spaiata occupava lo spazio sulla sinistra, mentre
sulla destra un angolo cottura con un fornello a gas dava l'impressione
di essere poco utilizzato. C'era addirittura un divano a due posti.
Niente TV, ovviamente.
Tutto sommato, non era male come sistemazione.
Mi voltai verso Cas, che era entrato chiudendo la porta. "Questa è mia?" domandai.
"Sì, anche se
ultimamente ci passo molto tempo anche io," rispose. Il mio sguardo
doveva spiegare la mia confusione, perché socchiuse gli occhi e
mormorò: "Dovrò spiegarti anche questo. Ma prima vai a
darti una ripulita."
A quanto sembrava erano molte le cose su cui io e Cas dovevamo parlare.
"Il bagno è di
là," disse, indicando un minuscolo corridoio con due porte.
"Sulla destra. Gli asciugamani puliti sono sotto il lavandino."
Mi trascinai nel bagno,
poi chiusi la porta. Posai le stampelle in un angolo, poi mi guardai
allo specchio, reggendomi al lavandino. Riconobbi a stento l'immagine
riflessa. La barba di qualche giorno copriva le mie guance e la mia
pelle aveva un colore che sfiorava il blu. Delle macchie scure
segnavano i miei occhi e residui di sangue mi incrostavano ancora la
faccia.
Il mio sguardo si
abbassò sul lavandino e notai che nel bicchiere c'erano due
spazzolini. Quel dettaglio attirò la mia attenzione in modo
inaspettato. Sentivo che le cose erano più complicate di quello
che credevo. Per un attimo quel particolare fece apparire delle
immagini nella mia mente, ma non sapevo dire se fossero frammenti di
ricordi o se la ferita alla testa si stesse prendendo gioco di me,
mostrandomi immagini di cui non ero mai stato testimone.
Castiel che rideva, e la
stanza si illuminava. Castiel nudo sotto la doccia, che si accorgeva di
me e si fingeva imbarazzato. Castiel steso sul letto, il lenzuolo che
copriva gentilmente il suo corpo.
Scossi la testa, eliminando
quelle immagini dalla mia testa. Un'erezione mi aveva sorpreso e
premeva contro il tessuto dei pantaloni. Respirai a fondo, cercando di
calmarmi, poi mi spogliai lentamente e mi infilai sotto la doccia,
sperando di lavarmi di dosso lo spiraglio di felicità che per un
attimo si era insinuato nella mia mente.
Note dell'autrice
Lo so, di nuovo in ritardo, ma come avevo previsto la mia ispirazione
aveva dato forfait e mi sono ritrovata davanti al pc con le mani ferme
sulla tastiera e lo sguardo vacuo perché di idee ne avevo
proprio zero.
Ma alla fine un capitolo è saltato fuori lo stesso! Ora
però sono sicura che si ripeterà tutto il processo, che
inizierà con un vuoto di ispirazione per poi pian piano e con
fatica farmi scrivere qualche riga ogni tanto. Il problema è che
l'inizio dell'università è alle porte e avrò poco
tempo per scrivere (questa estate è durata proprio tre secondi),
ma spero di riuscire a scrivere qualcosina ogni tanto.
Ditemi cosa pensate riguardo il capitolo, ci ho messo millanta anni a
scriverlo perché temevo che le reazioni di Dean e le sue
conversazioni con Cas potessero suonare OOC quindi ho pensato cento
volte a cosa fargli dire.
A proposito, cosa sarà mai successo a Sam? Perché si trova ancora in coma? Rimanete con me e lo saprete! xD
Al prossimo capitolo! se ancora avete voglia di seguire la mia storia nonostante la mia pigrizia
|
Ritorna all'indice
Questa storia è archiviata su: EFP /viewstory.php?sid=2517902
|