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di Andy Black
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Marianne ***
Capitolo 2: *** Mewtwo ***
Capitolo 3: *** Zack ***
Capitolo 4: *** Mia ***
Capitolo 5: *** Linda ***



Capitolo 1
*** Marianne ***


Marianne


Fluttuava.
Non in senso fisico, ovviamente, quello sarebbe stato abbastanza difficile. Ma la sua mente lo faceva.
Fluttuava in una nebbiolina bianca lattiginosa. Da una parte era piacevole, era un anestetizzante eccezionale, dall’altra, Marianne odiava l’assenza di vita che lasciava trasparire.
Aveva perso. Tutto. Da uno scopo. Alla dignità. Alla speranza. Anche la capacità di sentire.
Avrebbe voluto poter provare qualcosa. Qualunque cosa. Invece da quel giorno, dal momento in cui erano tornati nella base dell’Omega Group, sfruttando i poteri di Celebi amplificati da Mewtwo, non aveva più fatto nulla.
Linda si era comportata diversamente. Era stata forte. Molto più forte.
Si era alzata come una fenice dalle ceneri, prendendo le redini del gruppo e riportandolo a nuova vita.
Marianne ne era rimasta sorpresa. Sorpresa dall’ennesima prova di quanto fossero diverse.
Lei continuava a sentirsi svuotata. Esattamente come prime di entrare nell’Omega.
Quando Lionell l’aveva raccolta dai bordi della strada, dandole un futuro promettente, un tetto sulla testa e uno stipendio considerevole. Aveva sempre pensato a lui con l’affetto che si prova per un padre. E ne era stata tradita.
Era questa una delle cose che la lasciava vuota. L’incapacità di provare un sentimento unico, definito, che potesse riassumere tutta la sua situazione.
Poi c’era anche il rimpianto. Avrebbe potuto accorgersene, prima. Avrebbe potuto cercare di fermarlo. E invece aveva capito tutto troppo tardi. Quando Ryan glielo aveva spiegato, con calma, lasciando che poi fosse lei a comunicarlo agli altri membri.
Ryan.
Si sentiva responsabile anche per lui. Era stata lei dall’inizio a coinvolgerlo, a supplicarlo. E non aveva avuto nemmeno modo di scusarsi con lui.
Doveva farlo. Doveva sfruttare quell’anestesia dalle sensazioni per rivederlo almeno un’ultima volta. Rivederlo senza farsi prendere dal dolore, dal senso di colpa e dal semplice desiderio di rivederlo. Con quell’armatura addosso avrebbe potuto persino sorridergli, fingere che non le mancasse.
Uscì, l’aria dell’ultimo giorno di Dicembre l’accolse congelandole il volto. Si infilò in fretta le mani negli spessi guanti, tremando come una foglia. Si guardò attorno spaesata, osservando il volto vuoto della metropoli. Le strade erano piene di gente indaffarata con gli ultimi acquisti, gente che non sapevano cos’era accaduto. Cosa Marianne avesse fatto.
Cercò di scrollare quel pensiero. Pensando alla visita a Ryan. Non poteva presentarsi a mani vuote. Si guardò intorno, cogliendo in un negozio anonimo, all’angolo della strada, l’idea perfetta.
 
Casa di Ryan era stata resa bianca dalla neve. Marianne la osservò, quasi indecisa se uscire o meno dalla macchina ad affrontare il freddo. Il terreno attorno alla casa era ghiacciato, e la donna ringraziò la sua allergia ai tacchi, che le avrebbe reso impossibile affrontare quel tratto di strada.
Prese la busta dal sedile del passeggero, posandosi un piede fuori. I pesanti anfibi la proteggevano dal freddo e le garantivano un’ottima presa sul terreno, constatò soddisfatta, scendendo del tutto e chiudendo la macchina.
La busta le pesava fra le mani. guardò l’albero spezzato, i cui resti troneggiavano immobili nel giardino. Ricordava vagamente che Rachel avesse affermato qualcosa sul fatto che era stato il padre di Ryan a piantarlo. Si morse il labbro inferiore, distogliendo in fretta lo sguardo e spostandolo a terra, dopodiché si fece forza, arrivò alla casa e suonò il campanello.
 
Ryan aprì dopo qualche istante. La felpa grigia, decisamente troppo leggera per la temperatura della casa, aveva lasciato il posto ad un pesante maglione in pile nero.
Per un istante Marianne pensò di poter perdere il controllo. Il volto di Ryan aveva finalmente perso le tracce di quei giorni di ansia. Le occhiaie erano sparite, gli occhi erano tornati rilassati, di un cremisi caldo, non sanguigno come allora. I capelli erano scompigliati, ma era chiaro che il ragazzo si fosse dato da fare fino ad allora.
Il volto di lui si aprì in un sorriso quando la vide.
“Marianne, che ci fai ferma sulla porta? Entra”
Le disse facendosi da parte.
“Non ti conviene togliere il cappotto, il riscaldamento è ancora rotto... qui dentro si gela.”
Lo disse mentre si spostava nel centro del salotto, dove il divano era stato sostituito con uno nuovo. L’accesso alle scale era bloccato da un mobile, un comò di legno rimasto miracolosamente integro.
Marianne si guardava attorno incuriosita, notando i vari dettagli delle riparazioni che Ryan stava effettuando. Lui seguì il suo sguardo.
“Oh, sopra ci sono ancora un po’ di cose pericolanti, ci pensano Bisharp e Gallade a sistemarle, ma non hanno ancora finito, quindi ho pensato di bloccare così. Ho dovuto mettere un divano letto, un mio amico fortunatamente è riuscito a prestarmelo e... cos’è questo?”
Senza lasciare al ragazzo il tempo di finire le spiegazioni, Marianne gli mise davanti la busta. Ryan la prese, scrutandone l’interno. Se il tentativo della ragazza era di fare una sorpresa o lasciare un alone di mistero attorno al regalo, impacchettare un alberello semplicemente avvolgendoci sopra la carte da pacchi, non era il metodo giusto. Ryan osservò gli occhi verdi, che la ragazza puntava ostinatamente a terra. Un sorriso dolce gli nacque spontaneo sul volto.
“Grazie, Marianne”
La ragazza tenne ancora gli occhi a terra.
“Oh... bé... il tuo era andato distrutto, ma è un bel giardino e un albero ci stava bene... probabilmente non avrà la stessa importanza di quello di prima, ma... è un inizio. Un qualcosa... no?”
Marianne sentiva di star per scoppiare, improvvisamente, non voleva essere lì, a dire delle cose patetiche davanti a lui. Voleva sotterrarsi, e invece, dopo una settimana di apatia, le veniva da piangere. Gli occhi si coprirono di un velo di lacrime, senza che lei potesse far nulla per impedirlo.
“Ma... Marianne, che succede, ho detto... ho detto qualcosa di sbagliato?”
Ryan si sentiva crescere il panico, posò l’albero a terra, cercando di avvicinarsi alla ragazza, circondandola con un braccio. Marianne, senza rendersene conto, si aggrappò al giovane, stringendosi a lui, le lacrime senza controllo.
“Perché... perché è successo tutto questo casino? Com’è stato possibile arrivare a quel punto? Arrivare a rischiare di distruggere tutto...”
Lo sguardo di Ryan si oscurò. Se l’era chiesto spesso anche lui, in quei giorni. Come era arrivato al punto da rischiare la vita di sua sorella, di quasi causare la distruzione del mondo... e poi ritrovarsi a diventare il campione della Lega di Adamanta.
Strinse a sé Marianne, sentendola scossa dai singhiozzi contro di lui.
“Non lo so... non so come sia potuto succedere. Ma è finita. Ormai è tutto passato, e siamo tutti salvi.”
Ci credeva, la sua voce era sicura e ferma, Marianne si scostò, guardandolo in viso.
“Io non so più cosa fare, Ryan. L’Omega Group per me era tutto, il mio lavoro, la mia casa... Non riesco più a camminare tra la gente, non ci riesco, sapendo quello che rischiavo di fare, sapendo tutto... Mi sembra di mentire a tutti. Ho a malapena chiamato i miei genitori, loro si sono trasferiti anni fa, sono lontani, non sanno niente... Non ho il coraggio di tornare da loro, di guardarli in faccia. Non so più cosa fare o dove andare.”
Le lacrime, grandi, pesanti, le calavano sul volto lasciando una scia luminosa sulla sua pelle. Ryan la guardò. Gli era sempre stata vicino, ma non sapeva quasi nulla di lei. Sentì lo stomaco contorcersi al pensiero di non averla cercata in quei giorni. Di aver ignorato, egoisticamente, tutto quello che era successo, fingendo di dimenticarsi di lei, dell’Omega Group. Invano.
“Marianne... perdonami.”
Lo disse stringendola di nuovo a sé.
“Se... se non sai dove andare, se non hai nessun posto dove andare... Allora resta qui. Non devi andare da nessuna parte se non vuoi. Mi spiace, avrei dovuto dirtelo prima. Parecchio tempo prima. Resta qui, Marianne. Resta con me.”
Marianne si bloccò, sorpresa, alle parole di Ryan.
“Tu... tu hai detto davvero quello che ho sentito?”
Con una manica si asciugava le lacrime, che adesso cadevano meno copiose, forse arrestate dalla sorpresa e da quella strana sensazione che sentiva nascerle nel petto.
“È... È stato abbastanza imbarazzante dirlo una volta... Comunque, l’ho detto davvero. Marianne... Mi sono comportato in modo freddo in passato... Ma te la sentiresti di darmi lo stesso una possibilità?”
Ryan teneva gli occhi chiusi. Dentro di lui non aveva il coraggio di guardarla in viso. Lo aveva detto, si era comportato in maniera fredda, a volte. Altre volte la sua ossessione per Rachel lo aveva portato ad ignorare tutto e tutti. Eppure, se ripensava a quei giorni, lei era l’unica costante, l’unico punto fermo, l’unico sorriso sincero. L’unica cosa che non aveva davvero dimenticato in quella settimana.
“Marianne lo guardò, gli occhi verdi spalancati, mentre sentiva altre lacrime, ben diverse, spingere ai lati degli occhi. Annuì, mentre il pianto prendeva di nuovo il sopravvento.
L’abbracciò, gettandogli le braccia al collo.
“Siamo stati davvero stupidi, eh?”
La ragazza annuì alle parole di Ryan.
“Però... le cose d’ora in poi non potranno che migliorare, no?”
“Difficile che possano andare peggio”
Ridacchiò la ragazza.
Si baciarono. A lungo. Mentre, lentamente si avvicinava la mezzanotte. L’attesero sul divano, guardando programmi scadenti.
L’albero era stato scartato e occupava un angolo della stanza, Ryan non le aveva detto che anche Zack e Rachel gli avevano fatto lo stesso regalo. ma non aveva senso. Un albero sarebbe stato il simbolo del suo legame con la famiglia, del suo passato. L’albero di Marianne era diverso.
Era la promessa di un futuro migliore. Di un futuro che avrebbe generato fiori e frutti. E che sarebbe rimasto lì, a testimoniare quanto la rinascita fosse possibile, con impegno, coraggio e fiducia nelle persone che si hanno accanto.

 
 
 
 

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Capitolo 2
*** Mewtwo ***


Mewtwo


La nave procedeva pigramente lungo la superficie dell’acqua.
Ondeggiava in modo tanto lieve che, se non fosse stato per i lievi tremolii della sua sfera, Mewtwo non se ne sarebbe nemmeno accorto. Ma intanto se ne accorgeva, e ad ogni lieve ticchettio della ball sul ripiano, alzava la testa, guardingo.
Era passata la parte più fredda dell’inverno, e adesso il tempo iniziava a mostrare clemenza, donando già uno stralcio di primavera. Ma quel freddo Mewtwo non l’aveva sopportato, chiuso quasi tutto il tempo nella sua sfera e, raramente, in compagnia della ragazza che lo aveva riportato al suo tempo.
Le ferite che si era procurato durante la battaglia contro Arceus erano state lente a guarire, ma entro la fine di gennaio era tornato al pieno della sua forma.
Aveva visto il lento cambiamento, la lenta ricostruzione. Sia la ragazza che il suo compagno avevano aiutato, ove potevano, a risistemare.
Avevano vagato abbastanza per la regione e alla fine erano tornati a casa loro, per poter riorganizzare il loro futuro.
Mewtwo aveva decisamente preferito quella fase. Molto più rilassata della precedente. Aveva anche iniziato a legare con la ragazza, il suo essere l’Oracolo non sembrava essere mutato, ma in un certo senso era un’emanazione diversa. Evidentemente la distruzione del cristallo nel tempo passato aveva avuto le sue ripercussioni nel presente.
Eppure, qualcosa lo lasciava inquieto, gli impediva di apprezzare quella calma.
Era una frustrazione sottile, che il Pokémon Genetico sopportava con malcelata sofferenza. E che tuttavia cercava di non far pesare sui suoi ospiti.
Alla fine, però, fu proprio la sua allenatrice a farglielo notare.
“Sei frustato, non è vero?”
Il Pokémon abbassò lo sguardo. Non c’era rimprovero o rabbia nella sua voce.
“Sì, ma io stesso non ne comprendo il motivo”
Il Pokémon parlò direttamente nella sua mente, come era solito fare.
All’inizio a Rachel era sembrato strano, ma alla fine vi aveva fatto l’abitudine, ed i due parlavano spesso tramite la telepatia.
La ragazza non aveva preteso nulla sul Pokémon, sentendosi quasi in colpa verso di lui per le azioni compiute da suo padre.
C’aveva messo un po’ per superare l’imbarazzo e comportarsi con lui in modo normale. Nonostante la strana sensazione di star parlando con un Pokémon che quasi nessun altro sente o che mima alcun gesto in segno di risposta. Probabilmente era stata quella la cosa più imbarazzante.
Quella lo guardò con tristezza. Forse si sentiva ancora responsabile. Mewtwo stava per aggiungere qualcosa quando lei lo precedette.
“Andiamo a Kanto.”
Lo disse a voce ferma, guardandolo con aria convinta.
Mewtwo la osservò, stupito.
“Non è che sia una cosa decisa sul momento, sia chiaro... io e Zack ci stavamo pensando da qualche giorno, ma, vista la situazione, anticiperemo”
Gli sorrideva, tranquilla. Il Pokémon psico si sorprendeva sempre di quanto il suo umore cambiasse rapidamente, sospettava che fosse a causa dello stress che quella situazione le aveva lasciato addosso e gli sembrava una conseguenza normale del tutto.
“Insomma... ti avevo detto che ti avrei riportato a casa. È questo il motivo per cui sei venuto con me, ma ancora non l’ho fatto. Siamo tornati nel tempo giusto... ma nel luogo sbagliato.”
Quella si sedette sul divano, abbandonandovisi con la schiena e socchiudendo gli occhi.
“Ti riporteremo a casa, Mewtwo, poi lì deciderai tu stesso cosa fare”
Il Pokémon aveva annuito, trovandosi inconsciamente già sollevato dal peso che gli opprimeva il petto.
 
Era stato catturato tre anni prima. I suoi ricordi di quel giorno erano abbastanza confusi e buona parte del periodo successivo era un buco nero, nella sua mente.
Ricordava solo dell’uomo biondo, accompagnato da un altro strano uomo in camicie bianco. Mewtwo l’aveva messo in guardia, consigliandogli caldamente di andarsene, ma quello aveva fatto tutt’altro. Aveva chiamato a combattere un Charizard, un Gengar ed un Alakazam, attaccandolo spietatamente.
Di per sé quella non sarebbe stata che un’inutile scaramuccia per il Pokémon psico, abituato ad avversari ben più potenti, ma evidentemente ad una certa si entra intromesso l’altro uomo, usando un bizzarro macchinario era riuscito a bloccare i movimenti di Mewtwo, rendendolo incapace di evitare il massiccio attacco combinato degli altri tre Pokémon. Dopodiché, la sua memoria procedeva a scatti. La sensazione era quella di qualcosa che risucchiasse la sua volontà, quasi costringendolo al sonno. Non sapeva di preciso cosa la causasse. Ad ogni modo, per sua fortuna, erano rare le volte in cui si svegliava o veniva risvegliato. Più spesso veniva lasciato rinchiuso nella sua sfera, a riposo, in vista probabilmente del giorno in cui attuare il piano.
Il resto cercava di non ricordarlo. La battaglia contro Arceus per lui era stata pesante, e le ustioni che Chandelure, il Pokémon di Rachel, gli aveva inflitto erano sparite solo dopo una settimana, e aveva anche usato buona parte del suo potere per amplificare le capacità di Celebi e riportare tutti i presenti nel loro asse temporale di appartenenza.
Dopodiché, lui era rimasto con la giovane allenatrice, l’Oracolo, per rimettersi in forze.
 
E ora si trovava su una nave. A mille miglia nel mezzo dell’oceano, in attesa di rimettere piede a Kanto.
 
L’ennesimo ondeggiamento della sfera lo riportò alla veglia.
Rachel sonnecchiava. Ai piedi del letto si trovava Zoroark, appisolato anch’esso. Il post evoluzione del Pokémon era stata una fonte di svago per Mewtwo. Forse il Pokémon Mutavolpe non si rendeva conto delle sue nuove dimensioni e caratteristiche, o forse certi gesti per lui erano semplicemente meccanici, ma spesso tentava di addormentarsi sulla sua allenatrice, o di appoggiarsi sulle sue gambe.
Cosa che chiaramente risultava più difficile, adesso che pesava circa 80 chili.
Adesso però riposava tranquillo, vicino al letto.
Zack era sul ponte, conosceva vagamente il proprietario della nave, e era riuscito a trattare la traversata. L’imbarcazione era di per sé specializzata nel trasporto merci, ma visto che per brevi tratte portava anche qualche passeggero, erano riusciti a farsi accettare a bordo.
Il giorno successivo, dopo un viaggio di circa 3 giorni, sarebbero arrivati ad Aranciopoli, e finalmente il Pokémon Genetico sarebbe tornato nella sua terra natia.
 
La nave ondeggiò un’ultima volta, mollando gli ormeggi e venendo ancorata al porto. Il gruppo scese rapidamente dalla barca, trascinandosi dietro i bagagli e aspettando che fossero al di fuori della zona abitata per lasciar uscire Mewtwo.
Il Pokémon si guardò attorno, osservando e riconoscendo la zona in cui si trovavano.
L’odore, il cielo, che sembrava eterno ed immutabile, e la terra, che silenziosa sosteneva tutto, non erano cambiati da quando li aveva lasciati. Anzi, probabilmente non erano mai cambiati da quando li aveva visti la prima volta.
Era una giornata in cui la primavera sembrava arrogarsi prepotentemente il diritto sul tempo, e che aveva invaso l’aria con la sua brezza tiepida.
Guardò i giovani che lo avevano scortato fin lì, grato.
“Sei finalmente a casa”
Fu lui a parlare, stavolta.
“Già”
I pensieri si impressero nella mente di entrambi i ragazzi.
“Grazie per tutto quello che avete fatto. Non solo per me, ma per aver placato Arceus. Semmai  avrete bisogno di me, in futuro, chiamatemi. Nonostante tutto, ho un debito nei vostri confronti.”
Rachel scosse la testa, poggiando una mano sulla spalla del Pokémon e ordinando poi a Zoroark di distruggere la sfera in cui aveva tenuto Mewtwo.
“Mi dispiace, per ciò che hai dovuto subire a causa di mio padre, per lo scontro a cui sei stato forzato a partecipare... Queste sono cose a cui non potrò mai porre rimedio, nessuno potrà farlo.”
Mewtwo si allontanò da lei.
“Sei diversa da tuo padre tanto quanto sei simile all’oracolo del tempo passato. Ma ricorda, sei tu a scegliere chi essere e un legame di sangue è sì qualcosa che ci lega a qualcuno,ma non è un segno d’appartenenza, né tantomeno un obbligo. Scegli tu i legami da costruire, e lascia che poi sia la tua anima ad edificarli.”
Quello si allontanò, iniziando a fluttuare in aria.
“Spero di rivedervi, Eroi di Adamanta, grazie per avermi riportato al luogo a cui appartengo.”
Rapidamente, il Pokémon psico si alzò in volo, sparendo oltre le nubi. Una macchia rosa, gli apparve davanti agli occhi mentre oltrepassava lo strato candido, per sparire tanto velocemente quanto era apparsa.
L’ultima prova che era veramente tornato a casa

 
.

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Capitolo 3
*** Zack ***


Zack


Un raggio di sole lo colpì violentemente agli occhi, costringendo il dormiente Zack al risveglio.
Erano arrivati a casa sua la sera precedente, sfruttando i mezzi pubblici di Kanto, per non far portare a Braviary il peso dei bagagli, e il tragitto era durato molto più del previsto.
Un tragitto costellato dalle chiamate ansiose di sua madre, sul perché stessero ritardando, sul perché non potessero metterci meno tempo e sul perché non l’avesse avvisata del ritardo. In pratica un viaggio che i due ragazzi avevano passato ridacchiando, meritandosi le occhiate contrarie di qualche anziano desideroso di riposare.
Sapeva di non essere educato, sapeva di non essere gentile, ma Zack si sentiva così euforico per la prima volta dopo mesi. Guardava la sua compagna di viaggio, con gli occhi verdi che gli splendevano dalla felicità, mentre questa guardava meravigliata dal finestrino, chiedendogli saltuariamente informazioni su alcuni edifici o sulle zone che attraversavano. E Zack si allungava, affianco il proprio viso al suo e spiegandole quello che avevano attorno.
Avevano anche dormito, nei rari momenti in cui la madre del ragazzo li lasciava respirare, ma Zack non poteva darle torto. Erano ormai passati quattro anni dall’ultima volta in cui era tornato a casa. E poteva sentire l’emozione traboccare dalla voce della genitrice.
Così il viaggio era passato, e il bus era giunto al capolinea, lasciando una stanca Rachel e un entusiasmato Zack a destinazione.
Il tragitto da lì era a piedi, e i due ragazzi lo percorsero in pochi minuti, arrivando fin davanti all’uscio della casa della famiglia Recket. Zack si voltò verso la compagna.
“Pronta?”
Quella lo guardò annuendo.
“Guarda che sei tu che rivedi tua madre dopo tanto. Dovresti essere tu ad essere emozionato”.
“Nessuna paura di fare brutta figura davanti alla tua futura suocera?” la stuzzicò.
“Nemmeno un po’. E adesso suona, che sto morendo dalla stanchezza”.
Zack sorrise, Rachel parlava da spavalda, ma era tutto il giorno che controllava in che condizioni avesse i capelli e si mordeva le unghie per l’agitazione. Spinse il pulsante del campanello, sentendo dall’alto lato della porta lo scampanellio attutito.
Stringeva i pugni, Zack, e a stento tratteneva un sorriso sulle labbra. Quando la porta sì aprì, il sorriso gli fiorì in volto, mentre per alcuni secondi restava a guardare sua madre.
Il suo primo pensiero fu che era invecchiata meno di quanto credesse. Ogni volta che tornava a casa, notava sul suo volto i segni che l’assenza di suo padre aveva scavato, ma stavolta, più di tutto, sembrava esserci la gioia della riunione e primeggiare.
Gli occhi verdi, che il ragazzo aveva ereditato da lei, brillavano carichi di lacrime, mentre questa si gettò addosso al figlio, abbracciandolo con quanta più forza avesse in corpo.
Era anche dimagrita, pensò Zack, stringendola.
“Sono tornato” le sussurrò.
“Sei a casa, finalmente”
Si staccò, quella, cercando di ridarsi contegno e spostando lo sguardo sull’accompagnatrice.
Rachel arrossì, abbassando lo sguardo, mentre la donna faceva al figlio.
“Allora lei è... ”
Zack cercò di schiarirsi la gola, prendendo poi la mano di Rachel.
“Lei è Rachel Livingstone, è... è la mia ragazza”.
Poté sentire quella stringergli la mano con più forza, arrossendo con violenza.
“Piacere, Rachel, io sono Helen. Sono contenta di poterti conoscere”
“I-Il piacere è tutto mio”
“Via, non essere così rigida” sorrise la donna “ed entrate, che fra poco si farà più umido”
Si erano quindi fatti largo in casa, sistemando i bagagli nella stanza di Zack, cenando e parlando del più e del meno.
 
Il risveglio fu meno arduo di quanto pensasse. Provò ad alzarsi, sentendo il braccio intorpidito. La testa di Rachel, vicina al suo petto sembrava avergli quasi slogato a spalla, tanto era addormentata. Con l’aiuto dell’altro braccio riuscì a spostarla, senza svegliarla. Si preparò in fretta, sentendo i rumori, un tempo molto più famigliari, che abitavano la casa. Lo scorrere dell’acqua, che a Celestopoli era udibile ovunque, lo scricchiolio del pavimento quando vi camminava, il rumore dell’aria stessa, della polvere che volava. Si stupiva ogni volta che li ritrovava, ogni volta che tornava e tutto sembrava essere rimasto come se non se ne fosse mai andato. Sospirò, posandosi una mano sulla bocca e decidendo di alzarsi.
Aveva deciso di lasciar Rachel dormire e fare un rapido giro in città, quindi afferrò le Pokéball e uscì.
 
Era meno presto di quanto pensasse, a giudicare dalla vita che popolava la città.
Alcuni commercianti si erano già diretti ai loro negozi, discutendo fra loro mentre alzavano rumorosamente le saracinesche. Zack poteva percepire il ritmo dei propri passi, il rumore che cambiava dal cemento della strada a quello dei ponti, dove il rumore del fiume si faceva più forte.
Camminava per la città senza meta, osservando la gente che pian piano iniziava a riversarsi nelle strade. Probabilmente Rachel si sarebbe arrabbiata per essere stata lasciata da sola a casa, ma aveva bisogno di quel momento d’aria, le avrebbe chiesto scusa con la dovuta calma.
Senza nemmeno accorgersene, si trovò davanti alla palestra.
Sorrise, istintivamente, decidendo di farsi largo nell’edificio e chiedendo timidamente permesso.
La palestra doveva essere stata riverniciata negli ultimi mesi. Fortunatamente Celestopoli era stata salvata dalle calamità che avevano colpito la regione, quindi non c’erano stati crolli o altro, ma evidentemente avevano preferito essere cauti e rafforzare alcuni muri, come poteva notare da alcune colonne un tempo assente e di recente costruzione.
“C’è qualcuno?”
Una voce si fece largo nella palestra, mentre Zack si voltò per individuarne la provenienza.
Misty era dall’altro lato della piscina, e osservava il ragazzo con fare meravigliato. Si fece rapidamente strada fino a lui, con il sorriso che man mano le cresceva.
“Zack!”
Lo urlò quando ormai mancavano pochi passi, come se fino all’ultimo non avesse voluto crederci.
“Da quanto! Quando sei tornato? Va tutto bene?”
I due si abbracciarono, poi Misty si staccò rapida, per guardarlo meglio.
“Cielo, come sei cresciuto! Come mai sei tornato? Non hai impegni alla Lega?”
Zack scosse la testa
“Ho lasciato quel posto da qualche mese, ormai.”
La ragazza sgranò gli occhi.
“Cosa? E perché mai? Vieni, sediamoci a bordo vasca e raccontami tutto”.
Zack la seguì sedendosi di fianco a lei. Misty non era cambiata molto dai ricordi che aveva di lei. I soliti capelli rossi che incorniciavano gli occhi azzurri. Il viso dai lineamenti dolci, ma ormai fattisi maturi. La signorina Misty della sua infanzia era diventata davvero una splendida donna.
“Di recente ne sono successe parecchie, ho semplicemente avuto la necessità di staccare. E poi ho trovato un erede più che valido per quella carica, quindi sono tranquillo”.
Rimase in silenzio per qualche secondo.
“Inoltre adesso ho qualcun altro cui pensare, quindi non voglio una carica che possa essermi d’intralcio”.
Misty spalancò gli occhi, per poi addolcire lo sguardo.
“Davvero? E chi è?”
“Ci siamo conosciuti in modo un po’ bizzarro... “.
Zack le raccontò tutto, confidandosi come non aveva mai fatto, analizzando elementi che prima credeva fossero rimasti sullo sfondo, ma che invece erano stati a loro volta essenziali per quella storia. Misty lo ascoltava silenziosa, ponendo solo alcune domande su particolari eventi.
“Se me lo avessi raccontato qualche mese fa, ti avrei preso per pazzo, eppure, dopo tutto quello che è successo, non posso fare a meno di crederti.”
Sospirò, pensierosa.
“Sono successe così tante cose negli ultimi tempi, che si fa fatica a credere sia tutto reale, sai? Dalla distruzione che c’è stata a Kanto e Johto, e quella nelle altre regioni... a chi si è trovato immerso in battaglie e chi è scomparso... ” la ragazza scosse la testa “Lasciamo stare. Se vorrai portare la tua amica qui, sarò ben felice di incontrarla. Dopotutto deve essere una tipa testarda per poterti star dietro.”.
Zack le sorrise.
“Oh, cocciuta è cocciuta. E anche abbastanza permalosa, sappilo”
Risero scambiandosi dei cenni di saluto.
“Oh, aspetta. Già che ci siamo, vorrei chiederti un favore.”.
Zack si fermò sulla soglia della porta della palestra. Mentre Misty lo riavvicinava.
“Stavo pensando... abbiamo un nuovo arrivato in palestra, ed è un tipo un po’ troppo vivace. Sta mettendo in croce tutti gli assistenti... perciò pensavo che magari, scalmanato tu, scalmanato lui, potreste fare coppia.”.
Zack la osservò dubbioso, mentre quella gli allungava una Poké Ball.
“Misty ma cos... Oh”
Le sue proteste si spensero di colpo. Nella Poké Ball dormiva quieto uno Squirtle.
“Questo qui sarebbe scalmanato?”
Le fece sarcastico.
“Non farti ingannare, è dolce solo quando dorme. Purtroppo è capitato in un periodo impegnato, davvero, sarei felice se ci pensassi tu.”
“Zack faceva ondeggiare lo sguardo dal Pokémon alla ragazza, annuendo alla fine.
“Spero davvero che non sia scalmanato come dici” le fece “perché sono già circondato da persone e Pokémon abbastanza vivaci”
“Oh, non lo è. è molto peggio”
Si salutarono di nuovo, mentre Misty gli scompigliava i capelli e alla fine il ragazzo si allontanò dalla palestra.
Zack diede una fugace occhiata all’orologio. Era tardi. Doveva sbrigarsi a tornare a casa.  Probabilmente avrebbe fatto fare a Rachel il giro della città, ma non necessariamente tutta in quella settimana.
Avevano la vita davanti e casa sua sarebbe sempre stata lì, in attesa del suo ritorno.

 

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Capitolo 4
*** Mia ***


Mia


Il pesante scatolone e le altrettanto cariche buste che portava le stavano segando le mani.
Mia per un istante si ritrovò a valutare come totalmente errata la sua scelta di far prevalere il desiderio d’indipendenza. Desiderio che l’aveva portata ad andare ad abitare da sola, anche se sempre a Miracielo, in un antico palazzo risparmiato dalla catastrofe. Una sistemazione tanto bella quanto poco pratica, visti i quattro piani di scale, ovviamente privi di ascensore, da percorrere ogni volta.
Ma non erano i gradini a pesarle, quanto ciò che trasportava, accuratamente impacchettato e sistemato nelle buste che le segavano le mani e nella scatola che sembrava volerle staccare le braccia dalle spalle.
Arrivò finalmente al suo pianerottolo, dirigendosi verso l’appartamento che aveva scelto di occupare e poggiando delicatamente i suoi pacchi a terra.
Stirò le spalle, sentendo i muscoli dolerle per lo sforzo, poi guardò il suo prezioso carico.
La vita della scrittrice era dura, lo sapeva, ma nessuno l’aveva preparata a quanto potesse essere massacrante l’inizio.
Quando aveva contattato la casa editrice l’aveva fatto sotto pseudonimo, Lucette Frida. Non voleva sfruttare il nome della sua famiglia, ricca ed influente da generazioni. Né tantomeno voleva che qualcuno pensasse che lo avesse fatto.
Armeggiò nella borsa per alcuni minuti, estraendone poi il mazzo di chiavi, ornato da un ingombrante peluche di un Munchlax. Lo avevo comprato nel tentativo di facilitare il ritrovamento delle chiavi nella grande borsa, ma stranamente continuavano a nascondersi.
Sbloccò la serratura ed aprì la porta sul piccolo ingresso, caricandosi di nuovo i pesanti bagagli addosso.
Dentro era caldo, più di quanto non si aspettasse. Si liberò del cappotto, appendendolo all’apposito gancio all’ingresso e levò le scarpe, godendosi la sensazione dei pieni nudi sulla morbida moquette.
La sala principale, provvista di un ampio tavolo tondo da un lato, e di un divano ed una poltrona dall’altro, sistemati davanti ad un televisore. Aveva anche un lungo mobile, abbastanza alto, su cui la ragazza aveva disposto un gran numero di fotografie.
La più grande rappresentava tutta la sua famiglia: suo padre, sua madre e suo fratello maggiore. Era sempre stata la sua preferita. Le pose erano rigide e fin troppo innaturali, ma le ricordava uno di quei maestosi ritratti presenti nei libri di storia dell’arte, pieni di giovani lord, cavalieri, accompagnati da Pokémon altrettanto maestosi.
“Eroi, eh...?” sussurrò appena.
Guardò la pila di libri, con un sorriso malinconico sul volto. Alla fine non era di quello che parlava la sua storia? Certo, forse non erano esattamente quelli delle fiabe, ma erano sicuramente più realistici.
Controllò le altre foto, soffermandosi su un primo piano del fratello. Raymond era partito parecchi anni prima... e non era più tornato. Prese la foto, rannicchiandosi sul divano. Il tessuto caldo le riscaldò le gambe, mentre un velo di lacrime iniziava ad arrossarle gli occhi. La comunicazione le era arrivata poco dopo il ritorno a casa da Sinnoh. Suo padre l’aveva guardata negli occhi e l’aveva stretta mentre quella si abbandonava al pianto.
L’immagine di Raymond si era più volte sovrapposta a quella di Zack, nella sua mente. Due spiriti liberi, con dentro quella fiamma che gli impediva di star troppo tempo fermi nello stesso luogo. Per questo, sia lei che suo padre, erano stati concordi nello scegliere di cremare il corpo che era tornato e di spargerne le ceneri al vento. George Vernon, il padre, era rimasto con il volto impassibile, ma con gli occhi stretti dal dolore, vittime di un pianto che non sarebbe mai arrivato a respirare aria.
Abbracciò a sé la foto, chiedendosi cosa avesse provato suo fratello. Era ad Hoenn, nel pieno del cataclisma, quando accadde. Era morto da solo? O qualcuno era rimasto al suo fianco mentre spirava?
Gli carezzò il viso, seguendo la linea del volto sul vetro gelido. Dopodiché posò la foto di lato, asciugandosi con forza gli occhi.
Si alzò dal divano, dirigendosi verso la pila dei libri. Se voleva sperare di veder pubblicata la sua storia, doveva vendere le prime cento copie da sola. Pagando anche le spese della tipografia che le avrebbe stampate.
Per quello aveva sfruttato il patrimonio di famiglia, ma aveva giurato che avrebbe ripagato tutto, fino all’ultimo centesimo. Zack e Rachel erano da poco tornati da Kanto, una piccola vacanza per far conoscere alla ragazza la madre di Zack e per ridare la libertà al Mewtwo che la ragazza aveva preso con sé. Mia l’aveva visto solo poche volte, quando i ragazzi erano venuti a trovarla, per darle consolazione nel lutto e quando Mia li aveva invitati all’inaugurazione della casa, futile pretesto per far loro domande sugli eventi accaduti prima di conoscerla, e su quelli avvenuti nel passato.
I nomi usati nel libro erano fittizi, ma non c’era un singolo evento narrato che non fosse realmente accaduto, e di questo Mia si sentiva orgogliosa. Li dispose ordinatamente in pile sul mobile, ognuna da cinque volumi, altri erano stati ordinati all’interno del mobile, in attesa di trovare acquirenti.
Zack e Rachel si erano già detti disposti a comprarne tre. Una l’avrebbero tenuta loro, un’altra sarebbe finita in regalo a Ryan e Marianne, ed un’altra alla madre di Zack, a Kanto, che lo avrebbe pubblicizzato agli ospiti del B&B che gestiva. Lo aveva chiuso durante la permanenza dei giovani, ma adesso aveva già un nuovo cliente.
Mia era soddisfatta, altre copie sarebbero andate ad alcuni suoi amici, altri ad alcuni degli impiegati di suo padre, con cui era solita chiacchierare quando passava negli uffici, ed altre ancora li avrebbe venduti in strada, se necessario.
Dopo aver sistemato tutto, Mia fece uscire il suo Chikorita dalla sfera. Il piccolo Pokémon la guardò, gli occhi di quel rosso vivo esplosero in un sorriso alla sua vista. Quella guardò le altre Pokéball, Magmortar non veniva lasciato libero spesso, solo per mangiare e per far sgranchire un po’ i muscoli, mentre Metagross... beh, lui non l’ascoltava già da prima, sarebbe stato sciocco sperare che iniziasse a farlo adesso, evoluto con l’esperienza di un’altra allenatrice. Tuttavia Mia gli voleva bene lo stesso, nonostante lo considerasse, alla pari di Magmortar, più come un coinquilino che un suo Pokémon. Sospirò accarezzando la foglia di Chikorita, respirando il lieve profumo che emanavano le gemme che portava al collo, e che, una volta evoluto in Bayleef, avrebbero inondato l’ambiente con una fragranza unica.
Sistemò lo scatolone, appiattendolo e posandolo in un angolo, le sarebbe stato utile per il trasporto dei libri, mentre le buste furono ordinatamente ripiegate. Anche la foto di Raymond tornò al suo posto, da dove l’avrebbe ripresa di nuovo qualche sera dopo, quando il dolore si sarebbe riaffacciato più prepotente. Poi sicuramente sarebbe accaduto sempre meno spesso, ma Mia non si metteva fretta.
Amava suo fratello e l’avrebbe amato per sempre, così come immutabile sarebbe stato l’affetto per suo padre e sua madre. E in quella casa, il suo rifugio, avrebbe sicuramente accolto anche qualcun altro a cui voler bene, qualcuno che si sarebbe fatto spazio fra le foto di famiglia, fra le pile di libri in ordine ed il portatile. Qualcuno che Mia avrebbe amato, venendo amata a sua volta, di quel sentimento che era diventata così brava a descrivere e che non vedeva l’ora di provare.

 

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Capitolo 5
*** Linda ***


Linda


 
Il rumore dei suoi tacchi, attutito dalla moquette, riecheggiava sordo per la stanza.Capelli lunghi, lisci, biondi. Il volto, dai lineamenti delicati e quasi fanciulleschi, era decorato da una lieve mano di lentiggini.Il piccolo naso alla francese era sovrastato da bellissimi occhi azzurri, limpidi come il cielo d’inverno.
Però erano arrabbiati.
Guardava il Professor Stark dall’alto in basso, squadrandolo da capo a piedi.
“Quindi non hai ancora trovato nulla...”. C’era una nota contrariata nella sua bella voce.
“Linda, per favore, calmati. Stiamo facendo numerose ricerche... Se anche è vero che per ora non siamo arrivati ad una soluzione definitiva non è detto che presto non avremo la chiave di volta per risolvere il tutto”. Il tono era decisamente angosciato nella voce dell’uomo.
Era passato quasi un anno dalla scomparsa di Lionell, da quando era rimasto intrappolato nel passato, imprigionato dove nessuno avrebbe potuto raggiungerlo.
Linda schioccò la lingua, frustrata. “Ho capito. Ora vattene, non mi sei di alcun aiuto”
Quello sospirò, avviandosi stanco verso la porta.
Linda vide l’uomo uscire dall’ufficio, un tempo di Lionell ed ora suo, quindi si accomodò alla scrivania. La pila di documenti era cresciuta a dismisura ma era troppo nervosa per badarci.
Quelle quattro mura un tempo la proteggevano. Un tempo era lei a rispondere agli ordini, a risolvere problemi, a ordinare i documenti. Lei eseguiva, sicura che qualcuno avrebbe badato e corretto i suoi errori, guidandola sulla giusta strada.
Ma adesso era lei a dover guidare gli altri, lei a dover dirigere un’azienda gigantesca.
Da sola.
Si alzò di nuovo, incapace di star ferma. Le sue Pokéball erano allineate su di una mensola.
Le guardò.
Una Liepard, un Noctowl ed una Whimsicott.
Non bastavano, non erano ovviamente sufficienti a raggiungere il suo scopo, ma non poteva privarsene, non senza sapere a cosa sarebbe andata incontro a breve. Morse una delle unghie, di quelle ben curate e smaltate, limate con minuzia, mentre osservando il panorama fuori dalla finestra.
Timea era tornata alla vita di un tempo.
La città non era mai stata scossa davvero, ma i danni c’erano stati. In alcuni punti si vedevano ancora palazzi con crepe pericolose, ma presto o tardi sarebbero scomparse anche quelle.
Com’era possibile?
Lionel non c’era, non era mai tornato ed ufficialmente era stato dato disperso. Come poteva il mondo andare avanti come se nulla fosse mai accaduto? Senza quell’uomo potente che dirigeva tutti gli affari, punendo e premiando con occhio imparziale i più meritevoli.
Come poteva tutto andare avanti?
Il pugno colpì il vetro, ed un lieve dolore si sparse fulmineo per la mano.
Si sentiva debole, abbandonata. Come se in pieno inverno qualcuno l’avesse sbattuta fuori casa e chiuso la porta a chiave, sola come mai era stata prima di allora.
Qualcuno bussò alla porta dell’ufficio, la sua presenza era richiesta, la maschera necessitava di essere indossata.
“Con permesso”
Un uomo, alto, sui quarant’anni, i capelli ingrigiti e gli occhi di un nocciola spento fece il suo ingresso, con una cartellina azzurra fra le mani.
“Morris, vieni avanti”
Quello annuì, chiudendosi la porta alle spalle e osservando la giovane prendere posto alla sua scrivania.
“Chiedo scusa, ma stavo riesaminando dei documenti da archiviare quando ho notato qualcosa di interessante”
 Poggiò la cartella sulla scrivania, spingendola lieve verso Linda. Quella la aprì con aria annoiata, leggendone rapidamente il contenuto.
Fu solo a metà pagina che riprese la lettura da capo, notando con attenzione ogni singola riga, ogni singola parola che in nero sigillava il foglio candido.
Di nuovo, l’unghia smaltata fu presa tra i denti mentre la concentrazione della donna si acuiva, isolando se stessa dal resto del mondo.
Almeno per pochi attimi.
“Perché non ne ero a conoscenza?” chiese.
“Si parla di un documento di parecchio tempo fa, uno dei primi approcci che Lionell aveva tentato e che aveva studiato solo con Stark, per poi essere scartato. Troppo tortuoso, quando in effetti avevamo un’altra soluzione a portata di mano.”
L’uomo parlò lentamente, lasciando che ogni parola s’imprimesse nel suo superiore.
“Stark lo sapeva e non mi ha detto nulla?”
Linda alzò un sopracciglio, nuovamente irritata.
“Probabilmente se ne era dimenticato, come detto è un documento parecchio vecchio.”
“Allora che gli torni in mente e che inizi subito a lavorarci! Subito!” batté il pugno sulla scrivania di mogano.
L’ultima parola fu quasi un sibilo. Morris annuì, soddisfatto, riprendendo la cartella che la donna gli porse ed uscendo.
Linda si rilassò, abbandonandosi allo schienale della poltrona in pelle.
L’Omega Group non sarebbe morto, non lo avrebbe mai permesso. Per mesi e mesi lo aveva tenuto in vita, tenendo accesa in tutti la fiamma della gloria che gli era stata promessa e che gli era sfuggita. Certo, alcuni se n’erano andati, abbandonando la nave come dei miseri topi.
Marianne per prima.
Ma avrebbero pagato, tutti avrebbero pagato.
Marianne, Ryan, Zackary Recket, Rachel Livingstone, la Professoressa Alma ed i Capipalestra.
La fenice sarebbe rinata.
La fenice avrebbe ridotto il mondo in cenere.

 
Angolo di un autore ubriaco la maggior parte delle volte (che fa le veci dell'autrice).

Allora, l'ultimo capitolo di questa serie è finalmente fuori, e così io e Rachel ci apprestiamo a chiudere l'ennesima storia.
Home è durata tanto, ma questo per un motivo preciso e particolare.
Ciò dipende dal fatto che Home è praticamente l'appendice finale di Back to the Origins, la nostra prima long scritta assieme, e queste sono le conclusioni.
Tutte sono state conclusioni. Ma questa, questa di Linda, è un inizio.
Ciò perchè si collega direttamente alla nostra prossima long, che concluderà la Winter Trilogy di Pokémon Courage, e mi riferisco a Back to the Origins 2: The Revenge.
Stiamo già lavorandoci sopra, ma ci vorrà del tempo prima che veda la luce, ora come ora io in primis sono concentratissimo su Hoenn's Crysis,
E poi boh. Ringraziamo entrambi chiunque abbia letto e recensito questa storia, ricordandovi che Pokémon Courage è una catena di storie, che vede parecchi anelli ad unirsi.
Un salutone.

Andy Black e Rachel Aori.

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