Diario Di Giorni Immobili.

di fiorinatinelcemento
(/viewuser.php?uid=755824)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo. ***
Capitolo 2: *** I wish I had a normal life. ***
Capitolo 3: *** What people cannot see. ***
Capitolo 4: *** I thought it was a good idea. ***
Capitolo 5: *** Can you stay here tonight? ***



Capitolo 1
*** Prologo. ***


Prologo.


Salve a tutti, se così si può iniziare il racconto di quella che potrei giudicare la storia d’amore più strana di cui abbia mai sentito parlare. Mi chiamo Riley Coleman e vengo dalla cara, vecchia e tempestosa Inghilterra, sapete quella terra in cui piove sempre? Ecco, quella, il mio habitat naturale. A questo punto ci si può ovviamente chiedere quale sfortuna mi abbia portata nell’assolata Australia, no? Ebbene, la risposta sta nella classica storia del lavoro dei genitori. Madre morta, padre iperprotettivo che ti dice di no quando esprimi in tutti i modi il desiderio di rimanere lì dove sei nata, di non lasciare che le tue origini si mescolino con quelle di tizi super abbronzati il cui principale pensiero è una tavola da surf. E invece no, dovevo anche farmi piacere la bella villetta che papà aveva comprato, una di quelle vicine alla spiaggia, un paradosso visto che io non so nuotare. Avevo già il mio piano perfetto di vita, la mia musica, la scuola e qualche malaugurato che chiamavo “amico”, tutto questo mi bastava, mi sarebbe bastato anche vivere da una nonna sempre intenta a riempire le forme già ben nutrite da me. Ebbene sì, Riley Coleman diciottenne amante del cibo è una leggenda metropolitana vera, non tutte abbiamo bisogno di una 38 nella vita. Ma tornando all’Australia, potete immaginare la scena. Un caldo e rosso tramonto in contrasto col freddo boia che ero costretta a sopportare a Manchester, sole, mare, collane di fiori. E poi i miei jeans strappati alle ginocchia, le Converse che mi fasciavano i piedi fedelmente, una canottiera verde, del mio colore preferito. Ah, dimenticavo la ciliegina sulla torta, ovvero la felpa. Sì, lo so, potrei sembrarvi pazza, ma è stato il mio unico modo di ribellarmi al sistema, almeno finchè non avrei potuto ricollegare la mia chitarra all’amplificatore e suonare il mio odio per il mondo. Era il mio piccolo gesto da outsider, d’altronde lo dicono tutti che noi dai capelli rossi abbiamo un caratterino niente male, mio padre non ha mai contestato solo perché gli ricordo molto mia madre, il suo amore per la vita e bla bla bla.

Ovviamente uno psicologo professionista non poteva non farsi prendere dal complesso del Buon Samaritano, specie se lavorando in una clinica di recupero per gente affetta da dipendenze di ogni tipo, tra cui droghe, alcol, medicine.. Chissà se l’ispettore capo si è mai accorto che la reincarnazione del suo unico vero amore a volte fumava erba. Eh beh, c’è chi crede ai misteri religiosi, poi c’è la mia famiglia che per misteri batte tutti.
Come al solito divago, ma pazienza, apprezzatemi come sono. Dopo due mesi lì, il Buon Samaritano aveva accolto a casa nostra una donna reduce da alcolismo patologico, praticamente beveva fino a dimenticare chi fosse, fino a dimenticarsi addirittura del figlio Ashton, nato da un concepimento poco coscenzioso in auto  durante il ballo del liceo. E Dio, clichè su clichè stile 16 and Pregnant che non starò qui ad elencare. Sì, so cosa state pensando. Diamine, Riley Coleman, sei proprio un’insensibile. E qui vi sbagliate di grosso, almeno in parte. Se dopo il trasferimento l’unico oggetto degno di affetto era la mia chitarra, dopo l’arrivo dei compiti a casa di papà avevo trovato qualcun altro a cui offrire dell’affetto velato, una sorta di “siamo sulla stessa barca, tanto vale andare d’accordo”. Ebbene, Ashton non aveva bisogno di parole per conquistarmi. L’abbigliamento non diceva “ciao, sono un figo australiano”, i capelli scompigliati stavano indietro solo grazie ad una bandana, le maglie avevano le maniche tagliate, così che fossero senza. Aveva dei lineamenti così dolci che se sorrideva poteva farti intendere di avere le migliori intenzioni, ma appena parlava ti smontava l’idillio. Se stava con sua madre, era solo perché non aveva altri parenti. In compenso era grato a mio padre e tollerava me,  almeno questo faceva vedere. Il punto non era quello, per nulla. Il punto era la catastrofe che avevamo dovuto vivere solo due mesi dopo il loro arrivo. La madre di Ashton se n’era andata senza dare spiegazioni, da allora lui non faceva altro che starsene in camera a fare nonsochè, e spero non si trattasse di seghe su dei video porno. Mio padre, innamorato com’era di Jenna, cercava di mascherare il dolore gettandosi sul lavoro. A me non restava che occuparmi della casa, cucinare quando non ero a scuola, fare i compiti. Cenare era come stare in una casa popolata da fantasmi, per cui mi toccava semplicemente lasciare un vassoio colmo di cibo davanti alla stanza di Ash, un altro davanti allo studio di papà. Visto il loro dolore, che io non riuscivo a capire visto il mio poco affetto verso quella sottospecie di donna, cercavo di essere vicina a loro ma discreta. Quando finivo le faccende che la donna delle pulizie non sbrigava, mi rinchiudevo anche io in camera e mi limitavo a pizzicare le corde, come per cercare di portare via con la musica qualcosa che a loro faceva male. Era tutto un equilibrio precario, ma era il massimo a cui, per adesso, potevamo aspirare. La sera, prima di andare a dormire, lasciavo dei biglietti per entrambi sotto la porta, ma quei biglietti della buonanotte non avevano mai risposta. Così, delle volte, me ne andavo in spiaggia a lasciare le mie angosce al mare, tradendo le mie origini inglesi con quel poco di essere australiano che stava nascendo in me. Il giorno dopo, facendo come se nulla fosse, andavo a scuola e incontravo quei pochi, nuovi amici che si erano rivelati comprensive guide per la nuova arrivata. Il tizio più strambo, fra i due, era Michael Clifford. Tutti lo prendevamo in giro per via dei suoi capelli. Sempre ben tesi per aria, ogni mese di un colore diverso, ma questo lo accomunava molto alla sua ragazza, Phoebe. Tingevano i capelli sempre di colori abbinati, acquisendo un aspetto di coppia adorabile. Calum Hood, invece, era più il tipo da flirt spudorati anche con la sottoscritta, ma il nostro accordo prevedeva che non saremmo mai andati oltre quello. Non volevo io, come non lo voleva nemmeno lui. Ci eravamo quasi trovati a completarci, visti i caratteri completamente contrastanti, quindi sapevamo che nessuno dei due voleva perdere l’altro e che avere una relazioni ci avrebbe portati esattamente a quello.
Nella routine della normalissima Riley Coleman, però, non mancano le disgrazie decennali e che fanno prendere degli spaventi assurdi. Dieci anni prima avevo rischiato di annegare in un lago ghiacciato, a distanza di tempo e chilometri dalla Gran Bretagna, un disastro nato non può di certo migliorare. Io ne ero e sono la dimostrazione.
Con tutto ciò, benvenuti nei miei Giorni Immobili, miei cari.

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** I wish I had a normal life. ***


Capitolo 1.
I wish I had a normal life.     
                                                     (12 Dicembre 2013)

Come ogni mattina della mia nuova vita in Australia, mi era toccato alzarmi e far fronte ai miei doveri di studentessa, doveri più comunemente denominati scuola. Sebbene fosse una delle cose meno necessarie nella mia vita, preferivo comunque studiare e portare buoni voti per evitare che la già evidente frustrazione di papà si trasformasse in astio profondo. Eravamo già quasi al periodo natalizio, periodo per me totalmente inutile nel quale, secondo delle strane leggende, le case venivano addobbate e si compravano regali per i familiari. Io non avevo mai avuto un padre molto affezionato a certi tipi di eventi, mentre l’assenza di una figura femminile in casa aumentava il nostro scetticismo e poco entusiasmo verso la nascita di un Dio che beh, non ho mai avuto l’onore di vedere. I miei si erano sposati in chiesa, ma dopo la morte di mia madre mio padre ha praticamente chiuso in un cassetto ogni cosa che potesse anche solo fargli venire un dubbio su qualcosa che non fosse scienza. Mamma, per lui, era morta di malattia e basta. Nessun Dio aveva visto in lei un elegante fiore da trapiantare nel suo mistico giardino, quindi non vedevo perché ad andare a messa con la nonna, dovevo essere io.
E’ incredibile poter notare quante insane e contorte riflessioni potessero nascere dal semplice imput di una doccia tiepida appena svegli. L’iperattività di pensiero uccide, dicono, ma non per quello avrei rinunciato alla caffeina, mio amore indiscusso dall’età di dodici anni. Dopo aver asciugato la mia chioma da Jessica Rabbit dei poveri, come amavo chiamarla io affettuosamente, corsi in camera ancora in asciugamano, giusto in tempo per non farmi vedere da un esemplare di Ashton sconosciuto ad occhi umani da almeno una settimana. “Dio, se ci sei, ti prego di non sottopormi mai più al rischio di un evento così imbarazzante”, mi ritrovai a pensare, tornando a quel discorso mentale che stavo facendo a me stessa nella doccia. E mentre la mia mente elaborava pensieri propri un po’ come può fare un matto dedito ai monologhi, mi ero vestita automaticamente, ovviamente avevo l’aspetto di una che si era vestita al buio. Sfilai la maglietta arancione, che nemmeno sapevo esistesse nel mio armadio, e ne infilai di fretta una blu notte, colore che si abbinava decisamente meglio a quelli che erano i miei colori. Non per nulla avevo contornato i miei occhi blu con una semplice matita di un colore poco vistoso, mentre sulla faccia non spiccava nessuna traccia di fondotinta o altro corpo estraneo. Le labbra erano abbastanza piene da e rosee da non aver bisogno di rossetti o altri intrugli da principessina di bellezza. Nonostante le curve non mi mancassero, mi ritenevo ben proporzionata grazie alla mia altezza, nel complesso mi andavo bene così. Voglio dire, non facevo invidia a Barbie, ma fare invidia ad un concentrato di plastica uscito da una mente malata non era di certo un’ideale di vita, almeno non per me.

Il solito rituale della preparazione mattutina si era concluso con il consueto bicchierone di caffè amaro, ma ci fu una grossa sorpresa, o un miracolo, quella mattina. Ashton, invece di ciondolare sul divano come ogni mattina da quattro mesi a quella parte, era vestito, insolitamente profumato, fermo davanti alla porta a fissarmi.
Solitamente non avevamo grande dialogo, ma quel suo comportamento mi inquietava. “L’orso è uscito dal letargo o cosa?” dissi io, involontariamente sarcastica verso chi, ovviamente, era meglio non esserlo. “Torno a scuola, rossa.” Furono le sue parole. Non sapevo se essere più terrorizzata o sollevata da quella notizia, ma in quel momento decisi che potevo cogliere il lato positivo della cosa ed evitare di prendere il bus. “Bene, allora oggi mi farai vedere come guidi un’auto, sempre che tu non sia troppo pigro anche per quello.” D’istinto afferrai le chiavi della seconda auto, ovvero quella che mio padre mi aveva comprato per il compleanno e che io, per forza di cose, non avevo ancora utilizzato per l’ovvia assenza della patente di guida.
Se guardando il dolce, angelico faccino di Ashton credete di potervi fidare di lui, vi sbagliate di grosso. La sua intenzione, più che la mia auto, riguardava la sua moto. Inutile dire che Riley Coleman non era una fifona, non esternamente almeno, quindi è inutile dirvi che avev accettato senza ribellarmi.

“Tu sei completamente matto, Ashton!”
Le mie urla di disappunto le sentirono tutti, ne ero sicura, ma poco mi importava. Quando la moto varcò il cancello della scuola e si fermò con una sgommata, non tardai a scendere e togliere il casco, scaricandolo al suo petto. Avevamo rischiato di schiantarci come minimo contro tre macchine per via della sua guida molto discutibile, in più era passato davanti allo scuolabus facendo i gestacci ai ragazzi e al conducente. Se aveva intenzione di metterci nei guai, ci stava riuscendo alla grande.
“Oh, avanti, capisco che sei inglese, ma non essere così bacchettona!”
Il suo tono di voce mi risultava totalmente stupido, irritante, ma sentirlo ridere dopo tutti quei mesi era rincuorante e faceva sì che mi venisse il cuore tenero.
“Guardate, il figlio dell’alcolizzata è tornato a scuola. Che c’è, la mancanza della mammina ti ha fatto rimanere a casa a piagnucolare?”
Ed ecco il cliché dei cliché. Poteva mai mancare il cretino tutto musocli, surf e football a rompere in un liceo per figli di papà? Ovviamente no. E si era messo contro quello sbagliato, perché Ashton aveva già abbandonato la sella della moto ed era sul piede di guerra. Brandon Twain sapeva come colpirlo, purtroppo. Istintivamente gettai a terra lo zaino e mi misi in mezzo ai due, anche se Ashton mi sovrastava in altezza.
“Tappati quella bocca, Twain, o giuro che ti stacco i denti uno per uno a mani nude e poi te li faccio ingoiare.”
La voce di Ash era quasi un ringhio, non mi piaceva. Chissà quanto ci era voluto per costruire un muro intorno a quella vicenda e alle dicerie che circolavano.
“Provaci Irwin, mal che vada potrai seguire le orme di tua madre e affogare le tue frustrazioni nell’alcol.”
Questo era troppo, era troppo davvero che lui facesse di tutto per minare la serenità di un persona che sostanzialmente non gli aveva fatto assolutamente niente. Ashton, dal canto suo, era già in precario equilibrio scolastico per via delle assenze, una sospensione per rissa  lo avrebbe portato dritto alla bocciatura. Premetti entrambe le mani sul petto del mio fratellastro e lo spinsi via, poi mi rivolsi all’altro.
“Ascoltami bene, Twain. Se non vuoi il setto nasale KO è meglio che tu vada a rendere più interessante la tua miserabile vita da un’altra parte, perché non è giornata.” Mi avvicinai a lui così pericolosamente che per un attimo sembrò che lui avesse paura, ma no, non poteva permetterselo. Brandon Twain non poteva avere paura davanti a tutta la scuola.
“Coleman, vai a fare la puttanella altrove.”
A quel punto non sapevo chi, fra me e mio fratello, volesse picchiarlo più forte. Nel frattempo si era raccolta una folla consistente intorno a noi. Il pugno al naso di Brandon partì dalla mia mano con una tale spontaneità e violenza, che l’adrenalina mascherò il dolore per almeno un paio di minuti. Brandon era a terra, io ero soddisfatta di me, ma sapevo che lui non si faceva tanti problemi a fare a botte con qualcuno, nemmeno se si trattava di una ragazza più piccola. Come previsto, si stava rialzando e mi si stava avventando contro, io ero già pronta al dolore che probabilmente avrei sentito di lì a pochi secondi.

Cliché numero 2, non lo avevo considerato. Il classico cavaliere che ti salva quando ti rassegni al fatto che stavolta le prenderai di santa ragione.
Riaperti gli occhi, Brandon era di nuovo a terra e stavolta con un occhio pesto, quasi sanguinante.
“Chiedile scusa.”
Il ragazzo davanti a me aveva più o meno la stazza di Ashton, mi indicava e parlava con tono calmo. Brandon lo guardava con aria di disprezzo.
“Ho detto chiedile scusa, Twain. Fallo o sarò felice di beccarmi una sospensione per averti pestato a sangue.”
Brandon, per tutta risposta, si alzò. Era come se sapesse che ne era capace, gli si leggeva in faccia qualcosa di simile a timore misto a rispetto, più qualcosa che non riuscivo a decifrare.
“Anzi, chiedi scusa a entrambi e vattene.”
Allora lo disse, a denti stretti e sottovoce, sotto gli occhi di tutta la scuola.
“Scusatemi.”
“Più forte.”
Il ragazzo davanti a me lo incitò con l’aria di chi non si sarebbe trattenuto. Brandon fu costretto a ripetere a tono più alto, lo sconosciuto si girò poi verso di me. Non mi sbagliavo, era biondo. Gli occhi azzurri, i lineamenti induriti dalla sua espressione, giocava con il piercing al labbro.
“Bene, adesso andate in classe.”
Il biondo, di cui ancora non conoscevo il nome, si rivolse a tutti gli studenti e rimase finchè l’intera folla non fu tornata alle lezioni, Brandon era entrato in auto e se n’era andato insieme agli idioti del suo misero gruppetto di surfisti. Io stessa avevo un compito di biologia da svolgere, ma dovevo prima fare qualcosa per la mano indolenzita.
“Tu.”
Lo sconosciuto si rivolse a me con fare noncurante, guardando però Ashton come se gli stesse implicitamente dicendo di tenermi d’occhio.
“La prossima volta evita di metterti nei guai..” continuò, le labbra tradivano un leggero sorriso “..e fai qualcosa per quella mano.”
Afferrò la sua tracolla a qualche passo di distanza da noi, poi si avviò al cancello. Ashton, per tutta risposta, mi cinse le spalle con il braccio e mi scortò fino all’infermeria. Gli avevo detto di non farlo, ma non mi diede ascolto. Mi voltai, chissà se lo avrei rivisto.


Bene, eccoci qui. Sono l'autrice e questo è un piccolo spazio per ringraziare chi segue, mette in preferito e recensisce, chi mi dà dei consigli per migliorare  e mi fa crescere come scrittrice. Un grazie speciale va a tutti coloro che leggono, fatemi sapere che ne pensate, la mia casella di posta è lì per voi! Un abbraccio!

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** What people cannot see. ***


Capitolo 2.
What people cannot see.                                         (Flashback; Ottobre 2013)


Ashton’s point of view.
Eravamo di nuovo al punto di partenza. Mia madre se n’era andata come già aveva fatto nel corso degli anni scorsi, io non mi stupivo più. Era sempre stato così, trovava un brav’uomo a cui scaricarmi, nemmeno fossi un pacco indesiderato, e poi se ne andava senza dare una minima spiegazione. Ogni volta che lo faceva ero costretto a cercarmi un nuovo posto dove stare, generalmente finivo sempre per chiedere a qualche amico di ospitarmi o andavo dalla nonna, ma da un po’ ero uscito dal mio solito giro di amicizie e non volevo più rientrarci.

Quando mia madre disse che ci trasferivamo, pensai ad un ubriacone come lei. Qualcun che diventasse un compagno di bevute per lei e che si aggiungeva alla mischia quando lei cercava di darmele per motivi inesistenti. Invece eravamo arrivati a Watson’s Bay, una delle più belle zone residenziali di Sydney, per di più sulla spiaggia. La casa era enorme rispetto ai luoghi dove avevo già vissuto, il signor Coleman era stato così gentile da rendere la stanza degli ospiti più adatta ad un ragazzo di diciotto anni, facendosi aiutare dalla figlia, Riley.
L’abbandono del mioo vecchio stile di vita, era sostanzialmente dovuto a loro due. Edward, come lui stesso mi aveva pregato di chiamarlo, si comportava con me esattamente come faceva con la figlia. Lei, una rossa tutta cinismo e battute pessime, mi aveva accolto in famiglia come si accoglie un ospite, quindi non avevamo molta confidenza. Sapevo che sunava la chitarra, ed era anche molto brava, da ciò che avevo sentito. Io avevo imparato a suonare la batteria grazie ai miei vecchi amici, ma non toccavo bacchette da tempo e gli ultimi avvenimenti mi avevano fatto passare la voglia.

Sebbene sapessi come sarebbe andata a finire sin dall’inizio, avevo preferito godermi quei due mesi di pace e convincermi che mia madre era pulita. Avevo anche provato a trovare un lavoro, nel caso Edward non avesse più voluto vedere il figlio della stronza che era sparita così. Invece mi aveva chiaramente detto che potevo restare, tanto la casa era troppo grande per due persone sole.
Io, dal canto mio, non uscivo più dalla camera. Non avevo la minima voglia di guardare il decimo uomo ferito da mia madre, quindi scendevo a mangiare qualcosa solo quando ero certo che entrambi non fossero nei paraggi.

Per l’ennesima sera, ad un mese circa dall’accaduto, ero uscito dalla mia camera per andare a farmi un panino e rientrare in stanza prima che chiunque potesse vedermi. Quando misi piede fuori dalla camera per poco non caddi, accorgendomi solo qualche secondo dopo che sulla moquette c’era un vassoio pieno di cibo, una cena vera e propria rispetto a ciò che mi ero abituato a mangiare negli ultimi tempi. Edward non cucinava, almeno non di solito e non così bene, senza offesa per lui. L’unica poteva essere Riley, perché un altro vassoio, identico al mio, giaceva proprio davanti alla porta dello studio. Mangiai tutto con calma, ma mi sembrava giusto ringraziarla almeno una volta nonostante io e lei non avessimo un gran rapporto. Era la prima estranea, a parte suo padre, che si prendeva cura di me senza che nessuno glielo chiedesse, ecco perché ho abbandonato i miei vecchi giri di frequentazioni sbagliate. Suo padre si stava informando per ottenere la mia custodia, la figlia iniziava a non trattarmi più da estraneo, non era giusto che io continuassi ad aiutare gente che spacciava nei corridi della scuola. Qualunque mio guaio sarebbe stato ricollegato a loro. Poggiai il vassoio sulla scrivania della mia stanza dopo aver finito di mangiare. Era tutto così buono che mi stupivo che a farlo fosse stata proprio lei. Infilai una maglietta a caso per non presentarmi solo in jeans, mentre il beanie copriva i miei capelli, un po’ troppo lunghi e che arrivavano agli occhi. Prima bussai, poi spinsi leggermente la porta già socchiusa e notai la camera in semiscurità. L’unica luce proveniva dalle piccole lucette gialle attorcigliate alla testiera del letto, le lampade di carta appese al soffitto erano spente e la finestra leggermente aperta, un po’ di luce lunare filtrava. Quella sera c’era la luna piena, l’avevo vista anche dalla mia finestra.

Lei dormiva già, sicuramente doveva essere esausta. La chitarra era accanto a lei sul letto a due piazze, mentre lei era stesa sul fianco e i capelli le ricadevano sul viso. Più volte avevo notato quanto fosse carina, nonostante il cinismo che trasudava in ogni parola, ma solo in quel momento la stavo osservando davvero. Guardandola a primo impatto, potevi notare subito i capelli rosso fuoco e gli occhi blu. Guardandola adesso, potevi goderti i lineamenti del suo viso, gli zigomi alti e il naso in su, persino le labbra piene, soprattutto quello superiore. E’ guardando le persone dormire che vedi la loro vera bellezza, mi dicevo sempre. E lei mi sembrava così bella, in quel momento, da creare la luce che non c’era.

Penso che quella fu la prima volta in cui la vidi davvero, in realtà. Trovai una coperta sulla sedia posta di fronte alla scrivania, gliela misi addosso. Dopo averle baciato la fronte uscii e spensi le luci, volevo tornare in camera mia e andare a dormire anche io. Non avrei mai immaginato che, da quel giorno, l’avrei guardata sempre, fino allo sfinimento. Non sapevo che l’avrei protetta, per una volta non sapevo più nulla.


Salve a tutti, miei cari lettori! Cosa posso dire? Il prologo ha raggiunto finora le 80 visualizzazioni, per molti potrebbe essere poco ma per me, che mi sono convinta dopo anni a pubblicare di nuovo qualcosa, è davvero tanto. Mi auguro che questa piccola svolta data dai flashback vi entusiasmi, soprattutto per capire il modo di pensare di questo nostro Ashton così chiuso emotivamente, ma che pian piano ci farà vedere un po' di sè. I flashback, però, non saranno solo da parte sua, bensì anche da parte di Riley e forse anche del misterioso ragazzo biondo che sicuramente immaginate tutti chi sia. Bene, vi ringrazio per la lettura e per chi mette in preferito/ricordato o segue e recensisce. Le vostre recensioni sono molto importanti, per me, per capire se sto continuando su un bun percorso. Un abbraccio grande e buona lettura!

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** I thought it was a good idea. ***


Capitolo 3.
I thought it was a good idea.                                 (13 Dicembre 2013)


Ashton’s point of view.


Dalla quasi rissa a scuola era passato solo un giorno, io non avevo il coraggio di guardare in faccia Riley, quindi mi limitavo a portarla a scuola al mattino, in moto, tenendo a bada i miei bollenti spiriti quando Brandon o qualcuno dei suoi amici osava aprire bocca sulla nostra situazione familiare. Riguardava noi, non lui, non i suoi amici. Riguardava solo me, Riley e suo padre.  A scuola avevo le mani legate, un passo falso e sarei finito in presidenza con una sospensione che avrebbe determinato la mia bocciatura. Mi ero ripromesso di dare una lezione a quel bastardo, prima o poi lo avrei fatto. La mia situazione scolastica, però, doveva rimanere in quell’equilibrio precario almeno finchè non avrei finito con i test di recupero. Mi ero dato allo  studio anche per evitare che Riley si mettesse nei guai per me. Prima avrei risolto i miei problemi, prima lei avrebbe smesso di difendermi così ostinatamente. Non ho mai pensato di meritare molta comprensione, in realtà. Mia madre mi aveva lasciato a casa loro, avevo praticamente invaso i loro spazi, mi mantenevano come se Edward fosse quello che diciotto anni prima aveva messo incinta Jenna, il tutto con l’amore di una famiglia in mezzo. Edward Coleman non era un uomo dai grandi gesti affettuosi, ma sapeva come far capire a qualcuno che ci teneva, la prova era l’avvocato che aveva chiamato per ottenere la mia custodia. Mi domandavo spesso se, una volta ottenuta, avesse voluto darmi il suo cognome. Ashton Coleman mi suonava bene.

Avevo sentito di una festa giù in spiaggia, quella mattina a scuola. Era venerdì, in Australia era consuetudine passare il fine settimana in spiaggia, o almeno a Watson’s Bay. Il bello di abitare in una delle zone residenziali costiere di Sydney era questo: avevi accesso ad ogni tipo di festa si svolgesse ad un isolato da casa tua. Riley non mi era mai sembrata una da festa, ma comunque le avrei chiesto di accompagnarmi. Volevo sdebitarmi con lei e farle passare una bella serata, magari avrebbe perso un po’ di quel cinismo che non tardava a manifestarsi tramite le sue battutine acide. Il pensiero delle sue parole taglienti mi fece sorridere, era una delle cose che preferivo di lei. Le lingue biforcute erano una piaga per alcuni, ma non per me. Almeno ero certo che dicessero ciò che pensavano, invece di qualche balla per compassione.


Come spinto dai miei pensieri, mi ritrovai davanti alla camera accanto alla mia, la porta era chiusa. In un’altra occasione sarei entrato senza neanche bussare, ma Riley si era insolitamente guadagnata il mio rispetto e non volevo rischiare di invadere il suo spazio. O peggio, non volevo rischiare di entrare mentre stava per cambiarsi, anche se una scena del genere e le sue conseguenti battutine mi avrebbero fatto ridere non poco. Quando si arrabbiava le si formava una piccola ruga fra le sopracciglia da ginger, lo avevo notato nel tempo trascorso insieme e durante le lezioni. Mi aveva offerto di sedermi accanto a lei durante i corsi che avevamo insieme, così si sarebbe accertata che seguivo le lezioni.

Bussai.
“Chi è?”
Una voce dal tono leggermente allarmato mi rispose da oltre la porta.
“Tuo padre è a lavoro e non c’è nessuno a parte me, chi vuoi che sia?”
Trattenni le risate a stento quando un tonfo rimbombò dall’altra parte. Probabilmente pensava di essere sola a casa ed era rimasta in biancheria, i 30°C caratteristici di quel periodo si facevano sentire fastidiosamente.
Poco dopo venne ad aprire con una maglia enorme dei Beatles addosso, le arrivava più o meno sopra il ginocchio. Vista la sua altezza, doveva essere almeno una XXL.
“Prego, entra.”
Mi accolse con un sorriso cordiale. Sembrava più grande della sua età, in certi casi, ma quando voleva sapeva come divertirsi. Io rimasi alla porta per poco, poi avanzai di qualche passo e mi sedetti alla fine del grosso letto a due piazze. L’unica volta che avevo visto la sua stanza, era la notte di due mesi prima, illuminata di poco. Adesso era illuminata a giorno e un blu petrolio spiccava brillante sulle pareti, spezzato dal marrone dei mobili e dalle coperte verde smeraldo. Era l’ambiente più calmo che avessi mai visto, una piccola oasi.
Lei vide che mi guardavo intorno, quindi pronunciò il mio nome per richiamare la mia attenzione. Mi girai di scatto e scossi la testa, tornando in me.

“Ho sentito che stasera c’è una festa in spiaggia, volevo portartici.”
Non utilizzai insulsi giri di parole, preferii essere diretto. Lei mi guardò per un attimo come per chiedere perché stessi facendo quella proposta proprio a lei.


“Oh, avanti.”
La sua espressione non mi sembrò particolarmente convinta, ma non fece obiezioni e mi disse che si sarebbe fatta trovare pronta un’ora dopo, in salotto. Il mio sorriso si estese da un orecchio all’altro, e non era un eufemismo. Mi alzai, avvicinandomi a lei e accarezzandole una guancia prima di andare, anche io, a darmi una sistemata. Volevo provare ad abbattere qualche muro, per lei.

Riley’s point of view.

La proposta di Ashton mi aveva un po’ destabilizzata, ma avevo deciso di accettare. Uscire gli avrebbe fatto bene, magari avrebbe iniziato a socializzare un po’ di più. Io, almeno, avevo Calum e Mikey, lui aveva solo me, non pensavo che una sorellastra gli sarebbe bastata per tutta la vita. Negli ultimi mesi, però, aveva fatto passi da gigante. Invece di dovergli portare la cena in camera, mangiavamo insieme tutte le sere. Fra lui e papà, almeno uno dei due sembrava rispondere positivamente al mio comportamento, questo migliorava notevolmente il mio umore.

Dopo la doccia indossai un paio di pantaloncini a vita alta. Non erano aderenti come il modello rivisitato in chiave moderna, bensì dei veri e propri jeans degli anni ’90, leggermente sfilacciati e tagliati in modo coprire giusto un po’ delle mie cosce. Li avevo ricavati da dei vecchi jeans di mia madre che avevo trovato nella soffitta della nostra vecchia casa a Manchester. Papà disse che la mamma avrebbe sicuramente fatto la stessa cosa, eravamo uguali anche in quello.  Sopra i pantaloncini indossai una semplice maglia rosa, corta fin sopra l’ombelico e con delle frange che scendevano morbide sull’unica piccola fascia di pelle visibile, finendo sulla cintura dei pantaloncini. Infilai un kimono velato a fantasia sopra e dei sandali marroncini abbinati alla tracolla, anch’essa  con le frange che pendevano. Non utilizzai make-up ad eccezione del burro di cacao alla ciliegia, poi slegai i capelli e scesi in salotto. Ashton mi aspettava, indossava dei bermuda chiari e una maglia nera delle sue, con tanto di Vans di tela ai piedi. Risi per il beanie, presente nonostante il caldo, ma nonostante tutto gli stava bene. Lui sembrò sul punto di dire qualcosa, ma si bloccò.



Salve tesori! Ecco qui un nuovo capitol, un po' di passaggio se vogliamo dirlo ma servirà a capire il prossimo. Vi ringrazio per ogni visualizzazione, recensione, messo in preferito. Siete preziosi e la storia va avanti principlamente grazie a voi. Che dire? Spero vi piacerà, anche perché nel prossimo capitolo potrebbe esserci il POV di Luke, per cui potremo capire qualcosa in più di lui. Un abbraccio, cari lettori!

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Can you stay here tonight? ***


Capitolo 4.
Can you stay here tonight?                                                                 (13 Dicembre 2013)

Ashton’s point of view.


Nel momento in cui Riley era scesa mi ero alzato dal divano, rivolgendole un enorme sorriso. Vestita in quel modo era ancora più bella, quel pensiero nella mia mente mi sorprese terribilmente nonostante non fosse la prima volta che si faceva vivo.

“Stai benissimo.” Mi limitai a dire.
Lei arrossì di botto ma tentò di nascondere l’insolito colorito sulle sue guance. Riley Coleman che arrossiva? Quello sì che era un evento alquanto stravagante.
Il suo sorriso mi fece capire che mi stava tacitamente ringraziando. Anche lei, come il padre, non era una dai gesti troppo eclatanti.
“Andiamo.”
La mia mano si poggiò al centro della sua schiena, facendovi una leggera pressione per fare in modo che lei muovesse qualche passo avanti. Uscimmo di casa, incamminandoci verso la spiaggia.

Luke’s point of view.
Quella sera ci sarebbe stata una festa a Watson’s Bay. Lo sapevo perché tutta la scuola ne parlava, come in quegli squallidi film ambientati nei licei americani in cui le cheerleader a malapena si coprivano il sedere. La nostra scuola era uguale: sbruffoni pieni di steroidi, cheerleader coperte il minimo indispensabile. Ingiustizie e squallore ovunque.

Comunque, nonostante la mia evidente avversione a quell’ambiente, non mi sarei mai perso l’occasione di fare un po’ di casino. Tutti sapevano che il mio hobby preferito era attaccare briga con con quelle sottospecie di Barbie e Ken che popolavano la scuola, esseri inutili nati solo per portare avanti le generazioni d’èlite che rovinavano Watson’s Bay. Il posto più bello di Sydney rovinato dalla presenza di stupidi figli di papà, ad eccezione di qualcuno. Riley Coleman, ad esempio. Lei e suo fratello Ashton non sembravano appartenere a quel genere di persone, anzi. Pensare a quella ragazzina cocciuta mi fece sorridere, non la facevo una capace di fare a botte con uno più grande.

Uscito dalla doccia, andai in camera con solo un asciugamano in vita. I miei capelli biondi non erano più issati in su per via del gel, bensì bassi sulla fronte. Giocai con il labret mentre decidevo cosa mettere, optando poi per qualcosa di semplice. Prima infilai un paio di boxer neri, poi dei jeans scuri aderenti e per niente pesanti, infine una maglia dei Misfits con le maniche tagliate e che lasciava intravedere molta della pelle del mio petto lateralmente, oltre che le braccia. Infilai le converse bianche e aggiustai i capelli con il solo aiuto delle mani, senza gel o cera. Camminai velocemente attraverso la stanza e scesi giù, presi poi il telefono e le chiavi all’entrata e uscii.

La spiaggia di Watson’s Bay era decorata in modo stupefacente. Gli innumerevoli gazebo di paglia erano ornati da lampade di carta gialle, sotto questi vi erano i teli da mare delle persone che si erano già accomodate. Quei posti erano già stati occupati, andando ad un centinaio di metri da lì vi erano le zone falò intorno a cui si riunivano gruppi di giovani aspiranti cantanti. Al centro di quel tumulto di persone e luci, una grossa postazione DJ trasmetteva gli ultimi brani da discoteca dettati dalla playlist di iTunes. La cosa bella di Watson’s Bay era che organizzare una festa era tremendamente facile. Bastavano alcolici, qualcuno che portasse gli impianti stereo e il gioco era fatto.

Da lontano vidi la figura di qualcuno che conoscevo, la presenza di un’ulteriore figura maschile mi confermò che i capelli rosso fuoco appartenevano proprio alla persona a cui stavo pensando. Riley Coleman mi aveva sorpreso di nuovo: non avrei mai pensato che si sarebbe gettata in mezzo agli squali così. Li seguii brevemente con gli occhi, speravo che non si cacciasse di nuovo nei guai.


Riley’s point of view.

Erano già passate due ore. Alle dieci e mezza di venerdì sera si respiravano solo fumi stupefacenti e odore di alcol, misti al profumo della legna che bruciava nei falò. Ashton si era allontanato momentaneamente per riempire nuovamente i nostri bicchieri. Finora avevamo bevuto qualche birra a testa e fatto qualche tiro, sebbene non fossi completamente andata ero sicuramente più esuberante del solito.
 Un tipo mi si avvicinò all’apparenza timidamente, mentre alla console mandavano una qualche canzone straniera, spagnola presumo. Mi era venuta voglia di ballare, ma mi ci voleva ancora qualche bicchiere per sciogliermi davvero. Scoprii che era molto carino. Alto, occhi chiari ma di un colore che esattamente non distinguevo. I capelli erano castani con qualche ciuffo più chiaro dovuto al sole, la pelle era da tipico australiano, abbronzata. Si sedette senza troppi complimenti.

“Salve.”  Mi rivolse un sorriso amichevole.
“Ciao.” Cercai di essere cordiale, anche se non ero il tipo che dava subito confidenza.
“Balli con me?”
Mi voltai di scatto verso di lui, la mia bocca era una piccola ‘o’ per la sorpresa.
 
“Nemmeno ti conosco, potresti essere un serial killer.” Dissi io con poco imbarazzo.
L’alcol abbassava pericolosamente la mia soglia di razionalità. Dopo aver bevuto ero capace di dire in faccia ad una persona che non la sopportavo, o far cose peggiori.

Lui rise di gusto, intravidi la sua dentatura perfetta. In qualche modo quella risata contagiò anche me.
“Mi hai scoperto, rossa.” Assunse un’aria fintamente colpevole che mi fece scappare un sorriso. Mi ero imposta di rilassarmi almeno per una sera, lo avrei fatto e basta. Anche Ashton lo stava facendo, lo vidi mentre si era fermato a parlare con alcuni ragazzi poco più in là.
“Andiamo.” Afferrai la mano dello sconosciuto e mi alzai, trascinandolo con me. Il fatto che sapessi poco di lui mi affascinava, rendeva tutto più eccitante. Lui non obiettò, anzi rise quando ci trovammo  in un punto leggermente lontano dalla pista da ballo improvvisata, un punto meno illuminato e meno popolato, per così dire. Mi aveva dato l’impressione di avere un’aria familiare, ma poco importava, volevo solo non pensare troppo. Mi afferrò i fianchi e mi avvicinò di più a sè, un incentivo per farmi muovere di più. Seguii la musica, lasciandomi andare e ondeggiando contro di lui. Mi sentivo leggera, non feci quasi caso al fatto che il suo naso mi stesse sfiorando il collo in modo tutt’altro che innocente, mentre le sue dita premevano leggermente contro la vita alta dei miei pantaloncini. Il tocco presente sul mio collo cambiò improvvisamente, segno che sulla mia pelle si erano ora poggiate delle labbra. Lo sentii mordere leggermente la pelle proprio sotto il mio orecchio destro,lasciando che si formasse un grosso segno violaceo. L’alcol iniziava a farmi girare leggermente la testa e a rendermi iperattiva, poco padrona di me stessa, per cui non avevo la forza di fermarlo. Spostò il kimono dalla mia spalla e con dei baci percorse il mio collo mentre io continuavo a seguire la musica, persa nel mio mondo da persona incapace di decidere per sé, anche incosciente parlando adesso, da sobria. Solo riaprendo gli occhi mi accorsi che li avevo tenuti chiusi per tutto quel tempo, mentre le labbra dello sconosciuto si spostavano ora verso la scollatura della maglietta, non molto profonda. Non tardai a spostarmi, ma mi accorsi che in effetti ci eravamo allontanati parecchio dalla folla, mentre alcune casse seminate in giro la disperdevano le onde sonore fino ai limiti di quello che sembrava un cerchio.


“Me ne voglio andare.” Dissi io di malavoglia.
Il mio corpo iniziava a sentirsi stanco, assopito, volevo solo dormire. Lui mi afferrò con troppa forza, quasi mi lasciò le impronte delle sue dita sul braccio.
“Dove pensi di andare, micetta?” con un nuovo strattone mi avvicinò di nuovo a sè quando stavo per compiere un passo nella direzione opposta alla sua, facendo aderire il suo petto alla mia schiena. Quel contatto mi diede i brividi, ma non sapevo se fossero per la leggera aria fresca che tirava o per la paura. La sua mano mi spostò i capelli dalla spalla, tornando poi alla vita e stringendola mentre le sue labbra continuavano il giro di prima. Io volevo solo andarmene, andare a dormire o quantomeno stendermi. La sua mano salì e s’insinuò sotto le frange della maglia, arrivando ai miei seni e stringendone uno. Volevo urlare, ma l’altra sua mano era improvvisamente sulla mia bocca. Ero stata troppo lenta. Tentai comunque, ma quasi non prendevo aria visto come mi teneva stretta e mi diceva di star ferma. L’agitazione mi faceva vedere doppio mentre le lacrime mi annebbiavano quel poco di di vista che avevo. La musica era forte e sembravamo essere soli, a quel punto solo un miracolo avrebbe potuto togliermi da quella situazione.

Non sentire più quella stretta soffocante su di me fu un grosso sollievo. Non sapevo come fosse successo, ma mi ero mentalmente preparata a fare i conti con delle scene che la mia mente avrebbe rimosso molto volentieri. Quando qualcuno mi tirò via con forza dalle braccia del ragazzo, la sua mano mi stappò leggermente la maglietta e fece sì che si vedesse leggermente il reggiseno, persi anche l’equilibrio e caddi sulla sabbia come fossi un sacco di patate. Non sapevo se fossi più scossa da alcol, adrenalina o paura.

“Riley! Riley..” una voce familiare mi riportò alla realtà con violenza, sbattei le palpebre per mettere a fuoco e la prima cosa che vidi fu Ashton. Gli gettai le braccia al collo e lui mi strinse istintivamente a sè. Non era solo, con lui c’era qualcuno che avevo avuto l’occasione di conoscere la mattina prima.

“Portala a casa.” Il biondo si rivolse al mio fratellastro mentre  guardava il ragazzo che aveva tentato di abusare di me. Mi aveva tolta dai guai due volte nel giro di due giorni,a quel punto dovevo essere io ad avere qualcosa che non andava.
“N-no, lui..” cercai di dissuaderlo e convincerlo a non fare nulla contro quel bastardo, ma non avevo la forza di parlare per via del mio stato di leggero shock.
“A lui ci penso io.” Un ghigno quasi di goduria gli si dipinse sul volto mentre tentavo di mettere a fuoco il suo viso nonostante la pochissima luce a mia disposizione. In quel momento avrei voluto avere gli occhi di un gatto. Ashton, dal canto suo, non mi diede neanche il tempo di protestare. Mise un braccio sotto le mie ginocchia e mi sollevò di colpo, innescando in me il riflesso di mettergli le braccia al collo. Quando iniziò a camminare, il biondo si girò nuovamente e guardò il molestatore atterrato poco prima da lui. Gli disse qualcosa che non potei distinguere bene, ma da come l'altro gli si era scagliato contro dedussi che fosse un qualche tipo di provocazione. Non ce la facevo a guardare quella scena, quindi mi rannicchiai contro il petto di Ashton e caddi nel sonno.

Quando sentii la coperta avvolgermi, i miei occhi si spalancarono di botto. Mi ritrovai con la mia solita T-shirt che usavo come pigiama addosso, Ashton stava per uscire dalla stanza.

“Non te ne andare.” Dissi quelle parole sottovoce e d’istinto, probabilmente perché non ero in me.
Lui si voltò, il suo viso era indurito dalla rabbia e da qualcos’altro, ma comunque non avrebbe dato il via ad un’accesa discussione proprio in quel momento. Era stronzo solo per autodifesa, ma con me non provava più a difendersi da un po’.
Si sedette accanto a me, sul letto, senza parlare per qualche secondo. Fu la prima volta in cui desiderai davvero di non rimanere sola in camera mia, al buio. Mi misi a sedere anche io, la coperta mi scivolò sulle gambe. Lui mi accarezzò una guancia, stavolta soffermandosi di più, io mi protesi in avanti per poggiare la testa contro la sua spalla. La mano di Ash si infilò fra i miei capelli, mi sembrò che fosse fatta apposta per stare lì, o forse ero troppo andata per non fare pensieri stupidi.

“Cosa ti è saltato in mente?” la sua voce era poco più di un sussurro, ma ero abbastanza vicina da poterla sentire. Un’ondata assurda di imbarazzo mi impedì di rispondere.
“Dormi con me?” la domanda mi uscì spontanea, così come il rossore che velocemente prese possesso del mio viso.
 “Per favore.” Aggiunsi.
Lui non disse nulla, ma lo sentii sfilarsi le scarpe. A quel punto sollevai la testa e gli sorrisi, mentre lui si sfilava il beanie e lo poggiava sul mobiletto accanto al letto. Tolse anche la maglia, rimanendo con i bermuda addosso, poi mi spostai leggermente per lasciarlo accomodarsi sulla porzione di letto ancora libera. Mi rannicchiai con il viso rivolto verso di lui, tirando le coperte su entrambi. La mia mano scivolò sul materasso e per casualità incontrò la sua. Lui la strinse, la paura si stava già alleviando.
“Grazie.” Dissi debolmente.
Lui strinse di più la presa fra le mie dita, ci addormentammo così.

Bene, eccoci qui! Che dire, mi fa sempre molto piacere vedere in quanti leggete, vedere i commenti e cosa ne pensate. Questo capitolo, in qualche modo, fa incontrare i tre personaggi focali di questa storia, mentre nel prossimo penso ci sarà un vero e proprio confronto verbale, sta a voi indovinare fra chi. Spero vi sia piaciuto nonostante sia decisamente più lungo, fatemi sapere che ne pensate!

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=2823337