Hush, baby

di clepp
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 00 - Prologo, Josef ***
Capitolo 2: *** 01 - Capitolo uno, Superman ***
Capitolo 3: *** 02 - Capitolo due, Tough decision ***
Capitolo 4: *** 03 - Capitolo tre, Ask me ***
Capitolo 5: *** 04 - Capitolo quattro, Misunderstanding ***
Capitolo 6: *** 05 - Capitolo cinque, It's alcohol! ***
Capitolo 7: *** 06 - Capitolo sei, Ruined comics ***
Capitolo 8: *** 07 - Capitolo sette, My story ***



Capitolo 1
*** 00 - Prologo, Josef ***


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00
Josef



 
 
I suoi passi decisi erano gli unici rumori che riecheggiavano nei corridoi silenziosi della Barkley Elementary School. Anche se indossava un semplice paio di all star bordeaux, l’impeto con cui stava camminando faceva sbatacchiare la suola in gomma sul pavimento, producendo un ticchettio costante.
La camicia a righe rosse e verdi saltava di un bottone: Gwen l’aveva abbottonata frettolosamente nella foga di uscire di casa dopo aver ricevuto la preoccupante telefonata di Gretel. Non era nemmeno riuscita a chiederle cosa diamine fosse successo e per quale motivo stesse balbettando in quel modo – cosa che le succedeva quando era molto in ansia -, ma aveva soltanto capito in quel minestrone di parole confuse che tanta agitazione era dovuta a Josef e che la supplicava di andare da lui immediatamente perché lei non poteva muoversi, altrimenti avrebbe perso anche quell’impiego.
Così Gwen aveva chiuso i suoi libri di Letteratura spagnola, aveva afferrato le prime cose che le erano capitate sotto tiro ed era uscita di casa diretta verso la scuola elementare del piccolo Josef.
Le chiavi della macchina che teneva salde in mano accompagnavano il ritmo della sua falcata rumorosa. Non osava nemmeno immaginare come fossero ridotti i suoi capelli, o la sua faccia dopo una mattinata di intenso studio.
Svoltò l’angolo – quanto diamine era grande quella scuola? – e in fondo al corridoio scorse un gruppetto di ragazzini posizionati attorno ad una porta chiusa. Quella che doveva essere l’insegnante, una donna di mezza età con lunghi capelli castani, era al centro del semicerchio: l’orecchio appoggiato alla superficie della porta e la mano chiusa intorno al pomello.
Gwen sospirò e spinta dalla preoccupazione accelerò il passo, scansando bruscamente qualche ragazzino per riuscire ad aprirsi un varco in mezzo a quella ressa.
«Oh grazie al cielo,» esclamò la donna, sporgendosi verso di lei con un’espressione sollevata. «Lei è la signora Hoffmann?» le chiese, osservandola bene in viso. Gwen le diede qualche secondo per rispondere da sola a quella domanda dato che l’unica caratteristica fisica che poteva accomunarla al piccolo Josef era il colore chiaro degli occhi. La donna, dopo aver alzato le sopracciglia, appurò che quella non poteva decisamente essere la madre biologica di Josef.
«Sono un’amica di famiglia.» le rispose invece, «la signora Hoffmann mi ha chiesto di venire al suo posto.»
Gwen vide chiaramente il naso della donna storcersi a quelle parole e un'espressione contrariata comparire sul suo bel viso. Non si preoccupò affatto di nascondere il suo dissenso nel constatare che la madre di un suo alunno si era fatta sostituire da qualcun altro. 
«E la signora Hoffmann ha preferito mandare un’amica invece di presentarsi personalmente? Si tratta di suo figlio, la questione è abbastanza seria.» disse con quell’intonazione saccente e quella voce che Gwen proprio non riusciva a sopportare. Avrebbe voluto colpirla in faccia, su quel bel nasino all’insu, e magari romperle gli occhiali quadrati perché era in fase esami universitari e perché si, i capelli di quella vecchia erano troppo più belli dei suoi. Non lo fece, ovviamente, dopo un profondo respiro si era ripetuta che era lì solo ed esclusivamente per Josef e non per fare a botte con quella donna. 
«La signora Hoffmann,» replicò, il più tranquillamente possibile ma con quella sua solita nota stonata che rovinava le sue buone intenzioni. «E’ al lavoro, dove, oh ehy!, porterà a casa i soldi per crescere suo figlio. Lei non ha la minima idea di quanto la signora Hoffmann si senta in colpa di non essere qui, per risolvere la questione abbastanza seria di suo figlio, di cui si preoccupa giorno e notte, senza un minuto di pausa. Quindi se abbiamo finito di fare le grandi donne e credere di avere il diritto di criticare le vite altrui, la prego, le chiedo cortesemente di dirmi dov’è Josef. Che è il motivo per cui siamo qui, sbaglio?» non era riuscita a contenere il cinismo e il suo saccente sarcasmo ma non gliene importava affatto, perché quella donna aveva indirettamente insultato le capacità di Gretel come madre senza sapere nulla e se non poteva colpirla fisicamente in qualche modo doveva pur sfogarsi. Finì di parlare con un sorriso ironico stampato in faccia, aspettando che quella incassasse il colpo e rispondesse alla sua domanda. Lo fece, aggiungendo quell’occhiata acida di chi cerca di mantenere il proprio ego intatto, nonostante le circostanze.
«E’ dietro quella porta.» replicò, stizzita, incrociando le braccia al petto in un gesto seccato. «Non credo riuscirà a farlo uscire, comunque. Ho provato di tutto.»
Gwen lasciò scivolare la borsa dalla spalla fino a terra e si inginocchiò davanti alla porta con calma, sistemandosi i capelli dietro le spalle. Sapeva in che cosa consisteva quel "tutto" di cui stava parlando, e se Gwen l'aveva inquadrata sotto la luce giusta allora era sicura di poter affermare che quella donna non aveva fatto assolutamente niente per Josef, se non recitare la parte dell'insegnante preoccupata e sottolineare la gravità della situazione a Gretel, facendola preoccupare ancora di più.
«Oh, grazie.» rispose allora lei, «da qui in poi faccio io.» le sorrise di nuovo perché si divertiva un mondo a vedere il suo bel faccino contrarsi in una smorfia seccata e impotente.
«Jo,» l’intonazione della sua voce si trasformò drasticamente: il sarcasmo che l’aveva impregnata fino a quel momento scomparve del tutto, lasciando spazio ad un tono più dolce e gentile. «Sono io, Gwen. Sai, piccolino, non che io non approvi la tua scelta di scioperare contro il sistema scolastico, ma hai scelto davvero una brutta giornata.» fece una pausa di qualche secondo. «Mamma è molto preoccupata, e tu sai che quando mamma è molto preoccupata poi comincia a straparlare di cose senza senso e noi non vogliamo che la mamma straparli, non è così?»
Gwen aspettò che Josef le rispondesse al di là della parete. Era sicura che fosse appoggiato alla superficie della porta, con le braccia legate attorno alle gambe e la testa racchiusa tra le ginocchia. La sola immagine di un Josef così indifeso e impaurito le strinse il cuore, perché tutto potevano farle tranne toccarle il suo piccolo Jo.
Nel silenzio che accompagnò le sue parole Gwen udì chiaramente i mormorii inappropriati dei ragazzini che circondavano ancora la porta, come se avessero tutto il diritto di assistere a quella scena, come se ci fosse effettivamente una scena a cui assistere. C’era solo un bambino, un piccolo bambino biondo che crollava di tanto in tanto perché non era abbastanza forte per affrontare ciò che quel mondo gli riservava. Nessuno era perfetto, e Gwen avrebbe voluto urlarlo al gruppetto di stupide ragazzine che avevano cominciato a ridacchiare a pochi passi di distanza. Se le avesse avute sotto tiro, le avrebbe colpite con la borsa. C’era solo un bambino che Gwen riusciva a sopportare, ed era dietro quella porta. Tutti gli altri, erano solo una banda di mocciosi viziati e capricciosi che lei avrebbe evitato volentieri.
«Non credo che Josef voglia uscire in questo momento,» disse Gwen, rivolgendosi all’insegnante. «Forse è il caso che i ragazzi ritornino in classe.»
Anche se sulla faccia della donna Gwen poteva leggere un profondo senso di soddisfazione per quell’ammissione di incapacità, quella comprese le circostanze e obbligò i bambini a ritornare in classe e a non muoversi dai loro banchi.
Gwen incrociò le gambe e si sedette meglio sul pavimento sporco del corridoio della Berkley Elementary School. Non era la prima volta che si ritrovava a dover gestire gli attacchi di panico di Jo, ma in quelle occasioni aveva sempre avuto il supporto di sua madre: il solo pensiero di doversene occupare da sola, la innervosiva. Non era mai stata brava con i bambini, e ancora non capiva come Josef l’avesse presa in simpatia, ma con lui tutto era più facile perchè non era come i ragazzini a cui era abituata.
«Ti ricordi Jo, l’ultimo discorso strampalato della mamma?» cominciò, cercando di calmare lui e se stessa allo stesso tempo. «Su cos’era? I cereali integrali, forse? Ah si. Diceva che i cereali integrali sono più salutari di quelli al cioccolato, e ha cominciato a elencare i vari ingredienti dei cereali, come se a noi importasse. Ti ricordi anche come ha finito il discorso? Sono sicura che lo ricordi.» Gwen fece un’altra pausa, in attesa che Josef rispondesse alla domanda. Si rese conto che lui non era ancora pronto, perciò prese un profondo respiro cercando di accantonare da una parte buia della sua mente l’immagine di Jo rannicchiato su se stesso e continuò a parlare con una voce squillante.
«Appurato che i cereali integrali fanno bene, versami un'altra ciotola di quelli al cioccolato, Jo.» borbottò imitando la voce civettuola e l’accento marcato dell’amica.
«Non vorrei che circoli troppa salute in questo mio bel corpo.»
Gwen sorrise.
La voce di Josef era arrivata attutita, ma essendo entrambi appoggiati alla porta, si era sentita chiaramente. O forse erano le orecchie di Gwen che, speranzose nell’udire un qualche cenno di risposta, avevano moltiplicato il suono.
«Non credo che tu voglia riascoltare un discorso del genere. Io no di sicuro.» rise. «Quindi che ne dici di uscire da lì e di andare a rassicurare la mamma?»
L’ennesima pausa. Gwen aspettò pazientemente che Josef accettasse quelle parole, le comprendesse e facesse ciò che lei gli aveva proposto. Poteva anche rifiutarsi e rimanere rinchiuso lì dentro per il resto della vita, ma Gwen sapeva che era un combattente e che non si sarebbe nascosto.
Dopo una manciata di secondi, infatti, il pomello della porta si mosse e il viso tutto impettito di Josef comparve dall’uscio buio.
«Sono fiera di te, lo sai?» Gwen si alzò da terra e gli porse una mano con un grande sorriso di incoraggiamento. Nel corridoio c’erano solo loro e l’insegnante affacciata dalla porta della classe, in attesa.
«Non volevo farlo,» mormorò Josef a voce così bassa che Gwen faticò a distinguere le parole. «Ma loro sono... sono...» non riuscì a finire la frase. Sospirando, abbassò la testa e i capelli lunghi e biondi gli ricaddero davanti al viso.
L’immagine delle ragazzine starnazzanti le ripiombò davanti agli occhi e dovette fare uno sforzo sovraumano per rimanere ferma immobile. Josef aveva i capelli biondi scompigliati sulla fronte e gli occhi azzurri erano lucidi, acquosi. Le guance rosse erano il rimasuglio del suo precedente attacco di panico e le labbra gonfie indicavano che aveva cercato di limitare i danni mordendole.
«Dammi la mano,» gli allungò di nuovo la mano. «Zia Gwen ti darà qualche consiglio su come non farti più infastidire.»
Gwen riuscì a convincere l’insegnante a fare uscire Josef un’ora prima del suono della campanella, tirando fuori le sue straordinarie doti di persuasione. 
Dopo una chiamata a Gretel e la firma di Gwen sul permesso di uscita, Josef si allontanò da quell’incubo che era la sua scuola. Mentre lo osservava camminare tranquillamente nel parcheggio della Berkley Elementary School Gwen sospirò pesantemente: doveva cercare di indurirgli le ossa, pensò, perché se trovava la scuola un incubo, cosa avrebbe fatto nella vita reale?





Non posso davvero credere di aver postato questa storia. E dopo quanto tempo! Mesi e mesi di silenzio, per poi uscirmene con questa... cosa? 
In un certo senso, sono felice di tornare ad intasare questo fandom con le mie stronzate che spero continuerete ad apprezzare. Spendo giusto due o tre parole riguardo la nuova storia, che ha come protagonista (stranamente) il nostro Zayn. Allora, quello che ho appena postato è soltanto il prologo, quindi vi prego di non fermarvi solo qui e - sempre se vi va - di andare avanti nella lettura perchè, come ho appena detto, questo è solo il prologo che serve a spiegare un po' in generale chi è la protagonista, com'è - in linea di massima - il suo carattere e chi sono i suoi familiari/amici.
Abbiamo Gretel, che viene soltanto nominata un paio di volte ma che avrà un'importanza fondamentale all'interno della storia, così come suo figlio, Josef che avete già conosciuto. Diciamo che Josef è il motivo di questa storia, è la colla che unisce Gwen e Zayn. 
Più avanti arriveranno anche tutti - o quasi - gli altri membri della band, che naturalmente non sono famosi. Inoltre ci saranno anche altri personaggi di mia pura invenzione che spero apprezzerete :)
Se avete trovato noioso questo inizio, non preoccupatevi, perchè dal prossimo capitolo si smuoverà già tutto. Nel prossimo, appunto, ci sarà l'incontro tra Zayn e la ragazza, favorito dal nostro piccolo Josef. 
Detto questo, spero davvero di trovare un riscontro positivo in voi perchè ci tengo a questa storia e mi impegnerò a fare un bel lavoro! 
Grazie se siete arrivati fin qui, e grazie se andrete oltre! Un bacio, 

clepp

 
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Capitolo 2
*** 01 - Capitolo uno, Superman ***


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01
Superman

 




Le gambe di Gwen erano attorcigliate a quelle di legno dello sgabello posto di fronte al bancone della tavola calda in periferia. Il gomito poggiava sulla superficie piana - proprio sulla tavoletta bordeaux che si abbinava perfettamente alle sue converse - e sul palmo della mano aveva abbandonato il mento appuntito. Il piccolo locale non era affollato, gli unici clienti erano lei, due signori in giacca e cravatta seduti ad uno dei tavoli accanto alla finestra, una donna intenta a leggere un romanzo e un ragazzo con la forchetta in mano occupato a finire il suo pranzo.
L’attenzione di Gwen era puntata verso la sua amica bionda, Gretel, inginocchiata di fronte al figlio dalla stessa tonalità chiara di capelli, Josef. Forse per la scarsità di persone da servire o forse perché Gretel era morta dalla preoccupazione, si lasciò andare ad uno slancio di affetto e con impeto afferrò suo figlio per le spalle e lo strinse a se con forza, sussurrandogli parole di conforto, cercando di scusarsi per la sua assenza.  
Gretel era fatta così: avrebbe dato la vita per suo figlio, e per qualsiasi persona cara, e forse per lei non sarebbe stato ancora abbastanza. Aveva rinunciato alla sua adolescenza, agli studi, e ad una vita agiata per quel piccolo pargoletto, ma non rimpiangeva nulla di ciò che aveva fatto.
Gwen sorrise perché nonostante Gretel si spaccasse la schiena per Josef, poteva leggere sul suo viso il senso di colpa per non essere potuta stare accanto a lui durante quel momento di debolezza, anche se era paradossalmente occupata a lavorare per garantirgli un futuro.
«Gret,» la richiamò Gwen, dopo aver notato una smorfia di dolore comparire sul viso di Jo, ancora stretto nella morsa protettiva della  madre. «Lo soffocherai di questo passo.» l’avvisò, sorridendo a quella scena.
Josef si liberò dalla presa della madre e si sistemò la giacca che si era stropicciata durante quel caloroso abbraccio. Sorrise timidamente mentre zampettava verso lo sgabello libero accanto a Gwen, e Gretel tornava dietro il bancone.
«Ti ringrazio di cuore, Gwen.» ripeté per la ventesima volta, ed erano lì da soli cinque minuti. «E mi dispiace di averti disturbata mentre stavi studiando.»
Gwen trattenne un sorriso: quando le emozioni di Gretel si facevano più intense, come quando era arrabbiata perché non riusciva ad accendere la vecchia televisione della cucina, come quando era felice perché Josef portava a casa ottimi voti, o come quando si dispiaceva per aver caricato qualcun altro dei suoi problemi, il suo accento tedesco diventava ancora più marcato e talvolta le capitava di inserire nel discorso qualche parola della sua lingua madre. Era divertente, soprattutto per Josef che amava sentire parlare la madre in tedesco.
«Gretel,» Gwen sospirò continuando a tenere la testa appoggiata sul palmo della mano. «Ti ho già detto che quando si tratta di Josef, non c’è nulla che tenga. Non devi né ringraziarmi, né scusarti di niente.»
Gretel rise nervosamente, e cominciò a sistemare il bancone per tenersi occupata ed evitare di iniziare a straparlare. Josef lanciò un’occhiata eloquente a Gwen.
«Piuttosto, preparami una cioccolata calda per pranzo. Con doppia panna, devo tirare fino a questo pomeriggio.» chiuse le palpebre facendo finta di perdere l’equilibrio e addormentarsi, giusto per sottolineare il fatto che stesse morendo di sonno. Gretel si mise subito al lavoro.
Ancora un po’ scosso dall’attacco di panico di qualche ora prima, Josef cominciò a torturarsi le dita delle mani appoggiate sul bancone. Anche lui, come la madre, più cercava di nascondere la sua agitazione, più la metteva in mostra, solitamente tramite dei gesti nervosi o dallo sguardo timoroso, ma talvolta anche con una parlantina fluente e spesso inopportuna, simile ma mai ai livelli di quella della madre.
Gwen si voltò di scatto, gli occhi vagamente spalancati e l’espressione confusa. Josef si era rivolto al ragazzo seduto a qualche sgabello di distanza intento a mangiare il suo piatto di maccheroni e formaggio e gli aveva posto una domanda che non aveva fatto in tempo ad afferrare.
«Josef.» lo riprese sua madre, con le mani alzate in alto in procinto di afferrare una tazza dallo scaffale in legno. Si rivolse poi al cliente. «Non deve rispondere, se non vuole. Josef è soltanto curioso. La prego di scusarlo.»
Ed eccolo lì, l’accento marcato. Gwen si trattenne dallo scoppiare a ridere, dovette abbassare lo sguardo per non risultare maleducata e ricevere anche lei un’occhiataccia dalla mamma.
«No, no.» anche il ragazzo sembrava divertito, perché inghiottì il boccone che aveva in bocca e sorrise a Gretel come a volerla rassicurare. Gwen fissò lo sguardo in quello confuso di Josef, che non capiva cos’avesse fatto di così tanto brutto da essere ripreso in quel modo.
«Jo,» lo richiamò. «Cos’è che gli hai chiesto?»  sentì lo sguardo di ghiaccio di Gretel congelarle la guancia sinistra, che era quella rivolta a lei, ma non poteva farci niente se si era persa il motivo di tanta agitazione ed era troppo curiosa di saperlo.
«Josef, non ripeterlo.» Gretel lo fissò con decisione, e Josef rimase in silenzio. La sua migliore amica poteva essere la ragazza più dolce e timida della terra, ma quando si trattava di educare suo figlio, poteva diventare la madre più severa di tutte le madri severe mai esistite.
«Dai, Gret, me lo sono perso. Non puoi privarmene.» Gwen le lanciò un’occhiata supplichevole, con tanto di broncio, ma la bionda intensificò il suo sguardo che da ghiacciato divenne rovente.
«Mi ha chiesto cos’avessi sul braccio.» fu il ragazzo sconosciuto ad esaudire il suo capriccio, attirando la sua più totale attenzione. Lo sguardo di Gwen cadde automaticamente sulle braccia del ragazzo e ne rimase quasi delusa: non c’era nulla di particolarmente eclatante. Il muscolo del braccio sinistro era teso nel tenere in mano la forchetta, così da mettere in evidenza l’inchiostro scuro che disegnava ghirigori sulla sua pelle. Erano tatuaggi, semplicissimi tatuaggi che gli riempivano l’intero avambraccio, e forse anche la spalla, coperta dal maglione grigio. Gwen rialzò lo sguardo sul viso del ragazzo.
«Si, siamo tutti curiosi. Adesso vogliamo sapere cos’hai sul braccio.» disse, ironica, accennando un sorrisetto sarcastico. Josef ricambiò il sorriso, innocentemente, felice di aver trovato l’appoggio di qualcuno così da non essere l’unico bersaglio della madre.
Il ragazzo ridacchiò, appoggiando la forchetta nel piatto quasi vuoto.
«Li devi scusare. Non so chi dei due sia il vero bambino.» fece Gretel alzando gli occhi al cielo e ricevendo una linguaccia dall’amica che tornò ad appoggiare il mento sul palmo della mano, annoiata.
«Sono dei tatuaggi,» replicò lui, sempre più divertito, rivolto più a Josef che a Gwen, anche se il suo sguardo vagava tra entrambi. «Sono dei disegni o delle scritte che tu decidi di inciderti sulla pelle, e che rimarranno per tutta la vita.»
Josef spalancò gli occhi. «Cioè per sempre?»
L’altro annuì: «Si. Per questo quando decidi di fartene uno, devi esserne convinto. I tatuaggi non sono fatti per essere rimpianti.»
Gwen non capiva se quel giorno trovasse tutto uno spasso o se fosse troppo stanca per rimanere seria. Avrebbe voluto ridere per quel discorso tanto appassionato, neanche stesse parlando della pace nel mondo o delle cure per i bambini malati di cancro.
«Sei uno molto convinto.» intervenne Gwen, riferendosi alla ormai totale parte di inchiostro sul suo braccio che aveva coperto il rosa della sua pelle.
«Si, abbastanza.» rispose lui, guardandola.
Tatuaggi e discorsi appassionati a parte, Gwen doveva ammettere che non aveva mai visto un ragazzo tanto affascinante, ed era tutto dire dato che gli stava parlando mentre aveva la bocca sporca di maccheroni e formaggio.
Aveva grandi occhi color nocciola che ogni volta che si muovevano sotto la luce al neon dei lampadari, questa ne rifletteva sfumature diverse e gli illuminava il viso di una intensità quasi innaturale. I capelli erano lunghi e scuri e lasciati disordinati a cadere sulla fronte come se acconciati in quel modo avessero uno scopo ben preciso, ovvero quello di donargli una bellezza sciatta di cui evidentemente andava piuttosto fiero, perché altrimenti avrebbe potuto tranquillamente pettinarsi. I lineamenti del viso erano definiti e quasi perfetti, ma a Gwen sembravano fin troppo ossuti. In effetti, non sembrava affatto molto robusto, anzi: il maglione gli cadeva sulla schiena senza forma e le maniche risvoltate all’insu penzolavano lasciando due centimetri di vuoto.
Era attraente, certo, ma non attraente per Gwen. Non era il suo tipo, anche se non riusciva a fare a meno di fissarlo.
«E posso farne uno anche io?» Josef interruppe lo scambio silenzioso di sguardi tra loro due. Gwen spostò l’attenzione con uno sbuffo irritato, mentre l’altro tornò a concentrarsi sul ragazzino con un sorrisetto divertito, se possibile ancora più di prima. «Si, ma magari quando sarai più grande e avrai le idee chiare.» Gretel gli lanciò un’occhiata grata.
Josef sbuffò: «Ma io ho le idee chiare adesso. Credi che tra dieci anni non mi piacerà più Superman? Io non credo. Io amo Superman, e voglio farlo sapere a tutti!»
Gwen rise mentre affondava il cucchiaino nella panna della sua cioccolata calda che Gretel le aveva preparato in pochi minuti. «Josef.» lo richiamò la madre ma non potè aggiungere altro perché i due uomini in giacca e cravatta attirarono la sua attenzione. Al bancone rimasero solo il bambino, il ragazzo e Gwen.
«No no, non voglio mettere in dubbio il tuo amore per Superman solo... pensa se quando sarai grande vorrai tatuarti il simbolo di Batman o di Spiderman, o di Hulk. Non potrai farlo, altrimenti tradirai la fiducia di Superman. È questo che intendo con idee chiare. Prenditi del tempo per decidere, e tra qualche anno torna da me con il disegno del supereroe che ti vorrai tatuare. E io lo farò.» il ragazzo allungò il braccio tatuato e aprì la mano verso Josef, in attesa che il bambino sigillasse quell’accordo così strano. Josef ci pensò su un momento, indeciso sul da farsi. Alla fine, gli strinse la mano.
«Va bene, ma come farò a trovarti?» gli chiese arricciando il naso.
Il ragazzo infilò la mano nella tasca dei jeans e tirò fuori un pennarello nero. Prese il braccio di Josef e cominciò a scrivere dei numeri sul suo polso.
«E’ il numero del mio studio di tatuaggi. Corri a casa e segnalo da qualche parte per non dimenticarlo.» gli sorrise amichevolmente mentre rimetteva a posto la penna.
Josef saltò giù dallo sgabello, fissando con ansia il numero scritto sulla sua pelle.
«Gwen! Dobbiamo andare a casa!» esclamò, d’un tratto tutto felice e allo stesso tempo agitato.
«Ma, ho appena iniziato la mia cioccolata!» protestò lei, con la bocca piena di panna.
«Non c’è tempo, forza! Vado a salutare la mamma.» corse verso sua madre mentre Gwen sospirava affranta e fissava la sua cioccolata con malcelata malinconia.
«Credevo che questo fosse il modo per rimorchiare le ragazze, non i ragazzini di nove anni.» borbottò ironica, rivolgendosi verso lo sconosciuto che le sorrideva, - e con che sorriso!
«Allora stai attenta che non perda quel numero, se lo vuoi così tanto.» replicò, con altrettanta ironia. Gwen alzò gli occhi al cielo.
Afferrò la borsa, si infilò in bocca un’altra cucchiaiata di panna, e scese dallo sgabello.
«Grazie per avermi fatto sprecare il pranzo.» farfugliò, seccata. «A mai più rivederci, o perlomeno, a mai più rivederci all'ora di pranzo.»
L’altro fece un cenno con la testa, tornando ad occuparsi dei suoi maccheroni. «A presto.» e il sorrisino nascosto che Gwen gli vide comparire sul viso, le fece chiedere cosa ci trovasse di tanto divertente. Ma poi Josef la trascinò fuori dal locale, e tra fogli volanti, penne scariche e esami universitari, si dimenticò persino che faccia avesse. 

 






Buonasera a tutti!
Ho davvero pochissimo tempo perchè come al solito comincio a fare le cose troppo in ritardo senza tenere conto dell'ora e degli amici che mi urlano contro di muovermi. Ma, tornando alla storia, ecco qua il primissimo capitolo!
Allora, in realtà non c'è molto da dire. Ho deciso di aggiornare così presto perchè non volevo lasciarvi a bocca asciutta con solo il prologo. Tuttavia, le pause tra i prossimi aggiornamenti saranno un po' più lunghe ma, per chi mi segue su facebook (Clepp efp) pubblicherò qualche spoiler di tanto in tanto.
Comunque, è arrivato Zayn, finalmente. Cosa dire di lui? Prima di tutto voglio sottolineare che non sarà il solito ragazzo scontroso, e neanche il ragazzo tutto cuoricini e stronzate simili. Avrà un carattere abbastanza... particolare? si se si può definire così. Spero di riuscire a descrivere lo Zayn che ho in testa così da riuscire a farvelo apprezzare come lo apprezzo io.
E' apparsa anche Gretel che come ho precedentemente accennato avrà un ruolo importante nella storia :)
Volevo ringraziarvi di CUORE per il bellissimo welcome back che mi avete regalato, davvero, mi avete resa molto fecile! Appena avrò un secondo di tempo, risponderò ai vostri messaggi!
Un bacio, 
clepp





 
 
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Capitolo 3
*** 02 - Capitolo due, Tough decision ***


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02
Tough decision
 
 
 
 
Gwen sospirò, arrotolandosi la punta della treccia attorno all’indice.
«Jax, ma ti senti quando parli?» disse, trattenendo a stento il tono della voce. Lentamente, raggiunse il divano in pelle del  salotto e si accomodò al suo posto, quello vicino al bracciolo, il più comodo e il più vicino alla finestra.
Suo fratello minore Jaxon sbuffò dall’altra parte della cornetta, e Gwen poteva immaginarlo sdraiato sul suo letto a due piazze ad alzare gli occhi al cielo e a farle gestacci offensivi.
«Cosa ho detto di male?» replicò stizzito. «Pensavo che tra tutti, tu saresti stata l’unica ad appoggiarmi. Evidentemente, il tuo nuovo appartamento ti ha fatto completamente dimenticare com’è vivere qui. Con mamma e papà.»
Ogni membro della famiglia Prior aveva una capacità ben distinta, che caratterizzava il carattere di ognuno di loro: l’ironia spontanea di Gwen le permetteva di ottenere un riscontro positivo in quasi tutte le persone che incontrava, e di conseguenza questo aiutava molto le sue abilità di persuasione, era in grado, per l’appunto, di convincere chiunque a fare ciò che a lei più piaceva; l’intelligenza di Noah faceva in modo che attraverso i suoi ragionamenti pratici, anche il più scellerato degli scellerati si fermasse a riflettere prima di agire; e infine, con il suo profondo charme, forse dato dalla sua abbondante autostima, il piccolo Jaxon con una semplice frase aveva l’incredibile capacità di far sentire in colpa chiunque si trovasse di fronte, persino quando non avevano fatto effettivamente niente.
Gwen sbuffò rumorosamente,  roteando gli occhi.
«Smettila di fare la vittima.» replicò la sorella, inviperita. «Ci siamo passati tutti, sai? Io mi sono trasferita soltanto quest’estate in una casa tutta mia, che poi mia non è. E Noah lo ha fatto a 22 anni. Tu ne hai solo 19, quindi sei ancora troppo piccolo per compiere un passo del genere. E tra le altre cose non hai nemmeno finito gli studi. Mi dispiace, Jax, ma in questo caso appoggio la severità di papà.»
L’imprecazione di Jaxon le arrivò forte e chiara alle orecchie, e fu addirittura costretta ad allontanare la cornetta per evitare di diventare sorda.
Jaxon era, se possibile, il più arrogante dei fratelli Prior, e nemmeno la risolutezza di Noah era in grado di farlo ragionare alle volte. Il fatto era che all’età di diciotto anni si era ritrovato da solo in casa, a dover affrontare i caratteri così distinti dei genitori, senza il sostegno dei fratelli che avevano sempre fatto fronte comune per guardarsi le spalle a vicenda. Voleva andarsene, e Gwen non lo biasimava perché vivere con mister e madame Prior era davvero un’impresa quasi impossibile. Ma cosa avrebbe potuto fare?
Jaxon non si preoccupava del futuro, non considerava le conseguenze delle sue azioni. Era terribilmente impulsivo e in molte occasioni, questo suo aspetto gli aveva causato grossi guai.
Era stato bocciato due volte a causa della sua testa dura e delle sue strane teorie contro il sistema scolastico, ed era finito in riformatorio più di una volta per via delle sue continue scorribande. Non si rendeva conto che tutto ciò che faceva durante l’età dell’adolescenza, poi gli si sarebbe ritorto contro più avanti.
E adesso l’idea di andare a vivere da solo era la ciliegina sulla torta. Gwen sapeva perfettamente come sarebbe andata a finire, perché conosceva Jaxon come le sue tasche. Non era abbastanza responsabile per un passo del genere, eppure lui era convinto del contrario.
«Non dico di volermene andare subito.» replicò lui dopo aver sfogato la sua rabbia con qualche parolaccia. «Darò un taglio agli studi, mi cercherò un lavoro per racimolare qualche soldo e messa da parte la cifra giusta, mi cercherò una casa. Non voglio una reggia, o un castello, voglio soltanto un cazzo di monolocale dove poter fare quel cazzo che mi pare.»
Gwen roteò gli occhi: lasciare la scuola per andarsene a vivere da soli in un cazzo di monolocale era esattamente il tipico ragionamento che ci si poteva aspettare da un ragazzino di diciannove anni come Jaxon.
«Fammi capire, Jax.» Gwen si schiarì la voce e si costrinse a mantenere la conversazione ad un livello tranquillo, evitando battutine sarcastiche che l’avrebbero fatto soltanto innervosire. «E dopo che avrai trovato un buco in periferia, a pochi passi dal tuo lavoro in un qualche fast food, che cosa farai? Vuoi davvero buttare via l’unica opportunità che hai di crearti un futuro?»
«Cosa c’è di male nel lavorare in un fast food? Sai, Gwen, non tutti hanno la pazienza di studiare altri cinque anni dopo le superiori. Io perlomeno non ce l’ho.»
Non erano discorsi per una ragazza irritabile come Gwen, che avrebbe tranquillamente preso a parole Jaxon per tutte le stronzate che stava tirando fuori. Quello, era un campo che si addiceva più a Noah, il quale avrebbe preso da parte il fratello e avrebbe cominciato ad elencargli una lista di pro e contro riguardo la sua decisione, cercando di farlo ragione e forse, se le circostanze fossero state favorevoli, esponendo la sua opinione.
Gwen, invece, aveva voglia di urlargli contro quanto quell’idea fosse insensata, obbligandolo a tornare a studiare perché se fosse stato bocciato anche quell’anno, l’avrebbe riempito di cazzotti.
«Non credo che la più grande ambizione di Jaxon Prior sia quella di lavorare in un fast food, anche se non c’è nulla di male in questo.» aggiunse velocemente, per evitare fraintendimenti.
Gwen non aveva intenzione di andare avanti a sprecare fiato per nulla, perché sapeva che qualunque cosa avesse detto, non sarebbe riuscita a far cambiare idea al fratello che in fatto di testardaggine era quasi capace di superarla.
Mentre ascoltava annoiata le parole irritate di Jaxon, la sua precaria attenzione venne attirata da uno zampettio sospetto che rimbombò dal corridoio affacciato alle camere. Pochi secondi dopo, la chioma bionda e disordinata di Josef comparve dalla porta.
Gwen osservò i suoi movimenti frettolosi e quasi furtivi mentre si avvicinava al telefono di casa e alzava la cornetta con estrema cautela, quasi avesse avuto paura di essere scoperto. Fu quell’atteggiamento così strano, a farle salire qualche dubbio.
«Josef!» esclamò Gwen, e il ragazzino sussultò sul posto, voltandosi verso di lei con aria preoccupata. «Che cosa stai facendo?» domandò alzando un sopracciglio, facendo poco caso alle parole di Jaxon che le stava chiedendo se lo stesse ascoltando.
«Niente!» replicò Jo e da quel niente, Gwen capì che c’era qualcosa.
Aggrottò la fronte mentre con un gesto vago della mano tappava la cornetta e si rivolgeva di nuovo al piccolo.
«Sicuro?» chiese lei, sempre più circospetta. «Sembri piuttosto agitato.»
Josef annuì prontamente. Aspettò qualche secondo, ma vedendo che Gwen non aveva intenzione di dirgli nient’altro, s’incamminò verso il corridoio, sparendo così come era arrivato con il cordless in mano.
«Sorella, mi stai ascoltando?» domandò Jaxon dall’altra parte della cornetta, con la tipica arroganza che nemmeno a farlo apposta impregnava ogni sua parola.
«Si, si.» e ripresero a discutere, nonostante Gwen avesse ormai la testa da tutt’altra parte.
Che stesse telefonando a suo padre, Bruce? Oppure a qualche... amico che si era fatto a scuola?
Gwen non capiva: aveva chiamato suo padre un’ora prima in presenza di Gretel, ed era quasi sicura che i suoi compagni di classe non potevano essere considerati veri e propri “amici”.
Decise di non pensarci, e di lasciar perdere. D’altronde, di madre apprensiva fino alla punta dei capelli, ce n’era già una.
 
 
 
 
«Gretel, sto per uscire!»
La bionda comparve dalla porta del bagno con un asciugamano legato sopra al seno e i capelli umidi di doccia. Le fece cenno di raggiungerla, e non appena le fu davanti, la guardò dall’alto al basso esaminando la giacca beige che le ricadeva morbida sulle spalle coprendo una canotta bianca, e i jeans strappati risvoltati sopra un paio di scarpe a fiori in cuoio.
«Lo sai che adoro il tuo stile, Gwendoline.» Gwen alzò gli occhi al cielo perché non c’era niente – niente – che odiava più di una critica sul suo modo di vestire accompagnata dal suo nome intero. «Ma ogni tanto vorrei vederti con qualcosa di più corto, e femminile. Tipo un vestito, o una gonna. Niente di troppo appariscente, certo, ma forse qualcosa di un po’ attillato?» chiese, speranzosa, guardandola con un’espressione che se Gwen fosse stata dell’umore giusto, avrebbe facilmente schernito.
«Apprezzo lo sforzo, mia piccola Gretel,» fece lei in risposta, lanciando una rapida occhiata al suo riflesso nello specchio del bagno. «Ma no.» le sorrise vagamente scocciata.
Gretel roteò gli occhi, ma non insistette oltre. Piuttosto, cercò di sviare l’argomento su qualcos’altro, sperando di smuovere l’interesse dell’amica.
«Hai presente il tizio dell’altro giorno? Quello che si è messo a parlare dei tatuaggi, e roba simile?» esordì, con l’intonazione di finto disinteressamento di chi vuole introdurre un argomento scottante senza destare alcun sospetto. Gwen ci mise un po’ a capire di chi stava parlando, ma alla fine, la fioca immagine di un ragazzo dalle braccia tatuate e dal bel sorriso, le apparve davanti agli occhi. Annuì.
«Ieri è tornato e mentre stava mangiando i suoi amati maccheroni al formaggio, ha preso in mano uno dei volantini del concerto di stasera e sembrava quasi interessato a venirci.»
A Gwen non poteva fregare di meno e non capiva per quale motivo lei glielo stesse facendo presente. Fece finta di mostrarsi interessata per non offendere Gretel, che in quelle cose ci teneva, e le chiese se aveva detto qualcosa in particolare riguardo il concerto.
«Mi ha soltanto chiesto chi era la band, e io gli ho detto che è “la band del fratello della ragazza che hai conosciuto qualche giorno fa”. Sembrava incuriosito.» la voce di Gretel pareva sul punto di scoppiare dall’entusiasmo, tanto era squillante. «E non dal concerto. Ma da te!»
Gwen strinse la cinghia della borsa e roteò gli occhi. Si voltò di spalle e s’incamminò verso la porta che dava alla sala, dove il piccolo Jo era intento a guardare un programma per bambini.   
«Buona serata, Gret!» urlò, e tutto di lei, dalla sua postura rigida, alla sua intonazione seccata, faceva intendere che quell’ultima affermazione l’aveva più che infastidita. «Buona serata anche a te, Jo!»
Ancora non era riuscita a capire a chi avesse chiamato Josef quel pomeriggio, con quell’aria furtiva e quella risposta vaga che l’aveva riempita di dubbi. E ancor di più non capiva perché Gretel si fosse presa l’inderogabile impegno di cercarle un ragazzo. Era tutto un gran casino che lei non aveva voglia di sistemare.
Ma purtroppo Gwen non era in grado di lasciar perdere, perché cos’avrebbe potuto fare durante un viaggio di quindici minuti in macchina con la radio rotta, se non cercare di dare un ordine a quella confusione?
 
 
 
 
 
«Ehi!»
Gwen spinse in là una ragazza più bassa di lei di qualche centimetro per raggiungere il bancone del locale dove suo fratello Noah e la sua band si stavano esibendo da una decina di minuti.
Seduto su uno degli sgabelli del bar, con un boccale di birra in mano e lo sguardo rivolto verso il palco, Gwen aveva scorto il ragazzo dei tatuaggi che aveva incontrato precedentemente e che Gretel aveva menzionato qualche minuto prima. L’aveva visto subito, perché era proprio lui il suo obiettivo da quando aveva messo piede lì dentro.
Aveva gli occhi semichiusi come se le luci soffuse di quel posto gli dessero fastidio, e i capelli che lei ricordava disordinati, erano stati tirati indietro con un po’ di gel.
«Ehi!» ripeté più forte, e questa volta lui la sentì. Si voltò verso di lei e aggrottò la fronte, prima di accennare un sorriso incerto, che sarebbe stato di certo più caloroso se non fosse per il fatto che una semisconosciuta gli stava andando incontro con un’espressione a dir poco rabbiosa.
«Esci fuori,» gli intimò quando fu a qualche passo di distanza. «Devo parlarti.»
E così si alzò, titubante, e seguì la ragazza all’interno della massa fino alla porta d’uscita, perché era curioso di sapere cos’avesse fatto per meritarsi un tale accanimento. Uscirono: erano da soli.
La ragazza non aprì bocca, semplicemente si fermò a qualche passo di distanza da lui con le braccia conserte e gli occhi di fuoco. Lui sentì il bisogno di fumare perché quel suo sguardo non gli piaceva e perché qualcosa gli diceva ch aveva bisogno di un aiuto per affrontare l’imminente discussione, così tirò fuori il pacchetto di sigarette semivuoto dalla sua giacca e se ne accese una.
Inspirò il fumo, prima di rilasciarlo in una nuvola densa che annebbiò per un istante la sua visuale. Il bel viso della ragazza arrabbiata però ricomparve subito.
«Quindi?» chiese, perché era troppo curioso.
Gwen assottigliò gli occhi. «Quindi? Quindi dimmi per l’amor di Dio che mi sto sbagliando.» disse, e la sua voce era così seria da obbligarlo a fissarla con più attenzione. «Perché se è ciò che sto pensando, prendo quella sigaretta e te la schiaccio in fronte.» asserì, minacciosa.
Lui aggrottò la fronte, inspirando un altro po’ di fumo. «Puoi spiegarmi?» chiese, perché più lei parlava, meno lui capiva.
«Hai dato il tuo numero a mio nipote,» riprese lei, frettolosamente, senza dargli il tempo di finire di parlare, quasi non gli fosse stato dato il permesso di aprire bocca. «che per la precisione ha solo nove anni, e lo stai chiamando, o lui sta chiamando te, o Dio solo sa cosa state facendo! Beh, vedi di smetterla, e all’istante prima che sua madre venga a saperlo e le venga un infarto.» sbottò inviperita, gesticolando animatamente con le mani e fissandolo con astio, come se solo attraverso quello sguardo volesse fargli capire che era ora di finirla. Mancava solo che Gretel venisse a sapere che suo figlio di nove anni chiamava un perfetto sconosciuto mentre lei non era in casa, e i suoi poveri nervi sarebbero crollati definitivamente. Che poi, chissà cosa diamine si dicevano quei due, o cosa diceva uno come lui al piccolo Josef.
Gwen si animò ancora di più. Cominciò a camminare avanti e indietro sul marciapiede, cercando un qualche appiglio per calmarsi, dicendosi che forse i suoi sospetti erano sbagliati, ma tutto le diceva che in realtà ci aveva pienamente azzeccato. Quando lui gli aveva scritto il numero di telefono sulla mano, non si era preoccupata più di tanto. Si era detta che non c'era nulla di male, che era stato un gesto gentile da parte sua. Era convinta che quella storia sarebbe finita lì, che Josef se ne sarebbe dimenticato presto nonostante l'eccitazione del momento.
Il ragazzo gettò il mozzicone della sigaretta per terra, pestandolo con la sua jordan. «Aveva soltanto bisogno di parlare.» disse cautamente, dosando le parole e l’intonazione con una certa attenzione e Gwen si fermò di scatto davanti a lui, fissando le iride grigie nelle sue.
«Può parlare con me, o con sua madre!» esclamò, stizzita. «Non ha bisogno della presenza di un perfetto sconosciuto, non così. Sai, all’inizio mi era anche piaciuta la tua mossa di lasciargli il numero di telefono. L’avevo trovata una cosa carina, e Josef ne era rimasto felice.» ammise sinceramente. «Ma questo... tutto questo deve finire. Non so nemmeno come ti chiami, non posso permettere che lui si avvicini a te.»
Lui la guardò con un’intensità che se non fosse stata tanto arrabbiata probabilmente avrebbe trovato affascinante. Ma il fatto che parlasse con Josef per telefono era una cosa che la inquietava troppo e che la rendeva diffidente nei suoi confronti.
«Mi chiamo Zayn e se mi dai due minuti, ti spiego com’è andata.» le sorrise vagamente ironico. Gwen avrebbe voluto ribattere o eliminare qualsiasi traccia di quel divertimento che aleggiava sulla sua faccia, ma non lo fece. Piuttosto, gli diede il tempo di spiegarsi, ma decise che se non l’avesse convinta già da subito, l’avrebbe fermato.
Zayn appoggiò i gomiti alla recinzione che circondava il locale, e cominciò a parlare nel suo accento inglese. Aveva l’accento inglese? E Gwen lo notava solo in quel momento, quando l’unica cosa a cui doveva preoccuparsi era come Josef si fosse messo in contatto con quel tizio?
«Il numero che ho dato a Josef era veramente del mio studio di tatuaggi, non era quello del mio telefono personale.» iniziò, «Il giorno dopo il nostro incontro alla tavola calda, il mio collega ha risposto ad una chiamata e ha detto che era per me. Che era molto importante. Allora ho risposto e quando ho sentito la voce di un bambino, inizialmente ho pensato che fosse uno scherzo. Ma poi lui mi ha spiegato e io ho capito.» aggrottò la fronte. «In realtà, capivo ben poco. Gli ho chiesto per quale motivo avesse chiamato e lui mi ha risposto che il suo supereroe preferito non era Superman in realtà e che il giorno prima l’aveva soltanto preso come esempio.»
Gwen cercò di non perdersi nemmeno una parola di quel discorso. Rimase immobile dove si era fermata quando aveva smesso di camminare avanti e indietro come un’ossessa, ma le mani le stavano tremando, un po’ per il freddo, un po’ per tutta l’ansia che quella storia le aveva messo addosso. Non era una cosa da prendere alla leggera, soprattutto perché in quella situazione centrava Josef, il suo piccolo e indifeso Josef.
«Allora io gli ho chiesto quale fosse il suo supereroe preferito e lui ha risposto Captain America. Captain America, capisci? Nessun bambino di nove anni può avere come supereroe preferito Captain America quando ci sono Spiderman e Iron Man in circolazione.» scosse la testa, abbozzando un sorriso divertito. Riprese a parlare. «Abbiamo iniziato a parlare di fumetti e robe varie e anche se avevo del lavoro da fare, non sono riuscito a riattaccare perché quel bambino era così appassionato nel parlare che mi ha praticamente stregato.»
Gwen si lasciò scappare un sorriso che nascose frettolosamente dietro una smorfia.
«Mi ha chiamato altre due volte dopo quel giorno, e in tutte e due le volte abbiamo parlato di fumetti, supereroi e tatuaggi. È fissato, lo sai? Con i tatuaggi, intendo.» la guardò. «Dice che ne vuole almeno due, uno sul braccio e uno sul petto.»
Ci fu una pausa nella quale la voce attutita di Noah e gli applausi degli spettatori erano gli unici rumori che rimbombavano nella strada deserta e nella testa di Gwen. Non si sentiva in imbarazzo, nonostante la reazione eccessiva che aveva avuto poco prima, ma provava soltanto confusione, e una vaga sensazione di impotenza. Si portò una ciocca di capelli dietro l’orecchio, fissando lo sguardo per terra.
«Tutto qua.» esalò Zayn infine, nascondendo le mani dentro le tasche della giacca, raddrizzando la schiena. «Ora, io non conosco la storia di Josef, o la sua situazione familiare e non mi permetterei mai di giudicare, ma...» accennò un sorriso. «Credo che non ci sia niente di male se di tanto in tanto lui senta il bisogno di parlare di roba da maschi con qualcuno come me. Insomma, per quanto lui possa volervi bene, non credo che voi siate le persone più indicate con cui parlare di supereroi o mostri assassini.»
Rimasero fermi l’uno di fronte all’altro, in silenzio: Gwen cercando di dare un senso alle parole che le erano appena piombate in testa, e Zayn osservando la confusione che le fluttuava negli occhi grigi, trattenendo un sorriso divertito per quella ragazza che probabilmente gli avrebbe staccato la testa se lui non fosse stato abbastanza veloce nello spiegare la situazione. Non voleva farla preoccupare, e nemmeno far nascere quei sospetti che lei non aveva approfondito direttamente, ma che erano abbastanza evidenti.
Zayn non aveva cattive intenzioni, anzi, non ne aveva affatto. Si era semplicemente trovato un ragazzino di nove anni dall’altra parte della cornetta con un disperato bisogno di discutere sul pessimo comportamento di Loki nell’ultimo film della Marvel, nulla di più.
«Basta una parola, e io non risponderò più alle sue chiamate.» riprese poco dopo, inclinando di lato la testa per trovare gli occhi di Gwen ancora fissi sulle sue scarpe. «Ma, se posso dire la mia, non c’è nulla di male in un ragazzino che vuole condividere i propri interessi con qualcuno. E so che le circostanze possono sembrare strane, ma se questo è l’unico modo per lui di sfogarsi, credo che si possa anche fare un tentativo.» tirò fuori un’altra sigaretta. L’accese, in attesa.
Gwen allungò una mano verso la ringhiera in ferro, afferrandola per tenersi in equilibrio. La testa le girava: aveva accettato il discorso di Zayn e gli aveva creduto, ma non era certa che quella fosse una buona idea. Insomma, come poteva un ragazzo di circa la sua età avere voglia di parlare con un ragazzino sconosciuto di fumetti e cartoni animati? Era assurdo, eppure qualcosa le diceva che se avesse chiuso i contatti tra quei due, Josef ne sarebbe rimasto profondamente deluso. Gli unici amici che quel bambino aveva erano lei, sua madre, suo padre e il cane dell’appartamento adiacente al loro.
«Gretel mi picchierà a sangue...» sospirò pesantemente, «Ma suppongo che... che si possa fare. Insomma, sempre che tu voglia. Dopotutto non sei obbligato a dover sopportare le chiacchiere di un bambino.»
Zayn sorrise a labbra chiuse: «Sopporto cose ben peggiori. E comunque, mi fa piacere. È un ragazzino intelligente.» disse e Gwen scosse la testa.
«Se lui dovesse... dovesse affezionarsi a te e tu dovessi deluderlo, cosa dovrei fare io?» non era convinta, no. Non spettava a lei prendere quella decisione, ma a Gretel. Eppure sapeva che Gretel non avrebbe mai accettato, e che Josef ne aveva bisogno. Quindi, a meno che Gwen non volesse passare il resto dei suoi giorni a dover leggere fumetti e guardare film di fantascienza, doveva decidere.
«Allora credo che quello che ho visto stasera possa servirmi da promemoria per il futuro.» Zayn ammiccò. «Stai tranquilla. Manterrò le distanze necessarie.»  
Gwen ripensò ai compagni di classe di Josef: ricordò le risatine del gruppetto di ragazze e i mormorii diffusi quando lui era chiuso dietro la porta dello sgabuzzino. Se davvero lui aveva bisogno di quel ragazzo, anche se in maniera relativa, per qualche semplice scambio di opinioni sui loro interessi, non poteva essere di certo lei a rovinare le aspettative di Josef. Annuì.
«D’accordo,» disse. «Non voglio scherzi, altrimenti dovrai rispondere a me delle tue stronzate.» era seria, terribilmente seria. Si stava assumendo tutti i rischi: se le intenzioni di quel ragazzo non fossero state sincere e a rimetterci fosse stato Josef, lei non se lo sarebbe mai perdonato.
Zayn si portò la mano libera dalla sigaretta sul petto, all’altezza del cuore. «Sarò un angelo.» ammiccò di nuovo.
Gwen alzò gli occhi al cielo: «Torno dentro.» ma prima di fare qualche passo, si lasciò scappare un sorriso spontaneo che non avrebbe voluto mostrare, se solo quel ragazzo non fosse stato tanto affascinante!
«E se ti va,» aggiunse lui mentre la osservava dirigersi verso la porta. «Un compromesso del genere lo si può trovare anche tra me e te.»
Lei chiuse la porta e l’impeto con cui quella sbatté contro lo stipite, gli fece capire che aveva sentito perfettamente. Sorrise, mentre la cenere della sigaretta gli finiva sulla giacca e l’imprecazione gli usciva dalla bocca.
Era bella, quella ragazza, e bella in un modo che a Zayn faceva impazzire.   







Buonpomeriggio a tutti! 
Finalmente dopo mesi e mesi di pioggia e di temporali gli dei ci hanno graziato con un po' di sole e di bel tempo! Ho deciso di aggiornare oggi perchè per i prossimi giorni sarò impegnata e lunedì partirò, perciò ho preferito non farvi aspettare troppo.
Allora, in questo capitolo viene messo in luce il bene che Gwen prova per il piccolo Josef e il fatto che farebbe di tutto, persino rischiare e fidarsi di un perfetto sconosciuto, pur di renderlo felice. Cosa ne pensate del suo iniziale accanimento nei confronti di Zayn? Come avrete potuto notare Gwen è una ragazza dal carattere molto forte e schietto perciò ha deciso di approcciarsi in maniera molto diretta con lui, attaccandolo già da subito. Però è anche una ragazza intelligente e per questo gli ha dato modo di spiegarsi prima di affrettare le sue conclusioni. Personalmente avrei fatto la stessa cosa. Insomma, scoprire che un bambino di nove anni chiama di nascosto un perfetto sconosciuto non è una cosa da prendere alla leggera, soprattutto se quel bambino è il figlio della tua migliore amica.
E cosa ne pensate del comportamento pacato e, sulla fine, anche un po' ironico di Zayn? E' riuscito a tenerle testa senza il bisogno di accanirsi contro di lei. E' uno Zayn un po' diverso da quello cui sono abituata ahahah ma spero che lo apprezziate come lo apprezzo io.
Vi ringrazio davvero moltissimo per le vostre recensioni e la vostra gentilezza, davvero.
Appena ho tempo risponderò ai vostri commenti nello scorso capitolo! :)
Ah, la storia per adesso è parecchio piatta ma vi assicuro che tra qualche capitolo si animerà un po' di più soprattutto con l'arrivo degli altri personaggi. 
Un bacio enorme,
clepp



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Capitolo 4
*** 03 - Capitolo tre, Ask me ***


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03
Ask me



 

Il ronzio dell’ago sopra la pelle nuda era il rumore che Zayn preferiva in assoluto, soprattutto se quella pelle nuda apparteneva alla ragazza tutta curve che si era ritrovato in studio quella mattina. Non c’era niente di meglio che tatuare la frase di una canzone sulla schiena di una bella ragazza e avere le sue natiche a cinque centimetri, o forse meno, dalla tua faccia.
Zayn sentiva che quella sarebbe stata una bella giornata. La ragazza si chiamava Monah, era alta, con un bel corpo, lunghi capelli biondi e occhi scuri come la pece. Rideva un po’ troppo per i suoi gusti e Zayn riusciva ad ascoltarla soltanto per venti secondi di seguito, dopodiché sconnetteva il cervello e si concentrava sulla sua visuale, lasciandola blaterare da sola.
Louis era seduto al bancone dello studio con gli occhiali da vista di Zayn fermi sul naso: la testa era china sul disegno che stava perfezionando da tutta la mattina. Era un continuo cancellare, imprecare, ricominciare da capo e imprecare di nuovo.
«Lou,» lo richiamò l’amico mentre intingeva l’ago nella pintura nera e approfittava del silenzio della cliente. «Vieni qui con noi, fai una pausa.» gli disse e si chinò di nuovo sulla schiena della ragazza, posizionando la macchinetta sopra la sua pelle seguendo la riga della parola Love. Aveva quasi finito, e Zayn non vedeva l’ora di poter fare una pausa da tutto quel chiacchierare continuo.
«Dammi un minuto.» rispose Louis, a voce bassa, troppo concentrato su ciò che stava facendo per degnare di uno sguardo l’amico.
Zayn alzò gli occhi al cielo.
«Il tuo amico è davvero un gran lavoratore.» commentò Monah, e senza un apparente motivo, prese a ridacchiare. Era per quel motivo che Zayn preferiva incontrare le belle ragazze fuori dall’ambito lavorativo, magari in una discoteca o in un bar, quando erano tutti troppo ubriachi per parlare. Non che a lui dispiacesse scambiare qualche chiacchiera con i clienti, ma solitamente gli argomenti non andavano mai oltre il tatuaggio che lui stava disegnando.
“Ha un significato particolare?”, “Come mai hai scelto proprio questo disegno?”, “Ah capisco, spero che ti piaccia”. E poi non parlava più nessuno. La musica dello studio era più alta del necessario proprio perché Zayn voleva far capire in qualche modo ai clienti che non dovevano parlare più del dovuto.
«E’ un perfezionista, si.» replicò Zayn.
«Anche tu mi sembri molto bravo,» ammiccò lei e Zayn alzò gli occhi al cielo sapendo che lei non poteva vederlo perché sdraiata di pancia. «E sicuro soprattutto. Il tatuatore che mi ha fatto il primo tatuaggio aveva la mano che tremava in continuazione. Non ti dico che male.»
Zayn lanciò un’occhiata fugace a Louis e lo vide contrarsi in una smorfia seccata: era sicuro che la voce squillante di Monah lo stesse infastidendo, distraendolo. Trattenne una risata.
«Posso immaginare.» replicò.
«Non sei un ragazzo di molte parole,» sghignazzò lei e Zayn dovette alzare l’ago per evitare di sbavare l’inchiostro a causa del suo corpo in movimento. «Eppure sei simpatico.»
«Grazie,» rispose. «Non amo parlare mentre lavoro. Mi deconcentra.» e sperava che con quella rivelazione lei si decidesse a tacere. Tutt’altro.
«Oh si, capisco.» disse. «Io invece amo parlare con la gente. Non per questo lavoro in un negozio di vestiti, a pochi isolati da qui.» e rise.
Zayn si ritrovò a chiedersi di quali stupefacenti facesse uso e se per caso poteva prestargliene un po’. Alzò di nuovo lo sguardo verso Louis che questa volta lo stava fissando a sua volta. Con in mano la matita si portò l’indice vicino alla tempia e lo fece roteare circolarmente, dando della fuori di testa alla ragazza sdraiata sul loro lettino che ancora ridacchiava. Zayn in tutta risposta alzò le spalle e indicò con lo sguardo il culo della ragazza, sorridendo. Louis alzò gli occhi al cielo e tornò a cancellare e a imprecare.
«Abbiamo quasi finito Monah.» la avvisò poco dopo e la tentazione di accelerare la velocità della mano per finire il prima possibile era davvero tanta, ma fu più forte la sua volontà di fare un bel lavoro.
La ragazza riprese a parlare frettolosamente del suo impiego come commessa, incespicando di tanto in tanto sulle parole, come se l’avviso che tra poco avrebbero finito la stesse quasi obbligando a raccontare quante più cose possibili in quel breve lasso di tempo. Zayn annuiva di tanto in tanto, poi si rendeva conto che lei non poteva vederlo, quindi mormorava un qualche “Ah capisco,” o un “Bello” poco convinti.
Una volta finita la scritta, ripulì l’inchiostro superfluo con un panno bagnato e le disse che poteva alzarsi e andare a specchiarsi allo specchio in fondo alla stanza.
Lei saltellò giù dal lettino con impeto, squittendo la sua eccitazione. Zayn non poté fare a meno di fissarle il corpo sodo, ma dopo quell’intensa ora passata insieme, il tempo in cui i suoi occhi rimasero fissi sul suo sedere fu decisamente meno rispetto a quando era entrata quella mattina. Il telefono dello studio prese a squillare e prima di rispondere, Louis imprecò a bassa voce.
«Studio Zap Tattooes, come posso aiutarla?» Zayn non sapeva se essere interessato più alla telefonata oppure alla ragazza che stava saltellando allegramente davanti allo specchio.
«E’ bellissimo!» squittì estasiata, piegando un po’ la schiena per vedere meglio la scritta posizionata sopra la riga dei pantaloni. «Grazie, Zayn!» ammiccò un occhiolino nella sua direzione, e Zayn accennò un sorriso soddisfatto.
«Dovere.» replicò, incrociando le braccia al petto.
«Ma perché vogliono tutti parlare con te, Zayn?» Louis richiamò la sua attenzione che dal seno ballonzolante della ragazza si spostò all’espressione seccata dell’amico. «Tieni.» gli passò la cornetta del telefono e lui si alzò automaticamente in piedi: aveva la strana abitudine di non riuscire a parlare al telefono se non era in piedi. Lanciò una rapida occhiata all’orario e si chiese se potesse essere quel ragazzino, ma si disse che l’aveva già sentito un’ora prima quindi aggrottò la fronte mentre si portava la cornetta all’orecchio.
«Pronto?» fece; al di là del segnale non udì alcun rumore e gli venne il dubbio che fosse tutto uno scherzo. «Pronto?» chiese ancora, a voce più alta.
Sentì qualcuno tossicchiare: «Controllavo.» rispose una voce rauca ma paradossalmente femminile. Zayn la riconobbe subito e si stupì del sorriso divertito che gli comparve sul viso quasi subito dopo aver realizzato che stava parlando con… con?
«Con chi sto parlando?» chiese, nascondendo la finta ironia del suo tono di voce. In realtà, non stava scherzando. Sapeva con chi stava parlando, ma non conosceva né nome, e né cognome della ragazza.
«Sono Gwen,» rispose lei e dal tono seccato Zayn era sicuro che stesse alzando gli occhi al cielo. «Piacere.»
«Gwen.» ripeté lui e se lo impresse bene in mente.
«Si, Gwen.» replicò lei. «Scusa il disturbo, ti lascio lavorare.»
Zayn la fermò appena in tempo: «Aspetta,» sentì che non aveva riattaccato perciò continuò. «Perché hai chiamato?»
«Per controllare. Sai, non sono ancora del tutto convinta di questa storia. Ora che so che hai detto la verità, posso anche riattaccare.» spiegò spiccia, ma non mise giù subito. Zayn cercò di immaginarla seduta da qualche parte, con il telefono appoggiato tra l’orecchio e la spalla e tra le mani un libro di un qualche autore classico, – non lo sapeva nemmeno lui – ma era sicuro che fosse una di quelle ragazze intellettuali che ama leggere tutto il giorno. Rievocò i suoi capelli lunghi che le arrivavano fino al seno, gli occhi grigi che ricordava ammiccanti, e la parlantina sciolta. Si era reso conto che le uniche due volte in cui ci aveva parlato era stato più disinvolto del normale, come se la conoscesse da tanto tempo e le battutine che faceva fossero assidue nel loro rapporto. Forse era la sua voce così calda e in un certo senso rassicurante, o forse erano i suoi modi sicuri ma mai spavaldi ad averlo messo stranamente a suo agio durante i loro incontri. Aveva una grande presenza, perché oltre ad essere di una bellezza non indifferente, aveva anche una personalità carismatica. Era il genere di ragazza che attraeva Zayn come una calamita.
«Credevo avessi chiamato per me.» replicò schietto, ignorando le occhiate confuse di Louis occupato a intrattenere Monah. Udì lo sbuffo dall’altra parte della cornetta e ancora una volta se la immaginò mentre alzava gli occhi al cielo.
«Devo andare,» disse. «Non vorrei che la madre di Josef facesse domande.»
Si ritrovò a fermarla per la seconda volta: «Conosco il tuo numero di casa, uno dei tuoi familiari e persino il tuo nome. Credo sia arrivato il momento di uscire insieme, no?»
Il silenzio che arrivò in risposta gli fece pensare che l’aveva sorpresa con quella richiesta, e sperava in positivo.
«Devo andare.» replicò frettolosamente e senza che lui questa volta potesse fare qualcosa, sentì la linea cadere e il seguente tu tu della segreteria. Sospirò silenziosamente ma nonostante quella risposta così brusca, non si sentiva né deluso né in qualche modo offeso. Perlopiù, speranzoso.



Gwen stava giocherellando con le chiavi della macchina quando queste le caddero dalle mani per andare a finire sull’asfalto bagnato. Aveva piovuto per tutta la mattina, e Gwen non aveva avuto scuse per non studiare. Aveva puntato la sveglia alle otto, aveva fatto colazione, salutato Gretel e Josef e, vestita con la sua maglia lunga che usava per dormire sulla quale stanziava una grossa G, si era messa a studiare per circa tutta la mattina. Verso mezzogiorno aveva appurato che se avesse letto un’altra pagina del libro di Letteratura francese, probabilmente sarebbe collassata sul divano del salotto. Così si era alzata di malavoglia, risvegliando le gambe da un lungo letargo, si era cambiata con un maglione pesante e un paio di jeans scuri, e si era avviata verso la tavola calda di Gretel.
Le chiavi erano ancora a terra quando una goccia di pioggia le colpì il viso e, naturalmente, andò a finire tra l’occhio e  la lente degli occhiali da vista, schizzandola di piccole goccioline fastidiose. Imprecò mentalmente mentre prendeva un profondo respiro e si piegava per raccogliere le chiavi.
Riprese a camminare diretta verso la tavola calda, le cui finestre senza tende le permettevano di scorgere la figura di Gretel intenta a destreggiarsi tra i tavoli sistemati parallelamente dalla parte delle vetrine. Quando entrò nel locale, il campanello sopra la porta tentennò leggermente, avvertendo la clientela ma soprattutto le cameriere della sua presenza.
Quel giorno Gretel non lavorava da sola, bensì era affiancata da altre due persone: una ragazzina che sembrava avere qualche anno in meno di Gwen, molto probabilmente alle prime armi, e un’anziana signora che Gwen conosceva come la titolare del locale. Le salutò entrambe e si accomodò ad uno degli sgabelli liberi davanti al bancone, asciugando la lente bagnata.
C’era più gente del solito, anche se non tutti i tavoli e gli sgabelli erano occupati. Non era un locale che faceva tendenza e che aveva un grande giro di affari, ma se la cavava. Era molto tranquillo, appartato, ed era per quel motivo che a Gwen piaceva molto passare quel poco tempo libero che aveva lì.
«Ciao Gwen,» la salutò Gretel salendo sul bancone con in mano un vassoio stracolmo di stoviglie sporche. «Hai preso una pausa dal tuo intenso studio?» le chiese appoggiando il vassoio sul lavello e tirandosi indietro i capelli dal viso.
Gwen annuì: «Avresti rischiato di ritrovarmi impiccata al lampadario, se fossi andata avanti.»
Gretel ridacchiò mentre si dava da fare con acqua e sapone. «Sei sempre la solita esagerata.»
Gwen appoggiò il mento sul palmo delle mani unite a coppa e i gomiti sulla superficie appiccicosa del bancone. «Voglio una cioccolata,» esordì con la voce distorta per via di quella posizione. «E la voglio con la panna che straborda da tutte le parti.»
In tutta risposta Gretel grugnì rumorosamente, lanciando un’occhiata di disapprovazione all’amica. Quando finì di lavare le stoviglie, si asciugò le mani e prese una tazza dallo scaffale.
«Non è meglio pranzare con qualcosa di più salutare?» sembrò quasi rimproverarla e Gwen sentì il bisogno di ricordarle che se n’era andata da casa sua proprio perché non voleva più essere oppressa dall’apprensione della madre. Ovviamente, non lo disse.
«Non hai la minima idea di cosa sto passando in questo periodo. Quindi tripla panna e triplo silenzio.» ribatté con l’intonazione che vietava ogni qualsiasi controbattuta.
«D’accordo.» gliela preparò in pochi minuti e aggiunse la panna davanti ai suoi occhi, così da non ricevere eventuali lamentele in seguito.
«Gretel,» la titolare del locale comparve dalla piccola cucina collegata al bancone. «Porta i maccheroni al formaggio al tavolo 4.»
Gretel annuì e le lanciò un’occhiata eloquente che Gwen non capì prima di prendere il piatto e dirigersi verso i tavoli. Lei, comunque, era troppo occupata a venerare la sua cioccolata per dare importanza a quel gesto. Faceva freddo, e stava piovendo, e lei aveva bisogno di affetto e di dormire e di mangiare e di dormire di nuovo. Quella cioccolata era un vero e proprio toccasana e niente e nessuno avrebbe rovinato quel momento.
«Non hai visto?» a parte la voce civettuola di Gretel che quasi le gridò nell’orecchio. Gwen le lanciò un’occhiataccia.
«Cosa?»
«C’è il tizio dei tatuaggi.» rispose lei e il suo accento si fece marcato. «In realtà, non è una grande novità dato che viene tutti i giorni e tutti i giorni ordina quei dannati maccheroni, ma oggi ci sei anche tu.»
Gwen dovette socchiudere gli occhi per cercare di concentrarsi sulle parole dell’amica, che erano troppo confuse e incomprensibili per la poca pazienza di Gwen.
«Gretel,» sospirò pesantemente prima di guardarla con un cipiglio irritato. «Mi spieghi perché sei così fissata con quel tizio? O meglio, con quel tizio e me?»
«Perché è molto bello,» rispose, come se fosse una risposta ovvia. «E perché è gentile e sembra simpatico. Dovresti socializzare con lui.»
Gwen bevve un sorso di cioccolata, immergendo mento e punta del naso nella nuvola di panna che aleggiava sulla superficie liquida. Si diede un po’ di carica e guardò Gretel di nuovo, con uno sguardo scocciato.
«E dimmi un po’,» la schernì. «Come dovrei iniziare questa socializzazione? Dovrei andare lì e cominciare a parlare di cosa, precisamente? Sembrerei patetica, punto primo, e tutto ciò non mi interessa, punto secondo.» bevve un altro sorso e si sentì meglio. Gretel mise giù il suo tipico broncio da mamma offesa che di solito usava quando Josef non voleva guardare un film con lei o quando Gwen non aveva voglia di accompagnarla a fare spese. Era molto brava, a fare sentire in colpa la gente, quasi allo stesso livello di Jaxon.
«Sei brava a parlare con le persone, non avresti alcun problema ad iniziare la conversazione.» mentre parlava animatamente con lei serviva anche alla cassa.
«Il problema non è come iniziare la conversazione, ma perché farlo.» Gwen era stufa di sprecare fiato riguardo quell’argomento: non le andava di parlare con un quasi sconosciuto, soprattutto non in quel periodo, e l’inutile pressione che le stava infliggendo Gretel la rendeva persino più nervosa di quanto già non fosse. Era tutto estremamente ridicolo. Gretel sapeva che se lei avesse voluto parlare con qualcuno, lo avrebbe tranquillamente fatto senza problemi. Perciò, perché obbligarla?
«Fai come preferisci, Gwendoline.» eccola! «Ma ti conviene decidere in fretta perché il ragazzo dei tatuaggi sta venendo proprio qui.»
Gwen non ebbe nemmeno il tempo di realizzare il significato di quelle parole, che un movimento d’aria alla sua destra le fece voltare la testa di scatto. Aveva il braccio tatuato del ragazzo a pochi centimetri di distanza dalla faccia sporca di panna. Si pulì il viso con un fazzoletto mentre spostava di nuovo l’attenzione davanti a sé.
«Mi è caduta la forchetta,» disse rivolto a Gretel. «Potresti darmene un’altra?»
La bionda annuì un po’ troppo energicamente e si avviò verso la cucina alla ricerca di una nuova forchetta. Se lui le piaceva così tanto, perché non ci provava lei?
Gwen percepiva lo sguardo insistente del ragazzo sulla sua guancia, ma se pensava di riuscire a distogliere la sua attenzione dalla cioccolata, si sbagliava di grosso.
«Sei venuto a prendere una nuova forchetta o a fissare me?» scattò, ma senza voltarsi. L’intonazione con cui aveva pronunciato quelle parole sottolineava la sua irritazione: odiava che la gente la fissasse più del dovuto. Poteva vedere il suo sorriso ironico anche se rimaneva con lo sguardo puntato sulla sua tazza.
«La forchetta mi è caduta davvero.» ammise lui.
Gwen alzò gli occhi al cielo, le capitava molto spesso in quell’ultimo periodo, e finalmente decise di voltarsi. Non se lo ricordava così attraente: aveva i capelli più corti rispetto all’ultima volta che si erano visti, circa due settimane prima, ma la barba era più folta, come se quella mattina si fosse tagliato i capelli ma si fosse dimenticato di rasarsi. Gli occhi erano accesi di una luce maliziosa che Gwen non riusciva a spiegarsi e la voce era più rauca del solito, quasi a voler nascondere l’accento inglese che in una città come Boston era inevitabilmente riconoscibile.
Gwen non aveva voglia di intavolare una conversazione con lui, nonostante lo trovasse in qualche modo… interessante. Voleva soltanto gustarsi la sua cioccolata in santa pace e riposare il cervello per una mezzoretta. Si alzò in piedi inforcando il manico della tazza e senza degnarlo di uno sguardo o di una parola si avviò verso la fila di tavoli, cercandone uno libero. Quando lo trovò appoggiò con attenzione la tazza calda sulla tovaglietta bordeaux e si sistemò una ciocca di capelli dietro l’orecchio.
Ritornò ad occuparsi della sua cioccolata senza che le chiacchiere infantili di Gretel o le occhiate allusive del ragazzo la infastidissero. Come se soltanto pensarlo per un millesimo di secondo potesse evocarlo, Zayn le comparve davanti. Si accorse di lui soltanto quando si era ormai seduto di fronte.
Lo guardò seccamente per un minuto intero prima che lui alzasse un angolo della bocca in un mezzo sorriso e parlasse.  «Dicevo sul serio, quando ti ho chiesto di uscire per telefono.» ammise sinceramente, osservandola con due occhi così  naturali e così intensi che Gwen si chiese se si rendesse conto dell’effetto che faceva sulle persone. Sospirò pesantemente dopo aver preso un lungo sorso di cioccolata.
«Dammi un buon motivo per cui io dovrei dirti di si.»
Zayn si limitò ad alzare le spalle e appoggiare la schiena contro la sedia, fissandola. «Perché non mi conosci.» disse semplicemente e Gwen non comprese appieno cosa voleva dire con quella risposta.
«Proprio per questo dovrei dirti di no.» replicò lei, aggrottando la fronte.
«Non sei curiosa di sapere perché ho tutti questi tatuaggi o perché non mi sono rifiutato di aiutare un bambino di nove anni?» si allungò in avanti, appoggiando i gomiti sul tavolo: una piccola macchia di inchiostro comparve come evocata da sotto il maglione grigio quando questo si arrotolò involontariamente fino a metà braccio. Gwen si stupì della vicinanza del suo viso e si meravigliò ancora di più del fatto che non fosse in grado di distogliere lo sguardo. «Non sei curiosa di sapere perché ieri tu hai deciso di chiamarmi senza un motivo preciso? O perchè ho finto di aver bisogno di un’altra forchetta solo per venire a parlarti?» continuò e il mezzo sorriso che aveva mostrato poco prima tornò ad illuminargli il viso di una scintilla divertita. Gwen rimase a fissarlo in silenzio: ne era attratta, non poteva di certo negarlo, e quegl’occhi così brillanti la mandavano in confusione.
«Lo sai perché ti ho chiamato ieri.» replicò stizzita, infastidita dal fatto che lui fosse così sicuro di se da essere certo di averla già in pugno.
«Si, lo so.» ammiccò un sorriso.
«Tienilo bene in mente allora,» replicò duramente.
Zayn si portò una mano vicino al viso e con l’indice e il medio si grattò la guancia. In un istante la sua espressione si fece più attenta e composta. «Esci con me.» disse, e il suo tono di voce non era più giocoso o ironico come due secondi prima, ma serio, terribilmente serio, così serio che quel cambiamento così repentino la disorientò un attimo. Aveva ricevuto due inviti ad uscire da quel ragazzo e non potevano essere stati più diversi l’uno dall’altro: la prima volta che gliel’aveva chiesto sembrava quasi che stesse scherzando e che non fosse una cosa da prendere sul serio; quella volta invece pareva non accettare un no come risposta.
La stava guardando in attesa di una qualche risposta, e per guardare si intende mangiare con gli occhi.
«Chiedimelo.»
«Come?»
«Devi chiedermelo se vuoi che io ti dica di si.» asserì, seria. Non poteva accettare di uscire con lui se glielo imponeva come stava facendo, non era proprio nella sua natura sottostare ai voleri di qualcuno, soprattutto se quel qualcuno è un uomo.
Zayn parve confuso da quella richiesta ma non tentennò quando le ripeté di uscire sottoforma di domanda.
Gwen bevve l’ultimo sorso di cioccolata e si pulì la bocca con il tovagliolo. Percepiva lo sguardo persistente di Zayn su di se mentre faceva passare la stoffa sulle sue labbra e stranamente si sentì in imbarazzo.
«D’accordo,» rispose «ma non voglio nulla di troppo serio o che richieda un vestito e tacchi alti.» disse e si rese conto troppo tardi che stava parlando con un ragazzo pieno di tatuaggi, con una giacca in pelle e scarponi neri.
Zayn annuì passandosi una mano tra i capelli: «Non è esattamente ciò a cui stavo pensando.»






Buonpomeriggio e ferragosto a tutti!
Mi scuso per il ritardo nell'aggiornare ma sono stata via in questi giorni e purtroppo dopo aver riletto il capitolo mi sono presa del tempo per sistemarlo un po'. Nonostante questo, continua a non convincermi del tutto.
Allora, cosa succede? Gwen chiama Zayn al suo studio per accertarsi che lui non le abbia mentito e che il numero che ha dato a Josef non fosse il suo privato. Quando pensa di esserselo tolto di torno lo ribecca alla tavola calda di Gretel e per la seconda volta lui prova a chiederle di nuovo di uscire. Cosa ne pensate? Secondo voi perchè Gwen ha accettato di uscire con lui? Solo perchè lo trova attraente o anche per altri motivi?
Inoltre volevo conoscere le vostre opinioni sullo Zayn di questa storia :) 
Vi lascio con i prestavolto dei personaggi che sono già entrati in scena: Gretel & Jaxon.
Volevo farvi sapere che sto iniziando anche altre due fan fiction che spero di riuscire a pubblicare. Una è su Harry, mentre l'altra è un po' su tutti i ragazzi, ma in particolare su Zayn (stRANO). 
Vi ringrazio ancora di cuore per tutte le belle parole che mi lasciate ai capitoli, davvero grazie!! 
Un bacio,
clepp




 
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Capitolo 5
*** 04 - Capitolo quattro, Misunderstanding ***


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04
Misunderstanding




Quando Gwen mise piede nell’appartamento fu sorpresa di udire le voci sommesse di Gretel e di Bruce provenire dalla cucina. Era venerdì pomeriggio e come ogni primo venerdì pomeriggio del mese il padre di Josef si era presentato a casa loro per prendere il bambino e portarlo via per un weekend padre e figlio.
Era da parecchio tempo che lui e Gretel non litigavano, o perlomeno che non lo facevano così spudoratamente davanti a Josef che in quel momento era seduto sul divano con le gambe rannicchiate contro il petto e lo sguardo fisso sullo schermo scuro della televisione. Gwen si tolse il cappotto e la sciarpa, appoggiandoli al portabiti vicino alla porta, e s’incamminò con calma verso il bambino.
«Ehi,» lo richiamò con un sorriso gentile e rassicurante. Si chinò di fronte a lui e poggiò una mano sulle sue ginocchia. «Cosa ne dici di andare a fare una passeggiata? Scommetto che hai voglia di un muffin al cioccolato.» gli fece un occhiolino sperando di tirarlo su di morale perché vederlo così non le piaceva affatto. Le grida di Gretel però erano troppo forti per far si che lui le ignorasse. Si chiese cosa fosse successo di così grave dato che Gretel non perdeva quasi mai la calma in quel modo, ma preferì concentrarsi su Josef.
«Sei tu quella che ne ha voglia.» replicò lui guardandola da dietro i suoi occhiali da vista rotondi che indossava soltanto quando più gli andava.
Gwen alzò le spalle e gli porse una mano: «Ma io so che tu sei così gentile da accompagnarmi. Vero?»
Josef fece una pausa di qualche secondo. Sembrava vagamente indeciso sul da farsi, probabilmente non voleva lasciare Gretel da sola con il padre  ma allo stesso tempo voleva allontanarsi il più possibile da quelle grida.
«D’accordo.» acconsentì alla fine, annuendo.
«Perfetto!» esclamò Gwen gaia, «vai a metterti le scarpe allora.»
Josef scese dal divano faticosamente, come se i muscoli gli si fossero intorpiditi e sparì dietro la porta di camera sua. Gwen era furiosa: la sua espressione falsamente allegra si trasformò in una smorfia seccata. Senza tante storie spalancò la porta della cucina e per un momento gli schiamazzi dei due litiganti cessarono di colpo. Gretel si voltò verso di lei e spostò subito lo sguardo su qualcos’altro, sentendosi profondamente a disagio. Bruce invece le lanciò un’occhiataccia che avrebbe voluto incenerirla, ma che in realtà la fece soltanto arrabbiare ancora di più.
«Porto Josef a fare una passeggiata. Fate in modo che questa cosa sia finita quando saremo tornati.» la sua voce era dura, impregnata di significati sottointesi. Non aggiunse altro, semplicemente si richiuse la porta alle spalle e aspettò che Josef finisse di prepararsi.
Quando lui arrivò zampettando dal corridoio delle camere, Gwen gli allungò una mano per far si che lui ci affondasse la propria e assieme si avviarono verso l’uscita. Non appena la porta venne richiusa, la voce di Bruce avvolse nuovamente l’appartamento, ma Gwen si stava già lamentando della sua estenuante mattinata in banca e dell’incompetenza di certi impiegati. Se c’era una cosa che proprio odiava, era vedere Josef costretto a sopportare le scene che aveva dovuto sopportare lei.
-
Louis sussultò sulla sedia quando all’improvviso sulla sua scrivania cadde un pacchetto di sigarette che finì sul disegno di una fenice che stava perfezionando da quella mattina. Raddrizzò la schiena e alzò lo sguardo sulla figura che gli si era stagliata di fronte: Zayn lo stava osservando con le braccia incrociate e un sorriso ironico stampato in faccia.
 «Non dico che non apprezzi tutto l’impegno che ci metti nel tuo lavoro, Louis.» incominciò quello. «Ma davvero, penso che tu stia diventando un maniaco del controllo o qualcosa del genere.» appoggiò i palmi delle mani sulla scrivania e di conseguenza sui fogli scarabocchiati su cui Louis aveva disegnato per tutta la mattina. In quel momento, avrebbe voluto riempirlo di cazzotti ma si fermò al pensiero degli eventuali schizzi di sangue di Zayn sui suoi disegni.
«Alza le mani Zayn, li stai rovinando!» gli afferrò i polsi e li allontanò con un gesto brusco, risistemando i fogli alla bell’e meglio. Zayn nascose un ghigno divertito e fece il giro della scrivania per ammirare meglio i lavori dell’amico. Quando lavorava così tanto, doveva ammetterlo, il risultato era eccellente, non quanto il suo ovviamente, ma era davvero buono. A Zayn risultava più facile fare un buon lavoro perché aveva una dote naturale per il disegno e impiegava la metà della metà del tempo che invece impiegava Louis.
«Sono davvero buoni,» si complimentò dandogli qualche pacca sulla spalla. «Bravo amico.»
Louis accantonò l’irritazione per l’atteggiamento menefreghista dell’amico e si aprì in un sorriso soddisfatto, ammirando con orgoglio i propri disegni.
«Grazie.»
Zayn alzò gli occhi al cielo: anche lui era molto attaccato ai propri lavori, ma non lo dava mai a vedere nel modo in cui faceva Louis.
«Adesso prenditi una pausa, e vieni a fumare una sigaretta con il tuo collega.» afferrò il pacchetto di sigarette che gli aveva precedentemente lanciato sotto la faccia per attirare la sua attenzione e si diresse verso l’uscita dopo aver preso la giacca dalla sua sedia.
Mentre la sua mano apriva la porta, la voce di Louis lo richiamò indietro. Nel momento stesso in cui girava la testa per sentire cosa avesse da dirgli il suo corpo si scontrò contro qualcuno e automaticamente portò le braccia in avanti per evitare che chiunque gli fosse andato addosso non cadesse a terra. Lo riconobbe soltanto quando lui alzò la testa verso di lui e abbozzò un debole sorriso di scuse: gli fu impossibile trattenere un’espressione stupita per quell’inaspettata apparizione.
«Scusami, non volevo venirti addosso.» si scusò il bambino dai capelli biondi e gli occhi azzurri gli si illuminarono di una luce gaia. Quando l’iniziale sorpresa sparì dal suo volto, Zayn non riuscì a trattenere un sorriso.
«No, figurati.» rispose, e si guardarono per qualche secondo. Zayn non sapeva bene come gestire quella situazione, insomma, un conto era parlarci per telefono e un altro era averci a che fare direttamente.
«Che cosa... che cosa ci fai qui?» cercò di risultare il più educato possibile. Intanto dietro di lui comparve Louis, incuriosito e confuso dall’intera scena.
Josef si schiarì la voce e infilò i pollici nei lacci dello zaino, dondolandosi sui piedi in profondo imbarazzo.
«Io... io volevo... io volevo farti vedere il fumetto che ho comprato l’altro giorno.» spiegò in tensione, come se avesse paura di venire cacciato da un momento all’altro. Zayn non l’avrebbe mai fatto, solo che non sapeva davvero come comportarsi o cosa dire o cosa fare con un bambino di nove anni. Aggrottò la fronte all’improvviso: qualcuno sapeva che era lì? Qualcosa gli disse che aveva fatto tutto di nascosto, altrimenti se qualcuno davvero l’avesse saputo, l’avrebbe di certo accompagnato.
«Wo, grande!» esclamò cercando di prendere in mano il controllo della situazione. Poteva sentire il nervosismo crescere dentro di lui, ma cercò in qualche modo di non darlo a vedere.
«Entra, forza. Qui fuori si congela.»
Josef sembrò rilassarsi molto quando entrò dentro lo studio. Louis aveva un cipiglio confuso stampato in faccia, ma fece del suo meglio per mantenere una facciata socievole. Zayn gli si avvicinò mentre Josef si guardava intorno, meravigliato da tutti quei disegni appesi alle pareti.
«Nessuno sa che è qui,» sussurrò in modo che il bambino non lo sentisse. «Tienilo occupato mentre chiamo per avvisare che è qui.»
Louis sembrò preoccupato e prima che l’amico potesse fare un solo passo, gli afferrò il polso per trattenerlo.
«Ehi, fermo! Faccio schifo con i bambini! Soprattutto se sanno già parlare e camminare.» farfugliò impacciato, lanciando occhiate allusive a Josef, ancora occupato a guardarsi intorno per accorgersi dei due ragazzi intenti a parlare di lui. Zayn roteò gli occhi.
«Non devi fare molto, sembra già abbastanza occupato. Parla di qualcosa, tipo fumetti o tatuaggi. O dagli una sigaretta, che ne so.» sbuffò e si levò il suo braccio di dosso per raggiungere la stanzetta sul retro e chiamare Gwen senza che il ragazzo sentisse.
«Una sigaretta? Dici che si può fare?» gli urlò dietro Louis e Zayn poteva sentire il panico nella sua intonazione: per un momento ebbe la sensazione che non stesse scherzando.
-
A Gwen pareva di aver dormito poco più di dieci minuti, quando il telefono di casa cominciò a squillare con insistenza. Risvegliandosi con lentezza dallo stato di dormiveglia che era sempre il più brutto da affrontare, sperò con tutta se stessa che Josef uscisse da camera sua e andasse a rispondere al suo posto. Il telefono continuava a suonare senza che nessuno facesse qualcosa. Alla fine, sbuffando seccata, Gwen aprì gli occhi arrossati per la stanchezza e di malavoglia si tirò su dal divano. Nell’esatto momento in cui il suo piede scalzo si spostava in avanti per raggiungere il tavolino sul quale ringhiava insistente il telefono di casa, questo smise di squillare. Imprecò sonoramente e si coprì la bocca subito dopo, sperando che Josef non l’avesse sentita.
Era sabato pomeriggio, e nessuno aveva mai chiamato di sabato pomeriggio perché tutti sapevano che il sabato pomeriggio era una specie di momento sacro per Gwen. Passava gran parte del suo tempo a dormire, per l’appunto, con l’intento di racimolare le energie che aveva perso durante la settimana. Gretel aveva il turno alla tavola calda e Josef rimaneva chiuso in camera sua a guardare qualche cartone senza disturbarla. Quel giorno Gwen avrebbe voluto restare sveglia e passare un po’ di tempo con il piccolino, che ancora non si era ripreso dalla sfuriata dei genitori avvenuta il giorno prima, ma non ce l’aveva fatta, soprattutto non dopo la settimana che aveva affrontato.
Aspettò tre secondi che il telefono ricominciasse a squillare, ma quando non lo fece, si sedette di nuovo sul divano. Appoggiata la testa su uno dei cuscini, la fastidiosa suoneria del suo cellulare intasò il salotto, facendola imprecare di nuovo e questa volta non si coprì la bocca. Allungò la mano e a tentoni afferrò il cellulare appoggiato sul tappeto per terra. Ad occhi chiusi e con la voce più rauca del solito, rispose.
«Gwen?» come diavolo…?
«Come diavolo hai avuto il mio numero?» scattò immediatamente lei, tirandosi su a sedere e svegliandosi tutt’un tratto. Percepì un sospiro sommesso dall’altra parte del telefono e si chiese cosa fosse successo. Per un brevissimo, insignificante istante, Gwen sentì l’impulso di andare a controllare in camera di Josef. Non sapeva perché, e non ebbe nemmeno il tempo di spiegarselo.
«Me l’ha dato Josef.» rispose, e l’intonazione della voce era cauta, attenta. Attenta a cosa? A Gwen cominciò a battere forte il cuore.
«Cosa?» sbottò e non voleva che la sua voce risultasse così preoccupata. «Cosa? Perché? È successo qualcosa?» lo bombardò di domande senza neanche dargli il tempo di rispondere a una di esse. Quando si rese conto che stava esagerando, si bloccò di colpo, prendendo fiato e dando la possibilità a Zayn di parlare.
«Va tutto bene,» replicò lui gentilmente: il suo tono di voce nascondeva qualcosa ma Gwen si accorse della nota rassicurante nelle sue parole. «Non è successo nulla di grave.» continuò e lei aveva la costante impressione che stesse cercando di dosare con estrema attenzione le parole da usare.
«Ma qualcosa è successo. Parla, Zayn.» era già in piedi, diretta verso il corridoio che portava alle camere. Alla fine del corridoio, proprio tra la sua stanza da letto e quella di Gretel c’era la porta della camera di Josef. Ed era spalancata.
«Josef è qui.» rispose lui schietto, dopo aver appurato che i giri di parole non sarebbero serviti a niente. Gwen irruppe nella camera di Josef: era vuota. Lo zaino che solitamente era legato allo schienale della sedia era scomparso e l’Ipad che Gretel gli aveva regalato al compleanno era stato lasciato sul letto disfatto. Sbloccò lo schermo e automaticamente si aprì una pagina di Safari sulla quale c’erano disegnate delle linee di vari colori. Era la linea dell’autobus.
Gwen si sentì mancare.
«Dammi il tuo indirizzo,» ordinò. «Subito.»
Gli diede soltanto il tempo di dirle le indicazione per raggiungere lo studio, prima di chiudere la telefonata e dirigersi verso il salotto. Si vestì velocemente, indossando scarpe, giacca e sciarpa.
Uscì di casa: naturalmente pioveva e naturalmente lei non aveva pensato di prendere un ombrello. Quando arrivò alla macchina, aveva i capelli umidi di pioggia e la giacca puntellata di puntini più scuri.
Guidò fino allo studio, cercando di calmarsi e di fare mente locale. L’ultima cosa che poteva permettersi era di sbagliare strada e perdere altro tempo. Si sentiva male, non tanto per il fatto che Josef fosse riuscito ad andarsene senza che lei se ne accorgesse minimamente – anche se la cosa le stava logorando l’anima – ma quanto per il fatto che avesse deciso di prendere l’autobus da solo per andare a trovare un perfetto sconosciuto. Non credeva che quel piccolo accordo potesse arrivare a tanto. Gwen non voleva essere oppressiva con Josef, lo era già Gretel, e non voleva nemmeno supporre che quel ragazzo avesse cattive intenzione, ma si trattava comunque di uno sconosciuto che né lui, né lei conoscevano affatto.
Se a Josef non bastavano più le semplici telefonate settimanali, la cosa doveva finire.
Dopo venti minuti di vagabondaggio, scorse l’insegna del negozio di tatuaggi che ricordava vagamente iniziare con una Z e accostò. Scese dalla macchina come una furia e durante il breve tragitto fino alla porta del negozio, la pioggia riversò tutta la sua forza su di lei. Spalancò la porta.
La scena che si trovò davanti la rassicurò leggermente: chissà, forse si era immaginata gli scenari più orribili, come bambini sodomizzati sui lettini o catene appese al soffitto.
Vide un ragazzo chino su uno dei lettini, intento a tatuare una donna: nessuno dei due la degnò di uno sguardo. Josef era seduto su una sedia in pelle dietro la scrivania da disegno e stava osservando un quaderno che Zayn teneva tra le mani. Lui era in piedi di fianco a lui e, fino alla brusca entrata di Gwen nel negozio, stava sorridendo. Adesso aveva alzato lo sguardo su di lei, ed era serio. Terribilmente serio.
Anche Josef la stava guardando, ma la sua espressione era triste e colpevole. Gwen si tirò indietro un ciuffo di capelli bagnato e prese un profondo respiro, chiudendo per un momento gli occhi.
«Gwen,» sentì la voce preoccupata di Josef chiamarla. «Mi dispiace, Gwen. Non volevo farti preoccupare, volevo soltanto fare vedere a Zayn il nuovo fumetto che mamma mi ha comprato. Sarei tornato prima che tu ti svegliassi o che la mamma tornasse. Non volevo farvi preoccupare.»
Gwen riaprì lentamente gli occhi: lesse il dispiacere aleggiare sul viso del piccolo Josef e si chiese se si sentisse più dispiaciuto per averla fatta preoccupare o per essere stato scoperto. Sospirò di nuovo. Non sapeva cosa dire, era ancora troppo agitata. Era stata svegliata di colpo dalla notizia della “sparizione” di Josef e realizzare di essersi lasciata scappare il figlio della propria migliore amica non era una cosa che lei era in grado di digerire così facilmente.
Zayn la stava fissando con uno sguardo calmo e le braccia incrociate al petto.
«Io non... ok Josef solo...» balbettò. Sentiva le mani tremare per tutta la tensione che aveva cercato di reprimere durante il tragitto da casa allo studio. Aveva bisogno di sedersi altrimenti sarebbe svenuta di fronte a tutti.
«Josef,» sentì la voce di Zayn interrompere quella del bambino che stava cercando ancora di scusarsi. «Perché non continui a guardare i disegni del quaderno? Io intanto parlo con la zia.»
Il bambino annuì tristemente e abbassò lo sguardo sui disegni, senza più rialzarlo. Gwen vide Zayn fare il giro della scrivania e andarle incontro.
Da quando era entrata nel negozio non aveva mosso un muscolo, e se lui non le avesse preso una mano per accompagnarla lei avrebbe continuato a rimanere ferma immobile. Gwen sentì che la stretta della sua mano era debole ma quella di Zayn era decisa e forte, quasi avesse paura che crollasse a terra da un momento all’altro. La portò in una stanza che doveva fungere  da studio personale dei due ragazzi che lavoravano lì e la fece sedere sulla poltrona.
«Tieni.» le porse un piccolo asciugamano bianco pulito. «Asciugati i capelli, altrimenti ti verrà qualcosa.» le sorrise gentilmente mentre lei accettava l’asciugamano usandolo per tamponare i capelli umidi.
«Josef sta bene.» riprese lui dopo qualche minuto di intenso silenzio, in piedi di fronte a lei. «Non devi preoccuparti. Va tutto bene.»
La sua agitazione doveva essere evidente. Si sentì leggermente in imbarazzo, ma comunque non le importava. Aveva rischiato di perdere cent’anni di vita e l’ultima cosa che le interessava era di aver fatto una brutta figura.
«E’ pericoloso.» scattò in risposta. «E’ pericoloso, cazzo. La strada da casa nostra a qui è lunga, e in quei venti minuti sarebbe potuto succedere di tutto. Cristo santo, non posso credere di non essermene accorta.» si portò una mano sulla fronte e si obbligò a calmarsi. Vide Zayn chinarsi di fronte a lei.
«Ma non è successo nulla. Josef sta bene, è qui e sta bene. Non devi sentirti in colpa, sarebbe potuto succedere a chiunque.» Gwen cominciò a scuotere la testa.
«No, no, non a me! Non posso permettermi errori con Josef, Gretel non me lo perdonerebbe mai. Io non me lo perdonerei mai.» percepì di nuovo l’ansia avvolgerle i nervi già consumati dalla settimana passata e dalla paura di poco prima. «Josef è un ragazzino intelligente ma... è così piccolo e ingenuo che... Dio, ti prego fammi smettere di tremare in questo modo.»
Le mani le stavano tremando così violentemente che dovette unirle insieme e fare pressione per cercare di farle smettere. Inaspettatamente, le grandi e calde mani di Zayn si allungarono verso le sue. Gliele avvolse delicatamente, stringendo per interrompere il tremore: il calore della sua pelle le riscaldò le dita fredde e bagnate di pioggia.
«Grazie.»
«Prego.» abbozzò un sorriso.
Gwen prese due profondi respiri prima di continuare a parlare.
«E’ sbagliato, Zayn.» disse. «Gli amici più cari che Josef ha siamo io, sua madre e, per modo di dire, suo padre. Ed è deprimente per un ragazzino di nove anni, lo so, ma è così. Penso che oggi abbia fatto ciò che ha fatto perché ha visto in te qualcuno di diverso da noi con cui poter parlare. Ed è sbagliato. So che se non interrompo immediatamente questa cosa tra voi due lui continuerà a fare di tutto pur di passare un misero pomeriggio con te. Lo so, perché è disperato. Non posso permettere un’altra cosa come quella di oggi, non posso.»
Si sentiva terribilmente in colpa nei confronti di Josef per impedirgli di condividere i propri interessi con l’unica persona che sembrava essere vagamente interessata a lui,  ma si sentiva più in colpa nei confronti di Gretel, perché non poteva tenerla all’oscuro di tutto e non poteva rischiare che Josef facesse di nuovo una cosa del genere.
L’avrebbe detestata, ma era giusto così.
Sentiva lo sguardo penetrante ma non fastidioso di Zayn addosso e per un momento desiderò che la guardasse così sempre.
«Forza, alzati.» la esortò lui, sorprendendola. Si avviò verso uno scaffale dietro la scrivania e afferrò qualcosa che Gwen non riuscì a vedere. Quando ritornò indietro vide che tra le mani aveva una felpa nera, stropicciata. Le fece segno di togliersi la giacca e le fece passare le maniche della felpa nelle braccia.
Gwen era ammaliata da quella sua gentilezza: era colpita non tanto dal gesto in sé, come quello di riscaldarle le mani o darle un asciugamano perché si asciugasse, quanto per la naturalezza con cui li compiva, quasi li facesse e basta senza nemmeno rendersene conto. Non aveva davvero mai incontrato un ragazzo così buono e paradossalmente così deciso e sicuro di se da risultare delle volte arrogante.
Si ritrovò a ringraziarlo di nuovo.
«Prego.»
Per la prima volta nella sua vita non sapeva cosa dire o come comportarsi. Amava Josef con tutto il cuore e privarlo dell’unica persona all’infuori della sua famiglia in grado di aiutarlo ad uscire dal guscio la uccideva dentro. Ma cosa poteva fare? Era tutta colpa sua, sua e di Zayn che l’aveva convinta a mandare avanti quella messinscena.
Rabbrividì: un pensiero insano, accusatorio e di pessimo gusto cominciò a formarsi dentro di lei e una volta che tutti i pezzi si collegarono autonomamente, non riuscì più a scacciare quella sensazione. Non aveva davvero mai incontrato un ragazzo così buono perché non esistevano ragazzi così buoni, esistevano soltanto ragazzi che facevano i buoni solo perché avevano secondi fini.
«Spiegami una cosa,» esordì Gwen, adesso non stava più tremando e la sua voce era ferma, glaciale. «Spiegami perché un ragazzo di ventitre anni dovrebbe aiutare volontariamente un bambino di nove anni che non conosce nemmeno. Spiegamelo e attento alle parole che usi.» lo minacciò, assottigliando gli occhi.
Zayn sussultò lievemente, spalancando impercettibilmente gli occhi e arretrando di qualche centimetro dalla ragazza che le stava davanti. Che cosa stava insinuando?
«Che cosa vuoi dire?» chiese, cauto, ma incapace di trattenere il tono di voce.
«Voglio dire che nessuno sulla faccia della terra, nessuno, decide di aiutare un perfetto sconosciuto senza secondi fini. Soprattutto se questo sconosciuto ha nove anni.» scattò lei. Non aveva più freddo e nemmeno era più agitata. Le guance erano rosse, riscaldate dalla rabbia che aveva improvvisamente rimpiazzato la tensione per tutta quella brutta situazione. Si alzò in piedi di scatto e più il silenzio si prolungava, più i suoi sospetti si facevano concreti. Come aveva fatto ad essere così stupida? Come aveva potuto pensare che quel ragazzo potesse aiutare Josef senza ottenere niente in cambio? E qualcosa in cambio stava effettivamente per averlo, visto che Gwen aveva accettato di uscire con lui. Quanto era stata stupida.
«Credevo di essere stato chiaro riguardo questo.» la voce di Zayn era dura e il suo sguardo terribilmente serio: non accettava di essere definito un approfittatore, soprattutto quando l’idea di prendersi gioco di lei o del bambino non gli aveva nemmeno sfiorato la mente. Non era quel tipo di ragazzo, neanche lontanamente. «Ho deciso di mandare avanti questa cosa con Josef perché ho avuto pena per lui e perché non mi costa nulla farlo. Non mi dispiace sapere di rendere felice un bambino di nove anni con così poco.»
Gwen strinse le dita e i polpastrelli impallidirono sotto la sua stretta. Inizialmente si era preoccupata per Josef perché credeva che quel ragazzo avesse cattive intenzioni con lui. Non credeva che invece si sarebbe dovuta preoccupare per se stessa: era chiaro che Zayn avesse accettato di aiutare Josef solo per avvicinarsi di più a lei. Il suo invito ad uscire era la chiara prova dei suoi secondi fini. Non poteva credere di non esserci arrivata prima.
«Sta zitto, non provare nemmeno a trovare una scusa. Sapevo che non avrei dovuto fidarmi di te dal primo momento in cui ho capito cosa stava succedendo con Josef. Adesso lui è di là e Dio solo sa quanto soffrirà per...»
«Ma che diavolo stai dicendo? Non sto trovando nessuna scusa! E per coprire cosa poi? Cosa stai insinuando?» sbottò lui e si trattenne a malapena dal fare un passo in avanti per fronteggiarla. Era senza parole e ancora leggermente disorientato da quell’improvviso cambio di atmosfera.
«Ti sei avvicinato a Josef solo per poterti approfittare di una ragazza, solo per poter arrivare a me. I ragazzi di vent’anni non si mettono ad aiutare bambini bisognosi volontariamente!» Gwen non capiva perché era così infuriata, ma senza pensarci alzò le mani e lo spintonò indietro. Non ottenne granchè comunque, lui si sbilanciò soltanto con le spalle prima di riuscire ad afferrarle i polsi. Le lanciò un’occhiataccia e lasciò la presa.
Era così arrabbiata, non per lei, ma perché quello stronzo aveva illuso Josef e l’aveva preso in giro.
«Non osare.» scattò Zayn guardandola con severità. «Non osare giudicarmi in questo modo, non provarci! Non sono quel tipo di persona, assolutamente no. Non mi approfitterei mai di un bambino e men che meno di una donna. Mai.» sottolineò l’ultima parola con enfasi, quasi volesse farle entrare a forza quel concetto in testa. Aveva giudicato quella ragazza nel peggiore dei modi, mettendola quasi su un piedistallo perché incarnava perfettamente il suo prototipo di ragazza ideale, sia fisicamente che caratterialmente. Forse si stava comportando così soltanto perché era preoccupata per Josef. Beh, non aveva comunque il diritto di farlo.
«Come posso saperlo? Non ti conosco, a malapena so come ti chiami, non puoi pretendere che io mi fidi di te come se ci conoscessimo da una vita.» ringhiò lei incrociando le braccia al petto, stringendosi nella felpa di Zayn. Lui la fissò intensamente e se non fosse stato così irritato l’avrebbe mangiata con gli occhi perché era bella, e con la sua felpa addosso lo era ancora di più.
«Ma davvero credi che io abbia parlato con Josef solo per arrivare a te? Non puoi essere seria.»
Gwen sospirò pesantemente: «Non metterla giù come se fossi una egocentrica del cazzo.» sbottò alzando le mani in aria. «E’ l’impressione che mi hai dato, non puoi biasimarmi.»
Anche Zayn sospirò: «Questo non… questo non c’entra niente. Ho invitato te ad uscire solo perché ti trovo bella, terribilmente bella e affascinante e carismatica. Se mi avessi detto di no avrei continuato tranquillamente a ricevere le telefonate di Josef.» si passò una mano tra i capelli, in un gesto frustrato. «Non puoi davvero pensare che io sia capace di una cosa del genere.» la guardò in un modo che la fece sentire per la prima volta nella sua vita in un profondo imbarazzo. Doveva ammetterlo, aveva reagito in maniera troppo avventata e voleva scusarsi per quelle accuse relativamente infondate, ma non era di certo quel tipo di persona. Inoltre, le sue ultime parole le avevano per un attimo riscaldato il cuore.
Distolse lo sguardo dal suo e lo puntò su un punto indefinito dietro le sue spalle. Sospirò, portandosi entrambe le mani sui fianchi.
«D’accordo,» disse. «D’accordo. Chiudiamola qui, comunque, con me e con Josef.» era la sua decisione definitiva. Non che con lei fosse successo chissà che cosa, avevano soltanto deciso di iniziare una conoscenza, eppure quelle parole furono comunque difficili da pronunciare. Il vero problema era Josef: come avrebbe fatto a sopportare di venire allontanato da un'altra persona a cui stava cominciando ad affezionarsi?
Zayn assottigliò le palpebre prima di rispondere con un breve e secco “ok”.
Gwen non permise a se stessa di sprecare altro tempo in quella stanza, perciò gli lanciò un’ultima occhiata fugace e uscì dalla porta, rientrando nello studio. Josef sedeva accanto all’altro tatuatore e ascoltava attentamente la sua spiegazione riguardo lo spessore degli aghi che stava usando. Quando si accorse della sua presenza, saltò in piedi e senza dire una parola la seguì fuori dallo studio.
Gwen era così confusa e completamente sfinita. Aveva saltato il suo pisolino pomeridiano, rischiato di perdere il figlio della sua migliore amica, fatto una doccia di pioggia e litigato con un semisconosciuto.
Fu soltanto quando ritornò a casa e si sedette stancamente sul divano che si accorse di avere addosso un odore che non era il suo. Sembrava un misto di fumo e profumo da uomo. Abbassò lo sguardo e si rese conto di indossare una felpa nera anziché la sua giacca.
«Cazzo.» imprecò e subito dopo si coprì la bocca.







Buonasera a tutti!
Come state? Chi di voi è psicologicamente pronto a ritornare a scuola? Beh, io non lo sono, proprio per niente, soprattutto perchè quest'anno sono in quinta superiore e quinta superiore è sinonimi di MATURITA'. 
Ma cambiamo argomento, concentriamoci sulla storia! Allora, ho deciso di postare oggi perchè non vedevo l'ora di farvi leggere questo capitolo. In realtà non so perchè, dato che rileggendolo mi sono accorta - come al solito - di non esserne affatto convinta. 
Btw, ammetto che le vostre recensioni e il numero di seguiti-preferiti-ricordati mi riempiono il cuore di gioia, davvero! Quando ho postato questa storia sapevo già che non avrei ricevuto poi così tanta attenzione, perchè a differenze delle mie altre ff, questa è molto tranquilla e, se si può dire, quasi anonima. Perciò sapere che comunque ha un suo seguito mi rende felicissima!
Tornando al capitolo, chi si aspettava già un litigio tra i nostri due amati protagonisti? E chi si aspettava che Josef "scappasse" di casa? Secondo voi perchè l'ha fatto? 
Ovviamente ci sono due motivazioni: la prima è che, appunto, voleva davvero conoscere meglio Zayn e passarci del tempo insieme, e la seconda è che voleva per un attimo allontanarsi da casa dopo il litigio dei genitori. Nella prima parte entra in scena Bruce, il padre di Josef, che non avrà poi così tanta importanza nella storia (sempre se non mi vengano fuori altre idee).
Poi c'è la scena di Josef che arriva allo studio: vi è piaciuta? Io spero di si, perchè adoro descrivere i momenti tra il bambino e Zayn anche se per adesso sono per così dire liimitati. E Louis? Dalle vostre recensioni nell'ultimo capitolo ho capito che vi piace molto ahaha ne sono felice!
L'ultima scena invece come l'avete trovata? Troppo esagerata? Spero di no. Il fatto è che la mia Gwen è una ragazza davvero molto forte e, allo stesso tempo, anche molto ansiosa - come potrete vedere nei prossimi capitoli - e soprattutto quando si tratta di Josef, perde con molta facilità la sua pazienza. Personalmente adoro Zayn. Il modo in cui riesce a gestire le situazioni con calma, cercando di fare ragione Gwen, ma allo stesso tempo tenendole anche testa. Inoltre, in questo capitolo esce fuori un suo aspetto molto importante che lascia Gwen profondamente sorpresa: la sua gentilezza.
Spero davvero che il capitolo vi sia piaciuto! Nel prossimo conosceremo un po' di più la famiglia di Gwen :) Vi lascio con una foto del piccolo Josef, che io mi immagino così :)
Un bacio,
clepp



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Capitolo 6
*** 05 - Capitolo cinque, It's alcohol! ***


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05
It's alcohol!





 
«Se avessi saputo che avreste tenuto il broncio per tutta la sera, sarei volentieri rimasta a casa.» ammise Gwen, appoggiando la schiena contro lo schienale della sedia e spostando l’attenzione all’uomo seduto a capotavola, intento a mangiare il suo dolce con una smorfia infastidita stampata in faccia. Quest’ultimo alzò a malapena la testa, lanciandole un’occhiata raggelante, prima di tornare alla sua torta.
«Questa sera non ho proprio voglia di sopportare le tue battute, Gwendoline.» replicò lui schiettamente, e l’intonazione della sua voce sanciva il tacito ordine di rimanere in silenzio. Gwen roteò gli occhi e li posò davanti a se, incontrando lo sguardo infastidito del fratello maggiore, Noah.
«E quando mai hai voglia di sopportare le battute dei tuoi figli? O meglio, quando mai hai voglia di sopportare i tuoi figli?» esordì il ragazzo, rivolgendosi chiaramente al padre ma tenendo lo sguardo fisso sul viso della sorella, come se volesse farle sapere che aveva intenzione di aprire una discussione e voleva che lei intervenisse in qualche modo.
Gwen alzò gli occhi al cielo, incapace di trattenere una smorfia seccata. Non aveva alcuna voglia di sopportare una ennesima litigata con suo padre, soprattutto perché durante quelle ultime cene settimanali  non avevano fatto altro che quello. Inizialmente riguardo l’aspetto fisico di Noah che, di volta in volta sembrava peggiorare sempre di più, e successivamente riguardo l’idea del piccolo Jaxon di trasferirsi per conto suo a soli diciannove anni. Gwen non aveva effettivamente fatto nulla per fare arrabbiare il padre, ma ogni volta che i fratelli cominciavano a discutere con lui, si sentiva in obbligo di spalleggiarli come loro avevano sempre fatto con lei.
«Noah,» lo richiamò il padre, questa volta puntando i suoi occhi di ghiaccio in quelli praticamente uguali del figlio. «Rimani in silenzio.» disse duramente ma sapeva che non l’avrebbe ascoltato.
Logan Prior era un uomo freddo, distante, composto e delle volte anche fin troppo severo. Aveva sempre impartito una certa disciplina ai propri figli, insegnando loro il significato della parola rispetto e dell'importanza di rimanere in silenzio nei momenti oppurtuni, ma da qualche anno a quella parte aveva riscontrato un comportamento negativo da parte loro. Il figlio più grande aveva iniziato all’età di diciotto anni a vestirsi come uno di quei poco di buono che giravano per la città e che lui disprezzava tanto. Un giorno era persino tornato a casa con dei rasta lunghi fino alla schiena. Successivamente la figlia femmina si era trasferita in periferia con la migliore amica e suo figlio senza quasi renderlo partecipe della sua decisione. E infine il minore era stato bocciato e l'anno successivo aveva cominciato a portare a casa pessimi voti, senza contare che anche lui stava pensando di andarsene a vivere da solo.
«Si, padrone.» replicò Noah, spingendo il piatto in mezzo alla tavola con un gesto brusco. Logan gli afferrò il polso e lo tenne stretto finché la voce della moglie non lo obbligò a lasciare la presa.
«Si può sapere che cos’avete tutti quanti?» sbottò subito dopo, lanciando un’occhiata a tutti e tre i figli che, quasi a volersi dare forza a vicenda, si stavando guardando intensamente.
Fu Jaxon a parlare: «Io ho che voglio andare a vivere da solo.» disse deciso, passandosi una mano tra i capelli scuri.
«E io non riesco a capire quale sia il tuo problema contro di me.» scattò Noah e uno dei suoi lunghi rasta gli coprì parte del viso. Sua madre allungò una mano e glielo tirò gentilmente indietro. Lui la ignorò, troppo nervoso per poterla ringraziare.
Logan prese un profondo respiro e inghiottì l’ultimo boccone della torta: il fatto che i suoi figli avessero lasciato gran parte del loro cibo nei piatti lo faceva infuriare, ma non disse niente perché non voleva peggiorare la situazione.
«Non ho niente contro di te, Noah,» replicò trattenendo il tono di voce. «Io sono contro il tuo aspetto fisico. Quei capelli, quei vestiti... non sono adatti per uno studente di diritto.» come poteva non capire un concetto così elementare? Noah non poteva studiare legge e pretendere di voler diventare un avvocato  con quell’aspetto a dir poco... disgustoso. E il fatto che avesse persino una band... insomma, non erano cose che un avvocato poteva permettersi di avere.
Noah sbuffò pesantemente: «Nessuno sembra avere problemi con i miei capelli o i miei tatuaggi, eccetto te.» esplose, a malapena riuscendo a trattenersi dall’alzarsi in piedi. «Santo cielo, siamo nel 2014, cerca di aggiornarti.»
Logan lanciò un’occhiata perentoria alla moglie. «Da dove diavolo hanno preso questo loro atteggiamento così supponente? Probabilmente arriva da te, perché io non-» fu interrotto dal rumore di due sedie che stridono contro il pavimento. Noah e Jaxon erano in piedi, adesso, in un atteggiamento di difesa nei confronti della madre.
Jaxon allungò un indice contro il padre: «Non parlarle in questo modo.» sbottò stringendo le mani in due pugni stretti.
«Tu non parlarmi in questo modo!» ringhiò Logan. Non si alzò dalla sedia solo perché se l'avesse fatto era sicuro che avrebbe perso anche quell'ultimo briciolo di pazienza che ancora controllava le sue azioni.
Fu Gwen ad intervenire: «Perché vedi sempre i nostri difetti?» chiese con tono accusatorio. «Perché non vedi oltre ciò che ti ostini a vedere? Sei talmente occupato a criticare l’aspetto di Noah da non renderti conto che in realtà è uno dei ragazzi più intelligenti e dotati della sua età. Studia, lavora, si mantiene autonomamente e ha anche il tempo di coltivare le sue passioni. E Jaxon? I suoi valori, la capacità di avere una propria opinione, di farla valere, di distinguersi e di essere in grado di ragionare con la propria testa... non giustificano almeno un po’ i suoi brutti voti? E io? Non ho mai fatto nulla che potesse compromettere il mio futuro. Ho sempre studiato, aiutato a casa e non ho mai dato alcun tipo di problema. Cosa c’è di sbagliato in te da non accorgerti di tutte queste cose? E perché ti ostini ad accusare la mamma per come siamo? Dovresti invece ringraziarla per come siamo. Il merito è suo se non siamo diventati degli adulti senza sentimenti a tua immagine e somiglianza.»
Gwen non avrebbe voluto dire quell’ultima frase, ma molti  dei pensieri che aveva portato dietro per anni e che adesso per metà finalmente era riuscita a tirare fuori erano anche peggiori di quelli. Non le importava di avere lo sguardo glaciale di suo padre puntato addosso, voleva soltanto sentire la sua risposta, la sua scusa. Percepiva il sorriso di Noah e Jaxon ma non voleva distogliere l’attenzione da suo padre per poter condividere la loro soddisfazione.
Si sentiva così leggera, libera dal peso di quelle parole che aveva dovuto reprimere per anni.
Logan aprì la bocca per replicare ma non ne uscì niente. La richiuse, la riaprì di nuovo.
«Bravo papà, abbraccia l’arte del silenzio.» gli disse Jaxon, dandogli una pacca sulla spalla con un sorriso ironico prima di dirigersi verso l’uscita. 
Gwen e Noah si lanciarono un’occhiata eloquente e anche loro si avviarono verso la porta.
«Ottima cena, mamma.» mormorò Noah regalandole un sorriso.
«Come sempre!» aggiunse Gwen ed entrambi uscirono da quella casa.
-
Gwen fu costretta a chiamare il nome di Josef almeno un paio di volte prima che questo comparisse dalla porta della cucina con addosso solo un paio di boxer e una canotta intima bianca. Lo guardò con un sopracciglio alzato ma evitò di commentare il suo look stravagante.
Da quando Gwen gli aveva parlato dopo la sua “fuga” allo studio di tatuaggi, facendogli capire la gravità del suo gesto e impedendogli di parlare di nuovo con Zayn, il loro rapporto era inevitabilmente cambiato. Non in maniera esagerata, soltanto nelle piccole cose.
Josef, per esempio, non l’andava più  a svegliare la mattina prima di andare a scuola per darle il bacio del buongiorno, e non la invitava più a guardare un dvd la sera quando in tv non c’era niente da guardare. Parlavano ancora, certo, e scherzavano anche, ma Gwen poteva vedere che, anche se Josef cercava di nasconderlo perché sapeva di esserselo meritato, provava un certo rancore nei suoi confronti.
Sperava che la situazione migliorasse, perché non poteva sopportare quel leggero strato di ghiaccio tra loro due.
«Mamma tarderà un po’ stasera,» disse osservandolo da dietro l’isolotto della cucina. «Vuoi ordinare una pizza?» gli chiese, sperando di rubargli una di quelle scintille di eccitazione che di solito gli attraversavano gli occhi azzurri quando qualcosa gli piaceva molto. Il cuore di Gwen si riscaldò un po’ quando la vide.
«Si!» esclamò sorridendo e per un momento si dimenticò di essere arrabbiato con lei.
«Grandioso, vado a chiamare allora.» lo avvisò trattenendo la gioia nel vederlo così felice. Si avviò verso il telefono di casa che di solito era poggiato su un tavolino in salotto. Stranamente, non era lì.
Si guardò attorno e cercò di ricordarsi se per caso l’avesse usato e poi lasciato in qualche posto preciso, ma non le sembrava di aver chiamato con il telefono di casa quel giorno.
Raddrizzò la schiena mentre un pensiero cominciava a formarsi nei meandri della sua mente. Prima di poter fare qualsiasi supposizione, si avviò verso il corridoio che portò alle stanze e si fermò davanti alla porta della camera di Josef. L’aprì e accese la luce.
Sul copriletto disfatto c’era la cornetta del telefono. Strinse i pugni: magari aveva chiamato Bruce.
Prese in mano il telefono e con tutte le sue forze cercò di trattenersi dal controllare la cronologia delle telefonate ma le fu impossibile. L’ultima chiamata in entrata era di Bruce.
L’ultima in uscita era di un numero sconosciuto. Senza pensarci due volte, premette il tasto verde e aspettò che i suoi sospetti venissero confermati.
«Studio Zap Tattoes, come posso aiutarla?»
Riattaccò.
-
Zayn si sistemò meglio gli occhiali da vista sul naso, spingendoli indietro con l’indice sinistro mentre con la mano destra si portava alle labbra il bicchiere di vetro pieno di birra.
Il locale era stracolmo di gente e il palco era quasi pronto per ospitare la prossima band. Zayn si era stupito quando aveva scoperto che quella sera nel suo locale preferito si sarebbe esibita la band il cui membro era il fratello di Gwen.
Quando l’aveva saputo, non sapeva se essere infastidito dal fatto che molto probabilmente l’avrebbe rivista o se invece esserne elettrizzato. Lo affascinava ancora, su quello non c’era nessun dubbio. Il solo pensiero dei suoi occhi grigi, dei suoi lunghi capelli castani, della sua voce rauca, della sua lingua tagliente, lo mandavano in fibrillazione. Ma allo stesso tempo lo rendevano nervoso: era ancora infastidito dal fatto che lei avesse pensato che lui fosse stato capace di approfittarsi in quel modo di un bambino di nove anni e di una ragazza di venti. Non era accettabile, eppure non era offeso come avrebbe dovuto essere.
Josef l’aveva richiamato una sola volta dopo essersi presentato allo studio. In quella breve chiamata gli aveva semplicemente detto che Gwen gli aveva proibito di sentirlo ancora e che quindi si scusava di non essersi più fatto vivo.
Zayn si era affezionato a quel bambino, per quanto una persona potesse affezionarsi ad un’altra dopo cinque o sei telefonate, ma con il tono più gentile che potesse trovare, gli disse che Gwen aveva ragione e che per evitare di farla ancora stare in pensiero era meglio se smettevano di chiamarsi. Si era sentito in colpa, parecchio, ma sapeva che era la cosa giusta da fare.
Louis iniziò a parlare e Zayn a malapena riuscì a seguire il filo del discorso. C’era così tanta confusione e lui aveva un mal di testa allucinante. Voleva tornarsene a casa e giocare a qualche videogioco o semplicemente andarsene a dormire.
«Com’è andata a finire con quel bambino?» gli chiese Louis improvvisamente, attirando la sua attenzione con un gesto secco della mano davanti ai suoi occhi.
«Cosa?» fece Zayn confusamente.
«Il bambino... com’è finita?»
Zayn aggrottò la fronte e si chiese per quale motivo Louis avesse voluto tirare fuori quell’argomento proprio adesso.
«Gli ho detto che era meglio evitare. Sua zia mi ha quasi staccato la testa, come se la colpa fosse stata mia.» roteò gli occhi al pensiero degli occhi raggelanti di Gwen quando lo stava accusando di aver approfittato di lui.
«Oh,» mormorò Louis prendendo un sorso della sua bibita analcolica prima di continuare a parlare. «Allora non ti girare.» accennò un sorriso ironico mentre spostava lo sguardo dietro le sue spalle.
Sospirando Zayn si voltò, già sapendo cosa – chi – si sarebbe trovato davanti.
Gwen era in piedi accanto agli scalini che portavano sul palco, intenta a parlare con un ragazzo alto i cui lunghi capelli erano tenuti indietro da una fascia nera. Aveva un cipiglio concentrato stampato in faccia mentre il suo interlocutore parlava, e le braccia erano incrociate al petto.
Indossava una camicia quadrettata verde scuro e rossa coperta da una giacca marrone e un paio di jeans risvoltati sopra due stivaletti dello stesso colore della giacca. Un piede era appoggiato sul primo scalino.
I capelli erano sciolti e lunghi fino al seno o poco più. Le guance erano più rosee del solito, probabilmente dovuto al fatto che l’aria del locale era soffocante. Era bella, di una bellezza naturale che obbligava Zayn a guardarla e riguardarla senza averne mai abbastanza.
Si obbligò a voltarsi di nuovo verso gli occhi azzurri di Louis.
«E’ una grande gnocca,» ammise lui sinceramente, sospirando. Zayn lo colpì dietro la testa, facendolo cozzare contro la mano che stava tenendo appoggiata al bancone.
«E non è neanche tua, quindi rilassati amico!» scattò massaggiandosi la nuca e allo stesso tempo il naso.
Zayn roteò gli occhi incapace di trattenere il grugnito che uscì fuori dalle sue labbra nel sentire la verità sbattersi contro la sua faccia. Louis aveva ragione: se qualcuno voleva dire che Gwen era gnocca in sua presenza, poteva farlo.
«Scusa.» mormorò e bevve ancora dal suo bicchiere.
Si sistemò di nuovo gli occhiali da vista che aveva deciso di indossare solo perché l’avrebbero aiutato con il mal di testa.
Decise che una seconda sbirciatina non avrebbe fatto male a nessuno. Esitante, girò leggermente la testa verso il palco e senza riuscire a trattenere un sospiro affranto si rese conto che Gwen era sparita.
Spostò la sua attenzione di nuovo verso Louis ma con la coda dell’occhio si accorse di una presenza dietro di lui.
Sussultò di scatto: «Gesù!» si portò una mano al cuore mentre con l’altra faceva schizzare la birra da tutte le parti.
«Ehilà!» la voce rauca di Gwen squittì contro il suo orecchio  e inaspettatamente, senza che lui potesse prevederlo, allungò un braccio e afferrò dalle mani di Zayn il suo bicchiere. Gli lanciò un’occhiata maliziosa prima di bere due lunghi sorsi di birra e alzare il bicchiere in aria.
Zayn la fissò, incredulo: il fatto che fosse leggermente ubriaca lo sorprese e non poco. Quando l’aveva vista parlare con il ragazzo, qualche minuto prima, non pensava davvero che lo fosse. Sembrava attenta alle parole del suo interlocutore, forse troppo attenta, come se si stesse disperatamente sforzando di capire cosa le stesse dicendo.
«Non credevo di incontrarti qui!» urlò sopra la musica e Zayn faticò a distinguere le parole che uscirono confuse dalle sue labbra piene. Doveva ancora abituarsi all’accento americano, soprattutto quello di Boston. Quando aveva conosciuto Gwen aveva pensato che su di lei quell’accento stesse benissimo, ma in quel momento pensò soltanto che da ubriaca era quasi impossibile capire cosa stesse dicendo.
«Potrei anche dedurre che tu mi stia pedinando!» continuò portandosi il bicchiere alle labbra una terza volta. Zayn però fu più svelto: si alzò dallo sgabello e allungò le mani verso di lei. Le rubò il bicchiere e prima che lei potesse accorgersene lo rifilò nelle mani di Louis che gli lanciò un’occhiata confusa ma non si lamentò.
Se c’era una cosa che Zayn non sopportava era essere sobrio e avere a che fare con ragazze ubriache. Poteva sopportarlo quando lo era anche lui, ma se - come in quel caso - era perfettamente lucido, vedere Gwen in quello stato lo rendeva nervoso.
«Ehi!» esclamò lei dopo essersi resa conto di ciò che aveva fatto. Gli diede una debole e scoordinata pacca sulla spalla, lanciandogli un’occhiata seccata. «Sei uno stronzo!» disse. Lo fissò per qualche secondo poi di colpo si voltò e si fece spazio tra la mischia, allontanandosi.
Zayn rimase fermo, immobile con le mani appoggiate ai fianchi davanti al bancone mentre la gente gli passava accanto. Si chiese se doveva seguirla o se invece doveva rimanere lì con Louis. Oppure se doveva tornare a casa.
Sin dal primo momento in cui quelle opzioni gli passarono per la testa, sapeva già perfettamente quale avrebbe scelto. Sospirando cominciò ad aprirsi un varco in mezzo alla folla per poter raggiungere Gwen. Gli fu difficile trovarla in quel trambusto ma dopo vari tentativi scorse una giacca marrone dileguarsi nel corridoio che portava ai bagni. Si scusò con un ragazzino per essergli andato addosso e accelerò il passo fino a raggiungere l’entrata della toilette.
«Gwen!» riuscì a chiamarla prima che lei entrasse nel bagno delle ragazze. Quando si voltò verso di lui con un cipiglio confuso stampato sul viso, Zayn si sbrigò a raggiungerla.
Una volta di fronte a lei si morse l’interno della guancia, indeciso su cosa dire.
«Tu,» iniziò lei, alzando un indice nella sua direzione e colpendo il suo petto. «Tu hai la mia giacca.» disse in tono serio.
Zayn si ricordò della giacca che aveva lasciato allo studio qualche giorno prima, dopo che aveva inveito contro di lui e si era piombata fuori dal negozio senza neanche accorgersi di averla dimenticata lì.
«E tu la mia felpa.» replicò lui, morbidamente, tenendo gli occhi fissi in quelli di lei. Gwen esitò, aggrottò le sopracciglia e poi annuì.
«Si,» rispose «Credo che la terrò. Ha un buon profumo.»
Zayn non riuscì a trattenere un sorriso nell’udire quelle parole e nell’osservare l’espressione vagamente disorientata sul viso di Gwen. Nonostante si sentisse comunque a disagio nel vederla brilla, era divertito dal fatto che l’alcol la rendesse più morbida, alla mano.
«E io terrò la tua giacca allora.»
Gwen scosse freneticamente la testa poi si fermò di colpo come se un pensiero le avesse appena attraversato la mente e lei non potesse farselo scappare. Alzò gli occhi su di lui e Zayn si stupì per quanto fossero acquosi quella sera.
«Si,» bisbigliò lei e poi alzò la voce. «Si, si, credo si possa fare. Insomma, è giusto. Prendilo come un regalo di scuse, dato che dalla mia bocca non ne sentirai uscire.»
Gwen avrebbe voluto scusarsi per il suo comportamento così esagerato di qualche giorno prima, ma non era il tipo di persona che sbandierava i “mi dispiace” così ai quattro venti. Aveva riflettuto e riflettuto durante quei giorni, aveva ripensato alla loro discussione una miriade di volte, e alla fine aveva dovuto ammettere che aveva davvero superato il limite. Eppure, non se la sentiva di scusarsi, perché era ancora leggermente convinta che Zayn non avesse avuto proprio le migliori intenzioni.
Zayn accennò un mezzo sorriso e a Gwen parve che si fosse avvicinato un po’: «Non voglio la tua giacca,» ribatté incrociando le braccia  al petto, «Voglio che tu mi dica che ti dispiace di avermi accusato ingiustamente.»
Gwen riprese a scuotere la testa freneticamente, facendo un passo indietro per allontanarsi da lui. Nel profondo sapeva che quel ragazzo era buono dentro esattamente nello stesso modo in cui lo dava a vedere, ma il suo orgoglio era troppo forte.
«E tu invece devi dirmi che non accetterai più le telefonate di Josef.» indurì il tono di voce.
«Lo sto già facendo.» replicò Zayn confuso.
«No, non è vero. Ho visto che ieri ti ha chiamato.» continuò. Gwen incrociò le braccia al petto e per un istante non sembrò più brilla, ma poi sbatté le palpebre più volte con un’espressione stralunata.
«Si, mi ha chiamato, ma ho messo le cose in chiaro. Gli ho detto che è meglio se non ci sentiamo più, sia per la tua sanità mentale che per la sua sicurezza.»
Gwen aggrottò la fronte, sempre più disorientata: «Oh, beh, allora...» si morse il labbro inferiore.
Zayn si costrinse a tenere gli occhi puntati in quelli di Gwen perché se avesse abbassato lo sguardo per un solo secondo, avrebbe fatto in modo che mordesse le sue, di labbra.
«Beh, grazie.»
Zayn alzò un sopracciglio. «Non voglio sentire un grazie,» trattenne un sorriso. «Voglio sentire un mi dispiace.»
Gwen roteò gli occhi e sbuffò fuori un po’ d’aria. Dietro di loro le risate e gli schiamazzi di un gruppo di ragazze li interruppero. Due di loro li sorpassarono e aprirono la porta del bagno, esattamente a un passo dal braccio di Gwen.
Una delle ragazze le andò addosso per sbaglio e Gwen venne sospinta in avanti. Probabilmente se fosse stata in condizioni normali non avrebbe perso l’equilibrio, ma l’alcol in circolo nel suo corpo aveva reso i suoi movimenti più maldestri. Andò a sbattere contro Zayn ma prima che la sua faccia finisse contro il suo petto, le sue braccia furono più veloci e riuscirono ad attutire il colpo.
Zayn strinse automaticamente le mani attorno alle braccia sospese di Gwen per sostenerla. Avrebbe voluto toccarla in quel modo – e molti altri - sempre.
«Grazie,» mormorò lei ma rimase ferma immobile. Zayn la osservò, trattenendo un ghigno.
«Ti gira la testa?» le chiese dopo aver realizzato che il suo viso era impallidito tutt’a un tratto. Gwen annuì debolmente e chiuse gli occhi. Si portò una mano sulla fronte mentre l’altra rimaneva premuta ancora sul petto di Zayn. Quest’ultimo la sostenne accompagnandola fino dentro il bagno delle ragazze, facendola appoggiare al bancone del lavello.
«Ti viene da vomitare?» domandò gentilmente, chinandosi su di lei così che il suo viso fosse a pari merito col suo.
Gwen scosse la testa.
«Hai davvero un buon odore.» mormorò ancora a occhi chiusi. Zayn strabuzzò lievemente gli occhi prima di ridacchiare silenziosamente. «Grazie.»
«E mi dispiace per come mi sono comportata.» continuò, sempre ad occhi chiusi. «Il fatto è che quando si tratta di Josef... non c’è niente che possa fermarmi.»
Abbozzò un debole sorriso e aprì un occhio con lentezza. Appurato che la testa aveva finito di girare, aprì anche l’altro. Si era appena scusata, eppure invece di sentire i suoi nervi ribollire per il fastidio, si sentiva in pace con se stessa. Più o meno. Aveva comunque ammesso di aver sbagliato e quella non era una cosa che Gwen era in grado di digerire facilmente. Era sicura che quell’improvviso attimo di debolezza fosse dovuto all’alcol e, in parte, anche alla gentilezza di Zayn che ogni volta la spingeva sempre di più a pensare che quel ragazzo non fosse cattivo, anzi.
«Non importa, non preoccuparti. Ormai è passato.»
Gwen si rese conto di avere ancora le mani di Zayn ferme sulle sue braccia, quasi avesse paura che potesse cadere da un momento all’altro. Lo guardò da dietro un ciuffo di capelli ribelle e si chiese come sarebbe stato avere le sue labbra a contatto con le proprie. Prima che potesse formulare un pensiero coerente, si protese verso di lui con tutta l’intenzione di baciarlo. Era l’alcol, si ripeteva.
Zayn la fermò.
«Non mi baceresti se fossi pienamente cosciente delle tue azioni.» disse, un sorrisetto ad accendergli il viso.
Gwen si morse il labbro: «Lo so, ma hai davvero un buon odore.» ammise sinceramente, alzando le spalle.
Zayn la ringraziò di nuovo e solo per un attimo allentò la presa attorno alle sue braccia.
«Facciamo così,» disse lui tirandole dietro l’orecchio il ciuffo di capelli ribelle. «Accetta di uscire con me, da sobria, così deciderai se baciarmi o meno.»
«Ma l’ho già deciso.» sbuffò lei.
«Intendo da sobria.»
Gwen sbuffò di nuovo e alzò le spalle. «Ok, uscirò con te, ma adesso me lo dai il bacio della buonanotte?»
Zayn scoppiò a ridere prima di potersi trattenere. Scosse la testa e allungò il collo.
Le sue labbra sfiorarono la guancia di Gwen, pericolosamente vicino all’angolo della sua bocca semiaperta. Fu difficile per lui controllarsi dal non baciarla davvero. Era così bella e anche lei profumava di buono, di un buono che lo mandava in tilt.
«Vuoi un passaggio fino a casa?» le chiese gentilmente, guardandola con due occhi premurosi.
Gwen annuì debolmente: ogni secondo che passava si sentiva sempre più fiacca e stanca e pronta a vomitare l’anima.
«Si, per favore.»
Zayn le avvolse un braccio attorno alla vita e la sospinse lentamente fuori dal bagno, lungo il corridoio.
Gwen era ammaliata dai suoi movimenti protettivi mentre la faceva passare in mezzo alla folla. Le stava accanto, quasi attaccato come da un filo, e le faceva spazio in modo che potesse passare tranquillamente, senza essere soffocata dai presenti.
Quando furono fuori Gwen respirò una boccata d’aria fresca e si sentì leggermente meglio. Si voltò verso Zayn e accennò un sorriso.
«Questo non è il momento in cui il ragazzo prende in braccio la ragazza e la porta verso la macchina?»
Zayn la guardò sorpreso, completamente preso in contropiede da quella richiesta. Non se l’aspettava proprio ma, dopo aver sorriso, piegò le braccia e le portò una sotto le ginocchia di Gwen e l’altra attorno alle spalle. La sollevò senza fatica e la tenne stretta.
Mentre camminavano verso il parcheggio Gwen non potè fare a meno di fissare il viso semi illuminato di Zayn.
Probabilmente non aveva ancora realizzato che si era scusata con lui, aveva quasi provato a baciarlo, aveva accettato di nuovo di uscirci insieme e adesso gli aveva chiesto di portarla in braccio fino alla macchina. Continuava a ripetersi che era colpa dell’alcol, e che effettivamente quando lei era ubriaca non ragionava più lucidamente, eppure nel profondo sapeva che le cose che aveva appena fatto le voleva davvero fare.
Mentre lo osservava spudoratamente si accorse solo in quel momento che portava gli occhiali da vista. Con un sorriso glieli tolse e se li mise.
Non vedeva assolutamente niente perciò chiuse gli occhi senza volerli però togliere. Arrivarono in macchina e mentre Zayn guidava verso casa di Gwen dopo che lei gli aveva farfugliato in maniera confusa la via, si accorse che vederla indossare le sue cose, prima la felpa e adesso gli occhiali, era una cosa che lo riscaldava nel profondo.
E non la conosceva nemmeno.









Buongiorno a tutti! :)
Sono sconvolta dalla mia - più o meno - puntualità nel postare i nuovi capitoli! Credo sia perchè li ho già pronti, quindi inizio già a scusarmi quando posterò l'ultimo capitolo già scritto, perchè da lì in poi credo che sarà un vero e proprio suicidio. 
Allora, in questo capitolo entrano in scena altri tre (in realtà quattro) nuovi personaggi. Il primo è Logan Prior, il padre di Gwen. Come l'avete trovato? Lo odiate già? Perchè io si, ahahah. So che vi starete chiedendo come possono tre figli trattare così il loro padre, ma più avanti scoprirete per quale motivo hanno questo atteggiamento nei suoi confronti. 
Il secondo personaggio è la mamma di Gwen. In realtà in questo capitolo non ha detto molto, anzi, ha più che altro supervisionato la discussione dei figli e del marito, rimanendo in disparte ma comunque cercando di calmare le acque. Cosa ne pensate di lei? Il suo personaggio verrà approfondito con calma più in là.
E infine abbiamo Noah, il ragazzo con i rasta che vuole diventare avvocato. Anche per lui vi chiedo cosa ne pensate! Diciamo che tutti e tre i fratelli Prior hanno un carattere bello tosto, chi più, chi meno, ma comunque molto forte. 
Ci sarebbe anche un quarto personaggio, che però verrà presentato più avanti, ma che in questo capitolo ha fatto la sua prima - e brevissima - comparsa! Se avete capito chi è lasciatemi un commento nella recensione ahahah.
Spero di non avervi deluso con la parte in cui Gwen va a parlare con Zayn e si scopre che ha bevuto un po' troppo. Ho voluto semplicemente sottolineare che è una ragazza normale, che studia e a cui piace divertirsi esattamente come a tutti gli altri. E cosa mi dite del suo atteggiamento nei confronti di Zayn?
Zayn... ancora una volta esce fuori il suo lato buono. Prima di tutto decide di perdonare Gwen quasi subito, e poi le offre un passaggio a casa.
Non vedo l'ora di postare il prossimo capitolo, davvero, perchè succederà qualcosa che rivoluzionerà completamente la visione che ha Gwen di Zayn, e inoltre verrà approfondito un po' di più il rapporto tra Josef e il padre e tra Josef e la scuola. 
Ho parlato un po' troppo, ma la parte dei ringraziamenti non posso assolutamente saltarla. Le vostre recensioni al capitolo precedente mi hanno riscaldato il cuore e spronato ad andare avanti a scrivere, davvero grazie. Non potete capire quanto mi faccia piacere sapere che ciò che scrive vi piace!
Adesso devo andare a dare ripetizioni di francese, ma appena ho finito risponderò a tutte le vostre recensioni! Ah, vi lascio con le foto dei fratelli Prior.
Grazie di cuore,
clepp

 
 



 
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Capitolo 7
*** 06 - Capitolo sei, Ruined comics ***


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06
Ruined Comics






 
Josef non faceva altro che tirarsi giù la manica della felpa rossa in maniera quasi innaturale da quando suo padre Bruce era entrato in casa e si era seduto sulla poltrona al lato del divano. Il bambino cercava di stare il più distante possibile da lui: nella testa rimbombava ancora il suo tono di voce alto e imponente contro quello piccolo e morbido della madre.
Bruce gli stava parlando di una partita di calcio che Josef era stato obbligato a guardare quando invece avrebbe preferito rimanere in camera a finire di leggere il suo nuovo fumetto. Stava disperatamente cercando di seguire il filo del suo discorso, ma Josef faticava a rimanere concentrato quando qualcosa non gli interessava. La mano destra continuava a spingere la manica della felpa fino al polso in maniera compulsiva, quasi avesse paura che questa si arrotolasse e mostrasse parte del braccio.
«Josef,» lo richiamò il padre, il tono di voce duro e allo stesso tempo annoiato. «Mi stai ascoltando?» gli chiese sporgendosi verso di lui con lentezza.
Josef sussultò all’improvviso e spostò lo sguardo dal viso del padre al colore scuro del tappeto su cui erano poggiati i suoi grossi scarponi. Annuì flebilmente e il ritmo con cui si toccava la felpa sembrò aumentare.
«Ecco qua!» la voce calda di Gretel riempì il silenzio della sala e i muscoli di Josef si rilassarono impercettibilmente.
La bionda poggiò sul tavolino un vassoio sul quale giaceva un piatto stracolmo di biscotti al cioccolato. Con un sorriso che voleva mandare via la tensione del momento, Gretel si sedette accanto al figlio, anche lei a debita distanza dall’ex compagno.
Dopo che avevano litigato, la settimana prima, il comportamento scontroso di Bruce sembrava essersi intensificato ancora di più nei confronti del figlio. Non era ciò che voleva Gretel e, come era solita fare quasi sempre, si incolpò per aver permesso una cosa del genere.
Avevano litigato per un motivo sciocco, futile: Gretel si era stufata di dover obbligare Josef a vedere delle stupide partite di calcio così che poi ne avrebbe potuto discutere con lui e Bruce si era scaldato senza motivo. Aveva cominciato ad inveirle contro sottolineando l’importanza di infondere al bambino quel tipo di educazione, altrimenti sarebbe venuto su tutto rose e fiori per colpa sua.
«Josef,» la voce dura di suo padre lo richiamò una seconda volta. Josef si obbligò a portare lo sguardo sul viso dell’uomo anche se era l’ultima cosa che voleva fare.
«Ti ho fatto una domanda.» continuò in un modo che solo lui aveva il coraggio di usare con un bambino piccolo come Josef.
Gretel guardò prima suo figlio e poi l’ex compagno.
«Ci sono i biscotti, Bruce.» replicò cercando di mantenere la conversazione su un livello civile. Il biondo strinse le mani attorno ai braccioli della poltrona e non disse niente. Per quanto potesse essere severo, a volte riusciva a darsi dei limiti.
Josef giocherellò per l’ultima volta con la manica della felpa prima di sporgersi verso il tavolino e prendere un biscotto dal piatto stracolmo. Lo stesso fece Gretel, che lanciò un’occhiata folgorante a Bruce per intimarlo di fare lo stesso. Questo non lo fece.
«Come va la scuola, Josef?» chiese invece e il bambino si mosse scomodamente sul divano, osservando malinconicamente il suo biscotto non ancora toccato.
Si schiarì la voce prima di rispondere: «Bene, papà.» rispose flebilmente. Bruce sporse la testa in avanti.
«Alza la voce, Josef.» scattò e Gretel gli lanciò un’altra occhiataccia.
«Bene, papà.» ripeté con voce poco più decisa.
Bruce roteò gli occhi e incrociò le braccia al petto: più passava del tempo con suo figlio, meno riusciva a capirlo. Era l’esatto opposto di lui quando era un bambino, sempre pronto a giocare e a fare disastri, sempre con un pallone in mano o qualche amico accanto. Così i bambini dovevano essere, secondo lui, non come quello che aveva davanti, sempre rinchiuso in camera a leggere qualche fumetto e a guardare qualche stupido film di fantascienza.
«Domani sera c’è la partita più importante del campionato.» continuò allora, cambiando argomento. «Ricordati di fargliela guardare, Gretel.» si rivolse alla bionda intenta a sorridere gentilmente a Josef e a mangiare il proprio biscotto.
Ecco perché suo figlio era una vera e propria femminuccia, la colpa era della madre. Con i suoi modi sempre troppo gentili, con i suoi sorrisi, le sue cure, non faceva altro che rovinare quel bambino. Le uniche cose di cui aveva veramente bisogno erano degli amici maschi e di un pallone da calcio, nient’altro.
«La guarderà se ne avrà voglia,» ribatté la donna duramente, spostando l’attenzione di nuovo su di lui. Era incredibile come la sua espressione cambiasse da Josef a Bruce, sembrava quasi che ci fossero due persone diverse nello stesso corpo.
«La guarderà punto e basta.»
Josef ricominciò a toccarsi la manica della felpa, stringendo forte il tessuto e abbassandolo fino a quasi coprire l’intera mano. Lo sguardo basso era fisso sul suo biscotto intatto. Udì Gretel rispondere a suo padre e subito dopo la  sua voce tonante farsi sempre più alta. Riuscì soltanto a vedere il gesto di sua madre che gli diceva di andare in camera prima di alzarsi e fare come gli aveva detto.
-
Gli occhi di Zayn erano semichiusi e puntati sulla nebbiolina che vagava disperdendosi davanti a lui. Con la sigaretta incastrata tra i denti, allungò una mano e la agitò all’interno della nuvola di fumo, facendo in modo che questo si muovesse con più rapidità. In sottofondo udiva la voce di Louis che parlava al telefono con un qualche nuovo cliente.
Erano le quattro del pomeriggio e sull’agenda non era segnato alcun appuntamento, per quel motivo Zayn si era sdraiato sul lettino e si era acceso una sigaretta. Non avrebbe dovuto fumare in negozio, come gli aveva ripetuto una decina di volte Louis, ma fuori faceva troppo freddo e lui era troppo stanco per alzarsi.
Zayn iniziò a canticchiare un motivetto sconosciuto mentre pensava e ripensava a quello che era successo due giorni prima.
Gwen era decisamente una ragazza inusuale: forte, decisa, arrogante, ansiosa e completamente folle. Era esagerata in ogni sua azione, ingigantiva qualsiasi cosa e si arrabbiava per niente. Ma era bella, odorava di buono, ed era intelligente. Simpatica, arguta e piena di carisma.
«Dovrei chiamarla?» la sua voce uscì prima che lui potesse pensarci. Louis si interruppe per un attimo, preso alla sprovvista, poi continuò a parlare al telefono.
Zayn aspettò che lui finisse la sua telefonata prima di porre nuovamente la domanda.
«Dovrei chiamarla?» chiese ancora, a voce più alta ma meno decisa. Forse stava parlando più a se stesso che all’amico.
In risposta ottenne del silenzio: Louis probabilmente si stava appuntando la data, l’ora e il nome del cliente che aveva appena telefonato. Solo dopo qualche minuto rispose.
«La mora dell’altra sera?» chiese, ma la sua sembrava più una domanda retorica. Zayn annuì.
Fu sorpreso di ricevere in risposta un secco “si”.
«Tu dici?» chiese piegando la testa di lato mentre il fumo usciva lentamente dalla sua bocca.
«Si, Zayn.» sospirò Louis. Si alzò dalla sedia e fece il giro della scrivania, fermandosi ad un passo dall’amico. Con un gesto veloce gli rubò la sigaretta dalle mani e, dopo aver preso un tiro, la spense nel portacenere accanto al lettino. «Si, dovresti farlo.»
«Perché sei così sicuro?» scattò Zayn con voce seccata. Si tirò su a sedere e si passò una mano tra i capelli corti.
«Perché le pochissime volte che mi hai posto questa domanda, quella ragazza era da chiamare.» replicò Louis, sedendosi sulla sedia accanto al lettino e prendendo in mano la macchinetta dei tatuaggi, smontando gli aghi sporchi che aveva usato una decina di minuti prima.
Zayn grugnì in risposta e tornò giù, appoggiando la schiena sul lettino con un tonfo. «Stronzate...» mormorò sovrappensiero e la sua mente cominciò a vagare agli anni passati quando era più piccolo e più inesperto in fatto di donne. Aveva avuto due ragazze serie in tutta la sua vita, una l’aveva mollato perché non era “in grado di sopportare più la sua mania per i tatuaggi” e l’altra l’aveva tradito con uno dei ragazzi più popolari della scuola. Zayn non ci aveva particolarmente sofferto, soltanto per orgoglio e per il fatto che quelle ragazze erano davvero delle fighe. Ci teneva, certo, ma non nel modo in cui è giusto tenerci.
«Vi ho visti andare via insieme l’altra sera,» continuò Louis, tutto concentrato sugli aghi da pulire, ancora una volta con addosso gli occhiali di Zayn. «Sono quasi sicuro che non abbiate fatto niente. Perciò è una di quelle ragazze da chiamare.» il tono di voce lieve e indifferente che stava usando mandava Zayn in collera. Odiava quel suo lato così saccente e sotuttoio. Sbuffò seccato e si passò di nuovo la mano tra i capelli.
«Come sai che non me la sono portata a letto?» chiese roteando gli occhi.
Louis si fermò per un attimo dal pulire gli aghi con uno straccio e gli lanciò un’occhiata sinistra. «Lo so e basta.» rispose e Zayn decise di far cadere l’argomento.
Si alzò dal lettino e si stiracchiò le braccia. «Io vado Louis, quando hai finito di pulire gli aghi ricordati di ritirare i disegni nel quaderno prima di chiudere tutto.» non sapeva nemmeno perché glielo stesse ricordando dato che il puntiglioso Louis non avrebbe mai dimenticato niente. Lui infatti annuì appena e si tolse gli occhiali per passarli a Zayn.
«Sarebbe ora di andare a fare una visita oculistica.» mormorò sbuffando.
Fin troppa gente stava usando i suoi occhiali, da Louis a Gwen e anche se la cosa non gli dava fastidio, erano comunque i suoi occhiali da vista. Che se li comprassero!
In realtà, che Louis se li comprasse! Gwen poteva indossarli quando voleva.
Gwen. Cosa doveva fare? Avrebbe dovuto chiamarla? Oppure aspettare ancora qualche giorno giusto per non sembrare un disperato? Che giorno era? Lunedì... nessuno chiama di lunedì per chiedere un appuntamento, è da sfigati.
Zayn mantenne la stessa espressione crucciata, sopracciglia inarcate e naso arricciato, fino al parcheggio dove stava la sua macchina. Ci entrò e accese immediatamente il riscaldamento, sfregandosi le mani per darsi un po’ di calore.
L’avrebbe chiamata. Non voleva sprecare un’occasione del genere. Tirò fuori il telefono e cercò nella rubrica il numero di Gwen: doveva ringraziare il piccolo Josef se adesso poteva chiamarla.
Aspettò qualche secondo prima che dall’altra parte della cornetta un fruscio indicò che Gwen aveva risposto.
«Pronto?»
Ogni volta che sentiva la sua voce scopriva una sfumatura diversa da quelle che aveva ascoltato la volta precedente. Adesso per esempio, era rauca e frettolosa, Zayn riusciva a percepire la confusione nel suo tono di voce.
«Gwen? Sono io, Zayn.» disse e cominciò a giocherellare con le chiavi della macchina già inserite nel quadro. Dall’altra parte della cornetta si sentì un rumore indistinto e subito dopo quello di una portiera sbattere.
«Oh,» rispose, «Ciao.»
Zayn udì il motore di un auto accendersi e di nuovo un rumore indistinto.
«Ti disturbo?» chiese, perplesso.
Gwen non rispose subito.
«In realtà,» disse e fece una pausa. «Si.»
Zayn trattenne a stento un sorriso: quella franchezza era uno dei suoi tanti difetti che davvero gli piaceva. Anche lui era così, schietto e limpido come l’acqua, perciò apprezzava quella caratteristica anche in lei.
«Allora ti richiam-»
«Cazzo!» Gwen lo interruppe di colpo e sembrò quasi che il telefono fosse caduto per terra o dovunque lei si trovasse. «Cazzo, cazzo.» ripeté più volte prima di riprendere in mano il cellulare e rendere la sua voce più nitida.
«C’è qualcosa che non va?» chiese Zayn, confuso e allo stesso tempo leggermente preoccupato. «Gwen se stai guidando dimmelo così riattacco immediatamente.» non gli piaceva l’idea che lei guidasse con il cellulare in mano, era una cosa che non sopportava.
«Sono già le quattro e cinque, cazzo.» sbottò e Zayn poteva quasi immaginarla se socchiudeva un po’ gli occhi.
«Sei in ritardo per qualcosa?» domandò inevitabilmente, mordendosi la lingua poco dopo. Dall’altra parte della cornetta nessuno rispose e i suoni arrivarono attutiti per qualche secondo, dopodiché la voce di Gwen ritornò chiara.
«Si, Josef è uscito da scuola cinque minuti fa, e io ho ancora venti minuti di strada fino alla scuola. Cazzo!»
Zayn dovette allontanare il telefono per non rimanere sordo da quell’ultima imprecazione.
«Posso passare a prenderlo io.» propose cauto, per paura che lei prendesse quell’offerta nel verso sbagliato. «La scuola è a cinque minuti da qui. Se mi sbrigo anche tre.»
Ancora silenzio dall’altra parte. Zayn riusciva a sentire il rumore delle macchine che arrivavano dal telefono e il respiro leggermente irregolare di Gwen.
«No, no. Ci manca solo che ti vede fuori scuola! Non preoccuparti, cercherò di sbrigarmi. Ciao Zayn.» e riattaccò, senza dargli il tempo di salutarla.
Zayn gettò il telefono sul sedile del passeggero e fece partire la macchina. Prima di immettersi nella strada, però, non poté fare a meno di ripensare a ciò che Gwen gli aveva appena detto.
Josef era uscito da scuola già da cinque minuti, sette adesso, e Gwen ci avrebbe impiegato ancora venti minuti per raggiungerlo. In quel lasso di tempo sarebbe potuto succedere di tutto, e Josef avrebbe potuto pensare qualsiasi cosa. Zayn non voleva intromettersi di nuovo in quella famiglia e soprattutto non voleva peggiorare la situazione con Gwen, non ora che si erano “riappacificati”. Ma non poteva nemmeno tornare a casa con il pensiero di Josef solo davanti alla scuola con la paura di essere stato dimenticato. Non dopo averlo conosciuto e aver capito quanto in realtà quel bambino fosse disperatamente solo.
Con un sospiro, al semaforo in fondo alla strada quando solitamente girava a destra per tornare a casa, svoltò a sinistra. Riusciva già a sentire gli insulti di Gwen per non averla ascoltata.
-
Zayn parcheggiò in uno dei tanti posti vuoti nel parcheggio di fronte alla scuola elementare di Boston. Spense l’auto e prima di scendere diede un’occhiata in giro. Il cortile della scuola era deserto, fatta eccezione per un gruppo di quattro o cinque mamme appostate fuori dal cancello intente a chiacchierare e spettegolare. Non c’era traccia di nessun bambino biondo dall’aria infelice o impaurita.
Scese dall’auto e s’incamminò verso l’entrata della Barkley Elementary School, guardandosi sempre intorno per riconoscere il bambino. Superò il gruppo di mamme le quali non risparmiarono delle occhiatine curiose nella sua direzione: cosa ci faceva un ragazzo tatuato in quel modo in una scuola elementare?
Zayn le ignorò e andò avanti. Nel cortile non c’era traccia di Josef. Decise di entrare nell’istituto.
Salì i gradini e spinse la grande porta in vetro che portava nell’atrio principale. Fece vagare lo sguardo tutt’attorno e quando lo puntò davanti a se riuscì a scorgere la piccola figura di un bambino alla fine dello stanzone. Aveva capelli biondi ed era chino per terra, intento a raccogliere qualcosa.
Zayn fece qualche passo nella sua direzione e capì che era Josef quando vide per terra due fumetti.
Gli si avvicinò lentamente, studiando prima la situazione: il suo zaino era buttato per terra e dall’apertura erano fuoriusciti quasi tutti i libri, molti dei quali si erano aperti, piegando le pagine. Anche l’astuccio era stato aperto e il contenuto riversato sul pavimento. Un pennarello era senza tappo e Zayn capì perché: sulla copertina di uno dei fumetti era stato scritto “perdente” con quello stesso pennarello nero.
I suoi muscoli raggelarono ma continuò a camminare verso il bambino, incapace di fermarsi, incapace di non aiutarlo.
«Josef!» mormorò piano, per non spaventarlo. Il bambino alzò gli occhi azzurri e indifesi verso di lui e Zayn rimase senza fiato: non aveva mai visto tanta tristezza in occhi così belli e innocenti. Erano lucidi, ma non c’erano lacrime a rigare le sue guance paffute. Con un fremito, Zayn pensò che probabilmente non era la prima volta che aveva dovuto gestire quel genere di situazione.
Con cautela si chinò davanti a lui e gli sorrise calorosamente, allungando le mani verso un paio di libri per risistemarli nello zaino.
«Hai un gran bello zaino, lo sai?» gli disse, con il tono di voce più gentile che riuscisse ad usare. Non era il caso di chiedergli cosa fosse successo, perché era chiaro. Il modo migliore per affrontare la situazione era farlo distrarre per un attimo da ciò che era appena successo.
«Grazie.» rispose lui flebilmente, così tanto che Zayn faticò a sentirlo.
«Io ne avevo uno verde, ma faceva davvero ribrezzo. Non era un verde scuro, ma uno di quei verdi brillanti che ti abbagliano quasi. Me l’aveva comprato mia madre, e non potevo di certo rifiutare di portarlo. Così ogni giorno mi presentavo a scuola con questo zaino verde fluo e tutti mi pregavano di comprarne un altro perché quello li accecava ogni volta che passavo davanti a loro.» si sforzò di ridere ma la risata gli uscì naturale quando anche Josef si aprì in un debole sorriso. In un attimo le grandi mani di Zayn avevano ritirato tutto nello zaino e nascosto il fumetto pasticciato in tasca senza farsi vedere. Si portò lo zaino in spalla al posto di Josef e si alzò dal pavimento, porgendogli una mano per fare lo stesso.
«Zia Gwen ha avuto un imprevisto ma dovrebbe essere qui a momenti. Vuoi andare fuori ad aspettarla?»
Josef annuì appena e, a capo chino, seguì Zayn fino all’uscita.
Quando furono fuori al freddo, Zayn vide Josef fermarsi di colpo e subito dopo riprendere a camminare.
«Cosa c’è?» chiese curioso. Il biondo scrollò le spalle e indicò con un gesto vago della mano il gruppo di donne di fronte a se. Zayn vide che in mezzo a loro c’erano due bambini che prima non aveva neanche notato: erano entrambi alti e fin troppo robusti per la loro età. Non ebbe bisogno di fare altre domande perché aveva già capito tutto.
Ci volle tutta la sua forza di volontà per non andare incontro a quei ragazzini e riempirli di schiaffi fino a fare entrare in quella loro grossa testa sproporzionata il concetto di “rispetto”.
Stava quasi per dire a Josef di lasciare perdere e di ignorarli, perché erano solo degli stupidi bulletti che non avrebbero concluso niente nella loro miserabile vita, ma uno dei due si voltò verso di loro e fissò la sua attenzione su Josef. Lentamente, gli angoli della sua bocca si alzarono verso l’alto e la sua espressione si fece divertita.
Zayn strinse gli occhi. Prese la mano di Josef e lo guidò giù per i gradini, diretto verso il gruppo di donne. Non appena scesero l’ultimo scalino, la figura affrettata di Gwen comparve dal cancellone aperto e richiamò lo sguardo di Zayn che era rimasto puntato sul bulletto per un tutto il tempo.
La ragazza stava quasi correndo e il suo respiro era irregolare.
Indossava un paio di jeans, una camicia verde scuro e un cardigan pesante. I suoi capelli erano stati raccolti in una treccia a lato e i suoi occhi grigi si spostarono prima su Josef e subito dopo su Zayn. La sua espressione si irrigidì inevitabilmente.
«Ti avevo detto di non v-» incominciò ma una semplice, eloquente occhiata di Zayn la fece tacere in un attimo. Senza nemmeno pensarci due volte la sua attenzione si spostò nuovamente su Josef, il quale non riusciva nemmeno a sforzare un sorriso.
«Cosa è successo?» scattò immediatamente e la sua mano si allungò verso Josef per abbracciarlo.
«Niente,» rispose Zayn. Voleva davvero fargliela pagare a quello stupido bambino, ma adesso che Gwen era arrivata, non gli pareva il caso di affrontare la situazione in quel momento. Non dopo che aveva visto cosa poteva fare quella ragazza se qualcuno toccava Josef. Probabilmente avrebbe preso quel bambino per i capelli, senza nemmeno dare peso al  fatto che fosse davanti a sua madre, e l’avrebbe obbligato a chiedergli scusa. Doveva ammettere che quell’immagine lo faceva in qualche modo sorridere.
Zayn sapeva come gestire la situazione perché era in grado di controllare il suo nervosismo e parlare civilmente anche se dentro stava ribollendo, ma Gwen no.
Lei gli lanciò un’occhiata confusa, chiedendogli implicitamente cosa fosse successo, ma Zayn chiuse la questione scuotendo la testa.
«Ho proprio voglia di una cioccolata,» disse invece, battendo le mani e sorridendo verso Josef. «E scommetto che ne vuoi una anche tu, ometto.»
Gwen non poté evitare di irrigidirsi nell’udire quella proposta: si era detto che voleva Zayn lontano dal bambino, e già si era pentita di aver abbassato la guardia qualche sera prima a causa dell’alcol, ma non poteva opporsi proprio in quel momento, quando non sapeva che cosa stesse succedendo e l’unica persona che poteva informarla fosse proprio lui.
Non trattenne un sorriso quando l’espressione triste di Josef si incrinò un po’, lasciando spazio ad un flebile sorriso.
«Cioccolato sia, allora.»  
-
Dopo aver riportato a casa la sua macchina, Gwen e Josef salirono su quella decisamente più sportiva di Zayn che li aveva seguiti fin sotto casa.
Il tragitto verso il bar del centro fu silenzioso e quasi imbarazzante. Gwen era troppo presa a pensare a cosa fosse successo a Josef per poter aprire bocca, mentre Zayn aveva capito che non era il caso di parlare perché sapeva che non avrebbe ricevuto risposta da nessuno dei due.
Gwen aveva un vago ricordo dell’odore che impregnava i sedili di quella macchina. Aveva indossato per tutto il tragitto dal bar a casa gli occhiali da vista del ragazzo, perciò i suoi occhi erano rimasti chiusi e non aveva potuto vedere molto, ma l’odore di pelle e di fumo che aleggiava in macchina le era entrato dentro. Non poteva credere di essere stata così stupida da aver accettato di uscire con lui e di averlo perdonato per essersi messo di nuovo in contatto con Josef quando lei gli aveva specificatamente detto di non farlo. In qualche modo, però, nel profondo – molto nel profondo – era quasi stata felice di aver bevuto quella sera, perché se non l’avesse fatto probabilmente non avrebbe mai avuto il coraggio di mettere da parte per un attimo il suo orgoglio e fare il primo passo.
Decise che quella era l’ultima volta che beveva. Odiava non avere il controllo della situazione e dei suoi impulsi: era quasi sicura che avesse quasi cercato di baciarlo.
Il ricordo le fece portare una mano in fronte e scuotere debolmente la testa. Idiota.
Zayn le lanciò un’occhiata ma non disse nulla.
Quando arrivarono davanti al bar Zayn li lasciò davanti all’entrata del negozio mentre lui andava a parcheggiare.
Gwen si strinse nel cappotto e alzò il colletto del giubbino di Josef così da non fargli entrare nessuno spiffero di vento.
«Mi dispiace di aver tardato, Josef.» gli disse.
Josef rimase in silenzio con lo sguardo puntato sulle sue scarpe, come sovrappensiero. Solo dopo qualche secondo alzò le spalle e abbozzò un debole sorriso nella sua direzione.
Gwen non poté evitare di sentirsi in colpa: qualunque cosa fosse successa era successa a causa del suo ritardo.
«Non fa niente.»
Zayn arrivò giusto in tempo. Entrarono nel piccolo bar caldo e andarono a sedersi in uno dei pochi tavoli liberi in fondo alla stanza. Lui ordinò tre cioccolate con panna per tutti e tre mentre Gwen cercava di creare un contatto visivo con Josef per capire cosa provasse.
«Devo andare in bagno,» si alzò il bimbo all’improvviso. Senza aspettare una risposta si diresse verso la toilette.
Gwen cominciò a giocherellare con il piccolo menu lasciato sul tavolo. Zayn la stava guardando. Lo sguardo terribilmente serio.
«Mi dispiace di non averti ascoltato.» disse, attento, dosando con cautela le sue parole.
Gwen alzò lo sguardo verso di lui e si morse l’interno della guancia: cosa doveva fare? Essere arrabbiata con lui per non averla ascoltata o esserne invece grata?
Sospirò pesantemente e si sistemò la treccia sulla spalla.
«Puoi dirmi cosa è successo?» gli chiese, il tono di voce incrinato e quasi supplichevole.
Fu il turno di Zayn di sospirare. Si sedette meglio sul divanetto in pelle e puntò le iridi sfumate in quelle chiare di Gwen, inumidendosi le labbra prima di cominciare a parlare.
«Sono arrivato a scuola e Josef non era fuori in cortile.» iniziò. «Così sono sceso dalla macchina e sono entrato dentro. Alla fine dell’atrio ho visto un ragazzino chinato sul pavimento e all’inizio non ero sicuro fosse lui. Poi mi sono avvicinato e l’ho riconosciuto.» fece una breve pausa, prendendo un respiro profondo. «Per terra c’era il suo zaino e sparsi attorno c’erano i suoi libri. Il contenuto dell’astuccio era stato gettato sul pavimento e sopra uno dei suoi fumetti qualcuno ha scritto “perdente”.» con un gesto lento tirò fuori dalla tasca il fumetto pasticciato e lo porse a Gwen. Lei lo accettò con mani tremanti e quando lesse ciò che era stato scarabocchiato sulla copertina, il sangue iniziò a ribollirle nelle vene. Odiava i bambini, li detestava. Erano così subdoli, cattivi. Come potevano fare una cosa del genere ad un ragazzino come Josef?
«Gwen,» la richiamò Zayn. «Tu sapevi che a scuola è preso di mira?» le chiese incrociando le mani sul tavolo. Lei scosse debolmente la testa, stringendo tra le dita il fumetto.
«Non credo sia la prima volta. La sua calma sta ad indicare che ci è abituato.» continuò lui cautamente.
Gwen chiuse gli occhi e si morse il labbro inferiore: doveva dirlo a Gretel quella sera stessa. Non era una cosa da prendere alla leggera, soprattutto con tutti i problemi che aveva Josef.
«Io non...» bisbigliò. «Che schifo.» esalò in un respiro forzato. Stava cercando di controllare la sua rabbia, ma non era facile, non quando l’unica cosa che voleva fare era tornare a scuola e cercare chiunque avesse fatto quella cosa e fargliela pagare.
«Già.» concordò Zayn.
Il loro discorso fu interrotto momentaneamente dall’arrivo delle tre cioccolate calde. Gwen si guardò attorno per controllare se Josef fosse uscito dal bagno.
«Aspettiamo ancora un paio di minuti. Se non arriva vado a cercarlo.» propose Zayn, l’intonazione della sua voce rassicurante e il suo sorriso caloroso. «Lasciamogli un po’ di tempo.»
Gwen non l’avrebbe mai ammesso ma era grata che fosse lì in quel momento. Era grata che fosse andato a scuola a prenderlo e l’avesse rassicurato mentre lei non c’era. Gli era grata, con tutta se stessa. Tutti i dubbi che aveva avuto su di lui, le sue cattive intenzione, la sua falsa bontà, erano stati spazzati via dalla realtà dei fatti. Era davvero uno dei ragazzi più gentili e buoni che avesse mai conosciuto. Aveva un cuore grande, poteva scorgerlo sotto il tessuto della maglietta bianca.
«Se avessi bevuto un po’, probabilmente in questo momento farei cadere la facciata da ragazza orgogliosa e ti ringrazierei.» mormorò abbassando lo sguardo sul fumo sprigionato dalla cioccolata calda. «Ma dato che sono perfettamente lucida, non lo farò.»
Lo sentì ridacchiare e quando parlò era sicura che stesse sorridendo: «Non c’è di che.»
Gwen non poté spegnere il sorriso che era spuntato sulle sue labbra.
Rimasero in silenzio per un po’, mentre entrambi gustavano la cioccolata e lanciavano occhiate costanti al bagno.
«Sono passati cinque minuti.» scattò Gwen dopo poco, alzandosi all’improvviso. Zayn sospirò e la seguì lungo il corridoio verso la toilette.
Prima che lei potesse irrompere con impeto dentro il bagno dei maschi, la superò e gentilmente le posò una mano sulla spalla. Le sorrise e aprì lui la porta del bagno.
La stanza era vuota, ma non silenziosa.
Pesanti singhiozzi arrivavano chiaramente da una delle cabine chiuse, afferrando il cuore di Zayn e stritolandolo come in una morsa. Gwen sentì le gambe vacillare, ma non esitò nemmeno un secondo e seguì Zayn all’interno della stanza, diretto verso la porta chiusa della cabina.
Lui l’aprì con calma, preparandosi già mentalmente a ciò che avrebbe visto.
Josef era rannicchiato accanto al wc, le piccole mani erano premute contro i capelli e il viso era nascosto dalla ginocchia piegate contro il petto. Le spalle erano scosse dai singhiozzi e dal pianto. Non alzò lo sguardo per vedere chi fosse appena entrato, perché già lo sapeva.
Semplicemente si limitò ad avvolgere le braccia attorno le spalle di Zayn e a nascondere il viso nell’incavo del suo collo quando lui lo prese in braccio portandolo verso l’uscita, chiudendogli il mondo fuori solo per un attimo.

 
 








Buonasera a tutti :)
Non potete capire quanto sono felice di aver postato questo capitolo oggi. Credo sia uno dei miei preferiti tra quelli che ho già pubblicato, e spero che piaccia a voi tanto quanto piace a me! Mi sa che è uno dei capitoli più lunghi che io abbia mai scritto nella storia di efp, ahahah
Allora, analizziamo le vicende passo per passo.
Prima di tutto, la scena con Bruce. Come ho detto in precedenza la sua presenza non sarà costante e la sua importanza sarà secondaria, ma avrà un impatto non indifferente nella vita di Josef. Come avrete notato, il bambino si sente davvero impotente quando sta con il padre e presenta segni di costante nervosismo. Questo suo aspetto "morboso" verrà approfondito più avanti.
Successivamente entra in scena il nostro eroe della situazione, mister Malik, che inizialmente è indeciso se chiamare la nostra bella fanciulla, Gwen, ma che poi, spinto dal fedele compagno Louis, decide di farlo. Quando scopre che Gwen è in ritardo e Josef è da solo a scuola, il suo lato buono decide di avere la meglio e quindi va a soccorrere il piccolino.
Spero davvero che la scena tra lui e Josef vi sia piaciuta, perchè io ho adorato scriverla. Volevo far trasparire un po' del carattere del bambino che si, può sembrare debole, ma che in realtà è forte. Basta guardare la sua calma quando Zayn l'ha trovato a raccogliere le sue cose.
Poi arriva Gwen... la nostra piccola, impulsiva Gwen. I suoi pensieri sono contrastanti: cerca di concentrarsi su Josef, ma non può fare a meno di deviare la sua attenzione anche su Zayn. Cerca di nascondere il fatto che sia felice di aver accettato di uscire con lui, ma in realtà non ci riesce proprio. Naturalmente si incolpa per aver permesso che a Josef succedesse una cosa del genere, e questo senso di colpa verrà approfondito soprattutto nel prossimo capitolo!
L'ultima scena mi ha distrutto psicologicamente, nonostante l'abbia scritta io ahahah vi giuro, mentre scrivevo mi immaginavo quel fagottino di Josef che veniva preso in braccio da Zayn e che si rannicchiava contro di lui per trovare un po' di conforto. Stavo male fisicamente ahahah
Spero con tutto il cuore di non aver deluso le vostre aspettative! E come sempre vi ringrazio moltisimo per le belle parole che mi lasciate ad ogni capitolo! Siete fantastici!
Un bacio,
clepp :)




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Capitolo 8
*** 07 - Capitolo sette, My story ***


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07
My story






Louis aveva appena finito di trascrivere gli appuntamenti da un post-it giallo alla sua agenda, quando la porta in vetro si aprì lentamente, portando dentro una ventata di aria fredda.
Erano le cinque e mezza del pomeriggio. Pioveva e il cielo si faceva via via più cupo con il passare dei minuti, costringendo i lampioni delle strade ad accendersi un po’ in anticipo quella sera.
Louis alzò lo sguardo soltanto quando la persona che era appena entrata dalla porta si fermò di fronte alla sua scrivania. Davanti a lui c’era la ragazza dai capelli lunghi e i bei lineamenti che Louis aveva visto gironzolare attorno a Zayn nelle ultime settimane. Anche se non aveva ancora finito di riscrivere gli appuntamenti sull’agenda, con un gesto lento la richiuse e prestò la sua più totale attenzione alla ragazza.
Lei gli sorrise appena e a Louis sembrò fin troppo stanca anche solo per rimanere in piedi.
«Ciao.» disse lui quando si rese conto che lei non avrebbe parlato.
«Ciao.» replicò cominciando a giocherellare svogliatamente con il mazzo di chiavi che teneva stretto in mano. «Sto cercando Zayn.» disse subito dopo, quasi volesse usarla come scusa per non conversare. Louis roteò gli occhi di nascosto: ovviamente, chi altri se no?
Con un gesto vago della mano indicò il retro del negozio dove c’era lo studio personale dei due tatuatori. Gwen annuì e lo ringraziò frettolosamente, senza dargli il tempo di ribattere. Si incamminò verso la porta che le era stata indicata e prima di aprirla con lentezza bussò un paio di volte.
Una voce maschile le disse di entrare ma lei era già dentro ancor prima di ottenere il permesso.
Zayn sedeva scompostamente sulla sedia dietro la scrivania in legno: la sua schiena era china su un mucchio di fogli sparsi su tutto il ripiano ma la sua testa era alzata e l’attenzione rivolta su di lei. Quando la riconobbe, si aprì in un sorriso caloroso che le scaldò le ossa intorpidite dal freddo di Novembre e si alzò in piedi per accoglierla.
«Gwen,» disse e circondò la scrivania così da finirle esattamente di fronte. «Cosa ci fai qui?» le chiese curioso, ma mantenendo un tono neutro.
Non l’aveva più vista da quando aveva riportato a casa lei e Josef dopo averlo trovato accucciato in un bagno pubblico, ovvero più di tre giorni prima.
La guardò mentre lei si sedeva sulla sedia di Louis e si stringeva nelle spalle, soffiandosi sulle mani per riscaldarle. Non era come l’aveva vista le altre volte. Indossava una pesante felpa nera che gli arrivava fino a metà coscia, un paio di pantaloni della tuta e scarpe da ginnastica. Il viso era completamente struccato lasciando intravedere due deboli occhiaie sotto agli occhi stanchi e i capelli erano raccolti in un’alta coda disordinata. Zayn avrebbe voluto chiederle cosa fosse successo dopo che li aveva lasciati a casa, ma non gli pareva il momento. Afferrò lo schienale della sua sedia e la spostò a fianco a quella di Gwen.
«Va tutto bene?» le chiese gentilmente, sporgendosi un po’ di più  verso di lei per cercare di confortarla. Avrebbe voluto toccarla, perché quello era il suo modo di confortare le persone, ma non poteva farlo. Era ancora troppo presto.
Lei annuì appena e tenne lo sguardo puntato sul mazzo di chiavi con cui stava giocando ininterrottamente.
Si schiarì la voce prima di parlare: «Volevo solo scusarmi, Zayn.» esordì, lasciandolo completamente basito, incapace di spiegarsi quel così strano comportamento. Non disse niente, la lasciò continuare. «Da quando ci siamo incontrati ti ho trattato come se fossi un assassino, un pedofilo e persino un maniaco. Mi dispiace di essermi comportata in maniera così diffidente e a volte anche insopportabile, ma sono fatta così e non posso farci molto.» finalmente alzò gli occhi verso di lui e sospirò pesantemente. «Quello che hai fatto per Josef qualche giorno fa è stato... se non ci fossi stato tu non so come avrei trovato la forza di gestire l’intera situazione. Perciò ti chiedo scusa e ti ringrazio.»
Zayn poteva percepire lo sforzo che stava compiendo Gwen nell’abbassare per un attimo le barriere, mostrando il suo lato umano, debole. Apprezzava quel gesto più di quanto potesse spiegare a parole. Il fatto che fosse venuta fino a lì per scusarsi e ringraziarlo era più di quanto potesse mai aspettarsi da una ragazza il cui carattere era così forte e duro.
Si aprì in un sorriso e non riuscì a trattenersi dall’allungare una mano verso di lei. L’appoggiò gentilmente sulla sua gamba e gliela strinse per rassicurarla. Gwen sentì la pelle infiammarsi sotto al suo tocco ma la sua espressione non lasciò intravedere nulla.
Quel ragazzo era così... fisico. Preferiva esprimere a gesti ciò che voleva dire con le parole e quello era un aspetto di lui che a Gwen faceva impazzire. Lei era abituata a parlare, a confrontarsi con le persone, a litigare, urlare, sussurrare e scherzare. Lui era il suo esatto opposto, così calmo e pacifico, così gentile, silenzioso delle volte e riservato, ma mai scontroso o schivo: era il perfetto equilibrio tra l’essere troppo esagerati, come lo era lei, e l’essere troppo perfetti.
Stare al suo fianco la rendeva più tranquilla a sua volta, più serena. Forse era per quel motivo che venti minuti prima aveva trovato la forza di uscire di casa e andare da lui: era talmente stanca che aveva bisogno di qualcuno con cui distrarsi.
«Come sta Josef?» provò a chiedere cautamente Zayn dopo una breve pausa, accompagnando la domanda con un sorriso caldo di cui Gwen non riusciva mai ad averne abbastanza.
«Ora bene,» rispose, lo sguardo puntato sul mazzo di chiavi, «Bene... insomma, si... bene. Dopo essersi sfogato quel giorno al bar, è tornato come prima, quasi non fosse successo niente. Ho parlato con Gretel e lei è andata a scuola per riferire l’accaduto agli insegnanti. I bambocci sono stati puniti, sai? Già... sono stati puniti. Chissà cosa dovranno fare. Un’ora di lettura forzata, o forse scrivere per dieci volte la frase “ho sbagliato” sulla lavagna. Impareranno molto, ne sono convinta, capiranno quanto il loro gesto sia stato disgustoso e irrispettoso e si sentiranno in colpa per il resto della loro vita. Quei piccoli bastardi.» il suo tono di voce era impregnato di malcelata ironia e rabbia, e il disgusto per ciò che avevano fatto a Josef era evidente.
Zayn le strinse nuovamente la gamba con calma, nel tentativo di tranquillizzarla, ma rimanendo in silenzio per darle modo di sfogare ancora il suo nervosismo.
«Sai cos’hanno detto gli insegnanti? Erano dispiaciuti per l’accaduto e hanno ripetuto una decina di volte che i bambini sarebbero stati sgridati a dovere, ma non si sentivano in colpa, neanche un po’ e sai perché? Perché l’atto è stato commesso fuori dall’orario scolastico e Josef non era più sotto la loro responsabilità. Quindi è da tre giorni che penso “ehi, si tu, proprio tu! sei una stronza lo sai? È colpa tua, te ne rendi conto? Josef è così indifeso, e tu l’hai dimenticato. È colpa tua se è successo quel che è successo, è colpa tua, solo tua”.» con rabbia si portò una mano sulla fronte e abbandonò il peso su di essa, sospirando rumorosamente. Chiuse gli occhi e cercò di respirare a fondo e di concentrarsi sulla presa di Zayn ancora fissa sulla sua gamba.
Lui capì finalmente per quale motivo fosse così diversa dalle altre volte, perché fosse così sciupata e stanca: si sentiva semplicemente in colpa e si stava addossando sulle spalle tutto il peso della vicenda. Zayn aveva già appurato il bene che Gwen voleva a Josef e la sua capacità di esagerare le sue emozioni, perciò riuscì a comprendere il  fatto che il senso di colpa la stesse divorando dentro.
«Gwen,» la richiamò deciso, portando una mano sulla sua appoggiata alla fronte e abbassandola con lentezza, «Non fare questo errore. Non farlo.» la guardò intensamente negli occhi che aveva appena aperto e continuò a parlare. «Non è colpa tua. Da quando ti conosco ho capito che faresti di tutto per quel bambino, persino incolparti ingiustamente. Non farlo, per favore. Non è colpa tua, tu hai fatto del tuo meglio e dovresti esserne fiera. Scommetto che Josef lo è e anche Gretel. Io lo sono.» le sorrise, di nuovo, e di nuovo lei non ne ebbe abbastanza.
Sbatté più volte le palpebre e alla fine le tenne chiuse. Come poteva non sentirsi in colpa? Era lei la causa del dolore di Josef, se fosse arrivata in tempo e l’avesse riportato a casa, nulla di tutto ciò sarebbe successo.
«Se io f-» cercò di parlare ma lui la interruppe.
«Se tu fossi arrivata in tempo, probabilmente non sarebbe successo niente, e probabilmente sarebbe successo un altro giorno. Ormai è passato e non puoi farci nulla. Non è colpa tua.» se glielo ripeteva magari le sarebbe entrato in testa. Gli faceva male vederla così vulnerabile e spenta perché era abituato ad un altro tipo di ragazza. Eppure si sentiva anche grato e lusingato perché tra tutte le persone, aveva scelto di condividere le sue preoccupazioni con lui. Aveva scelto lui.
Il flusso dei suoi pensieri venne interrotto da un movimento inaspettato di Gwen. La vide allungare una mano e indicare un punto preciso davanti a se. Zayn seguì la direzione del suo indice e si accorse che stava puntando un indumento appoggiato sul davanzale della piccola finestra: la sua giacca. La vide aggrottare la fronte.
«E’ così che tratti i miei regali?» chiese, un alone di divertimento misto a scetticismo dietro le sue parole. Zayn abbozzò un sorriso e alzò un sopracciglio ironicamente.
«Avevo intenzione di spostarla.» si difese. Gwen scosse la testa e spostò la sua attenzione su di lui.
«Grazie Zayn,» ripeté, e poteva vedere quanta sincerità si celasse dietro quegli occhi grigi. «E’ il caso che io ritorni a casa.» disse e fece per alzarsi.
«Aspetta,» le prese una mano fermandola. «So che non sei più ubriaca e probabilmente non te lo ricordi, ma l’invito ad uscire è ancora valido.» si aprì in un mezzo sorriso che sprigionava dolcezza da tutte le direzioni e Gwen non poté fare altro che sorridere di rimando e bearsi di quel momento.
«Me lo ricordo, Zayn.» rispose, e continuò: «Domani alle nove da me.» si diresse verso l’uscita ma prima di aprire la porta si girò di nuovo verso di lui.
«E non tardare.»
-
Quando il trillo del campanello di casa rimbombò per tutto il salotto, erano ormai le nove e un quarto. Gwen era seduta sul divano con Josef al suo fianco ed entrambi erano impegnati in una profonda discussione sul perché Gretel non volesse fare mangiare al bambino latte e cereali per cena. La bionda era in cucina quando Gwen l’avvisò che stava uscendo.
«Stai attenta, Line!» le urlò dalla stanza richiamandola con il soprannome che lei odiava tanto. «E divertiti.» spuntò dalla porta della cucina con un cucchiaio di legno in mano e un sorriso caloroso stampato in faccia.
«Si, mamma.» Gwen roteò gli occhi mentre Josef ridacchiava ancora seduto sul divano. «Farò la brava.»
«Lo spero.» replicò l’altra, «ora muoviti prima che il tuo cavaliere si congeli mentre ti aspetta.»
Gwen roteò di nuovo gli occhi mentre si avvolgeva una sciarpa attorno al collo e chiudeva i bottoni del suo cappotto grigio.
«Cavaliere? Conoscendo i ragazzi di oggi mi starà aspettando in macchina al caldo.» replicò scettica, afferrando borsa, chiavi e aprendo la porta. Prima di richiuderla lanciò un bacio a Josef e sorrise a Gretel.
Scese le scale del condominio e, una volta arrivata al piano terra si bloccò di scatto. Dal vetro della porta scorse Zayn davanti all’entrata, intento a camminare avanti e indietro con le mani in tasca e il capo chino, nascosto in una sciarpa pesante. Indossava un paio di jeans scuri strappati sulle ginocchia, stivali neri e un cappotto. I capelli corti erano coperti da un beanie grigio e l’unica parte visibile del suo viso erano gli occhi e il naso leggermente rosso.
Trattenne un sorriso mentre si rendeva conto che per l’ennesima volta aveva dubitato del suo buon cuore. Riprese a camminare e quando aprì la porta vide Zayn bloccarsi sul posto e spostare l’attenzione dal marciapiede a lei. Gli angoli della sua bocca si alzarono verso l’alto mettendo in mostra un sorriso per metà nascosto dalla sciarpa.
«Ciao,» esalò lui e una nuvoletta di vapore uscì dalle sue labbra.
«Ciao,» replicò lei e si strinse nelle spalle per cercare di ripararsi dal freddo di Novembre.
Zayn non riuscì a distogliere lo sguardo dalla ragazza che le stava di fronte: i lunghi capelli castani erano sparsi sulle spalle e le arrivavano dritti fin sotto la linea del seno. Gli occhi grigi erano messi in risalto dal trucco e le guance erano rosee per via dell’aria fredda. Indossava un paio di pantaloni neri risvoltati sopra un paio di stivaletti scuri e un cappotto grigio abbinato ad una sciarpa bianca. Non poté evitare di pensare che Gwendoline completamente vestita fosse più bella di tutte le altre donne semiscoperte che incontrava nei locali di tanto in tanto. Sbatté più volte le palpebre per togliersi dalla faccia l’espressione sorpresa.
«Andiamo?» le disse.
Si avviarono insieme verso la macchina di Zayn parcheggiata a qualche metro di distanza dal condominio. Il braccio di Zayn sfiorava lievemente quello di Gwen mentre camminavano silenziosamente. L’elettricità che aleggiava intorno a loro era palpabile e Zayn avrebbe voluto baciarla con ogni singola particella del suo corpo.
Entrarono in macchina sempre circondati da una silenziosa atmosfera.
«Hai freddo?» le chiese premuroso mentre spostava lo sguardo su di lei. Gwen annuì sfregandosi le dita contro il naso per riscaldarlo. Zayn sorrise e accese il riscaldamento puntandolo al massimo.
«Dove andiamo?» chiese Gwen mentre la macchina si immetteva nella strada semideserta.
«In un posto che credo ti piacerà. È tranquillo, appartato. Nulla di troppo stravagante. Ci lavora un mio amico.» rispose lui mantenendo lo sguardo fisso sulla strada, una mano stretta al volante e l’altra sul cambio, pericolosamente vicina alla coscia di Gwen. Lei se ne accorse e per un momento si sentì indecisa; poi spostò la gamba leggermente a sinistra e il tessuto dei suoi pantaloni sfiorò le dita di Zayn, facendo in modo che l’azione risultasse casuale.
Con la coda dell’occhio vide la sua espressione accendersi e le sue palpebre strabuzzarsi di sorpresa. Subito dopo un debole sorriso comparve sulle sue labbra ma come se non fosse successo niente mantenne lo sguardo fisso sulla strada.
«Non mi abituerò mai al tuo accento inglese, sai?» esordì all’improvviso, portandosi dietro l’orecchio un ciuffo di capelli. Zayn spostò la mano dal cambio al tasto del riscaldamento per regolare l’aria calda che fuoriusciva dalle aperture per poi riposizionarla dove era prima, con la gamba di Gwen ad istigarla. Lei fece in modo che la sua coscia e la mano di Zayn si toccassero di nuovo.
Sorrise: «E io al tuo accento americano.» replicò  controllando che dalla strada opposta non arrivassero altre macchine.
«A proposito, se non sono indiscreta...» si morse il labbro, giocherellando con le sue dita. «Per quale motivo un inglese vorrebbe mai trasferirsi a Boston?»
Zayn non fu sorpreso da quella domanda, era sicuro che quella sera avrebbe dovuto sanare la curiosità di Gwen riguardo il suo accento inglese, perciò si era già preparato le risposte giuste che avrebbe dovuto darle.
«E’ una lunga storia ma dato che il locale è vicino, te la racconto in breve.» rispose fermandosi davanti ad un semaforo rosso. Per la prima volta da quando erano entrati in macchina, il suo viso si voltò verso quello di Gwen e i suoi occhi incontrarono quelli chiari della ragazza. Sorrise.
«Ho vissuto in una cittadina di nome Bradford per diciotto anni. Una sera ho incontrato un ragazzo inglese che abitava a Boston con il padre. Abbiamo istaurato un bel rapporto d’amicizia, e  abbiamo scoperto di avere la stessa passione per i tatuaggi. Dopo che ho capito che per me non c’era futuro in una cittadina piccola come Bredford, ho deciso di seguirlo fino in America e aprire con lui un negozio di tatuaggi. Avevo diciannove anni quando ho tatuato per la prima volta.» il verde del semaforo scattò all’improvviso e Zayn rispostò l’attenzione sulla strada. Quando accelerò, Gwen si trovò a desiderare di volere ancora il suo sguardo addosso. Scosse la testa e cercò di eliminare quel pensiero.
«Oh,» esalò «e i tuoi genitori? Voglio dire... ti hanno permesso tranquillamente di trasferirti in America a soli diciotto anni?» chiese, trattenendo la sua incredulità. Non poté evitare di spostare i suoi pensieri a Jaxon che voleva trasferirsi dall’altra parte della città a diciannove anni.
Zayn si mosse scomodamente sul sedile: si era aspettato anche quella domanda.
«Beh... all’inizio mia madre non era del tutto convinta, ma poi ha capito che non poteva farci niente quindi l’ha accettato. Il vero problema è stato mio padre. Ho sempre avuto uno strano rapporto con lui, di quelli in cui il figlio non ha quasi mai diritto di parola, perciò con lui è stato più difficile.» spiegò pacato. Gwen vide le sue sopracciglia aggrottarsi in un’espressione crucciata così decise di non indugiare oltre riguardo quell’argomento.
«Quindi lavori in quel negozio da quattro anni? Non hai mai pensato di andare all’Università?» chiese lei, sempre più incuriosita dalla vita del ragazzo che aveva davanti. Si sporse leggermente verso di lui come per entrare ancora di più nel vivo della storia e ignorò il sorrisino che gli comparve sul viso.
«Si, da quattro anni. Quando avevo vent’anni ho cominciato a frequentarla, ma mi sono reso conto che con i costi del negozio e quelli del mio appartamento non ci stavo dentro, perciò ho fatto una scelta.»
Gwen annuì in assenso. Non avrebbe mai detto che Zayn avesse mai anche solo preso in considerazione l’idea di andare al college, figuriamoci frequentarlo per un breve periodo di tempo. Come al solito, l’aveva sottovaluto.
«E come ti trovi qui, in America?» domandò pochi secondi dopo, mentre Zayn faceva inversione e si immetteva in un grande parcheggio dietro un piccolo bar.
Aspettò di aver parcheggiato e di essersi assicurato che la macchina non uscisse dalle linee prima di rispondere.
«In questo momento, molto bene.» si voltò verso di lei esibendo un sorriso a denti scoperti che le fece roteare gli occhi e allungare una mano per colpirgli la spalla. In realtà, avrebbe voluto afferrargli il mento tra le mani e stampargli sulle labbra screpolate uno di quei baci senza fiato.
Scesero dalla macchina e s’incamminarono verso l’entrata del bar la cui insegna dettava “Irish Bar”. Prima che Gwen potesse allungare una mano per aprire la porta, Zayn fu più svelto e l’aprì al suo posto, facendole segno di entrare con un sorrisetto ironico.
Gwen roteò di nuovo gli occhi e entrò. Il bar era piccolo e accogliente. Le pareti e i mobili erano in legno di ciliegio e le luci soffuse rendevano l’atmosfera calda e deliziosamente intima. Il chiacchiericcio dei clienti era leggero, in linea con la musica bassa che veniva trasmessa dalle casse appese alla parete.
Gwen adorava quel posto. Non si accorse nemmeno che Zayn l’aveva affiancata e le aveva appoggiato una mano sulla schiena per sospingerla verso il bancone, talmente era occupata a guardarsi intorno.
«Ti piace?» le sussurrò in un orecchio e lei non poté fare a meno di sorridere e annuire, ammaliata.
Per risvegliarla dal suo stato di trance, Zayn si tolse il cappello di lana, passandosi una mano tra i capelli scompigliati prima di infilarlo scherzosamente in testa a Gwen, abbassandoglielo fino agli occhi. Lei non ebbe il tempo di fare altro se non colpirlo di nuovo sulla spalla, perché la voce squillante di un ragazzo in piedi dietro al bancone la interruppe.
«Zayn!» esclamò il barista, battendo le mani e sporgendosi verso l’amico per dargli una pacca sul braccio.
Il ragazzo doveva avere più o meno l’età di Gwen. Era alto quanto lei e non molto muscoloso, ma comunque ben definito. Aveva capelli biondo scuri con qualche striatura castana, occhi azzurri come il cielo in agosto e un sorriso brillante che trasmetteva allegria. Se non ci fosse stato lui dietro al bancone, Gwen era quasi certa che quel posto non sarebbe stato lo stesso.
«Ciao Niall,» lo salutò Zayn amichevolmente. «Lei è una mia amica, Gwen.» gli presentò la ragazza che le stava accanto. Gwen allungò una mano per educazione, ma inaspettatamente Niall le afferrò le spalle e se la portò vicino, chiudendola in una specie di goffo abbraccio, dato che il bancone limitava i loro movimenti. Gwen non poté fare a meno di scoppiare a ridere: se fosse stata un’altra persona probabilmente avrebbe reagito diversamente, ma quel ragazzo gli ispirava voglia di vivere.
«Ciao Gwen, è un piacere conoscerti!» esclamò con il suo accento irlandese.
«Anche per me,» replicò lei sorridendo mentre si toglieva il cappello di Zayn e glielo ridava in mano.
«Andate pure a sedervi, io intanto vi porto la lista.»
Zayn le poggiò di nuovo la mano dietro la schiena, con dolcezza, e questa volta lei la percepì perfettamente. La sospinse in avanti, verso un tavolo libero posto sopra un piccolo soppalco. Si sedettero in un silenzio piacevole.
Gwen si tolse la giacca e la sciarpa, per poi portare l’attenzione sulle decorazioni del locale. Aveva un’aria suggestiva, le sembrava quasi di essere veramente in un paesino sperduto dell’Irlanda, invece che a Boston, in America.
«Ti piace proprio eh.» commentò Zayn, senza distogliere neanche un secondo l’attenzione dalle sue espressioni. Gwen annuì semplicemente.
«E’ uno stile che mi affascina molto.»
Zayn avrebbe voluto rispondere con un “lo so”, ma Niall li interruppe lasciando due liste sul loro tavolo e intrattenendo per qualche secondo una breve conversazione con Gwen. La osservò mordersi il labbro inferiore nel tentativo di trattenere una risata ad una battuta del biondo, ma alla fine le sue labbra si separarono e dalla sua gola uscì una risata roca, bassa, ma bella quanto lei.
«E’ davvero simpatico.» disse quando Niall scomparve dietro il bancone. Zayn annuì in accordo.
«Cosa vuoi ordinare?» le chiese.
«Cosa mi consigli?» disse, aprendo la lista e nascondendocisi dietro.
«Direi qualcosa di leggero, sai, non vorrei doverti riportare di nuovo in braccio verso la macchina.» replicò lui schiettamente, trattenendo una risata.
Gwen socchiuse le palpebre e gli lanciò un’occhiata sinistra.
«Parli come se non ti fosse piaciuto.» replicò lei, alzando un sopracciglio e riportando l’attenzione sulla lista dei nomi dei cocktail. Zayn ridacchiò mentre faceva lo stesso.
«Non mi stavo lamentando.»
Rimasero in silenzio finché Niall non ricomparve per prendere gli ordini. Zayn ordinò una coca cola media – “devo guidare, Niall” - e un piatto di patatine fritte mentre Gwen un Cosmopolitan.
Sia Zayn che Niall la guardarono con una strana espressione, ma soltanto il primo si azzardò a dire qualcosa.
«Un Cosmopolitan?» chiese alzando un sopracciglio. «Non puoi fare la tipica snob americana in un locale irlandese.» la riprese, scherzosamente, ma con un fondo di verità.
Niall rise mentre appuntava gli ordini.
Gwen storse il naso: «Non so cos’altro prendere.»
«Una birra.» fecero in coro lui e Niall. Gwen storse di nuovo il naso e scosse la testa.
«Odio la birra.» disse, suscitando in Niall un malore improvviso. Afferrò il bordo del tavolo e finse un mancamento.
«Cosa sentono le mie povere orecchie irlandesi.» bisbigliò chiudendo gli occhi. Gwen rise e alzò le spalle: in realtà non aveva mai assaggiato la birra, ma dall’odore, era sicura che non le sarebbe piaciuta.
«L’hai mai provata?» chiese Zayn e quando lei scosse la testa anche lui lo fece a sua volta. «E come fai a saperlo allora?» si rivolse a Niall e fece segno di aggiungere una birra.
Gwen sospirò pesantemente, ma non ribatté: non aveva alcuna intenzione di comportarsi come la tipica snob americana. Avrebbe bevuto quella birra a costo di ingoiarla con un imbuto.
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Due ore dopo, sul tavolo erano rimasti un piatto con una sola patatina bruciacchiata, un bicchiere vuoto di birra, uno di coca cola e uno di Cosmopolitan. Alla fine, Zayn aveva preso dalle mani di Gwen il bicchiere di birra e l’aveva finita lui perché le sue espressioni corrucciate mentre la beveva erano un insulto all’Irlanda. Dopo aver usato la scusa del bagno, si era alzato e di nascosto le aveva ordinato il cocktail che voleva inizialmente.
Avevano parlato di tutto. Zayn le aveva raccontato della sua infanzia, delle sue sorelle e del primo periodo a Boston, durante il quale aveva vissuto per un po’ a casa di Louis. Le aveva raccontato di quanta paura avesse avuto quando aveva dovuto tatuare il suo primo cliente, un uomo di circa trent’anni che voleva marchiare la propria pelle con il ritratto della figlia. Poi avevano sviato l’argomento ex fidanzati e si erano soffermati per un mezzora buona a battibeccare su quale squadra di basket meritasse di vincere il campionato quell’anno. Si erano scambiati le informazioni generali, per esempio il giorno di nascita, il colore preferito e l’altezza. In quel momento, Zayn aveva affermato che secondo lui Gwen non fosse alta quanto Niall, ma almeno di cinque centimetri in meno. L’avevano chiamato e Gwen si era messa di fianco a lui per controllare chi dei due avesse ragione. Gwen aveva vinto e Zayn era stato obbligato a bere un sorso di Cosmopolitan, cocktail che odiava.
Successivamente i discorsi si erano fatti più seri e Gwen aveva cominciato a raccontare a Zayn di come aveva conosciuto Gretel alle superiori. Lei faceva parte del comitato di accoglienza e quando aveva saputo che al quinto anno era arrivata una ragazza tedesca era stata la prima ad andare a parlarci, nonostante lei fosse solo una matricola. Gli aveva raccontato dei periodi con Bruce e di quanto Gretel stesse costantemente male con lui. Della gravidanza, della loro rottura e della nascita di Josef. Della decisione di andare a trasferirsi insieme e dei suoi fratelli. Aveva approfondito il perché della sua morbosità con Josef e Zayn aveva capito qualcosa di più riguardo l’intera situazione.
Josef soffriva di attacchi di panico fin dalla tenera età e si era ritrovato spesso in bruttissime situazioni. Il rapporto con il padre e con i bambini della sua età inoltre avevano aggravato quella situazione. Gwen aveva cominciato ad essere così protettiva nei suoi confronti quando, oltre all’ennesimo attacco di panico del neonato Josef, aveva dovuto farsi carico anche dei continui litigi di Bruce e Gretel che in quel periodo in particolare non facevano altro che discutere su qualsiasi cosa fino a dimenticarsi persino della presenza del bambino.
Alla fine, avevano cambiato argomento e avevano iniziato a parlare del più e del meno, giusto per alleggerire un po’ l’atmosfera.
Adesso, Zayn era appoggiato alla parete esterna del locale con una sigaretta tra le labbra e le mani nascoste dentro le tasche del cappotto: gli occhi fissi sulla figura di Gwen, quasi gli risultasse impossibile tenere lo sguardo lontano da lei per più di cinque secondi.
La ragazza era davanti a lui, stretta nel cappotto grigio e arrossata per via dell’alcol e del freddo. Stava camminando avanti e indietro, cercando di seguire la linea retta del ciglio del marciapiede con le braccia aperte per mantenere l’equilibrio e gli occhi puntati sui suoi piedi. Zayn si sporgeva in avanti ogni volta che la vedeva scivolare di colpo giù dal marciapiede, pronto ad afferrarla in qualsiasi momento ma cercava di controllarsi perché non voleva darle l’impressione di essere troppo apprensivo. Comunque lei rideva, ad ogni scivolone e tornava a camminare come se niente fosse, lanciandogli di tanto in tanto qualche occhiata divertita.
Dio, le mani gli tremavano per lo sforzo che stava compiendo nel non ridurre le distanze con due falcate e baciarla con forza.
«Posso provare?» gli chiese all’improvviso, bloccandosi di colpo dal camminare. Saltellando lo raggiunse, fermandosi esattamente ad un passo da lui. Certo che lei  però non aiutava il suo autocontrollo.
«Cosa?» chiese invece, aggrottando le sopracciglia. Lei indicò la sigaretta che ora era incastrata fra il suo indice e il medio. «Non hai mai provato?»
Gwen annuì: «Qualche volta ogni tanto. Allora posso?»
Era incredibile quanto cambiasse con un po’ di alcol in circolo. Diventava un’altra persona, più affabile, divertente e spensierata, come se non dovesse più cercare di nascondere qualcosa dietro una facciata non sua.
Zayn tentennò: non voleva che fumasse per colpa sua, ma non voleva neanche dirle di no. Così non ci pensò troppo e allungò la mano con la sigaretta verso il suo viso, facendo in modo che lei prendesse in bocca il filtro dalle mani di Zayn e non dalle sue.
Quando la prese in bocca, aspirò con calma prima di afferrare la sigaretta tra le sue dita e buttare fuori una nuvola di fumo. Si leccò le labbra per inumidirle e Zayn dovette deviare lo sguardo su qualcos’altro.
Rimasero in silenzio per un paio di minuti: Gwen fumava silenziosamente, soffiando – di proposito o non – il fumo contro il viso di Zayn che a sua volta guardava – di proposito o non – qualsiasi cosa eccetto Gwen.
«Sono stanca.» mormorò la ragazza di colpo, passandogli la sigaretta del tutto finita e abbozzando un debole sorriso.
Senza aggiungere una parola si avviò verso il parcheggio. Zayn l’avrebbe potuta buttare quella sigaretta perché era ormai praticamente finita, ma preferì portarsela alla bocca e fare un altro tiro per sapere che in qualche modo le labbra di Gwen le stava assaporando. Gettò la sigaretta mentre la seguiva lungo la strada asfaltata.
Entrarono in macchina in silenzio e Zayn si premurò di accendere il riscaldamento e di controllare che Gwen fosse comoda.
Il tragitto fino a casa di Gwen fu silenzioso e tranquillo. Ad un certo punto, tra il negozio di fiori e il piccolo supermercato aperto ventiquattrore su ventiquattro, però Zayn non sentì più il contatto con il tessuto dei pantaloni di Gwen, ma non ebbe il tempo di guardare perché qualcosa di più caldo e morbido sostituì il precedente tocco. La mano di Gwen si era intrufolata tra il palmo di Zayn e il cambio della macchina, incrociando le loro dita con gentilezza.
Una volta superata la sorpresa, Zayn strinse la sua mano e le accarezzò il dorso con il pollice, facendole capire che era lì e che si, c’era dentro fino al collo.
Quando la macchina accostò davanti al condominio di Gwen, questa si slacciò la cintura di sicurezza e si voltò verso di lui.
«Buonanotte Zayn,» abbozzò un sorriso che racchiudeva tanto, troppo, e si sporse verso di lui.
Allungò una mano sulla sua guancia, accarezzandola lievemente, e gli lasciò un bacio sull’altra guancia e poi, inaspettatamente, uno anche a fior di labbra. Fu troppo breve però, come un battito di ciglia, ma invece di lasciarlo insoddisfatto, lo lasciò completamente basito.
C’era dentro, eccome se c’era. 

 







Sinceramente, non ho la più pallida idea del perchè io alle nove di sera della Vigilia di inizio scuola, io sia qui su efp a pubblicare il settimo capitolo di Hush, baby. Molto probabilmente è perchè sto facendo di tutto per non finire gli ultimi compiti rimasti, che comunque non farò. 
Allora, buonasera!! 
Sarò davvero molto breve questa volta, rispetto alle altre.Vi dico subito che questo è l'ultimo capitolo scritto - siamo nella m*rda - e che quindi non so dirvi come saranno i prossimi aggiornamenti. Dipende tutto dall'ispirazione - che va e viene -, dagli impegni scolastici, dalle ripetizioni che devo dare, dalla mia vita sociale, e da Zayn e Gwen che diventano sempre più difficili da trascrivere. Mi impegnerò comunque per far si che gli aggiornamenti siano più o meno puntuali.
Mi è piaciuto molto scrivere questo capitolo, un po' perchè bravamo l'avvicinamento di questi due, e un po' anche perchè è entrato in scena uno dei personaggi che amo un sacco descrivere nelle mie storie: Niall! Ce lo vedo troppo bene in America a dirigere il suo Irish Bar. Ah, per questo locale ho preso ispirazione da uno dei miei bar preferiti - che è appunto un Irish Bar. 
Comunque, cosa ne pensate del loro primo appuntamento ufficiale? Non ho voluto descriverlo tutto, ma solo darvi un elenco dei loro argomenti. Penso che così sia molto meglio e decisamente meno pesante! 
Adoro il finale e il fatto che Gwen non abbia ceduto nel baciarlo. State tranquille che cederà molto presto ahahah 
Spero di aver descritto decentemente i sentimenti che provano l'uno per l'altro e la tensione - sessuale - che si nasconde dietro certi sguardi! 
Come al solito, le parole non bastano per farvi capire quanto io sia grata di avere un seguito come il vostro! Davvero, grazie di cuore! Adoro le vostre recensioni e i vostri complimenti su facebook.
Grazie, grazie, grazie.
Un bacio,
clepp
 
 
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