As I was for you di Porrima Noctuam Tacet433 (/viewuser.php?uid=177380)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Hector- Affetto ***
Capitolo 2: *** Brianna-Paura ***
Capitolo 3: *** Adolphe-Promessa ***
Capitolo 4: *** Jerome- Rabbia ***
Capitolo 5: *** Etienne de Sancerre- Fiducia ***
Capitolo 6: *** Guillaume de Ponthieau- Comprensioni ***
Capitolo 7: *** Henry De Grandpré- Difese ***
Capitolo 8: *** Kerwick-Vendetta ***
Capitolo 9: *** Filippo Augusto-Destino ***
Capitolo 10: *** William Lunga Spada- Ricordi ***
Capitolo 11: *** Henri de Bar- Amicizia ***
Capitolo 12: *** Thomas Bull- Casa ***
Capitolo 13: *** Il Leone ***
Capitolo 14: *** Harald- Padre ***
Capitolo 15: *** Beau Foxworth- Maestro ***
Capitolo 1 *** Hector- Affetto ***
Hector
Hector
non sapeva esattamente quando aveva cominciato a provare affetto per
Geoffrey
Martewall. Non era un sentimento costruito su anni di esperienze.
Hector era al
suo servizio da un tempo relativamente breve.
Ne
era rimasto colpito appena lo aveva visto. Non si era fatto molte idee
su come
sarebbe stato il figlio del barone di Dunchester. Geoffrey Martewall
era un
giovane uomo, poco più che un ragazzo. Avrebbe potuto essere suo
figlio,
probabilmente. Hector dovette ammetterlo controvoglia: in principio,
come molti
prima di lui, aveva commesso l’errore di sottovalutare il Leone di
Dunchester.
Conoscendolo
meglio, poi, aveva imparato a non farsi ingannare dal suo aspetto
giovanile. Aveva
un esperienza da veterano e lo spirito di una buona guida, oltre ad una
abilità
personale nella scrima che Hector non aveva mai visto prima. Le sue
strategie
erano vincenti, funzionali, e il suo pensiero correva sempre
all’obbiettivo di
tenere in vita i suoi uomini.
Così
si era guadagnato il suo rispetto.
L’affetto,
in realtà, non sembrava interessargli molto. Se lo guadagnava insieme
alla
fiducia, ma quasi inconsapevolmente. Le sue azioni non erano dettate
dall’opportunismo, e forse questa era la cosa che più aveva stupito
l’uomo
disilluso per molti aspetti che era
Hector.
Martewall
gli aveva riportato la speranza. Quel sentimento che si contrapponeva
al
sottile e persistente dubbio che Hector aveva sempre provato nei
confronti di
ogni feudatario o signore che aveva avuto modo di conoscere. Con
Geoffrey era
stato sicuro fin da subito, in chissà che modo, della sua integrità
morale.
Il
suo sguardo non era limpido, ma perennemente freddo e tormentato e
ricordava il
mare in tempesta. Eppure la presenza del suo forte onore risiedeva
sempre sul
suo viso, nell’espressione, nei gesti e sormontava ogni ombra sfuggente
dei
suoi occhi.
Ed
Hector capì presto, tra uno scontro armato e l’altro, che avrebbe dato
la vita
per lui e non solo per lealtà. Si sorprese a cercarlo sempre più spesso
in guerra
con lo sguardo e, dato che la fiducia che riponeva nel suo signore
sembrava
ricambiata, cominciò a seguirlo con sempre più frequenza. Diventò, di
fatto, il
braccio destro che molti signori avevano e desideravano e che Geoffrey
forse
non aveva mai avuto, né voluto.
Lo
era diventato in modo naturale, e Geoffrey glielo aveva lasciato fare.
Hector
lo capiva. Comprendeva il suo bisogno di prendere le distanze e non
forzava il
suo carattere per natura solitario con troppe e fastidiose offerte
d’aiuto.
Faceva sentire la sua presenza senza pensare che Geoffrey avesse
effettivamente
molto bisogno di lui, mettendo i suoi servigi a disposizione per
qualsiasi
ordine avesse ricevuto.
Il
giovane barone lo ricompensava con la sua totale fiducia, e la sua
accondiscendenza quando Hector dimostrava di preoccuparsi per lui. Il
fiammingo
non avrebbe potuto chiedere di più. Il suo signore odiava il pensiero
che
qualcuno prendesse tanto a cuore la sua sorte da rischiare la vita per
lui e ne
rimaneva tuttavia lusingato.
Non
era una persona semplice da servire, da capire.
Ne era consapevole lui stesso, eppure vedeva che alcune persone, Hector
per
primo, non si stancavano mai di provarci.
E
preoccuparsi per lui era spesso un compito faticoso.
Se
Geoffrey fosse stato libero da ogni legame avrebbe fatto ciò che
riteneva
giusto senza pensare alla sua vita, ma solo ai suoi obiettivi. Di
legami
vincolanti ne aveva, ma continuava a curarsi molto poco di se stesso, e
quindi
questo rimaneva un compito che gravava sui suoi uomini più fedeli.
Hector
si era accorto di non conoscere del tutto il suo signore quando lo
aveva rivisto
dopo cinque mesi, appena uscito dalle prigioni francesi dei Soissons.
Osservando
il suo comportamento nei giorni seguenti aveva capito che c’erano
ancora troppe
ferite che il suo animo indomito tentava di sanare ogni giorno, troppa
voglia
di liberarsi da qualcosa. Prima erano i francesi, poi la morte di una
persona
cara, poi il disonore, della sua persona e di quella del suo amico
morto
raggirando i principi della cavalleria.
Questo
addolorava Hector, il fatto che il suo signore non riuscisse a darsi
pace.
Ma
allo stesso tempo, non importava, perché non avrebbe mai disobbedito a
nessuno
dei suoi ordini, mai, così come non
avrebbe mai incolpato il suo signore per le sue azioni, sapendo che non
avrebbe
sopportato tutta questa indulgenza, ma anche che, presto o tardi,
avrebbe
rimediato ad ogni errore commesso.
Aveva
fiducia in lui, semplicemente, così come l’aveva sempre avuta.
Sapeva
che avrebbe riavuto indietro il Geoffrey Martewall che non era schiavo
della
sua rabbia, e che sapeva distinguere la voglia di vendetta dalla sete
di
giustizia.
*
Lo
trovò sulla cinta muraria, i gomiti
poggiati al parapetto e lo sguardo rivolto verso il bosco, con le sue
chiome
che sfioravano il cielo grigio striato d’arancio di un tramonto che
prometteva
pioggia. Aveva il solito portamento fiero e ombroso di quei giorni, di
un leone
ferito ma imbattuto e più forte nella sua sofferenza.
Hector
indugiò per un istante, prima di avvicinarsi e decidere di distoglierlo
dai
suoi pensieri. Lo vide voltare appena il capo al suono dei suoi passi e
lo
interpretò come un muto invito a parlare.
«
Signore, perdonatemi, la vostra presenza è richiesta nella Sala Grande
da sir
Fitz Walter e sir Cornhill, oltre che da lord Salisbury. » pronunciò
l’ultimo
nome con un filo d’incertezza. Sapeva che il suo signore non riusciva
ancora a
non ritenerlo almeno in parte responsabile per la morte di suo padre.
Tutto
quell’astio derivava dal fatto che Geoffrey pensava ancora al giorno
della
presa di Dunchester. Non aveva rifiutato con tutte le sue forze di
andare in
Francia come ostaggio, pensando di fare la cosa giusta. Ed Hector
sapeva che
era stata la cosa giusta da fare, ma sapeva anche che il suo signore si
sarebbe
rimproverato sempre di non essere stato presente per combattere per la
vita del
padre.
Geoffrey
poggiò i palmi sul muretto di pietra, raddrizzando la schiena.
«
Grazie, Hector. » si voltò verso di lui e lo trapassò con il suo
chiarissimo
sguardo di ghiaccio, freddo e penetrante.
Hector
poteva avere un’idea vaga di ciò che gli passava per la testa, questa
volta.
Non si era ancora del tutto ripreso dalle ferite che i mercenari di re
Giovanni
gli avevano lasciato come punizione per aver aiutato il suo signore a
fuggire.
A pensarci bene, era stato fortunato. Se il castello fosse stato solo
in mano
loro, probabilmente lo avrebbero ucciso.
Geoffrey
si accertava della sua buona salute ogni volta che lo guardava, e nei
suoi
occhi passava una rabbia a stento sopita, che aspettava solo
l’occasione giusta
per essere scatenata contro i suoi nemici. Hector non avrebbe mai
voluto essere
nei loro panni, pensava con un ghigno amaro.
Re
Giovanni probabilmente non aveva idea di ciò che aveva liberato.
Il
giovane barone non era ancora riuscito a districarsi dai suoi pensieri,
forse
perché in fondo non voleva farlo. Hector lo vide incrociare le braccia
al petto
e poggiare la schiena al muretto, e pensò di ricordargli che lo stavano
davvero
attendendo, nonostante non sapesse esattamente quanto questo potesse
importargli.
«
Signore… »
«
Mi dispiace, Hector… » disse Geoffrey, guardandolo negli occhi con
decisione e
una punta di sincera preoccupazione « Mi dispiace per ciò che hai
dovuto
subire.» e accennò alle fasciature che spuntavano da sotto la tunica di
Hector,
tetro.
«È
stato un onore farlo per voi, mio signore. » rispose il luogotenente,
con
orgoglio, dopo un breve istante di piacevole sorpresa.
Lo
sguardo di Geoffrey si incupì.
«
Da domani, saremo in guerra. » disse, osservando il borgo sotto di lui.
«Personalmente,
non aspetto altro. » aggiunse, con occhi fiammeggianti di sfida. « Ma
gli
uomini che ho portato qui dalla Fiandra hanno già sofferto molto per
una terra
che non è la loro. Se voleste tornare a casa vostra, non vi biasimerei,
né ve
lo impedirei. »
Hector
rimase immobile dallo stupore. Non che fosse strano, per Geoffrey
Martewall,
fare un discorso del genere, il fatto era che al suo luogotenente non
era mai
passata per la mente quell’idea.
Tornare
in Fiandra…
«
Significherebbe smettere di servirvi, signore. Nessuno di noi desidera
questo.
» affermò, quasi di slancio. Se Geoffrey, nello stato d’animo in cui si
trovava, gli avesse ordinato di
tornare in Fiandra, lui cosa avrebbe fatto?
Il
giovane lo osservò in tralice per un momento.
«
La vostra guerra è anche la nostra. Non importa il nostro paese
d’origine. »
aggiunse Hector, deciso a fargli entrare il concetto in testa una volta
per
tutte.
Il
barone parve riflettere sulle sue parole e una miriade di pensieri
indefinibili
attraversarono le iridi grigio acciaio.
«
Credo di aver conosciuto un’altra persona come te, Hector. Lui ha
riposto la
sua fiducia e la sua fedeltà in una causa e in un signore, ed è
diventato ciò
che serviva a quel signore, abbandonando il suo paese natale e facendo
sua la
guerra della persona a cui era rimasto fedele. »
Hector
ascoltava in silenzio, colpito. Il viso di Geoffrey non tradiva ombre
di
rimpianto. Il fiammingo cercò qualcosa da dire, ma si ricordò che col
suo
signore molto spesso le parole non servivano.
«
Capite, quindi, i motivi che mi spingono a rimanere in Inghilterra. »
disse,
comunque, tastando il terreno.
Non
era certo che il suo signore capisse veramente cosa i suoi uomini
vedevano in
lui. Una guida, un faro sempre acceso, mentre lui credeva di portare
solo ombra
sul suo cammino.
Infatti,
dopo qualche secondo Geoffrey scosse appena la testa.
«
Ma capisco di essere fortunato. »
Hector
ghignò, rassegnato. Non era questione di fortuna. Ma ciò che voleva
dire
Geoffrey gli si rivelò comunque, anche se il modo in cui il concetto
era stato
espresso era grossolano e molto vago.
Goffrey
emise un mezzo sospiro e si diresse con passo deciso verso le scale,
facendo
segno col mento ad Hector di seguirlo.
Hector
non si fece attendere e si incamminò dietro di lui alla vista di quel
gesto
impercettibile, come aveva fatto molte volte in passato e come avrebbe
fatto
ancora in futuro.
*
Hector
non aveva mai visto Reginald Cornhill e Robert Fitz Walter. A Bouvines
non
c’erano, si erano recati al Sud per fronteggiare Luigi il Delfino,
principe di
Francia.
Erano
seduti sugli sgabelli che i famigli usavano nel refettorio, disposti
intorno al
tavolo lungo di legno scuro. Avrebbero potuto scegliere una
sistemazione più comoda,
ma evidentemente non era il loro principale interesse, al momento, e
poi
dovevano essere stati costretti ad attendere il padrone di casa, che
avrebbe
dovuto invitarli a sedere sugli scranni più comodi riservati ai
cavalieri del
castello e al barone di Dunchester.
Ma
quando arrivò Geoffrey Martewall non fece nulla di tutto ciò. Si limitò
ad
osservarli, in un primo momento, riservando uno sguardo appena più
lungo a
Salisbury, che come gli altri si era alzato per stringergli la mano.
Reginald
Cornhill era un uomo navigato, così come Fitz Walter. Al contrario suo,
però,
aveva i capelli grigio topo molto corti e gli occhi scuri caldi e
rassicuranti.
Fitz
Walter invece portava i capelli neri più lunghi, anche se anche a lui
li
avevano tagliati quando lo avevano fatto prigioniero in Francia, dopo
la
disfatta. I suoi occhi erano di un verde chiaro e inflessibile.
Sembrava conoscere personalmente Geoffrey, perché lo
chiamò per nome e sembrò sinceramente felice di vederlo, anche se i
suoi occhi,
come quelli di Cornhill, tradivano una punta di imbarazzo e
preoccupazione.
Hector non ne fu stupito. Non si sapeva mai cosa dire quando ci si
trovava
davanti ad una persona in lutto.
Nella
stanza aleggiava un’atmosfera tesa, come se nessuno volesse davvero
trovarsi in
quel posto, al cospetto del signore di Dunchester che ancora faticava a
ritenersi tale, e con la consapevolezza che si sarebbe potuto evitare
il peggio
se avessero agito prima.
Nessuno
dei due baroni voleva davvero guardare in faccia Geoffrey. Eppure lo
fecero
ugualmente.
Non
fu Fitz Walter a prendere per primo la parola, né Salisbury. Il primo
osservava
Geoffrey e poi lo scranno che era stato di sir Harald, in tralice e con
una
silente e malcelata sofferenza.
«
Sir Geoffrey, ci fate aspettare come al solito, ma è sempre un grande
piacere
incontrarvi. » scherzò Reginald Cornhill, con l’intento di mettere a
suo agio
Geoffrey e sciogliere la tensione, come sembrava abituato a fare ormai
da
tempo.
Ma
Geoffrey era perfettamente a suo
agio. E non aveva voglia di scherzare. Lui non aveva mai
voglia di scherzare.
Trapassò
il cavaliere più anziano con uno sguardo di ghiaccio.
«
Scusatemi se vi ho fatto attendere, signori. Non mi biasimerete, ne
sono certo.
Mio padre vi ha atteso a lungo, e invano. »
La
sua affermazione cadde come acqua gelata sulla sala. Cornhill guardò in
basso
con un’espressione sinceramente mortificata. Era piuttosto strano
vedere un barone
più anziano chinare il capo davanti ad uno più giovane, ma Hector non
se ne
stupì più di tanto. Geoffrey incuteva sempre una certa soggezione.
Fitz
Walter chiuse gli occhi per un breve istante. Lunga Spada invece non
parve
stupito, né abbandonò l’espressione calma e decisa.
«
Conservate la vostra rabbia per Giovanni, sir Martewal. Vi servirà,
credetemi. »
Gli
occhi del giovane balenarono nella sua direzione con una luce
pericolosa nello
sguardo. Hector immaginava che non volesse sentirsi dare ordini da lui,
non
più, anche se non poteva evitarlo. Né tanto meno voleva accettare
consigli.
«Lo
farò. » disse, sedendosi e accavallando le gambe, con la voce vibrante
di
rabbia tenuta a freno. «E quando con lui avremo finito, con un po’ di
fortuna
me ne avanzerà abbastanza per voi.»
Hector
impallidì. Cosa gli passava per la testa, dannazione?! Rispondere così,
a
William Lunga Spada…
Il
fiammingo serrò i denti e si irrigidì mentre una sottile paura si
impossessava
di lui. Osservò il suo signore, per incrociarne lo sguardo e tentare di
ammonirlo, ma lui non lo stava affatto guardando e non c’era traccia di
indecisione o preoccupazione sul suo viso.
Lunga
Spada sospirò e per un attimo Hector vide il rammarico nei suoi occhi e
nella
piega delle labbra. Ringraziò il Cielo che fosse un uomo ragionevole.
«
Non è il momento giusto per le minacce, questo, sir Geoffrey Martewall»
disse,
dopo qualche lungo istante di silenzio, guardando deciso il volto del
giovane.
Forse l’istinto gli aveva fatto capire che arrivare subito al punto
della
questione, evitando di attraversare argomenti inerenti la morte di sir
Harald,
fosse la cosa migliore da fare.
«
Avete solo alleati fedeli, in questa sala. »
Geoffrey
parve irrigidirsi appena e Hector sapeva che si stava trattenendo dal
rispondere in un modo poco adatto. Il suo signore sapeva sopire i suoi
istinti,
soprattutto quando aveva un obiettivo ben preciso da raggiungere.
«
Spero solo che non siano solo parole, a questo punto. » si limitò a
dire, con
la consueta asciuttezza.
«
Non lo saranno. » affermò Fitz Walter, la voce profonda e lo sguardo
infuocato.
Hector non fece fatica a riconoscere in lui il carisma sicuro, fiero e altero di una guida esperta. Di un futuro
capo dei baroni ribelli, pronto a portare il peso di una condanna di
tradimento
per primo.
E
si rese conto in quel momento che anche Geoffey Martewall, ormai da
tempo, era
pronto a portare quel peso, ad essere chiamato traditore per una giusta
causa,
per salvare il suo popolo, e anche per vendetta, forse, perché non
riusciva del
tutto a sopire la rabbia, ma
soprattutto…per essere dalla parte giusta. Come avrebbe voluto sir
Harald.
Nella
mente del fiammingo riaffiorarono le ultime parole che sir Harald aveva
rivolto
al figlio.
Sei
un cavaliere e un uomo
d’onore, non metterlo mai più in dubbio.
Geoffrey
si stava sforzando di adempiere al suo volere fino in fondo e per
sempre.
«
Vi avremo completamente dalla nostra parte, senza alcun tipo di
rancore, Sir
Martewall?» chiese Lunga Spada, incrociando le dita in grembo con lo
sguardo
attento e sicuro di chi si aspetta già la risposta che desidera.
«
Morirei piuttosto che negare alla mia gente la prospettiva di un futuro
migliore, milord. E voglio vendetta per mio padre e
per ciò che il Senza Terra ha fatto a
Dunchester, non posso negarlo. Aiuterò con tutte le mie forze l’uomo
che mi
aiutato a riconquistare la mia casa. » affermò Geoffrey, con la ferrea
determinazione di un uomo che aveva un nuovo ideale, uno scopo, una
nuova
guerra da combattere in nome della giustizia e per un futuro migliore,
come non
accadeva da troppo tempo, ormai.
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Capitolo 2 *** Brianna-Paura ***
Brianna
Esisteva
quel genere di paura che si macchiava di disgusto. Brianna lo sapeva da
sempre.
Le persone capaci solo di farsi temere la disgustavano, anche se non
era immune
alla paura che portavano come un animale in una gabbia, non aspettando
altro
che liberarla e scatenarla contro le prede più inermi.
Brianna
provò una sorta di sottile ma agghiacciante paura quando vide il
barone Adolphe de Gant. E quando seppe cosa aveva cercato di fare. Ma
provò
anche disgusto. Si armò del suo coraggio e del suo orgoglio per
continuare a
fare ciò che faceva ogni giorno, anche se la paura era sempre lì, in
attesa di
un minimo cedimento.
*
Lo aveva visto
dalle finestre e non aveva capito subito perché la paura l’avesse
attaccata a
tradimento, così all’improvviso. Poi la verità le si era rivelata in un
modo
così evidente che Brianna non aveva potuto continuare ad ignorarla.
Lei non aveva
paura
per se stessa. Forse non era più stato così da quando aveva dato alla
luce
Beau.
Eppure questa
volta
non era il suo bambino, che non correva alcun rischio, a preoccuparla.
E,
sebbene fosse la persona più coinvolta, nemmeno Jean Marc de Ponthieu
era al
centro dei suoi pensieri.
C’era qualcosa
che
accantonava tutto il resto nella sua mente,
qualcosa che prescindeva dalla razionalità.
Qualcosa… o qualcuno.
*
Per Brianna,
avere
paura per Geoffrey Martewall era
terribile. Le lasciava il cuore gonfio della rabbia comune agli
impotenti.
Il Leone era
sfuggente, indomabile, e Brianna sapeva di non poter fare nulla per
impedirgli
di correre i rischi che si ostinava a ricercare.
Si pentì subito
del
pensiero, ritenendolo ingiusto. Sir Geoffrey si era messo contro Gant
per
salvare un amico e per quanto riguardava la guerra, stava facendo ciò
che era
giusto, assumendo con coraggio una posizione pericolosa. Brianna lo
sapeva ma
non smetteva mai di provare paura. Fin dove si sarebbe spinta la rabbia
del
crociato? Il suo odio era evidente quanto l’impotenza di una donna come
lei.
*
« Madonna »
salutò
Gant con scherno, inchinandosi leggermente. « I miei rispetti. Come
procede la
gravidanza di dama Isabeau? »
Brianna percepì
la
sua ira, che cercava di sopire infastidendo proprio lei. Il suo tono la
fece
arrossire di rabbia.
« Non è quello
che
vorreste sentirvi dire, ma procede molto bene. » rispose, sentendo la
paura
scivolarle addosso, rintanarsi in un luogo buio del suo animo,
lasciando posto
ad un orgoglio testardo.
Gant contrasse
la
mascella, fuori di sé. Si avvicinò di un passo.
« State più
attenta
a ciò che insinuate, madame. Di insinuazioni disonorevoli se ne fanno
molte anche
sul vostro conto. » sibilò. Le iridi volarono in fondo al cortile, dove
Geoffrey Martewall era appena arrivato.
Brianna
rabbrividì
e sentì qualcosa spezzarsi dentro di lei.
Gant le aveva
aperto gli occhi in un istante su qualcosa che aveva dimenticato per un
attimo,
nell’arroganza delle sue fantasie.
« Siate gentile.
»
continuò Gant, mellifluo. « Nessuno di noi vuole che sir Martewall
rischi più
di quanto già non faccia. »
Brianna si morse
le
labbra con rabbia crescente.
« Siete
ignobile. »
mormorò tra i denti.
Per tutta
risposta
lei ricevette un sorriso ammaliatore e Martewall, che si stava
avvicinando a
grandi passi, un saluto beffardo.
*
« Cosa vi ha
detto?
» chiese Martewall, bruscamente, senza neanche salutare.
Brianna non si
sarebbe offesa per i modi poco formali che il cavaliere sembrava
pensare di
potersi permettere con lei, tenendo conto della situazione e delle
circostanze,
e naturalmente perché era una persona semplice. Ma per qualche strano
motivo si
sentì irritata dal comportamento di Geoffrey.
Forse proprio
perché era Geoffrey.
« Nulla. »
rispose,
secca, sistemandosi in braccio il cesto che doveva portare alla sua
dama e
facendo per andarsene.
Martewall la
trattenne con un’urgenza che sembrava quasi ansiosa, stupito, nel
contempo, dal
suo tono gelido.
« Ditemelo. »
ordinò, freddamente.
« Ho detto
nulla.
»Brianna doveva ammetterlo, ci stava prendendo gusto a fare i capricci,
a fare
la preziosa. Sapeva che non era il momento di scherzare, ma questa era
la sua
piccola vendetta per come Geoffrey l’aveva trattata poco prima.
Perché se l’era
presa tanto per qualcosa di così stupido, poi?
Ma voleva
davvero
rispondersi?
In fondo, non
poteva provare un genuino divertimento. Aveva provato a nasconderlo, a
fare
come se niente fosse, ma le parole di Gant le risuonavano nelle
orecchie e il
suo corpo veniva lentamente invaso da un’opprimente senso di
disperazione.
Posò il cesto a
terra, sentendosi per un attimo pazza e
troppo soggetta a frequenti cambiamenti d’umore.
Aveva solo
voglia
di buttare fuori tutto ciò che pensava. Di tener testa ancora una volta
all’impotenza che la perseguitava.
Geoffrey parve
intuire i suoi pensieri uno ad uno e la osservò preoccupato mentre gli
occhi di
lei si inumidivano diventando allo stesso tempo più duri e severi.
« Se vi ha dett…
»
« Smettetela di
pensare a cosa mi ha detto. » sbottò Brianna, prendendogli un polso,
dimenticando
la sua posizione, il rispetto distaccato che doveva ad un nobile,
dimenticandosi chi era e di restare al suo posto di comune popolana.
« Ascoltate cosa
ho
da dirvi io. » non lo guardò negli occhi ma sapeva comunque che lo
sguardo di
Geoffrey era stupito come poche altre volte. « State attento… »
« Io… » tentò di
intervenire, tentennante, Geoffrey, venendo subito interrotto.
« Non intendo
solo
con Gant. State attento in guerra. State attento e non… »
Morite, avrebbe voluto
continuare, ma non riuscì a pronunciare quella parola. Aveva trattenuto
tutti i
suoi sentimenti per così tanto tempo, e li aveva, nonostante questo,
compresi
così poco, fino a quel momento.
Geoffrey fece
scivolare il polso e le strinse una mano. Brianna strinse a sua volta
la presa
e lo osservò mentre annuiva.
*
Brianna non
rimpianse quella mancata promessa. Già qualcun altro le aveva promesso
che
sarebbe tornato e non l’aveva fatto. La guerra era troppo
imprevedibile, e la
donna sapeva che Geoffrey avrebbe dato tutto se stesso e avrebbe
combattuto
fino al limite delle sue forze.
Non poteva
cambiarlo.
Non voleva,
anche.
Entrambi lo
sapevano.
Ma avrebbe usato
quella
stessa tenacia per accontentarla e per restare vivo, Brianna ne era
certa,
anche se non sapeva quanto la sua richiesta, o forse la sua persona,
potesse
essere importante per lui. Nel silenzio
triste ma fiero di un amore non dichiarato, lei
avrebbe combattuto a sua volta per dominare la paura.
n.d.a.
Eccomi
di ritorno!
E questa volta è il turno di Brianna. Potevo forse ignorarla? Sì,
potevo, per
tanto tempo l’ho fatto, poveretta. Devo
dirlo, per rendere più stuzzicante questa sfida con me stessa, avevo
deciso di
estrarre un prompt per questo personaggio.
Che idea pessima... nemmeno fosse un personaggio semplice...
Comunque, prima di avere un improvviso barlume di ispirazione, ero un
po'
tentata di non seguire il prompt "paura", anche se difficilmente
ritorno sui miei passi. Solo che non riuscivo a farmi venire in mente
qualcosa.
Per questo spero che vi piaccia! Fatemi sapere sinceramente quel che ne
pensate,
se ne avete voglia, perché io non sono così convinta... : /In più non
sono
molto brava nel descrivere l’amore, infatti non so perché l’ho fatto :
)
Per il prossimo capitolo non so quanto ci vorrà, mi spiace. Potrebbe
essere due
giorni come una settimana. La scuola sta già cominciando ad occupare
tempo.
Grazie a Wrong and Right, che è una grande fan di Geoffrey come me e
che ha
recensito quando mi sono calata nei panni del povero Hector!
Ciao!
|
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Capitolo 3 *** Adolphe-Promessa ***
Adolphe
Il barone Adolphe de Gant osservava dalla
postierla della
torre l’uomo che aveva ricevuto le lodi dalla corte per aver salvato la
preziosa vita del Falco d’Argento.
L’inglese venuto come messaggero e condottiero per
conto del
principe.
Il leone di Dunchester di cui tanto si narrava,
l’uomo dalle
stupefacenti abilità di spadaccino.
Gant sentì la rabbia salirgli alla gola alla vista
di un
nuovo, e forse più pericoloso, ostacolo ai suoi piani. Strinse i pugni
fin
quasi a farsi male, pur mantenendo quel filo di lucidità necessaria per
pensare
che nessuno poteva sopravvivere a tutto.
Non appena lo aveva visto, aveva capito che il
Falco era
tutt’altro che indifeso. Alle sue spalle aveva dei difensori, e tra
questi
Geoffrey Martewall era forse il più prezioso. Più lucido di Sancerre,
più
esperto di Henry de Grandpré, più spietato di De Bar. Sarebbe
stato un alleato stupendo. E se avesse
avuto tempo, se lo avesse conosciuto in
altri tempi e in altre circostanze, senza avere il Falco tra i piedi,
Gant avrebbe
provato a creare una sorta di alleanza tra loro, perché vedeva
chiaramente le
ombre del suo sguardo, completamente estranee al suo amico Jean de
Ponthieau, e
aveva la presunzione di riuscire a comprenderle.
Non era poi così diverso dall’amico Jerome
Derangale, di cui
tanto si era sentito parlare.
Perché decisamente,
Geoffrey Martewall non sarebbe mai stato
simile a Jean de Ponthieau. Troppa rabbia dimorava in lui, troppa
voglia di
vendetta. Sarebbe stato sempre lontano dalla vita di Jean e della sua
cerchia
di allegri amici feudatari.
Solo dopo, quando lo aveva osservato con più
attenzione,
aveva capito che ne era perfettamente consapevole. E che quella
distanza veniva
continuamente annullata da Jean, lasciandolo ancora leggermente
spaesato, ma
fiero.
E quando gli aveva parlato aveva capito che nulla
avrebbe
potuto plasmare a suo piacere una mente così testarda e solitaria. Non
avrebbe
mai tradito il Falco.
Questo lo avrebbe reso automaticamente una persona
da
eliminare, se non fosse stato costretto a partire per la prossima alba.
Gant lo
aveva incontrato la sera prima, e il suo sguardo si era incendiato
d’odio. Per
poche altre persone il suo odio si era mescolato al timore.
« Voi tornate alla vostra guerra, Martewall» gli
aveva
detto, sibilante « io tornerò alla mia. »
Martewall gli si era avvicinato e aveva incrociato
le
braccia al petto. Gant continuava a vedere ombre nuove nei suoi occhi,
ognuna
con un diverso significato, ma aveva la sensazione che qualcosa gli
sfuggisse
sempre.
« Non tornerete alla vostra guerra. Non l’avete
mai
lasciata. »
E se ne voleva andare così com’era arrivato, con
la fierezza
di un Leone. Dal suo sguardo Gant aveva capito che era consapevole del
suo
essere diverso e pericoloso, e lo era con un misto di sottile e
abituale
rimorso e determinazione. Se il crociato avesse fatto qualcosa al
Falco, il
Leone sarebbe arrivato come la personificazione della vendetta spesso
biasimata,
senza alcun rimpianto. Gant aveva provato l’impulso di tirare fuori il
pugnale
e ucciderlo lì, di osservare il suo sangue bagnare il pavimento e la
sua bocca
aprirsi in uno spasimo agonizzante.
Martewall aveva voltato appena il capo verso di
lui con un
sorrisetto divertito. Sapeva anche questo.
« Dovete sentirvi molto solo, sir. » gli aveva
sputato
addosso Gant, con una calma solo apparente.
Martewall aveva fermato il suo passo ma non si era
voltato.
« Se così non fosse, allora guardatevi le spalle.
Perché
avete qualcosa da perdere. » lo aveva minacciato Gant, sorridendo
sardonico.
Martewall gli aveva rivolto un’occhiata glaciale e
non aveva
risposto, lasciandolo solo nell’ingresso, allontanandosi col passo
calmo dei
vincitori. Allora Gant aveva sentito il presentimento della morte
imminente,
che aveva scacciato subito con rabbia.
Martewall pensava che lasciarlo nelle mani di Jean
avrebbe
segnato la sua fine come uomo d’onore. Ma non sarebbe stato così.
E Gant, osservando il barone inglese montare a
cavallo e
prepararsi alla partenza in compagnia del Falco, decise che doveva
rimanere
vivo almeno fino a che non lo avesse visto trionfare su Jean Marc de
Ponthieau.
*
Il cielo pareva terso, coperto dal fumo che saliva
a coprire
l’intero villaggio. Le case bruciavano e il rumore sfrigolante del
legno
logorato creava un dolce sottofondo per le orecchie del barone di Gant,
riempite di urla e pianti disperati.
Il barone sorrise apertamente al cielo e al fuoco,
prima di
darsi alla fuga.
Quando aveva capito che sarebbe stato Geoffrey
Martewall ad
ostacolarlo non era rimasto stupito. Ma aveva sentito lo stesso
presentimento
di quando aveva visto la schiena del cavaliere allontanarsi da lui,
come per
lasciarlo al suo destino già segnato.
Aveva stretto i pugni con rabbia accecante. Lui
non era la
preda, era il cacciatore.
Lo era da sempre.
E lo aveva dimostrato prima di aprirsi una via di
fuga
attraverso il villaggio, incendiando le case che gli sarebbero servite
da
diversivo. Solo uno stupido non avrebbe
capito che le parti non si erano mai invertite. Ora lui stava
scappando, era
vero, ma Geoffrey Martewall era già caduto nella sua trappola. Così
come il
Falco d’Argento.
Sorrise, gli occhi sporgenti per la soddisfazione.
Ora cosa farai, Geoffrey Martewall? ,
pensò, con sarcasmo ed eccitazione, riuscirai
a salvare quelle povere famiglie date alle fiamme o rinuncerai per
seguirmi?
Spronò il cavallo, sapendo, con lucidità, di avere
comunque
poco tempo. Il cavaliere inglese di certo non avrebbe lasciato bruciare
quelle
persone, o sene sarebbe pentito per la sua intera esistenza, ma poteva
comunque
contare sui suoi uomini. E Gant lo sentiva sulla pelle: presto sarebbe
stato
vicino.
Ma sapeva anche che Martewall non aveva la sua
volontà, né
la sua capacità, di sfuggire al pericolo. La sua lealtà verso gli amici
gli
sarebbe stata presto fatale.
Voltò il capo all’indietro e lo vide. Cavalcava
con abilità
magistrale e lasciava cadaveri e sangue dietro di sé. Gant ebbe un
improvviso
tuffo al cuore e il respiro gli mancò per un istante.
La morte lo seguiva.
*
Non avrebbe mai pensato che sarebbe andata a
finire così.
Si era sempre immaginato vincitore di ogni
battaglia. Niente
gli aveva mai dato motivo di temere il contrario.
Ora invece riusciva quasi ad immaginare il suo
corpo morente
visto dall’esterno mentre il suo orgoglio andava in pezzi. Riusciva a
vedere la
sua disfatta, e non sentiva rimorso.
Solo rimpianto, per non aver ucciso il Falco e la sua mente non si
arrendeva
all’idea della morte.
Anche se era chiaro persino a lui. Sarebbe finita
entro
pochi istanti.
Non gli importava dell’onore, ma del suo orgoglio
sì. Ed
adesso moriva miseramente, trafitto dalla freccia di un inetto. Il
mantello
nero di Martewall gli invase i pensieri.
E tutte le promesse che aveva fatto a se stesso
parvero
sfaldarsi davanti ai suoi occhi. Il Leone non avrebbe mai pianto la
morte del
Falco, non per mano sua.
Ehm…
*si gratta la testa imbarazzata*…
Salve!
Lo so, non è un granché, soprattutto la prima
parte. Ed è inverosimile che Gant abbia parlato con Geoffrey prima che
questo
partisse. Però… però mi sono comunque affezionata a questa fic, e
vorrei sapere
cosa ne pensate voi. Inoltre ho capito che non la potevo allungare, né
cambiare.
Nonostante sia corta e non particolarmente entusiasmante, volevo
pubblicarla e
sentire le vostre opinioni.
Sono
contenta di aver avuto il tempo di scrivere, questa
settimana! Ora, la raccolta, secondo l’idea originale, sarebbe finita
qui. Però
non so… potrebbe anche venirmi voglia di scrivere da altri punti di
vista,
anche se non sarà così semplice, considerando il fattore “tempo” prima
di
tutto, e poi anche l’ispirazione. Ho una gran voglia di scrivere di
Jerome, ma
è un’idea ancora da definire.
Grazie
infinite anche a chi legge solamente.
|
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Capitolo 4 *** Jerome- Rabbia ***
Jerome Derangale
Rabbia
La prima volta che lo aveva visto, erano entrambi
solo dei
bambini. Geoffrey, però, gli era sembrato più grande, forse più
consapevole di
ciò che lo circondava. I tempi delle favole, per lui, erano finiti da
un pezzo,
chissà quando e in che modo.
Fu la sua solitudine ad attirarlo. Jerome gli si
era
avvicinato più per curiosità che per solidarietà, col solito sorriso
sfrontato
dipinto sul volto. Non era ancora capace di leggere tra le righe i
segnali che
gli intimavano di andarsene e lasciarlo solo. Solo dopo qualche istante
capì di
non essere desiderato, cosa che lo incitò a non desistere. Geoffrey era
intento
a immergere la punta del suo bastone nel fango del fiume, appollaiato
sulla
roccia come un leoncino pronto a balzare via.
E forse Jerome avrebbe preferito che scappasse
davvero.
Detestava sentirsi ignorato e comprese presto che
con
Geoffrey tenere il muso o lanciare frecciatine fastidiose non sarebbe
servito a
nulla.
Dopo solo molto tempo si ritrovò a sbuffare,
incrociare le
braccia al petto e lasciarsi cadere seduto sull’erba, con la schiena
poggiata
alla pietra su cui l’altro bambino era seduto.
Non aveva intenzione di arrendersi. Doveva solo
pensare a un
altro modo per vincere quella battaglia silente. Non aveva mai dovuto
combattere tanto. Di solito le altre persone assecondavano i suoi
capricci,
soddisfacevano i suoi desideri. E lui chiedeva sempre di più e
pretendeva
sempre di più, forse inconsciamente, per capire fino a che punto le
persone
sarebbero state disposte ad accontentarlo in ogni occasione.
Ripensandoci in
quel momento, si sentiva diviso tra la rabbia verso il bambino che lo
ignorava
e un senso opprimente di insoddisfazione.
Sbarrò appena gli occhi al suono di qualcosa che
cadeva
nell’acqua e si sporse per vedere l’altro bambino correre verso alcuni
cespugli
con l’acqua che gli arrivava ai polpacci.
Jerome osservò verso il borgo del castello di suo
padre, per
osservare il feudatario che salutava i numerosi ospiti e che lo cercava
con uno
sguardo nervoso.
Sparì anche lui alla vista nella direzione in cui
la vittima
ancora ignara della sua noia era scappato.
Di certo, Geoffrey Martewall era stata la sua
conquista più
sofferta.
Era stato l’unica persona che non aveva ceduto ad
un suo
capriccio, che gli aveva fatto capire il valore autentico di qualcosa
guadagnato con fatica. La loro era sembrata di più una vittoria
condivisa,
oppure qualcosa di ancora diverso, una semplice piega degli eventi che
era
andata a finire nel modo migliore.
Per una volta, Jerome non aveva pensato alla
vittoria o alla
sconfitta.
Eppure si era sentito lo stesso orgoglioso, e la
sottile insoddisfazione
costante che si portava dentro ogni giorno e che lo faceva diventare
più
scorbutico, aggressivo e vendicativo era accantonata in un angolo del
suo
essere.
Geoffrey Martewall gli aveva insegnato la fatica e
il
sacrificio, in un modo diverso da quello con cui si addestravano i
futuri
cavalieri. Anche se sarebbe rimasto per sempre l’unico ad averlo
capito.
*
Jerome non vedeva l’ora di vantarsi, lasciandosi
ovviamente
il tempo per respirare l’aria trionfante che aleggiava intorno a lui
insieme
alle lodi del pubblico e dei cavalieri suoi pari. Ma l’idillio della
vittoria
non bastò a non fargli notare che Geoffrey non si trovava più accanto a
lui.
D’improvviso le lodi suonarono false, almeno in parte, o forse
incomplete, o
forse immeritate, in una confusione di sensazioni che non riuscì a
definire.
Jerome sentì l’irritazione attanagliargli lo stomaco. Sì, forse si
sentiva
semplicemente irritato. Impietrito dalla rabbia, individuò il mantello
di Geoffrey
svolazzare e rimpicciolirsi mano a mano che si allontanava sul suo
cavallo.
Trattenne un’imprecazione a denti stretti e lo
raggiunse in
fretta, senza neanche salutare nessuno.
«Dove pensi di andare, così senza dire niente? Io
stavo
ancora parlando!» gli abbaiò contro, arrabbiato. Geoffrey non lo
interruppe
quando ricominciò a far valere le sue ragioni con ostinazione e con una
certa
arroganza innata. Non lo interrompeva mai, ma non era neanche un
ascoltatore
passivo. Si limitava ad osservarlo in silenzio, e solo dopo che lui
aveva
finito di sbraitare metteva fine alla discussione con una frase che non
lasciava spazio a repliche o resistenze. Non aveva mai cercato di
convincerlo a
fare nulla, o a pensare nulla. Non direttamente.
Anche se alla fine il risultato era proprio
quello.
Lui spiegava i fatti per come erano e Jerome
doveva
accantonare la sua testardaggine e capire che aveva torto, perché lo
riteneva
capace di farlo.
Non gli avrebbe mai chiesto di ammetterlo,
ovviamente.
Ma a suo modo, era una dimostrazione di fiducia
assoluta.
Nessuno aveva mai pensato di poter domare Jerome con la fiducia.
Nessuno aveva
mai pensato di non dovergli imporre qualcosa per fargliela fare.
Solo che Jerome non sapeva ancora se doveva
sentirsi
sconfitto, solamente infastidito, oppure qualcos’altro… qualcosa di più
piacevole.
« Queste sono cose da te. » disse semplicemente
Geoffrey,
indicando il piccolo capannello di scudieri e giovani cavalieri che
ancora li
guardava da lontano. « A me non interessano. »
Jerome rimase per un momento colto di sorpresa.
Poi, come
spesso succedeva, la rabbia prese il sopravvento.
« Vattene pure, allora!» quasi gli urlò contro,
mollando con
violenza le redini del cavallo che aveva afferrato solo qualche momento
prima «
Troverò ovunque compagni migliori! »
E gli voltò le spalle con una rabbia che provava
sempre più
di frequente, una rabbia nuova, diversa, che gli lasciava un senso di
vuoto e
un’insoddisfazione che odiava e che aveva il sapore amaro della
delusione,
invece che riempirlo di forza e d’arroganza.
Geoffrey non aggiunse una parola ma Jerome fu
quasi certo di
averlo visto fare un respiro appena un po’ più lungo. Percepì
i suoi movimenti mentre se ne andava,
lasciandolo solo ma in compagnia di molti nuovi amici con cui avrebbe
potuto
vantarsi delle sue doti e delle sue vittorie.
Non tornò da loro, anche se non sapeva neanche lui
il motivo
di quella scelta. Tutto il suo buon umore era scemato in un istante,
però
mentre se ne andava per una via secondaria, senza una meta precisa,
sentì
comunque, e per la prima volta, l’insoddisfazione che comportava un
sacrificio.
Geoffrey Martewall gli aveva insegnato la
rinuncia.
*
Geoffrey non faceva altro che sorprenderlo.
Lo sorprendeva il suo modo di affrontare senza
battere
ciglio i suoi scatti d’ira, la sua irritabilità costante, la sua
arroganza
senza freni.
Lo stupiva osservare con quanta tenacia Geoffrey
lasciasse aperte
e nascoste le sue ferite, nell’attesa di colmare il vuoto di una cura
che non
poteva concedersi con una nuova battaglia, un nuovo obiettivo che
sarebbe
scemato con l’ultimo raggio del tramonto.
All’inseguimento di una pace che forse non
desiderava più
così tanto o non credeva di meriatare, alla ricerca di una risposta
così
astratta da non avere nemmeno una domanda concreta dietro le spalle,
alla
ricerca di un po’ d’ordine nelle ombre avvolgenti del caos.
Jerome non aveva ancora trovato qualcosa per cui
valesse la
pena soffrire. Ma era sicuro che, se avesse sofferto, avrebbe arso il
mondo
intero con la sua rabbia e la sua sete di distruzione. La stessa che
Geoffrey
tratteneva e sprigionava solo in battaglia.
Jerome non era mai stato così: non conosceva mezze
misure.
Geoffrey non poteva rifiutare la sua presenza:
rappresentava
tutto ciò che si era costretto a seppellire dentro di sé con una ferrea
forza
di volontà che l’amico riteneva semplicemente inutile.
Sì, Geoffrey non faceva altro che sorprenderlo.
Osservava la sua rabbia, i suoi capricci e il suo
infantilismo
come se Jerome non fosse colpevole o responsabile per essi, piuttosto
una loro
vittima. Come se ci fosse veramente un barlume di innocenza da salvare
dentro
di lui, come se il lato della sua anima macchiato di un chiaro sentore
di
crudeltà potesse ancora crescere, mutare, evolversi.
Jerome odiava i momenti in cui si accorgeva di
tutto questo,
perché per un eterno secondo ci credeva anche lui, alle convinzioni
mute
dell’amico, e l’indecisione lo faceva
sentire debole e la rabbia tornava. E il suo furore non gli aveva mai
dato
fastidio, mai, prima di incontrare
Geoffrey.
*
Lo irritava oltre ogni misura.
Lo irritava così tanto che molto spesso nemmeno
capiva
perché continuasse a ricercare la sua presenza. Lo irritava perché
sapeva che
poteva essere una fonte di rimprovero. Lo irritava perché sapeva che in
sua
presenza non avrebbe mai dato mostra della parte peggiore di se stesso,
quella
parte di cui non si preoccupava mai di nascondere minimamente, mai.
Tranne che con Geoffrey.
Jerome Derangale ricercava il potere. Lo voleva,
lo
desiderava con ogni fibra del suo corpo, amava la consapevolezza di
essere
superiore a tutti, amava essere stimato, ammirato, temuto.
Amava il divertimento che gli regalava la sua
stessa
crudeltà.
Cercava il potere con la stessa impazienza con cui
cercava
Geoffrey Martewall.
Per questo lo odiava.
Si era accorto troppo tardi che non c’era posto
per lui
nella sua vita. Non riusciva mai a imporre la propria volontà su se
stesso, mai
prima di quel momento gli era stato così terribilmente chiaro e
visibile il
legame che lo incatenava a lui.
Jerome voleva solo il potere, e la scarica
d’orgoglio che
gli portava una sua vittoria. Voleva solo un successo dopo l’altro, un
morto
dopo l’altro, un divertimento dopo l’altro.
E allora perché non riusciva a scrollarsi di dosso
il peso
del suo giudizio?
Perché gli importava cosa avrebbe potuto pensare?
Ma
soprattutto, perché non riusciva a tagliare definitivamente i ponti,
perché
sentiva ancora il desiderio di stare in sua compagnia? Lo cercava come
quando
erano bambini. Non aveva mai smesso di volere l’amico con cui poteva
mettersi
alla prova e non aveva mai smesso di ritenerlo una sorta di rifugio in
cui
rintanarsi nei momenti di debolezza.
Al solo pensiero fremeva di rabbia. A volte, con
la mente
ancora ricolma di quelle riflessioni che lo tormentavano, la sua ira si
riversava sul primo che capitava, come un fiume in piena, mostrando la
parte
più crudele della sua anima senza che lui potesse frenarsi, in un
momento in
cui non avrebbe mai voluto che accadesse perché lo sguardo di Geoffrey
pesava
su di lui come la falce del boia.
Quel giorno era successo. E la vergogna che mai
avrebbe
ammesso venne presto sostituita dalla rabbia. Sciolse con decisione i
lacci della
sella. La vittima della sua rabbia, quella volta, era stato il suo
scudiero, a
causa di un errore stupido e banale che Jerome gli avrebbe fatto pagare
con
venti frustate se si fosse ripetuto.
Sentì a malapena la porta della scuderia sbattere.
« Vattene. » ordinò subito.
Sapeva fin troppo bene chi era venuto a rovinare
la sua
perfetta e agognata solitudine. Avrebbe potuto riconoscere il suo passo
tra
mille, e anche se così non fosse stato, sapeva fin troppo bene che
Geoffrey
sarebbe arrivato presto a farlo sentire, consapevole o no che fosse,
ancora
peggio.
E sapeva anche che non avrebbe ascoltato il suo
ordine.
Sembrava nato per essere diverso dagli altri, e,
di
conseguenza, per essere allo stesso tempo dannatamente irritante e
dannatamente
insostituibile.
Lo sentì affiancarsi a lui e cercò di concentrarsi
sul
respiro caldo del cavallo per non girarsi a fulminarlo con lo sguardo.
« La severità ha una sua giusta dose. » disse
Geoffrey, col
solito tono asciutto.
Irritante, odioso,
devastante, indomabile.
« Sei venuto per farmi la predica? »
Non sarebbe servito, comunque.
Geoffrey non si scompose al suono rabbioso delle
sue parole.
« Sono venuto a farti ragionare. Non sono un
abate. »
Jerome alzò gli occhi al cielo e bofonchiò
un’imprecazione
sussurrata. Geoffrey lo osservò in attesa di una risposta, ma riusciva
solo a
vedere l’amico che non voleva saperne di sentire ragione.
Alla fine, Jerome riallacciò meglio e forse con
troppa forza
i lacci della sella.
« Non sono io a sbagliare. Quel ragazzino è un
incapace e
qualcuno lo doveva punire. Una cinghiata è solo la minima parte di ciò
che si
meriterebbe per essere ciò che è. »
Geoffrey scosse la testa e Jerome vide la rabbia
nei suoi
occhi con una fitta allo stomaco. Nell’esatto istante in cui abbassava
lo
sguardo con la scusa di controllare le redini, si sentì afferrare per
il
colletto della tunica scarlatta e gli occhi di Geoffrey gli bruciarono
l’anima.
« Quel ragazzino cerca di servirti al meglio delle
sue
forze, ma a te non basta mai! Cosa bisogna fare per soddisfarti? »
Jerome aveva gli occhi sbarrati dallo stupore, ma
cercò
freneticamente le parole con cui rispondere. Nessuno l’avrebbe avuta
vinta su
di lui.
Nemmeno Geoffrey Martewall.
« Magari non essere inconcludenti… »
« Non è lui il problema, e lo sai!» affermò
Martewall
deciso, lo sguardo duro, impenetrabile, uno sguardo che faceva capire a
Jerome
di non avere vie di fuga dalle sue domande.
« Adesso smettila. Ho il diritto di punire il mio
scudiero.
» disse, cercando di mostrarsi sicuro. La verità era che più desiderava
litigare con Geoffrey, più comprendeva quanto poco gli piacesse farlo.
Il giovane Martewall lo lasciò andare, ma il suo
sguardo non
vacillò mai.
« Cosa c’è che ti preoccupa, Jerome? »
Derangale rimase spiazzato dalla domanda. Nessuno
gliel’aveva mai posta, o almeno non di recente. Non aveva mai lasciato
trasparire nulla dei suoi pensieri. Per un attimo, il pensiero che
Geoffrey
fosse riuscito a guardare dentro di lui, ad intuire qualcosa di vero
nell’osservarlo, lo terrorizzò. Aveva sempre pensato di conoscere
Geoffrey
abbastanza da poter capire cosa pensasse, ma l’idea del contrario non
gli aveva
mai attraversato la mente. Abbozzò un sorriso sarcastico con immensa
fatica.
« Dovrei chiederlo io a te. Non c’è nulla che mi
preoccupa.
»
Come poteva dirgli che… lo
odiava? Non ci sarebbe mai riuscito e se ne chiedeva il perché in
ogni
momento. Come poteva dirgli che aveva comunque paura del legame
d’amicizia che
lo legava a lui? Si poneva di continuo domande che non avrebbe mai
voluto
sentire.
Per lui sarebbe
morto? Quanto erano importanti per Jerome Derangale la cavalleria, la
fedeltà
ai compagni d’arme? Quanto sarebbe stato disposto a rischiare per
Geoffrey
Martewall?
E quanto avrebbe sofferto se fosse morto?
Lo aveva reso… debole?
Si ribellò con tutto se stesso a quell’idea, con
rabbia e
odio mescolati insieme e inscindibili nella loro intensità.
No.
Questo mai.
Quelle parole parvero a lui stesso una preghiera.
E se fosse servito, avrebbe pregato il diavolo in
persona e
non più Dio per essere esaudito.
Strinse i pugni convulsamente osservando Geoffrey
voltargli
le spalle e andarsene col solito passo calmo. La rabbia gli bruciava il
petto e
la gola e aveva voglia di urlare, non sopportava l’umiliazione di
essere stato
rimproverato da lui e con lui, non
sopportava di sentirsi debole e in fondo era ancora il bambino
capriccioso che
urlava e sbatteva i piedi se un suo desiderio non veniva esaudito
all’istante.
I capricci però erano diventati più seri, più terribili, e più
distruttivi, nei
suoi confronti come in quelli del mondo esterno.
Osservò la spada al suo fianco con uno sguardo
quasi folle,
per poi capire di nuovo ciò che da sempre sapeva e che mai avrebbe
ammesso e
mordendosi le labbra dalla frustrazione.
Se Geoffrey Martewall doveva vivere al di fuori
del suo
controllo, allora esisteva una parte di Jerome Derangale che doveva
inevitabilmente morire.
*
C’era un fascino sinistro e misterioso nel
rimorso.
Jerome non riusciva a sentirsi triste nel vedere
Geoffrey
Martewall pentirsi, provare dolore, dannarsi l’anima, quasi, per fare
ciò che
era giusto.
Perché il rimorso in realtà lo faceva sorridere
con scherno
e sufficienza, ma in Geoffrey diventava una vera opera d’arte, mai
vista prima
e mai vissuta davvero.
Jerome sapeva che per lui comprenderlo veramente
sarebbe
stato impossibile. C’era sempre stato, tra loro, quel velo di reciproca
incomprensione che ai suoi occhi rendeva l’amico un’eterna, logorante
sfida mai
vinta.
Jerome non pretendeva che l’altro cambiasse. Non
voleva,
anzi. In qualche modo, e non si era mai soffermato a chiedersi il
motivo di
questa sua riflessione, Geoffrey gli andava bene così com’era.
Continuava ad
infastidirlo con il suo carattere e avrebbe desiderato, certe volte,
che la sua
testardaggine avesse una durata breve. Ma non lo voleva cambiare.
Non era un gesto nobile. Era dettato dal puro
egoismo, come
ogni azione di Jerome.
La completezza e la silente passione dei
sentimenti di Geoffrey,
sempre nascosta da un’impenetrabile scorza di ghiaccio, rappresentava
per lui un
tesoro che ancora non aveva raggiunto, la cui presenza era solo
riuscito ad
intuire. Non si sarebbe mai stancato di osservarlo, studiarlo,
punzecchiarlo.
Era divertente e terribilmente appagante.
Jerome non aveva un carattere così intriso di
contraddizioni.
Sapeva di essere ciò che era e lo accettava. Si
accettava in
tutto e per tutto, con tutta la sua presunzione e la sua superbia. Era
consapevole di quale fosse la peculiarità della sua personalità e
continuava ad
amare il potere più delle altre assai più banali gioie della vita di
tutti i
giorni, e soddisfaceva ogni sua voglia.
Non aveva rimorsi e non cercava di contaminare
l’interezza e
l’integrità di ciò che sarebbe inevitabilmente sempre stato con
debolezze
inutili.
Se era il male, lo era in trionfo.
Ma Geoffrey non avrebbe condiviso la sua gloria.
Jerome lo aveva sempre saputo. Sapeva da sempre,
con una
fitta allo stomaco che non sapeva spiegarsi, che prima o poi Geoffrey
gli
avrebbe voltato le spalle per sempre.
Non doveva sapere ciò che era Jerome, le tendenze
della sua
natura. Lo sceriffo lo avrebbe usato come la sua scarsa morale non gli
avrebbe
mai impedito di fare, e non si sarebbe sentito dispiaciuto di non
condividere i
suoi successi, ma non lo avrebbe coinvolto nei suoi piani
ad alti livelli, e così Geoffrey non
avrebbe mai saputo cosa aveva cercato di fare.
Perché se per Jerome non esisteva onore nella
sconfitta, per
Geoffrey non esisteva vera sconfitta in una sconfitta onorevole.
Senza senso,
pensava Jerome.
Eppure con Geoffrey tentava sempre di essere
migliore di ciò
che era, migliore col significato che l’amico attribuiva a quella
parola,
naturalmente. Non sapeva il perché, ma, d’altra parte, da tempo Jerome
non si
chiedeva più la motivazione delle sue azioni.
Geoffrey Martewall, questo era certo, non avrebbe
mai
capito, se solo avesse saputo.
Ma qualcosa doveva
sapere.
Jerome sentiva un bisogno quasi fisico di dire a
Geoffrey le
sue certezze riguardo al sedicente Jean Marc de Ponthieau.
Ora più che mai, quando sentiva che l’inevitabile
stava per
accadere, che una parte della sua vita stava per sfaldarsi, che tutto
sarebbe
tornato al suo posto e che non ci sarebbe mai più stato nessun posto
per
nessuna amicizia che non avrebbe mai dovuto esistere, che Geoffrey
sarebbe
rimasto per sempre il primo dei suoi fallimenti, ora più che in
qualsiasi altro
momento sentiva il desidero di averlo come complice, di condividere
ancora
qualcosa.
Un nemico, una causa, una condanna.
La rabbia verso il conte era quasi
incontrollabile. L’aveva
umiliato, ferito nell’orgoglio, sconfitto.
Doveva morire.
Sarebbe stato ancora meglio se fosse morto davanti
agli
occhi di Geoffrey, che aveva visto Jerome cedere miseramente la
vittoria a
qualcun altro, che si era preoccupato per la ferita del suo compagno
d’armi.
Jerome giurò vendetta con ogni fibra del suo
essere.
E oltre a tutto questo, non sopportava l’idea, il
presentimento che, se Geoffrey avesse saputo tutta la verità, e se
avesse
conosciuto Jean de Ponthieau, l’avrebbe apprezzato più di quanto
avrebbe mai
potuto apprezzare Jerome. Il solo pensiero lo faceva tremare di rabbia.
Non era gelosia. Lo sarebbe diventata se Geoffrey
e il conte
cadetto si fossero mai conosciuti.
Volse lo sguardo verso il cavaliere in nero, che
lo
osservava ancora in attesa di una risposta con il solito sguardo
profondo e
tagliente e unico nel suo genere… l’unico, forse, all’altezza di
Jerome.
Lo sceriffo lo guardò con gli occhi vagamente
febbrili e
infiammati d’ira e aspettativa.
Resta dalla mia parte,
Geoffrey.
« Quello non è Jean Marc de Ponthieau. »
Loculo
di Tacet433
Ebbene
sì, ho deciso di continuare la raccolta.Prima che dimentichi di
scriverlo, le varie parti della fic sono in ordine cronologico. E
mi rendo conto che ho descritto molto Jerome e ho lasciato
relativamente poco spazio a Geoff, ma il fatto è che... Jerome è
terribilmente egocentrico, concentrato per la maggior parte del tempo
su se stesso. Detto questo...
Non
ci credo… ce l’ho fatta. Nonostante il tempo.
Nonostante il caldo.
Sì,
però… mi rendo conto che questa è un po’ utopistica
come fic, forse… ma Jerome mi piace, anche se è bastardo. O forse mi
piace
perché è bastardo. Comunque, ho cercato di descriverlo in modo
convincente, non
so se ci sono riuscita, ma mi piace immaginare un Jerome così. Umano,
nonostante tutto, anche se sempre, fondamentalmente… completamente…
Sans-Pitié
. Non mi sono spiegata bene ma avete capito; )
Di
questi due mi verrebbe quasi voglia di scrivere
dell’altro. Ma per molti aspetti è masochismo puro. Fatemi sapere cosa
ne
pensate, e soprattutto se qualcosa non vi è piaciuto!
Comunque
niente mi toglie dalla testa che… scrivere di
amicizie tormentate mi fa male. È nocivo.
Grazie
per aver letto e alla prossima(spero)!!!
Ciao!!!
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Capitolo 5 *** Etienne de Sancerre- Fiducia ***
Etienne de Sancerre
Fiducia
Solitamente, chi si guadagnava l’antipatia di
Etienne de
Sancerre prima o poi se ne pentiva.
Anzi, forse se ne pentiva all’istante.
In molti gli avevano rimproverato il suo modo di
rapportarsi
con le persone che non gli piacevano. Era irruento, non riusciva a
trattenersi
dal dire ciò che pensava, i suoi sguardi e le sue espressioni erano
sempre più
che eloquenti e per niente al mondo Etienne avrebbe mai cercato di
camuffarli
in qualche modo.
Non ci trovava nulla di male. Le prediche di suo
fratello
gli ronzavano nelle orecchie fastidiosamente, ma non avevano mai
sortito
l’effetto sperato dal maggiore dei Sancerre. Non essere
scortese, non offendere neanche con lo sguardo se non sei in
guerra… a dire la verità, se si doveva misurare con un nemico che
aveva
catturato Jean comportandosi da bandito, che era stato amico di Jerome
Derangale e, come se non bastasse, aveva ferito Henry de Bar,
facendogli
provare una rabbia e una paura quasi folle, allora Etienne non credeva
di
doversi mostrare troppo accomodante.
Jean evidentemente non era della stessa idea.
Etienne aveva le braccia incrociate sul petto da
diverso
tempo, come se cercasse di imprigionarcisi dietro facendo violenza a se
stesso.
Ogni tanto osservava torvo e con accusa Jean, seduto di fronte a lui
con
espressione stanca.
Alla fine, il Falco sospirò esasperato e cedette.
« Forza, dimmi. Cosa c’è che non va? »
Etienne non aspettava altro e non ci mise un
secondo a
scattare.
« Oh, niente. Mi chiedevo solo se il tuo ospite si sentisse a suo agio qui da
noi. »
Jean sospirò di nuovo, paziente e per nulla
sorpreso.
Sancerre imbastì un’espressione ancora più truce davanti alla sua
esasperazione.
« Etienne, sono stanco e mi hai già fatto parlare
abbastanza. E poi non saprei che dirti, se non che Martewall adesso è
nostro
alleato, che ci piaccia o no. »
Sancerre emise un mezzo sbuffo di disapprovazione,
terribilmente infastidito. Se Jean si aspettava che avrebbe lasciato
cadere il
discorso in questo modo, si sbagliava di grosso. Ma a giudicare dalla
sua
espressione già lo sapeva.
A Etienne non importava se l’inglese era adesso un
alleato o
un nemico, se era un ospite o un ostaggio con troppe libertà.
Non si sarebbe mai fidato di Geoffrey Martewall, mai.
*
Erano state poche le volte in cui aveva provato ad
immaginare cosa pensasse.
Forse perché se c’era una cosa che Etienne
detestava, era
fallire. E da quel punto di vista, Martewall rappresentava un
fallimento
continuo.
Etienne scosse le spalle tra se. Perché si sarebbe
dovuto
sforzare, se nemmeno a Martewall interessava davvero cosa pensasse di
lui la
gente?
E poi, Etienne non voleva per niente al mondo
trovare una
qualsiasi ragione per non odiarlo. Non era mai tornato sui suoi passi,
le sue
opinioni erano assolute e non le avrebbe di certo cambiate adesso.
Però… non era mai riuscito a credere che
l’indifferenza di
Martewall fosse reale. Non esisteva uomo al mondo che non desiderasse
la
fiducia dei compagni. Se non la desiderava allora non gli interessava
nemmeno
essere un loro alleato e Etienne, poco tempo dopo averlo conosciuto,
aveva
voluto metterlo bene in chiaro, perché era già stanco di nutrire dubbi
dentro
di se.
Ricordava ancora fin troppo bene il loro primo
dialogo, la
sera prima della battaglia per la riconquista di Dunchester.
« Martewall. » lo
chiama, facendolo fermare ai piedi delle scalette esterne. Lui si volta
e
incrocia le braccia al petto sotto al mantello nero, rimanendo in
ascolto.
Il gelo e l’astio
calano tra loro.
Etienne lo ricorda
bardato e in sella al suo palafreno, nero ed eretto e fiero, al torneo
che
aveva quasi vinto, fermo nel suo orgoglio esattamente come in
quell’istante.
Lo ricorda in
battaglia, il modo in cui aveva sfondato le linee nemiche e salvato
gran parte
del suo esercito quando per loro le cose si erano messe male, con una
strategia
solitaria ma efficace. Era una furia nel corpo di un uomo, ma Etienne
non ne
avrebbe mai ammesso tutti i pregi.
Dopotutto, lui lo
aveva sconfitto.
« Non credo affatto
che ne valga la pena. » comincia Sancerre, caparbio« Di fidarsi di te.
Jean si sbaglia,
questa volta. »
Martewall non muta
espressione, non è arrabbiato, dispiaciuto, interdetto. E, come Etienne
avrebbe
dovuto aspettarsi, non conferma i suoi forti dubbi né li smentisce.
Rimane il solito
enigma. Che il suo volto sia coperto da un elmo oppure no, non fa
alcuna
differenza, a questo punto.
« Neanche io mi fido
di te. Ma so di potermi fidare nella tua devozione per il tuo principe
e so che
non gli disubbidirai solo per mettermi i bastoni fra le ruote. In ogni
caso,
non mi interessa cosa pensi di me. Voglio solo avere Danchester, mia
sorella e
la mia vendetta. Tu fa’ la tua parte, io farò altrettanto. »
Fa per voltargli le
spalle, considerando chiuso il discorso. Ma Etienne fa un passo avanti,
furioso. In qualche modo, avere la conferma che il suo astio non possa
scalfirlo, e non poterlo sfidare in nessun altro modo, gli fa serrare
la
mascella con forza dal fastidio.
Non sopporta niente di
lui: né il suo orgoglio, né lo sguardo penetrante e l’aria di fredda
superiorità.
« Ascoltami bene,
dannato inglese! A me non importano le tue chiacchiere o i legami
politici. Eri
amico di un infame traditore, ma se osi anche solo pensare di seguire
il suo
esempio ti verrò a cercare personalmente e pagherai ciò che hai fatto
tutto
insieme. Ti ho già battuto una volta, lo farò di nuovo. Ti sfiderò e
pretenderò
la tua testa. » i suoi occhi sembrano divampare sul viso minaccioso con
furore
e accanita determinazione.
Martewall si
volta a guardarlo di nuovo.
Come guarderebbe un
bambino che fa i capricci.
Gli occhi grigi sono
freddi e spettrali nell’ombra della sera, i tratti rigidi sembrano
scolpiti nel
granito, lo sguardo brucia di rabbia tenuta a stento a freno, i muscoli
delle
braccia si tendono mentre, fieramente, fa anche lui un passo avanti
verso
Etienne.
« Ringrazia il Cielo e
tutti i suoi Angeli che io non voglia darti il pretesto per mantenere
la
promessa. »
Etienne ci
mette solo un momento per cogliere
la minaccia nelle sue parole.
*
Geoffrey Martewall, in Francia, era un accordo
dissonante.
Fuori posto, e indesiderato dalla maggior parte
delle
persone. Era inglese, rappresentava il nemico di sempre di cui si aveva
ancora
timore, e non bastava un’alleanza per estirpare questo tipo di pensieri
dalla
mente dei francesi. Come se non bastasse, il leone aveva dimostrato più
volte
il suo valore in numerose battaglie o tornei, e questo non aiutava a
mitigare
il disagio che si poteva provare in sua presenza.
Constatarlo, per lui,
non doveva essere solo triste, ma anche frustrante.
O almeno, così sosteneva Henry de Grandpré.
Solo dopo averlo sentito uscire dalla bocca
dell’amico
Etienne aveva notato che, effettivamente, Geoffrey Martewall si
trascinava
addosso la diffidenza di tutti i francesi.
Come avrebbe fatto un qualsiasi inglese in terra
francese.
In altri tempi, però, i nemici erano nemici, e non
esisteva
quel tipo di situazione stagnante in cui non era possibile attaccare lo
straniero nemmeno a parole e non era nemmeno possibile difendersi.
Etienne
ragionò su quel pensiero come non aveva mai fatto. Si chiese come
avrebbe
reagito se fosse stato nei panni dell’inglese, se avesse dovuto
sopportare
tutte quelle occhiate tutt’altro che ambigue o accomodanti e non ci
mise molto
a capire che sarebbe esploso dalla rabbia terrorizzando i più giovani e
imbarazzando i più vecchi.
Etienne lo guardò mentre abbeverava personalmente
il suo
cavallo, per un solo istante, prima di sparire oltre la corte interna.
Martewall era amico di Jean, e il Falco si fidava
di lui
come i soldati di Chatel Argent si fidavano del loro signore. Ma la
diffidenza
era dura a morire, perché un inglese rimaneva comunque l’emblema
dell’eterno
nemico. Anche se formalmente era ancora un alleato, nessuno poteva
essere
sicuro che non sarebbe passato sull’altro lato del fronte, come tanti
altri
baroni prima di lui, rovinando i piani del principe francese.
In lui non era visibile nessuna traccia di
disagio. Sembrava
indifferente a tutti gli sguardi, a tutte le mezze frasi mormorate fra
i denti
di qualche soldato meno ben disposto nei suoi confronti.
A Martewall non sembrava interessare la fiducia
dei
francesi. La sua fierezza non aveva bisogno di certezze o
rassicurazioni.
Il suo spirito indipendente e solitario traspariva
chiaramente dai suoi occhi freddi.
Sancerre aggrottò le sopracciglia, stranamente
riflessivo.
Di certo, Geoffrey Martewall non era una persona
semplice
che poteva pretendere di capire in tutti i suoi aspetti fin da subito.
Non aveva nulla della spontaneità degli amici di
Etienne,
della loro trasparenza. Si limitava ad essere una figura ambigua e
insondabile
per lui, probabilmente per suo volere.
Questo lo escludeva immediatamente dalle persone
degne di fiducia
e rispetto, oppure esisteva una verità più profonda? Per conoscerlo ci
sarebbe
voluto del tempo e forse neanche quello sarebbe bastato, per fidarsi si
sarebbe
dovuto sforzare non poco… ma ne valeva la pena?
*
Mai se lo sarebbe aspettato, ma col passare del
tempo
l’astio sfumò.
Martewall era stato il primo con cui non aveva
potuto
scagliare la sua rabbia tutta insieme, per questo forse Etienne si era
meravigliato tanto di non provare più così tanto fastidio alla vista
dell’inglese. Com’era potuto succedere? Etienne de Sancerre aveva messo
fine
alla sua rabbia senza sfoderare né lingua né spada, e il nemico
d’Inghilterra
era diventato un alleato affidabile e temibile.
Era andato oltre ciò che lui stesso pensava,
rinnegandolo,
cambiando idea, osservando molto attentamente il suo nemico, come mai
avrebbe
fatto con un amico.
E la sua mente aperta alla fine aveva ceduto
all’istinto a
cui naturalmente tendeva.
Forse anche Martewall se ne era accorto. E questa
volta non
era rimasto indifferente, ma Etienne lo sapeva solo grazie a una
brevissima
conversazione che aveva avuto con lui qualche tempo prima, dopo la
morte di re
Giovanni, la prima visita di Martewall in Francia come ambasciatore.
« Lo ammetto,
Martewall. Tu mi stupisci quasi quanto Jean. »
Martewall ghigna
incurvando appena gli angoli della bocca.
« Anche tu. Ma non
quanto Jean. »
Certo, erano opposti. Come il giorno e la notte. O
meglio,
l’estate e l’inverno. E non gli era passata la voglia di sfidarlo, ma
per una
volta Etienne de Sancerre avrebbe preso la decisione più saggia e
avrebbe
aspettato di essere sicuro di poter affrontare un amico e non più un
nemico.
Martewall portava con sé segreti che sarebbero
rimasti tali
per sempre, ombre inviolabili. Quindi Etienne non avrebbe mai potuto
capirlo
davvero, lui che aveva sempre avuto un animo così poco incline
all’introspezione.
A volte si chiedeva se Jerome Derangale ne fosse
stato in
grado. Se avesse avuto con Martewall lo stesso rapporto che lui aveva
con Jean.
Ma aveva smesso di vedere lo sceriffo senza pietà nel fiero e
orgoglioso Leone
d’ Inghilterra.
Non voleva più gettargli addosso questo peso,
schiacciarlo
di questa colpa.
Aveva la sensazione che lo stesse già facendo lui
stesso, e
più del dovuto.
Tataratààààà
ecco a voi il capitolo più brutto della
raccolta!!!XDXDXD
Immedesimarmi
in Etienne per me è difficile, ecco perché ci
ho provato lo stesso. Per adesso non ho molto da dire, se non che mi
dispiace
per l’attesa e per il capitolo forse un po’ corto.
Come
al solito non metto una data per il prossimo
capitolo, perché non la so e i miei impegni sono alquanto
imprevedibili,
soprattutto quelli scolastici, ma ringrazio tantissimo anche solo chi
legge.
Ah,
un’ultima cosa: siccome non ho ancora scelto il
personaggio che prenderò in ostaggio la prossima volta, se qualcuno ha
qualche
idea o richiesta parli pure! In realtà non so se sarò ispirata per
tutti i
personaggi allo stesso modo, ma farò del mio meglio, o mal che vada vi
informerò.
Ciaoo!
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Capitolo 6 *** Guillaume de Ponthieau- Comprensioni ***
Guillaume de Ponthieau
Comprensioni
L’aria, solo qualche istante prima vibrante di
suoni, sembrò
farsi muta. La calma era quasi irreale. Si respirava l’eccitazione
degli uomini
con un brivido di paura che nemmeno i veterani dell’esercito riuscivano
sempre
a sopire.
L’alba era vicina. Il cielo si faceva sempre più
chiaro e le
nubi si dissipavano. Ma anche se così non fosse stato, avrebbero
combattuto
ugualmente. I francesi lo sapevano fin troppo bene: gli inglesi erano
troppo
abituati ai loro temporali e al loro fango per farsi frenare da qualche
goccia
di pioggia e da un po’ di terra instabile.
Guillaume respirò a fondo, senza fretta.
Aspettava, come
tutti. Ma con più lucidità.
Aveva tenuto conto di tutto. Le forze
dell’avversario, il
campo di battaglia, la strategia che avrebbe adottato era di certo la
migliore
che potesse scegliere. Tra gli inglesi questa volta c’era stata una
fuga di
notizie. I feudatari d’oltremanica impegnati in quella battaglia in
campo
aperto sarebbero stati solo due, gli unici che non erano impegnati su
altri
fronti, non molto esperti e ancora abbastanza giovani. Re Giovanni
contava di
nuovo sulla superiorità numerica degli eserciti. Ma non sempre era un
vantaggio, Guillaume lo sapeva e biasimava quel re indegno che non
sapeva
nemmeno imparare dai propri errori. Un esercito di mercenari troppo
grande era
difficile da controllare, domare, dirigere....soprattutto per dei
ragazzini
senza esperienza. Un sorriso scaltro gli attraversò il volto. Il nemico
non
andava mai sottovalutato, ma Guillaume doveva ammettere che quella
volta la
fortuna era a loro favore.
Anche se…
Guardò astioso alla sua sinistra, fino ad
individuare
Dammartin, che lo avrebbe accompagnato in quella battaglia. Non
riusciva a fare
a meno di provare un certo disprezzo per lui… era pieno di sé e con
scarsi
precetti morali. Avrebbe di certo preferito avere qualcun altro al suo
fianco,
ma non avrebbe potuto cambiare la volontà del re.
Col petto fremente ma l’espressione ferma e
sicura,
oltrepassò i suoi uomini e si pose davanti a tutti loro, presto imitato
da
Dammartin.
« Nervoso, Ponthieau?»
gli chiese Dammartin, con un sorriso irritante.
Guillaume decise di passare sopra al modo in cui
Dammartin
osava rivolgersi a lui, almeno per il momento.
« Sarei uno stolto se non lo fossi, anche se è una
battaglia
che abbiamo buone probabilità di vincere. Niente deve andare storto. »
Dammartin scosse le spalle con noncuranza. « non
c’è nulla
di cui preoccuparsi. Re Giovanni pensa di poterci sopraffare
numericamente, ma
siamo più di quanti immagina, quasi quanto la parte di esercito che ha
messo su
in tutta fretta per non farci avanzare. Un esercito guidato da due
ragazzini,
da immolare nell’attesa che i grandi siano liberi di venire fin qui.
Oggi ci
prenderemo questa vittoria e questa fetta di terra fiamminga a cui
tanto tiene.
»
Guillaume riteneva che Dammartin fosse fin troppo
tranquillo, ma dovette ammettere che le cose che aveva detto erano
vere.
Re Giovanni sembrava davvero aver fatto male i
suoi conti.
Il conte fece girare il destriero e le parole che
rivolse al
suo esercito furono accolte con grida e clangore di spade contro scudi.
Erano
parole incoraggianti, ma che richiamavano l’attenzione sulla disciplina
e sulla
prudenza. Non potevano comunque permettersi di sottovalutare il nemico,
e
Guillaume sperò che questo concetto fosse ben chiaro a tutti, anche se
il discorso
di Dammartin era stato più canzonatorio e spensierato.
Guillaume serrò la mascella dal fastidio e ritornò
tra le
sue fila.
Tra i francesi tornò presto il silenzio, e
cominciò a
sentirsi il rumore sordo della marcia degli inglesi ancora invisibili
ai loro
occhi. Il conte sentì il consueto nodo alla gola e il suo sguardo si
fece più
deciso e scuro. Strinse le redini. I minuti che lo separavano
dall’impatto col
nemico erano pochi, sempre meno. E si sentiva pronto e lucido,
nonostante i
denti continuassero a mordere le labbra.
Gli inglesi apparvero in direzione dell’alba cupa
e dalla
luce opaca. Erano sagome nere sull’orizzonte, avanzavano senza
esitazioni,
marciando compatti, le lance verso l’alto. Un esercito di figure ancora
indefinibili, con l’elegante fascino di tutte le cose inquietanti.
Guillaume assottigliò lo sguardo con impazienza,
fino a che le
figure non furono abbastanza vicine da poterle vedere più nitidamente.
Un
cavaliere avanzava in testa, la lancia puntata verso l’alto e l’elmo
già calato
sul viso.
Il conte sgranò gli occhi per un istante e senza
volerlo
trattenne il respiro.
« Dammartine! » chiamò, senza però tradire un’
ombra di
paura, mentre una sensazione spiacevole gli strisciava sotto pelle.
L’altro feudatario ghignò da lontano nella sua
direzione. «
Cosa c’è ancora, Ponthieau?»
Anche gli uomini del conte Guillaume si stavano
accorgendo
di qualcosa e cominciarono a bisbigliare tra loro, confusi e nervosi.
« Silenzio! » li riprese Guillaume, furente. Poi
si rivolse
di nuovo a Dammartine e gli indicò il nemico col mento. Il feudatario
assottigliò lo sguardo e un lampo di comprensione e timore passò nei
suoi
occhi. Non osò più guardare in faccia Guillaume. Le spie che avevano
scoperto i
piani degli inglesi non erano di Ponthieau, erano le sue.
Il cavaliere che capeggiava l’esercito nemico
sembrava
studiarli da sotto l’elmo, e forse aveva intuito la sorpresa dei
francesi.
Dietro di lui, gli stendardi erano neri con un leone d’oro sormontato
dal
fregio rosso dei cadetti e non avevano niente a che vedere con quelli
di cui le
spie francesi avevano ricevuto notizia.
Fece loro un segno di saluto con la lancia, quasi sarcastico
quanto
agghiacciante. I suoi sembrarono prenderlo come un segnale e suonò una
tromba,
gli arcieri tirarono in alto gli archi.
La Fiandra avrebbe dovuto attendere nuovamente
l’arrivo dei
francesi. Guillaume ricordava quella sconfitta, era una ferita che
ancora
bruciava nel suo orgoglio.
L’esercito francese si era battuto bene, ma era
stato
respinto senza remore, solo per fortuna la ritirata era riuscita e non
c’erano
stati prigionieri importanti. Ma re Filippo non era rimasto
soddisfatto,
soprattutto perché… le notizie che erano arrivate dalle spie, il
presunto
errore degli inglesi… era stato tutto falso.
Almeno Guillaume aveva potuto giustificarsi da
questo punto
di vista, mentre Dammartine probabilmente aveva architettato proprio
allora il
suo voltafaccia, il tradimento verso la corona.
La seconda volta che Guillaume vide quel blasone,
fu il
giorno del torneo di Bearne. Aveva potuto rivedere il blasone che aveva
reso
vana la sua strategia.
Francois de Bearne lo aveva guardato di sottecchi.
« Lo conosci?» gli aveva chiesto, incrociando le
braccia al
petto e guardando da lontano il barone che, in sella, si preparava ad
affrontare la sfida.
« Non bene quanto vorrei. L’ho incontrato una sola
volta sul
campo di battaglia. »
Francois annuì tetro,
ricordando, forse, quell’avvenimento di due anni prima.
« Non preoccuparti. Non sempre chi è temibile in
guerra lo è
anche in torneo. »
« Lui sì. » lo smentì Guillaume, sicuro. Guardò
negli occhi
l’amico e poi accennò con un gesto secco della mano ad un’altra figura
bionda e
vestita di rosso che stava raggiungendo il barone.
« Altrimenti lui non lo avrebbe scelto. »
Poi lo aveva visto gareggiare nella giostra. E
ancora non
sapeva che faccia avesse, ma poco gli importava. Era molto più
concentrato su
Derangale in quel momento.
Uno dei motivi per
cui Guillaume de Ponthieu, in seguito, non riuscì subito a non provare
diffidenza
per Geoffrey Martewall, fu che nell’occasione del torneo non aveva
potuto fare
a meno di pensare che lui e Derangale fossero una coppia temibile e… e
unita.
E come poteva biasimare la rabbia di Etienne de
Sancerre?
Jean era quasi morto per colpa di Derangale ed era poi stato fatto
prigioniero
da Martewall.
L’inglese non meritava alcun tipo di perdono.
Guillaume incrociò le dita davanti alla bocca,
grato
del fatto che presto Martewall se ne
sarebbe tornato in Inghilterra e con un po’ di fortuna non lo avrebbe
più
rivisto. Gli inglesi avevano interferito anche troppo nella vita della
sua
famiglia.
Era stato strano vederlo così.
Era strano vedere il barone di Dunchester che
aveva
gareggiato al torneo intimorendo così tanto i cavalieri francesi stare
al suo
cospetto a dargli spiegazioni. E aveva qualcosa di piacevole, anche.
Eppure Geoffrey Martewall non era sembrava
cambiato dal
giorno del torneo. Non aveva mai portato l’elmo per nascondere il suo
viso,
perché la fierezza dei suoi occhi era la stessa della sua postura in
sella, di
ciò che traspariva dalla sua abilità, dalla sicurezza del suo passo,
dall’orgoglio inflessibile in ogni gesto.
Guillaume si era reso conto che vederlo in faccia
non lo
aiutava a carpire i suoi pensieri.
Ma di una cosa era certo: Geoffrey Martewall aveva
coraggio.
Si era comportato da bandito, ricercando la
vendetta e forse
non era diverso da Jerome Derangale. Che elementi aveva Guillaume per
pensare
il contrario, d’altronde? Ma Martewall aveva coraggio.
E lo sapeva usare in tutti i modi possibili.
Sapeva cosa voleva dire schierarsi in prima linea
in guerra,
mettere tutto in gioco e rischiare la vita senza esitazioni. Aveva
saputo
affrontare il fato che gli spettava, la sua posizione d’ostaggio, aveva
tenuto
faticosamente la testa alta in quel gioco di intrighi.
E Guillaume sospettava che avesse anche avuto il
coraggio di
sbagliare volontariamente, per combattere ancora una volta contro il
destino. Aveva avuto il coraggio di fare
un salto nel vuoto e abbandonare la sua casa nelle mani del nemico.
Doveva essere stata dura. Ma Guillaume queste
considerazioni
le fece solo in seguito. In quel preciso istante si sarebbe limitato a
studiarlo con attenzione, certo che nemmeno con tutta la razionalità di
cui
disponeva sarebbe riuscito a giustificarlo.
Difficilmente chi era dal principio suo nemico non
restava
tale.
Probabilmente Geoffrey Martewall non avrebbe mai
avuto una
consapevolezza chiara di quanto, effettivamente, fosse riuscito a
stupire il
conte di Ponthieau.
Lo scudiero tentò persino di darsi un contegno
mentre lo
salutava con la testa ciondolante dalla stanchezza.
Guillaume inarcò un sopracciglio nel guardarlo. I
capelli
rossi di Beau Foxworth sembravano persino più scompigliati del solito,
le
guance erano color porpora e il dorso della mano correva spesso a
sfregare gli
occhi stanchi. Guillaume lasciò che il
ragazzino lo oltrepassasse, tentando di tenere le spalle ritte e di non
strusciare i piedi a terra, e non poté fare a meno di notare quanto il
ragazzino, nonostante la stanchezza, fosse raggiante. Poi,
seguì il percorso da cui lo aveva visto
arrivare.
Trovò esattamente ciò che si era aspettato.
La figura di Martewall gli dava le spalle,
indossava braghe
in pelle nera, cinturone e camicia larga con le maniche arrotolate.
Aveva
ancora la spada da allenamento in mano, ma presto la posò sul tavolino
della
sala d’arme per allacciarsi la sua in cintura. Non mostrava alcun segno
di
affaticamento.
« Il ragazzo migliora? » chiese Guillaume
all’improvviso.
L’altro però non sembrò sorpreso, probabilmente lo aveva sentito
arrivare e
aspettava solo che il conte si mostrasse, o, se non ne avesse avuto
voglia, se
ne andasse.
Si voltò, poggiando una mano sul legno del
tavolino.
« Sì. Il suo esercizio costante sta dando i suoi
frutti. »
Guillaume annuì, lo sguardo attento. Non sapeva
esattamente
perché si trovasse lì, e questo lo irritava. Forse voleva semplicemente
conoscere più a fondo quell’uomo che rimaneva per molti aspetti
imperscrutabile
perfino ai suoi occhi. Come se dietro quegli occhi chiarissimi vi
fossero
abissi a cui la sua ferrea logica non poteva arrivare. Non ci furono
saluti,
tra loro. Sicuramente Martewall si chiedeva il motivo di quella visita,
forse
non era del tutto certo che Guillaume si fidasse completamente di lui,
o che la
sua compagnia potesse risultargli anche solo poco piacevole.
Guillaume provava un profondo senso di rispetto
per Geoffrey
Martewall, e, ora che aveva salvato la vita a colui che oramai
considerava
veramente suo fratello, anche gratitudine. Quella punta di sottile
perplessità
da parte sua che, lo sapeva, Martewall sentiva sulla pelle anche se
oramai tra
loro non vi era più alcuna traccia di rancore, era dovuta solo alla
profonda
contraddizione che l’inglese rappresentava per Guillaume.
Prima aveva aiutato l’amico di sempre, Derangale,
a coronare
i suoi sogni di gloria, aveva preso prigioniero Jean per vendicare la
sua
morte. Poi si era rivelato essere una persona completamente diversa da
come ci
si sarebbe aspettati, diventando amico di colui che era stato l’origine
della
sua bruciante rabbia vendicativa.
Guillaume non pretendeva di violare la sua
interiorità senza
ritegno, razionalmente, ma era deciso ad avere una risposta, una
curiosità soddisfatta
che, come ogni curiosità, avrebbe potuto avere una valenza politica.
Martewall lo osservò ancora per qualche istante,
poi afferrò
il mantello e la casacca nera. Guillaume lo stava ancora studiando
quando Beau
entrò di nuovo, di corsa, nella sala,
inchinandosi e salutando rispettosamente al cospetto dei due feudatari.
Guillaume però sospettava che se fosse stato solo con Martewall non
sarebbe
stato così formale.
« Sir Martewall, Sir Jean ha detto che posso avere
la
giornata libera. Potremmo continuare? » chiese, gli occhi pieni di
aspettative.
« Credevo fossi stanco. » lo provocò Martewall, il
tono
incolore. Guillaume però non si stupì di notare ancora una volta
l’ombra di un
affetto nascosto molto bene dall’inglese verso il ragazzino. Era un
dettaglio
che aveva notato più volte, come una certa affinità tra loro, una sorta
di
comprensione che passava anche attraverso la severità del barone.
« No!» si affrettò ad esclamare il ragazzino. « Ho
ripreso
fiato in questo tempo, signore!»
« Troppo tempo. » affermò il cavaliere, asciutto.
« Ti sei
battuto con un solo uomo ed eri sfinito, i tuoi tempi di ripresa sono
troppo
lenti. Se ci fossero stati più nemici, cosa avresti fatto? Un cavaliere
non
riprende fiato, lo conserva. » e gli lanciò una spada che, anche se a
stento
perché troppo sorpreso, il ragazzino prese al volo. Dopo lo
sbalordimento e il
dispiacere misto alla soggezione che la freddezza di Martewall
incuteva, il suo
volto venne atteggiato a un’espressione determinata e orgogliosa.
Guillaume assisteva alla scena con un certo
divertimento.
Martewall sembrava soddisfatto del suo allievo in erba solo quando
questo non
era presente. Per il resto pareva molto critico e incontentabile.
« Signore, ho interrotto la vostra conversazione?
Se è così,
vi prego di scusarmi… » mormorò poi Beau, rivolto al conte. Guillaume
lo
tranquillizzò con un gesto della mano.
« No, non preoccuparti. Ero solo venuto a salutare
sir
Martewall e a ringraziarlo di nuovo per ciò che ha fatto. » mentì,
perché
sebbene si sentisse davvero grato nei suoi confronti, le sue gambe lo
avevano
portato lì senza uno scopo preciso. Ponthieau non era un uomo che agiva
senza
un motivo, per cui aveva subito iniziato a studiare di nuovo l’inglese
dall’anima tanto insondabile.
Martewall chinò appena il capo senza troppa
attenzione,
signorilmente.
« Come sta? » chiese, dopo un attimo di silenzio,
riferendosi chiaramente al Falco.
« L’avete curato bene. Si sta riprendendo. La
Provvidenza
non finisce mai di stupirmi. »
« Sir Martewall ha combattuto come un vero Leone!
Non
pensavo che si potesse fare! » esclamò Beau, ammirato, mentre lo
sguardo di
Martewall si incupiva.
Guillaume fece un segno d’assenso. Lo aveva già
visto agire
in guerra, quindi sapeva di cos’era capace.
« Se volete, mio fratello ora è sveglio, nelle sue
stanze,
salite le scale… »
Martewall però scosse lievemente la testa.
Guillaume
immaginava che ritenesse di aver già avuto anche troppi ringraziamenti,
o forse
aveva solo bisogno di solitudine, quel bisogno che ogni tanto si faceva
strada
nelle sue iridi.
« L’ho visto anche troppo in questi giorni. Le
scale me le
risparmio. »
Guillaume raddrizzò la schiena, pronto a lasciare
la stanza.
Prima però, osservò ancora il barone inglese, la sua espressione fredda
e
indecifrabile, la mano poggiata alla spada con noncuranza, come se
oramai questa
fosse parte del suo corpo, gli occhi profondi che celavano una tempesta
di
pensieri ed emozioni mai esternati.
Ricordò il suo dolore, la sua fiera, e ancora più
straziante
proprio per questo, sofferenza. Il vuoto dei suoi occhi quando aveva
scoperto
la morte del padre. Ricordò lo sguardo indomato ma pronto ad accettare
anche il
fato più meschino, quando aveva parlato con lui la prima volta.
Ricordava il
modo in cui aveva sorretto Jerome Derangale, l’amico ad un passo dalla
morte.
« Ammetto di non avervi mai capito del tutto, sir
Martewall.
Ma ora so cosa siete disposto a fare per un amico. Avrete sempre il mio
rispetto. » affermò il conte, col solito sguardo neutro e il tono
incolore.
Martewall non distolse mai lo sguardo dal suo, ma
evidentemente non era d’accordo. E Guillaume sapeva che aveva compreso
il senso
più profondo delle sue parole, a differenza di Beau che aveva
un’espressione
perplessa.
Anche il Leone lui pensava a quello che aveva
fatto per
Derangale.
Il conte raggiunse l’uscita a grandi passi,
pensando se
avesse dovuto mettere in chiaro che non provava più alcun tipo di
rancore nei
suoi confronti. Poi ricordò il suo odio, la sua furia distruttrice, la
sua
rabbia devastante.
Si fermò di colpo in mezzo al corridoio,
stringendo appena i
pugni, divorato dall’indecisione che pensava di aver superato, oramai.
Aveva già detto a Martewall tutto ciò che
realmente pensava.
Non c’era nulla da chiarire.
L’arrivo dell’inglese era stato annunciato ormai
da diversi
minuti. Guillaume non si era ancora mosso dalle sue stanze, e non aveva
alcuna
intenzione di farlo. Il tempo trascorreva senza che lui se ne rendesse
conto.
Forse nemmeno gli importava di ciò che accadeva intorno a lui.
Il mondo era solo rabbia, adesso. E solo dolore.
Era straziante, più di quanto avesse mai potuto
immaginare o
ammettere con se stesso. Era straziante ma non era sconosciuto. Lui
aveva già
provato il dolore causato dal tradimento di un fratello. Quante volte
ancora il
fato lo avrebbe costretto a provare queste emozioni?
Mai più, giurò a
se stesso con tutta l’anima.
Mai più.
Essere solo lo addolorava, così come la profonda
sensazione
che ogni cosa fosse vuota e senza senso, ma con tutto se stesso
Guillaume
cercava di sommergere tutto ciò che lo soffocava ogni secondo con la
rabbia,
nella convinzione di essere nel giusto.
Era il solo modo che aveva per combattere contro
la sua
anima ferita, dilaniata, forse insanabile.
Versò altro vino nel bicchiere e sentì appena i
passi che
salivano le scale per fermarsi davanti alla sua porta, che dopo pochi
istanti
si aprì improvvisamente.
« Monsieur! » esclamò il servo, e Guillaume, anche
senza il
bisogno di girarsi, capì che non si stava rivolgendo a lui, ma all’uomo
che
aveva accompagnato fino a lì e che aveva aperto senza bussare.
Non aveva alcuna voglia di parlare, né di pensare.
Ma niente
era cambiato per il mondo esterno, e lui restava sempre il conte
Guillaume de
Ponthieau. Aveva degli obblighi, dei doveri, e aveva ancora il suo
onore e il
suo orgoglio. Non lo avrebbe rinnegato in quel modo. Non avrebbe ceduto
a
questa debolezza.
« Puoi andare, Pierre. » disse, senza voltarsi,
congedando
il servo con un gesto della mano. Mentre Pierre si inchinava, salutava
e se ne
andava, Geoffrey Martewall fece un passo avanti.
« Cosa volete? » chiese Ponthieau, lanciando a
Martewall
un’occhiata bruciante. Un sorriso amaro e terribile gli attraversò il
viso. « Vi
manda lui? È arrivato a questi punti?
»
Martewall non mutò la sua espressione fredda, ma
Guillaume
aveva l’impressione che i suoi occhi potessero arrivare a scoprire i
luoghi più
oscuri e nascosti della sua anima.
« Io ho una guerra da combattere, sir. E non
voglio
immischiarvi nei vostri affari. » affermò, la voce incolore ma forse
più cupa,
come le ombre delle sue iridi. Guillaume si chiese cosa avesse visto in
lui che
lo aveva tanto turbato. Ma in fondo… non gli importava neanche questo.
« Allora togliete il disturbo. » ordinò, furente
ma sempre
controllato.
« Tra poco. » annuì
Martewall, avvicinandosi di un altro passo. Guillaume riportò gli occhi
sulla
finestra.
« Prima voglio parlarvi di Beau Foxworth. »
Il viso del conte si trasformò in una maschera
rigida e
sprezzante, folle di rabbia. « meriterebbe di morire sul patibolo. »
rispose
tra i denti.
Lo sguardo di Martewall lampeggiò per un istante,
come il
riflesso del sole su una spada.
« Lo porterò con me in Inghilterra. E con lui sua
madre. »
Guillaume strinse le dita intorno al bracciolo
della sedia
fino a farsi male. Il suo petto fremeva di collera repressa, tanto che
non
riconobbe più se stesso quando dalla sua gola proruppe una breve risata
amara,
fredda, terribile.
« è così che chiedete il mio permesso, inglese? »
« Non ho mai detto di voler chiedere il vostro
permesso. »
Guillaume si voltò completamente a sfidarlo con lo
sguardo.
Nella mente germogliavano cattiverie nate dal dolore e dall’ira verso
tutto ciò
che lo circondava, dal bisogno di trovare qualcuno con cui prendersela,
su cui
far valere il proprio potere. Germogliavano come piante infestanti,
impossibili
da estirpare.
« Voi inglesi siete tutti uguali. Giovanni Senza
Terra, I
baroni, William Lungaspada, anche Gant, sebbene lo sia solo per metà….
Beau
Foxworth, Jerome Derangale… voi,
Geoffrey Martewall… » il suo sorriso si allargò, agghiacciante quanto
sarcastico e meschino.« avete tutti un’inclinazione naturale al
tradimento.»
Geoffrey non fece un gesto, nulla cambiò sul suo
volto.
Guillaume rimase per un secondo interdetto. Non si era aspettato quella
reazione, non si era aspettato di poter offendere l’onore di Martewall
rimanendo impunito. E allora… perché lo aveva fatto?
Ora che la reazione che si aspettava, da cui a sua
volta
sarebbe stato offeso, non era avvenuta, provava vergogna per ciò che
aveva
detto.
Martewall continuava a soppesare la sua figura.
Guillaume
sapeva che non stava provando rabbia. Vi era nei suoi occhi una strana
comprensione, una consapevolezza inquieta, una solitudine audace ed
elegante.
« Il ragazzo è stato, invece, molto fedele al suo
padrone.
Per questo adesso devo portarlo in Inghilterra. »
« Se questa è la vostra idea di fedeltà, potete
anche
ritornare in Inghilterra e non fare più ritorno. Qui non siete i
benvenuti. »
sbottò Ponthieau, alzando il mento con orgoglio.
« E per questo porto anche sua madre. Credo che
oramai sia
chiaro che ho il vostro permesso, non è vero? » rispose Martewall,
tagliente ma
calmo e pacato come la fredda nebbia delle foreste inglesi.
« Non fingiate che vi importi. »
« Non lo farei mai. »
si limitò a rispondere il barone, con un gesto vago. Ma prima ancora
che
potesse finire la frase, Guillaume lo interruppe, indolente:
« Ditemi una cosa, Leone di Dunchester. Chi
pensate che
possa essere Jean Marc de Ponthieau? Cosa volevate che diventasse per
voi? Ha
mai tradito qualche vostra aspettativa? È riuscito ad essere un amico
migliore
di colui che ha ucciso, alla fine? Si è fatto perdonare per questa sua
colpa? »
Ad ogni domanda il suo cuore pulsava più forte
nelle
orecchie, la sua voce diveniva più arcigna.
Martewall per un attimo sembrò preso in
contropiede. Perché
il nome di Jerome Derangale un segno dentro di lui lo lasciava ancora.
Poi il
suo sguardo per un momento si abbassò e tornò a guardare dritto in
faccia
Guillaume dopo un altro istante, più forte di prima.
« Anche io ho perso un amico. Anche io mi sento tradito da lui. » ammise, stringendo i
pugni. Guillaume parve risvegliarsi da un incubo, capì quanto ingiusto
fosse
stato, non si riconosceva e si sentiva terribilmente infantile.
« Mi dispiace. » si scusò, seppellendo l’orgoglio
in un
angolo del suo cuore dove non lo avrebbe fatto sentire un idiota. « ho
riaperto
per rabbia vecchie ferite. »
Geoffrey non gli aveva lanciato sguardi accusatori
o irati
per tutto quel tempo, neanche quando Guillaume lo aveva offeso. Solo
ora,
inaspettatamente, i suoi occhi erano duri e severi come mai li aveva
visti
prima.
« Non c’è nulla di “vecchio” nelle mie ferite. »
sibilò, la
voce profonda vibrante di rabbia. « Sapete cosa rimpiango di più di
Jerome,
Ponthieau? »
Guillaume scosse la testa lentamente, gli occhi
appena
dilatati sotto la maschera di falsa impassibilità.
« Rimpiango il non poter sentire come si sarebbe
giustificato. Rimpiango la sua occasione perduta di spiegarmi tutto, il
perdono
che non gli avrei dato, ma che avrei sempre potuto pensare di dargli. E
non era
mio fratello… »
Guillaume era paralizzato dalla sorpresa. E fu
come se dita
gelide gli stessero stringendo lo stomaco.
Geoffrey si girò e si allontanò da lui, mise una
mano sul
pomello della porta.
« Cercate solo… » disse,
senza più voltarsi « Di non fare per orgoglio o paura la mia
stessa
fine. »
Taratatàààà….
Ci
ho messo anche poco, no? Per essere Guillaume de
Ponthieau…
Sono
stata affetta da un’improvvisa ispirazione ed è
uscito questo, e presto dovrò riscattarmi con il conte perché forse il
capitolo
non gli rende giustizia. Ho fatto del mio meglio e ho deciso che prima
o poi
tornerò a sperimentare su di lui, dato che più tento di descriverlo più
lo
capisco.
Se
qualcosa non vi piace ditelo tranquillamente! Soprattutto
nella parte finale che è stato un po’ un azzardo da parte mia…
*Ma
non è mia la colpa! È tua, Jerome! Trovi sempre il
modo di intrometterti! Ti ho detto che non scriverò di te e Geoff
insieme per
un po’, ok?!*
Non
è d’accordo…
: \
Ringrazio moltissimo
anche solo chi legge… poi Beau Foxworth per la sua partecipazione e la
carissima Wrong_And_Right
che:
1 ha suggerito
Guillaume de Ponthieu tramando alle
mie spalle.
2 recensisce ogni
singolo capitolo (e le sarò
eternamente grata ; )
3 trama anche alle
spalle di
Brianna…
|
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Capitolo 7 *** Henry De Grandpré- Difese ***
Henry De Grandpré
Difese
Nessun disagio nella ribellione.
Questo era ciò che vedeva. Nessuna paura o
vergogna
nell’essere un ribelle, scomunicato, giudicato e, probabilmente molto
presto, duramente
punito. Henry de Grandpré non sapeva come avrebbe reagito lui,
ritrovandosi
nella stessa situazione del barone di Dunchester.
I suoi conterranei erano contro di lui, il diretto
discendente del suo re avrebbe sempre ricordato il suo tradimento, il
papa gli
aveva tolto l’unica certezza a cui poteva aggrapparsi e l’idea di
morire adesso
doveva essere intollerabile.
Eppure non era bastata l’idea del futuro infernale
ed eterno
che lo aspettava dopo la morte a farlo vacillare, in un panorama in cui
la
Francia non poteva essere un appiglio famigliare a cui aggrapparsi se
la guerra
fosse finita nel peggiore dei modi.
Henry credeva fermamente che, anche se all’inizio
Martewall
era stato restio a combattere contro il re per il quale erano morti i
suoi
fratelli, la ribellione fosse per natura nelle sue corde.
E adesso solo la vittoria poteva portare a una
prospettiva
futura piacevole. La sua morte e la sconfitta sarebbero state ancora
più
terribili di quelle di un qualsiasi altro uomo.
Henry adesso capiva appieno quale orrore
rappresentasse una
guerra civile. Capiva, attraverso il tentativo di immaginare come ci si
dovesse
sentire a combattere contro i propri conterranei, coloro che un tempo
erano
stati compagni.
E provava rispetto e ammirazione verso quell’uomo
che, pur
sapendo di essere alleato del fronte in svantaggio, non agiva per
opportunismo e
resisteva a testa alta.
Non erano amici, e probabilmente non lo sarebbero
mai stati
nello stesso modo in cui Henry lo era diventato con Etienne de
Sancerre, Jean o
Henry de Bar. I suoi compagni d’arme erano più esperti di lui, ma
sottolineavano sempre le sue qualità, e lo facevano sentire un loro
pari.
Probabilmente non sarebbe mai riuscito a sentirsi
al pari di
Martewall.
L’inglese possedeva un’ aurea di potenza diversa
da ogni
altro uomo che Henry avesse conosciuto. C’era qualcosa in lui che
spingeva i
suoi nemici a temerlo, i suoi sottoposti ad obbedirgli senza la minima
esitazione, qualcosa di intangibile e invisibile, solo percepibile.
Henry era molto bravo a percepire le cose. E
quando pensava
a Martewall in guerra gli sembrava che fosse esattamente nel posto in
cui
doveva essere, perché gli anni passati a combattere avevano lasciato un
segno
in lui. Ora era un veterano e sapeva guidare un esercito come se fosse
nato per
farlo.
Henry notava il suo senso di indifferenza e
repulsione per i
banchetti, per le lunghe giornate vuote
e calde tra le mura di un castello, la sua noia e l’impazienza mentre
osservava
fuori dai grandi finestroni di Seour, aspettando di poter tornare in
Inghilterra e rivivere il piacere dei viaggi e provare a creare un
futuro
migliore per la sua terra.
Probabilmente Martewall non pensava potessero
esserci altre
strade per lui. Che tutto ciò che non riguardava la battaglia, i suoi
doveri e
la difesa di ciò che riteneva giusto gli sarebbe stato sempre negato
dalla vita.
Henry sperava che non se ne fosse convinto troppo.
Ma non potevano certo essere loro a
spiegarglielo, lui e Jean lo sapevano bene e si trovavano d’accordo,
Henry ne
era convinto, anche se mai ne avevano parlato.
Henry sorrise nel vedere la persona che avrebbe
potuto far
crollare tutte le certezze dell’anima fredda di Geoffrey Martewall. Si
avvicinò
con passo calmo, ma attento a non farsi sentire, lo sguardo velato di
malizia.
Se c’era una cosa che sapeva fare meglio degli
altri era
scavare nell’anima delle persone, intuirne la sostanza. Brianna
Foxworth si era
guadagnata la sua simpatia fin dal primo momento che aveva passato in
Francia
come dama da compagnia e serva di Isabeau. Henry provava un grande
rispetto nei
suoi confronti. Era una donna forte, combattiva e indipendente, che da
ragazzina si era ritrovata disprezzata da tutti, sola con il suo
bambino da
proteggere e da amare.
Lei e Martewall condividevano l’incomprensione del
mondo.
La conosceva oramai abbastanza da sapere che
Martewall si
meritava una donna come lei al suo fianco. A discapito di ogni
pregiudizio,
malgrado ogni convenzione. Più li osservava più si convinceva che così
dovessero andare le cose.
*
La stanza era rischiarata solo dalla luce
divampante del
camino. Si erano riuniti lì dopo la cena, con molta discrezione.
Era prevedibile che la discussione sarebbe caduta
inevitabilmente su Adolphe de Gant.
«Risolveremo la situazione, non temete. » disse
infine Jean con
orgoglio ma anche con aria stanca e il tono di chi vuol chiudere al più
presto
la conversazione. « Ma serve tempo, Etienne. E serve una strategia. Non
puoi
accusarlo senza prove e non puoi ucciderlo senza il benestare del re.
Devi
fartene una ragione. » decretò, deciso, incatenando lo sguardo di
Etienne de
Sancerre al suo.
Etienne lo osservò mentre alle sue spalle il cielo
si
incupiva. Annuì una sola volta, la mascella contratta dalla rabbia.
« Pensi che non riuscirete a provare la sua
colpevolezza. »
La voce di Martewall ruppe il silenzio e vibrò,
profonda,
nella stanza per la prima volta in quella sera. Etienne lo guardò
appena, e
l’incertezza nel suo sguardo non gli si addiceva affatto.
« Gant avrà ciò che merita. Guardati attorno,
Sancerre, e
scoprirai che si è già fatto troppi nemici. »
Tra tutti loro, Martewall in quel momento era
l’unico
davvero sicuro di ciò che diceva. Henry fu grato della sua presenza,
anche se
solo momentanea. Sembrava essere il solo che riuscisse a mettere fine
in due
parole alle proteste di Etienne, come se fosse abituato, più che ad
esercitare
l’arte della diplomazia, che gli era del tutto estranea e con Sancerre
non
funzionava, a gestire personalità irruente.
« E tu, inglese, quanti nemici hai? Metà
dell’Inghilterra
desidera vedere la tua testa su una picca, e forse anche buona parte
dei francesi.
Eppure sei ancora qua.»
« Etienne, per favore! » Henry si sentì in dovere
di
intervenire, scuotendo la testa esasperato. « vuoi forse paragonare
Gant a sir
Geoffrey? »
« No! » affermò subito Etienne indignato « non
intendevo
dire questo. »
Mentre Jean sospirava, Martewall lo tranquillizzò
con uno
sguardo neutro e un gesto per lasciare intendere che non era offeso.
« Io non ho mai cercato di non farmi nemici. Gant
invece si
è sempre guardato le spalle e ha fatto in modo di sembrare il più
devoto dei
cristiani, il più fedele dei francesi e il più onesto dei vassalli. Non
credo
si sia mai trovato in una situazione simile. Questo dovrebbe darvi un
vantaggio. »
De Bar annuì seguito a ruota da Jean, trovandosi
evidentemente d’accordo con ogni parola.
Jean incrociò le braccia al petto e si toccò
istintivamente
la spalla.
« è scaltro. » dovette ammettere, cupo.
« Ma non è l’unico ad esserlo. » affermò
Martewall,
includendo tutti nella sua occhiata eloquente.
Martewall non aveva uno spirito arrendevole,
questo era
certo. E pur avendo la sua guerra e i suoi tormenti personali in quel
momento
stava lì con loro, ad assistere ad una conversazione che non avrebbe
comunque
portato a niente, a cercare di placare la rabbia cieca di Etienne e a
dare
sostegno a Jean, in uno dei luoghi chiusi e affollati che tanto odiava.
Henry
apprezzava in modo particolare il suo parere, razionale e lucido, non
forzatamente ottimistico.
Sancerre ghignò sarcastico.
« Se non ti bastava già metà dell’Inghilterra,
gioisci,
Martewall… hai un altro nemico. »
La frase fece drizzare la testa di Jean. De Bar
fulminò
Etienne con lo sguardo.
« Scusa. » fece Etienne a Jean, alzando una mano
con sincero
dispiacere, ma anche in parte divertito.
Martewall scosse le spalle noncurante. Il Falco
però non si
astenne dal guardarlo preoccupato, in attesa della sua opinione.
« Gant è ossessionato da te, perché solo tu puoi
mandarlo in
rovina. Io non ho importanza per lui. »
« Chiunque interferisca nei suoi piani ha
importanza per
lui. » lo contraddisse Jean.
Martewall aveva un modo tutto suo di mostrarsi
spavaldo, con
una strana naturalezza e noncuranza, ed era chiaro a tutti che ne
avesse pieno
diritto.
*
Ogni volta che lo
guardava, non poteva fare a meno di ripensare a quel giorno.
L’aria era calda, rischiarata dal sole rovente del
primo
pomeriggio. I cavalli si abbeveravano nel ruscello, stanchi, scuotendo
la coda
e la criniera per scacciare le mosche. Henry accarezzava distrattamente
il
collo del suo destriero, e aveva solo voglia di varcare le soglie della
contea
di Champagne e tornare a casa.
Era accerchiato dai suoi soldati e da un paio di
scudieri. I
volti di coloro che mancavano dal giorno della battaglia di Bouvines
gli
tornavano però sempre in mente e pesavano sul suo cuore come macigni.
Improvvisamente fu distratto dai suoi pensieri dal
passo
deciso di molti uomini, dal clangore dei loro armamenti e dalle voci
che si
alzavano ed abbassavano, berciando ordini.
Guardò sulla strada di terra secca dietro di lui,
come molti
dei suoi uomini. Vide una carovaniera
formata da tre soldati in testa e almeno il doppio di loro dietro.
Erano a
cavallo e accerchiavano qualcosa che dalla posizione in cui si trovava
Henry
era impossibile da definire. Il giovanissimo conte rabbrividì
istintivamente,
portando la mano alla spada. Uno dei suoi soldati più anziani
intercettò il suo
movimento e gli si avvicinò.
« è il conte di Soissons coi suoi cavalieri,
signore. »
Henry aguzzò la vista e riconobbe prima i blasoni
sulle
cotte di maglia, poi il volto navigato del conte. Si preparò a
salutarlo
solennemente, sebbene non gradisse la sua compagnia. Quelle erano le
sue terre
e solo grazie alla sua benevolenza Henry aveva potuto transitarvi e
accorciare
il suo viaggio.
Soissons lo raggiunse e gli strinse la mano con un
grande
sorriso e parole cortesi. Henry notò che alcuni dei suoi cavalieri,
rimasti più
distanti, tiravano per le briglie dei cavalli senza padrone,
appartenuti forse
ai periti durante la battaglia.
Henry spostò lo sguardo dietro alle spalle di
Soissons,
mentre il conte ancora gli stava parlando, con un bagliore negli occhi.
L’uomo più anziano intercettò la sua occhiata e
ghignò con
soddisfazione.
« Ah, sì… » disse, smontando di sella e ordinando
con un
gesto ai suoi uomini di fare una sosta. « il re mi ha lasciato alcuni
prigionieri di guerra. » continuò, sorridendo e facendo segno a Henry
di
avanzare.
Lo sguardo del giovane si era incupito, e non
colse
l’invito. Una volta che i cavalli si furono spostati, Henry poté vedere
i
soldati sguainare le spade con le catene, che culminavano stringendosi
attorno
ai polsi dei prigionieri, ben salde nella mano libera. I soldati li
fecero
camminare verso gli alberi, quattro uomini di diversa età, tutti
insieme per
controllarli ogni secondo.
La scena fu straziante. Henry non riuscì a vederli
negli
occhi e ne fu grato, nessuno di loro sembrava avere la forza di
rialzare la
testa. Erano vestiti solo con braghe e camicie strappate sporche da
giorni, i
capelli unti e le barbe sfatte. Qualche macchia di sangue era visibile
anche
sugli abiti scuri, probabilmente dal giorno della battaglia decisiva.
Le gambe
cedevano a causa delle ore di cammino a piedi, le braccia sempre
contratte a
causa delle catene che le tenevano unite all’altezza dei polsi. Le
schiene si
incurvavano, esasperate dal caldo.
« Hanno viaggiato a piedi. » constatò Henry,
quando ebbe
riacquistato la voglia di aprire bocca.
« Certo. » disse Soissons, come se si chiedesse
perché
avrebbe dovuto confermare un concetto scontato.
« Ma avete cavalli liberi. » replicò Henry, cauto.
Soissons si aggiustò la manica ricamata con un
sorriso
indifferente.
« Sono inglesi? » chiese Henry, non provando
nemmeno a
forzare il suo silenzio.
« Sì. Tutti. » rispose l’altro. « Ma i Pontchateau
hanno
anche qualche imperiale. O forse fiammingo. Voi? »
Henry si chiese se il conte stesse parlando di
merci o di
persone, con lo sguardo a stento controllato e la mascella contratta.
« Io non voglio nessuno. » sibilò.
Il sorriso di Soissons si distese e il
sopracciglio destro
si alzò mentre annuiva.
« Neanche lui? » chiese, indicando con la mano
guantata un
punto al margine della strada. Là vi era un uomo costretto in ginocchio
da ben
tre soldati che non lo perdevano di vista neanche per un secondo. Era
separato
dagli altri e Henry suppose che fosse quindi il loro capo, o comunque
qualcuno
di rango superiore.
I quattro prigionieri si irrigidirono al vedere
quel gesto,
e provarono a scambiare qualche parola prima che una spada saettasse
sopra alle
loro teste.
A differenza degli altri prigionieri, il giovane
indicato da
Soissons teneva la testa, incorniciata da lunghi capelli castani,
faticosamente
alta per quanto poteva, e i suoi occhi si puntarono senza paura in
quelli del
conte più anziano. Henry vi lesse un odio dalla potenza, orgoglio e
fierezza
smisurati e distolse lo sguardo con un nodo alla gola, sebbene
l’occhiata
dell’inglese non fosse indirizzata a lui. Sul viso del sassone vi erano
chiari
segni di percosse.
Henry non avrebbe dovuto stupirsi. Ma persino il
pensiero
che gli inglesi avrebbero trattato allo stesso modo i francesi non
bastò a
frenare il suo disgusto.
« Perché dovrei volerlo? » chiese, mordendosi
l’interno
guancia.
Soisson alzò le spalle.
« Potreste chiedere un alto riscatto, è il figlio
di un
barone. E poi, lo conoscete. È stato il compagno dello sceriffo di
Flandre al
torneo di Bearne.»
Henry sgranò gli occhi dalla sorpresa e soppesò di
nuovo il
prigioniero con lo sguardo, per poi distoglierlo di nuovo, imbarazzato.
« Non mi interessa.
» mentì Grandpré.
Soissons osservò Martewall da lontano, cupo. « Ve
lo avrei
ceduto volentieri. » ammise, dopo qualche secondo, le braccia
incrociate al
petto. « Il suo sguardo mi suggerisce che potrebbe crearmi problemi. »
Henry non riuscì a trovare nulla da ridire. Ma con
la coda
dell’occhio gli sembrò d’intravedere il sospiro sollevato di un
prigioniero
pressappoco suo coetaneo, che aveva potuto intuire il discorso dei due
feudatari.
Non riuscendo a trattenersi osservò di nuovo il
barone in
faccia. I suoi occhi parevano dinamici ma nel contempo ricchi
d’esperienze,
immagini, sicurezze e tormenti. Il modo in cui lo scrutavano lo metteva
in
soggezione, artigliava l’anima sciogliendone i segreti e la tenacia, e
l’odio
infiammava le iridi di un fuoco guizzante ma gelido. Per
fortuna l’inglese non prestò mai molta
attenzione al ragazzo, concentrato su ogni mossa di Soissons e dei
soldati che
lo minacciavano con le spade sguainate.
Non erano gli occhi di chi proteggeva solo se
stesso. Henry
era oramai riuscito ad intuire il rapporto che univa Martewall ai suoi
compagni
e sapeva, così come il barone stesso, che la sua solitudine non poteva
essere appieno
compresa da loro. Loro che fino a quando lui sarebbe stato presente
avrebbero
avuto la loro guida, mentre lui, così consapevolmente inafferrabile e inarrivabile, avrebbe avuto solo se stesso.
*
C’era una cosa che non comprendeva di lui e che
gli metteva
davanti diversi interrogativi.
La capacità di mostrarsi spietato, tanto con gli
altri
quanto con se stesso. Henry non sarebbe mai riuscito a uccidere come
lui
uccideva e si chiedeva cosa ricercasse nella battaglia che altrove non
riusciva
a trovare. Gli sembrava naturale
chiedersi che cosa avesse vissuto, visto o sofferto.
In fondo, ogni uomo usava le difese che aveva per
creare un
baluardo potente contro le avversità del mondo. E Geoffrey Martewall ne
aveva
bisogno più di molti altri. Henry
sentiva una punta di invidia, la stessa che provava nel notare la
naturalezza e
la sicurezza con cui si faceva obbedire dai suoi uomini, al pensiero
che, più
che difese, quelle di Martewall sembrassero armi.
Eccomi
faticosamente di ritorno : )e siamo al sette. Ancora
lontani dalla fine.
Come
se io sapessi quale sarà il momento della fine…
Ooook
il capitolo mi sembra un po’ corto, ma doveva
finire qui. Avevo paura di essere ripetitiva confrontando questo
capitolo con
quello dell’altro francese che ho stressato per, forse, giorni o
settimane:
Etienne. Fra tutti è il capitolo che mi convince meno, Henry si è
rivelato più
insidioso di quanto pensassi.
Spero
di essere riuscita a comprenderlo bene…. :
)
Eeeee…
invece, per il prossimo capitolo, avrei voluto lasciare
spazio anche al povero Henry de Bar… se lo merita e mi sta simpatico.
Però per
adesso ci studiamo da lontano, lui mi guarda e non dice una parola: \
Avrei
un’altra ideuzza, e questa è più consolidata, ma
dovrei tornare ad un’inglese… e potrebbe, forse, probabilmente,
comparire un
Geoffrey Martewall più o meno… della mia età ; )… si vedrà.
Ciao
e grazie per essere arrivati fin qui!
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Capitolo 8 *** Kerwick-Vendetta ***
Kerwick
Vendetta
Lo conosceva da quando erano entrambi bambini.
Ci si sarebbe aspettato che in tutti quegli anni
avessero
creato un legame, in qualche modo. Le mura di Dunchester non erano poi
così
larghe, e due bambini all’incirca della stessa età, il terzo figlio del
barone
e il figlio di uno dei suoi più fedeli cavalieri, avrebbero potuto
facilmente
fare amicizia, giocare e sognare insieme fino a quando non avessero
entrambi ricevuto
l’investitura.
Ma non successe così.
Kerwick passò tutta l’infanzia tra le mura del
castello,
servendo suo padre come scudiero. Conosceva molto bene il barone di
Dunchester,
che lo gratificava ogni volta che lo vedeva svolgere efficacemente e
con zelo
il suo dovere. Conosceva il suo carattere, le sue attività preferite,
il falco
che avrebbe dovuto portargli ogni qualvolta avesse avuto voglia di
andare a
caccia. Sapeva cosa fare per aiutarlo nella vita di tutti i giorni e
sapeva
cosa non fare per non farlo arrabbiare.
Ammirava suo padre e il barone oltre ogni misura.
E
conosceva i figli di quest’ultimo.
C’era Richard, il maggiore e l’erede, dallo
spirito ardito e
tanta voglia di avere successo in ogni cosa. C’era Peter, mite e
pacato, che lo
salutava sempre con un sorriso sincero. C’era l’unica femmina, l’ultima
dei
figli di Harald Martewall, Leowyn. Di lei Kerwick avrebbe potuto
parlare
all’infinito senza stancarsi mai.
Il terzo degli eredi era Geoffrey.
Kerwick aveva sentito dire spesso che la sua
esistenza, per
quanto fosse cara ad Harald, non era mai stata necessaria. Da un punto
di vista
prettamente razionale, era curioso che vi fosse un terzo figlio maschio
ad
arricchire un matrimonio combinato come quello di Martewall e sua
moglie. Due
eredi facevano sempre comodo, il terzo solitamente si poneva a capo di
un’abbazia, oppure si addestrava per i tornei. Non avrebbe mai ricevuto
un’eredità. I Martewall non erano baroni così ricchi da poterla
concedere a più
di due eredi, più la dote per la figlia femmina.
Sentiva parlare molto spesso della famiglia
Martewall, dai
suoi genitori, quando si riunivano a tavola nella loro casa in una zona
privilegiata del borgo di Dunchester. Suo padre gli raccontava delle
sue
avventure in guerra passate assieme a sir Harald e il bambino non si
stancava
mai di ascoltarle. E c’erano giorni in cui si parlava di lui,
il terzogenito del barone. I suoi genitori a volte ricordavano
il giorno in cui era nato, un giorno in cui il mare era in tempesta, a
volte si
domandavano quale futuro lo aspettasse.
« Qualcuno nella sua condizione… » aveva mormorato
una volta
il padre, riflessivo, gli occhi che non vedevano davvero la parete
della loro
casa, in una sera in cui l’ombra nera della guerra incombeva su di loro
e si
percepiva sulla pelle. « Può avere solo una vita ordinaria e stagnante
o
gloriosa e difficile. Senza nessuna via di mezzo. »
Kerwick non aveva compreso il senso delle sue
parole. E non
aveva cominciato allora ad osservare Geoffrey e a studiarlo, perché da
sempre
il terzogenito aveva attirato la sua attenzione più di ogni altro. Non
aveva
mai osato rivolgergli la parola, provava una sorta di timore che solo i
bambini
timidi e insicuri potevano avere.
Davanti a lui si
sentiva a disagio. Non che credesse che fosse un bambino cattivo,
semplicemente
Geoffrey non aveva mai mostrato di aver notato la sua presenza in
quegli anni,
troppo concentrato su altro e soprattutto troppo superiore a lui, sotto
diversi
aspetti. Kerwick ammirava la sua forza d’animo, ma non gli si
avvicinava, in
parte per paura di venire trascinato in qualche guaio, come era oramai
un’abitudine per il suo piccolo signore, in parte perché si sentiva
veramente
inferiore a lui. Lui, che aveva mostrato un talento per la scrima così
palese
che sir Harald, con orgoglio, non aveva avuto dubbi fin da subito su
quale
carriera Geoffrey avrebbe intrapreso.
Kerwick ci metteva una settimana per imparare ciò
che lui
imparava in un giorno. Gli voleva bene, ma da lontano, dato che con la
timidezza che si ritrovava ad avere da bambino non sarebbe riuscito a
stargli
dietro o a farsi apprezzare da lui, che possedeva un carattere così
dinamico.
Geoffrey era l’irrequieto, il solitario, il
ribelle. Le
regole imponevano al suo spirito troppi limiti e lui sentiva
irrimediabilmente
l’istinto di superarli. Geoffrey era il contestatore, il sognatore,
l’arrabbiato e l’idealista. E quello che finiva sempre per far tirare
fuori la
verga dal padre per più volte.
Era testardo e orgoglioso. Sir Harald lo
rimproverava di
continuo di voler fare sempre di testa sua e di avere poca capacità
d’ascolto,
e Kerwick era d’accordo con lui non solo perché era il suo signore, ma
anche
perché la testardaggine di Geoffrey era visibile chiaramente a tutto il
castello. Il piccolo barone però aveva dimostrato più volte di avere
inventiva
ed audacia, soffriva terribilmente una volta che aveva finito di
litigare col
padre, ma non per questo era disposto a cedere se riteneva qualcosa
ingiusto.
Ammirava senza riserve suo padre, lo si poteva
notare
chiaramente, e faceva di tutto per non mostrarsi troppo dispiaciuto
quando
veniva punito. Kerwick non ricordava una sola volta in cui lui avesse
tentato
di sottrarsi ad una punizione, una volta che il padre gli si poneva
davanti con
lo sguardo severo.
Harald lo rimproverava duramente, molte volte e
anche
davanti ai servi o agli scudieri. Subito dopo però Kerwick vedeva una
punta di orgoglio
nei suoi occhi e nel suo sorriso, a stento nascosto. Un vero sentimento
di
collera e un vero sentimento d’orgoglio che si contendevano il posto in
uno
sguardo. La cosa che più lo rattristava, era il sospetto che quella
fierezza
Geoffrey non avesse mai potuto vederla.
« Sir Harald ha una vera e propria predilezione
per lui. »
La madre di Kerwick aveva guardato suo marito,
quella sera,
con aria scettica, scuotendo la testa. « se dovesse avere una
predilezione per
uno dei suoi figli, non sarebbe per lui. »
« Ti sbagli. » ribadiva sir Kerwick con un sorriso
sicuro.
Il tempo passò e sir Harald andò in guerra col
figlio
Richard. Peter invece li avrebbe seguiti per una parte di strada, per
poi far
visita ai monaci del monastero di Glenheaven, come era suo desiderio da
molto
tempo. Sir Harald l’aveva accontentato, perché Peter era un ragazzino
così
gentile e arrendevole che non farlo dopo così tanto tempo e sapendo che
non
sarebbe stato presente per chissà quanti mesi l’avrebbe persino fatto
sentire
in colpa.
Kerwick aveva visto
solo allora, per la prima volta, paura nello sguardo di Geoffrey.
Quegli occhi
solitamente così risoluti anche di fronte alla verga di sir Harald, in
quel
momento fremevano d’angoscia e il petto si alzava e si abbassava con
meno
naturalezza. Non c’era solo paura, ma anche tanta rabbia. Kerwick la
guardava
con preoccupazione e capì solo qualche giorno dopo, quando assistette
ad un
allenamento di Geoffrey dai movimenti particolarmente esasperati.
Provò una sottile vergogna. Suo padre gli aveva
detto che
era normale che provasse paura, e che anche lui aveva paura, per questo
non
avrebbe potuto portarlo con lui. Disse che era ancora molto giovane e
avrebbe
avuto tutto il tempo per seguire il suo cavaliere in guerra come
scudiero e che
per ora doveva solo sentirsi sollevato ed allenarsi tanto. Kerwick gli
aveva
creduto subito e non aveva più avuto dubbi, né aveva provato imbarazzo
nel
restare a Dunchester. Suo padre disse che anche sir Harald aveva detto
le
stesse cose ai suoi figli, che sarebbero dovuti rimanere soli per quei
mesi,
perché la madre li aveva lasciati ormai da tempo, tanto che Leowyn se
la
ricordava solo vagamente.
Però, oramai Kerwick lo sapeva. Geoffrey non
avrebbe mai
neanche provato a non sentirsi arrabbiato.
*
Il castello era in fermento e cercava notizie
ovunque, ma
queste arrivarono in modo non frammentario solo con il ritorno di sir
Harald. Geoffrey
era stato molto solo in quei mesi. Passava del tempo con la sorellina
quando ne
aveva voglia, ma sfuggiva con ammirevole destrezza alla compagnia dei
suoi
istruttori o delle balie. Kerwick sentiva uno strano bisogno di tenerlo
d’occhio, e il suo carattere stava mutando pian piano, divenendo più
sicuro con
l’età. Aveva provato a parlargli, un giorno in cui Geoffrey non era
riuscito a
nascondere la rabbia e l’angoscia che lo tormentavano e in cui lui
aveva buone
notizie da portargli.
« Signore?»
Geoffrey non si voltò.
Rimase col braccio leggermente alzato e con un pugnale pronto ad essere
lanciato nella mano.
« Cosa c’è? »
« Abbiamo buone nuove,
signore! Alcuni abitanti del borgo dicono che hanno sentito dire che
vostro
padre sta tornando!» affermò Kerwick gongolante. Geoffrey lanciò il
pugnale e
fece quasi centro sul bersaglio, cupo in viso.
«Sono solo voci. »
replicò laconico, e Kerwick vide la tristezza dipingersi nel suo
sguardo.
Geoffrey si accorse
della sua occhiata e lo osservò arrabbiato, incrociando le braccia al
petto.
« Altro?» chiese,
gelido.
Kerwick abbassò il
capo imbarazzato.
« No, signore. »
« Allora puoi andare.
E aspetta che tornino le sentinelle prima di credere alle notizie. »
Kerwick annuì
dispiaciuto. Lui e il giovane barone avevano la stessa età, ma
Geoffrey,
nonostante il fisico smilzo, pareva senza dubbio più grande.
Il bambino si voltò
un’ultima volta prima di lasciarlo solo.
« Siete ancora
arrabbiato con sir Harald? »
Geoffrey serrò la
mascella, andò a recuperare il suo pugnale e non rispose.
« Io… se permettete…»
cominciò esitante Kerwick, che non aveva molta voglia di chiudere il
discorso
così presto. « Io penso che dovr…»
« Io penso che
dovresti farti gli affari tuoi. Vattene via. » ordinò secco Geoffrey,
con una
punta dell’aria capricciosa tipica dei ragazzini, interrompendolo con
uno
sguardo infastidito. Kerwick aveva le orecchie rosse.
« Scusate…» poi, un
attimo prima di girarsi, respirò a fondo e si inchinò con la fretta
dell’imbarazzo. Si presentò velocemente, biascicando tutto d’un fiato.
Geoffrey
annuì con noncuranza.
« Guarda che lo so chi
sei. » disse, con un tono tra l’impaziente e l’infastidito.
Il sorriso di Kerwick
divenne raggiante d’orgoglio e soddisfazione.
*
Kerwick vide Geoffrey guadagnarsi il rispetto di
quelli che
sarebbero presto diventati i suoi uomini, in un modo assoluto che non
lasciava
spazio a dubbi e perplessità nella mente dei soldati.
Lui non aveva bisogno di convincersi di nulla. Era
già da
molto tempo che lo ammirava, il suo atteggiamento fiero e distaccato e
orgoglioso anche nei momenti più bui, il suo spirito indipendente e la
sua
impazienza nel diventare adulto, tutto questo gli aveva fatto capire
che lo
avrebbe seguito con ancora più ardore di quanto avrebbe fatto coi suoi
fratelli.
Era stata una considerazione non ponderata ma
quasi
istintiva, che si era consolidata col passare del tempo. E non vi era
quindi
una teoria logica per spiegarla, ma forse a Kerwick non serviva. Non
gli
serviva sapere perché avrebbe dato ogni fibra dei suoi talenti per
servire il
suo giovane e scontroso signore. Sapeva che Geoffrey si meritava il suo
rispetto e la sua lealtà, e tanto gli bastava.
Stavano crescendo entrambi. Kerwick vedeva
Geoffrey raggiungerlo
in altezza e larghezza di spalle e accentuare la differenza d’abilità
militari
che li distingueva. Viaggiava molto, spesso da solo, per i boschi e i
villaggi
del suo feudo, e spesso seguiva il fratello Richard in occasione di
tornei o
per qualche battuta di caccia. Il suo spirito non tollerava
l’inattività. Si
era impegnato per gestire i cani da caccia, i falchi e i cavalli,
prendendosi
la responsabilità di selezionarli e sfruttarli, come se non volesse
fermarsi un
momento. I soldati gli si rivolgevano sempre più spesso per i motivi
più
svariati, e molte volte Geoffrey chiedeva loro di fargli da avversari,
e loro
avevano imparato a non privilegiarlo mai in nessun modo, per evitare la
sua
rabbia. Sir Harald riponeva in lui una fiducia assoluta, e chiedeva
spesso il
suo consiglio. Geoffrey si impegnava nel studiare le arti militari e
dimostrò
di avere una spiccata abilità nei panni dello stratega. La sua
dinamicità si
era disciplinata, forse, ma non assopita. Il suo sguardo fremeva di
continuo,
alla ricerca di qualcosa di indefinito, instancabile. L’eco di
un’antica
ambizione riecheggiava nelle sue iridi assieme a una celata e perpetua
insoddisfazione.
Kerwick provò una gioia sincera nel vedere sir
Harald
conferire al minore dei suoi figli maschi l’investitura a cavaliere.
Non
avrebbe mai dimenticato il sorriso del barone in quel momento. Volle
cingere
lui stesso la spada al fianco del figlio, quell’arma che aveva
commissionato
personalmente. Gli occhi di tutti i presenti erano puntati su Geoffrey,
con
fiducia e orgoglio. Sir Harald lo abbracciò, una volta che si fu alzato
dalla
posizione inginocchiata in cui aveva pronunciato i giuramenti.
Geoffrey era molto giovane, ma decisamente pronto
per
divenire cavaliere, sotto il punto di vista delle abilità, delle
esperienze e
dei principi morali.
Diversi mesi passarono e Kerwick li sfruttò
impegnandosi
ancora più del solito, per raggiungere il suo signore e seguirlo nelle
sue
esperienze.
Successe troppo rapidamente, ciò che sir Harald
più temeva.
Da qualche settimana il barone aveva cominciato ad apparire pensieroso,
preoccupato, con gli occhi distanti e l’aria ombrosa. Spesso osservava
Geoffrey
con una ruga d’inquietudine in mezzo alla fronte e emetteva un respiro
un po’
più profondo. Tutte le settimane arrivavano dei messaggeri, che
parlavano solo
con lui e, dopo qualche tempo, coi cavalieri più fidati. Alle domande
dei figli
non dava risposta.
*
Kerwick non avrebbe voluto comportarsi da spia.
Provava, in
quel momento, una certa vergogna, e una sorta di sottile disgusto per
se
stesso. Spiare il suo signore in un momento tanto delicato e privato
non gli
faceva onore ed era un gesto che sfiorava l’ingiustizia.
Non aveva iniziato di proposito. Semplicemente, si
era
trattenuto più a lungo nell’armeria e quando aveva attraversato il
chiostro per
rincasare aveva sentito sir Harald e Geoffrey discutere sotto il
porticato.
Era oramai sera inoltrata. L’oscurità era
rischiarata solo
dalle luci delle torce, ma non così tanto da coprire una distanza più
ampia di qualche
passo. Le figure del barone e del figlio erano segnate da luci e ombre
che le
rendevano quasi inquietanti e che accentuavano il dinamismo dei loro
volti.
Kerwick poggiò la schiena ad una colonna con le
sopracciglia
contratte dalla preoccupazione, ancora avvolto dall’ombra.
« Non potete negarmi anche questo! Non adesso,
non dopo tutto il tempo in cui ho aspettato e in cui sono
rimasto a guardare senza fare niente!» la voce di Geoffrey saettò per
il
chiostro. Kerwick rabbrividì, non solo a causa dell’aria pungente.
Intuiva,
anzi, sapeva a cosa Geoffrey stava alludendo. Una volta che le notizie
erano
state accertate, tutti i feudi avevano saputo della chiamata alle armi
di
Giovanni Senza Terra. Kerwick sapeva che sir Harald non credeva che non
si potesse
arrivare ad una tregua prima della venuta dell’anno nuovo, quel periodo
era
molto instabile e incoerente.
Ma Richard Martewall era morto per una sola
battaglia
combattuta male dall’esercito inglese.
Anche una sola battaglia poteva bastare, con così
poco tempo
per organizzarsi, con una situazione così incerta.
E sir Harald non nutriva nessuna stima né fiducia
nel suo
re.
« Ti ho già spiegato le mie motivazioni, Geoffrey,
e non
sprecherò altro tempo perché ti ostini a non ragionare! » disse sir
Harald con
un gesto imperioso del braccio, il tono severo e lo sguardo bruciante.
« Allora spiegatemi, che cosa dovrei farmene della
mia
investitura?!» chiese Geoffrey, sarcastico e amaro, senza timore né
prudenza,
perché la prepotenza delle sue convinzioni evidentemente superava ogni
altro
sentimento e la capacità di vedere quel confine invisibile da non
oltrepassare.
« Mi avete voluto cavaliere solo per portarvi il
denaro dei
tornei!»
Kerwick sapeva che non lo pensava davvero. Le sue
parole
erano dettate dalla rabbia e dalla frustrazione. Ma non per questo
avrebbero
ferito di meno.
« Come puoi pensare
questo?! » la
reazione di sir Harald era stata immediata e terribile. Respirò a fondo
per
riprendere il controllo di se stesso e si allontanò di un passo dal
figlio,
perché gli si era avvicinato tanto che quasi la sua barba gli sfiorava
i
capelli. « Non azzardarti mai più a ripetere una cosa del genere. »
continuò,
col tono più basso, tremante ma controllato. « Mi fa male sapere che
pensi questo
di me. » affermò infine, ed era chiara la sua ferrea volontà di essere
onesto
in tutto e per tutto con suo figlio.
Geoffrey abbassò per
un momento
lo sguardo mordendosi le labbra.
Suo padre allora
incrociò le
braccia al petto e respirò lentamente l’aria gelida.
« Ti ho voluto
cavaliere perché
ti credevo pronto. »
« Io lo sono!»
affermò Geoffrey
serrando i pugni.
« lo so. » sospirò
sir Harald. «
Ma vorrei che tu avessi più capacità di giudizio e che sapessi
comprendere i
tuoi limiti. »
Alzò una mano per
frenare sul
nascere le proteste del ragazzo e ricominciò ad alzare il tono della
voce, a
renderlo più severo e a stracciare il velo di rassegnazione di cui era
intriso
e che Geoffrey non sopportava.
« Tu resterai qui
perché vivi
ancora sotto il mio tetto. Sono costretto a mandare Peter e ad andare
io
stesso, ma per te posso trovare una giustificazione e lo farò. Non
manderò a re
Giovanni più di quanto gli devo. »
« E perché? » sbottò
Geoffrey« è
il nostro re!»
« Ci trascinerà tutti
in una
guerra inutile che non possiamo affrontare. Non senza una buona guida.
Lui non
è una buona guida. »
« Come potete saperlo? Tutte quelle voci sul fatto
che abbia
sacrificato il fratello… non vi è nessuna prova! »
Sir Harald sorrise amaro.
« Ti comprendo, Geoffrey, perché da ragazzo ero
esattamente
come te. Vedevo ingiustizie dove non c’erano. »
Geoffrey scosse la testa con impazienza.
« Io sono un cavaliere adesso. Siete stato voi ad
investirmi
di questo titolo e non mi interessa se ve ne pentite…»
« Io non ho mai dett…» provò a protestare sir
Harald,
tenace.
« Non subirò di nuovo l’umiliazione di restare a
guardare
senza fare niente! Di vedervi partire senza rischiare nulla di persona
per la mia
terra e per la mia famiglia! »
Sir Harald sospirò seccato.
« Ora non venirmi a dire che non ti ho fatto fare
esperienza. Ti ho lasciato a Dunchester una sola volta, in tutti gli
altri miei
viaggi ti ho sempre portato con me anche se eri solo un bambino. »
« Quell’unica volta è stata la sola in cui siete
andato in
guerra. »
« Solo per qualche mese. Poi c’è stata la tregua.
»
« E io come facevo a saperlo?!»
Il silenzio calò come una falce spietata tra loro.
Ognuno di
loro sembrava meditare sulle parole dell’altro. sir Harald senza dubbio
pensava
al senso di abbandono di Geoffrey. Per quanto riguardava il figlio,
Kerwick non
riusciva a decifrare i suoi pensieri. Provava costantemente il timore,
gelido e
terribile, di essere visto e si sentiva in colpa per questo. Voleva
solo che si
spostassero così da potersene andare senza colpo ferire.
« Tu non sai nemmeno perché vuoi combattere. »
sentenziò sir
Harald. Kerwick si aspettava da Geoffrey una risposta secca, gelida e
furente.
Invece il ragazzo sorrise, agghiacciante, con una
sfumatura
spietata tra le labbra.
« Credete? »
Il padre attese qualche secondo che aggiungesse
dell’altro,
prima di perdere la pazienza come faceva sempre quando la
preoccupazione lo
assaliva.
« Tu rispondi ancora a me!» sbottò duramente la
voce di sir
Harald, severa, irata, aspra. « E rispondi a Dunchester! Resterai qui a
difenderla in caso di bisogno. Ti lascio il pieno controllo del
castello, che è
ciò che abbiamo di più prezioso! Non ti basta!?»
« Mi chiedete se mi basta?» chiese Geoffrey tra i
denti. « Hanno
ucciso Richard! Come potete accettarlo in questo modo? Come potete non
desiderare che ne muoiano il più possibile? »
Kerwick trattenne il fiato, colpito da quelle
parole come se
avesse ricevuto una stilettata al petto. Non aveva mai immaginato che
ci fosse questo dietro lo sguardo di Geoffrey, che,
due anni prima, era diventato fin troppo freddo. Sapeva che vi era
celata tanta
sofferenza, eppure il ragazzo aveva nascosto bene la sua voglia di
vendetta,
aveva atteso, terribilmente solo nel suo desiderio di agire al più
presto,
appena l’occasione si fosse presentata.
Eppure Kerwick non avrebbe dovuto stupirsi.
Ricordava col
cuore in gola lo sguardo di Geoffrey puntato sulla bara del fratello, e
ancor
prima sulla sua salma, ricordava ogni sfumatura delle sue iridi anche
se aveva
avuto il coraggio di guardarle solo per pochi istanti. E ricordava il
legame
che univa i fratelli Martewall, l’ammirazione di Geoffrey nei confronti
di
Richard e il modo in cui il più grande insegnava qualche trucco con la
spada al
fratello minore di cui andava tanto fiero.
Trovarsi di fronte un ostacolo dopo due anni in
cui la sua
anima si era nutrita di rabbia e odio per sopportare il dolore doveva
essere
per Geoffrey più che frustrante.
Kerwick sperò con tutte le sue forze che sir
Harald lo
fermasse.
Non sentì più nulla. Quando si sporse per vedere,
vide sir
Harald trattenere saldamente suo figlio per il braccio per impedirgli
di
andarsene, sussurrargli qualcosa mentre Geoffrey ribadiva a voce più
alta che
sarebbe partito con o senza il suo permesso. Il barone lo fulminò con
lo
sguardo saettante.
« Dannato ragazzino! Spero almeno che tu possa
trovare
motivazioni più onorevoli per scendere in battaglia, allora. » sbottò
sir
Harald alla fine, con un gesto esasperato e un misto di rabbia e
preoccupazione
negli occhi.
Geoffrey sembrò indolente fino all’ultimo.
« Per adesso le mie mi bastano, padre. »
Ooook….
Mi
devo scusare, perché avevo detto che sarei riuscita
con ogni probabilità a pubblicare prima di Natale e invece….
Ormai
devo farvi gli auguri di buon anno!!!
Che
dire… questo capitolo è l’emblema dell’OC. Ho
inventato di sana pianta un po’ di cose… il carattere di Kerwick da
bambino, il
fatto che lui sia cresciuto a Dunchester…
Per
alcuni elementi mi sono rifatta alla cronologia
storica e al libro, come per azzeccare, più o meno, l’età di Geoffrey
alla
morte del fratello (che ho evitato di menzionare, ma dovrebbe essere
sui
quattordici anni, quindi ho fatto diventare Geoffrey cavaliere da molto
giovane, a sedici anni. Spero sia verosimile, d’altra parte non si fa
altro che
dire che è un veterano. E poi me lo immagino sempre più maturo, di
certo non il
classico ragazzetto con gli occhiali da moscone di terza liceo ).
Per
quanto riguarda la furia vendicativa… mi sono accorta
che nei capitoli precedenti ho accentuato molto poco questo lato del
suo
carattere. Un errore da non rifare, Geoffrey è caratterizzato da luci e
ombre.
*Jerome
annuisce convinto. *( è sempre bello avere la sua
approvazione. )
Spero
tanto che il capitolo vi sia piaciuto( almeno più
di quanto ha convinto me : )…)
Grazie
per essere arrivati fino a qui e BUON 2015 (a
chi piace festeggiarlo… )!!!!!!
Tacet
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Capitolo 9 *** Filippo Augusto-Destino ***
Filippo Augusto
Destino
Gli stivali piantati sulla terra brulla e resa
sterile dalla
sanguinosa battaglia sarebbero stati la prima cosa che i prigionieri
avrebbero
visto del loro supremo carceriere. Ed era giusto che fosse così.
Sentiva il sapore della vittoria sulla lingua,
dietro alle
labbra arricciate dalla soddisfazione. La guerra oramai era vinta. Gli
inglesi,
pochi e sparsi per tutta la pianura, vennero presto accerchiati dai
francesi,
disarmati, costretti in ginocchio e incatenati.
Vedeva tanti cadaveri di persone che aveva
conosciuto, ma
altrettanti uomini, fortunatamente, sorridevano nella sua direzione.
Quel
giorno sarebbe passato alla storia.
Filippo Augusto si guardava intorno e non vedeva
altro che
il suo riscatto verso la sorte che non aveva voluto favorirlo fino
all’ultimo.
Vedeva la grandezza della sua corona e della sua persona.
Ma non fu l’unica
meraviglia
che vide.
In quel panorama di sconfitti arresi e vincitori
orgogliosi,
l’eccezione lo incuriosì.
L’elemento che rompeva l’equilibrio e la pace
frenetica e
sollevata di una guerra conclusa.
Lontano dal suo sguardo, un inglese aveva ancora
la spada in
mano. I francesi che lo avevano notato nella confusione lo avevano
circondato e
lui li affrontava, sopportando la fatica e avventandosi sui nemici come
un’onda
di tempesta sullo scoglio, instancabile anche se consapevole dell’
inutilità
dei suoi gesti.
Oltrepassando i valletti che si accertavano delle
sue
condizioni, il re montò di nuovo sulla sella del suo cavallo oramai
sfinito e
lo costrinse al passo, raggiungendo il piccolo capannello di soldati
francesi
dall’aria timorosa. Quattro cavalieri lo seguirono all’istante, in
silenzio.
In mezzo ai soldati dalle tuniche azzurre col
fregio del
giglio vi era un giovane uomo senza elmo, i lunghi capelli castani
appiccicati
al volto sporco di sangue e sudore, incrostati di terra. Le
sopracciglia
contratte dalla stanchezza incorniciavano due occhi chiarissimi di una
freddezza assoluta contrapposta a un odio bruciante. Le dita erano
serrate
intorno alla spada, forti, il corpo pronto a staccare in qualunque
direzione
avrebbe potuto trovare un avversario. I tre soldati provarono a farsi
avanti,
uno con le corde e due con la spada. L’inglese mulinò la spada,
elegante e
preciso anche se ansante e spasmodicamente veloce, disegnando nell’aria
un
ampio semicerchio che solo per poco mancò la gola del primo soldato e
il petto
del secondo. I francesi grugnirono di rabbia, lanciando nel contempo
un’occhiata ai due cadaveri sul terreno vicino a loro. Il primo era un
loro
compagno. Il secondo, con la tunica sporca di sangue e polvere, i
capelli
biondi sparsi intorno al viso libero dall’elmo, era lo sceriffo
Derangale.
L’arrivo del re fu accolto con sollievo. I
francesi
osservarono guardinghi l’inglese, temendo di essere colpiti a
tradimento e si
allontanarono di qualche passo prima di inchinarsi.
Filippo Augusto li ignorò, osservando solo
l’inglese che
ricambiava con odio il suo sguardo, e con la coda dell’occhio riuscì a
notare
che uno dei suoi cavalieri stava infilando un dardo nella balestra.
Alzò la
mano per tranquillizzare tutti e riportò la sua attenzione
esclusivamente sul
giovane inglese, osservandolo attento, duro e severo.
« Capisci la mia lingua, inglese? »
Il giovane annuì una sola volta, freddamente e
senza
distogliere mai lo sguardo dal suo volto.
Filippo Augusto fece saettare per un momento lo
sguardo alle
sue spalle, là dove giaceva il corpo dello sceriffo, avvolto dal
mantello
cremisi.
« Non recheremo danno ai vostri morti. » affermò,
« Né li
offenderemo in alcun modo. » scandì in aggiunta, posando gli occhi
ammonitori
anche sui soldati, che annuirono convinti.
Jean Marc de Ponthieau aveva dei diritti sul suo
nemico. Ma
il re era abbastanza sicuro che gli avrebbe fatto avere degna
sepoltura, appena
lo avesse rivisto in mezzo alle piccole sortite mal organizzate che gli
Imperiali tentavano prima di essere ancora costretti alla prigionia o
alla
fuga.
Lo sguardo dell’inglese ebbe un guizzo di dolore,
e di
incertezza mista a diffidenza. Al re il suo atteggiamento bastò per
confermare
i suoi sospetti. Quel cavaliere non stava continuando a combattere
senza un
motivo. Era una questione di rabbia e d’orgoglio, ma anche d’onore e
protezione
nei confronti dell’amico ucciso. Non si sarebbe arreso e non avrebbe
mostrato
un solo segno di vigliaccheria.
Il re, altero e rigido sul suo cavallo, lo squadrò
dall’alto.
« Avete la mia parola d’onore. » disse, deciso. «
Adesso
gettate la spada. » e non poté fare a meno di sentire il rumore lieve
dei dardi
e del legno contro il metallo da dietro le spalle, là dove vigilavano i
suoi
cavalieri. E di compiacersi per questo.
L’inglese intanto seppelliva il dolore sotto
strati d’odio e
astio. La presa intorno all’impugnatura della spada si strinse invece
che
allentarsi.
« Non mi sono mai fidato molto dei francesi. »
affermò il
cavaliere, e con un guizzo fulmineo, la sua spada si sollevò assieme al
braccio
verso la direzione del re di Francia. Re Filippo non tradì una sola
incertezza.
Perché, forse a lui soltanto, l’inglese aveva in qualche modo lasciato
intendere le sue intenzioni. Tutti i francesi si irrigidirono, i
cavalieri
puntarono le balestre su di lui e si frapposero tra lui e il re.
Filippo Augusto non lo vide fare un solo passo, un
solo
movimento. Non provava paura per la prigionia e forse, in quel momento
di
sofferenza non nutriva neanche uno spiccato timore della morte. Non
aveva avuto
intenzione di scagliarsi contro il sovrano fin dall’inizio, ma non
avrebbe
gettato la spada.
E Filippo continuava a sondare la sua anima
sofferente e
nascosta con lo sguardo.
Un soldato passò dietro la schiena dell’inglese e
la lama
del suo pugnale aderì alla gola del nemico, con uno strattone e un
calcio tra
la coscia e il polpaccio lo costrinse in ginocchio e il secondo gli
bloccò le
braccia dietro la schiena con le corde.
« Inchinati di fronte al nostro re, cane inglese!»
gli
sibilò vicino all’orecchio. Ora che il timore era passato credeva di
potersi
permettere gesti e parole del genere. Il sovrano non si stupì di
sentire un
soldato rivolgersi in quel modo a un cavaliere sconfitto, troppe volte
aveva
assistito a quell’ingiustizia. Ma i suoi occhi divamparono di un
rimprovero
duro e immediato.
« Rammenta che è un cavaliere, stolto! » lo
redarguì. « E
uno di quelli audaci. »aggiunse poi, più pacato e interessato.
Per un secondo gli occhi dell’inglese si velarono
di
stupore.
Il soldato reclinò il capo dall’imbarazzo,
chiedendo
perdono.
Il re però non gli stava più rivolgendo alcuna
attenzione.
Si era nuovamente concentrato sul prigioniero.
« Siete Geoffrey Martewall? » chiese, aspettandosi
già la
risposta.
L’inglese annuì nello stesso modo freddo e
determinato di
poco prima.
« Lo immaginavo. »
Re Filippo Augusto posò poi lo sguardo sul corpo
senza vita
di Jerome Derangale e sulle mani di Martewall, sporche di sangue non
suo. Il
contegno di quest’ultimo macchiava l’aria di solenne tristezza. Nel
momento in
cui le iridi rifletterono nuovamente lo sceriffo si velarono di un
sentimento
indefinibile e sporcato di follia. La rabbia, a volte lucida e a volte
cieca,
era chiaramente parte integrante della sua tempra da vendicatore.
Il re spalancò per un momento gli occhi e aggrottò
le
sopracciglia con una smorfia di disappunto.
« Portatelo via. »
Quel giorno, l’Inghilterra si era macchiata di
vergogna.
Re Filippo guardò Geoffrey Martewall un ultima
volta prima
che lo trascinassero troppo distante. Sapeva inquadrare le persone fin
da
subito e nel miglior modo possibile. Nel giorno in cui l’Inghilterra
usciva
disonorata da una guerra durata troppo a lungo, Filippo Augusto pensò
al modo
crudele in cui la vita costringeva alcuni uomini d’onore a pagare il
prezzo
dell’ingiustizia del mondo.
*
« La principessa Bianca mi ha raccontato del
compito che vi
ha affidato personalmente. »
Martewall annuì una sola volta alla sua
constatazione,
posando il gomito sul bracciolo dello scranno. Filippo lo stava
scrutando con
attenzione da diverso tempo. Gli abiti neri e sobri erano tipici di chi
non
voleva avere nessun tipo d’ostacolo nei movimenti, anche se la sua
figura non
mancava di una certa eleganza, la posa, per quanto si mantenesse rigida
e
imperscrutabile come la fermezza dello sguardo, celava una vena
d’impazienza
che non era sfuggita all’occhio attento del sovrano.
« Comprendo e approvo la sua decisione… »
continuò, ma capì
che l’inglese non aveva avuto dubbi su quello. « Anche se sono quasi
sicuro che
voi siate molto impaziente di tornare in patria. »
Martewall dovette annuire, cupo ma ardito.
« Lo sono. »
Il re sogghignò appena, nel vederlo così poco
affabile.
« Lo immaginavo. »
Martewall sollevò lo sguardo e nei suoi occhi, per
un
momento, Filippo lesse sorpresa. Anche lui aveva ricordato l’ultima
volta in
cui gli erano state rivolte le solite esatte parole, dalla stessa
persona. Ora
il re non lo guardava dall’alto di un destriero, e non sentiva lo
stesso
disagio nel cavaliere inglese che percepiva in molte altre persone.
Geoffrey Martewall non provava timore nel stargli
davanti,
non provava soggezione. Solo un ferreo rispetto, ed era ciò che lo
spingeva ad
inchinarsi di fronte a lui. Tutto qui.
Si trovavano in una situazione diversa rispetto a
quella
vissuta quando Martewall aveva dovuto essere ospite dei Ponthieau.
Guillaume
gli aveva raccontato il modo ammirevole ed efficace
in cui il cavaliere aveva nascosto la
rigidezza dei muscoli. Ma in quel momento, il barone non rischiava di
rimanere
intrappolato in una roccaforte francese dove la sua anima sarebbe stata
logorata dall’angoscia e dal senso d’impotenza.
Anzi, probabilmente l’udienza con il re avrebbe
aiutato i
suoi conterranei. Re Filippo si augurò che fosse così.
« Per quanto riguarda la richiesta di Fitz Walter,
la
accolgo con piacere. » disse, riprendendo un discorso lasciato a metà
poco
tempo prima. Incrociò le dita davanti al mento, con un sorriso poco
espansivo
ma scaltro.
« Devo confessarvi che questi uomini attendono una
richiesta
come la vostra da tempo. L’Inghilterra sembra avere motivazioni più
urgenti
rispetto a quelle della Lingua d’Oca e dei suoi infedeli. » Filippo non
riuscì,
oppure non volle, trattenere una nota di stizza in quelle parole.
Geoffrey si fece se possibile ancora più attento,
e
probabilmente sapeva che i loro pensieri si stavano convergendo verso
una sola
direzione. Entrambi pensavano ad Adolphe de Gant.
E sapevano che non avrebbero dovuto entrare in
argomento.
« è senz’altro così, maestà. » rispose Geoffrey,
fingendosi
inconsapevole delle riflessioni condivise. Nei suoi occhi si
riflettevano
decine di pensieri differenti. Filippo intuiva che pensasse al Falco,
ma anche
alla sua terra.
« Non ho toccato con mano le problematiche della
Lingua
d’Oca… » ammise Geoffrey, asciutto. «
ma ho visto tante battaglie, e ben poche o forse nessuna difficile come
quella
che re Luigi sta portando avanti nella mia terra.»
Il sovrano sorrise, compiaciuto dalla risposta e
dal sentire
nominare così suo figlio. La parola re era stata pronunciata senza
alcuna
esitazione.
« Allora non vi trattengo oltre, sir Martewall. I
vostri
uomini avranno bisogno del loro Leone, e così mio figlio. »
Il cavaliere annuì con gratitudine, si alzò e si
inchinò.
Anche Filippo si era alzato per salutarlo onorevolmente.
Martewall era un mosaico contraddittorio.
Era estremamente difficile trovare tutti i pezzi
dei suoi
pensieri, metterli insieme. E quando ci si riusciva, si aveva la
sensazione di
non averne preso in considerazione qualcuno.
Ma ciò che c’era di buono era che, pur non avendo
particolari doti diplomatiche, Martewall non lo annoiava. La profondità
del suo
essere e la sua incomprensibilità, le domande senza risposta,
stimolavano la
sua curiosità.
Il sovrano non metteva in dubbio che alcuni tratti
del suo
carattere fossero discutibili. Ma sapeva che Martewall non desiderava
comprensione, forse per abitudine o per scelta, e non desiderava essere
amato.
Voleva solo combattere per i suoi ideali.
Sarebbero stati i fatti a parlare, per chi avesse
voluto
vedere e udire.
*
« Vi state rimproverando per ciò che è successo a
Lincoln? »
chiese Filippo Augusto, accarezzando le piume del suo
falcone sul collo ma rimanendo concentrato
sul suo interlocutore.
Martewall lo osservò e non rispose.
« Ho solo avuto questa sensazione… » precisò il
sovrano.
Geoffrey Martewall guardò il panorama collinoso e
soleggiato, l’arco in mano e la faretra sulla spalla. Filippo Augusto
aveva
deciso di coinvolgere anche l’ospite straniero nella battuta di caccia
col
falcone che aveva organizzato.
Questo non aveva esattamente suscitato la gioia
dei suoi
feudatari, con l’eccezione dei Ponthieau, naturalmente, e dei compagni
d’arme
del Falco. Molti signori, ovviamente, credevano che fosse solo colpa
degli
inglesi se il loro principe non aveva messo le mani sulla corona
d’Inghilterra.
Ma siccome Martewall non pareva un incapace, sicuramente era qualcuno
che non
era stato abbastanza dedito alla causa, secodo loro.
« Mi preoccupa risultare di così semplice
comprensione,
sire. » disse a sorpresa Martewall, schietto e freddo come al solito. «
Non
penso che questo mi gioverà alla corte di Enrico. »
« Oh, non lo siete affatto, potete stare
tranquillo. »
rispose subito il sovrano, sicuro. « per questo ho sempre bisogno di
chiedervi
conferma dei miei sospetti, qualora ve ne siano. »
E con quest’ultima frase secca, il re pretendeva
una
risposta.
« Non nego ciò che avete intuito, sire. » rispose
allora
Martewall, guardando dritto davanti a sé con lo sguardo insondabile.
« Mi sento sempre così dopo una battaglia persa.
Cerco il
mio errore, qualcosa del nemico che ho sottovalutato o che non sono
stato in
grado di vedere. Ho bisogno di trovare qualcosa. »
Il re lo studiò per un lungo istante, prima di
annuire.
« Capisco. » disse, pacato e riflessivo. « penso
che se
l’Inghilterra avesse avuto un re della vostra stessa tempra sarebbe
stato un
avversario molto più che temibile, contro cui il coraggio e la
strategia non
sarebbero bastate completamente. »
Martewall chinò il capo, ed era evidente quanto
fosse
rimasto colpito dal complimento inusuale e molto lusinghiero del
sovrano,
pronunciato con lucidità e raziocinio.
« Non penso di meritare queste vostre parole,
sire. » si
sentì in dovere di dire.
Filippo Augusto annuì con un gesto vago.
« Ditemi, sir… cosa avete pensato quando avete
perso la
battaglia di Bouvines? Anche allora avete cercato un vostro errore?»
chiese,
sinceramente curioso.
Martewall rimase in silenzio per un momento, prima
di
scuotere la testa.
« No. » rispose, freddamente. « Ero… sono
assolutamente sicuro di aver fatto tutto ciò che dovevo, per
quanto riguarda la strategia adottata. Non avrei potuto sceglierla io,
mi sono
dovuto adattare come molti altri. »
« Almeno di quella disfatta quindi non vi ritenete
responsabile. »
Martewall lo guardò negli occhi, con rispetto ma
nessuna
soggezione. Negli occhi aveva la certezza di star parlando con qualcuno
che,
almeno sul piano militare, poteva capire ciò che stava spiegando.
« No. Non di quella. Avevamo un re indegno e
nessuna voglia
di seguirlo. Abbiamo attaccato nel giorno del Signore. Non tutti erano
d’accordo, io per primo, e questo è esattamente il genere di cosa che
fiacca
gli animi delle truppe. E in tutta sincerità, non ho mai visto di buon
occhio
l’alleanza con l’Imperatore. »
Re Filippo ghignò, ammirato. Non si aspettava
niente di meno
da lui, eppure in qualche modo Matewall riusciva ad essere sempre una
sorpresa.
« Siete un grande guerriero. » ammise con un
sogghigno che divenne
in seguito più aspro. « Mi dispiacerebbe se un giorno io o mio figlio
dovessimo
avervi di nuovo come nemico. Il mio Falco mi ha donato un alleato
onorevole e
temibile… a cui, tra l’altro, è particolarmente affezionato… »
Martewall colse immediatamente l’avvertimento
nelle sue
parole, con un’occhiata fugace verso Jean
de Ponthieau, ignaro dei loro pensieri. Si incupì, irrigidendosi, un
cambiamento che solo un osservatore esperto come il re di Francia
avrebbe
potuto cogliere.
Sapeva che Martewall non poteva dirgli nulla per
ribattere
alla sua ultima frase.
Se mai l’Inghilterra avesse, in futuro, di nuovo
mosso
guerra alla Francia, lui sarebbe stato dall’altra parte del fronte, a
combattere per il suo popolo, senza rinnegare, tuttavia, in nessun caso
il suo
rispetto per la giustizia.
Filippo Augusto sapeva che il destino avrebbe
fatto il suo
corso. D’altra parte, non avrebbe mai pensato che il barone che aveva
visto gareggiare
al torneo con Sans-pitié sarebbe stato al suo fianco in quel momento di
pace. E sperò, senza troppa fiducia né
illusione né
dispiacere, perché era un sovrano e non
più un ragazzino incapace di essere lucido nelle sue constatazioni, che
il fato
non tirasse troppo i loro fili.
Che lascasse fare a lui il marionettista, senza
aiuti né
ostacoli.
D’altra parte, lo sapeva fare così bene…
Ed
eccomi di ritorno, tardi, lo so e mi scuso.
Scusatemi
per gli eventuali errori… sono un po’ distratta
in questi giorni…
È
un periodo un po’ pieno di cose da fare, ma facciamo un
bel respiro, tra non molto sarà peggio.
Aaallooora…
intanto, grazie per essere arrivati fino a
qui! In secondo luogo, spiegherò la mia frase di prima. Sto
traslocando, e vi
assicuro che è più difficile di quanto si pensi, e io, pur essendo in
un certo
senso “ la piccola di casa” ho il mio bagaglio di lavoro anche senza la
scuola…
poooiii… esiste la possibilità che io per un periodo rimanga senza
tempo o senza
internet o senza entrambe le cose. Ad essere drastici, potrei sparire
per un
mesetto…
Eeee
farò di tutto per pubblicare prima di andar via, non
con un altro capitolo perché non ce la posso fare, ma, proprio per
farmi
perdonare ( sì, da te Wrong and Wright ; )) stavo pensando di
pubblicare una
storia missing moment che devo correggere e di aprire una tendina sul
mio
documento word degli appunti dopo averli sistemati un po’. Perdonata? ;
) : )
Mi
dispiace moltissimo….
Grazie!!!
Ciaao!
|
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Capitolo 10 *** William Lunga Spada- Ricordi ***
…
Ancora non ci credo, di avercela
fatta. -.-“ Intanto
mi scuso per essere sparita per così tanto tempo. Mi devo davvero
scusare
tantissimo, ma non avevo idea che mi sarei ritrovata senza computer per
tutto
questo tempo. Ho avuto molti problemi con internet, oltretutto XD
Ma sono felicissima di poter tornare
a pubblicare!!!
Ovviamente ho altre cose da dire (
non ho ancora
finito di rompere J) ma le dirò a fine capitolo.
Aveva
mantenuto
quel portamento un po’ selvaggio che aveva da giovane, lo sguardo reso
freddo e
altero da una vita passata senza nessun riposo, senza nessuno sconto.
Una vita
che esigeva molto, ancora, da lui.
Geoffrey
Martewall era invecchiato. Ma non era invecchiato da altezzoso nobile,
da
feudatario, da proprietario e signore di ciò che portava guadagno e
ricchezza
alle sue terre. Era un guerriero ancora, come lo era sempre stato. Era
ancora
colui che gli uomini seguivano in battaglia, che era pronto a
condividere la
sorte dei suoi soldati, lo stratega e la guida. Il leone che il tempo
non aveva
ancora sconfitto.
Il
fisico asciutto, frutto di esercizio costante, lo sguardo ancora senza
cedimenti anche se circondato da qualche ruga, la barba corta ad
indurirgli i
tratti, la sua bellezza appena trascurata e inconsapevole o
indifferente, che
gli donava un po’ di fascino in più. Solo qualche capello bianco si
affacciava
al mondo, all'altezza dell'attaccatura. La schiena era ancora ritta e
forte e
sembrava solida come una colonna greca. Ciò che era cambiato in lui era
proprio
ciò che cambiava in un'antica colonna quando rimaneva sola, sempre in
piedi e
ancorata al terreno, attorniata dalle macerie e senza più nessun tempio
sopra
di sé.
Ora
tutto in lui aveva il fascino di un'esperienza sofferta, di molte cose
viste e
sentite, di molte battaglie e di molte speranze spezzate. Il suo
sguardo adesso
era ancora più difficile da sostenere. Il peso degli anni gravava su di
esso,
il peso di una personalità indomita.
Geoffrey
Martewall aveva considerato William Lunga Spada, per buona parte della
sua
giovinezza, con un rispettoso senso d'inferiorità. L'inferiorità di un
barone
verso il fratello del re, dall'esperienza ricca e vittoriosa.
L'inferiorità di
un soldato di fronte ad un comandante. Ma oramai da molto tempo non era
più
così.
I suoi
giorni di ragazzo erano finiti molto prima che effettivamente Geoffrey
dimostrasse l'età per essere uomo. Ed erano finiti i giorni in cui
William di
Salisbury poteva sfruttare la sua fama, la sua abilità e perfino la sua
stazza
per sembrare inarrivabile. A differenza di molti altri, Geoffrey non
piegava la
sua volontà a quella del conte o di chiunque altro, non più.
lo
vedeva nei suoi occhi, il disprezzo nei suoi confronti. Forse li
riteneva alla
pari dal punto di vista militare, cosa di cui lo stesso Salisbury non
era più
tanto sicuro, ma non poteva e non voleva nascondere l'antipatia verso
il
fratellastro del re defunto e indegno.
Ma
l'odio di Geoffrey non era determinato dal pensiero di Salisbury come
fratello
bastardo dell'uomo che aveva fatto decapitare suo padre. Era rivolto
verso un
uomo che riteneva ipocrita e vigliacco, che si era riparato dietro alla
prudenza, alla strategia, agli aiuti informali, ad una famiglia da
proteggere e
che invece avrebbe potuto salvaguardare in mille altri modi, furbo
com'era.
Tutto
questo per non ammettere che voleva solo tenere al sicuro la propria
vita e il
proprio ruolo. E aveva trovato il modo perfetto. Non fu mai nemico dei
baroni,
ma neanche di Giovanni. Non rischiò nulla di più di quello che aveva
sempre
rischiato in prima persona, lasciando ai baroni una guerra incerta da
combattere.
Salisbury
sospirò a fondo, esaminando il suo passato come il vecchio che era. Lo
sguardo
di Martewall bruciava ancora, bruciava la coscienza, bruciavano i
ricordi di
una testa che rotolava grottesca sul pavimento.
E i
ricordi lo assalirono all'improvviso.
« Tengo
conto del vostro buon cuore, William. »
Lunga Spada non tradisce un solo pensiero. Ma il suo animo è
martoriato da sentimenti forti. Non è deluso. Non ha mai pensato
davvero che le
sue parole potessero salvare sir Harald dal re.
Mi
dispiace, pensa, ben attento a non
incrociare lo sguardo di sir Harald per più di qualche secondo.
Mi
dispiace tanto.
Vede gli occhi del barone, fieri e fermi. E sa che solo il
pensiero dei suoi figli lo preoccupa, di quella figlia prigioniera
nelle mani
della corona e di quel figlio disperso e braccato, l'ultimo, il più
giovane dei
figli maschi, il più solo. Lui che era partito per salvarli tutti, lui
che
avrebbe appreso della morte del padre solo troppo tardi, quando sarebbe
stato
impotente.
William può farsi un'idea della sua reazione futura.
Giovanni no, è evidente. Forse crede che Geoffrey non tornerà, che sia
scappato
per non tornare. Forse è talmente sprovveduto da non averci pensato, o
crede di
poterlo ancora mandare alla forca. Cosa che, in cuor suo, ha sempre
desiderato
fare.
Vede il re ghignare all'apice della soddisfazione, e si
chiede come possano condividere, anche se in parte, lo stesso sangue.
Gli occhi
di Harald sono fissi sul sovrano. Sono così simili a quelli di
Geoffrey. E per
questo sembrano promettere vendetta.
William sente la rabbia crescere mentre segue Giovanni,
ancora gongolante, all'interno del castello di Dunchester. Lo vede
appropriarsi
di ogni spazio e di ogni cosa, come ha sempre fatto.
William riesce solo a pensare che il suo carissimo
fratellastro non sa che cosa lo aspetta. Lunga Spada non sa ancora se i
baroni reagiranno
con le armi o no, anche se, a giudicare dalla tempra di alcuni di loro,
non si
sente ancora nella condizione di perdere la speranza.
Ma Geoffrey avrebbe ottenuto la sua vendetta in ogni caso.
William ha una fiducia profonda in lui.
Passano in mezzo ai mercenari del re
e ai cavalieri più fidati, che poco si differenziano dai primi, per
valori
morali e comportamenti.
William spera che Geoffrey Martewall
non abbia pietà per nessuno.
E così era stato.
Pur rimanendo nell'ombra, William di Salisbury aveva
seguito molto da vicino le azioni dei baroni ribelli. Li aveva spronati
e
aiutati più di una volta, portando cucita addosso nel contempo la
maschera di
sostenitore del re, un re sempre più paranoico, crudele, disperato e
codardo.
Un re che, ogni volta che lo guardava, risentiva
ancora chiaramente le parole che gli aveva rivolto dopo l'uccisione di
sir
Harald, con terrore.
Come fossero una profezia inquietante e veritiera.
«
Si vendicherà »
Anche William prova un sottile,
freddo, penetrante e sibilante desiderio di rivalsa. Le parole gli
erano uscite
dalla bocca con uno scopo preciso, uno scopo lucido. Con freddezza
osserva il
volto del re, che si era voltato di scatto con stupore per poi assumere
un
sorrisetto sarcastico ma velato d'incertezza.
«Di chi
parli, William?» chiede, fingendosi inconsapevole e
divertito. Ma non
lo è. Non lo è perché sa bene a chi si riferisce.
Lunga Spada si sforza per nascondere
un'ilarità quasi isterica. Non riesce a scrollarsi di dosso la
sensazione, per
qualche istante, che Giovanni abbia appena provocato la sua stessa
morte, anche
se sa che dovrebbe pensare in maniera più razionale.
Per adesso, si accontenta di
spaventarlo.
«Lo
sapete, mio re.» dice, fingendosi preoccupato ed
accorto.
Giovanni scuote la testa con un
sorriso subdolo, viscido e quasi folle nella paura celata.
«Geoffrey
Martewall è già morto.»
ride.
«No,
non ancora. E vorrà vendicarsi. Vorrà la vostra
testa e quella di molti altri. Ricordate il suo spirito, il suo...»
William si interrompe all'incedere
brusco di Giovanni verso di lui. Il sorriso è scomparso per lasciare il
posto
solo ad una smorfia brutale sul suo volto arrossato.
« Lo
farò impiccare come avrei dovuto fare anni fa. Un
traditore si riconosce dal momento in cui comincia ad impugnare una
spada. Il
suo corpo penzolerà dalla forca per mesi, divorato dai corvi. » il suo viso è vicinissimo a quello del conte, con
i
suoi occhi folli e dalle pupille strette, l'espressione è un misto di
bramosia
e timore, la voce un sibilo vibrante di rabbia.
«
Dubiti forse di questo, William? Dubiti della
vittoria del tuo re, del suo diritto al trono?»
William lo guarda. Giovanni sa che
il conte è esperto, sa che deve ascoltare le sue parole preziose. Ma
non sempre
il suo orgoglio gli permette di capire chi, tra i due, sia il più abile
e degno
su tutti i fronti.
« No,
mio signore.»
Geoffrey è ancora davanti a lui, attento,
imperscrutabile, severo. William lo vede
ancora, in un certo senso, come l'uomo che era a trent'anni. Il
rispetto nei
suoi confronti non è mutato, è rimasto lo stesso in tutta la sua
grandezza. Ha
sempre ammirato il suo coraggio, nonostante il modo in cui l’ha
trattato il
giorno che l’ha obbligato a scappare dal suo castello. Ammira la sua
forza. E
forse anche per questo non si è fatto problemi nell’annunciargli
indirettamente
ciò che gli sarebbe potuto accadere in Francia, anni prima.
Ammira anche il suo posto in prima linea, sempre,
qualunque guerra fosse. Qualunque nemico vi fosse davanti.
Geoffrey non temeva la sua spada. Lo avrebbe sfidato
anche subito, se avesse pensato che fosse la cosa giusta da fare. La
vecchiaia
gli era servita a consolidare ciò che per natura ed educazione già
sapeva, a
rafforzare la sua capacità di frenare ogni istinto e, allo stesso
tempo, agire
talvolta con un ardimento quasi sconsiderato quanto inventivo.
Indifferente della propria vita. Come se ci fosse
sempre qualcosa di più importante da seguire o per cui combattere.
William era certo che l'altro non sapesse di essere
ammirato e rispettato oltre ogni misura. Ma quando aveva capito che il
barone
lo avrebbe odiato per sempre, il conte era rimasto addolorato, pur non
mostrando questo suo sentimento.
Fin da quando era un ragazzo, aveva capito che sarebbe
stato un ottimo comandante dell'esercito, un'ottima guida. Giovanni
aveva
cominciato a temerlo. Un ragazzo che pareva uno scherzo del destino,
qualcuno
che non sembrava potesse diventare particolarmente importante, l'ultimo
di tre
maschi, che divenne un'insospettabile arma a doppio taglio. Senza
l'aiuto di
nessuno.
William lo ricordava in più occasioni di quante
Martewall stesso ricordasse.
Conosceva la sua indomabilità, la sua testardaggine,
la sua freddezza, la sua componente passionale e il suo dolore,
persino, in
qualche occasione.
Conosceva la paura che portava cucita al mantello.
Giovanni sembra quasi febbricitante.
Con una mano stringe convulsamente le tende pesanti di una finestra,
mentre
l'altra si aggrappa alla spada ricca di perle e intarsi che tiene alla
cintura
come se ne andasse della sua vita. Gli occhi sono sbarrati e liquidi,
rivolti
verso le luci delle torce che si possono vedere nel buio. Al loro
interno si
annida una paura folle. Una paura che William studia con attenzione,
gustandosi
ogni momento di quella sera.
Avevi ragione,
ci sono queste parole in quello sguardo. Tu sapevi.
William trattiene un ghigno.
« So già quale sarà il blasone che
vedrò per primo da queste finestre.» mormora Giovanni, in un soffio.
« Sir Martewall...» esordì William,
rimanendo seduto sul suo scranno. « so che non vi fa piacere venire a farmi visita.»
Geoffrey si appoggiò alla parete con le braccia
incrociate sul petto, più muscoloso di quando era giovane. Il conte
constatò
come non avesse perso i suoi modi ben poco impettiti, riuscendo
comunque ad
avere qualcosa di elegante nei movimenti.
« Infatti non è una visita
di cortesia. » replicò freddo.
William annuì con un' espressione rassegnata.
« So bene a cosa è dovuta la
vostra visita. » affermò adombrandosi. «se venite da me è solo perché siete obbligato dalle
vostre convinzioni. Allora... immagino che non potremo contare sul
vostro aiuto
per la guerra in terra francese. »intuì subito Salisbury, cupo.
Martewall sorrise appena, sarcastico e sfrontato,
staccandosi dalla parete con un movimento soddisfatto.
« Adoro risparmiare tempo. »
E fece per dirigersi verso la porta col suo solito
passo deciso.
« Dal momento che vi avvalete del permesso concesso
generosamente dal nostro re di non rispondere alla chiamata alle armi
della
corona, dovrei almeno sapere il motivo di questa vostra scelta. »
Martewall si voltò di nuovo verso di lui, per nulla
sorpreso da quel nuovo intervento.
« Ormai dovreste saperlo, Lunga Spada. Ho smesso di
combattere guerre inutili nel momento in cui ho imparato a
riconoscerle. »
Salisbury lo fissò in volto, calmo. Sarebbe stato ore
a studiarlo, se solo Martewall non fosse stato così sfuggente per
natura.
« certo. » disse a mezza voce, riflessivo. « e la vostra
amicizia con la corona francese vi spronerà sempre a valutare bene
questo tipo
di situazioni.» non era un'accusa, né una affermazione sprezzante. Era
semplicemente una constatazione, abbastanza ammirata, persino. L'uomo
politico
che era in lui apprezzava l'idea di Martewall di farsi un alleato così
potente.
Ma dubitava, onestamente, che il barone agisse in quel
modo davvero per quel motivo, o che avesse ricercato lui stesso
l'alleanza coi
francesi. Non gli era mai importato nulla di questo genere di cose e
non era un
politico, non era un diplomatico. Era un uomo d'onore e un guerriero.
Ed era qualcuno che Salisbury, in fin dei conti, aveva
voluto provocare. Forse per dissipare, almeno in parte, l'accusa che
leggeva
nel suo sguardo costantemente.
Martewall non sembrò stupito dalle sue parole. Non
poteva certo sperare che William non si fosse accorto del suo legame
con la
regina Bianca, o della sua improbabile amicizia col Falco d'Argento.
Tuttavia
fece qualche passo verso il conte, lo sguardo freddo, punto sul vivo.
« Se pensassi che l'Inghilterra meriti di diritto ciò
che sta pretendendo, allora non ci sarebbe francese che potrebbe
frenarmi. Ma
non è così. Non lo è da anni.»
Salisbury lo sapeva. Sapeva che non vi era nessuno che
amasse quella terra di pioggia, foreste e sassoni come Geoffrey
Martewall. Ma
se lo avesse detto, il barone lo avrebbe interpretato come una presa in
giro.
« Non vi stavo accusando di nulla. » ci tenne a
precisare il conte.
Martewall sostenne il suo sguardo con freddezza
estrema.
«In ogni caso non do più molto valore alle accuse che
ricevo. Sono stato accusato di tradire l'Inghilterra mentre davo ogni
fibra del
mio essere per salvarla. »
Salisbury si ritrovò ad aprirsi in un piccolo sorriso
amaro. Lui non sentiva di aver dato nulla alla sua terra in confronto
al
barone, e Martewall forse voleva proprio ricordarglielo.
« Siete una persona particolare, sir Martewall. Andate
contro ad ogni comune pensiero. » affermò, con un gesto vago.
« Al contrario. Spesso mi capita di essere il
portavoce di molti. E già che siamo in argomento... » aggiunse il
barone,
sicuro e fiero. « Vi rammento di ricordare al re che la Magna Charta
non esiste
solo per i morti come suo padre. E non è discutibile. »
Salisbury annuì una sola volta in un gesto quasi
maestoso.
« Avete avuto modo di conoscerlo, sir Geoffrey. Non è
come suo padre. Rispetterà sempre il vostro amato parlamento. Enrico
potrebbe
essere molto peggio di com'è »
« Sì. » ammise Geoffrey, alzando di poco un angolo
della bocca « Ma non per molto. »
il conte sospirò quasi divertito.
« E se vi avesse obbligato a partire per la Francia?»
Geoffrey parve indolente e noncurante.
« Ho perso troppo per accettare ancora un obbligo del
genere. Ma i figli imparano dagli errori dei padri, a quanto vedo. »
Salisbury si morse la lingua prima di rispondere.
Decisamente, Martewall non aveva imparato dall'errore di suo padre. Non
avrebbe
mai imparato a tenersi lontano dalle battaglie più spinose. Il
conflitto di
interessi tra il re e il parlamento era tra questi.
« Non avete intenzione di posare la spada, vero? Non
vi sentite ancora del tutto al sicuro dalle ingiustizie. »
« Non si è mai del tutto al sicuro dall'ingiustizia. »
replicò Martewall, gelido, prima di voltarsi nuovamente, per l'ultima
volta.
Salisbury
quasi trasalì nel constatare quanto gli fosse famigliare la sua
ferocia. La
riconobbe in quegli occhi grigi come la nebbia delle sue terre
affacciate sul
mare. Era un'eco lontano, adesso, ma anche se era momentaneamente
sopito, la
sua ombra sembrò oscurare le iridi ferine del barone.
Nel
suo viso c'era qualcosa che faceva continuamente venir voglia di
mettere mano
alla spada, con un atteggiamento guardingo.
Il
conte volse lo sguardo verso la moglie di Martewall. Lei ricambiò,
preoccupata,
con una lieve angoscia che, al fianco di Martewall, aveva sempre
provato. Lei
lo amava davvero, glielo si leggeva negli occhi. Lo amava come lui non
si era
mai amato, lo amava sopra ad ogni altra cosa.
Salisbury
riuscì solo a pensare che non fosse bastato l'amore a far sparire le
ombre
dagli occhi di Martewall.
Sarebbe
bastata la sua morte?
«
Perchè
siete qui?»
Era
crudele venire a fargli visita. Proprio lui. Proprio chi più di
chiunque altro
avrebbe potuto ricordargli i sacrifici del passato. Lo vide osservarlo
dall'alto, evitando di sedersi, guardando il suo corpo affondato nel
letto.
Non vi
era nessuna espressione, adesso, sul suo viso.
Salisbury
aspettò. Confusamente si chiese anche quanto avesse insistito con i
servi per
riuscire a entrare nella stanza.
Sapeva
che non avrebbe ignorato la sua domanda. Non si ignorano mai le parole
di un
moribondo, non è cortese.
«
Volevo
darvi il mio ultimo saluto. » la sua voce era profonda e,
inaspettatamente,
sinceramente addolorata, anche se non voleva dare questa impressione.
Salisbury
sorrise debolmente. Il barone avrebbe potuto abbandonare parte del suo
orgoglio, dato che sarebbe morto di lì a poco. Ma le abitudini sono
dure a morire.
«
Grazie.
»
Era
forse una delle parole più sentite che avesse mai pronunciato. Grazie, Geoffrey Martewall, per non avermi
mentito, per non aver detto che sei venuto per sincerarti della mia
salute.
Se non
fosse stato convinto che sarebbe morto, non sarebbe mai venuto.
William
respirò con fatica, appena più forte.
«Non riesco a vedere il vostro volto. » disse il conte, ed era vero. Non lo vedeva più bene, da
quando aveva fatto qualche passo avanti. Percepì la sua esitazione.
Poi, con un
movimento lento, vide la sua ombra spostarsi verso la luce.
Lo
osservò a lungo con gli occhi socchiusi e brucianti a causa della
febbre.
«Geoffrey. »
lo chiamò per nome per la prima volta in vita sua, sentendosi sempre
meno
lucido, ma la parola uscì rantolata dalla sua bocca, quasi
incomprensibile.
Rivedeva
il suo volto da ragazzo, i suoi occhi colmi di tormento.
«Non avrei mai voluto... » riuscì a
dire il conte, scandendo di più le parole.
« Lo so. »
la voce di Martewall fu perentoria, secca, potente. William la immaginò
come
una grande falce che sibilava nell'aria, mossa da braccia forti e
veloci. I
suoi tratti si contrassero dalla sorpresa.
« Non
è stata colpa vostra.»
William
si abbandonò all'oblio con un sorriso. Martewall non si smentiva mai,
perché in
quel momento era là con lui, a regalargli una morte serena, e nessuno
dei due,
per una volta, aveva qualcosa di cui scusarsi. Aveva parlato come chi
ha capito
solo da poco il desiderio di una persona, ciò he avrebbe dovuto fare.
Martewall
voleva donargli il perdono che, forse, avrebbe voluto avere la
possibilità di
concedere anche ad altre persone.
William
sentì la falce cadere su di lui.
L'ultima
sensazione che provò fu il sentire l'odore del mare, della pioggia e
della
libertà, e la mano di Martewall che stringeva forte la sua.
Eccomi, Popolo Efpinese! Non sono
stata
spedita nello spazio!
Come ho detto, c’è altro che vorrei
dire a
parte il fatto che mi vergogno per la lunga assenza. Per prima cosa,
scusate se
ho descritto Lunga Spada in modo un po’ Oc. Ok, molto Oc.
Ho scritto di getto ciò che ho
sempre pensato,
e cioè che William sia un personaggio, diciamo così, che nasconde tante
cose
perché gli riesce bene e gli risulta utile farlo. Mi piace molto come
personaggio, e non volevo descriverlo affetto da un vero e proprio
rimorso, ma
ho cercato di immaginarlo più vecchio e propenso a guardarsi alle
spalle. Ho
inventato molte cose, come la sua morte, di cui sinceramente non so la data. Come ho detto, ho scritto di
getto. In più non avendo internet non ho potuto informarmi.
Il finale è ciò he più mi
impensierisce, ma se
continuo a rileggerlo lascio la storia incompleta, in un punto in cui
non sento
di doverla finire, quindi, dato che comunque mi piace l’idea di
descrivere la
sua morte, lo lascio al vostro giudizio. XD
Come ultima cosa devo dire che non
ho
completamente risolto i miei problemi col computer ma, ehi, ci sono
vicina ; )
Grazie infinite per aver letto fino
a qui!
Alla prossima!!!
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Capitolo 11 *** Henri de Bar- Amicizia ***
Henry De Bar
Amicizia
Henri de Bar non amava particolarmente
osservare le persone. Spesso non provava interesse nell'interpretare i
loro
comportamenti, e trovava più rispettoso farsi gli affari propri, dato
che lui
non aveva un compito politico affidatogli dalla corona come Jean o come
Henri
de Grandprè.
Era difficile che qualcuno suscitasse la sua
curiosità, perchè la sua discrezione era inattaccabile quanto quella di
Sancerre risultava inesistente verso tutti. In molti avrebbero potuto
scambiarla per disinteresse, o menefreghismo.
E di questo Henri si dispiaceva, ma non
poteva
farci nulla.
La prima volta che aveva visto Geoffrey
Martewall, non aveva potuto fare a meno di provare un brivido potente
di
curiosità. Lo ricordava ancora molto bene, il cavaliere bardato di
nero, col
leone d'oro sulla livrea e l'elmo calato sul viso. L'aveva visto
scambiarsi uno
sguardo con lo sceriffo senza pietà e si era chiesto subito che faccia
potesse
esserci sotto a quell'elmo.
La sua curiosità era aumentata quando si
era
svegliato su una branda dell'accampamento, il fianco che pulsava
dolorosamente
e i medici intenti ad estrarre un pezzo della lancia del suo avversario
dall'addome.
Si era imposto, con la mente ancora
terribilmente confusa, di non provare rabbia. Quella di Sancerre
sembrava
essere più che abbastanza per un semplice torneo, e Henri non voleva
incoraggiare le idee folli che gli sarebbero potute venire in mente.
Il cavaliere inglese se ne andò il giorno
dopo, ma Henri, stranamente, non smise subito di pensare a lui. Ogni
tanto gli
tornava in mente. E gli tornava in mente la sua sconfitta, il cavaliere
spaventoso che gli piombava addosso come un ariete. Sapeva che presto
lo
avrebbe rivisto, in guerra.
«
Pronto, Henri?» aveva chiesto Sancerre,
avvicinandosi a lui e circondandogli le spalle con un braccio in una
stretta
cameratesca. « Andiamo a spaccargli il cuore davvero. » aveva aggiunto,
sorridendo.
E Henri sapeva a chi si riferiva.
Derangale era una questione privata di
Jean,
mentre, secondo Sancerre, Geoffrey Martewall doveva essere il suo conto
in
sospeso personale.
Henri si chiese se fosse davvero così, ma
non
riuscì a darsi risposta.
*
Vi era sempre qualcosa di inspiegabilmente
triste nell'osservare il suo sguardo freddo. O forse non era tanto
tristezza,
quanto un sottile senso di disarmata impotenza e confusione.
Henri andava fiero del rispetto che sapeva
di
ricevere da parte dell'inglese. Sperava che un giorno lui stesso
avrebbe potuto
essere uno dei compagni d'arme che poteva ripagare di ciò che aveva
perso con
il tradimento e la morte di Derangale. Ma la distanza tra i cavalieri
francesi
e Geoffrey Martewall era palpabile, e non era data solo da uno stretto
che
separava due coste, né dal fatto che fossero stati nemici così a lungo.
Non solo.
In lui c'era qualcosa di diverso che
nessuno
poteva ignorare. Nei momenti in cui ci pensava,Henri era ancora più
felice che
al suo fianco ci fosse Sancerre, disposto a ridere su ogni cosa, ad
annullare
ogni differenza. Henri non avrebbe saputo farlo. Non per egoismo, ma
semplicemente perchè non riusciva ad eliminare o ignorare ciò che si
sforzava
di capire.
Non gli erano mai piaciuti gli enigmi,
eppure
in Martewall c'era qualcosa di nascosto che lo attirava. Il suo
compagno
Derangale era stato molto più semplice da capire, e per questo Henri
poteva
immaginare cosa lo avesse colpito dell'amico Geoffrey.
Lo aveva guidato verso di lui la ricerca di
un'anima più complessa e tormentata della sua, il fascino di un dubbio
persistente.
E si chiedeva se Geoffrey sentisse la mancanza
dello sceriffo, se gli sembrasse solo un ricordo molto lontano.
Sancerre gli
aveva confessato di essere sul punto di chiederglielo, una volta, ma di
essersi
subito frenato.
« Ho sentito la tua voce nella testa che mi
diceva di non immischiarmi negli affari altrui.» aveva detto, ironico.
Henri aveva sorriso appena, orgoglioso
dell'amico.
Sperava solo che, almeno per un po' di
tempo,
Geoffrey avesse avuto un'amicizia come la sua. E che potesse averla di
nuovo.
*
Henry de Bar era
razionale e lucido. Sempre.
La sua calma
pacata era
una qualità che possedeva fin dalla nascita, e che aveva poi fatto in
modo di
sviluppare una volta che aveva intuito che avrebbe avuto da misurarsi
con
Etienne de Sancerre per molto tempo.
Era orgoglioso
nella sua
tollerante e solo in apparenza distante tranquillità. Non era incapace
di
sostenere un confronto, nè di arrabbiarsi, ma si sapeva controllare
ammirevolmente. Era semplicemente se stesso, mite e fiero, fermo nei
suoi
principi saldi, incrollabile e rassicurante.
Per questo,
sebbene
durante i primi tempi ogni volta che guardasse il cavaliere inglese
ricordasse
il dolore della sua lancia nel fianco, le vertigini e la terra che si
faceva
vicinissima in un battito di ciglia, il cavaliere nero che gli si era
lanciato
addosso con una forza e una velocità a cui non poteva fare altro che
soccombere, non lo aveva mai guardato con sospetto.
Ricordare era
qualcosa di
più forte di lui. Ma giudicarlo male quando lo stesso Jean voleva che
fosse
accettatto dagli altri come lo era da lui, gli sembrava senza senso.
Ma, anche se per
lui, e
forse solo per lui, era possibile non provare diffidenza verso Geoffrey
Martewall, non provare curiosità era davvero impossibile. Persino per
una
persona discreta come Henry de Bar.
Ma era così
difficile
soddisfare la curiosità, che Henry si sarebbe sentito a disagio, come
sempre,
nel farsi troppe domande, come se osasse troppo nel desiderare qualcosa
che
Martewall aveva il diritto di nascondere.
E tuttavia
sapeva che
sarebbe arrivato ad avere un'opinione obiettiva del cavaliere sassone,
utilizzando informazioni basate su ciò che vedeva e non vedeva, senza
nessun
ostacolo creato da impulsi o da pensieri nati grazie a rancori o
giudizi
frettolosi.
Geoffrey non gli
avrebbe
messo alcuna fretta, agendo come faceva di solito, senza preoccuparsi
di
doversi guadagnare la fiducia dei compagni d'arme del Falco. Non
tentava di
apparire più amichevole, né meno scontroso e non aveva mai cercato di
giustificare il suo antico legame con Derangale, o di rinnegare la loro
amicizia passata. Non voleva perdono e non voleva approvazione.
Usciva da ogni
schema che
Henry potesse immaginare. Nessuna sua azione, neanche la più piccola,
era mai
sembrata scontata o prevedibile.
Henry respirò
lentamente
l'aria fredda delle terre inglesi. Sapeva di sale e di foreste. Sapeva
di
pioggia.
E
di
pericolo.
Come
Martewall, in effetti.
«
non mi
aspettavo di vedere anche voi, signor conte. »
Henri
lo
osservò per un attimo, interdetto. Era raro, estremamente raro, che
Geoffrey
cominciasse un discorso, se non era strettamente necessario. Puntò gli
occhi
nei suoi, grigi e fermi, e lui ricambiò senza imbarazzo, attendendo la
sua
risposta.
Forse,
per
lui, lo era, necessario.
Forse
voleva
davvero, per una volta, sapere lui qualcosa da De Bar. Il motivo della
sua
presenza nel suo castello, per esempio.
«
Volevo vedervi
anche io, come Jean. » rispose, arrivando subito al punto come era
abituato a
fare. Geoffrey non tradì un'espressione, nessuna emozione modificò i
suoi
tratti, ma per lui l'attesa non era finita e De Bar si mise a pensare a
come
portare avanti il discorso.
«
Con tutto
quello che è successo, non penso di avervi ringraziato come avrei
dovuto. Ci
avete aiutato a prendere Gant, dopo che avevate salvato la vita di
Jean. Il
vostro aiuto è stato inestimabile, e penso che oramai nessun francese
avrà più
dubbi sul vostro senso dell'onore. »
Geoffrey
distolse lo sguardo da lui e lo puntò sul panorama nebbioso fuori dalle
bifore
in pietra, incrociando le braccia sul petto.
«
Non l'ho
fatto per questo. Ho scoperto che, alla fine, tutto ciò che mi importa
ormai è
di essere sicuro io stesso del mio onore. Quando non lo sono stato ho
commesso
molti errori. E vi è comunque qualcosa per cui dovrei chiedere perdono
anche a
voi...»
«
La cattura
di Jean...» intuì Henri, colpito dal discorso di Martewall, avvertendo
tra le
parole un costante senso di rimorso, o forse la sottile paura di
sbagliare di
nuovo e una severità ferrea verso se stesso.
D'altra
parte, tutti avevano paura di qualcosa.
Geoffrey
annuì dopo qualche secondo e si sforzò di osservare di nuovo il volto
di Henri.
« e
il fatto
di aver difeso e appoggiato per così tanto un uomo che non conoscevo
davvero,
di non essermi accorto della vera natura di Derangale...» vi era stata
una
lieve esitazione nel pronunciare l'ultima parola, come se il barone
fosse stato
sul punto di pronunciare il nome proprio del suo vecchio amico ma ci
avesse
ripensato all'ultimo istante, preferendo chiamarlo per cognome in modo
più
distaccato possibile.
Il
conte gli
regalò uno dei suoi sorrisi rari e ben poco distesi, ma rassicuranti.
Anche se
non riusciva a credere che Geoffrey avesse davvero bisogno della sua
rassicurazione, così come era strano sentirlo scusarsi per qualcosa che
avvenuto due anni prima.
«
Commettiamo
tutti degli errori. Etienne vi direbbe di dimenticarli in un bicchiere
di vino
in più. Io invece sono convinto che ciò che avete fatto voi per
sdebitarvi sia
molto più adeguato. » gli disse Henri, non riuscendo, però, a sembrare
ironico,
ma solo serio e pacato come al solito.
Geoffrey
rimase immobile ma i suoi sembrarono, per un solo momento, adombrarsi,
prima
che la freddezza, di nuovo, non lasciasse più spazio ad altro.
«
Mi dispiace
davvero per l'esito della guerra del vostro principe. Avrei davvero
voluto che
la mia terra avesse un re come lui. » tornò a dire, dopo parecchi
istanti di
silenzio. A Henri sarebbe piaciuto per una volta, poter intuire più di
quella
minima parte che riusciva a vedere dei suoi pensieri. Però gli
sembrava, allo
stesso tempo, che Martewall stesse, lentamente, abbattendo un poco le
difese. Che
potesse, questa volta, desiderare di essere compreso. La sua anima
pareva più
aperta di quanto l'avesse mai vista, e Henri allora si chiese perchè
stesse
accadendo proprio con lui.
Il
conte
apprezzò il suo sforzo senza riserve.
«
Lo so.
Anche a me dispiace, soprattutto per voi, monsieur. » rispose, un po'
tentennante. « Non è colpa vostra. La corte francese parla ancora della
battaglia di Lincoln e di come vi siete comportato...»
Geoffrey
strinse piano le dita sull'elsa della spada in un movimento istintivo e
nei
suoi occhi sembrò passare il ricordo di quel giorno. Henri non si
sarebbe
stupito se gli avesse detto di essere stanco di combattere. Quegli
occhi
sembravano aver visto troppe cose, e parevano più vecchi del corpo a
cui
appartenevano. Ma allo stesso tempo vi era ancora una forza
incrollabile nel
loro colore impalpabile.
Il
conte
ricordò di non avere davanti un comune cavaliere, ma il Leone di
Dunchester.
Quindi
sì,
ripensandoci si sarebbe stupito se Geoffrey Martewall avesse mai ceduto
alla tentazione
di posare la spada.
«
Ho dovuto
giurare di non combattere più contro gli altri baroni. I miei uomini mi
hanno
seguito fino all'ultimo, tutti, quando avrebbero potuto tradirmi,
salvarsi. Mi
hanno dato le loro vite e io avevo il dovere di proteggerle... » disse
il
barone, e c'era qualcosa nel suo modo di parlare che fece pensare ad
Henri che
stesse parlando più a se stesso che a lui.
Di
certo,
trovarsi obbligato ad arrendersi a questa condizione non era stato
facile per
lui, e adesso la sua mente pareva devastata da desideri e pensieri
confusi.
«
Avete fatto
ciò che era giusto. Ora non dovreste fare altro che proteggere le
vostre terre
e adattarvi ad un nuovo re... »
Geoffrey
aprì
la bocca per dire qualcosa ma una voce vibrante di ilarità lo anticipò,
arrivando poco prima del suo padrone.
« E
trovarvi
una moglie, magari!» aggiunse Etienne de Sancerre, con un gran sorriso,
ponendosi vicino ad Henri che gli rivolse un occhiata leggermente
torva.
Geoffrrey
si
scrollò di dosso la sua immobilità con un solo gesto stizzito.
« è
l'ultimo
dei miei problemi, al momento. » commentò, e la frase uscì ancora più
secca
dalla sua bocca grazie al suo francese dall'accento straniero.
Etienne
gli
scoccò un'occhiata furba e maliziosa.
« è
un modo
cinico per dire che ne avete già trovata una?» ipotizzò, con gli occhi
che
saettavano teatralmente per la stanza calda e più accogliente delle
altre nel
castello, alla ricerca di una famigliare testa dai capelli rosso
fiammante.
Geoffrey
indurì ancora di più il suo sguardo e non seguì il movimento delle
iridi di
Etienne.
«
No. È un
modo per dire che non ho proprio tempo di farlo adesso. »
« E
che
dovresti farti gli affari tuoi. » aggiunse Henri, con la solita
pacatezza.
Etienne guardò l'amico con una complicità che solo loro condividevano,
a
dispetto dei loro caratteri così diversi per natura, e poco dopo fece
finta di
non averlo sentito.
«
Se fosse
per voi rimandereste all'infinito. » sbuffò, in direzione di Martewall,
che lo
osservò impassibile. Forse con una punta di noia ed arroganza.
Henri
li
osservò un po' divertito. Non tutti erano in grado di incassare così
bene e
senza imbarazzo i colpi che Etienne si divertiva a scagliare senza
nessun
freno, con il suo modo di parlare sempre a sproposito e sempre con
irriverenza
e sarcasmo. Martewall sapeva tenergli testa, e probabilmente questo
spingeva il
suo amico a provocarlo più di quanto facesse con altre persone dalla
tempra più
fragile.
«
Vi
ringrazio per l'interessamento. » rispose freddo Martewall.
«
Sempre a
vostra disposizione...» ribatté Etienne, allegro.
«
Non
disturbatevi...»
Henri
osservò
quella scena ricordando i tempi in cui Sancerre non si fidava di
Martewall, e
avrebbe desiderato ucciderlo, persino, per aver ferito lo stesso Henri
al
torneo e per aver in seguito rapito Jean e monsieur Daniel.
Ripensando
a
come erano stati, ancora non si rendeva conto appieno di come potessero
essere
tutti lì, a scherzare sul fatto che Martewall ancora non fosse sposato,
ospiti
del barone.
«
Forse il
nostro inglese teme di perdere la sua libertà legandosi in un
matrimonio. »
aggiunse Etienne, con leggerezza, osservando Henri e chiedendo la sua
opinione.
Il
conte
scosse le spalle mentre Geoffrey inarcava un sopracciglio nel sentirsi
apostrofare con le parole "il nostro inglese".
« O
forse è
troppo impegnato a far capire al nuovo re che non è un traditore della
sua
terra. » ribatté Henri, serio. « A questo non avevi pensato. »
Etienne
osservò subito Martewall con espressione accigliata e ironica.
«
Se avete
pensato di dimostrarlo accogliendo nella vostra casa dei feudatari
francesi,
lasciatevelo dire, avete le idee un po' confuse...»
Martewall
scosse appena la testa e per un solo istante parve quasi divertito.
«
In realtà
non voglio affatto farmi ben volere dal re. Non sono uno dei suoi
fidati e non
voglio diventarlo. A me basta che mi tema abbastanza da non minacciare
le mie
terre. »
Henri
ed
Etienne annuirono con un sorriso.
«
Quindi un
po' di tempo vi avanzerà e potrete dedicarlo a...»
«
Etienne...»
Henri De Bar frenò subito l'amico con un gesto esasperato della mano. «
Basta.»
Salve a
tutti! Eccomi di ritorno!
Jerome: ...con un
capitolo corto. In cui hai parlato male di me, di nuovo, per giunta.
Tacet433: *
scuote
le spalle*
Già. Volevo
fare un grande finale ad effetto ma non mi è venuto in mente altro.
Così ho
lasciato correre, sperando di avere più ispirazione la prossima volta.
Magari
un giorno potrei tornare su Henri De Bar.
Spero
comunque che vi piaccia. Non ripetersi, mano a mano che aumentano i
personaggi
di questa raccolta, diventa sempre più difficile. Quindi per favore,
ditemelo
se divento noiosa, se scrivo sempre le stesse cose ecc..
Comunque...
avrei davvero voluto scrivere di più
perchè io adoro Henri De Bar!
Jerome: umpf, che
gusti...
-.-"
sooolo chee rimane un personaggio di cui non mi riesce bene scrivere.
Per me è
il più difficile. Peggio di Guillaume e di Jerome... perchè per te,
Jerome,
diciamolo, basta prendere molto, molto egoismo, sadismo, crudeltà,
scarsa morale
e cercare anche di renderti miracolosamente umano, mescolare bene...
: D va
bene, basta. Scusate, è la gioia del tornare a scrivere per questa
raccolta a
cui voglio tanto bene.
Grazie a
tutti i lettori e a Wrong and Write, insuperabile recensore.;)
|
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Capitolo 12 *** Thomas Bull- Casa ***
Thomas Bull
Casa
Thomas Bull credeva fermamente che la sua terra si sarebbe riscattata
per l'umiliazione subita. Non aveva mai avuto dubbi su questo, neanche
quando tutti non sapevano fare altro che piangere su ciò che era
accaduto e inventarsi storie per riuscire a non sentirsi falliti,
membri di un popolo sconfitto e disonorato.
Thomas viveva come sapeva fare e come poteva. Non c'era nulla che
potesse fare per aiutare concretamente i suoi conterranei cavalieri
imprigionati in terra francese, né chi stava tornando a casa. E di
certo non avrebbe mai avuto nessuna parte nella storia della loro
riconquista dell'onore perduto.
Ma Thomas faceva il suo dovere. Stava al suo posto. Aveva un posto nel
mondo, delle convinzioni, una mente abbastanza intelligente per pensare
in tutta libertà e per avere la dignità a cui tanto teneva. Faceva il
boscaiolo e lo faceva bene. Aiutava la gente del suo villaggio.
Perchè sapeva che le piccole cose aiutano a far risollevare un popolo
disperato. E lui era qualcuno che doveva avere la costanza e la tenacia
di continuare, giorno dopo giorno, a fare le piccole cose.
Poi, il suo posto nel mondo era cambiato. Ma non lo aveva chiesto lui,
sebbene fosse onorato dalla piega che gli eventi avevano preso e fiero,
molto fiero, del suo operato.
Era stato un soldato, un tempo. E anche se in lui dimorava ancora una
sorta di disgusto per la guerra, vi era anche qualcosa che, per qualche
ragione, lo spingeva a desiderare di riottenere quel posto, quello
scopo e quel destino.
Sapeva di poter essere utile. E Geoffrey Martewall, il giorno dopo la
presa di Dunchester, lo aveva raggiunto per dirgli proprio questo, in
mezzo alle macerie del suo castello.
Che aveva bisogno di ricostruire.
Thomas lo osservò, dopo essersi inchinato, con attenzione. In lui
riconobbe i tratti di Harald Martewall, la fierezza nel suo sguardo che
era la stessa che il padre aveva portato sul ceppo della decapitazione
e che Geoffrey utilizzava ogni giorno che stava al mondo sapendo di
dover combattere per qualcosa e dare ogni suo respiro per questo, forse
consumandosi, sempre.
Thomas capì che vi era qualcosa di nascosto e spezzato nella forza dei
suoi occhi. Il dolore lo avrebbe reso più spietato e temibile che mai.
Il boscaiolo trattenne un sorriso amaro. Geoffrey era abbastanza alto,
la camicia nera aperta sul petto, gli occhi chiarissimi e taglienti sul
viso bello ma severo. L'ultimo erede della casa di Dunchester. Non gli
sarebbero bastati pochi momenti per capire come ci si dovesse sentire
ad essere nei panni del barone.
Comprese anche che, forse, loro due avevano, dopotutto, qualcosa in
comune. Il bisogno di ricostruire una vita.
All'inizio restò spiazzato dalla sua proposta, posta senza mezzi
termini, chiarendo tutti i punti e le condizioni, e il fatto che non
fosse obbligato ad accettare, nel caso non avesse voluto farlo.
Non aveva saputo, sulle prime, cosa rispondere.
Ma poi aveva osservato il castello scuro e le sue macerie e il giovane
uomo di fronte a lui che lo guardava con uno sguardo insondabile,
sembrando una cosa sola con la sua dimora. Spezzata, sofferente,
furiosa, ma ancora in piedi nonostante tutto, ancora temibile e pronta
a risollevarsi con uno scatto ferino, ad essere ciò che era sempre
stata. La rocca sicura per i suoi abitanti. E imprendibile, questa
volta, per i suoi nemici. Spietata con chi era riuscito a spezzare il
suo cuore di ferro e pietra.
E Thomas decise che sì, voleva che Dunchester diventasse una casa anche
per lui, voleva davvero fare parte del destino di Geoffrey Martewall.
Era, dopotutto, un nobile degno della sua lealtà.
Era raro trovarne, in quegli anni.
« Mastro Bull...» disse Geoffrey Martewall, raggiungendo con calma il
comandante delle sue guardie. « è bello trovarvi esattamente nel posto
in cui dovreste essere. »
Thomas chinò il capo in segno di rispetto, con un sorriso. Sapeva che
il barone lo stava tenendo d'occhio, ma questo non gli dava fastidio.
Al contrario, gli sembrava qualcosa di molto ragionevole da fare, da
parte sua.
E aveva l'impressione che, in ogni caso, Martewall avesse finito in
quell'occasione il suo esame.
« per me sarebbe un'offesa verso me stesso e verso di voi, non prendere
sul serio ogni mio incarico.» disse, sapendo che, a quel punto, dopo
qualche settimana, Martewall sarebbe arrivato a fidarsi di lui come
avrebbe dovuto fidarsi un feudatario del comandante delle sue guardie.
Thomas non aveva mai preso alla leggera il suo compito.
Non poteva. Era un soldato di nuovo e sapeva cosa significava
addossarsi un mestiere militare, e comprendere gli ordini e i desideri
dei superiori degni di questo nome.
Sapeva che, un giorno non lontano, Martewall avrebbe dovuto lasciare la
sua casa nelle sue mani.
Lo vide annuire, soddisfatto.
Sapeva che non gli avrebbe mai chiesto di spiegare il motivo per cui
aveva accettato di entrare a far parte dei suoi famigli. Per il barone
i fatti contavano più delle parole.
Lo guardò mentre lo salutava e si allontanava, e di nuovo pensò che il
castello non potesse essere di nessun altro se non suo. Le vesti
scarlatte dei mercenari nelle prigioni stonavano con l'intero ambiente.
Geoffrey si muoveva come se conoscesse Dunchester palmo a palmo, come
se, a volte, fosse il castello stesso a guidarlo. Ed ogni corridoio
aveva un suo ricordo.
E non sempre era piacevole ricordare.
Geoffrey amava Dunchester e avrebbe combattuto per lei, per i suoi
abitanti. La amava anche se i ricordi erano spesso dolorosi.
Thomas sapeva che Geoffrey aveva per lungo tempo fatto del dolore la
sua arma. Lo sapeva perché il tempo e le esperienze lo avevano aiutato
a capire i suoi sguardi così personali e inquieti, del colore
insondabile della tempesta.
I suoi occhi somigliavano a due perle magnetiche ed era tanto difficile
distogliere lo sguardo quanto sostenere il suo. I tratti e
l'espressione erano segnati dall'esperienza e mostravano una bellezza
quasi scultorea nella loro inflessibilità.
Una bellezza tutt'altro che efebica o eterea, che conteneva un fuoco
represso, un'energia nascosta ed immobile, almeno temporaneamente.
Un'insolita aurea di cupa distanza.
C'erano state volte in cui aveva creduto che non ce l'avrebbe fatta, a
vivere una vita senza combattere per qualcosa. In realtà, quei momenti
lo assalivano ancora, mentre lo osservava mostrare un certo disagio,
come una sorta di impazienza difficile da quietare, come se la serenità
gli andasse stretta, dopo anni di battaglie.
Avrebbe anche potuto essere stanco della guerra, ed essere contento di
aver ottenuto la pace per il suo popolo. Ma la pace per se stesso
rimaneva un enigma, un eterno interrogativo. Avrebbe davvero saputo
cosa fare, senza avere uno scopo preciso, degli obiettivi saldi, una
meta a cui arrivare? Avrebbe sopportato una vita legata solo alla
permanenza nel castello, ai normali controlli delle sentinelle,
all'accettare il fatto che non ci fosse più alcun nemico?
Per tutta la vita si era concentrato esclusivamente sulle sue
battaglie, personali o no che fossero, dimenticandosi delle piccole
gioie che esistevano al di fuori del campo militare. Poteva vivere
senza doversi preoccupare di combattere, che era l'unica cosa che
credeva di saper fare davvero, senza annegare i sentimenti nell'oblio
di una battaglia?
Assolutamente no, aveva pensato Thomas, osservando con un misto di
comprensione, tristezza e uno strano sentimento quasi paterno, quello
che hanno sempre le persone che si avvicinano alla vecchiaia verso un
giovane, la sua rabbia nel dover abbandonare le armi che aveva messo al
servizio di un re in cui credeva.
O forse sì, aveva pensato, regalando un sorriso a un piccolo bambino
dai capelli castani e gli occhi grigi che somigliava moltissimo al
barone, con un ghigno da brigante.
Geoffrey poteva imparare ad essere se stesso anche senza combattere.
Per amore, si poteva fare questo ed altro. E la sua vita sarebbe stata
piena, felice, i suoi figli avrebbero vissuto a lungo insieme a lui e
lo avrebbero visto e ammirato per il grande cavaliere che era.
Adesso Bull sapeva che quella vita lo avrebbe gratificato, ma non
poteva, suo malgrado, fantasticare troppo, pensava, con un sorriso
amaro e burbero.
Per uomini come Martewall, vi era sempre qualche nemico.
ook. E ci
sono, straordinariamente, ci sono.
Sì, perché
dovete sapere che, subito dopo aver riottenuto faticosamente computer e
connessione internet, la rete ha deciso di subire un guasto proprio
nella mia zona, il che non dovrebbe stupirmi, considerata la mia
rinomata sfortuna con ogni apparecchio tecnologico di cui possa
disporre.
Quindi,
ancora una volta, devo scusarmi per non aver mantenuto ciò che avevo
detto.
In più
arrivo con un capitolino corto, e questa è un'aggravante.
O meglio,
lo sarebbe se non avessi deciso di pubblicare un capitolo “bonus”
subito dopo questo. Bonus perché non rispetta le regole della raccolta,
essendo scritto dal punto di vista di Geoffrey...
volevo
pubblicarlo più che altro per supplire al senso di vuoto che mi lascia
questo, con le sue misere tre paginette di World XD.
Spero solo
che mi sia riuscito bene. Parlare di Geoff attraverso Geoff è...
insidioso. lo metto in un altro capitolo perché mi legge meglio
l'Html... non chiedetemi il perché.
Grazie per
aver letto e grazie per la pazienza!
|
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Capitolo 13 *** Il Leone ***
Il
Leone
Henri de Grandpré
Incroci le braccia sul petto, posando la schiena sulla staccionata di
legno, senza fretta, in una posa che ti è molto famigliare. I tuoi
occhi vagano senza sosta sulle tende francesi e sugli scudieri
impegnati e frenetici nello svolgere al meglio e nel minor tempo
possibile il loro dovere.
Tutto deve essere pronto e perfetto per il torneo di domani.
Molti sguardi pieni d'odio si posano su di te, ma non ci fai caso.
Mentre senti l'aria fresca del tramonto sulla porzione di pelle liscia
del petto che hai lasciato scoperta dalla casacca, ti accorgi della
calma assoluta che ti ha invaso le membra.
Forse una sottile agitazione, piacevole, arriverà il giorno dopo. Ma,
per adesso, sei del tutto tranquillo e non vedi altre facce come la tua
intorno a te.
Hai gareggiato così tante volte che oramai la vigilia di un torneo non
ti fa più nessun effetto.
Tra tutti quegli scudieri che corrono da una parte all'altra
dell'accampamento spicca la figura dell'unico cavaliere presente in
quel momento.
Si riconosce il suo rango superiore solo grazie agli abiti più eleganti
sulle spalle magre, agli speroni ai piedi e alla spada cinta al fianco.
Ma se non fosse per questi dettagli, non avresti mai detto di stare
osservando un cavaliere.
Sta poggiato alla staccionata con la schiena rigida e le braccia
lasciate lungo i fianchi che hanno la stessa dinamicità di due pezzi di
legno. Guarda il movimento dell'accampamento come hai fatto tu poco fa,
ma con uno sguardo molto diverso. È chiaramente un cavaliere che non si
è ancora dovuto guadagnare nulla, men che meno l'investitura.
Non c'è fierezza né alterigia nei suoi occhi. Solo la paura di ciò che
lo aspetta, trattenuta a stento. I suoi tratti sono ancora quasi
infantili e delicati e nessuna espressione ardita o divertita li rende
più accattivanti.
È davvero molto giovane.
Non più giovane di quanto eri tu quando hai iniziato a gareggiare nelle
giostre e nei tornei, sottoponendoti ad ogni tipo di sfida.
Ma tu non sei mai stato così... così.
Non sei mai stato particolarmente impressionabile. E non avevi di certo
tanta accortezza da preoccuparti per i tornei, anche se avresti potuto
rimetterci un occhio o finire sotto le zampe galoppanti del cavallo.
In effetti, pensi, gli occhi grigi che esaminano il volto del ragazzo
con un'attenzione che riservi raramente a qualcuno come lui, è più...
naturale il suo comportamento rispetto al tuo.
Assurdamente, nel non provare nulla al pensiero della prova che ti
attende, ti senti quasi in mancanza di qualcosa.
E pensare che neanche da ragazzino ti sia importato di qualcosa di
diverso dal brivido della sfida, ti fa sentire come se avessi saltato a
piè pari un intero capitolo della tua vita. Ma non te ne importa, se ci
pensi bene. Non riesci proprio ad immaginarti con uno sguardo così
accomodante, limpido, completamente privo d'orgoglio e innocente.
Certo, non c'è mai stata dell'innocenza in te, da che ricordi.
Di questo forse ti importa.
Ma non importa a nessun altro. Sai che sarai implacabile, al torneo.
Preciso e vincente almeno per la maggior parte delle volte.
Ti sei quasi deciso a tornare dentro la tenda con noncuranza, quando il
ragazzino incrocia i tuoi occhi. Ricambi la sua occhiata timorosa senza
imbarazzo né irrequietezza. Fai trasparire quanto sia lampante la sua
scarsa sicurezza di sé, gli fai capire quanto i suoi pensieri siano
perfettamente intuibili dall'esterno.
Gli servirà da lezione.
Non hai nulla contro di lui. Anche perché sarebbe piuttosto strano se
tu provassi davvero qualche antipatia per qualcuno di una debolezza
così palese, candida e ingenua.
Non lo vedi come qualcuno che, irrimediabilmente, sarà destinato a
rimanere codardo per sempre. Sai che si imporrà di scendere in campo
con coraggio.
Però è riuscito ad irritarti.
La dipendenza da qualcosa ti irrita, anche vista addosso a qualcun
altro.
Osservi attentamente la sua tunica e memorizzi il blasone nobiliare.
Preferiresti davvero non avere avversari come lui.
Ora ti toccherà andarci piano... per quanto tu lo sappia fare.
*
Lo senti ansimare, fuori di sé dalla rabbia, dietro di te. Ma non ti
volti.
Per adesso, vuoi solo che sene vada. E ti si stringe comunque il cuore
quando, imprecando, ti accontenta.
L'occhio brucia, ma non più della coscienza.
Dannazione, Jerome...
Rivedi il corpo del ragazzino steso fra la polvere, immobile, il
respiro debole e la terra che si macchia del sangue che fuoriesce
dall'elmo.
Di giostre e di battaglie ne hai viste tante, ma non sei riuscito a
capire quanto fossero gravi le sue condizioni.
Jerome aveva intenzione di ucciderlo. È impossibile negarlo, lo hai
anche visto nei suoi occhi solo pochi istanti fa, ma vorresti comunque
riuscire a convincerti di essere in torto.
Una rabbia accecante ti invade il petto, la mente, lo sguardo.
Ma in un sottile pensiero, capisci che chiunque potrebbe rinfacciarti
di aver ferito, anche se non così gravemente, altri tuoi avversari,
quel giorno, compreso il compagno del ragazzino.
Lo sai e non ti senti particolarmente in colpa.
Ma per quel ragazzino, per lui sì.
Ti senti sporco di sangue innocente.
*
Ti eri davvero dimenticato di lui.
I ricordi riaffiorano nel momento in cui il Falco vi presenta l'uno
all'altro. Certo, non avevi dimenticato il giovanissimo cavaliere che
era stato vittima della rabbia di Jerome, perché era il simbolo del tuo
fallimento, del fatto che avresti dovuto accorgerti di non conoscere
davvero il tuo amico.
Ma avevi dimenticato il suo volto. La sua espressione impaurita che
adesso, fortunatamente, è solo un ricordo.
Perchè Henry de Grandpré sembra cresciuto, rafforzato, maturato. Il
volto è più deciso, sebbene gli occhi mantengano la loro limpidezza con
un certa fierezza. Una nobiltà umile, una sincerità e una bontà così
palese e così degna di rispetto.
Così degna di un cavaliere.
Vedi la vera nobiltà della sua anima nella gentilezza delle sue parole
e del suo sorriso.
È tutto quello che tu non eri e che mai sarai.
Ti stupisci di quanto pensare a questo sia allo stesso tempo piacevole
e triste.
Brianna
Eri il minore di tre fratelli maschi. Questo voleva dire che dovevi
sforzarti il doppio per far parlare di te, per farti notare. Nessuno
credeva che saresti potuto diventare un generale formidabile, o che il
tuo bisogno di un'eredità non avrebbe fatto crescere in te l'invidia
nei confronti dei tuoi fratelli, o che in ogni momento avresti
combattuto per guadagnarti onorevolmente il tuo denaro.
In molti mormoravano che per te sarebbe stato più facile e meno
faticoso unirsi al clero, oltre che più utile alla tua casata. Ma tu
sognavi altri modi per portare in alto il nome della tua famiglia. Non
ti era mai passato per la testa l'idea di prendere gli ordini. Ti eri
guadagnato il rispetto di tutti con fatica, ma questo aveva temprato il
tuo carattere e ti aveva reso più forte.
E non eri affatto geloso di ciò che avevano i tuoi fratelli, anche se a
volte la scarsa fiducia che gli altri riponevano in te ti infastidiva,
e, malato d'orgoglio, ti fingevi sempre noncurante.
Non avevi un'eredità assicurata, ma avevi una libertà che non molti
conoscevano, grazie alla tua posizione e al tuo spirito indipendente.
Una libertà che, anche da feudatario, non hai mai rinnegato, pur
assumendoti tutte le responsabilità che ti spettavano. E che prima
avevano riguardato solo la guida dei tuoi uomini e la protezione delle
terre di tuo padre, non il governo di quel feudo, che, lo sapeva, era
qualcosa di ben diverso e di difficile da gestire.
Per questo credi di amarla.
Ami la sua libertà, la vostra libertà. Ami il suo portamento fiero, le
sue resistenze ai dolori che la vita gli ha riservato, ami la grazia e
la forza con cui si prende cura di suo figlio. Un figlio ribelle,
faticoso da controllare, come eri tu.
Il fatto che ci sia Beau nella sua vita non fa che renderla più
affascinante ai tuoi occhi, anche se nessuno ci crederebbe.
Ami il suo cipiglio lievemente arrogante e molto sicuro, il suo essere
così diversa dalle altre donne, attente a mostrarsi fragili bambole
dalla pelle di seta. Non vuoi nessuna di loro al tuo fianco. Vuoi
lasciare intatta la libertà che per anni hai difeso.
*
Brianna Foxworth è più forte di te.
Avete in comune la sofferenza, ma lei l'ha sempre accettata con
fierezza e pacatezza, adeguandosi alla vita come l'acqua in un
recipiente sempre diverso. È riuscita a sopravvivere e a seguire i
giusti principi quando tu non facevi altro che desiderare sangue e
vendetta. I tuoi peccati ti perseguiteranno per sempre, mentre lei è
sempre stata un passo avanti, non ha mai ceduto alla debolezza di una
tentazione.
La chiamano sgualdrina, ma per te è la più pura fra le donne.
La cosa peggiore, è che tu hai vissuto troppe cose per poter cambiare
te stesso.
E ora non la meriti.
Kerwick
Geoffrey Martewall ricordava perfettamente la sua infanzia, anche se
non lo avrebbe mai ammesso con nessuno. Non era un argomento di cui
amava trovarsi a discutere.
Kerwick non ne aveva idea, ma buona parte dei ricordi più nitidi di
quando Geoffrey era un bambino erano legati a lui.
Il barone lo osservò con la coda dell'occhio, in sella al suo cavallo.
Il suo sguardo era molto diverso da quello del bambino che era
cresciuto insieme a lui nel borgo di Dunchester. Era molto più sicuro,
anche se non riusciva a sembrare arrogante.
Quel giorno aveva insistito per partire insieme a lui per la Francia,
sarebbe stato un viaggio breve, ma utile per parlamentare col re
riguardo ai primi aiuti che avrebbe voluto inviare a suo figlio,
impegnato in una guerra aspra e spietata contro re Giovanni Senza
Terra.
Geoffrey non avrebbe voluto portare con sé nessuno dei suoi cavalieri,
in un momento così particolare, ma solo pochi soldati.
Kerwick non aveva mai contestato una sua decisione, in tutti quegli
anni, se non una volta, il giorno in cui Dunchester era stata
conquistata da Lunga Spada. Per questo Geoffrey si era dovuto
trattenere per non guardarlo con tanto d'occhi quando lo aveva sentito
dire che intendeva seguirlo in Francia, nonostante il barone si fosse
già espresso riguardo ciò che intendeva fare. In lui aveva visto una
preoccupazione a stento sopita, mentre tentava di convincerlo a portare
almeno qualche cavaliere con sé, per essere più sicuro nel caso i
sicari di Giovanni, fin troppo numerosi, avessero tentato di fermare la
sua spedizione.
Geoffrey non aveva mai dovuto giustificare le sue azioni con lui
durante buona parte della sua vita. Era così che erano sempre rimasti i
rapporti fra loro. Però sentiva che qualcosa stava cambiando, da quando
lo aveva visto contestare le sue decisioni di fronte a suo padre,
quando Geoffrey aveva scelto di salvare il salvabile dall'esercito di
Salisbury e disubbidire a sir Harald nell'arrendersi e fare in modo che
la violenza dei mercenari non arrivasse al popolo innocente, alle donne
e ai bambini.
Non si era sentito ferito nell'orgoglio dall'inaspettata mancata
alleanza di Kerwick, e non si era sentito più debole. Era abituato a
combattere da solo le sue battaglie. Ma si era chiesto perché neanche
lui capisse le sue ragioni, cosa che aveva dato per scontato così tanto
tempo. Questo pensiero si era aggiunto ai suoi turbamenti, perché non
aveva mai pensato, a differenza degli altri, che Kerwick ubbidisse agli
ordini senza fiatare, di solito, perché solo quello sapeva fare, ma che
la sua fedeltà raggiungesse vette inimmaginabili, e forse anche perché
si erano ritrovati ad essere d'accordo, evidentemente, su molti punti.
Ma era chiaro che non fosse più così.
Chi era stato a cambiare, in quel periodo?
Geoffrey si fece questa domanda ma si rispose un istante dopo, dandosi
dello stupido. Pensò a tutto quello che aveva fatto nell'ultimo anno,
al suo comportamento da bandito quando aveva preso prigioniero Jean
Marc de Ponthieau in quella locanda. Ripensò alla sua voglia di
vendetta camuffata da desiderio di verità.
Non si sarebbe stupito se Kerwick avesse smesso di credere
completamente in lui, di provare rispetto nei suoi confronti. Rimaneva
al suo fianco, perché il suo onore e la sua fedeltà non gli
permettevano di fare altro, e, come era successo quel giorno, si
preoccupava come sempre per la sua vita.
Eppure Geoffrey sentiva di aver perso qualcosa.
Qualcosa di importante. E non era l'approvazione senza macchia di
Kerwick. Ma il suo rispetto e la sua totale fiducia.
Sapeva di esserselo meritato.
*
Da piccolo si trovava spesso a cercarlo con lo sguardo, forse perché
era l'unico dei famigli della sua età. Era un comportamento senza
dubbio molto strano, considerato il fatto che i due nemmeno si
parlavano, in realtà. Non che Geoffrey non avesse voluto, a volte.
Soprattutto quando i suoi fratelli lo lasciavano a lungo da solo,
perché impegnati nei loro studi o in brevi viaggi che Harald concedeva
loro.
Ma ogni volta che lo vedeva il piccolo Kerwick arrossiva e abbassava lo
sguardo, e Geoffrey si sentiva a disagio come se avesse fatto qualcosa
di sbagliato.
Eppure vi era qualcosa in quel bambino, una sorta di pacata e
incrollabile fiducia, che gli faceva provare il desiderio di tenere in
gran conto la sua opinione e i suoi pensieri così evidenti sul suo
viso.
A Geoffrey piaceva la sua sincerità. Quel bambino gli ispirava fiducia,
ma dalle sue reazioni non era sicuro di fare a lui lo stesso effetto e
per questo Geoffrey se ne rimase sempre in disparte, preferendo molte
volte la solitudine.
Vi era stato un tempo in cui si era ritrovato anche ad invidiare un po'
quel bambino. Svolgeva ogni suo lavoro da scudiero in modo meticoloso e
sempre perfetto. Non c'era mai stata una volta in cui aveva combinato
qualcosa per cui dovesse essere punito. Sembrava molto semplice e al
contempo sereno.
Geoffrey invidiava la sua naturale tranquillità, la paragonava alla
propria irrequietezza, che sfogava senza potersi trattenere. Aveva
invidiato non solo la sua efficienza ma anche lo sguardo sempre limpido
di Kerwick, e persino le sue poche preoccupazioni. La sua capacità di
risultare sempre simpatico a chiunque, sempre di piacevole
compagnia.
Poi il tempo era passato e da ragazzino Geoffrey era arrivato a
sentirsi così poco adatto a parlare con lui che lo aveva dimenticato,
con la mente sempre impegnata negli allenamenti con la spada, nel
rapporto con la sua famiglia, nelle guerre imminenti.
Era stato troppo orgoglioso per ammettere che aveva desiderato, anche
se per poco, un amico tra le mura di Dunchester , ma non si curava
neanche più di questo fatto irrilevante.
Nei confronti di Kerwick era rimasto dentro di lui un pacato rispetto,
che sperava fosse ricambiato.
*
« Che diavolo è successo qui?» chiese Kerwick tra sé, guardandosi
intorno con gli occhi leggermente sbarrati.
Geoffrey si chinò a raccogliere dal fango un brandello di tessuto rosso
sporco e bagnato dall'umidità mattutina.
« Se fossi rimasto in Inghilterra, probabilmente lo sapresti. » rispose
Geoffrey, duramente, lo sguardo che scrutava le case bruciate. Kerwick
non abbassò lo sguardo, ma non rispose subito, serrando la mascella.
Il giovane barone non lo degnò più di uno sguardo.
« Muoviamoci a raggiungere Fitz Walter. » ordinò, secco, l'espressione
cupa ma determinata. In un primo momento aveva ricordato a Kerwick il
suo errore, ma non ci aveva prestato molta attenzione. Cercava solo, in
quel momento, di capire in ogni dettaglio ciò che era avvenuto in
quel luogo durante la sua breve assenza, dove si fossero diretti gli
abitanti in fuga, se vi era stato solo un saccheggio o una battaglia
tra componenti di diverse armate. Perlustrò con uno sguardo attento ed
esperto tutto ciò che poteva, mantenendo il suo cavallo al passo in
mezzo alla strada piena di impronte sparse e fango, superando le case
dalle porte sfondate e i tetti anneriti e pericolanti a causa del
fuoco.
L'odore della morte, inconfondibile, permeava l'aria avvolta da un
silenzio che pareva irreale. Geoffrey sentiva la rabbia crescere sempre
più nel suo petto.
Kerwick lo raggiunse, rimanendo solo qualche passo dietro di lui.
« Non vi chiederò perdono per essermi opposto ad una vostra decisione.
» disse, calmo ma sicuro.
Geoffrey lasciò faticosamente che la sorpresa gli scivolasse addosso
senza lasciare traccia e lo osservò con gli occhi taglienti e freddi
come il ghiaccio.
« Non voglio affatto farti desiderare il mio perdono. Non posso dire di
essere stato contento della tua decisione, ma se io non avessi
acconsentito, saresti rimasto qui. Che fossi stato d'accordo o no. E
non mi pare affatto di averti dato il permesso di parlarmi così. »
chiarì, severo e tagliente.
Non poteva pensare che non fosse strano, rivolgersi in questo modo
proprio a lui. Forse perché lo conosceva da sempre. Anche se non
avevano fatto amicizia nel vero senso della parola, era stato fin da
piccolo una presenza vicina. Ma lo aveva ferito nell'orgoglio dicendo
una frase che, come era ovvio, era uscita istintivamente dalle sue
labbra. E Geoffrey non poteva impedirsi di reagire con estrema
freddezza.
In effetti, non aveva neanche idea del perché non si fosse opposto alle
insistenze di Kerwick fino a farlo desistere. Ci sarebbe voluto poco,
era lui il suo signore, lui quello che poteva dare ordini.
In Kerwick, quel bambino che aveva conosciuto e osservato da lontano,
c'era qualcosa che lo portava, a volte, solo a volte, ad acconsentire
alle proposte che faceva anche se non si trovava per niente d'accordo.
Geoffrey si morse le labbra. Non avrebbe mai più dovuto fare un simile
errore.
« L'ho fatto per guardarvi le spalle, signore. » si giustificò Kerwick,
abbassando la testa.
« Lo so. Ma non ne ho bisogno. »
Kerwick non disse nulla anche se la sua disapprovazione aleggiava
pesante nell'aria. Geoffrey si chiese se l'altro avesse perso fiducia
nelle sue capacità o condannasse apertamente il suo orgoglio.
« Credete che io non sappia cosa siete capace di fare? Avevo la vostra
stessa età quando avete impugnato la spada per la prima volta. »
mormorò Kerwick, pacato, come per rispondere ai suoi pensieri nascosti,
e il barone lo osservò con un interesse che non aveva mai dato a vedere
di volergli riservare.
« Lo ricordo bene. » concluse Geoffrey, tornando ad osservare la
strada. Non mentiva, e capì in un istante di aver dato una risposta che
aveva soddisfatto l'altro cavaliere.
« Mi perdonerete allora il mio modo di preoccuparmi per voi anche più
di quanto facciano gli altri, anche se vi da fastidio?»
Geoffrey faticò di nuovo nel non mostrarsi sorpreso. Strinse le redini
mentre la domanda gli riecheggiava nella testa.
Non c'era una risposta che gli avrebbe fatto piacere dare.
Indurendo la sua espressione appena tetra e incolore, annuì una sola
volta, mentre una strana luce sembrava allargarsi nel suo petto come
una sorgente che inonda all'improvviso un terreno arido.
E con
questo ho finito di rompere... -.-" per un bel po' nulla e
all'improvviso pufff, due capitoli!
Grazie a
tutti per aver letto :) (e Grazie con la g maiuscola a Wrong And
Write, che non se ne perde uno, dei miei capitoli e mi incoraggia
sempre...)
Spero di
non aver deluso nessuno dei tanti ( come potrebbe essere altrimenti)
ammiratori e ammiratrici di Geoff...
in ogni
caso, sappiate che avevo buone intenzioni... e che non avete il mio
indirizzo... : )
Ciaooo!
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Capitolo 14 *** Harald- Padre ***
Harald
Martewall
Padre.
Il
barone è tornato a casa.
La
sua veste è gocciolante e il suo mantello pesa
sulle spalle. È tornato in un giorno in cui il cielo non è stato
clemente, in
un modo che oramai gli abitanti del territorio si aspettano. Le nubi
sono scure
e opprimenti nelle ombre della sera, e rilasciano una pioggia
torrenziale.
Il
barone si sfrega con una mano la barba castana,
la pelle pallida e tirata sugli zigomi dalla stanchezza. Ma è solo un
momento
distratto, e poi il suo sguardo si irrigidisce di nuovo, come animato
da un
movimento che è risalito dalla schiena, ora più dritta e austera.
Sembra di
nuovo infaticabile, il barone, anche se il suo viaggio è finito.
Si
ferma nella sala d’ingresso, finalmente lontano
dalla tempesta e ascolta per un momento, senza dire nulla, le voci
concitate
degli ufficiali che ordinano ai servi di mettere i cavalli al riparo.
Impartisce lui stesso qualche istruzione, davanti ai volti dei suoi
famigli
che, lo sente, sono felici di vederlo. Cede ad uno di loro il mantello
con un
sospiro di piacere, non sopportando più di sentire il tessuto freddo e
bagnato
sul collo.
Sorride
distrattamente. Lui stesso è molto felice di
essere di nuovo a casa. E non solo per il calore del fuoco acceso.
Dal
corridoio fanno capolino delle giovani balie dai
capi coperti da un panno bianco, una di loro porta in braccio un bambino che quasi scompare tra le pieghe delle sue
vesti. Lo vedono e gli vanno incontro con sorrisi ampi e saluti
cortesi. Il
barone le osserva inchinarsi di fronte a lui e poi tende le braccia con
un
piccolo sorriso.
La
piccola Leowyn adesso è tra le sue braccia e
dorme profondamente. Il barone le accarezza la piccola testolina ma
alza lo
sguardo quando sente i passi dell’ ambasciatore che lo raggiungono, e
lo guarda
negli occhi mentre, delicatamente, riaffida la piccola alle cure delle
donne.
Il messaggero ha in mano una lettera e il barone sa che resterà con lui
per
discutere riguardo al suo contenuto, una volta che l’avrà letta.
La
porta dietro alla sue spalle si apre lentamente
mentre un’altra folata di vento piega i rami degli alberi fuori dalle
finestre
di vetro opaco. Il barone si accorge allora di non essersi allontanato
dall’entrata e si volta mentre il portone sbatte con un tonfo sordo.
Ricambia
lo sguardo profondo di un bambino con le
guance sporche di fango e gli occhi rossi per il vento e la pioggia che
hanno
raccolto. Il loro grigio intenso non ha perso però quel guizzo vivace
che ha
sempre avuto nel suo colore frastagliato, che pare più chiaro ancora
alla luce
danzante del camino. Le spalle del bambino sono magre sotto la camicia
ampia e
sporca anch’essa di fango, gli stivali logori e i capelli castani
arruffati e
fradici.
Il
barone riesce a non far trapelare il suo sorriso
dalle labbra, ma non dai suoi occhi, per un solo istante. Gli bastano
pochi
passi per raggiungere il bambino, e lo fa nonostante la presenza del
messaggero
sembri rendere l’aria più pesante. Anche il bambino se ne è accorto,
ovviamente. Punta lo sguardo sull’uomo con quegli occhi curiosi che
sembrano
scrutare nel profondo della sua persona, con un velo costante di
malinconia.
Sembra
esserci tutto, nello sguardo di suo figlio, o
almeno così ha sempre pensato il barone. C’è tutto meno che la
tranquillità e
la remissione.
È
sempre segnato da una sorta di vivace ma non per
questo serena irrequietezza.
«
Signore…» l’ambasciatore richiama il barone con
una stizza che cerca invano di rimanere nascosta. Lui e suo figlio
ancora non
si sono parlati, il messaggero scalpita perché vuole portare a termine
il suo
dovere nel minor tempo possibile e non capisce perché quel bambino che
pare
essere sbucato dal nulla e non essere nulla
stia attirando così tanto l’attenzione del barone. Le donne invece
sanno bene
chi sia il nuovo arrivato, quelle più vecchie lo osservano con biasimo,
quelle
più giovani con un misto di confusione e preoccupazione. Si preoccupano
per lui
anche se non lo capiscono, perché è quello che devono fare, ma sanno
che non è
il loro compito controllare che il bambino non esca quando gli è
proibito. Loro
devono occuparsi quasi esclusivamente di Leowyn, per fortuna.
Il
messaggero, che nulla sa della vita nel castello
di Dunchester, si chiede anche come il bimbo possa permettersi di
osservare sia
lui stesso che il barone con quella fissità attenta e irriverente.
Il
barone non lo ascolta. Per una volta, non ha
voglia di mettere da parte i suoi desideri. Il suo volto potrà anche
essere
severo come sempre, ma il suo cuore trabocca di gioia e questo non può
ignorarlo, non dopo un viaggio che è sembrato così interminabile. Non
gli
sfugge, inoltre, la gioia dello sguardo di suo figlio nel rivederlo
dopo lungo
tempo.
Il
viso del bambino è molto sottile, tanto che il
barone può stringergli le guance tra le dita, con il pollice da una
parte e le
altre quattro dall’altra, che premono vicino all’orecchio. Lo vede nei
suoi
occhi, che si aspetta di essere rimproverato. E infatti qualunque altra
sera
suo padre non ci penserebbe due volte ad afferrare la verga. Se solo
pensa al
buio che c’è fuori dal castello, al vento pericoloso per chiunque non
abbia un
riparo sopra la testa, alla pioggia che col suo frastuono potrebbe
coprire
qualsiasi suono e infine al bambino che è uscito da solo, sente il
sangue
ghiacciarsi nelle vene dal terrore. Gli stringe di più la mascella, le
unghie
che incidono leggermente la pelle. Il bambino lo guarda con gli occhi
grandi e
senza paura.
Il
barone non sa se ha più voglia di abbracciarlo o
di prenderlo a schiaffi, e suo figlio sa che sarà punito, ma non gliene
importa,
il grigio dei suoi occhi risplende di
felicità
benché, capendo la situazione, eviti di sorridere apertamente.
«
C’è mio figlio sotto questo strato di fango?»
chiede freddamente Harald Martewall, severo.
Geoffrey
lo osserva senza mutare espressione, poi
accenna ad un sorrisetto impertinente, che sembra voler riservare solo
al
padre.
«
C’è lui, padre. » annuisce, e Harald sente il suo
mento pesare di più sulla mano.
Harald
è stanco. È troppo stanco per sgridarlo, lo
capisce in un mezzo sospiro. Ma se fosse solo colpa della stanchezza,
non si
sentirebbe così ben disposto. Per quella che è forse la prima volta,
non
punisce suo figlio perché non vuole farlo. Non vuole rovinare
quell’intesa tra
i loro sguardi, quel momento di comprensione che condividono spesso e
di cui
non potrebbe mai stancarsi, i piccoli gesti di Geoffrey per far
trasparire il
suo affetto anche quando ha fatto qualcosa che non avrebbe dovuto fare.
Come
l’appoggiare quasi impercettibilmente il mento
sul suo polso.
«
ora non è il momento adatto… » inizia Harald,
perché nonostante tutto non può dimenticare la paura di poco prima, la
sorpresa
e la sottile rabbia, e il vento fischiante non fa che ricordarglielo. «
della
tua nuova bravata parleremo domani. »
Si
volta per chiedere alle serve di preparare un
bagno al bambino, specificando che non serve che l’acqua sia calda. Se
non si è
ammalato sotto la pioggia scrosciante non si ammalerà di certo nella
grande
tinozza delle sue stanze.
Quando
si gira di nuovo verso suo figlio vede uno
sguardo diverso nei suoi occhi, una speranza infranta, e gli si stringe
il
cuore. Vorrebbe parlargli, avere tutto il tempo di farlo, confrontarsi
con lui
e anche rimproverarlo, magari, che sarebbe qualcosa di preferibile
rispetto a
quel vuoto di attenzioni.
Invece
lo osserva andarsene a capo chino, salutando
a voce bassa, e il messaggero deve richiamarlo due volte prima di
ricevere un
minimo di considerazione.
Non
è stata una serata piacevole come aveva sperato
quando ancora era in viaggio verso casa.
Quando
finalmente gli è possibile congedare il messaggero,
la mente di Harald è più ingombra di preoccupazioni di prima, le spalle
più
curve e il volto più teso e tirato. Per quanto riguarda il suo umore, è
ciò
che, più di tutto il resto, lo fa sentire stranamente debole e
impotente.
E
distante.
Distante
come non lo era mai stato, persino.
Distante dai suoi figli, da quei desideri che aveva sempre accantonato
con la
speranza che, un giorno, sarebbe stato ripagato di tutti i suoi sforzi.
Ma la
speranza era smorzata da poche, scarne gioie che lo appagavano
lasciandogli al
contempo il gusto della delusione nella bocca, dell’insoddisfazione. Lo
accontentavano quel poco che bastava per farlo andare avanti su una via
estremamente tortuosa.
Il
barone metteva tutta l’anima in ciò che faceva.
Perché era un uomo d’onore e di valore.
Ed
è strano come, quella sera, non senta nessun tipo
d’orgoglio, né quella sua costante decisione ferrea in ogni azione, ma
si senta
solo vuoto e stanco.
La
speranza ora lascia il posto a un piccolo dubbio.
A una piccola, sussurrata, confusa paura. Il tempo gli sta sfuggendo di
mano, e
lui deve fare di tutto per costruire dei ricordi che gli facciano
affiorare il
sorriso sulle labbra anche nei momenti più tetri.
Le
gambe lo portano da sole, non le muove un suo
preciso ordine.
Si
dirige deciso verso una direzione ben definita
nella sua mente, forse perché sa che lui è ancora sveglio, o forse
perché, tra
tutti, è la persona che gli somiglia di più. Sul suo volto vede la sua
stessa
forza idealista, la sua solitudine e qualcosa che Harald tenta
costantemente
d’afferrare e di capire. Qualcosa di così prezioso, da dover restare
nascosto
persino ai suoi occhi, il frutto di un amore viscerale. Come
se Geoffrey avesse sempre avuto, non
sapendo d’averla, una cura per ogni tormento di suo padre e il potere
di
sconvolgere la sua vita in una sola parola.
Harald
trova la luce debole delle candele che ancora
filtra dalla fessura sotto all’entrata. Spinge piano la porta,
osservando suo
figlio rimasto sopra alle coperte del letto in fondo alla stanza, i
capelli
asciugati da un panno che gli pende dalle spalle, il viso pulito, i
gomiti
sottili poggiati sulle ginocchia e una spada di legno sciupata tra le
mani. Ha
l’espressione seria di un piccolo soldato.
O
forse è solo quella di un bambino abbandonato che
non vuole dare a nessuno la soddisfazione di vederlo imbronciato.
Harald
si avvicina e si sente come se un grande peso
gli sia stato appena levato dalle spalle quando incrocia il suo
sguardo. Si
sente felice e dispiaciuto al tempo stesso, perché quello scambio
silenzioso è
durato un solo istante ma è bastato per fargli capire che c’è sempre
qualcosa
che Geoffrey non gli perdona.
A
volte dimentica che è solo un bambino.
Perché
Geoffrey è così… strano, complesso, e i suoi occhi
sono così grandi, da far dimenticare che anche lui è
un bambino. Non come gli
altri, forse. Ma soffre nell’essere imprigionato a metà strada.
Harald
si siede sul letto, e vorrebbe costringerlo a
guardarlo e a rivolgergli uno di quei suoi sorrisi così belli, ma sa
che non
basterà il poco che sarebbe sufficiente con chiunque altro per
riuscirci. Con
Geoffrey non sono mai bastate le promesse vuote, lui vuole spiegazioni.
Il
barone gli tocca la spalla spingendolo
leggermente all’indietro. Allora il bambino alza lo sguardo su di lui
con una
muta domanda nella testa, quella testa che osserva e pensa scavando
nell’essenza delle cose, si scosta una ciocca di capelli castani dagli
occhi.
Harald
è così felice di essere lì, di vedere le sue
iridi brillare di fronte al suo sorriso. È così felice di poter di
nuovo stare
vicino a lui, di sapere che l’indomani si preoccuperà di nuovo e si
arrabbierà di nuovo. Gli passa una mano tra i capelli
spettinati con l’affetto che dimostra poche volte.
«
Vuoi che ti racconti cosa ho fatto in tutto questo
tempo? » chiede, la voce profonda e scura.
Geoffrey
lo osserva confuso e stupito, stringendo le
labbra.
«
Non siete arrabbiato?»
Harald
sorride debolmente e scuote la testa. Oramai
la rabbia è svanita e non è venuto per rimproverare suo figlio, ma
perché ha
bisogno della sua vicinanza. Per questa volta Geoffrey può scamparla.
«
E tu?»
Geoffrey
sembra pensarci per un momento, poi scuote
la testa.
«
Bene…» sorride Harald, preparandosi a raccontare
una storia a suo figlio come non l’ha mai fatto prima, scoprendo di non
essere
poi tanto scarso nel provarci. Alterna racconti veri a momenti più
avventurosi,
sorvola sulle lunghe discussioni politiche e fa apparire la sua storia,
vera
solo per metà, più magica ed eroica di quanto sia in realtà, sapendo
che suo
figlio penderà dalle sue labbra con gli occhi sbarrati dalla sorpresa.
Perché,
non ci sono dubbi, è giusto che sia così.
Quello
è il loro personale momento di magia.
*
Harald
Martewall era arrivato da tempo a un punto in
cui non poteva far altro che vederlo tornare sapendo che se ne sarebbe
andato dopo
poco tempo. È una delle conseguenze della guerra, una di quelle che
nella sua
famiglia si accetta oramai con una certa rassegnazione. Ma non questa
volta.
Questa volta, qualcosa è cambiato. Forse Harald non ha mai fatto i
conti con la
realtà prima d’ora, non ha mai messo in conto che suo figlio potesse
non
tornare.
Il
sollievo di sapere che è vivo lascia presto il
posto alla paura.
Fin da quando
suo figlio era solo un bambino, il barone sapeva che, pur potendo
scegliere una
strada diversa da quella militare, Geoffrey sarebbe diventato un uomo
d’arme.
Era
lampante, il suo talento con la spada, ma vi era
anche qualcosa di più profondo che rimaneva immutabile nell’espressione
del suo
viso, tra i tratti schietti del ragazzino che sarebbe diventato il
bell’uomo
che desiderava così ardentemente tornare a vedere.
Il
suo destino si poteva percepire nelle sue
risposte secche, nello sguardo penetrante e talvolta distante, nella
cupa
sofferenza dei suoi occhi di fronte alla salma del fratello.
Harald
chiude gli occhi con dolore. Pensare di poter
perdere quel giovane cavaliere, di cui è così fiero, che è stata la
cosa più
preziosa che abbia mai posseduto… è insopportabile.
Il
barone si sforza di accantonare per un momento i
ricordi, i pensieri, tutto quello che gli porta a far perdere lo
sguardo oltre
le finestre, in mezzo alla pioggia incessante che gli ricorda un
momento ben
preciso passato con suo figlio.
«
Signore, gli esattori del re sono qui. »
Quanto
ci sarebbe voluto per mettere insieme
abbastanza denaro da pagare il suo riscatto e farlo tornare a casa?
Harald
stringe i pugni furiosamente. Non c’è nulla che non potrebbe fare pur
di
riaverlo , là dove si trova il suo legittimo posto. Eppure suo figlio è
ancora
in Francia, in una prigione, e può solo ringraziare che non sia morto.
«
Signore…?»
Harald
volta di scatto la testa verso Kerwick ed
Ewen, li scruta come se volesse bruciarli con lo sguardo. Perché il
barone vorrebbe
distruggere ogni cosa, con la stessa furia appassionata di suo figlio,
come
oramai la vecchiaia e la malattia gli impediscono di fare. Sente un
oppressivo
senso di impotenza al pensiero di essere quasi completamente bloccato
su uno scranno,
mentre suo figlio soffre in una prigione e lui non può fare altro che
abbandonarlo perché, nonostante tutti i suoi sforzi, non viene mai
raggiunta
una cifra sufficiente per i francesi.
I
due cavalieri abbassano lo sguardo con una tetra
consapevolezza negli occhi. Harald osserva molto attentamente il più
giovane,
con freddezza.
Sa
chi è, sa che soffre per l’assenza di Geoffrey,
che è cresciuto dietro alle sue stesse mura e che ha sempre ammirato da
lontano.
Eppure il barone è convinto che nessuno possa capire cosa stia provando
lui
stesso.
«
Perdonatemi se non vi ho prestato attenzione. »
sbotta, con un gesto scontroso della mano. I due cavalieri rialzano a
fatica lo
sguardo. Kerwick non riesce a guardarlo in viso.
«
Chiediamo perdono, signore, per avervi disturbato.
Gli esattori sono insistenti. » dice Ewen, nascondendo senza troppa
convinzione
un astio che il barone condivide con tutta l’anima.
Harald
sposta lo sguardo sul tributo, racchiuso in
una cassa, che avrebbe dovuto cedere al Senza Terra. Stringe le dita
sul
bracciolo del suo scranno.
«
Che Dio mi fulmini se sarò ancora così debole… »
mormora con rabbia e dolore.
Sorride
appena pensando alla scelta che ha preso. Sa
che Geoffrey non sarebbe d’accordo, non subito. Ma sta facendo
esattamente
quello che il bambino con la spada di legno in mano si aspetterebbe dal
suo
eroe.
*
Harald
non si era decisamente aspettato questo.
Non
si era aspettato di provare una tristezza così
profonda, nel perdersi nel buio sconosciuto dei suoi occhi. Gli erano
sempre
sembrati senza fondo, indefiniti come i pensieri indecifrabili al loro
interno
e allo stesso tempo terribilmente presenti, pronti a dimostrare quanto
valessero, quanto tutto ciò che avevano passato li avesse resi più
forti, più
freddi, più sicuri.
Ciò
che vede Harald in quel momento è collera, una
collera bruciante. Il suo desiderio di distruzione e di violenza non è
mai
stato così bruciante e così difficile da tenere a freno anche,
soprattutto, per Geoffrey stesso.
E
Harald, quando mormora che non riesce a
riconoscerlo, quando pensa che non è suo figlio che sta pronunciando
quelle
parole spietate, non mente. E come ogni volta che non si mente per
amore, il
dolore è indescrivibile.
Si sente
improvvisamente molto, molto stanco, quando il muro di risentimento di
Geoffrey
gli piomba addosso insieme alla sua stessa vecchiaia. La consapevolezza
di
essere il destinatario di tanto odio, di essere il creatore
inconsapevole di
tutti quei pensieri che Geoffrey gli ha sbattuto in faccia senza pietà,
arriva
come una pugnalata al petto.
Per
un attimo vacilla. Stringe più forte il bastone.
Eppure
c’è qualcosa nei gesti di Geoffrey, come un
ombra tra i tratti del suo volto, che gli fa capire che suo figlio non
è del
tutto perduto. Che forse il peggiore dei suoi timori non si è avverato.
Ma
è testardo, il suo solitario terzogenito, lo è
soprattutto quando è arrabbiato, o quando è deluso, e purtroppo crede
di avere
tutti i motivi per esserlo, a causa della condizione che Harald si è
trovato
obbligato ad imporgli. Con un'altra guerra alle porte dopo cinque
lunghi mesi
di prigionia.
Geoffrey
si sta sforzando di trovare una nobiltà
nelle sue azioni che non sente più di avere, che gli viene negata dai
suoi
impulsi, dal suo agire con una fredda lucidità al fine di rimettere a
posto la
sua vita piena di contraddizioni. Harald sente il forte bisogno di
salvarlo da
qualcosa di troppo inconsistente per essere sconfitto e non si è mai
sentito
così impotente.
La
decisione si presenta come una sferzata d’aria
gelida.
È
questo il momento di mostrare tutta la sua forza,
prima che Geoffrey arrivi ad essere troppo lontano da lui.
Gli
fa terribilmente male vedere quanto la guerra
l’abbia cambiato. Eppure, se ci riflette, avrebbe dovuto aspettarsi
l’arrivo
del momento in cui Geoffrey avrebbe cominciato a dubitare di se stesso,
a
perdersi in una voglia di vendetta ingiusta e camuffata da
qualcos’altro, a non
perdonarsi con una crudeltà sofferente.
Gli
fa male anche vederlo rimanere fuori dalle mura,
preso da un accecante senso d’abbandono, in balia dei nemici che
continua a
fronteggiare con un coraggio folle. Cosa cerca, per la prima volta lo
vedi nei
suoi occhi che sono ancora un enigma, quando il conte francese lo tira
a forza
al riparo.
Geoffrey
vuole l’oblio della guerra, e cerca la pace
con l’irrequietezza di qualcuno che non saprebbe come comportarsi dopo
averla
trovata. Geoffrey vuole vendetta per la sua sicurezza di sé che è
andata
distrutta, vuole lottare per tornare in superficie ma il peso della
consapevolezza di quel che crede d’essere lo trascina sempre più a
fondo.
Geoffrey vorrebbe che per una volta tutto fosse semplice, ed affronta
con forza
i suoi demoni.
Forse,
per un breve istante di quel tempo folle in
cui è rimasto solo, con i soldati che gli gridavano di superare il
cancello,
ignorando ogni voce ha perfino desiderato che arrivasse il colpo
fatale.
Geoffrey
si trascina dietro il suo inferno ad ogni
passo.
*
Lo
ama con un diverso tipo d’amore.
O
forse è più corretto dire che non ha mai amato
nessuno, come ha amato lui. Perché dovrebbe nasconderlo a se stesso?
Non
ha smesso un istante di essere fiero di lui. E
vorrebbe solo che lui lo sapesse, che capisse che suo padre non lo ha
mai
accusato di nulla. Ricorda la loro strana connessione, che apparteneva
solo a
loro e non si poteva descrivere perché non vi erano al mondo parole
così eterne
e flessibili.
E
questo padre così orgoglioso morirebbe con la pace
nel cuore se sapesse che suo figlio è vivo e sta bene, e la sua anima
ha smesso
una volta per tutte di sanguinare. Ma gli è stata negata anche quella
pace, e
sa che sentirà nella tomba la disperazione di Geoffrey, quel figlio che
era
partito per salvarli tutti.
Quel
figlio che Harald non avrebbe mai, mai voluto mandare
nelle mani dei nemici
come ostaggio. La vita era stata spietata con entrambi.
La
sua unica consolazione è sapere che, anche se
Geoffrey non lo sa, il futuro barone non ha bisogno di lui. Anche se
forse
cadrà di nuovo, si rialzerà, e non perderà se stesso.
E
mentre Harald guarda sua figlia cercando di farle
coraggio, sapendo che almeno lei sarà protetta, ricorda le ultime
parole che ha
detto a Geoffrey e vuole innalzarle al cielo come una preghiera.
Sei
un cavaliere e un uomo d’onore…
Il
boia alza la scure.
…
non metterlo mai più in dubbio.
Angolo
di Tacet
Oh.
Ho
finito. Ok. Non so perché ci ho messo così tanto a decidermi
per scrivere questo capitolo, scusate. La mia musa ispiratrice è perennemente
in sciopero. Comunque, ci siamo, e punto in alto con Harald. Uhm, che
dire… non
l’ho affatto riguardato, anzi, l’ho finito proprio ora, in più il mio
orologio
biologico ha cambiato i suoi schemi e quindi ora ho stranamente sonno… ;) penso e spero comunque di non aver fatto
errori di grammatica, nel caso contrario, mi raccomando, non esitate a
dirmelo.
Altre
cose, altre cose… perdonate il capitolo melenso. non mi
dilungo sulla mia insoddisfazione. E spero di non essere andata troppo
OC. e lo
so che ho privilegiato, attraverso lo sguardo di Harald, Geoffrey
rispetto agli
altri figli, ma pazienza, vero? O.o
Oggi
Jerome non c’è, per fortuna, dorme anche lui.
Scusate
ancora per l’imperdonabile ritardo, mi dispiace! se
riesco a breve mi faccio perdonare ;)
Ciao!!!
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Capitolo 15 *** Beau Foxworth- Maestro ***
Beau
foxworth
Maestro
Beau
Foxworth lasciò cadere il braccio lungo il
fianco, la testa reclinata all’indietro e un sorriso felice che gli
illuminava
il viso. Respirava affannosamente, con le dita che stringevano la
spada,
desiderose di correre al fianco dolorante ma trattenute al loro posto
da un
orgoglio spavaldo.
Eppure
Beau sorrideva apertamente, sentendosi
colmare da una grande soddisfazione euforica. Erano mesi che non
riusciva a
sentirsi così dopo un allenamento. Ripeteva ogni giorno gli esercizi di
scrima
con impegno, dedizione e la testa piena dei sogni che per tutta
l’infanzia
aveva creduto dovessero rimanere irrealizzati. Ma
allenarsi con sir Martewall era
completamente diverso dal seguire le lezioni dei soldati di Chatel
Argent,
sebbene Beau apprezzasse oltre ogni misura tutto ciò che il suo signore
Jean de
Ponthieau faceva per lui, anche attraverso le azioni dei suoi famigli.
In
realtà, Beau pensava che sir Martewall, e i suoi
insegnamenti, fossero diversi da chiunque e da qualunque altra cosa.
«
Non dovresti essere così stanco. »
Il
commento freddo del maestro arrivò alle orecchie
del ragazzino come una secchiata d’acqua gelida. Di colpo sentì tutto
il
piacevole senso d’appagamento scivolargli via dalle ossa, ed esitò un
istante
prima di compiere un mezzo giro su se stesso per guardare Martewall con
una
preoccupazione strisciante che cercò di nascondere senza successo.
Cercò
freneticamente qualcosa da dire sotto il suo
sguardo freddo e indagatore, ma Martewall lo precedette.
«
Ti ricordo che nessuno dei tuoi possibili futuri avversari
ti concederà mai di riprendere fiato per tutto il tempo che ti serve.»
aggiunse
il cavaliere, sciogliendosi dalla sua posa a braccia conserte per
avvicinarsi a
lui con la spada ben salda nella mano.
Beau
si chiese per un attimo, con un mezzo gemito,
se, per caso, Martewall stesso fosse diventato uno dei suoi nemici.
Non
ce la faccio,
pensò, ma alzò ugualmente il braccio
armato con il fianco ancora percorso da fitte dolorose, i muscoli
rattrappiti
che non rispondevano bene ai suoi comandi.
La
spada sembrava molto più pesante di prima.
E
anche il modo in cui Martewall lo guardava. Beau
sentì lo stomaco contorcersi al pensiero di aver deluso le sue
aspettative.
Abbassò
istintivamente gli occhi. Voleva dimostrare
a Martewall tante cose. Il suo valore, la sua determinazione, il suo
coraggio,
il fatto di essere diventato, oramai, un uomo.
Ma
per quanto tentasse di ignorarla, la
consapevolezza di essere troppo debole per farlo lo coglieva sempre
all’improvviso e gli mozzava il fiato. E pensava che il barone, più di
chiunque
altro, fosse difficile da accontentare, e che riflettesse questo
comportamento
anche su se stesso.
Ormai
l’ombra di Martewall incombeva su di lui. Beau
alzò lo sguardo solo un momento, per osservare con invidia, timore e
ammirazione
i muscoli agili del signore sotto la camicia nera, i suoi capelli un
po’
ribelli e la fronte naturalmente ancora asciutta.
«
Mi dispiace, signore…» mormorò il ragazzo, non
riuscendo a trovare altro da dire.
Non
sapeva come scrollarsi di dosso quell’amaro
senso di ingiustizia. Per tutto quel tempo aveva pensato davvero di
essere
migliorato molto, e di essersi impegnato a fondo per riuscirci. Aveva
ricevuto
le più sincere congratulazioni dai soldati di Chatel Argent e anche del
conte
Jean Marc, di cui non avrebbe mai scordato il sorriso orgoglioso che
gli
rivolgeva ogni volta che Beau lo osservava dopo un allenamento, sfinito
ma
felice. Gli era sembrato già abbastanza difficile guadagnarsi il suo
apprezzamento, sebbene il Falco fosse sempre gentile e incoraggiante,
almeno
fino a che Beau non combinava una delle sue bravate, facendolo
preoccupare.
Tutto
quello che aveva conosciuto in quei mesi di
addestramento da scudiero non aveva nulla a che vedere con Martewall.
Con le
sue parole dure, la soggezione che incuteva la sua intera figura e il
suo
sguardo chiaro, la sua perenne insoddisfazione.
«
non ti scusare. » gli ordinò Martewall, fermo. Si
allontanò di qualche passo e si voltò di nuovo con un movimento
elegante e
silenzioso. Incrociò la lama con quella di Beau, che si vide costretto
a
stringere i denti e la presa ed alzare il braccio che non si era
nemmeno
accorto di aver lasciato cadere.
Beau
si ritrovò a dover parare i suoi potenti affondi,
con la spiacevole consapevolezza che Martewall avrebbe potuto mandarlo
a gambe
all’aria in un battito di ciglia, se solo avesse voluto. L’ultima
stoccata fu
più veloce delle altre, Beau si rese conto di aver indietreggiato per
molti
passi e quasi non riuscì a vederla arrivare, col cuore che pompava a
ritmo
serrato e che gli mozzava il fiato. Alzò la spada all’ultimo istante,
nemmeno
lui sapeva come, e dopo non riuscì a fare altro che mettersi al riparo
prendendo qualche passo di distanza, l’arma alzata di fronte a lui.
«
Dimostrami che mi sono sbagliato. » disse Martewall,
con la sua calma perentoria.
Dubito
che qualcuno potrebbe mai riuscirci, pensò
Beau con una
smorfia.
Martewall
lo osservò mordersi il labbro per qualche
istante senza impensierirsi davanti al suo respiro accelerato. Beau
aveva la
gola secca e le gambe che minacciavano di non sorreggerlo più da un
momento
all’altro, ma aveva capito che il barone non lo avrebbe lasciato andare
via
fino a quando non avesse fatto qualcosa che gli fosse piaciuta almeno
in parte.
E
quel momento poteva anche non arrivare mai.
Beau
tossì e si asciugò la fronte, alzando ancora la
spada.
Era
la terza volta che Martewall non gli lasciava il
tempo di riprendersi dalla sorpresa del vedere i movimenti guizzanti e
fulminei
del suo braccio armato. Era la terza volta che Beau finiva con la sua
spada
puntata al petto, perché non era stato abbastanza pronto di riflessi
oppure
aveva dimenticato di difendere una parte scoperta del suo corpo,
ritrovandosi a
dover agire quando già era troppo tardi.
Beau
squadrò il suo maestro con uno sguardo
determinato.
Non
riusciva a capire il suo modo di combattere. Non
sembrava seguire schemi rigidi, eppure quando gli dava indicazioni
voleva che
fossero rispettate alla lettera, e il ragazzo si accorgeva allora che
nei suoi
movimenti sciolti c’era una grande esperienza tecnica. Ma anche se
Martewall
diceva di essersi allenato con gli stessi esercizi che faceva ripetere
all’allievo, nessuna delle sue mosse era minimamente prevedibile. Beau
non
riusciva a capire in anticipo da che parte sarebbero arrivati i suoi
fendenti,
né la traiettoria esatta delle mezze lune che disegnavano nell’aria.
Scostò
la spada del maestro con la sua, con uno
sferraglio metallico, e a Martewall non servirono altri segnali.
Ricominciò a
tempestarlo di fendenti veloci, e Beau allora decise di prendere
l’iniziativa.
Ricordò tutte le volte che Martewall gli aveva fatto notare il suo
scarso
equilibrio sulle gambe e piantò i piedi a terra con decisione, seguendo
la
posizione che gli era stata insegnata. Ma decise di slegarsi dai
movimenti
ripetitivi che aveva utilizzato per difendersi fino ad allora e riuscì
a parare
l’ennesimo colpo portando il braccio in alto, come per respingere la
spada del
maestro. La lama strusciò per un brevissimo istante contro quella di
Martewall
e si disimpegnò con molta meno fatica delle volte precedenti. Beau
aveva
percepito in un modo molto più leggero e allo stesso tempo potente il
movimento
che aveva compiuto, ed era pronto ad accettare le conseguenze di quella
sua
iniziativa fuori dagli schemi.
Ma,
contro tutte le sue previsioni, vide Martewall
sorridere per un istante così breve che temette di esserselo
immaginato.
Quando
si vide la spada avversaria lampeggiare verso
la spalla, Beau decise di schivarla invece di pararla, con l’agilità
che anni
vissuti all’aperto gli avevano insegnato. E questo gli diede il tempo
di
tentare un affondo, per la prima volta. Anche se Martewall lo parò come
fosse il
gesto infantile di un bimbo in procinto di buttarglisi fra le braccia,
Beau
sentì il cuore esultare gioioso.
Martewall
alzò le sopracciglia di fronte al suo
sorriso e gli lanciò uno sguardo ammonitore, prima di riprendere a
lanciargli
fendenti da ogni parte, il respiro sempre regolare, le gambe tanto
agili quanto
sicure.
Beau
ricevette il messaggio. Non doveva
accontentarsi di così poco. Aveva però bene in mente come avrebbe
dovuto agire
da quel momento in poi, e non poteva esserne più felice.
Martewall
continuò ad incalzarlo e a farlo indietreggiare
fino a quando non decise di impartire al suo allievo un'altra, dura
lezione.
Beau non vide nemmeno arrivare un fulmineo attacco di lato, e capì in
un
istante che Martewall poteva essere mille volte più veloce e mille
volte più
preciso di quanto non apparisse durante le loro lezioni, in cui di
certo non
faceva altro che trattenersi.
Lo
vide muoversi rapidamente, sentì il suo stivale
premere sulla caviglia e in un momento si ritrovò a gambe all’aria con
un’esclamazione di sorpresa, sdraiato sulla schiena.
Martewall
lo guardava torvo dall’alto, puntandogli
alla gola, ma non troppo vicino, la spada che aveva passato nella mano
sinistra
con un movimento noncurante.
«
L’equilibrio. » gli ricordò, secco.
*
Beau
cavalcava in silenzio, a testa bassa. Non
riusciva a togliersi dalla testa i ricordi dolorosi del giorno prima.
Non
avrebbe mai pensato che una cosa simile, che un simile disastro
ingiustificato
sarebbe mai potuto succedere. Non avrebbe mai pensato che un giorno
avrebbe
dovuto guardare il suo signore cadere in disgrazia, disperarsi a tal
punto.
Ancora
non riusciva a credere a quel che era
successo.
Martewall
lo sbirciava di sottecchi appena più
avanti di lui, di tanto in tanto, ma non disturbò mai il suo contegno
chiaramente sconvolto ed esausto. Beau lo guardava e riusciva a
sentirsi
confortato dalla sua presenza, attenuando la paura e il senso di
perdita.
«
Sono certo che rivedrai presto il Falco d’Argento…
» gli aveva detto a sorpresa sir Kerwick quella mattina, nel salutarlo
prima di
partire per l’Inghilterra. Aveva osservato a lungo anche Martewall,
come per
leggergli i pensieri attraverso il volto imperscrutabile.
Beau
non era riuscito a sentirsi rincuorato, anche
se aveva apprezzato il sorriso garbato del cavaliere e la
preoccupazione sincera
che sembrava nutrire nei confronti di Martewall.
Il
silenzio del barone però gli aveva impedito di
abbandonarsi alle fantasticherie. Nessuno poteva sapere cosa sarebbe
successo
in futuro, e Beau doveva accettarlo.
Il
ragazzino strinse le dita sulle redini con forza,
ingoiando le lacrime.
«
Io mi rifiuto di pensare che il Falco del re
finisca in questo modo. » mormorò, tra i denti, chiedendo aiuto a
Martewall con
lo sguardo. Il silenzio teso era stato incrinato all’improvviso, e i
soldati
più vicino a loro osservarono il loro signore senza proferire parola,
interrogativi.
Martewall
non si voltò, ma lasciò che il cavallo del
ragazzino arrivasse ad affiancare il suo.
Beau
vide la rabbia ferita dei suoi occhi, intuì la
profondità dei suoi pensieri e la forza naturale e fiera della sua
anima, con
la sue rotture e le sue crepe. Martewall non aveva fatto un cenno, né
mosso
neanche un angolo del suo viso. Ma quando lo guardò con una
determinazione
sincera, per nulla ostentata, gli occhi cupi e insondabili di sempre,
si sentì
riscaldare il cuore.
Anche
se tutto nel barone appariva gelido a prima
vista, il fuoco che teneva dentro riusciva a scaldare anche Beau. Lo
faceva
perché doveva farlo, con l’inconsapevolezza e la noncuranza di qualcosa
che non
si è abituati ad usare se non per distruggere il proprio dolore,
affogandolo
nella rabbia.
Beau
non sapeva che effetti avesse quel… fuoco, sul barone
stesso.
Ma
era riuscito a portare speranza allo spirito
spaventato di Beau, e il ragazzino sperava con tutto il cuore che
Martewall
imparasse presto a non bruciarsi.
Distrattamente,
considerò che sua madre fosse
bravissima nell’essere serena nei momenti più difficili, nel trovare il
raggio
di sole anche nell’antro più buio. Non avrebbe detto lo stesso di
Geoffrey Martewall.
Lui sapeva essere concentrato, lucido, letale. Ma non era mai sereno.
Non
sembrava esserci quiete nella sua calma severa e ostinata.
A
Beau mancava da morire sua madre.
Martewall
portò istintivamente una mano alla spada,
riflessivo.
«
Ci è permesso di fare ben poco su questa terra,
ragazzino. Molte cose…» era strano, davvero strano, vederlo esitare.
Martewall
era il cavaliere dai lunghi silenzi e dalle parole dette non tanto con
accortezza, quanto con sicurezza, a volte con spregio, senza nessun
timore
delle conseguenze che le sue frasi taglienti avrebbero potuto portare.
In
quel momento sembrò dover pensare a cosa dire,
non averci già riflettuto in precedenza, anche se solo per qualche
secondo.
«…
non vanno come noi desideriamo, e tanto meno come
sarebbe giusto. Ma se ci fosse qualunque cosa che potremmo fare per il
Falco,
la faremo. »
Non
la avrebbe definita speranza. Quella di
Martewall era la ricerca caparbia della giustizia, la volontà ferrea di
perseguire i propri obiettivi anche attraverso la sofferenza,
l’estenuante
rifiuto d’arrendersi.
Beau
riuscì a rivolgergli un sorriso grato e colmo
di fiducia.
Qualunque
cosa,
si ripeté.
Arrivarono
ad Auxi le Chateau a metà giornata.
Martewall smontò da cavallo agilmente, e Beau si accorse per la prima
volta
quanta fretta avesse. Non fece lasciare i cavalli a dei servi ma ordinò
che i
soldati aspettassero lui e Beau oltre i cancelli. Poi, fianco a fianco,
cominciarono a percorrere il barbacane, superando la prima cinta di
mura.
Lo
scudiero sentiva il cuore pompare forte e le dita
gelide dalla paura, ma si impose di mostrare un contegno sicuro con un
supremo
sforzo. Sapeva di non poterci riuscire, e si accontentò di tenere la
fronte
alta, anche se i suoi occhi potevano tradirlo.
Al
contrario, Geoffrey Martewall camminava con la
calma sicura del vincitore.
Beau
temeva oltre ogni misura il conte di Ponthieau,
soprattutto in quel momento. Temeva che, se lo avesse visto, avrebbe
insistito
per punirlo, e per un istante assurdo ebbe anche paura di essere
separato dalla
madre a causa della sua avventatezza di cui ancora non riusciva a
pentirsi. Inoltre,
gli ultimi avvenimenti avevano risvegliato in lui l’istinto naturale
del
ragazzino emarginato che era stato. Ammirava chi portava la spada e gli
speroni, ma temeva i nobili.
E
non si fidava di loro.
Guardò
Martewall e si concentrò sul suo contegno
cupo e attento, capendo immediatamente che di lui si sarebbe sempre
fidato. Non
lo avrebbe mai immaginato come il feudatario distante che reggeva i
fili di
tutti i suoi sottoposti con una cecità dispotica, ma come un guerriero
presente
il cui potere si respirava grazie alla sua inquietudine fascinosa
quanto oscura
e irriverente, ma di certo non grazie alle terre che possedeva.
«
Tu andrai a raccontare a tua madre l’accaduto e a
rassicurarla sulla tua salute, poi tornerai dai cavalli e ci aspetterai
lì. »
ordinò il cavaliere, perentorio.
Beau
annuì meccanicamente, ripetendosi le parole
nella testa.
«
Voglio che tu mi obbedisca alla lettera, Beau. »
Il
ragazzo alzò stupito gli occhi sul barone,
sorpreso dal sentirsi chiamare per nome e dalla severità del tono di
voce.
Annuì, in soggezione.
«
Credete che il conte lascerà partire mia madre con
noi?» chiese, sentendosi stupido a fare una domanda del genere, ma
cercando
comunque di mostrarsi sicuro. Non ebbe un grande successo.
«
Non vedo perché non dovrebbe.» gli assicurò
Martewall, ma non lo guardò in viso né modificò in alcun modo
l’espressione del
volto.
Al
ragazzino venne quindi istintivo chiedersi se
avesse parlato con reale convinzione oppure no. Geoffrey Martewall non
conosceva Guillaume de Ponthieau. Non lo conosceva quando era
arrabbiato,
quando si sentiva tradito, quando soffriva. Non era dal barone elargire
certezze che non aveva, ma evidente in quell’occasione non aveva saputo
fare
altrimenti.
«
Dama Isabeau avrà bisogno di tutto l’aiuto
possibile. Hai considerato l’idea che tua madre potrebbe voler restare
con lei,
almeno per un primo periodo? » disse Martewall, guardandolo serio.
«
No. Neanche per un momento. » rispose Beau,
raggelato da quella idea. « Mia madre… vorrà stare con me. » disse,
tentando di
convincersi, arrossendo di vergogna per la risposta che gli era uscita
spontanea dalla bocca e sentendosi colpevole nei confronti di dama
Isabeau.
Aveva
il terrore di aver commesso l’ennesimo passo
falso che si faceva fatica a perdonare. Chi avrebbe biasimato sua madre
se
fosse stata così arrabbiata con lui da volerlo allontanare per un po’?
Chi
avrebbe potuto perdonare il ragazzino che aveva rubato al signore di
Auxi le
Chateau? E chi avrebbe biasimato questo signore se avesse deciso di
punirlo
attraverso la madre, non potendolo, forse, sottrarre al barone di
Dunchester
senza scatenare un conflitto?
Mentre
la gratitudine verso Martewall cresceva,
aumentava anche la consapevolezza della situazione e la paura.
Martewall stesso
si stava mettendo sotto torchio da solo, e a quel punto era solo uno
straniero
che aveva salvato la vita al fratello che Guillaume de Ponthieau non
voleva
vedere mai più. La sua presenza non doveva essere gradita. Beau si
ricordò in
quel momento di non essere stato rimproverato dal barone per la sua
ultima,
irrimediabile bravata, e inspiegabilmente non si sentì sollevato. Un
peso
opprimente gli impediva quasi il respiro.
Beau
abbassò la testa, afflitto, continuando a
camminare, tentando di stare al passo con le gambe lunghe di Martewall.
Il
barone gli strinse la spalla solo per un momento, e Beau si sentì
attraversato
da un brivido di sbalordimento, gratitudine e felicità improvvisa. Non
avrebbe
mai pensato che qualcuno, soprattutto una persona come Martewall, si
sarebbe
mai dato pena per lui e sua madre.
«
Ne sono convinto anche io. »
Beau
fece una smorfia, abbassando lo sguardo, quando
vide una figura famigliare venire incontro a lui e a Martewall dopo
averli
osservati con sorpresa. Il barone si preparò con freddezza
all’incontro, senza
dire una parola, limitandosi solo a superare Beau di un passo.
Thibeault
de Chailly li raggiunse con movimenti
svelti e nervosi, il viso tirato dalla preoccupazione.
«
sir Martewall…» salutò, esitante, dimenticando di
salutare con deferenza e ignorando volutamente la presenza di Beau. «
il conte
non si aspetta la vostra visita… non è mai stata annunciata.»
Geoffrey
Martewall accolse con insofferenza
l’implicito avvertimento.
«
Il conte si aspetta di certo una visita. Ha ancora
qualche conto in sospeso.» affermò con il suo francese dall’accento
straniero, indicando
col mento il ragazzino accanto a lui.
Chailly
spostò lo sguardo su di lui come se dovesse
ingoiare a tutti i costi un boccone molto amaro, ma fu solo un momento,
poi
riportò gli occhi su Martewall. Si leggeva sul suo viso il rispetto e
l’ammirazione
che provava nei confronti del barone e di ciò che stava facendo, ma
anche una
viva preoccupazione.
«
Ponthieau non dovrà neanche vederlo. » disse
Martewall, interpretando al meglio i suoi pensieri.
Chailly
rifletté per un momento, chiaramente turbato
e per nulla convinto.
«
è rischioso. » considerò, gli occhi che scrutavano
quelli dell’inglese, in cerca di qualcosa che desse ragioni ai suoi
timori.
Martewall,
però, a sorpresa guardò Beau.
«
Lo sappiamo. » disse, freddo, mentre lo scudiero,
ammutolito, non riusciva a far altro che osservarlo ad occhi sbarrati,
in
attesa che continuasse. « E in un altro momento non lo avrei mai
lasciato
venire. Ma è giusto che veda sua madre. »
Chailly
si morse le labbra.
«
Cosa volete fare, esattamente!?»
«
Porterò il ragazzo in Inghilterra.» rispose il
cavaliere con decisione e semplicità. « E sua madre con lui, se vorrà
venire.»
Thibault
de Chailly sospirò, come se in fondo avesse
sempre saputo la risposta alla sua domanda, e sul suo viso non erano
scomparse
le rughe profonde della preoccupazione e del dispiacere. Per un attimo
Beau
pensò che fosse sul punto di ringraziare Martewall o augurargli il
meglio per
l’avvenire. Poi parve ripensarci e si limitò a gettargli un’occhiata
eloquente,
facendosi da parte per lasciarlo passare.
Beau
fece per seguire il barone, quando il francese
gli mise una mano sul petto.
Si
rivolse a Martewall, che guardava la scena con
freddezza.
«
Sua madre verrà lo stesso a vederlo, anche se
decidesse di non venire con voi, o il conte desiderasse tenerla accanto
a dama
Isabeau. » affermò Chailly, con una severità che prima non aveva
mostrato.
Gli
occhi di Martewall lampeggiarono per un istante,
quanto bastava perché il francese togliesse la mano dal petto di Beau,
riuscendo però a non cambiare espressione. Il ragazzino osservava
Martewall,
terrorizzato dall’idea di non poter correre subito a tranquillizzare
sua madre
dopo che lo aveva desiderato con tanta forza.
«
Se non sapessi controllare un ragazzino non avrei
promesso a Jean Marc de Ponthieau di portarlo lontano dalla Francia.
Credetemi,
questi giorni gli hanno insegnato molto. Non commetterà avventatezze. »
Beau
prese un respiro profondo, colmo d’emozione.
Non riusciva a spiegarsi completamente il comportamento di Martewall,
il
perché, stranamente, non avesse voluto lasciarlo coi soldati. Quando
Beau aveva
chiesto di poterlo seguire, Martewall non si era opposto, anche se le
sue
raccomandazioni erano state severissime e lo sguardo molto cupo. La
fiducia che
il cavaliere gli dimostrava all’improvviso, lo riempiva di felicità e
soddisfazione, anche se non ne capiva il motivo e non riusciva a
vedere, come
sempre, ciò che vedeva Martewall.
Era
certo, però, che ad entrambi non piacesse l’idea
che Brianna restasse piena d’angoscia per un solo istante in più del
necessario.
«
E, come ho già detto, il conte non lo vedrà
nemmeno. » concluse Martewall, troncando di netto la conversazione e
facendo
cenno allo scudiero di seguirlo.
Non
sai cosa abbia visto in te.
Forse
nulla, forse solo le imprevedibili svolte del
destino lo hanno portato a pensare che ciò che sta facendo sia qualcosa
di
giusto. Tenerti nella sua casa, donarti il suo tempo e i suoi
insegnamenti. Nessuno, dopotutto, l’ha
mai obbligato a fare a te, un ragazzino scapestrato che non ha nulla di
nobile,
un regalo così grande.
Geoffrey
Martewall è una stella lontana, e ti
tormenta l’idea di raggiungerla. Ma anche quando pensi a come potrebbe
essere
stato da ragazzino, lo immagini comunque troppo adulto, inquieto ma
senza
paura, perché possa somigliarti. La nobiltà del suo sguardo accentua la
distanza che vi separa.
Eppure
ti senti un prescelto dal destino.
Nessuno
ha la fortuna che hai tu. Prima eri solo un
piccolo brigante che rubava nei pollai, senza futuro né reputazione.
Adesso puoi
vedere tua madre vivere serena, al sicuro. E, accanto a lei, vi è la
sorprendente e sicura figura di Geoffrey Martewall, che per madre e
figlio sta
diventando la stella polare, lo scoglio cui aggrapparsi.
Non
gli importa che tu sia figlio di una donna
rimasta sola prima di potersi sposare, non gli importa che tua madre
abbia già
avuto un altro uomo e sia l’emblema di tutto ciò che dovrebbe evitare.
Perché una
distante carità è l’unica cosa che qualcuno come il barone potrebbe mai
regalare a Brianna Foxworth.
Di
certo non l’amore.
Ma
Martewall è libero dalle catene del mondo, dalle
convenzioni che costantemente gli vengono ricordate e che costantemente
liquida
con sprezzante indifferenza. Martewall vuole sempre le cose più
difficili da
ottenere e non sai se sia a causa del destino spietato o della sua
natura
indomita, con le spalle sempre pesanti e divisa tra frustrazione e
caparbietà.
È
il leone che è tornato ferito dalla guerra, colmo
d’onori e insoddisfazione che vorresti rendere orgoglioso.
Il
cavaliere che solo da poco ha accettato di
portarti con sé nei suoi viaggi per controllare da vicino ogni angolo
delle sue
terre, e solo dopo aver chiesto di persona il permesso a tua madre.
L’uomo che
ha distolto lo sguardo quando Brianna ha risposto, con un sorriso dolce
e
malizioso, che di lui si sarebbe fidata per sempre.
Il
barone che, una sera, dopo l’allenamento, ti ha
raccomandato di non scordare le tue origini umili, così che tu possa
essere
nobile non solo perché proprietario di una spada o di un paio di
speroni.
Solo
ora comprendi che Martewall vede in te un
cavaliere diverso dagli altri, e da ciò che pensa di essere lui stesso.
Il
ragazzino che nella forza mantiene l’entusiasmo
del sentirsi vivo, il ragazzino su cui nessuno aveva fiducia, ciò che
lui
stesso aveva visto cercare a Martewall quando osservava i suoi sudditi.
L’umiltà
che finalmente nel mondo acquistava dignità
e potenza senza distorcersi, senza confondersi col marcio.
Sai
che farai di tutto per deludere le sue
aspettative e ti senti pervaso da una convinzione fiduciosa.
Come
sempre, ti servirà solo il suo aiuto.
Angolo
di Tacet
Ciao
a tutti!
Sono
tornata, dopo un tempo interminabile, e mi scuso,
ovviamente, infinite volte per il ritardo. Se mi chiedeste cosa ho
fatto in
questo tempo probabilmente non saprei rispondere, so solo che ho dovuto
aspettare molto, tra un impegno e l’altro, per finire questa fanfic. Ma
ce l’ho
fatta, e sono felicissima, non sapete quanto, di poter tornare a
pubblicare! Spero
che mi perdoniate per la lunga assenza…
Questa
volta è stato il turno di Beau. Non so se sia il caso di
terminare con lui la raccolta. Magari dopo un po’ rischierei di
ripetermi, e
sarebbe spiacevole.
(
scusate, non so se da come ho scritto si vede che ho la febbre…
spero di no, ma se mi metto a rileggere passa un altro giorno ed è
meglio
evitare : ))
Ook…
ehm… la domanda sorge spontanea… qualcuno ha già letto Hyperversum
Next? Impressioni? ; )
Grazie
per aver letto, scusate ancora e alla prossima!
Tacet
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