Who Wrote Holden Caulfield?

di _Connie
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Rejected ***
Capitolo 2: *** In Debt ***
Capitolo 3: *** Mugiwara Club ***
Capitolo 4: *** Welcome To The Mugiwara Club! ***
Capitolo 5: *** All We Are Is Broken Glass ***
Capitolo 6: *** The Catcher In The Rye ***
Capitolo 7: *** Heart Attack ***
Capitolo 8: *** This House Is Not A Home ***
Capitolo 9: *** The Thin Ice ***
Capitolo 10: *** Cooks, Snobs And Punks. ***
Capitolo 11: *** You Are Insane ***
Capitolo 12: *** Have I Told You Lately That I Love You? ***
Capitolo 13: *** Do I Wanna Know? – Parte I ***



Capitolo 1
*** Rejected ***


{ Capitolo 1: Rejected }
 

 

«I'm the son of rage and love, the Jesus of Suburbia
From the bible of none of the above on a steady diet of
Soda pop and Ritalin,no one ever died for my sins in hell
As far as I can tell at least the ones I got away with
And there's nothing wrong with me
 This is how I'm supposed to be
In a land of make believe»

 
«…That don't believe in me*.» La voce di Zoro rimbombò tra le pareti della sua stanza, tappezzate di vari poster di Metallica, AC/DC, NOFX, Ramones, Rancid, Clash, Misfits e Green Day. La canzone che stava ascoltando, steso sul letto e con il volume delle cuffie al massimo, era proprio di questi ultimi: Jesus of Suburbia, sicuramente una delle sue preferite. La sua vita era un po' come quella di Jimmy di American Idiot: incasinata fino al midollo. Suo padre, un alcolizzato, aveva finalmente lasciato in pace lui e sua madre andandosene via di casa quando lui aveva soli dieci anni, così sua madre era stata costretta a passare da un lavoro part-time all'altro per mantenere entrambi. Fin da quando aveva quindici anni, ne aveva avuti anche lui diversi per non far gravare tutta la responsabilità su di lei e diventare indipendente, ma facendo così era stato costretto ad abbandonare la via del kendo, che era stata la sua più grande passione – la sua vita – fin da quando era piccolo.
Girò la testa in direzione delle sue tre katane, abbandonate in un angolo della stanza: sembrava quasi che lo stessero chiamando, che lo stessero esortando a riprenderle in mano e a riutilizzarle. Ma non aveva abbastanza soldi né per rimetterle a nuovo – erano di seconda mano, e gli anni si stavano facendo sentire – né per pagarsi i corsi di kendo. Scosse la testa, nel vano tentativo di non pensare alla sua vita da rifiuto della società.
Era stato bocciato ben tre volte nell'istituto superiore che frequentava, dove avevano trovato finalmente una buona scusa per espellerlo quando lo avevano beccato nel bagno intento a fumarsi una canna. Non che ne fumasse molte, anzi: per lui, fare uso di droghe – qualsiasi tipo di droghe – significava essere deboli, e lui non era un debole. Ma, dannazione, certe volte sentiva il bisogno impellente di evadere dalla realtà, così ogni tanto una canna se la concedeva. E se questo era riuscito a farlo espellere, tanto meglio: era felice di non dover più frequentare quella scuola di fighetti, che gli lanciavano occhiatacce impaurite o schifate ogni qual volta che passava per i corridoi con la sua maglietta sgualcita dei Ramones, i suoi tre orecchini all'orecchio sinistro e i suoi capelli completamente rasati, se si escludeva la cresta verde al centro – il colore naturale dei suoi capelli, strano a dirsi – che sfidava le leggi della gravità.
Sua madre, naturalmente, non ne era stata altrettanto felice, e litigavano animatamente ogni qual volta si toccava l'argomento “cosa diavolo ne sarà del tuo futuro”. Per quanto gli riguardava, lei era l'ultima persona al mondo che poteva permettersi di rimproverarlo per una cosa del genere, dato che viveva in una topaia, a quasi quarant'anni non aveva ancora nemmeno un posto fisso, suo marito l'aveva lasciata senza un soldo e tutti i suoi nuovi fidanzati si rivelavano sempre dei gran stronzi.
Però doveva ammettere che aveva ragione. Non aveva la minima idea di cosa ne sarebbe stato del suo futuro, vista la società marcia in cui viveva, ma una cosa era certa: vedeva solo un baratro buio e senza fondo quando ci pensava.
Scosse di nuovo la testa, questa volta per mettere fine a tutti quei pensieri autocommiserativi, e spense il suo MP3. Era ora di andare a lavoro.
 
 
*Sono figlio della rabbia e dell'amore / il Gesù della Periferia / dalla Bibbia di nulla di ciò che c'è scritto sopra / che fa una dieta regolare di bevande gasate e ritalin / Mai nessuno è morto per colpa dei miei peccati commessi all'inferno / per quanto ne sappia / almeno quelli che nessuno ha mai scoperto / Ma non c'è nulla di sbagliato con me / è così che dovrei essere / in una terra di persone che fanno finta di essere ciò che non sono / che non credono in me.
 
[Angolo dell’autrice]
Facendo la semplice somma ZoSan + Il giovane Holden + Green Day è uscita fuori questa AU. Sì, loro sono i miei tre grandi amori. u_u
Il titolo della fic è preso da una canzone dei GD (Who Wrote Holden Caulfield?, per l’appunto) da cui è partita tutta l’idea su cui si basa questa AU, mentre Rejected è una canzone dei Rancid. Non sarà né la prima né l’ultima volta che farò il nome di qualche canzone in questa fic, perciò metterò dei collegamenti con cui potrete ascoltarle, se volete.
Ho sempre immaginato che Zoro, nel nostro universo, sarebbe stato un punk/metallaro, ed eccolo qui, infatti. XD Il suo aspetto è esattamente quello di Zoromichi in School Time, uno dei Teatrini di Oda. ^^
Posterò più o meno ogni una-due settimane, quindi non dovrete attendere molto (anche perché molti capitoli sono già finiti). u_u
Be’, alla prossima! ;)

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Capitolo 2
*** In Debt ***


{ Capitolo 2: In Debt }

 

Zoro scese di corsa dall’autobus, col fiatone. Dannazione, era mai possibile che sbagliasse sempre linea e si perdesse ogni santissima volta che doveva andare a lavoro? Era almeno la quarta volta che arrivava in ritardo, quella settimana.
Si mise a correre per qualche decina di metri, prima di fermarsi davanti ad un pub ed entrarci, cercando di dare nell’occhio il meno possibile.
Il Chiper Pol n.9 o, come lo chiamavano tutti, CP9, era un pub frequentato soprattutto da punk – e questo era sicuramente uno dei motivi per cui fosse stato assunto nonostante la sua cresta improbabile. Si trovava in periferia ed era abbastanza grande e molto conosciuto in quegli ambienti. L’interno non era un granché, ma anche solo il fatto che spesso alcune band emergenti si esibivano sul piccolo palco al centro della sala riusciva ad attirare parecchia gente.
Il posto e l’ambiente gli piacevano, e in più il suo orario di lavoro era dalle undici di mattina fino alle cinque del pomeriggio, il che aiutava molto visto che la mattina presto non riuscivano a svegliarlo manco le cannonate – tanto che una volta era stato bocciato proprio per le sue troppe assenze dovute a questo suo problema –; in più la paga era abbastanza buona, quindi non si poteva lamentare. L’unica cosa che proprio non sopportava era il proprietario, Lucci. Sperava solo di non incontrarlo in quel momento, altrimenti si sarebbe incazzato come una bestia nel vederlo arrivare per l’ennesima volta in ritardo.
«Roronoa, dove diavolo stai cercando di andare?»
Ecco, appunto.
Si girò verso il punto da cui proveniva la voce con tutta la calma del mondo, esclamando un «'giorno, capo» come se nulla fosse.
Lucci, vestito con la solita maglietta bianca in contrasto con le bretelle nere dei pantaloni e col solito cappello a cilindro, nero anch'esso, lo fissava con uno sguardo truce. L'unica cosa che stonava con quell'aria austera che non lo abbandonava mai era il suo fedelissimo piccione, Hattori, che se ne stava sempre appollaiato sulla sua spalla e gli conferiva un’aria quasi… buffa.
«Non è un po’ troppo tardi per presentarsi a lavoro?» chiese Lucci, con tono sarcastico.
«Beh, ecco…» Zoro portò nervosamente una mano a grattarsi i capelli dietro la nuca. Accidenti, non aveva la minima idea di come fare per togliersi dai guai, questa volta.
Stava per provare ad inventarsi una qualsiasi scusa plausibile, quando qualcun altro si intromise nel discorso, prendendo le sue difese.
«Dai, Lucci, in fondo sono solo dieci minuti, non è la fine del mondo!»
Nonostante fosse ateo, ringraziò mentalmente qualunque dio lassù gli avesse concesso la grazia di far arrivare in suo aiuto la sua ancora di salvezza: Kaku. Era una specie di vice-capo lì, nonostante avesse soli ventitré anni – ma tutti dicevano che sembrava molto più vecchio della sua effettiva età, forse per via della sua aria particolarmente matura. Era più grande di Zoro di sei anni, ma tra di loro si era instaurato un rapporto di simpatia e rispetto reciproco fin da subito.
Fortunatamente per lui, Kaku era anche la persona che Lucci prendeva più in considerazione e di cui più si fidava, quindi non gli ci volle molto per farlo calmare e fargli chiudere un occhio per il suo ritardo. Quando l’altro si fu allontanato abbastanza, Kaku si lasciò andare a un sospiro di rassegnazione. «È mai possibile che debba sempre pararti il culo, Zoro?» disse, girandosi nella sua direzione.
Zoro ridacchiò. «Ti devo un altro favore, Kaku.»
«Nessun problema» rispose quello ammiccando, per poi dirigersi nella stessa direzione in cui si era diretto Lucci.
L’altro si diresse invece verso la stanza del personale, dove si preparò e indossò il grembiule da cameriere. Era pronto per un’altra giornata di lavoro.
 

«Rufy, si può sapere dove diavolo mi hai portata?!»
Quell’urlo fece voltare Zoro, che aveva appena finito di prendere le ordinazioni di due tizi pieni zeppi di piercing e tatuaggi, verso l’ingresso del ristorante. Una ragazza dai capelli arancioni e corti fino alla spalla aveva appena mollato un pugno in testa al ragazzo che l’accompagnava, e aveva anche un’aria piuttosto irritata.
«Tu questo me lo chiami “bel posticino”?» urlò di nuovo, esasperata. «E io che pensavo che saremmo andati in qualche ristorante del centro…»
«Su, Nami, non te la prendere!» tentò di calmarla il ragazzo, che portava stranamente un cappello di paglia in testa. «Ho sentito dire che fanno del  cibo squisito, qui!»
L’altra sembrava sul punto di avere una vera e propria crisi di nervi. «Ma certo, tu pensi prima al cibo e poi alla tua ragazza! Ma che parlo a fare, tanto sei un cocciuto di prima categoria…» Sospirò, rassegnata. «D’accordo, mangeremo qui, però devi promettermi che offrirai tu!»
Il ragazzo dal cappello di paglia ridacchiò, quasi si fosse già aspettato quella reazione. «Ok, lo prometto!»
Mentre Zoro li vedeva prendere posto ad un tavolo per due, pensò che fossero una delle coppie più strane e litigiose che avesse mai visto.
Si avvicinò al loro tavolo, prese le ordinazioni e un po’ sorpreso  – quel ragazzo, Rufy, aveva ordinato una quantità di cibo che sarebbe bastata a sfamare almeno venti persone! – le portò al cuoco, Blueno.
Quando portò loro quello che avevano preso, il ragazzo dal cappello di paglia ingurgitò tutto – ma proprio tutto, anche il cibo della sua ragazza – in pochi minuti, lasciando Zoro ancora di più di stucco. Al mondo esistevano persone proprio bizzarre, davvero.
Intanto mise su un vassoio i due boccali di birra ghiacciata che avevano invece chiesto due tatuati, e si avviò verso il loro tavolo.
Peccato, però, che un ragazzino coi capelli tinti di rosso fuoco, per fare il figo davanti ai suoi amici, ebbe la brillante idea di fargli uno sgambetto. Il vassoio volò per qualche metro, insieme ai boccali e al loro contenuto, mentre Zoro cadde rovinosamente a terra.
Iniziò a pulsargli un’enorme vena in fronte e, come avvolto da un’aura omicida, si alzò e afferrò per il colletto l’artefice di quello scherzo.
«Oi, stronzo, cerchi rogne?» gli disse, col tono di voce più intimidatorio che possedeva. Quel moccioso l’aveva fatto veramente incazzare.
Il ragazzino perse di colpo tutta la sua spavalderia, facendosi bianco come un lenzuolo dalla paura e cercando di divincolarsi, inutilmente.
Zoro gli avrebbe anche mollato un cazzotto in pieno volto, se solo non avesse avvertito la presenza di un qualche pericolo alle sue spalle.
«Ehi, tu, come pensi di riparare questo guaio, eh?!»
Si voltò di scatto. Nel farlo, però, si distrasse, facendo scappare il ragazzino e il suo gruppetto di amici a gambe levate dal pub. Ma Zoro se ne dimenticò completamente, vista la gravità della situazione che gli si presentava davanti. Quella ragazza, Nami, era bagnata fradicia dalla testa ai piedi di quella che si sarebbe detta birra, e aveva gli occhi iniettati di sangue puntati su di lui. Oh, merda.
«Ti rendi minimamente conto di quanto mi sia costata questa camicia?! Me l’hai completamente rovinata! E guarda i miei poveri capelli!»
La strega – sì, un soprannome del genere le calzava a pennello – iniziò un interminabile elenco dei danni subiti, tra fisici, psicologici e, soprattutto, economici. Diavolo, a sentirla si sarebbe potuto dire che le avesse fatto un danno irreparabile, altro che bagnata con un po’ di birra.
«Quindi» finì, «pretendo che tu mi paghi almeno il prezzo dei vestiti!»
«Cosa?!» esclamò l’altro. Cazzo, il suo stipendio e quello di sua madre bastavano a malapena ad arrivare a fine mese, figurarsi se poteva sopportare una spesa del genere!
Le cose non potevano andare peggio di così.
«Non ci penso nemmeno» replicò, infatti. «E’ solo un po’ di birra, quante storie!»
«Questo lo dici tu.» Il sorrisetto che le spuntò in faccia non gli piacque proprio per niente. «Ma cosa ne direbbe il tuo capo
Ecco, quella strega poteva fare in modo che le cose andassero peggio di così eccome. Lucci già si lamentava di lui anche fin troppo spesso, se poi fosse venuto a sapere quello che aveva combinato, l'avrebbe licenziato in un istante. In più tutto il casino che stavano facendo aveva iniziato ad attirare l'attenzione degli altri clienti e, cosa ben peggiore, quella degli altri camerieri, Jabura e Kumadori – senza contare Fukuro, la persona più pettegola che si sia mai vista sulla faccia della terra. Una volta, scherzando, Kaku gli disse che probabilmente nemmeno chiudendogli la bocca con una cerniera si riuscirebbe a tappargliela definitivamente. Ed era perfettamente d’accordo con lui.
«Ok, d’accordo» sibilò Zoro, consapevole di non avere altra scelta. «Ma non ho soldi con me, ora»
«Non c’è problema» disse quella, con la faccia di chi ha appena ottenuto ciò che voleva. Dio, quanto gli dava sui nervi. «Domani sera puoi passare al club e portarmeli.»
Al club? Di che diavolo stava parlando?
«Ah» continuò, come se si fosse improvvisamente ricordata una cosa di vitale importanza. «Sono 30.000 berry*, tondi tondi.♥»
Zoro deglutì. 30.000 berry. 30.000 berry. I suoi risparmi non erano sufficienti, e quella strega li pretendeva per il giorno dopo! Come diavolo avrebbe fatto?!
«Forza, Rufy. Paga, ché ce ne andiamo.»
Quel Rufy, che invece aveva tutta l’aria di essersi divertito un mondo in quegli ultimi cinque minuti, andò alla cassa e pagò il conto a Califa – la ragazza che si occupava della contabilità. Prima di andarsene con la sua ragazza, che lo stava aspettando all’uscita, si avvicinò a Zoro, il quale stava ancora pensando all’enorme debito che gli era stato addossato.
«Mi dispiace che Nami ti abbia costretto a pagarle i vestiti. Ma non è una cattiva ragazza, davvero» disse, mantenendosi il cappello di paglia con una mano. Doveva essere un gesto che gli veniva in modo molto naturale, dato che gliel’aveva visto fare più di una volta. «Senti, domani vieni al club prima delle sette, così ti posso dare io i soldi senza che se ne accorga.»
Questo lasciò Zoro di sasso. Gli voleva dare lui i 30.000 berry per la ragazza? Ma lo stava prendendo per il culo o cosa?
«Mi raccomando, non dopo le sette, altrimenti ti ritroverai veramente nei guai. Il posto è questo indicato sul bigliettino.»
Tirò fuori dalla tasca del pantalone un piccolo biglietto bianco e glielo porse, prima di correre verso l’uscita del pub dove Nami si era messa a sbraitare sul fatto che spariva sempre da qualche parte o giù di lì.
Zoro li guardò allontanarsi, prima di posare lo sguardo sul biglietto. Sopra c’era una piccola mappa e un indirizzo, seguito dal nome del posto.
«Mugiwara… Club?»

 

*Ho preferito usare i berry come moneta per mantenere l’anonimità e la generalità del luogo in cui la fic è ambientata.

[Angolo dell’autrice]
Io adoro la Lucci/Kaku. Può anche non sembrare, ma io la adoro. E un accennino(ino-ino XD) ci voleva per forza. ù_ù
In questo capitolo c’è un po’ l’antefatto di tutta la vicenda, quindi stiamo entrando nella trama vera e propria. Non ho altro da dire, se non di farmi sapere che ne pensate e cavolo, amo alla follia Zoro versione punk/metallaro! *-*
Alla prossima! ^^

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Capitolo 3
*** Mugiwara Club ***


{ Capitolo 3: Mugiwara Club }

 

Zoro si tolse il grembiule, si aggiustò i capelli allo specchio con un po’ di gel – aveva sempre un po’ di gel con sé per mantenere la cresta a posto – e uscì dal retro del CP9. Il suo turno era finalmente finito, non ne poteva più. Quella era stata proprio una giornata nera – peggiore di quella del giorno prima, quando aveva rovesciato la birra addosso a quella ragazza, Nami.
Quella mattina, quando si era svegliato, era andato mezzo addormentato in cucina per fare colazione. In altre parole: voleva tracannarsi una birra di primo mattino. Per i più sarebbe stato come ricevere un pugno nello stomaco e non solo, ma Zoro non aveva mai avuto problemi a bere alcolici, non importava a che ora o quanto bevesse.
Una volta arrivato in cucina – cucina, poi. Prendete un vecchio forno con un paio di piastre di cottura, un frigorifero, qualche mensola, un mobiletto dove mettere qualche pentola e qualche stoviglia, un tavolo con un paio di sedie e mettete tutto in una stanza microscopica: ecco, quella era la sua cucina. Una volta arrivato in cucina, quindi, si diresse subito verso il frigorifero, ma si bloccò. Su di esso, spiccava un foglio di block-notes giallo.
Zoro già sapeva cosa ci avrebbe trovato scritto. Già lo sapeva, eppure leggere quelle poche righe in cui sua madre lo avvisava che sarebbe stata assente per un po’ – per un po’, diavolo! – lo fece comunque andare in bestia. Ogni tanto spariva sempre da qualche parte, probabilmente con il suo nuovo fidanzato di turno, e non la vedeva per almeno una settimana o due. Poi, chissà come, ricordava finalmente di avere un figlio e una casa a cui badare, così ritornava. Il più delle volte dopo essersi lasciata col fidanzato, però.
Gli passò improvvisamente la voglia di birra, si mise i primi vestiti che gli capitarono tra le mani, afferrò MP3 e cuffie e uscì di casa sbattendo la porta alle sue spalle e imprecando. Per tutto il viaggio in autobus per arrivare al CP9 non fece altro che ascoltare i Metallica. Le loro canzoni erano quelle che più riuscivano a fargli sfogare i nervi.
Anche quel giorno, naturalmente, era arrivato tardi a lavoro. Però questa volta una bella cazziata da parte di Lucci non gliela aveva tolta nessuno.
Senza contare il fatto che, ora che il suo turno era finito, doveva andare in quel cavolo di Mugiwara Club per pagare i presunti danni che quella Nami aveva subito a causa sua il giorno prima. La giornata perfetta, insomma.
Tirò fuori dalla tasca il biglietto che gli aveva dato Rufy, dove c’era scritto l’indirizzo del club. Non doveva trovarsi molto lontano dal CP9. In una mezz’oretta sarebbe riuscito sicuramente a trovarlo.

Le ultime parole famose. Tra una linea d’autobus sbagliata e stradine senza via d’uscita spuntate da chissà dove, era già un miracolo se era riuscito ad arrivare nel posto indicato in poco meno di un paio d’ore. Lui e il suo senso dell’orientamento del cazzo.
Si guardò in giro per un po’, non del tutto sicuro di essere arrivato nel posto giusto. Davanti a lui c’era un vecchio palazzo a due piani, uno di quelli così vecchi che non gli avresti dato un altro mese di vita. Dato che non c’era neanche l’ombra di un qualcosa che potesse lontanamente assomigliare ad un club, stava per andarsene, quando sentì improvvisamente qualcuno che lo chiamava.
«Ehi, tu! Dove stai andando? Sono qui!»
Girandosi, vide che quel qualcuno era lo stesso ragazzo che il giorno prima gli aveva dato il biglietto e si era offerto di dargli i soldi che doveva alla sua ragazza: Rufy. Si trovava dentro il piccolo vialetto che separava il cancello dal portone d’ingresso del palazzo e stava armeggiando con un mazzo di chiavi, probabilmente per trovare quella che apriva il cancello.
«Ehi!» rispose Zoro. «Tu sei Rufy, giusto? Si può sapere perché diavolo mi hai fatto venire qui?»
«Per darti i soldi per Nami, mi sembra ovvio! Piuttosto, perché ci hai messo tanto? A momenti arriverà e ci scoprirà!»
Finalmente trovò la chiave giusta e lo fece entrare, afferrandogli poi il braccio senza tanti complimenti e trascinandolo verso il retro del palazzo. Un vero ciclone quel ragazzo, non c’è che dire.
Arrivati sul retro, Rufy arrestò finalmente la loro corsa. Zoro notò che c’era una piccola scalinata che portava nel piano sotterraneo del palazzo. Sopra la porta che portava all’interno capeggiava un’insegna abbastanza grande con su scritto “Mugiwara Club”. Rufy girò il pomello, spinse la porta e la aprì.

Entrare nel Mugiwara Club era come essere catapultati in un altro mondo. L’ambiente era piuttosto grande, formato da un’unica stanza – non contando quelle che dovevano essere un bagno e una piccola cucina – ed era pieno zeppo di oggetti. Le pareti di calcestruzzo bianche erano decorate con quadri e foto varie, le lampadine pendevano dal soffitto senza protezione e c’erano mobili antichi e vecchi oggetti ovunque e di tutti i tipi: piccole statuette, specchi antichi, cassapanche e scrivanie tarlate erano messe al fianco di tavoli e sedie da poker, divani e poltrone fatte con jeans riciclati e cianfrusaglie varie. Sembrava quasi di trovarsi in un negozio d’antiquariato e di oggetti usati.
Zoro notò subito di non essere l’unico, a parte Rufy, a trovarsi lì. Un ragazzo con i capelli lunghi e ricci e con il naso più lungo che avesse mai visto – sembrava la versione rasta di Pinocchio, davvero – stava costruendo uno strano aggeggio di dubbio utilizzo con un altro ragazzino, che non doveva avere più di sedici anni. Quest’ultimo aveva dei capelli azzurri che per colore facevano concorrenza ai suoi e, cosa che lo fece accigliare non poco, non indossava pantaloni. Aveva solo le mutande, cazzo!
Accanto a loro, un uomo, che doveva avere poco più di trent’anni e che sembrava Slash vestito con abiti d’epoca, strimpellava qualche nota su un violino, accompagnando il tutto con qualche “Yohohoho”. Ma che era, L’isola del tesoro* o cosa? Era la risata più strana che avesse mai sentito.
Dall’altro lato della stanza, seduta su una di quelle poltroncine fatte coi jeans, c’era invece una ragazza, anche lei sui sedici anni, completamente immersa nella lettura di un libro – preso con ogni probabilità dalla libreria che si trovava al suo fianco. Aveva gli occhi nocciola nascosti dietro un paio di occhiali da lettura, mentre i capelli neri erano raccolti in una coda che lasciava però ricadere la frangetta sulla fronte. Era così concentrata sul suo libro che sembrava non fare caso a tutto il casino che stavano facendo gli altri tre.
Quando Rufy sbatté la porta alle sue spalle con tutta la forza che aveva, però, si girarono tutti verso di lui, sorridendogli. Si accorsero solo in un secondo momento della sua presenza – che doveva comunque spiccare abbastanza, visto che non era da tutti i giorni ritrovarsi improvvisamente nel proprio club un tizio mai visto prima con una cresta spaventosa e con borchie dappertutto.
«Rufy, e lui chi è?» chiese infatti il nasone, con un’aria un po’ spaventata. Il ragazzo in mutande aveva alzato il sopracciglio, un po’ stupito, imitato poi dallo pseudo-Slash, mentre la ragazza interruppe la sua lettura e iniziò a fissarlo con occhi curiosi e indagatori.
Ecco, lo sapeva. Ogni volta che qualcuno lo vedeva rimaneva impaurito o schifato dal suo aspetto e dalla sua aria da punk e non gli si avvicinava neanche morto, manco avesse la lebbra o che altro. Ma ormai s’era abituato a quell’atteggiamento di superiorità che avevano certi fighetti nei suoi confronti. Un bel “vaffanculo” e tutto si risolveva, in fondo.
«Lui è Zoro, ma per ora non importa! Dov’è la cassaforte, piuttosto?»
La ragazza gli indicò un punto in un angolo della stanza e Rufy si fiondò subito in quella direzione.
Mentre quello metteva a soqquadro tutto ciò che gli capitava tra le mani nella disperata ricerca della cassaforte, Zoro sentì qualcosa che si stava fastidiosamente strusciando vicino alle sue gambe. Abbassando lo sguardo, notò che quel qualcosa era un gatto marrone. Sembrava averlo preso in simpatia, tanto che iniziò a fare le fusa e a tentare di arrampicarsi su di lui.
Non gli risultava che gli animali avessero mai fatto i salti di gioia per la sua presenza, quindi si accigliò non poco. Lo afferrò per la collottola e se lo portò davanti al viso, per fissarlo meglio negli occhi. Nel farlo, però, notò che aveva il naso di colore… blu?!
«Oi, tu, che razza di naso ti ritrovi?» gli chiese, sfiorandoglielo con l’altra mano.
Di tutta risposta il micio, a causa del solletico che gli aveva procurato quel gesto, gli starnutì in faccia. Cominciò poi a divincolarsi, evidentemente infastidito dal modo in cui Zoro l’aveva afferrato. Quest’ultimo lo lasciò andare, ma, invece di allontanarsi, il gatto gli saltò addosso, tanto che Zoro fu costretto ad afferrarlo con un braccio per non farlo cadere. Uno strano micio davvero. Rispecchiava a pieno i suoi padroni, però.
«Super! Chopper ti ha preso subito in simpatia. Non capita molto spesso, sai?»
A parlare era stato il tizio coi capelli azzurri, che ora gli stava mostrando un sorriso divertito. «Davvero, è rarissimo che si affezioni ad una persona. Sai, a causa di quel naso blu era visto male da tutti e nessuno si curava di lui.»
Allora siamo in due, pensò Zoro, mentre iniziava ad accarezzare leggermente il capo di Chopper.
«Poi un giorno ha incontrato Rufy e… pouf! Ecco che diventa la mascotte del nostro club!» Ora anche quel ragazzo stava accarezzando Chopper, il quale sembrava gradire, viste le fusa che stava facendo. Poi gli tese improvvisamente la mano, sorridendogli sinceramente. «Comunque, il mio nome è Cutty Flam, ma tutti mi chiamano Franky. Piacere!»
Zoro abbassò lo sguardo su quella mano, un po’ sorpreso e titubante. Ma poi gliela strinse con forza, rispondendogli «Zoro» ed accennando un sorriso – o meglio, un ghigno. Per qualche motivo, i suoi sorrisi erano da sempre stati più simili a ghigni che altro.
«Zoro, eh? Yohohoho! Io invece mi chiamo Brook, mentre il ragazzo che prima tremava dalla fifa è Usopp!»
«Ehi! N-non è vero che avevo paura!» ribatté l’altro, con il tono di voce di chi ha avuto effettivamente paura.
«Dai, non fare l’idiota! Non mangia mica!»
Usopp lo stette a guardare per un’altra manciata di secondi, cercando probabilmente di auto-convincersi del fatto che non avesse con sé alcuna pistola e che comunque non avesse l’abitudine di andare in giro a far del male alla gente. Zoro ne aveva conosciuti di fifoni, ma non a questi livelli.
Alla fine, sebbene ancora un po’ intimorito – anche se cercava in tutti i modi di non darlo a vedere –, gli tese una mano. «U-usopp, p-piacere.»
Zoro strinse anche la sua, e l’altro sembrò decisamente più rilassato.
«Solo una cosa» gli bisbigliò Franky all’orecchio, lanciando qualche occhiata alla ragazza seduta sul divano. «Quella lì è Robin ed è la mia super-ragazza, quindi non pensare nemmeno di provarci, chiaro?»
«Non preoccuparti Franky, tanto non sono interessata a lui.»
Senza nemmeno staccare gli occhi dal libro, Robin disse quelle parole come se riuscire a sentire da quella distanza una persona parlare con una voce così bassa per lei fosse una cosa normalissima. Poi, mentre le guance di Franky diventavano di un rosso pomodoro, alzò lo sguardo, lo puntò su Zoro e gli sorrise dolcemente. «Comunque, io sono Robin. Piacere.» Com’era prevedibile, non gli diede nemmeno il tempo di risponderle con un cenno di saluto che subito tornò ad addentrarsi tra le pagine del suo libro.
«L’ho trovata! Ho trovato la cassaforte!»
La voce di Rufy attirò l’attenzione di tutti, che infatti si voltarono nella sua direzione. Aveva tra le mani una cassaforte abbastanza piccola, ma Zoro sarebbe stato pronto a giurare che pesava molto più di quel che sembrava. Si chiese da dove diavolo avesse tirato fuori tutta quella forza.
Sorridendo soddisfatto, come se avesse appena compiuto un’impresa titanica, Rufy si precipitò subito verso il tavolo e vi poggiò sopra la cassaforte. Stette qualche secondo a tentare di ricordare la password – era una di quelle casseforti con la password numerica – prima di digitare velocemente qualche numero. La lucina da rossa diventò verde e, dopo un sonoro click, finalmente si aprì.
Zoro non aveva mai visto tanti berry tutti insieme in vita sua. Non che in realtà ne avesse visti molti, ma quella lì dentro era davvero una bella somma. Come diavolo faceva un club del genere ad avere così tanti soldi?!
Rufy afferrò qualche banconota, le contò e infine gliele diede, sorridendogli. «Ecco qui, 30.000 berry tondi tondi.»
Zoro rimase immobile, non sapendo che cosa fare. Ora che quel ragazzo gli stava effettivamente dando quei soldi – cosa di cui aveva seriamente dubitato fino a pochi minuti prima –, non se la sentiva di prenderli. Insomma, nonostante quella Nami avesse esagerato, era pur vero che era per causa sua se si era ritrovata bagnata fradicia di birra. E poi chi era lui per farsi dare una tale somma di denaro da quel ragazzo? Non lo conosceva nemmeno! Gli sembrava di fargli un vero e proprio torto, accettandoli.
Mentre Zoro era ancora lì titubante, l’ultima persona che avrebbe voluto vedere in quel momento aprì la porta del Club e vi fece il suo ingresso. 

 

*Non so se conoscete la canzone del libro L’isola del tesoro, ma per chi non la conoscesse Oda si è ispirato ad essa per la risata di Brook e il Sake di Binks: “Quindici uomini sulla cassa del morto, yo-ho-ho! E una bottiglia di rum! Il vino e il diavolo hanno fatto il resto, yo-ho-ho! E una bottiglia di rum!”.

[Angolo dell’autrice]
Bene bene! Come potete notare, Zoro ha finalmente conosciuto (quasi) tutti i membri del Mugiwara Club. L’aspetto di quest’ultimo non l’ho inventato di sana pianta come potreste pensare, ma è ispirato a quello di un club che io frequento. È identico, solo che quello “reale” è formato da più stanze. E francamente lo adoro.♥
Comunque, non ho voglia di parlare dei miei fatti. u_u Commentate e fatemi sapere che ne pensate! :)
P.S. Chopper-gatto è un amore! *-*

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Capitolo 4
*** Welcome To The Mugiwara Club! ***


{ Capitolo 4: Welcome To The Mugiwara Club! }
 
 
«Rufy, che diavolo stai facendo?!»
Ecco, era fregato. Fottutamente e definitivamente fregato.
Nami, che era appena entrata nel Club, stava guardando Rufy e i berry che aveva in mano con occhi infuocati. Aveva proprio l’aria di essere una tipa molto attaccata al denaro.
«Perché diavolo hai quei soldi in mano? E come hai osato aprire la cassaforte?»
Si stava avvicinando a passo di carica a Rufy, probabilmente per mollargli un sonoro pugno in testa. Che fu proprio quello che fece, infatti.
«Su, Nami! Non te la prendere!» disse Usopp, nel vano tentativo di calmarla.
«Certo che me la prendo! Se non ci fossi io, questo qui sarebbe già andato in bancarotta da un pezzo» ribatté Nami, tirando con una mano la guancia di Rufy e indicandolo con l’altra. «Anche se è ricco sfondato, non può prendere i soldi alla leggera.»
Aspetta… Cosa?! Ricco sfondato? Quello lì?
«Nami, veramente questi sono i 30.000 berry che ti doveva Zoro.» Rufy iniziò a fischiettare in un modo che, nei suoi intenti, sarebbe dovuto sembrare quanto meno naturale. In realtà si vedeva da un chilometro di distanza che stava sudando freddo. Faceva proprio schifo a mentire.
Nami si voltò verso Zoro con aria sorpresa. Probabilmente non l’aveva nemmeno notato, intenta com’era a sbraitare contro il suo fidanzato.
«Oh, quindi sei venuto.» Ora lo stava guardando con uno sguardo inviperito che sembrava dire “fuori i soldi e sei libero di andare”. Come strozzina avrebbe fatto sicuramente carriera, pensò.
«Quindi i 30.000 berry che ha in mano Rufy sarebbero i tuoi?» Ora nel suo tono di voce c’era una certa quantità di scettiscismo: effettivamente era piuttosto difficile credere che uno come lui non solo avesse i soldi che le doveva, ma che addirittura glieli avesse già portati. Continuò a spostare il suo sguardo da Rufy a Zoro con un sopracciglio inarcato, quasi a cercare di trovare una prova che confermasse i suoi (fondati) dubbi. Alla fine si lasciò andare a un sospiro di rassegnazione, afferrò i soldi e se li mise in tasca. «Non mi interessa se questi soldi sono effettivamente tuoi o se Rufy ne ha fatta un’altra delle sue, l’importante è essere stata rimborsata.» Detto ciò, gli sorrise e aggiunse: «Comunque io sono Nami, piacere.» 
Zoro fu piuttosto stupito da quel cambio improvviso d’atteggiamento, ma forse quella ragazza diventava insopportabile solamente – o quasi – quando si parlava di soldi. Un cenno col capo e un «Zoro» gli sembrarono più che sufficienti come presentazione.
«Bene, io vado alla scrivania a studiare meteorologia, quindi non disturbatemi!» Dopo che Nami ebbe preso un tomo enorme dalla libreria ed ebbe iniziato per l’appunto a studiare, Rufy si voltò verso Zoro con un sorriso trionfante e poi chiuse la cassaforte, rimettendola dove l’aveva trovata, mentre gli altri membri del Mugiwara Club tornarono ognuno alle proprie attività. 
Zoro stava per andare a ringraziare di nuovo Rufy – ancora non riusciva a pensare a come avrebbe fatto a togliersi dai guai senza il suo aiuto – e a togliere il disturbo, quando gli balzò agli occhi un’oggetto che se ne stava appoggiato in un angolo della stanza: una spada. Si avvicinò ad essa, la prese tra le mani e la osservò ammirato: era davvero di buona fattura, e il fatto che non fosse molto pesante avrebbe permesso al suo utilizzatore di essere piuttosto agile e rapido nei movimenti. L’unica cosa strana era l’impugnatura. Stranamente, assomigliava a quella di un bastone o di un ombrello.
«Yohohoh! Per caso te ne intendi di spade?»
Brook gli era apparso di fronte all’improvviso, facendogli fare un salto grande quanto una casa e prendere un mezzo infarto. Al contrario, quello se la rideva divertito continuando a ripetergli «Just a Joke*!». L’avrebbe preso molto volentieri a schiaffi, in quel momento.
«Sì, me ne intendo abbastanza» gli rispose, inarcando un sopracciglio. «Perché me lo chiedi?»
L’altro lo guardò, tornando a ridere di nuovo. «C’era una specie di scintillio nei tuoi occhi mentre la osservavi. O sbaglio?» 
Diavolo, era vero. Quando si trattava di spade non riusciva proprio a trattenersi e, come diceva sua madre, «diventava felice come una pasqua». Era davvero così facile leggerglielo in faccia?
«Comunque questa è la mia spada» gli spiegò Brook, mentre se la riprendeva e la riponeva in una fodera: ora aveva tutta l’aria di un vero e proprio bastone!
«Sei uno spadaccino?!» Zoro era rimasto scioccato. Non avrebbe mai pensato che una persona del genere potesse essere uno spadaccino.
«Uno schermidore, per la precisione. Però, sì, mi diletto nell’arte della spada. Anche tu sei uno spadaccino, per caso?» 
Quella domanda lasciò Zoro di sasso. Erano anni che qualcuno non lo chiamava “spadaccino”.
«Beh, sì. Più o meno…» L’espressione di Brook era piuttosto scettica, così si affrettò a spiegarsi meglio. «È da un sacco di tempo che non uso le spade, e in più le mie sono in pessime condizioni.»
«Allora non c’è problema, te le riparo io!»
A Zoro venne il secondo infarto della giornata appena si ritrovò improvvisamente anche Rufy di fronte. Lo facevano apposta o cosa?!
«In che senso “te le riparo io”? Non credi di star spendendo un po’ troppi soldi per me, tu?» Se anche fosse stato vero il fatto che quel ragazzo era ricco sfondato, non se la sentiva di approfittarsi così della sua gentilezza.
«Non preoccuparti, mio nonno è capo della polizia qui, quindi non ho questo genere di problemi.»
Oh, cazzo. Non stava mica parlando di Monkey D. Garp, uno degli uomini più potenti e influenti della città, vero? Vero?
«Tu sei un Monkey D.?! Sul serio?»
L’altro iniziò a scaccolarsi come se nulla fosse. «Perché, non te l’avevo detto?» gli rispose candidamente, piegando la testa di lato. Ecco un’altra persona che avrebbe preso volentieri a schiaffi in quel momento.
«Veramente no» rispose infatti Zoro, nel tentativo di capire come diavolo faceva quel ragazzo a essere un membro di una famiglia così rinomata.
«Va be’, ora lo sai. Le spade te le posso riparare io, ma ad una condizione: devi entrare a far parte del mio club!» Alla vista del sorriso sincero e dell’entusiasmo di Rufy, Zoro si prese una manciata di secondi per riflettere. Ogni volta che vedeva le sue amate spade abbandonate in un angolo della stanza, gli veniva nostalgia dei vecchi tempi: quelli del dojo, degli allenamenti, dei combattimenti contro Kuina…
Scosse il capo. Non aveva nessuna intenzione di diventare un nostalgico e di vivere nel passato. Doveva guardare al futuro. E il futuro gli si era presentato improvvisamente davanti agli occhi sotto forma di un cappello di paglia.
«D’accordo, accetto.» disse infine, allungandogli una mano. «Se tu riparerai le mie spade, io entrerò a far parte del tuo club.»
Rufy osservò la sua mano, ridacchiò con gusto e gliela strinse. «Ok, affare fatto! Benvenuto nel Mugiwara Club!»
 
 
*Ovviamente, essendo in questa AU in carne ed ossa, far dire a Brook il suo classico Skull Joke non avrebbe avuto senso, quindi l’ho modificato in Just a Joke.
 
[Angolo dell’autrice]
Questo è un po’ un capitolo di passaggio, ma anche no. Voglio dire, è piuttosto scemo e le uniche cose degne di nota sono il rimborso di Nami e l’entrata di Zoro nel club. Uhm, forse allora così scemo non è. 
Lasciatemi perdere, mi faccio troppi problemi XD
Fatemi sapere che ne pensate e, per chi lo sta aspettando, nel prossimo capitolo farà la sua entrata in scena Sanji! :D

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Capitolo 5
*** All We Are Is Broken Glass ***


{ Capitolo 5: All We Are Is Broken Glass }

 
 
«E per Zoro: hip hip, hurrà!»
Quando quella mattina si era svegliato – senza, ovviamente, trovare ancora alcuna traccia di sua madre in casa – ed era andato a lavoro, non avrebbe mai pensato che, una volta entrato nel Mugiwara Club con le sue spade, si sarebbe ritrovato investito da una pioggia di coriandoli e stelle filanti.
Imprecò, sentendosi alcuni coriandoli tra i capelli. Merda, ci sarebbero volute ore perché si togliessero tutti.
«Ma che diavolo sta succedendo?» sbottò, inarcando un sopracciglio. Inarcava sopracciglia a tutto spiano, lui.
Tutti i membri del club avevano un enorme sorriso stampato in faccia e l’aria di chi ha una voglia matta di fare festa, soprattutto Rufy. Persino Robin gli stava sorridendo divertita.
«Ieri non ci hai dato nemmeno il tempo di apprendere la notizia da Rufy che tu già te ne eri andato via! Perciò oggi abbiamo deciso di farti una piccola sorpresa» disse Franky, ridendo compiaciuto. «T’è piaciuta la nostra accoglienza? Tutto merito del super lancia-coriandoli che abbiamo progettato e costruito io e Usopp questa mattina!»
«Figo, vero?» aggiunse il nasone, sinceramente fiero della loro opera. Mentre quello continuava ad auto-elogiarsi – dicendo cose del tipo “è tutto merito della mia vasta esperienza” o giù di lì –, Zoro finalmente notò l’aggeggio che lo aveva ricoperto di coriandoli: rimase molto sorpreso dall’abilità che avevano quei due di costruire macchine del genere. Erano davvero bravi.
«Uffa, Sanji non si è fatto vedere neanche oggi!» si lamentò Rufy, con un’aria a metà tra la stizzita e la delusa. «Volevo una torta per la festa!»
«Yohoho, su, non ti abbattere! Prima o poi si rifarà vivo.»
Zoro stava per chiedere chi fosse questo Sanji di cui stavano parlando, ma non fece in tempo nemmeno ad aprire la bocca che Rufy urlò con tutto il fiato che aveva in corpo: «Qui ci vuole un brindisi!», fiondandosi verso il tavolo che si trovava al centro della sala dove si trovavano una dozzina di lattine di birra. Furono tutti d’accordo con lui, compreso Zoro, allettato dalla prospettiva di scolarsene finalmente una dopo una giornata di lavoro al CP9.
Una volta che ognuno di loro ebbe tra le mani una lattina, le fecero cozzare l’una con l’altra contemporaneamente. Rufy poi urlò: «Al nostro nuovo amico Zoro! Alla salute!» e gli altri gli fecero da eco ripetendo «alla salute!», mentre Brook contornava il tutto con la sua solita risata. Zoro, però, rimase immobile, con le pupille leggermente dilatate dallo stupore.
Amico.
In tutta la sua vita, lui non era mai stato amico di nessuno. Eccezion fatta per Kuina, ovviamente, ma il cancro se l’era portata via troppo presto affinché ricordasse le giornate passate con lei: ricordava vagamente qualche loro scontro con le spade – in cui lui perdeva sempre – e che le aveva voluto bene sul serio. Ma forse fu proprio a causa di quel trauma che iniziò a chiudersi in se stesso – a costruire il Muro, come avrebbero detto i Pink Floyd – non permettendo a nessun altro di avvicinarsi a lui. E ora quel ragazzo dal cappello di paglia, che lo conosceva sì e no da tre giorni, lo considerava già un amico. E con lui anche gli altri membri del Mugiwara Club.
«Ah, Zoro, prima che lo dimentichi!»
Zoro si riscosse dai propri pensieri non appena sentì la voce di Rufy che lo chiamava. «Lascia le tue spade a me, le porterò da uno spadaio di mia conoscenza: si chiama Ipponmatsu ed è veramente in gamba. D’accordo?»
L’altro riuscì a malapena a rispondere con un misero «ok» che quello subito tornò a far casino con Usopp e Franky, sotto lo sguardo divertito di Robin.
Zoro si sedette sul divano, dove aveva precedentemente preso posto anche Nami, intenta a tracannarsi la terza birra senza mostrare il minimo segno di cedimento. Era senz’altro una buona bevitrice.
Una volta preso posto accanto a lei, si mise ad osservare le stupidaggini che Rufy stava facendo, tirando poi un sospiro di rassegnazione. «Una sola domanda: perché?»
Nami si girò verso di lui, sorpresa da quella domanda che le era stata improvvisamente posta. Poi sospirò anch’ella, facendo spallucce. «Non ne ho la minima idea. Non so mai cosa frulli per la testa di Rufy, nonostante io sia la sua fidanzata e tutto.» Si voltò poi verso l’oggetto del loro discorso, e sorrise sinceramente. «Ma lui è fatto così, che ci puoi fare. Aiuta chiunque, indistintamente. Tutti, qui dentro, hanno un passato non proprio roseo alle loro spalle, qualcosa che li impedisce, al di fuori di queste quattro mura, di ridere, di divertirsi, di fare ciò che vogliono e di realizzare i propri sogni. Si sentivano un po’ come del vetro rotto, caduto per terra. Poi, un giorno, Rufy entra nelle loro vite senza preavviso, come un vero e proprio ciclone, e in qualche modo raccoglie da terra quei frammenti, li rimette insieme, li salva dall’oblio in cui erano caduti senza chiedere nulla in cambio. Lui è fatto così.»
Nami aveva uno sguardo perso nel vuoto mentre pronunciava quelle parole, lo stesso sguardo che hanno le persone quando riaffiora nella loro mente un qualche ricordo che si sperava dimenticato. Ma il tutto durò solo pochi istanti, perché tornò subito a osservare Rufy e a sorridere.
In quel momento, Zoro si rese improvvisamente conto di essere appena stato raccolto da terra.
 
«Certo che Chopper si è proprio affezionato a te, eh?»
Era questa la frase che chiunque, lì dentro, continuava a ripetergli ogni volta che lo vedevano con quel gatto in braccio, intento ad accarezzarlo. Ma non era mica colpa sua se, dopo essersi svegliato e averlo notato – per tutto il tempo della piccola festicciola, infatti, Chopper se ne era stato beatamente a dormire nella sua cuccetta –, quello si era messo a seguirlo ovunque, continuando a miagolare per fargli capire di voler essere coccolato. Di solito non si affezionava agli animali, ma quel micio gli era per qualche ragione simpatico e perciò lo prendeva volentieri in braccio e lo accarezzava, proprio come in quel momento.
Non avendo nulla da fare, visto che ormai se ne erano andati quasi tutti via ed erano rimasti solo Rufy e Nami – Usopp e Brook avevano da fare, mentre con ogni probabilità Franky e Robin si erano dati appuntamento da qualche parte –, si era messo ad esplorare un po’ il Club: oltre alla “sala grande”, piena di cianfrusaglie varie, c’erano altri due ambienti decisamente più piccoli. Uno era il bagno, mentre l’altro conteneva una piccola cucina, che ad occhio e croce sembrava molto attrezzata e anche utilizzata, visto che non c’era alcuna traccia di polvere. Ma fino a quel momento non aveva ancora visto nessuno dei Mugiwara entrare lì dentro. Che strano, pensò.
Continuando il suo giro di perlustrazione, e soffermandosi in particolare su una delle librerie del club, notò con sorpresa che non conteneva solo libri.
CD. Intere file di CD degli album e degli artisti più disparati: Elvis, Jimi Hendrix, Clash, Metallica, AC/DC, Black Sabbath, Beatles, Red Hot Chili Peppers, Nirvana, Bad Religion, David Bowie, Bruce Springsteen, Rolling Stones, Ramones, Pink Floyd, Deep Purple, Doors, Genesis, Guns ‘n’ Roses, U2, Led Zeppelin… Oh, c’era persino Rock N Roll Animal di Lou Reed!
Alla vista di tutti quegli album e di tutti quei nomi che avevano fatto la storia della musica, un brivido di eccitazione attraversò la spina dorsale di Zoro, facendogli venire la pelle d’oca.
«Rufy… Dove diavolo hai trovato tutti questi album?»
Rufy, che se ne stava steso sul divano in panciolle, si girò verso di lui e, con voce annoiata, gli rispose: «Stavano a casa mia, ma nessuno li usava, così li ho portati qui. Non ricordo perché ce li avessi, però.»
Ecco, tipico di Rufy: non ricordava mai nulla. Anche se nemmeno lui scherzava, eh.
Senza neanche pensarci due volte, afferrò il CD di Lou Reed, lo inserì nello stereo lì vicino e si lasciò prendere dall’intramontabile Sweet Jane. Persino a Rufy e Nami, sebbene inizialmente fossero rimasti un po’ stupiti, sembrava piacere quella canzone, tanto che continuavano a battere il piede a tempo o a tamburellare le dita sul tavolo. Era nel bel mezzo dell’assolo iniziale di chitarra, quando una voce mai sentita prima si intromise, spezzando l’atmosfera appena creatasi.
«Che diavolo è ‘sto rumore?»
A Zoro iniziò a pulsare minacciosamente una vena sulla fronte.
Rumore. Qualcuno aveva appena osato definire Sweet Jane “rumore”. Non sapeva chi fosse stato e non gliene fregava un accidente: si sarebbe ritrovato in ogni caso con qualche dente in meno, quella sera.
Poggiò Chopper sul pavimento, lasciandolo libero di scorrazzare per il club, e si voltò di scatto e con uno sguardo incazzato verso colui che aveva appena pronunciato quella che, alle sue orecchie, era paragonabile ad una vera e propria blasfemia.
Di fronte a lui c’era un diciottenne che aveva tutta l’aria di essere uno di quei ricconi con la puzza sotto il naso: alto più o meno come lui, capelli biondi, ciuffo perfettamente in ordine a coprire il suo occhio sinistro, vestito con quelli che – era palese – erano abiti griffati di una qualche marca costosissima e, soprattutto, un sopracciglio a ricciolo. Mai visto in vita sua un sopracciglio più strano di quello, parola d’onore.
«Oi, tu, rimangiati quello che hai appena detto.» Zoro lo disse col tono più intimidatorio che conosceva, ma tutto ciò che fece l’altro fu quello di squadrarlo da capo a piedi, sollevare accigliato un sopracciglio e chiedere a Rufy: «Perché c’è un punkabbestia nel club?»
Ora lo stava seriamente facendo incazzare.
«Sanji, eccoti, finalmente!» Nami si alzò dal divano e lo salutò con un sorriso. Quindi era quello il famoso Sanji di poco fa.
«Il nostro cuoco! È tornato il nostro cuoco!» Rufy invece gli saltò letteralmente addosso, facendogli quasi perdere l’equilibrio. «Sono giorni che non ti fai vedere. Cos’è successo?»
«Sai, le solite cose» la buttò lui sul vago, staccandosi  Rufy di dosso – che intanto stava iniziando a reclamare cibo a gran voce – e piroettando, letteralmente, in direzione di Nami. Una volta inginocchiatosi davanti a lei, iniziò a lodare il suo viso, i suoi occhi, i suoi capelli, il suo corpo… Una vera e propria dichiarazione, insomma, solo che né Nami né tantomeno Rufy gli parvero dar peso. Anzi: la ragazza, a un certo punto, per toglierselo dai piedi, gli chiese di preparargli un dolce e quello, come uno schiavetto, si precipitò in cucina a prepararglielo, non prima di essersi acceso una sigaretta.
Non solo quel tizio non capiva una mazza di musica, l’aveva chiamato “punkabbestia”, era un figlio di papà e faceva il cascamorto: fumava pure! E lui odiava la puzza di sigaretta.
Non lo conosceva nemmeno da un minuto, ma già sentiva di odiarlo, quel Sanji.
 
 
[Angolo dell’autrice]
*sbava sulla libreria piena di album del MC insieme a Zoro* Un sogno che si avvera *Q* *si ricompone*
Con questo capitolo so di aver fatto contenti molti di voi. Insomma, appare Sanji (finalmente)! :D
Io ce lo vedo troppo bene in queste vesti: un damerino viziato. Sì, esattamente come Zoro è un perfetto punk/metallaro. U_U Ma forse il personaggio di Sanji è un po’ troppo scontato (almeno per ora), dato che spesso nelle AU è un ricco/nobile. Ma la trama che mi è uscita fuori questa è, adattatevi. u_u
Un paio di cosette: il titolo è una frase della canzone Broken Glass dei Three Days Grace, che mi ha ispirata nello scrivere la piccola scena tra Zoro e Nami, il parallelismo con l’album The Wall dei Pink Floyd mi è venuto automatico e al posto di Zoro avrei già mollato un pugno in faccia a Sanji da un pezzo. Sweet Jane non si tocca! è_é *la buttano in mare*
Alla prossima! :3

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Capitolo 6
*** The Catcher In The Rye ***


{ Capitolo 6: The Catcher In The Rye }
 
 
Zoro aveva quasi dimenticato cosa si provasse.
La tensione che sale poco prima di uno scontro, il clangore del metallo che si scontra con altro metallo, l’adrenalina che scorre nelle vene, la stanchezza e la soddisfazione provate dopo ore di allenamento: aveva quasi dimenticato cosa si provasse ad essere uno spadaccino.
Quando, qualche ora prima, Rufy gli aveva riportato indietro le sue amate spade come nuove – quel fabbro era stato abilissimo nel fargli un lavoro del genere in pochi giorni –, a Zoro era sembrato che gli avesse riportato indietro un pezzo della sua vita andato ormai perduto. Brook aveva notato subito la sua impazienza nel volerle provare, così lo aveva invitato ad allenarsi con lui, nonostante utilizzassero tecniche molto diverse – erano l’uno un kendoka e l’altro uno schermidore, dopotutto. I due si erano sistemati fuori, nel piccolo cortile, e si erano posizionati l’uno di fronte all’altro. Il venticello fresco che tirava era piuttosto gradito, dato che il caldo dell’estate si faceva ancora sentire, ma portava già con sé tracce dell’autunno imminente. 
Nell’esatto momento in cui Zoro aveva sfilato le sue tre spade dai loro foderi, una scarica d’adrenalina lo aveva attraversato dalla testa ai piedi. Si era sentito come rinato. Perché, in fondo, era sempre stata quella la ragione della sua vita: combattere. Che fosse un combattimento con le spade o uno scontro contro Lucci per convincerlo ad aumentargli la paga a causa delle bollette sempre più salate, non era importante. L’intera vita è una battaglia: era questa, per certi versi, la sua filosofia di vita.
Quella sera, dopo anni, si era sentito di nuovo vivo.
 
«Wow, Zoro, sei fortissimo!»
Il breve scontro tra i due spadaccini aveva attirato l’attenzione degli altri membri del club, che infatti si erano subito precipitati fuori a fare da spettatori. Era uscito persino il cuoco, ribattezzato ufficialmente da Zoro “Torciglio” per via del suo sopracciglio a ricciolo. Di tutta risposta, l’altro continuava a chiamarlo “Punkarimo” o semplicemente “Marimo”, a causa del colore dei suoi capelli. Zoro non sapeva se l’amore a prima vista esisteva davvero o se era una semplice credenza popolare al pari delle leggende metropolitane, ma una cosa era certa: con quel damerino lì, aveva potuto appurare che l’odio a prima vista esisteva eccome, e anche l’altro pareva pensarla come lui. Tant’è vero che in quei pochi giorni non avevano fatto altro che litigare per ogni idiozia, arrivando persino a darsele di santa ragione. All’inizio gli altri avevano tentato di dividerli e di farli ragionare, ma poi, visto che continuavano a comportarsi come cane e gatto, avevano abbandonato l’idea, decidendo di lasciarli fare. 
«Non pensavo fossi così bravo» disse Usopp, sinceramente impressionato dall’abilità con cui Zoro avesse tenuto testa a Brook, dato che lì nessuno osava mettere in dubbio le doti da schermidore del musicista.
Lo spadaccino prese uno degli asciugamani che Franky aveva portato fuori per loro due e se lo passò dietro la nuca – facendo attenzione a non rovinarsi i capelli – e sul collo, per poi appoggiarlo sulle spalle. «In realtà sono piuttosto arrugginito» rispose con un po’ di fiatone. Un tempo non si sarebbe stancato così facilmente.
«Se ti allenassi, arriveresti a degli ottimi livelli, allora» disse Robin, serafica come sempre.
«E sia!» Rufy alzò le braccia in aria con un sorriso stampato in faccia, e quando lo faceva significava solo una cosa: idea (pseudo) geniale in arrivo.
Si precipitò dentro senza aggiungere altro e, dopo aver messo sotto sopra ogni angolo del club – travolgendo perfino il povero Chopper, che aveva avuto la sfortuna di trovarsi nelle sue vicinanze –, tornò fuori portando con sé uno scatolone enorme. Una volta poggiatolo per terra, lo aprì, e Zoro si sorprese per la seconda volta da quando l’aveva conosciuto dell’enorme forza di quel ragazzo: dentro c’erano un bel po’ di pesi, da manubri abbastanza leggeri ad altri decisamente più pesanti. «Ecco qua, questi sono tutti per te!»
Zoro li guardò meglio: nonostante fossero stati rinchiusi in una scatola, sui pesi c’era comunque della polvere, segno che nessun membro club li aveva mai utilizzati. Almeno fino a quel giorno.
«Per una volta Rufy ha avuto una buona idea» assentì Nami, incrociando le braccia al petto. «Quei pesi erano solo d’impiccio, almeno ora non rimarranno più inutilizzati. Potresti fare del cortile una specie di tua palestra personale.»
«Yohohoh! E dire che tu volevi per forza venderli! Per fortuna Rufy ha insistito nel non fartelo fare.»
«Già, peccato che ripeteva sempre “Prima o poi li userò io”… E poi correva ad ingozzarsi con i manicaretti di Sanji» sospirò Nami, affranta.
«Ad ogni modo, quella della palestra personale mi sembra un’ottima idea» disse Franky, riportando il discorso sull’idea avuta da Nami. «Brook è sempre disponibile quando si tratta di allenarsi, una panchina per riposarsi c’è – anche se mezza scassata –, i pesi ci sono… Allora, che ne dici?»
Tutti tenevano i propri sguardi puntati su Zoro in attesa di una sua risposta, che non tardò ad arrivare: «Certo che mi va bene!»
Ancora non riusciva a crederci: avrebbe ripreso la via della spada. Sarebbe tornato ad allenarsi, a combattere con le sue amate spade. E tutto grazie a quel club e a quel cappello di paglia.
Sembravano tutti felici per lui, forse perché, in fondo, anche loro avevano capito quanto fosse importante per Zoro essere uno spadaccino. Tutti, tranne il torciglio.
«Secondo me non riusciresti nemmeno a fare dieci sollevamenti, marimo» lo stuzzicò infatti quello, con fare provocatorio.
Una vena iniziò a pulsare sulla fronte dello spadaccino. «Oi, damerino, cerchi rogne? Pensa a te, che con quel corpo così mingherlino è già un miracolo se riesci a camminare.»
Non fece neppure in tempo a finire la frase, che il cuoco gli diede un calcio dritto nello stomaco. Fortunatamente Zoro aveva fatto in tempo a bloccarlo con una mano, ma doveva ammettere che era davvero potente, a dispetto delle apparenze. Entrambi puntarono il proprio sguardo sull’altro, guardandosi in cagnesco.
«Adesso non ricominciate, però!» L’ammonizione di Nami fu inutile: i due iniziarono ad azzuffarsi per la quarta volta della giornata.
 
Zoro si stava ancora massaggiando il lato della testa che gli doleva. Quel giorno aveva imparato un’importante lezione che gli avrebbe permesso di sopravvivere in quel club: mai far arrabbiare Nami, per nessun motivo. I suoi pugni potevano essere micidiali.
Dato che quel giorno aveva fatto decisamente più tardi del solito, stava per andar via dal club e tornare a casa, quando un oggetto poggiato sul tavolino accanto a Robin – che, ovviamente, stava leggendo – catturò la sua attenzione. Si avvicinò e lo prese tra le mani: sì, era proprio Il giovane Holden
Lui non amava leggere, non lo faceva mai – tant’è vero che i libri che aveva letto in tutta la sua vita si potevano contare sulle dita di un’unica mano –, ma per quel romanzo avrebbe fatto volentieri un’eccezione. Una volta aveva letto di sfuggita la trama da qualche parte e gli era sempre rimasto in testa. In più si erano aggiunti i Green Day, che con la loro Who Wrote Holden Caulfield? – una delle sue preferite – gli avevano definitivamente messo la pulce nell’orecchio.
«Per caso lo vuoi leggere?»
La voce di Robin lo fece trasalire. Se ne stava ancora seduta sulla sua poltrona preferita, fatta di jeans strappati, e lo stava osservando attentamente, con un sorriso gentile a incresparle le labbra. Zoro si sentì un po’ a disagio: sembrava quasi che lo stesse studiando, e che si stesse anche divertendo molto nel farlo.
«Sembri un cane che sta guardando una bistecca» aggiunse lei, ridacchiando. 
Zoro arrossì leggermente. Quella ragazza riusciva sempre a spiazzarlo. «Ecco, veramente…» farfugliò, incapace di chiederle di prestargli Il giovane Holden – dato che i libri, per Robin, erano dei veri e propri tesori – e iniziando a grattarsi i capelli dietro la nuca. Quando era nervoso o imbarazzato, si grattava sempre dietro la nuca.
A quel fare, Robin sorrise divertita. Era davvero bizzarro vedere un ragazzo del genere, con quell’aria da duro, diventare così impacciato per un motivo così futile. «Se vuoi te lo posso prestare, tanto l’ho già letto» gli disse, leggendogli nella mente. «E credo proprio che ti piacerà.»
Lo spadaccino rimase sorpreso da quelle parole, ma si affrettò comunque a ringraziarla per la sua gentilezza. E forse doveva averlo fatto in un modo un po’ goffo perché, mentre usciva dal club col libro sotto braccio, nonostante fosse di spalle, fu sicuro che Robin avesse iniziato a ridacchiare. 
 
Mentre apriva il portone del palazzo, Zoro spense il suo MP3 – non prima che Fear Of The Dark degli Iron Maiden fosse finita, naturalmente –, salì le scale, inserì la chiave nella toppa, la girò ed entrò in casa. Fece solo pochi passi lungo il corridoio prima di accorgersi di non essere solo. E Zoro aveva già una mezza idea sulla possibile identità dell’intruso.
Dalla cucina proveniva silenzio, rotto ogni tanto da qualche singhiozzo. Zoro si diresse nella direzione da cui proveniva quel rumore, e lì trovò esattamente la persona che aveva immaginato di trovarvi: sua madre. Era una donna bionda, sulla quarantina o poco meno, ma la vita e i suoi brutti scherzi avevano fatto in modo che il suo aspetto ne dimostrasse decisamente di più. Se ne stava seduta su una sedia vicino al tavolo, con i gomiti poggiati su di esso e gli occhi rossi e gonfi di chi ha pianto per un pezzo.
Appena sentì dei passi avvicinarsi a lei, si voltò. «Zoro…» soffiò. Fu tutto quello che riuscì a dire.
Trascorse qualche secondo di completo silenzio, poi lei si alzò, si avvicinò al figlio e gli mollò uno schiaffo in pieno viso. «Si può sapere dove sei stato, eh?!» gli urlò addosso, come se non fosse stata lei a sparire per tutto quel tempo. «Mi hai fatto preoccupare!» 
Zoro si massaggiò la guancia che sua madre gli aveva appena colpito. Sta’ calmo, si disse. È ancora scossa perché il solito stronzo di turno l’ha prima usata e poi l’ha lasciata. Mantieni la calma.
Si voltò verso di lei e puntò dritto nei suoi occhi il proprio sguardo, duro.
Sua madre dapprima smise di urlare, cominciando a respirare pesantemente, ma poi non ce la fece più. Abbracciò improvvisamente Zoro e iniziò a piangere e a soffocare i suoi urli liberatori sulla sua spalla. L’altro, di rimando, si lasciò sfuggire un sospiro affranto, prima di iniziare ad accarezzarle i capelli per cercare di calmarla e di consolarla.
Non poteva dire di amare alla follia sua madre, ma le voleva comunque bene. Quando la vedeva in quello stato, gli veniva sempre una voglia matta di scovare il suo pseudo ex-fidanzato di turno ovunque si trovasse e mollargli un pugno in faccia con tutta la forza che aveva. E certe volte, se li incontrava per strada, effettivamente lo faceva. 
Stettero così per qualche minuto, in silenzio, poi sua madre si staccò dall’abbraccio. Aveva gli occhi più rossi di prima, ma almeno si era sfogata.
«Grazie, Zoro» gli disse col migliore sorriso che poté sfoggiare in quel momento. Gli accarezzò leggermente i capelli dietro la nuca e si diresse verso la sua camera da letto, evidentemente distrutta.
 
«Looks like he left you
Without a trace
Tears falling out of your eyes
He's living in a disguise.
Why Do You Want Him?
 
Era inutile. Ogni volta che succedeva qualcosa del genere, a Zoro veniva sempre in mente quella canzone.
 
 
*Sembra che ti abbia lasciata / Senza lasciare traccia / Ti scendono le lacrime dagli occhi / Lui sta vivendo nell'inganno / [...] / Perché vuoi lui?
 
 
[Angolo dell’autrice]
Sì, so cosa state pensando. Zoro che legge un libro di sua spontanea volontà?! WTF?!
Ed effettivamente lo penso anch’io. ò_ò 
No, dai, a parte gli scherzi: Il giovane Holden è il libro che fa per Zoro (almeno per quello di questa AU). Se mi sono rispecchiata io nel personaggio di Holden, figuratevi lui. U_U E poi è da questo libro che è partita tutta la storia, quindi farglielo leggere è il minimo. Ma non è che lo legge e basta, giusto per farglielo fare, eh: la lettura avrà le sue conseguenze, che si inizieranno a vedere già nel prossimo capitolo.
Il titolo di questo capitolo è, ovviamente, il titolo originale del romanzo, intraducibile in italiano, mentre la canzone che viene in mente a Zoro alla fine è Why Do You Want Him?, proprio perché parla di un ragazzo la cui madre continua a scegliere fidanzati sbagliati.
A proposito dell’ultima scena, non so se l’ho resa bene o meno: Zoro è troppo sdolcinato? O va bene così, dato che in fondo quella è sua madre?
Ammetto che descrivere il loro rapporto mi sta venendo difficile, proprio perché non ho la minima idea di come si potrebbe comportare Zoro se avesse una madre, quindi fatemi sapere.
Alla prossima! (che non so quando sarà; aspetterete minimo minimo altre due settimane U_U *le lanciano pomodori marci*)
P.S. Ho scritto un papiello. D: 

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Capitolo 7
*** Heart Attack ***


{ Capitolo 7: Heart Attack }

 
 
Tre giorni.
Zoro ci aveva messo esattamente tre giorni per leggere Il giovane Holden – e, naturalmente, lo aveva subito restituito a Robin, che fu piuttosto soddisfatta della sua velocità nel farlo: significava che ci aveva visto giusto, quando gli aveva detto che gli sarebbe piaciuto.
La sera, quando tornava a casa distrutto, Zoro era così stanco da addormentarsi appena si metteva a letto, perciò lo aveva letto di giorno: nell’autobus, durante le pause di lavoro, e persino tra un allenamento e l’altro al Mugiwara Club. Ovviamente quel cuoco di merda non aveva perso occasione per prenderlo per il culo, e ogni volta che lo trovava con quel libro in mano lo sfotteva dicendo che aveva le alghe al posto del cervello e che quindi non ci avrebbe capito un tubo. Tsk, che deficiente. Dopo quelle provocazioni, naturalmente, iniziavano ad azzuffarsi come al solito. Ma le loro litigate, ultimamente, erano diventate diverse da quelle dei primi giorni: non sapeva perché, ma combattere contro di lui era diventata una specie di abitudine da cui non riusciva a staccarsi – tant’è vero che spesso lo stuzzicava anche senza apparente motivo, giusto per fare volare un po’ di parole pesanti tra loro due. Forse perché quello era l’unico modo con cui due teste calde come loro riuscivano a relazionarsi. Ma rimaneva il fatto che odiava quel biondino figlio di papà.
Ad ogni modo, finì Il giovane Holden in tre giorni: un vero e proprio record, per lui.
Aveva sempre sentito dire che, a volte, i libri riuscivano a cambiare la vita di una persona. Zoro non ci aveva mai creduto: insomma, come possono delle semplici parole scritte su carta arrivare a tanto?
Solo ora si accorgeva di avere torto, e anche parecchio. Quel libro era riuscito a fargli aprire gli occhi: davvero non voleva dare alla sua vita alcuna svolta? Voleva forse rimanere in quel buco di città, far parte della massa come tutti gli altri? Sul serio non avrebbe fatto nulla per inseguire il suo sogno?
Sì, perché fin da bambino lui aveva un sogno: quello di diventare il miglior spadaccino del mondo. Era stato il suo obiettivo principale fin dal giorno della promessa fatta a Kuina poco prima che lei morisse – quella di diventare il miglior spadaccino del mondo – e per lui le promesse dovevano essere mantenute a qualsiasi costo. Ma la vita gli aveva giocato brutti scherzi, così non era stato più in grado di allenarsi, almeno fino a quando non era entrato nel Mugiwara Club. Peccato che nemmeno quello sarebbe bastato: stava indubbiamente recuperando la forma fisica di un tempo, ma lui aveva bisogno di scontrarsi con altri spadaccini, anche più forti di lui, per testare le sue capacità e migliorarsi. E non ci sarebbe di certo riuscito rimanendo in quella città.
Sì, ma come andarsene? Non era nemmeno maggiorenne, e come se non bastasse non aveva abbastanza soldi per permettersi il lusso di vivere da solo.
Si sentiva come un uccello chiuso in gabbia, smanioso di spiccare il volo.
 
Sanji si trovava nella cucina del Mugiwara Club, intento a preparare degli spuntini per gli altri. Si stava avvicinando la sera e la sua amata Robin se ne era già andata via con quel pervertito di Franky, che con ogni probabilità aveva organizzato un appuntamento da qualche parte. Dannazione, se solo pensava che quell’imbecille era riuscito a conquistare un fiore del genere, gli cadevano le braccia. In compenso nel club c’era ancora Nami, mentre Rufy era dovuto scappare via perché suo nonno l’aveva costretto con la forza a partecipare a una di quelle feste altolocate e maledettamente noiose.
Una volta finito di cucinare, controllò per l’ultima volta ciò che aveva preparato: un dolce ai mandarini per la sua adorata Nami, dei biscotti al cioccolato per Usopp e Brook e un po’ di latte e qualche croccantino per Chopper – perché, ovviamente, era lui ad occuparsi del cibo per il gatto. Affianco a quei piatti, ce n’era anche uno contenente una dozzina di onigiri: era lo spuntino di Zoro. Anzi, più che spuntino, quel piatto aveva più la funzione di una vera e propria cena, dato che quel punkarimo spendeva tutte le sue energie tra lavoro e allenamenti e con ogni probabilità, una volta tornato a casa, non mangiava nulla e andava dritto nel letto a dormire.
Glieli aveva fatti perché, in quanto cuoco, era suo compito preoccuparsi della dieta di tutti i membri del club, ecco tutto. E il fatto che gli onigiri fossero anche il piatto preferito di Zoro, beh… non c’entrava assolutamente nulla.
Mise tutto su un vassoio e si diresse nella sala principale del club. Appena lo videro, Usopp e Brook corsero verso di lui reclamando il loro cibo come se non mangiassero da secoli. I soliti idioti casinisti, pensò Sanji ridacchiando. Una volta dati loro i biscotti, il cuoco si avvicinò a Nami per portarle il dolce – e il fumo che usciva dalla sigaretta che stava fumando per poco non diventò a forma di cuore. La ragazza stava studiando per i suoi esami universitari di meteorologia e quella piccola pausa contornata da quel dolce al mandarino le fece un immenso piacere, tanto che gli regalò uno splendido sorriso. Era un angelo sceso in terra, non c’erano altre spiegazioni!
Mentre Sanji continuava a gongolare per i complimenti ricevuti dalla sua dea, si diresse verso la porta del club che portava all’esterno, la aprì e uscì fuori.
Il cuoco si strinse nel suo giacchetto: iniziava a farsi sentire il freddo di novembre. Fece un ultimo tiro dalla sigaretta ormai consumata e buttò la cicca per terra, calpestandola per spegnerla definitivamente. Alzò poi lo sguardo verso lo spadaccino e, in quell’istante, il suo cuore perse un battito.
Zoro era a torso nudo, nonostante la temperatura che si stava abbassando, e stava sollevando certi manubri di almeno cento chili ciascuno con una facilità impressionante. La sua fronte, così come il resto del suo corpo, era imperlata di sudore a causa dello sforzo prolungato e i suoi possenti pettorali risaltavano ancora di più alla luce del tramonto.
Sanji rimase lì immobile a guardarlo per una buona manciata di secondi, almeno finché il marimo non lo fece ritornare alla realtà: «Oi, che stai facendo fermo lì come uno stoccafisso?»
Al cuoco per poco non venne un colpo. Appoggiò gli onigiri su una sedia lì vicino, alzò i tacchi e se ne tornò dentro urlando: «Quelli sono per te, quindi prova a lasciarne anche solo uno e ti rompo il culo a suon di calci!», lasciando Zoro di stucco. Che diavolo gli era preso, adesso?
 
Sanji entrò nel bagno e chiuse a chiave la porta. Cercò di calmarsi, ma fu tutto inutile. Diede un pugno sul muro, in un moto di stizza – e il fatto che lui, che considerava sacre le mani, avesse mollato un pugno la diceva lunga. Si guardò allo specchio: aveva ancora un po’ di rossore sulle guance, ma fortunatamente quel marimo deficiente non se ne era accorto.
Già, il marimo: la fonte di tutti i suoi guai. Era solo colpa sua se provava un’irresistibile attrazione nello stuzzicarlo per ogni idiozia e litigare con lui; era solo colpa sua se, quando lo vedeva a torso nudo come prima, il suo cuore iniziava a battere furiosamente contro la cassa toracica; ed era solo colpa sua se si era innamorato di lui.
Nonostante lo prendesse continuamente in giro, Sanji provava una sorta di ammirazione – di invidia, in un certo senso – nei confronti di Zoro. Era un tipo indipendente, faceva tutto quello che gli passava per la testa fregandosene di tutto e di tutti, e non si faceva mettere i piedi in testa da nessuno. Ed era stato proprio a causa di questo bizzarro sentimento che Sanji aveva iniziato ad avvicinarsi allo spadaccino: dapprima si era messo a litigare e ad azzuffarsi con lui per cercare di dimostrare la sua superiorità, proprio perché provare quella specie di ammirazione nei confronti di un tipo del genere l’aveva mandato in bestia e aveva tentato in tutti i modi di convincersi che quell’odio che si dimostravano l’un l’altro fosse vero; ma poi, col passare dei giorni, si era accorto che spesso, anche senza pensarci, aveva iniziato a sfotterlo senza apparente motivo, giusto per farlo incazzare e ricominciare a litigare – stava diventando una specie di routine, quella. Era attratto continuamente da lui, senza riuscire a spiegarsi il perché. O forse ci riusciva, ma non voleva ammetterlo. Lui amava le donne, tutte le donne, solo le donne. Le venerava, in un certo senso; le metteva su un gradino più alto rispetto a tutto il resto. Ed era proprio per questo che – no – non riusciva ad accettarlo. Però, in fondo, l’aveva capito.
Si era innamorato di Zoro, e non poteva farci assolutamente nulla.
 
 
[Angolo dell’autrice]
Quant’è passato? Un mese? …Potete anche fustigarmi. Sono pronta. U_U *si ripara dal lancio di pomodori marci*
Mi scuso davvero per questo ritardo, ma sapete com’è: l’ultimo mese di scuola è sempre il più tosto e non ho avuto tempo di postare il capitolo nuovo, anche perché volevo prima finire di scrivere il capitolo 9 (cosa che manco ho fatto lol).
Comunque, fatemi sapere come al solito cosa ne pensate. Sanji è OOC? È stato un innamoramento troppo improvviso? Oppure sono io che mi faccio troppi problemi?
Alla prossima! :3

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Capitolo 8
*** This House Is Not A Home ***


{ Capitolo 8: This House Is Not A Home }
 
 
Zoro era seduto in fondo all’autobus semivuoto che lo avrebbe riportato a casa, completamente immerso nei suoi pensieri. 
Stava pensando proprio all’ultima persona sulla faccia della terra a cui avrebbe voluto pensare: il cuoco. Negli ultimi tempi, infatti, quel damerino si stava comportando in maniera molto strana: era sempre nervoso e si incazzava con lui per ogni cosa, anche la più insignificante, alla pari di una donnicciola mestruata. In più sembrava volerlo evitare in tutti i modi: ad esempio, quando gli portava gli onogiri durante le pause tra un allenamento e l’altro, li poggiava sempre da qualche parte senza nemmeno guardarlo e se ne tornava di corsa dentro al club. Oppure, se lui andava a sedersi su una poltrona accanto alla sua, il torciglio si alzava subito e si allontanava con la scusa di dover andare a cucinare o di dover fare chissà che altro. A conti fatti, insomma, la causa di questo suo strano comportamento doveva essere proprio lui, ma non riusciva a capire cosa diavolo avesse fatto o detto per scatenare una reazione del genere. 
Zoro scosse improvvisamente il capo. Diavolo, ultimamente gli capitava sempre più spesso di pensare a quello stupido cuoco: sì, in parte era sicuramente a causa di quello strano comportamento, ma sapeva – sentiva che c’era qualcos’altro sotto. Provava sempre una sensazione strana quando litigavano o più semplicemente si trovavano vicini – una sorta di calore, in un certo senso. 
Zoro si rese improvvisamente conto della direzione che stavano prendendo i suoi pensieri. No, ma neanche per scherzo. Lui provava un odio quasi viscerale per tutti i viziatelli figli di papà con la puzza sotto il naso. E quel damerino del cazzo non faceva di certo eccezione.
Per distrarsi dai suoi stessi pensieri, si ficcò gli auricolari nelle orecchie ed entrò in un altro mondo, fatto di assoli di chitarra, giri di basso e ritmi di batteria.
 
Zoro tirò fuori le chiavi di casa dalla tasca e aprì la porta, canticchiando il motivetto reggae di Jamming. Per prima cosa si diresse verso la sua camera, dove posò il borsone in cui metteva le sue katane; si cambiò – avrebbe fatto la doccia un altro giorno –, buttò MP3 e cuffiette sul letto e poi si diresse verso la cucina. Aveva una sete tremenda.
Avvicinandosi ad essa, però, sentì delle voci che prima non aveva notato. Una era sicuramente di sua madre – che stava ridendo per chissà quale battuta o fatto spiritoso –, ma Zoro non riuscì a riconoscere l’altra. Affrettò il passo: aveva un pessimo presentimento.
Le voci che prima aveva sentito ridere e scherzare, appena varcò la soglia della cucina, si zittirono immediatamente, quasi fosse apparso un fantasma.
Zoro sentì un forte odore di caffè appena fatto. Sul tavolo c’era una caffettiera molto vecchia e usata, accanto a un paio di tazzine sporche. Sua madre non faceva quasi mai il caffè – diceva che faceva invecchiare più velocemente –, dunque la cosa lo soprese non poco. Gli bastò però spostare lo sguardo alla sua destra per capire il motivo di tutte quelle cerimonie.
Un uomo. Seduto su una sedia e intento a guardarlo come si guarda un insetto, c’era un uomo sulla cinquantina, dai lineamenti latino-americani e una faccia da vero e proprio spaccone. 
Sua madre rimase esattamente dov’era, in piedi e appoggiata con la schiena al muro, sgranando gli occhi. «Non ti aspettavo così presto…» fu tutto ciò che riuscì a dire.
Adesso capiva. Solo ora, Zoro capiva la causa di tutti i recenti comportamenti strani di sua madre. Quella volta si era ripresa molto più velocemente del solito dalla rottura col suo ex, e in più si era accorto che spesso usciva di casa in piena notte, di nascosto. Quindi il prossimo che l’avrebbe sfruttata era lo stronzo che gli stava davanti, eh?
«Senti, Zoro, lui è Andrés, il mio, ehm… ragazzo» balbettò lei. Si vedeva proprio che avrebbe voluto lasciarlo all’oscuro di tutto. E lui era il suo unico figlio, cazzo! «Ci eravamo lasciati, ma abbiamo, ecco, deciso di… di tornare insieme
Per Zoro quelle ultime parole furono come una scarica elettrica. Rimase immobile, sgranando leggermente gli occhi, mentre quell’Andrés sembrava farsi beffe di lui con quel falso sorriso che gli era spuntato sulle labbra.
No, forse la colpa non era dei suoi fidanzati – tutti stronzi, dal primo all’ultimo. Forse la colpa era di sua madre.
Era lei che li andava a scegliere.
Era lei che, nonostante tutto, tornava strisciando da loro.
Era lei che lasciava che la sfruttassero, inerme.
Ed era sempre lei che non riusciva mai a dare una svolta alla sua vita, accontentandosi di tutto passivamente.
Zoro si sentì ribollire la rabbia nelle vene. 
«Vaffanculo.»
Senza neanche dare a sua madre il tempo di replicare, corse verso la sua stanza, prese un borsone e lo poggiò sul letto. Poi prese tutto ciò di cui era in possesso – qualche vestito e le sue katane, senza dimenticare l’MP3 – e lo riempì il più velocemente possibile.
Si era rotto le palle di lei, della sua vita e di quella casa – che non sentiva poi così tanto come sua. Non ne poteva più. Gli faceva schifo vedere sua madre commettere sempre gli stessi errori e poi tornare da lui piangendo, nonostante le volesse bene e tutto. Era ora di farla finita con quella storia.
Afferrò il borsone e si avviò verso la porta, più che deciso ad andarsene. A sbarrargli la strada, però, c’erano Andrés e sua madre, sul punto di piangere. «Dove credi di andare, Zoro?»
«Me ne vado di qui, che ti piaccia o no.»
«Tu non vai proprio da nessuna parte!»
 Sua madre gli si avvicinò, alzò un braccio e gli mollò uno schiaffo. 
Quella era stata davvero l’ultima goccia. Zoro si voltò verso di lei, massaggiandosi la guancia dolorante, e la guardò con rabbia. Adesso era davvero incazzato nero.
Senza dire una parola la scansò, facendola cadere per terra, e si diresse verso la porta. Davanti ad essa c’era Andrés, che sembrava avere tutta l’intenzione di non farlo passare – probabilmente per fare bella figura davanti a sua madre. Ma per Zoro non fu un grosso ostacolo da superare.
Gli mollò un pugno in piena faccia, con tutta la forza e la rabbia che aveva, tanto da farlo cadere a terra dal dolore. Probabilmente era riuscito a rompergli il naso. Tanto meglio.
Aprì la porta. Tutto ciò che disse prima di andarsene, senza neanche girarsi indietro a vedere il viso di sua madre solcato dalle lacrime – quelle stesse lacrime che Zoro le aveva visto uscire dagli occhi tante, troppe volte – fu: «Addio».
Non si fermò nemmeno quando sentì le urla che chiamavano il suo nome.
 
Era già passata una mezz’oretta da quando Zoro aveva lasciato casa sua. All’inizio si era messo a correre a perdifiato per i viottoli della città nel tentativo di far sbollire la sua rabbia, ma anche inebriandosi di quella nuova sensazione di libertà che si era impadronito di lui; ora, però, si trovava seduto su una delle tante panchine mezze rotte e piene di scritte del parco. Passato l’entusiasmo iniziale, infatti, si era reso improvvisamente conto di essere stato troppo avventato nello scappare così improvvisamente di casa.
Certo, in fondo era da sempre che voleva farlo, ma forse avrebbe dovuto organizzarsi quel minimo indispensabile prima di buttarsi per le vie della città senza neanche sapere dove andare. Ma lui era fatto così: agiva d’istinto. E l’istinto l’aveva sempre portato a fare le scelte migliori – almeno fino a quel giorno. Non aveva la più pallida idea di dove passare la notte, di dove sistemarsi, di cosa fare per il resto della sua vita.
Scosse la testa, quasi sperando che, così facendo, i problemi che stavano cominciando a farsi largo nella sua mente avessero potuto scomparire all’improvviso. 
Quello non era il momento per pensare al resto della sua vita: era il momento per pensare a dove diavolo avrebbe passato la notte, dato che il freddo iniziava a farsi sentire e il sole era ormai già calato da un pezzo. Si stava facendo tardi, e non aveva la minima intenzione di dormire su una panchina, rischiando di congelarsi.
Ma che fare, allora? Nella fretta era riuscito a mettere in borsa anche un po’ di soldi, ma sicuramente non sarebbero bastati per prendere una stanza in qualche albergo o in qualche pensione; e comunque avrebbe potuto adottare una soluzione del genere per uno, massimo due giorni: ma dopo? Come se la sarebbe cavata?
Si grattò dietro la nuca in un moto di stizza. Cazzo, non ne aveva la minima idea. Se solo avesse avuto qualcuno su cui contare…
Zoro sgranò gli occhi di colpo, iniziando a ridacchiare e a darsi al contempo dello stupido. Lui aveva qualcuno su cui contare: e quel qualcuno erano proprio i membri del Mugiwara Club. Quel posto, senza neanche accorgersene, era diventato per lui come una seconda casa – anzi, l’unico posto che avrebbe potuto chiamare veramente casa: un posto dove poter fare quel che si vuole e quando si vuole, senza la noiosa presenza di un qualche adulto che monitora ogni tua mossa – Brook era un’eccezione, ovviamente – e dove poter scappare in qualche modo dai problemi di tutti i giorni, circondato da persone che ti accettano e ti sostengono esattamente per quel che sei. Sì, era quella la sua vera casa.
Zoro si alzò di scatto dalla panchina, afferrò il borsone che aveva poggiato per terra e si mise a correre verso la fermata del bus più vicina, con l’intento di prendere l’ultimo autobus della giornata e andare al club. Fortunatamente un paio di giorni prima Rufy aveva dato ad ognuno di loro una copia della sua chiave, così avrebbero potuto andarci ogni qual volta lo desideravano. 
A quell’ora non avrebbe sicuramente trovato nessuno, ma si sarebbe comunque sistemato lì per la notte e il giorno dopo avrebbe poi spiegato la situazione agli altri. Era sicuro che Rufy sarebbe stato felicissimo di lasciargli usare il Mugiwara Club come dimora momentanea.
 
 
[Angolo dell’autrice]
Prima di parlare di questo capitolo, vorrei spendere due paroline su quello precedente. Non ho risposto a nessuno di coloro che lo hanno commentato perché preferivo fare una risposta collettiva.
Partiamo dal presupposto che, sì, ho fatto una stronzata. Mi rendo perfettamente conto che l’innamoramento di Sanji è stato troppo veloce e brusco – per non parlare della velocità con cui l’ha accettato. Me ne ero accorta pure io, ma quello che mi ha fottuta è stata la fretta. Ho intenzione di far finire questa fic in una/due loro settimane, quindi mi sono fatta per l’appunto un po’ prendere dalla fretta ed, ecco qua!, ho fatto la frittata. Sorry. U_U Davvero, cercherò di non fare più un errore così grossolano d’ora in poi. 
Passando al capitolo di oggi, spero vi sia piaciuto! È uno dei capitoli cruciali della fic, come avrete notato. Ma ora basta parlare, vi avrò fatto già addormentare per non parlare del fatto che non so più che scrivere lol. Ah, una cosa c'è: il titolo è preso da Home, una canzone che ho trovato molto appropriata :3
Fatemi sapere che ne pensate e alla prossima! :3
 
P.S. Auguri, My Pride! :D Considera questo capitolo un mio regalo di compleanno ♥

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Capitolo 9
*** The Thin Ice ***


{ Capitolo 9: The Thin Ice }


Il giorno dopo, quando Rufy e Nami entrarono nel club per prendere alcuni volumi sulla meteorologia, rimasero parecchio sorpresi nel vedere Zoro ronfare sul divano – con tanto di rivolo di saliva che gli usciva dalla bocca e un braccio penzoloni – insieme a Chopper, che invece si era comodamente sistemato sulla sua pancia. Dopo essere riusciti miracolosamente a svegliarlo – aiutati anche da un pugno ben assestato di Nami –, quello si stiracchiò e sbadigliò come se nulla fosse, alzandosi solo dopo essersela presa comoda. Zoro ci mise qualche istante a mettere a fuoco quello che gli stava davanti e si guardò intorno spaesato: perché diavolo si trovava nel club, con tanto di Rufy e Nami che lo osservavano interrogativi? 
La risposta a quella domanda gli arrivò fulminea: era scappato di casa. Ah, già.
…Cazzo.
Zoro deglutì rumorosamente. Come diavolo aveva fatto a dimenticarsene? Tutta colpa del suo cervello che di mattina non voleva proprio saperne di mettersi in moto.
Scosse un po’ la testa, per darsi finalmente una svegliata. Se ne era andato e ormai non poteva più tornare a casa sua: si era finalmente deciso ad avventurarsi sul ghiaccio sottile della vita, senza nessuno su cui fare affidamento. O forse qualcuno c’era. 
Puntò finalmente gli occhi sui suoi due amici che stavano ancora di fronte a lui, in piedi. Infine Nami parlò: «Che ci fai tu qui? Quando sei venuto?»
Nei loro sguardi non c’era né irritazione né altro: vi si leggeva solo una viva e sincera curiosità. Zoro rimase in silenzio ancora per pochi secondi, prima di sospirare pesantemente e iniziare a raccontare cosa gli era successo la sera prima.

Era andato tutto proprio come aveva immaginato.
Quando aveva confessato loro di essere scappato di casa, l’espressione di Rufy si era fatta improvvisamente seria. Zoro non l’aveva mai visto così: era troppo abituato a vederlo nelle vesti del ragazzo casinista e solare con l’eterno sorriso sulle labbra. Ma quando gli aveva chiesto se, per l’appunto, poteva avere il permesso di sistemarsi nel club ancora per qualche giorno – eccolo lì! – il sorriso era ritornato, più caloroso che mai. 
«È ovvio che puoi!» aveva risposto infatti, senza pensarci due volte. «In questo club non esiste un capo o roba del genere: il club appartiene a tutti i suoi membri, quindi puoi rimanerci quanto vuoi!»
Anche Zoro aveva sorriso leggermente, dopo aver sentito quelle parole: come aveva potuto, anche solo per un istante, aver dubitato di Rufy? Era stato davvero un idiota.
Nami, però, gli era sembrata ancora piuttosto preoccupata, nonostante le parole di Rufy l’avessero decisamente tranquillizzata. Gli si era avvicinato un altro po’, si era piegata sulle ginocchia per abbassarsi alla sua stessa altezza – dato che era rimasto seduto sul divano per tutto il tempo – e lo aveva guardato dritto negli occhi. Poi gli aveva poggiato una mano sulla spalla in segno di conforto, sorridendogli dolcemente:  
«Se, per qualsiasi motivo, avrai qualche problema, ricorda che potrai sempre contare su ognuno di noi.»
Zoro era rimasto quasi scioccato. Non avrebbe mai pensato che la perfida ed egoista Nami nascondesse in realtà un lato del genere. In quel momento le era sembrata una specie di sorella maggiore che tenta di confortare il suo fratellino*.
«…Ma, ovviamente, questo ti costerà parecchio.»
Zoro si era portato una mano alla fronte in segno di rassegnazione. Anche se, nonostante avesse fatto di tutto per impedirlo – sul viso le si leggeva chiaramente la sua caratteristica espressione da soldi, soldi, soldi –, si era capito benissimo che lo stava facendo solo per mascherare la sua preoccupazione. ‘È proprio una stupida’, aveva pensato ridacchiando.
«A proposito, Zoro» aveva poi iniziato Rufy, pensieroso. «Ma tu non dovresti essere già al CP9? Sono quasi le undici.»
Oh, merda. Si era completamente dimenticato di andare al lavoro! Con tutto quello che era successo, vedere la brutta faccia di Lucci era stato l’ultimo dei suoi pensieri, tanto che alla fine l’aveva scordato. 
Era scattato subito in piedi, si era preparato il più velocemente possibile – imprecando e maledicendo chiunque gli venisse in mente – ed era corso fuori come un razzo, salutando di sfuggita Rufy e Nami. Non aveva alcuna intenzione di sorbirsi un’altra strigliata.

Col cavolo che non si era sorbito un’altra strigliata.
Nonostante avesse tentato di entrare nel locale dal retro per passare inosservato, Lucci era riuscito lo stesso a scoprirlo – e Zoro sospettava a causa di una soffiata di quel pettegolo patentato di Fukuro. Questa volta le parole Kaku non erano bastate a calmarlo, così Lucci per punizione l’aveva costretto a lavorare in cucina con Blueno come lavapiatti. 
Zoro odiava fare il lavapiatti per Blueno. Nonostante l’aspetto imponente e minaccioso – accentuato anche da quella sua bizzarra capigliatura a forma di corna, che gli dava l’aspetto di un vero e proprio toro –, che dava l’impressione di trovarsi di fronte a un cuoco di una bettola da quattro soldi, Blueno prendeva sul serio il proprio lavoro. Per questo motivo teneva in modo particolare all’igiene e controllava costantemente chiunque avesse la sfiga di dover fare il lavapiatti nella sua cucina, incazzandosi per ogni minima macchiolina lasciata per sbaglio su un piatto. Aveva sentito dire che una volta aveva addirittura rotto un braccio al malcapitato di turno che, a detta di Blueno, «puliva i bicchieri una vera schifezza».
Comunque sia, ormai ci era dentro fino al collo, quindi tanto valeva cercare di non farlo alterare – anche perché, in caso contrario, Lucci l’avrebbe licenziato in tronco – e di mettersi al lavoro. Indossò il grembiule, si rimboccò le maniche e iniziò a pulire il primo boccale di birra, iniziando già ad irritarsi sentendo gli occhi del cuoco costantemente su di sé.

Si erano fatte ormai quasi le quattro di pomeriggio – e il locale stava finalmente iniziando a sfollarsi – quando dalla porta della cucina fece capolino Kaku.
«Ehi, Zoro» lo chiamò. «Vieni un attimo con me sul retro.»
Zoro rimase piuttosto sorpreso, dato che Kaku non lo interrompeva praticamente mai mentre lavorava, conscio del fatto che Lucci l’avrebbe poi ripreso, quindi si tolse velocemente il grembiule e lo seguì, ricevendo un’occhiataccia da Blueno. Un paio di metri prima di arrivare alla porta che dava sul retro, però, Kaku si fermò bruscamente, afferrando l’altro per un braccio. Lo guardò dritto negli occhi, e Zoro poté giurare di non averlo mai visto così serio come in quel momento. Poi Kaku sospirò profondamente. «Lì fuori c’è tua madre.»
Zoro sentì come se fosse improvvisamente comparsa una crepa sul ghiaccio sottile sul quale si trovava. Si era appena lasciato tutto alle spalle, ed ecco che i suoi problemi tornavano da lui, quasi gli si fossero artigliati addosso e non volessero lasciarlo andare per nessuna ragione.
Kaku doveva aver capito in che situazione si trovava l’altro, perché si affrettò subito ad aggiungere – dopo aver sospirato di nuovo: «Senti, Zoro: lo so che certe volte la vita può sembrare così opprimente da spingerti a cercare cambiarla, lasciandoti tutto alle spalle. In fondo l’ho fatto anch’io, decidendo di trasferirmi in questa città e di aprire questo pub insieme a Lucci.» Ci fu un attimo di pausa nel quale Kaku lasciò finalmente andare il braccio di Zoro, andando a poggiare entrambe le mani sulle sue spalle e fissandolo intensamente negli occhi. «Però, ti prego, non fare la mia stessa cazzata: non rompere per sempre i legami con tua madre. Non dico che non devi cercare di inseguire i tuoi sogni rimanendo in questo buco di città; questo mai. Ma, almeno, non lasciarla in questo modo. Ti prego.»
Zoro rimase parecchio scosso. Non aveva mai sentito Kaku fare discorsi del genere così seriamente. La persona che lui conosceva era spensierata – anche se comunque responsabile – e non era raro vederla col sorriso sulle labbra: in quel momento, invece, nei suoi occhi poteva leggere la determinazione e la malinconia di chi vuole a tutti i costi persuadere un amico a non fare i suoi stessi errori. Era proprio come si diceva in giro: in fatto di maturità, Kaku dimostrava molti più anni di quelli che realmente aveva.
Kaku si rilassò tutt’ad un tratto e gli diede una pacca amichevole sulla spalla. «Mi raccomando, eh?» gli disse sorridendo.
Anche Zoro sghignazzò. Eccolo, era tornato il Kaku di sempre.
Poi quest’ultimo si allontanò senza aggiungere altro, lasciandolo solo.

Zoro stava fissando la maniglia della porta da almeno un paio di minuti buoni. Non sapeva ancora bene cosa fare. Cosa gli voleva dire sua madre? Lo voleva di nuovo trascinare a casa? Aveva per caso bisogno per l’ennesima volta di qualcuno su cui fare affidamento, dato che da sola non era in grado di fare nulla?
E se era questo che voleva, valeva davvero la pena uscire lì fuori e starla a sentire?
Zoro inspirò profondamente. Rimase per un po’ immobile, svuotando la mente da ogni pensiero. Era inutile continuare ad arrovellarsi il cervello: l’unico modo per dar fine ai suoi dubbi era quello di uscire lì fuori e affrontare sua madre, qualsiasi cosa avesse fatto o detto. Afferrò la maniglia, la girò e tirò a sé la porta.

Zoro si ritrovò in mezzo a due alti palazzi di mattoni, in uno strettissimo vicoletto sporco con qualche busta dell’immondizia aperta dai cani randagi qua e là. Sembrava proprio uscito fuori da uno di quei film d’azione americani.
Iniziò a cercarla con lo sguardo, ma non dovette guardarsi troppo intorno per trovarla. Eccola lì: sua madre si trovava poco davanti a lui, più piccola e fragile di quanto ricordava. Aveva gli occhi scavati dalle occhiaie, come se quella notte non fosse riuscita in nessun modo a chiudere occhio, e il suo aspetto nel complesso era molto trascurato. Lo stava guardando con occhi tristi e rassegnati, ma a Zoro sembrò, per un solo istante, di scorgere in essi anche una sorta di forte determinazione.
Passò probabilmente un minuto o poco più nel quale nessuno dei due aprì bocca, mentre continuavano a fissarsi a vicenda. Infine Zoro, iniziando a irritarsi a causa di tutto quel silenzio e quel tempo perso – Kaku non sarebbe riuscito a coprirlo in eterno –, iniziò a parlare, sbuffando e incrociando le braccia al petto: «Allora? Perché diavolo sei venuta qui? Sto lavorando.» La guardò dritto in faccia. Non aveva la minima intenzione di tornare indietro: oramai se n’era andato via di casa perché stanco della sua vecchia vita, quindi nulla lo avrebbe persuaso a ritornarci.
Sua madre rimase ancora per qualche secondo in silenzio, titubante. Era visibilmente a disagio: aveva lo sguardo fisso per terra, si stava mordendo il labbro inferiore già a un po’ e non la smetteva di girarsi e rigirarsi una ciocca di capelli con la mano destra. Era sempre stato un suo tic: ogni volta che era nervosa, afferrava una ciocca di capelli e se la torturava anche per ore.
«Senti, Zoro…» cominciò, continuando a puntare il proprio sguardo ovunque tranne che sul figlio. Passò ancora qualche secondo, ma alla fine si decise a guardarlo. Sospirò. «Zoro, lo so che non sono esattamente la madre migliore del mondo. Mi rendo perfettamente conto del fatto di essere un vero disastro di donna.» I suoi occhi si stavano decisamente facendo lucidi, ma trattenne le lacrime. Zoro iniziò a sentire un peso posarsi sul suo stomaco: cazzo, non riusciva proprio a sopportare la vista di sua madre in quelle condizioni. Ma non poteva permettersi di arrendersi proprio ora, non dopo aver ottenuto la sua libertà.
Di nuovo silenzio. «…Sai, ho lasciato Andrés» disse, continuando a rigirarsi la ciocca di capelli tra le mani. «Lo so che questo non ti farà cambiare idea e che non torneresti per nulla al mondo a vivere con me, ma non sono venuta qui per questo. Te l’ho voluto dire perché sei mio figlio e ho pensato che, in quanto tale, avrei dovuto avvisarti. Tutto qui.» 
Zoro rimase spiazzato. Davvero sua madre non aveva intenzione di riportarlo indietro? Aveva sul serio deciso di soffrire in silenzio per lasciargli finalmente condurre liberamente la sua vita?
Lei gli si avvicinò con passo lento e, una volta di fronte a lui, Zoro notò con stupore che sul suo viso non c’era né tristezza, né timore, né altro: solo un’immensa forza di volontà e determinazione. Quello era un lato della sua personalità che Zoro aveva quasi dimenticato: lo aveva infatti mostrato solo una volta, quando suo padre se ne era andato e lei era stata costretta a portare tutto sulle proprie spalle.
«Anch’io voglio cambiare vita» asserì lei. «Non ho più intenzione di aggrapparmi agli altri per non affrontare le mie debolezze, questo è poco ma sicuro. Cercherò di diventare più indipendente, così non dovrai più preoccuparti di me.» Poi iniziò a ridacchiare, ma si sentiva che la sua era una risata forzata. «Non ti sembra ironico che negli ultimi anni sia stato tu a occuparti di me? E dire che dovrebbe essere il contrario!»
Per tutta la durata di quel discorso, Zoro era rimasto immobile, in silenzio, e non aveva fatto altro che guardarla impassibile. Ma anche se esternamente non era visibile, nel suo animo era in corso una lotta tra varie emozioni contrastanti: da una parte c’era la sua testardaggine, che continuava a ripetergli di lasciarla perdere e di continuare per la sua strada, fregandosene della donna che in quel momento gli si trovava di fronte; dall’altra, invece, c’era una piccola vocina che continuava a sussurrargli che quel che stava facendo era sbagliato. Abbandonarla in quel modo avrebbe solo arrecato dolore a sua madre – e anche a lui. Era per caso la sua coscienza?
Alla fine, però, quello scontro ebbe un solo vincitore: il suo orgoglio.
«Sto lavorando, non vedi? Fa’ presto, non ho tempo da perdere qui con te.»
Zoro pensava davvero quello che aveva appena detto: non poteva perdere altro tempo, altrimenti Lucci l’avrebbe definitivamente spellato vivo. Però, nonostante continuasse a guardarla con uno sguardo duro misto ad indifferenza, non voleva cacciarla sul serio. Non prima di aver sentito tutto quello che aveva da dire, almeno.
 «Capisco» sospirò l’altra, iniziando stranamente a ridacchiare di gusto. «Sempre serio e responsabile come al solito, eh? Decisamente non hai preso da me.» Lo guardò dritto negli occhi e, lasciando Zoro di sasso, gli regalò uno dei suoi più dolci sorrisi. «Voglio solo che tu viva felicemente la tua vita, e se questo significa che devi andartene di casa, beh… allora fai pure. Non ti fermerò.» Si alzò sulle punte dei piedi e gli scoccò un bacio sulla guancia, prima di voltarsi e allontanarsi.
Mentre la vedeva camminare e sparire dietro l’angolo, Zoro sapeva che in realtà quelle poche parole le erano costate uno sforzo sovraumano. Non poteva credere che, per la sua felicità, sua madre fosse stata in grado di rinunciare completamente alla propria. In quel momento si rese conto di essere una vera testa di cazzo.
Iniziò a correre come un forsennato e, una volta girato l’angolo, la vide a pochi metri davanti a lui. «Oi!» la chiamò, facendola girare. Zoro notò che aveva gli occhi lucidi. 
Si fermò proprio di fronte a lei e, mentre lei lo guardava confusa, le disse, con un po’ di fiatone: «Quando sarò diventato il miglior spadaccino del mondo e verrò a trovarti, ricorda di farmi trovare nel frigorifero almeno un paio di bottiglie di sake, capito?»
Sua madre non ce la fece più. Scoppiò in lacrime e gli si buttò al collo, abbracciandolo. 


*In questa fic, ovviamente, Nami è più grande di Zoro.

[Angolo dell’autrice]
Ahw, Zoro e Kaku insieme sono troppo belli.♥ Li ho sempre visti piuttosto in sintonia – se tralasciamo il minuscolo particolare che in realtà sono nemici. XD 
Per chi non lo sapesse dato che su YT non si trova manco a pagarla oro, The Thin Ice è una canzone dei Pink Floyd in cui Waters, per l’appunto, paragona la vita a del ghiaccio sottile su cui le persone pattinano e che, quindi, si può facilmente rompere, facendole cadere sott’acqua (mi vengono i brividi ogni dannatissima volta che la ascolto, davvero). 
In ogni caso, più che sulla prima parte del capitolo, in queste note vorrei soffermarmi sulla seconda parte, quella dell’incontro tra Zoro e sua madre.
All’inizio, quando scrivevo i primi capitoli della fic, avevo pensato di non farli più incontrare e di far rimanere Zoro arrabbiato con sua madre; dopo, però, mi sono resa conto che, in questo caso, sarebbe dovuto rimanere arrabbiato a vita, e poi sarebbe stato inverosimile se sua madre non avesse cercato di rivederlo, no? In fondo una mamma è pur sempre una mamma, e farebbe di tutto per il proprio figlio. Ed è proprio quest’ultimo aspetto che ho cercato di evidenziare. 
Questo capitolo mi ha dato parecchie grane – è difficile pensare cosa farebbe Zoro con una madre del genere – e spero vivamente (come sempre XD) di non essere andata OOC.
Alla prossima, dunque, e spero che il capitolo vi sia piaciuto! ^^ 

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Capitolo 10
*** Cooks, Snobs And Punks. ***


{ Capitolo 10: Cooks, Snobs And Punks }
 
Zoro posò finalmente a terra il peso con cui si stava allenando da una buona mezz’ora, si asciugò il sudore con un asciugamano – rischiando di farsi abbassare definitivamente la cresta, già fiacca di suo – e rientrò nel club.
Ormai era passata una settimana da quando lui e sua madre si erano riappacificati, ma doveva ammettere che si sentiva tuttora sollevato: non solo perché ciò aveva evitato a entrambi di soffrire ulteriormente e di avere rimpianti, ma soprattutto perché non avrebbe dovuto più sorbirsi l’eccessiva preoccupazione dei suoi amici. Quando quel giorno era tornato al club, infatti, gli altri si erano immediatamente fiondati da lui – facendogli quasi venire un colpo – e lo avevano tartassato di domande. Gli ci volle un bel po’ per farli calmare dato che, con tutto il casino che facevano, ogni volta che finiva di spiegare cosa era successo quel pomeriggio, c’era sempre qualcuno che non aveva sentito o non aveva capito bene ed era costretto a ripetere tutto daccapo, manco fosse il cavalluccio rosso di Bellavista*.
In ogni caso, oramai era tutta acqua passata. Da quel giorno non aveva più rivisto sua madre, ma era più che sicuro che se la stesse passando benissimo – finalmente si era decisa a diventare indipendente, dopotutto. Inoltre non desiderava affatto vederla: le aveva promesso che il giorno in cui sarebbe tornato da lei sarebbe già diventato il miglior spadaccino del mondo, e lui era il tipo che manteneva le proprie promesse a qualsiasi costo.
Sì, ma come fare senza un soldo? Non avrebbe mai potuto intraprendere un viaggio nelle sue attuali condizioni finanziare.
Era fottuto.
 
Scuotendo il capo nel tentativo di scacciare quei pensieri dalla sua testa, Zoro si diresse verso la cucina. Aveva una voglia matta di una bella birra.
Nel club regnava una calma che Zoro definì quasi irreale, conoscendo i soliti frequentatori del posto: Usopp e Franky erano seduti intorno a uno dei tavolini da poker e giocavano con Chopper, Nami e Robin stavano sfogliando una della tante riviste di moda ammucchiate sulla cassapanca al loro fianco, mentre Brook stava cambiando le corde del suo violino. L’unico che sembrava avere un’aria afflitta era Rufy, steso a pancia all’aria proprio davanti alla porta della cucina. Ogni tanto borbottava un «Sanji, cibo», a cui seguivano i rumorosi brontolii del suo stomaco.
Nami sbuffò. «Rufy, piantala. Se hai così tanta fame, esci e va’ in un ristorante o che so io.»
«Ma Nami, come cucina Sanji non lo fa nessuno!»
«Sono d’accordo, però resta il fatto che Sanji non è qui, quindi smettila di lamentarti – e non fare il bambinone!» sbraitò, vedendo il suo ragazzo gonfiare le guance in modo infantile.
Usopp si portò una mano a sorreggere il mento, con fare pensieroso. «Ora che ci penso, non si fa vedere da un bel po’. Sicuri che non gli sia successo niente?»
«Io non mi preoccuperei troppo: in fondo non è la prima volta che sparisce per qualche giorno» puntualizzò Franky. «Vedrai che tornerà come fa sempre.»
«E non ci darà la minima spiegazione, come fa sempre» aggiunse Robin.
«Yohoho! In fondo ogni uomo ha i suoi segreti!»
«Sì, però così finisce solo per farci preoccupare.»
Zoro scavalcò Rufy ed andò dritto verso il frigorifero della cucina, dal quale estrasse la sua agognata birra fredda. Chiunque avrebbe potuto dire, vedendolo, che quel discorso non gli interessasse minimamente, ma in realtà Zoro stava riflettendo seriamente sulla situazione venutasi a creare. Il cuoco era un tipo piuttosto schivo e non amava parlare di sé agli altri, e la cosa lo aveva sempre fatto insospettire. Certo, lui era l’ultima persona al mondo che potesse biasimarlo per una cosa del genere, ma i modi di fare di quel damerino certe volte gli sembravano… artificiosi, ecco. Come se volesse nascondere qualcosa.
Ma tutto questo, ovviamente, gli altri non l’avevano minimamente notato.
 «Secondo me dovremmo andare a casa sua per controllare come se la passa» propose Nami. «Queste sparizioni mi puzzano un po’.»
Rufy ridacchiò. «Nah, vedrai che starà benissimo. Però mi piacerebbe andare a casa sua!»
«Di’ piuttosto che vuoi andarci perché così puoi farti preparare qualcosa da mangiare» sbuffò Usopp. «Comunque io sono d’accordo con Nami. Che dite, ci andiamo?»
A quella domanda risposero tutti affermativamente, annuendo all’unisono. Persino Zoro lo fece: voleva proprio sapere cosa stesse nascondendo quell’idiota di un cuoco.
«Ok, allora andiamo!» gridò Rufy, come se quella fosse per lui una qualche specie di avventura. «Chopper, vieni con noi?»
Di tutta risposta il gatto sbadigliò annoiato e saltò sul divano, accoccolandosi su se stesso e iniziando beatamente a ronfare.
 
Quando, dopo aver bussato il campanello almeno un paio di volte, la signora Blackleg aprì finalmente loro la porta, nessuno fu sorpreso di vederla sobbalzare dalla sorpresa. In fondo non era cosa da tutti i giorni ritrovarsi davanti casa propria una banda di ragazzi a dir poco strambi e per di più completamente sconosciuti.
«P-posso esservi d’aiuto?» chiese loro nel modo più gentile possibile, cercando inutilmente di dissimulare il proprio nervosismo. Era una donna sulla quarantina, piuttosto alta e snella, con capelli lunghi e biondi e gli occhi d’un bellissimo color verde smeraldo. Zoro, però, più che prestare attenzione alla donna che le era di fronte, era occupato a guardarsi intorno.
La casa dei Blackleg era una piccola villa: l’edificio a due piani era chiaramente di recente costruzione e il giardino anteriore era perfettamente curato, esattamente come tutti gli altri giardini del quartiere; inoltre, Zoro notò che nel garage aperto erano parcheggiate due costosissime BMW. Proprio come aveva sempre pensato, la famiglia del cuoco era ricca da far schifo.
«Siamo amici di Sanji e siamo venuti a fargli visita» le rispose Nami, sorridendo cordialmente. «Lui è in casa?»
La donna strabuzzò gli occhi, quasi non riuscisse a credere alle proprie orecchie.  «Voi siete amici di Sanji? Davvero?» D’un tratto tutta la sua cordialità era sparita.
«Beh, sì. È in casa?» ripeté Nami, iniziando – come gli altri – a trovare la signora Blackleg decisamente irritante.
Lei assunse un tono glaciale. «Mi dispiace, ma Sanji non-»
«Mamma! Aspetta un momento!»
Sanji, che si era messo a correre per la strada come un forsennato, apparve improvvisamente davanti a loro e si parò di fronte a sua madre, nel tentativo di non farle cacciar via in malo modo i suoi amici.
«Oh, eccoti qua, tesoro» cinguettò quella, in un tono così melenso e falso che fece venire a Zoro i brividi. «Sei andato a trovare gli Smiths, vero? Ah, la loro figlia è davvero una cara ragazza. Pensa che l’altro giorno è stata proprio lei a suggermi di acquistare quella favolosa Luis Vuitton di pelle!»
Gli altri stavano seriamente iniziando a incazzarsi: quella donna aveva tutte le intenzioni di ignorare completamente la loro esistenza, manco fossero degli zerbini, continuando a sparare a raffica nomi di marche costosissime o di famiglie altolocate, proprio a dire “smammate, questo non è luogo per voi pezzenti”.
«Sì, Jasmine è davvero una ragazza favolosa, ma non mi sembra il caso di trattare così i miei amici, mamma.»
L’altra assunse un’espressione offesa. «Ma che stai dicendo, tesoro? Io stavo semplicemente dicendo loro che eri uscito, ecco tutto.»
E ti sei anche messa a squadrarci con i raggi X, pensò Zoro.
Sanji sbuffò, irritandosi anche lui. «Entra in casa, non preoccuparti. Vengo subito.»
La donna parve esitare un momento, ma alla fine diede ascolto al figlio e rientrò – non prima di aver lanciato un’ultima occhiataccia a tutti loro.
Sanji sospirò, rassegnato. «Pensa troppo all’apparenza» disse, rivolto più a se stesso che altro. Si voltò poi verso i suoi compagni, inarcando un sopracciglio. «Si può sapere voi che ci fate qua?»
«Volevamo vedere come stavi e-»
«Nami-swan! Robin-chwan! Sono così felice di vedervi!»
Ecco, e ti pareva. Usopp non aveva manco finito di parlare, che quell’idiota subito si era fiondato ai piedi delle ragazze, tutto adorante come un perfetto schiavetto. Quando faceva così lo faceva incazzare a bestia.
Dopo che i suoi ormoni si furono dati una calmata – beh, sempre nei limiti di quel dongiovanni patentato –, Sanji assunse finalmente un’espressione seria e si rivolse a tutti loro: «Ragazzi, non c’era bisogno che vi preoccupaste tanto per me, davvero. È solo che ho avuto molto da studiare, per questo non sono potuto venire al club, ultimamente. La settimana prossima dovrei riuscire a farcela, comunque – così potrò tornare a preparare tanti manicaretti per le mie dee! –, quindi non preoccupatevi troppo. Ora però devo proprio scappare: ci vediamo!»
Non ebbero nemmeno il tempo di replicare, che Sanji si era già richiuso la porta di casa alle spalle.
Franky fu il primo a fiatare, dopo un attimo di sbigottimento generale, con un azzeccatissimo e riassuntivo «Ehhh?».
«Ma che gli è preso?» disse Usopp, decisamente accigliato. «Non ci ha fatto dire neanche una parola!»
«Forse la sua adorabilissima madre si sarebbe incazzata per un minuto di ritardo in più, non trovate?» ringhiò Nami, ancora arrabbiata per il trattamento ricevuto.
Robin inclinò la testa di lato, pensierosa. «Io credo che abbia avuto le sue ragioni per comportarsi così: direi di lasciarlo stare e aspettare che ritorni al club di sua iniziativa.»
Rufy, però, non sembrava essere dello stesso parere. Gonfiò le guance e assunse un’espressione corrucciata, iniziando a lamentarsi come un bambino a cui non volessero comprare un giocattolo. «No! Deve tornare subito! Non riuscirò a resistere un’intera settimana senza di lui!»
A quel punto Nami, non trovando modi più efficaci per zittire quel deficiente di fidanzato che si ritrovava, gli mollò un bel pugno dritto sulla capoccia. Inutile dire che da quel momento in poi Rufy rimase buono al suo posto, borbottando ogni tanto un piagnucoloso «Ma che ho fatto?».
Dopo qualche minuto di discussione, comunque, convennero tutti sul fatto di dover lasciar in pace il proprio compagno – che in ogni caso aveva dimostrato di passarsela benissimo – e di tornarsene al club senza indagare più del dovuto.
Mentre si avviavano verso la fermata di autobus più vicina, però, Zoro non era ancora del tutto convinto della situazione. Non aveva proferito parola da quando il cuocastro era rientrato in casa – anzi, si era bellamente tappato le orecchie mettendosi ad ascoltare un po’ di musica  –, preferendo tenere le proprie considerazioni per sé.
Il damerino si era comportato in modo decisamente strano, questo era chiaro anche agli altri; quello che non avevano notato, però, era che il sorriso che cuoco aveva mostrato loro quando aveva spiegato i motivi della sua assenza fosse in qualche modo finto, come se li avesse voluti rassicurare celando però il vero motivo che gli aveva impedito di recarsi al club. E dopo, invece, era rientrato in casa come un razzo non per placare l’ira funesta di sua madre, come aveva ipotizzato Nami, bensì per evitare domande indesiderate.
La cosa gli puzzava. Gli puzzava fin troppo.
 
 
*Chi non sa di cosa stia parlando Zoro, faccia un salto qui. ^^
 
[Angolo dell’autrice]

*si guarda intorno*
*vede solo deserto*

Ehm… quanto tempo è passato? Due mesi?

…Lo so, non avrei dovuto far passare tutto questo tempo. Ma tra scuola e roba varia non ce l’ho proprio fatta, mi dispiace. ;_; Ad ogni modo, meglio tardi che mai!
Spero che il capitolo vi sia piaciuto ^^ Dal prossimo si inizierà finalmente ad avere un po’ di ZoSan, per vostra somma gioia! Beh, più o meno.
Cercherò di pubblicare il prossimo capitolo il prima possibile, lo giuro! E fu così che passò un altro mese.
Eventuali critiche, come sempre, sono ben accette. Alla prossima! :)

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Capitolo 11
*** You Are Insane ***


{ Capitolo 11: You Are Insane }
 
Era una serata particolarmente tranquilla, quella. Non si sentiva alcun suono provenire dall’esterno – neppure il rumore del fruscio delle foglie mosse dal vento o l’abbaiare di un qualche cane. Silenzio assoluto.
Nonostante ciò, però, Sanji non era ancora riuscito ad addormentarsi. Era disteso sul suo letto da almeno un’ora, cercando di trovare una posizione comoda che gli conciliasse il sonno, ma niente. Quella notte il caro Morfeo sembrava proprio volersi tenere a debita distanza da lui.
Sbuffò, accese la lampada che aveva sul comodino e afferrò il libro che le stava affianco. Se proprio doveva restare sveglio, tanto valeva fare qualcosa, no?
Aprì il libro e cominciò a leggere. Quello era, tra tutti quelli che aveva letto in vita sua, uno dei pochi romanzi che lo avevano veramente colpito: glielo aveva prestato la dolce Robin-chan la settimana precedente, dicendogli che gli sarebbe sicuramente piaciuto. A quel punto l’aveva preso senza pensarci due volte e, anzi, inizialmente non aveva fatto caso più di tanto al titolo del libro: era stato troppo occupato a ringraziare la sua dea inondandola di cuoricini – scatenando le ire del legittimo fidanzato, ovviamente – per accorgersene. Solo una volta tornato a casa e dopo averlo osservato e sfogliato con più attenzione si era accorto che quello era lo stesso romanzo che aveva prestato anche al marimo: Il giovane Holden.
Inizialmente aveva assunto un atteggiamento un po’ scettico: per piacere a quel decerebrato punkabbestia di sua conoscenza, doveva essere senza ombra di dubbio un romanzo estremamente semplice – cosa che in effetti era, almeno dal punto di vista dello stile di scrittura. L’aveva comunque iniziato a leggere, un po’ perché a consigliarglielo era stata Robin-chan, che di libri ne sapeva decisamente più di lui, un po’ perché voleva scoprire come mai quel romanzo fosse piaciuto così tanto a un tipo come Zoro.
La storia non era molto articolata: c’è questo ragazzo, Holden Caulfield, che vuole scappare dalla vita monotona e “normale” alla quale è destinato come tutti gli altri, e cerca in tutti i modi di farlo, ma invano. Ciò che lo aveva veramente colpito, però, più che la trama di per sé, era il personaggio di Holden: la sua personalità, la sua voglia di evadere da quella realtà fittizia in cui tutti finiscono per essere intrappolati, la frustrazione che provava nel ritrovarsi circondato persone che non lo capiscono, che non comprendono cosa in realtà lui provi, e che anzi tentano di tappargli le ali, con la sola eccezione della sua sorellina, l’unica a cui volesse veramente bene.
E la cosa che più lo aveva colpito in assoluto era che si sentiva esattamente come lui.
 
Toc. Toc. Toc.
Sanji si mosse leggermente e aprì un occhio, puntandolo verso l’orologio. Erano le quattro del mattino. Maledì il proprio cervello che, non avendo nulla da fare, aveva deciso di svegliarlo facendogli credere di sentire rumori provenire da fuori. Tentò di farlo ragionare, dicendogli che era rimasto sveglio fino all’ora precedente per terminare il libro, ma niente, quello continuava a fare quel che voleva.
Toc. Toc. Toc.
Questa volta, però, i rumori gli sembravano decisamente più reali. Pensò di nuovo che fosse tutta opera del suo cervello, dato che continuava a non esserci un filo di vento e non c’era nessuno per strada. A parte qualche pazzo, probabilmente.
Toc. Toc. Toc.
A quel punto Sanji si alzò di scatto, stizzito. Qualche deficiente si stava divertendo a lanciare sul vetro della sua finestra dei sassolini. Si avvicinò ad essa con una vena pulsante sulla tempia, più che deciso a memorizzare per bene la faccia del suddetto deficiente per essere sicuro di spappolargliela a suon di calci.
Scostò le tendine e aprì la finestra, pronto a mandare a fanculo il pazzo deficiente che alle quattro di notte si divertiva a svegliare la gente. Il suo cuore mancò un battito quando vide che il pazzo deficiente che alle quattro di notte si divertiva a svegliare la gente era Zoro.
Probabilmente in quel momento doveva avere un’espressione da pesce lesso dipinta in faccia, tanta era stata la sorpresa, ma il punkarimo continuò a rimanere impassibile, senza muoversi di un millimetro dalla posizione in cui si trovava.
Dopo qualche secondo Sanji riuscì a parlare. «Che cazzo ci fai qui?» sussurrò, per evitare di svegliare mezzo vicinato e, soprattutto, i suoi genitori.
«Sono venuto a prenderti, no?» rispose l’altro, come se fosse stata la cosa più ovvia del mondo. «Metti qualche vestito in borsa e scendi.»
Sanji rimase sbigottito. Dove diavolo voleva portarlo? Ma soprattutto, perché voleva portarlo – ovunque avesse intenzione di andare?
Per una frazione di secondo il suo cervello cercò di decidere sul da farsi, ma poi, vedendo la situazione assurda, mandò tutto a quel paese e decise di andare in ferie. Senza neanche pensarci più di tanto, quindi, Sanji fece come gli aveva detto Zoro: prese uno zaino, lo riempì con qualche vestito a caso – ci ficcò dentro anche Holden, e non si chiese nemmeno perché l’avesse fatto – e scese al piano di sotto, cercando di fare meno rumore possibile per non svegliare i suoi e mandare tutto a monte. A scoprire cosa fosse quel “tutto”, poi, ci avrebbe pensato dopo. In quel momento si sentiva un po’ come Holden: non sapeva dove sarebbe andato a finire né cosa gli avrebbe riservato il futuro, ma era meglio inseguire l’ignoto piuttosto che rimanere dov’era, a impantanarsi in una palude sempre più profonda.
Aprì la porta e uscì di casa.
 
Il vento continuava a sferzargli il viso, insistentemente. E certo, per tutta la serata se ne era stato buono buono a rompere le scatole chissà dove e proprio ora che lui e il cuoco si erano incamminati verso il club aveva deciso di far loro compagnia?!
Zoro imprecò sonoramente, stringendosi un po’ di più nel suo chiodo. Maledì se stesso per non aver indossato un cappotto o qualsiasi altra cosa che l’avrebbe tenuto decisamente più al caldo in una notte di pieno autunno e maledì anche quel cazzo di cuoco e la sua stramaledettissima abitudine a fare il misterioso.
Se n’erano stati per tutto il tempo in silenzio, ognuno immerso nei propri pensieri. Probabilmente il torciglio aveva continuato a chiedersi cosa l’avesse spinto a farlo scappare di casa nel bel mezzo della notte per portarlo al Mugiwara Club, ma quella era una domanda a cui nemmeno lo stesso Zoro sapeva rispondere. Certo, l’aveva sicuramente fatto per ottenere spiegazioni riguardo il bizzarro comportamento del cuoco dal diretto interessato, ma in fondo sapeva che c’era anche un’altra ragione, forse anche più importante.
Aveva il presentimento – e il suo istinto non si sbagliava mai – che, quella del cuoco, fosse una specie di silenziosa richiesta di aiuto. Aiuto per cosa, poi, ancora non lo sapeva: riusciva solo a percepire, in quegli sguardi di celata afflizione, in quei sorrisi artificiosi, in quei modi di fare certe volte troppo elaborati e studiati, un’anima costretta a rimanere in gabbia.
«…venuto da me?»
Zoro si ridestò dai propri pensieri. «Cosa?» chiese, con il tono di voce più adatto alla situazione: da vero idiota patentato.
L’altro sbuffò. «Oltre ad essere deficiente, sei pure sordo? Ho detto: perché diavolo sei venuto da me?»
Zoro, di tutta risposta, scrollò le spalle. «Non ne ho idea.»
Sanji si sentì cadere le braccia. «Non ne hai idea?»
«Esattamente» annuì convinto l’altro, come se con quell’unica frase avesse dato la risposta alla domanda fondamentale sulla vita, l’Universo e tutto quanto. E magari ci aveva pure azzeccato.
Sanji sospirò affranto. Era completamente inutile cercare di capire cosa ci fosse in quel poco di materia grigia in dotazione al pazzo al suo fianco, quindi decise semplicemente di scuotere la testa e lasciar perdere. Il suo dannato, maledettissimo cuore, però, non voleva saperne di starsene un po’ fermo e per i fatti suoi, fregandosene altamente del parere del suo padrone.
Dopo una ventina di minuti di altri silenzi e di altre gelide folate di vento, arrivarono finalmente di fronte alla porta del Mugiwara Club. Aprirono la porta ed entrarono.
 

[Angolo dell’autrice]
Oh, eccomi qui, finalmente, a pubblicare questo capitolo! Consideratelo un mio regalino di buon anno anche se ormai è già il due gennaio.
Un applauso va a Zoro che, come un perfetto Romeo, è andato sotto la finestra di Sanji a prenderla a sassate per svegliarlo e portarlo con sé verso l’infinito e oltre. Romantico, no?
...Sinceramente sono del parere di Sanji. È solo un pazzo deficiente. Ma non preoccuparti, Zoro, ti vogliamo bene lo stesso. ♥
Comunque, spero che questo capitolo ZoSanjoso vi sia piaciuto! Ma le critiche sono sempre ben accette, eh. :3
Alla prossima!
 
P.S. Quando Sanji ha pensato che Zoro avesse trovato “la risposta alla domanda fondamentale sulla vita, l’Universo e tutto quanto”, questa frase non era casuale. Capite l’allusione, please.

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Capitolo 12
*** Have I Told You Lately That I Love You? ***


{ Capitolo 12: Have I Told You Lately That I Love You? }
 
Zoro stava fissando la lattina di birra che aveva in mano già da un paio di minuti, rimuginando su tutta quella faccenda e sul da farsi. Insomma, aveva portato il damerino al club, ma ora? Che cavolo doveva fare?
Lanciò una veloce occhiata all’altro. Non si vedeva quasi nulla nella stanza del club, immersa nella semi-oscurità, e quel poco che si vedeva era illuminato dalla luce piuttosto fioca di una lampada poggiata per terra, vicino al divano-letto aperto. Sanji era seduto su un’estremità di esso e si stava tranquillamente fumando una sigaretta. Non aveva per niente l’aria di uno che era appena stato trascinato fuori di casa alle quattro di notte per motivi a lui ignoti.
Zoro tornò a concentrarsi sulla sua birra. Cosa doveva dirgli? Quello che veramente pensava e gli passava per la testa?
Già si immaginava il dialogo.
Scusa, cuoco, ti ho portato al club nel bel mezzo della notte e senza dirti niente perché voglio sapere il motivo per cui ti comporti in modo strano.
Ma i cazzi tuoi no?
Ecco. Fine del dialogo.
Si grattò dietro la nuca con nervosismo. Ora basta. Per prima cosa doveva calmarsi.
Bevve tutto d’un sorso il contenuto della lattina – era la quarta della serata e iniziava stranamente già a sentirsi un po’ brillo – e si avvicinò alla libreria piena di CD. Se c’era una cosa in grado di calmarlo, quella era la musica.
Fece scorrere l’indice da un album all’altro.
Misfits? No, avrebbero sortito l’effetto contrario.
Dire Straits? Nemmeno.
Gli Who? No, no, no.
Poi il suo indice indugiò su un album in particolare. Eccolo. Era perfetto.
Afferrò l’album, prese il CD che vi era all’interno e lo inserì nell’impianto stereo. Mise poi la traccia numero 4 con l’impostazione Ripeti.
Il club venne inondato da una dolce melodia di pianoforte, calda e rilassante. Zoro chiuse gli occhi. Ecco, gli ci voleva proprio. Poi una voce iniziò a cantare, riempendo con la sua voce l’intera stanza.
 
«Have I told you lately that I love you?
Have I told you there's no one above you?
Fill my heart with gladness
Take away my sadness
Ease my troubles, that's what you do*…»
 
Van Morrison riusciva a farlo rilassare come nessun altro. Peccato ci fosse qualcuno di sua conoscenza che non la pensava allo stesso modo.
«Siamo sentimentali, marimo?»
Cazzo. Si era scordato del damerino.
Si voltò di scatto, e quello fu un errore. Con ogni probabilità le sue guance si erano colorite a causa dell’imbarazzo dato che, a quella vista, l’altro era scoppiato in una fragorosa risata.
«Hai da ridire su qualcosa, eh?» sbottò Zoro, nel vano tentativo di riprendere un minimo di autocontrollo. In fondo non vi era nulla di cui vergognarsi o imbarazzarsi, eppure quella situazione gli sortiva proprio quegli effetti.
«Tu senti certa roba?» disse Sanji, tra una risata e l’altra. «Tu, con quella faccia e quella cresta mostruosa?»
«Hai qualche problema, cuoco? Dimmelo, così lo risolviamo con un cazzotto in faccia.» Ora tutto l’imbarazzo era svanito per far posto alla rabbia – oppure, semplicemente, la rabbia era arrivata giusto in tempo per dissimulare il suo imbarazzo. «E non chiamarla roba!» sbraitò, afferrandolo per la collottola della camicia.
Sanji si riprese un po’ e, asciugandosi le lacrime – era arrivato a piangere dalle risate –, disse semplicemente: «Non avrei mai pensato che nascondessi un lato del genere dentro di te, marimo.» E non l’aveva detto per farlo arrabbiare, lo pensava davvero. Non avrebbe mai nemmeno lontanamente immaginato, infatti, che quel deficiente insensibile con cui si prendeva a calci e pugni un giorno sì e l’altro pure in realtà fosse anche la persona che quella notte l’aveva portato di nascosto al club e si fosse messo ad ascoltare musica così sdolcinata.
Zoro lo lasciò andare, anche se un po’ riluttante, e si sedette al suo fianco. Rimase qualche secondo immobile e con gli occhi chiusi, lasciandosi scivolare addosso la musica come un toccasana benefico. L’aria era invasa da una nuvoletta di fumo azzurrognola che aleggiava sulle loro teste, ma nonostante Zoro odiasse a morte il puzzo di sigaretta, in quel momento tutta la sua voglia di litigare con il cuoco era sparita. «Perché non ti sei fatto vedere questa settimana?» domandò improvvisamente, facendo sussultare Sanji. Quest’ultimo lo guardò sorpreso, e per un attimo Zoro ebbe l’impressione di vedere un guizzo di paura passare nei suoi occhi.
«Perché me lo chiedi?» replicò l’altro, tentennando un po’.
Zoro scrollò le spalle. «Così, giusto per curiosità.»
«L’ho già detto stamattina: ho avuto molto da fare ultimamente e…»
Le ultime parole gli morirono in gola.
Zoro lo stava fissando: il suo, però, non era uno dei soliti sguardi indifferenti o corrucciati; era uno sguardo così profondo che per un attimo Sanji credette di perdersi al suo interno. Quei due occhi color nocciola sembravano voler leggergli l’animo, scavarvi a fondo, e fu con un brivido che Sanji puntò lo sguardo altrove, continuando però a sentire quei due occhi scrutarlo senza sosta.
 Zoro, di tutta risposta, gli afferrò le spalle e lo costrinse a voltarsi. «Non dire stronzate, cuoco. Dimmi perché diavolo ti comporti sempre così.»
Sanji deglutì. Sentì di star iniziando a sudare freddo, ma cercò ugualmente di salvare le apparenze. «Senti, marimo, se mi hai trascinato fin quaggiù solo per una stronzata del genere…»
«Be’, in effetti è così.»
Zoro vide Sanji strabuzzare gli occhi per un secondo, come se non potesse credere alle proprie orecchie, per poi sbuffare divertito e ricominciare a ridere di gusto. Che gli era preso? La birra gli era per caso entrata in circolo?
 «Cuoco, giuro che se non la smetti di prendermi per il culo, ti ammazzo.»
Di tutta risposta l’altro continuò a ridacchiare, senza dar segni di voler smettere. «Sei davvero strano tu, sai?» disse dopo un po’, quasi senza pensarci.
«Senti chi parla» sbuffò Zoro, alzandosi e avviandosi verso il frigorifero della cucina. Visto che quel deficiente ancora non si decideva a parlare, tanto valeva scolarsi qualche altra birretta per ammazzare il tempo. Prese le ultime due lattine rimaste – o cavolo, davvero avevano bevuto così tanto per il nervosismo? – e fece dietro front. Al suo ritorno, però, Sanji era ritornato serio ed era intento a fissare un punto non meglio precisato del pavimento. Si sedette di nuovo al suo fianco e gli porse la birra, senza dire una parola. L’altro la guardò svogliatamente, ma poi la aprì e la bevve tutta d’un sorso. Lo stesso fece anche Zoro.
Per almeno un minuto non osò parlare. Sapeva che il cuoco – ora visibilmente brillo – stava cercando le parole giuste per incominciare a farlo. Alla fine, per l’appunto, Sanji parlò.
«Avrai notato come la mia famiglia sia ricca, no? Quartiere altolocato, villetta, automobili e tutto. Mio padre è un avvocato, precisamente un socio, di un’importante studio legale – sai, uno di quelli dove lavorano almeno quattrocento avvocati che sgobbano dalla mattina alla sera per difendere clienti importanti che con ogni probabilità sono colpevoli, ma che li pagano anche migliaia di berry l’ora a testa pur di insabbiare tutto. Da piccolo mi portava spesso nel suo studio per cercare di spingermi a seguire le sue orme, ma in realtà io lo odiavo. Per quei corridoi immacolati e lussuosi non vedevo camminare persone: vedevo solo zombie che lavoravano anche venti ore al giorno, senza mai passare un po’ di tempo con la propria famiglia, pur di ottenere un posto migliore in quello studio, pur di guadagnare ancora più soldi di quel che avevano. E mio padre, ovviamente, non faceva eccezione. Non ricordo di averlo mai visto senza la sua divisa da avvocato o senza qualche scartoffia in mano anche quelle poche volte che tornava a casa, quando non era in viaggio per lavoro.
«Mia madre, invece – e non ho problemi ad ammetterlo – è una moglie-trofeo, una di quelle che ogni avvocato importante deve avere: bella, attenta al proprio aspetto e alle proprie amicizie e attenta a non far capire che il suo personal trainer non è altro che il suo amante. Probabilmente è anche una forma di vendetta nei confronti di mio padre: figurati se anche lui, durante tutti quei lunghi viaggi di lavoro, qualche sveltina non se l’è fatta.»
Sanji fece una breve pausa. Un sorriso beffardo gli attraversava il volto, quasi come se quel che aveva appena detto fosse una cosa da nulla, normalissima per la sua routine quotidiana.
«Fin da quando ero piccolo, ha sempre controllato tutte le amicizie che avevo: non permetteva a nessuno sotto un certo reddito annuo di avvicinarsi a me.
«Ricordo che, una volta, aveva assunto come cuoco di casa un uomo piuttosto vecchio e baffuto. Aveva una gamba di legno ed un aspetto minaccioso, ma mia madre stranamente non si fece troppi problemi – forse all’epoca ne aveva sentito parlare bene, chissà. Io ero piuttosto piccolo, perciò all’inizio non osavo avvicinarmi, avevo troppa paura: però, allo stesso tempo, quell’uomo mi incuriosiva, così poco prima dell’ora di pranzo e della cena sbirciavo all’interno della cucina per poterlo osservare di nascosto.»
«È stato grazie a lui se ho iniziato ad appassionarmi alla cucina, forse perché quando stava davanti ai fornelli assumeva un’aria così seria e concentrata da spingermi in qualche modo ad ammirarlo. In ogni caso, mia madre se ne liberò in poco meno di un mese – credo che i suoi modi troppo scorbutici e grezzi non le fossero andati a genio più di tanto.
«Iniziai a cucinare. Adoravo passare pomeriggi interi davanti ai fornelli, magari anche sperimentando qualche piatto con scarsi risultati; seguivo anche qualche corso di cucina in modo da migliorarmi e affinare le mie conoscenze culinarie. I miei sembravano aver preso abbastanza bene questa mia passione ed io ero felice. Il tutto però è durato fino all’età di tredici anni.
«Un bel giorno i miei hanno deciso che tutta quella storia doveva finire e mi fecero una lavata di capo incredibile. Dissero che continuando a trascurare lo studio per una sciocchezza del genere non sarei mai andato da nessuna parte, che quello del cuoco era un lavoro adatto per gli altri – i non ricchi, insomma – e che da quel momento avrei dovuto concentrarmi solo sull’obbiettivo di diventare avvocato e prendere il posto di mio padre. Inutile dire che mi arrabbiai tantissimo e che risposi loro con parole pesanti. Loro, però, furono irremovibili. Mi vietarono di avvicinarmi alla cucina e non mi diedero più la possibilità di seguire i miei corsi. Mi sentivo frustrato, rassegnato, calpestato.
«Poi, però, a un certo punto, un paio di anni fa ho incontrato casualmente Rufy ad una delle cene altolocate a cui la mia famiglia ogni tanto partecipa.» Le labbra di Sanji si incresparono per un breve attimo in un sorriso. 
«Eravamo entrambi annoiati a morte di quell’atmosfera così finta e artificiosa, così iniziammo a parlare del più e del meno. Non so come, ma ad un certo punto siamo arrivati a parlare di me e della mia passione per la cucina: inutile dire che quasi mi saltò addosso. Mi parlò del club e della piccola cucina annessa; disse che dovevo assolutamente andarci, perché aveva sempre desiderato conoscere un cuoco.
«Iniziai quindi a frequentare assiduamente il club, raccontando vagamente ai miei genitori di star frequentando certi miei amici di scuola per studio.
«In sostanza, il motivo per cui non mi sono fatto vedere in tutti questi giorni è proprio questo: ad un certo punto, i miei hanno iniziato ad insospettirsi e sono entrati in contatto con i genitori di questi miei presunti amici, e hanno scoperto tutte le balle che ho raccontato. Si sono incazzati come non mai e, per evitare che la situazione peggiorasse, ho deciso di non farmi sentire per un po’. Soddisfatto, ora?»
Sanji si voltò verso Zoro, il quale aveva la bocca leggermente aperta dallo stupore e continuava a fissarlo sbalordito. In realtà neanche Sanji sapeva perché avesse detto tutte quelle cose proprio a Zoro dopo aver cercato di tenere all’oscuro tutti gli altri – colpa dell’alcol che gli stava entrando in circolo, decisamente –, però, effettivamente, ora che l’aveva fatto si sentiva più leggero, come se un enorme peso che avesse tenuto sulle spalle per anni all’improvviso fosse completamente sparito. Si sentiva decisamente più libero, ecco.
Vide Zoro esitare ancora un po’, prima di prendere la parola. «Io non… io non lo sapevo.» Aveva improvvisamente assunto un’espressione quasi colpevole, cosa che fece sbuffare Sanji. «È ovvio che non lo sapessi, idiota. Non l’ho mai detto a nessuno. E non fare quella faccia, mi fai solo venir voglia di prenderla a calci.»
Zoro, di tutta risposta, continuò a fissarlo in quel modo – così diverso dal solito –, iniziando, anzi, anche a grattarsi dietro la nuca. Oh, niente di buono in vista.
«Io… io ho sempre creduto che tu, fondamentalmente, fossi uno di quei figli di papà sempre con la puzza sotto il naso, che non ha nessun problema di sorta, se non quello di voler sentirsi sempre al centro dell’attenzione e di voler essere ancora più viziati di quel che si è.» Puntò gli occhi sul pavimento, in evidente stato di agitazione. Sospirò forte per darsi una calmata. «Mi dispiace
Il cuore di Sanji mancò un battito.
Dopo un breve attimo di smarrimento, strabuzzò gli occhi. Zoro, l’essere più orgoglioso e insensibile sulla faccia della Terra, aveva appena detto «mi dispiace»? A lui?
«Marimo, sicuro di sentirti bene? Non è che in quelle birre c’era qualcosa di anomalo, vero?»
Di tutta risposta l’altro emise uno strano grugnito, voltandosi dall’altro lato con fare imbarazzato. Sanji non poté evitare di sbuffare divertito di fronte a quell’atteggiamento così diverso da quello che di solito il marimo gli riservava. Rimase per un attimo in silenzio, prima di fare un profondo respiro. «Grazie» disse, semplicemente.
Zoro si voltò di scatto verso di lui con l’espressione di chi ha appena visto un alieno a due teste andarsene in giro per una festa in maschera come se nulla fosse. E probabilmente non doveva essere troppo dissimile da quella che lui aveva assunto fino a qualche momento prima.
Però, in fondo, quel ringraziamento glielo doveva. Nonostante gli costasse molto ammetterlo, quell’idiota era riuscito a capire che c’era qualcosa che non andava, ed era arrivato addirittura al punto di farlo scappare di casa in piena notte solo per cercare di aiutarlo – perché, per quanto l’altro potesse cercare di dissimularlo e per quanto potesse sembrare assurdo, non ci voleva un genio per capire che fosse quello il fine delle sue azioni. In più quello sfogo gli aveva fatto decisamente bene; lo aveva tranquillizzato, in qualche modo.
Sorrise lievemente in direzione dell’altro, il quale, nonostante fosse ancora sorpreso, gli regalò in risposta uno di quei suoi rari mezzi sorrisi che, nonostante fossero appena accennati, erano sinceri.
Intanto, in sottofondo, la canzone inserita da Zoro si era messa in replay per la seconda volta.
 
«Have I told you lately that I love you?
Have I told you there's no one above you?
Fill my heart with gladness
Take away my sadness
Ease my troubles, that's what you do…»
 
E forse fu a causa dell’atmosfera creatasi, forse a causa di quei due occhi nocciola che continuavano a scrutarlo intensamente, forse a causa dell’alcol – , decisamente a causa dell’alcol – che Sanji si sporse verso il viso di Zoro e lo baciò.
Fu appena uno sfiorarsi di labbra, il loro, ma bastò a far sì che il corpo di Sanji fosse attraversato da un fremito di eccitazione. Quel lieve contatto durò solo pochi secondi, però, dato che il cervello di Sanji, entrato momentaneamente in standby, iniziò ad elaborare la situazione. Stava baciando Zoro.
A quella improvvisa realizzazione, Sanji si allontanò di scatto dall’altro, iniziandolo ad osservare preoccupato. Non avrebbe dovuto farlo, non avrebbe proprio dovuto farlo, continuava a ripetersi. Nonostante sentisse ancora sulle proprie labbra il calore che quel contatto gli aveva provocato – battito cardiaco accelerato connesso –, non riusciva a non pensare a tutte le possibili conseguenze che quella sua azione avventata avrebbe portato.
Zoro era rimasto completamente immobile, rigido come una statua di marmo, e con gli occhi così sgranati che parevano poter uscire dalle orbite da un momento all’altro. Probabilmente stava ancora cercando di riprendersi dallo shock, ma Sanji non aveva dubbi su ciò che ne sarebbe seguito, e questa consapevolezza gli fece venire una morsa allo stomaco. Si sarebbe alzato di scatto, disgustato, magari lo avrebbe anche insultato e se ne sarebbe andato via senza aggiungere un’altra parola. Quel loro rapporto che si era formato in quei mesi, già precario di per sé, sarebbe definitivamente crollato, e Sanji non avrebbe più potuto vedere l’altro in faccia per la rabbia e la vergogna. Dio, che idiota che era stato.
Zoro, però, non dava ancora segni di vita e continuava a rimanere immobile, gli occhi fissi su di lui. La cosa stava iniziando a farsi davvero preoccupante.
«Zoro…?» lo chiamò Sanji, nel tentativo di ridestarlo. Poggiò la mano sulla spalla dell’altro per scuoterlo e sentì il corpo dell’altro fremere a quel tocco.
«Ehi, Zor- mh!»
Non ebbe il tempo di fare nulla. Non ebbe il tempo di capire nulla.
Sentiva solo le labbra di Zoro premere prepotentemente sulle sue, il suo respiro mischiarsi con il proprio, le sue mani dietro la nuca che tentavano di approfondire il contatto. Riuscì appena a realizzare ciò che stava succedendo, prima che il suo cervello decidesse definitivamente di andare in tilt e di sparire dalla circolazione per un po’.
Zoro lo stava baciando.
E si sarebbe chiesto solo in secondo momento il perché di tutto ciò – e avrebbe dato la colpa all’alcol, era sempre colpa dell’alcol – e il come avrebbero reagito entrambi dopo che tutto fosse finito, ma in quel momento non importava.
Nulla importava, all’infuori di quelle mani che ora lo stavano spingendo giù, a stendersi sul divano-letto, e che stavano iniziando a spogliarlo con foga ed impazienza; nulla importava, se non quelle labbra che continuavano a baciarlo ovunque, lasciando i segni del loro passaggio – sul viso, sul collo, sulle braccia, sull’addome, ovunque.
Ben presto si ritrovarono entrambi completamente nudi, i vestiti buttati malamente sul pavimento. Sanji poteva sentire il suo cuore martellare nella cassa toracica come se fosse impazzito, il suo respiro totalmente fuori controllo. Zoro si trovava sopra di lui, completamente rosso in viso – per quel poco che riusciva a vedere, per lo meno – e con il fiato corto almeno quanto il suo. Lo sovrastava con quella sua figura possente, con quei suoi muscoli scolpiti dalle numerose ore passate ad allenarsi e con quei suoi occhi nocciola, che mai gli erano parsi così profondi. Quella situazione avrebbe in qualche modo dovuto farlo sentire a disagio o imbarazzato, eppure non sentiva nulla di tutto ciò. Il suo corpo continuava a fremere di desiderio, a desiderare altro contatto fisico. Di più, di più, di più.
Intanto la canzone si era rimessa in replay, ma loro ormai non sentivano più niente che non fossero i loro respiri affannati, i loro battiti accelerati, il calore del corpo dell’altro contro il proprio.
Si protese verso il viso di Zoro e ricominciò a baciarlo con foga.
 
 
*Ti ho detto ultimamente che ti amo? / Ti ho detto che non c'è nessun altro davanti a te? / Sazi il mio cuore di contentezza / Porti via la mia tristezza / Allevi i miei problemi, ecco cosa fai.
 
[Angolo dell’autrice]
Sì, lo so che state pensando.
Tutto qui?!
Sì, tutto qui.
Non vi aspettate un capitolo a rating rosso/arancione, sia perché non voglio cambiare il rating della storia sia perché, soprattutto, non ho esperienza nello scrivere scene di sesso e non vorrei che ne uscisse fuori un abominio. E poi non ne ho neanche voglia, a dirla tutta.
Comunque, torniamo a noi. Non aggiorno da – quanto? Due mesi? Di più?
In realtà c’è una spiegazione perfettamente logica e razionale per questo mio ritardo, e sono sicura che voi mi capirete.
Non avevo voglia di scrivere. u_u *la prendono a mazzate*
No, seriamente. Non avevo né la voglia né l’ispirazione per farlo, quindi ho preferito lasciar perdere per un po’ in modo da ricaricarmi. Ed eccoci qua! :3
…Uhm, però un’altra spiegazione ci sarebbe.
È colpa di Sherlock, il telefilm. E della Johnlock, ovviamente – figuratevi se non li shippavo insieme. Quel fandom prima o poi mi ucciderà, ne sono certa.
In ogni caso, spero che questo capitolo vi sia piaciuto! Quando ho iniziato a scrivere questa fanfic, avevo deciso che questo sarebbe dovuto essere il penultimo capitolo, ma ho deciso che ne scriverò altri per focalizzarmi su alcuni aspetti della trama e dei personaggi che altrimenti avrei tralasciato. Quindi don’t worry, mi avrete tra i piedi ancora per un po’.
Fatemi sapere come al solito cosa ne pensate – le critiche sono sempre ben accette!
Alla prossima! :D
 
P.S. La descrizione della vita degli avvocati data da Sanji è pesantemente influenzata dai romanzi di John Grisham, che io adoro con tutta me stessa. Sì, in qualche modo dovevo ficcarlo da qualche parte nella trama.

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Capitolo 13
*** Do I Wanna Know? – Parte I ***


{ Capitolo 13: Do I Wanna Know? – Parte I }
 
Quel mattino, Zoro fu svegliato da una palla di pelo che continuava a strusciarglisi addosso. Gli ci volle qualche secondo per stiracchiarsi pigramente, voltare il capo e sbattere un paio di volte le palpebre per mettere a fuoco ciò che gli era di fronte, cosa che riuscì a strappargli un mezzo sorriso ancora assonnato: Chopper quella mattina aveva deciso che lo spadaccino avesse dormito più che abbastanza e così si era prodigato a svegliarlo con i mezzi a sua disposizione – il suo pelo che, a contatto con la pelle, gli procurava sempre del solletico, insomma. Una volta accortosi di aver raggiunto il proprio intento, gli si parò proprio di fronte al viso ed emise un miagolio che Zoro avrebbe definito di soddisfazione. La cosa lo fece ridacchiare.
Allungò una mano verso di lui ed iniziò ad accarezzarlo lentamente, godendosi la morbidezza di quel pelo sempre perfettamente pulito – anche per essere un gatto, infatti, quando si trattava di igiene Chopper sapeva essere anche fin troppo pignolo – e le fusa che l’altro gli regalava erano segno che anche l’altro stesse apprezzando. Quando, dopo pochi attimi, il suo cervello iniziò a snebbiarsi e a rimettersi in moto, cosa che, appena sveglio, prendeva sempre il suo tempo con Zoro, quest’ultimo si rese improvvisamente conto di star dimenticando qualcosa, qualcosa di assolutamente fondamentale, ma non riusciva proprio a ricordare cosa, dato che il suo cervello, compiuto quello sforzo di memoria immane, aveva deciso di prendersi ancora qualche altro secondo di ristoro prima di ricominciare a rimuginare su quel problema. Problema che, incredibilmente, fu risolto in men che non si dica da una voce che decise proprio in quel momento di dire la sua – una voce fin troppo familiare.
«Oh, marimo, allora ti sei svegliato.»
L’intero corpo di Zoro s’irrigidì all’istante, mentre i ricordi della sera precedente iniziavano ad affollargli la mente.
Ecco cos’aveva dimenticato. Merda.
Ora capiva perché si trovasse disteso completamente nudo sul divano-letto del club con solo una coperta a coprirlo e si sentisse anche stranamente appiccicaticcio.
Ingoiò a vuoto e si voltò verso Sanji: quest’ultimo si trovava all’impiedi – e, il suo cervello non poté fare a meno di constatare, era anche già vestito da capo a piedi – accanto ad un tavolo da poker con una tazza di quel che sembrava cappuccino in una mano e un vassoio con una colazione pronta per essere mangiata nell’altra. La cosa che più colpì Zoro, però, fu il suo sguardo: lo stava guardando con aria di sufficienza, quasi a voler far finta che la notte appena passata non fosse mai esistita, e che quindi in realtà non si fosse mai lasciato spogliare nella foga tra un bacio rovente e l’altro, né si fosse ritrovato sotto di lui tremante di desiderio, né che gli avesse lasciato esplorare ogni suo centimetro di pelle con la lingua, lasciando una calda scia di saliva per tutto il corpo, mentre le mani continuavano la propria opera d’esplorazione personale, finché non si erano fermate su quei glutei sodi e perfetti e...
No. No, no, no. Quello non era per niente il momento di pensare a certe cose – nonostante il suo amichetto lì sotto sembrasse pensarla diversamente.
Rendendosi probabilmente conto che il suo stato di shock sarebbe durato ancora un po’,  Sanji decise di lasciarlo perdere e si sedette su una delle sedie di fronte al tavolo. L’evidente smorfia di dolore che apparve sul suo viso non aiutò per niente Zoro a non pensarci.
Ci fu qualche altro secondo di profondo, imbarazzante silenzio. Nessuno dei due aveva idea di che cosa dire o fare, né aveva intenzione di essere il primo a portare a galla un argomento tanto scottante. Per il momento, si accontentavano quindi di restare in silenzio.
Quando però l’atmosfera iniziò a farsi decisamente pesante – e il fatto che quel cuoco di merda avesse deciso improvvisamente di ignorare la sua esistenza e di non far incrociare i loro sguardi nemmeno per scherzo non era certamente d’aiuto – Zoro decise di fare la cosa che in quel momento gli sembrava più logica ed assennata: una doccia. Una lunga, lunghissima doccia, per essere precisi.
Detto fatto: senza dire una parola Zoro si alzò – e al diavolo l’essere nudi, quel cuoco aveva visto fin troppo del suo corpo per poter rimanere scandalizzato da una cosa del genere, e in più sembrava ancora intenzionato a prestare tutta la sua attenzione alla parete di fronte – afferrò la coperta e se la trascinò con sé in bagno. La buttò senza mezzi termini nella lavatrice insieme al detersivo – e al diavolo le dosi – aprì il getto d’acqua della doccia e si lasciò scorrere addosso l’acqua gelida nella speranza che riuscisse a sbollirgli quel mare di pensieri ed emozioni che continuavano a travolgerlo come un vulcano in eruzione. Niente da fare.
Prese un lungo respiro nel tentativo di calmarsi. Ok, partiamo dai fatti nudi e crudi.
Lui ed il cuoco avevano fatto sesso. E già qui c’era da fermarsi e chiedersi come cazzo era potuta succedere una cosa del genere tra loro due, che si erano odiati già dal primo sguardo. Già, come? Si erano forse ubriacati così tanto da perdere completamente coscienza di sé e finire per fare una cosa così stupida? No, lui gli avvenimenti di quella sera li ricordava fin troppo bene, al massimo potevano essere stati un po’ brilli, ma niente di più. Ma allora perché?
Ricordava distintamente il momento in cui, sotto casa del cuoco, aveva iniziato a prendere a sassate la sua finestra per svegliarlo – e chissà perché, col senno di poi, la scena gli ricordava dannatamente uno di quegli orrendi film d’amore adolescenziale da quattro soldi, ugh – e quando aveva poi trascinato il cuoco al club per chiedere spiegazioni circa il suo strano modo di comportarsi degli ultimi tempi; ricordava anche ogni singola parola dello sfogo emotivo del suddetto cuoco: sembrava che ogni parola detta gli costasse uno sforzo immane, ma lui continuava a parlare, parlare e parlare, come se quelle parole fossero state sempre lì, ad aspettare di essere pronunciate, non riuscendo però a trovare mai un punto di sfogo e rimanendo incastrate in gola, quasi a volerlo soffocare per ripicca.
E lui, Zoro, si era sentito una merda. Sì, proprio una merda, visto che si era accorto che fino a quel momento aveva giudicato il damerino sempre e solo per ciò che appariva all’esterno – ed era proprio la cosa che odiava di più al mondo, giudicare dalle apparenze. Ricordava quindi di essersi scusato sinceramente, cosa che aveva naturalmente lasciato di stucco l’altro. Ma quando il cuoco, poi, l’aveva ringraziato, era stato il suo turno di rimanere scioccato. Quel semplice grazie aveva avuto il potere di contorcergli le viscere e di farlo sorridere: quel cuoco non era poi così male, in fondo.
E poi era successo. La catastrofe delle catastrofi, il cataclisma dei cataclismi.
Quel cazzo di cuoco di merda, l’amante eterno delle donne, colui che continuava a prenderlo per il culo ad ogni buona occasione e non, l’aveva baciato. E no, non c’era da sbagliarsi mica, su questo.
L’aveva baciato. Aveva proprio baciato lui, Zoro.
E se magari nella sua mente, già fin troppo intenta a tentare di registrare, elaborare e cercare di capirci qualcosa dell’avvenimento, ci fosse stato ancora qualche dubbio riguardo il fatto che sì, il cuoco aveva voluto baciare proprio lui, e non l’abat-jour lì affianco o Chopper – in quel momento il suo cervello stava fondendo per il sovraccarico d’informazioni, decisamente – ecco che quel deficiente si allontana da lui ed inizia a fissarlo con quello sguardo terrorizzato da cane bastonato che lo destabilizza definitivamente. Quindi non si era trattato di un errore o di chissà che altro: era proprio lui, Zoro, quello che il cuoco aveva voluto baciare. Ma perché? Perché lui? Perché non Nami o Robin o chiunque altro sulla faccia di questa terra? Era perché si trovava per caso nelle sue immediate vicinanze? Era perché lo sfogo gli aveva mandato in pappa il cervello rendendolo vulnerabile e spingendolo a fare quel che ha fatto col primo che capitava?
Ogni possibile risposta che si affollava nella sua mente, però, gli sembrava sempre meno probabile della precedente. A quel punto, però, seduto sul divano ancora perfettamente immobilizzato dallo shock, un atroce e folle dubbio gli attraversò la mente come un’improvvisa intuizione.
E se… e se il cuoco si fosse innamorato di lui?
Ma non ebbe nemmeno il tempo di elaborare meglio questo pensiero che sentì il tocco della mano dell’altro sulla propria spalla e il suo nome venir chiamato dalla stessa voce che fino a quella sera non aveva fatto altro che sputare commenti acidi e insulti nella sua direzione, ma che in quel momento gli era sembrata di una fragilità infinita. E vuoi per l’atmosfera creatasi, vuoi per altri fattori che in quel momento non aveva proprio voglia di andare ad analizzare, si era avventato sul cuoco e aveva iniziato a baciarlo, a spogliarlo, a farlo suo con una foga e un desiderio che non aveva mai pensato di provare. Ed ora eccoli lì, che non riuscivano nemmeno a guardarsi in faccia o a parlarsi normalmente.
Sospirò pesantemente, con lo scroscio dell’acqua che gli rimbombava nelle orecchie.
Passò almeno mezz’ora prima che Zoro uscisse fuori dalla doccia, si coprisse con un asciugamano ed aprisse la porta del bagno. Del cuoco non era rimasta altra traccia all’infuori della colazione lasciata sul tavolo, ormai fredda.
Sentì una fitta lancinante al petto.
 
Oh merda. Merda, merda, merda.
Era morto. E questa volta sul serio.
Se lo sentiva, non sarebbe riuscito di nuovo a passarla liscia: Lucci l’avrebbe ammazzato. Letteralmente.
Zoro si fiondò nel CP9 passando come sempre dalla porta sul retro, con la flebile speranza che, magari, nonostante le due ore di ritardo sulle spalle, Lucci non l’avrebbe notato.
«Roronoa, finalmente ti sei degnato di onorarci con la tua presenza.»
E quando mai.
Zoro si avvicinò al suo capo come qualcuno che si dirige al proprio patibolo.
«’Giorno, capo, non l’avevo vista.» Ugh. Forse far finta di nulla non è la tattica migliore.
Lucci lo fissò come se volesse incenerirlo con lo sguardo. «Facciamo anche i finti tonti, eh? Ti devo ricordare che ti trovi sul filo del rasoio? Potrei licenziarti anche seduta stante, se lo volessi.» Per l’appunto.
Zoro decise di deporre le armi e di arrendersi all’evidenza. Ma come avrebbe dovuto giustificarsi? Mi dispiace ma, sa, ieri sera ho fatto sesso con un mio amico e non ho la minima idea né di cosa lui provi per me né tanto meno di cosa provo io, in più non ci guardiamo neanche più in faccia, sto iniziando a pensare che sia stato uno sbaglio enorme e in tutto ciò ho completamente dimenticato il lavoro. Ora posso andare, vero? «Mi dispiace, ho avuto un contrattempo.»
Se possibile, lo sguardo di Lucci divenne ancora più truce. «Un “contrattempo”? E che genere di contrattempo potrebbe mai farti arrivare con due ore di ritardo al lavoro?»
Questa era difficile da spiegare.
Fortunatamente, come un angelo disceso dal cielo, Kaku arrivò in suo soccorso prima che ricominciasse a mettersi in ridicolo con delle scuse campate in aria.
 «Zoro, sei arrivato! In realtà non mi aspettavo proprio di vederti.»
Eh? E ora che succede? Il suo salvatore aveva per caso battuto troppo forte la testa cadendo dal cielo?
Lo sguardo d’ammonimento che gli lanciò, però, gli fece perdere ogni proposito di fare commenti.
Lucci inarcò un sopracciglio. «Perché non te lo aspettavi? Non è il suo giorno libero.»
«In realtà ieri mi aveva chiesto di anticiparglielo ad oggi per via di alcune commissioni importanti che doveva sbrigare, ma vedo che ha fatto prima del previsto.»
«Ehm… già, è così» fu l’unica cosa che riuscì a balbettare il principale interessato.
«Devo essermi dimenticato di avvisarti, Lucci, è colpa mia.» Certo che come attore Kaku era formidabile. Probabilmente Zoro non si sarebbe sorpreso più di tanto se un giorno avesse scoperto che in realtà fosse una spia in incognito.
Lucci, comunque, non parve particolarmente convinto neanche di questa scusa, ma decise di lasciar correre. «Va bene. Roronoa, il tuo prossimo giorno di ferie lo passerai qui a lavorare. Intesi?»
Zoro ringraziò l’intera volta celeste di avergliela fatta cavare con così poco.
Quando Lucci si fu sufficientemente allontanato, si lasciò andare ad un sospiro di sollievo. «Davvero, Kaku, sei la mia salvezza. Come cavolo tu faccia a convincerlo ogni volta, poi, è un mistero.»
L’altro ridacchiò. «Diciamo che ho i miei metodi. Tu piuttosto: perché diavolo sei arrivato così in ritardo? D’accordo che non sei mai puntuale, ma due ore sono troppe persino per te. Cosa ti è successo?»
Zoro sospirò di nuovo. «è una lunga storia.»
L’altro lo osservò a lungo prima di ritornare al proprio lavoro.
 
Anche quella giornata di lavoro era finita, ma in realtà Zoro non sapeva se sentirsi sollevato o no: da una parte era in qualche modo liberatorio uscire finalmente fuori dal CP9 e tornarsene al Mugiwara Club, ma d’altra parte in quella manciata di ore di lavoro era riuscito a non pensare per un po’ a quel damerino di merda che continuava ad entrare nella sua mente manco avesse un ariete pronto ad abbattere ogni forma di difesa che avrebbe alzato. Era inutile tentare di non pensarci, tanto più che una volta al club l’avrebbe sicuramente incontrato di nuovo.
Deglutì a vuoto.
 
Le cose erano andate anche peggio del previsto.
Il cuoco non si era presentato al club per tutta la sera. Mai. Nemmeno per un saluto veloce alle sue adorate dee o che so io.
Pur di evitarlo era scomparso di nuovo dalla circolazione, e Zoro non poteva dire di poterlo biasimare, ma la cosa era riuscita comunque a fargli provare una strana sensazione di malessere fin dentro le viscere.
Gli altri ovviamente, completamente ignari degli avvenimenti della fantomatica notte precedente, non avevano fatto caso più di tanto alla sua assenza.
Come rovescio della medaglia, però, si erano interessati anche fin troppo a lui.
«Zoro, sicuro di sentirti bene?»
«Hai una faccia!»
«Zoro, perché sei così pallido? È successo qualcosa?»
«Perché oggi hai la testa fra le nuvole? Non è da te.»
«Yohohoho, Zoro, non ti sembra di star esagerando troppo con gli allenamenti stasera?»
«Zoro, forse dovresti andare da un medico, con quella faccia non mi stupirei se collassassi seduta stante.»
Diamine! Persino Chopper lo osservava con uno sguardo accusatore che sembrava dire “io so cosa è successo, so tutto, e fattelo dire: sei nella merda più totale”. Grazie, Chopper, lo so da me.
Ma il suo stato d’animo era davvero così scontato?
A quanto pare sì.
L’unica persona che era rimasta in silenzio per tutto il tempo scrutandolo attraverso gli occhiali da vista come a volerlo analizzare da cima a fondo era, ovviamente, Robin. Mentre tutti gli altri avevano continuato a ronzargli intorno chiedendo spiegazioni a destra e a manca, infatti, lei era rimasta seduta sulla sua poltrona preferita ed aveva continuato a leggere come suo solito, o almeno apparentemente. Perché Zoro li aveva sentiti, quello sguardo dietro la schiena che continuava a studiarlo e quel cervello che elaborava gli indizi ottenuti ed arrivava alle proprie conclusioni. Tutte giuste, su questo Zoro non aveva il minimo dubbio.
Cazzo se quella ragazza non gli metteva i brividi, certe volte.
E difatti eccola lì: appena prima di varcare la soglia del club per andarsene con Franky ad uno dei loro appuntamenti, si era avvicinata a Nami e le aveva sussurrato qualcosa all’orecchio. Quest’ultima aveva assunto per un attimo un’espressione scioccata, la quale fece però ben presto largo ad un ghigno che definire vittorioso sarebbe stato un eufemismo. A quel punto si erano voltate verso di lui e gli avevano rivolto dei sorrisetti maliziosi che non avevano lasciato più alcun dubbio circa la natura delle loro conversazioni e deduzioni.
Sherlock e Watson non erano nulla a confronto.
Se ne erano quindi andate senza dire una parola, ridacchiando sotto i baffi mentre i loro rispettivi fidanzati, che le aspettavano sulla soglia, le guardavano sbigottiti, nel tentativo di capire cosa diavolo ci fosse di tanto divertente. Probabilmente non avevano notato anche loro l’espressione di puro terrore che si era dipinta sulla faccia di Zoro.
Con quelle due streghe a conoscenza della verità, la sua vita poteva dirsi ufficialmente finita.
 
 
[Angolo dell’autrice]
Eeeeeeed eccomi qua.
Sì, lo so, per i miei ritardi dovrei morire nei modi più atroci possibili, ma vi giuro che questo capitolo è stato difficile da concepire. Della serie: oddio, e ora come cavolo posso descrivere le loro reazioni post-cataclisma in modo che siano IC? 
Spero di essere riuscita a non sforare nell’OOC.
Anyway, Zoro si trova nella merda, come avete potuto notare. Poverino, il suo cervellino già fatica a capirci qualcosa e in più si mettono in mezzo il lavoro e il duo Sherlock&Watson a complicare le cose. Sono perfida XD
Come potete vedere, poi, questo capitolo è denominato “Parte I”: questo perché avrei voluto inserire in un solo capitolo tutto il percorso che porterà questi due zucconi a mettersi insieme, ma ovviamente sarebbe stato un papiello infinito e ho preferito ripiegare su una specie di, ehm, saga? Non esattamente, però volevo sottolineare che il capitolo/i capitoli successivi (perché non so nemmeno quanto durerà ‘sta cosa) sono collegati dal fatto che finalmente i nostri eroi questi due faranno i conti con i loro sentimenti, ecco.
Con la fine dell’estate spero di poter aggiornare più spesso. Perché io col caldo non ho voglia di fare assolutamente NULLA.
Ringrazio davvero di cuore tutti coloro che nonostante i ritardi immani seguono ancora questa fic. Vi adoro. Mi fate felice dal più profondo del mio cuore. ç_ç
Alla prossima, dunque, sperando che venga presto!
 
P.S. Il titolo è preso dalla canzone Do I Wanna Know? degli Arctic Monkeys, che ho trovato molto azzeccata. :3 

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