Amore, amore e poi: che ne sarà di noi?

di Cinephile92
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Il tacco ***
Capitolo 2: *** L'appartamento ***



Capitolo 1
*** Il tacco ***


Il tacco. Il sensualissimo, accattivante, ceroticissimo tacco di quelle dannatissime, strafighissime, costosissime scarpe rosso sangue che ho comprato in saldo da Prada a Londra l’anno scorso si è spezzato. Non è possibile che un tacco si spezzi, non è possibile che sia costretta ad ancheggiare con due centimetri in meno su un piede proprio quando devo uscire con lui. Il punto è che sono già in taxi e lo sto raggiungendo. Il punto è che non so che diamine fare. Magari potrei immedesimarmi in Marilyn Monroe e provare ad atteggiarmi a Zelda Zonk, una specie di pseudo intellettuale talmente trafelata e presa dal lavoro da essersi inciampata sui suoi stessi documenti e strusciare le mie amabili chiappe in modo supersensuale. Magari potrei restare a casa, perché rischierei sicuramente di sembrare una povera zoppa in piena crisi d’identità. O magari potrei fingere di avere mal di pancia, si, potrei dirgli che in realtà non me la sento di affrontare una simile pressione. I suoi, che sembrano usciti da un romanzo di Jane Austen e quella palliduccia, insopportabile smorfia d’innata serpentineria che si porta stampata sulla faccia da quando mi conosce la sua vicina di casa. Si. Perché la vicina di casa DEVE essere costantemente invitata alle cene di famiglia. Si. Perché quella lurida di Connie Gathewick si siede a tavola con fare altezzoso esibendo scollature vertiginose e piuttosto disgustanti. La reietta carina ma piuttosto fastidiosa, che ha provato ad emergere nel campo della moda ma si è ritrovata a sprofondare nel letame di un sobborgo londinese, brama costantemente, ogni singola volta, di raccontarmi il simpatico aneddoto secondo cui da ragazzini lei e Benedict si sarebbero scambiati il loro primo bacio. Ma che me ne frega a me di questa Connie Gathewick e perché accetto senza aprir bocca le terrificanti condizioni psichiche alle quali vengo regolarmente sottoposta durante queste ossessionanti cene di famiglia? Perché la vicina di casa c’entra in famiglia, purtroppo. Perché la pallida smorfiosa, mica poi tanto dolce dirimpettaia è anche una cugina di terzo grado. Quel bacio non è niente, che si sa, a 14 anni saresti disposto a baciare anche il muro pur di sentirti grande. Ma vaglielo a spiegare che se poi il tuo primo bacio diventa famoso non vale la regola per cui anche tu debba diventarlo a tutti i costi. E’ che siamo fermi in Fleet Street da 30 stramaledettissimi minuti. Perché quel sociopatico disadattato dell’autista ha sbagliato strada: è che ormai mi fido di lui e non lo cambierei per nessuna ragione al mondo. Mi aggiusto il rossetto, sbavato sul lato destro. Squilla il telefono. Il cellulare, maledetto a lui. Quello smartphone incandescente pieno zeppo di messaggini whatsapp, 10 notifiche facebook, un messaggio in chat. E’ una ragazzina di 16 anni che vuole sapere qualcosa da me per il giornale della scuola. Le risponderò domani. Chi lo sa, che non si aspetti più di tanto, che mica posso parlare e della nostra vita nei dettagli. Qualche risposta di cortesia e basta. Benedict mi ucciderebbe. Perché Benny, che odia sentirsi chiamare così ma che amo chiamare così, perché quando s’infastidisce d’addolcisce, è tremendamente riservato, magicamente instabile, emotivamente turbolento. E lo adoro. Adoro quel suo modo di parlarmi con quell’immancabile accento british capace di sciogliermi come il caldo di luglio, quel caldo secco e penetrante delle giornate adriatiche. Il mio mare, l’Italia. Mi mancano. Mi manca la mia città. Mi manca quella bolla di sapone che da ragazzina mi soffocava, quando sognavo di diventare una giornalista di cinema, come sono oggi. Mi soffocava terribilmente sapere che fuori c’era un mondo diverso, nuovo interessante. Avrei voluto testare, assaporare l’umidità di Londra, maledire il destino e il meteo per l’umidità che mi avrebbe potuto far accartocciare e appiccicare i miei capelli già fini e flosci di natura. Squilla il telefono di nuovo. Che diamine. Devo rispondere. Sarà quella lamentosa di Jen Turpin che non riesce a trovare la cartella con l’intervista a Martin Freeman che vuole conoscere perché ne è follemente innamorata. Che ne so io, mi chiedo, perché dovrei saperlo. Mica posso gestire le relazioni sentimentali di chiunque. Meno ancora della mia segretaria. Sono già abbastanza impegnata a gestire la mia, di relazione. Sono già abbastanza impegnata a dover rispondere a quello stronzo di McAvoy che continua a sommergermi di messaggini per dirmi che vuole organizzare un mega party a quattro. Un mega party a quattro. Ma ditemi vuoi se si può. Spiegatemelo. Squilla il telefono, rovescio la borsetta sul sedile. Centesimi dappertutto, una banconota da 100 euro cade sul tappettino, la raccolgo. Sistemo i capelli dietro l’orecchio, perdo il rossetto, rispondo al telefono, è Benny.
  • Ciao tesoro, sono io. Volevo avvisarti che stasera cena soli tu ed io. Niente mamma e papà, niente Connie, niente fastidi.
  • Ah, ciao caro. Come niente mamma è papà, perché?
  • Sono partiti per un impegno improvviso, ti spiegherò, cena di gruppo rimandata alla prossima settimana. Ti dispiace?
  • No, certo si, cioè non vorrei che fraintendessi. Avevo piacere di stare un po’ tutti insieme. Certo quella Connie…Mi fa piacere stare con te, non puoi immaginare quanto.
  • Dove sei? Quanto ti manca ad arrivare?
  • Tom è fermo in Fleet Street da mezz’ora, c’è un traffico che non puoi immaginare, ti raggiungo il prima possibile. Ho un tacco rotto Ben, si è agganciato ad un tombino, ho tirato e si è spezzato. Pensavo di fingermi una pseudo intellettuale come faceva Marilyn Monroe, avevo pensato di fingermi Zelda Zonk e parlare di filosofia per apparire più interessante e togliere l’attenzione da quello schifo di tacco. Ti accontenterai comunque di una ragazza zoppa, non è vero?
  • Certo amore, certo. Ti sto aspettando, anche se lo ammetto, sto ridendo da solo davanti alla porta della cucina. Non puoi immaginare. Sembro un disadattato.
  • Eh va bè. L’aria ce l’hai.
  • Però sei stronza..
  • A dopo, bacini.
Rimetto il cellulare in borsa, raccolgo il rossetto a fatica da sotto il sedile, mi sistemo i capelli. La macchina arriva, pago il mio fedelissimo Tom e scendo. Ci sentiamo caro, gli dico. Citofono ed entro dall'ingresso principale. Le scarpe col tacco mozzato in mano. I piedi scalzi. Fa un freddo cane. Hyde Park.
Un attico.
Io e Benedict Cumberbatch.

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Capitolo 2
*** L'appartamento ***


L’ascensore non funziona e non mi andrebbe comunque di usarlo. Le scale a chiocciola mi angosciano, dopo aver visto American Psycho con Christian Bale. Che bell’uomo Christian, da poco tempo papà per la seconda volta ma sempre in gran forma. Le scale sono fredde, corro perché questo momento duri il meno possibile. Ho il terrore che una motosega cada all’improvviso dall’ultimo piano e mi smembri in due. E’ una questione di film che ti entrano nella mente e ti possiedono quando meno te lo aspetti. Tipo quando vorresti che Fassbender ti offrisse una cena, a caso, perché lo hai visto in un film. E non succede. Niente di questo succederà, Ben mi sta aspettando. Cade la sciarpa. La raccolgo. Sono sbadata di natura, maldestra, terribilmente disconnessa nei movimenti. Carina, dicono. Lo dice Ben e questo mi basta per convincermi del fatto che io sia fottutamente affascinante. Ultimi tre scalini, ho il fiatone. La porta è socchiusa. Allungo la mano ed entro.
  • Amore mio sono qui, in cucina, è roba precotta. Sono un attore, mica uno chef.
  • Mi aspettavo sapessi cucinare il pollo alla birra, Matthew lo fa molto buono.
  • Matthew chi?
  • McConaughey
  • Che? Hai mangiato il pollo alla birra da lui?
  • Certo, perché, è vietato dalla legge?
  • No, è che mi farebbe piacere sapere se la mia ragazza va a mangiare il pollo alla birra a casa di un altro.
  • Ben, sto scherzando. Stai calmo. E comunque non sono la tua ragazza, lo è più Keira di me.
  • Certo che lo sei, Keira è un’amica.
  • Va bè, se lo dici tu. A me quella non piace, che ti devo dire, mi sta antipatica da quando giocava a fare la smorfiosa con Orlando in Pirati dei Caraibi.
Un bacio a stampo sulla guancia destra, l’aria imbronciata. Ben lo sa che amo scherzare, il mio lavoro lo richiede. Gli attori devono essere presi con spirito, sennò chi li sente. Manco ti si filano. E addio interviste, speciali e compagnia bella. Addio autografi. Addio selfie. Toccatemi tutto ma non i selfie. Io vivo di selfie e il muro della mia camera è una specie di Walk of Fame. Appoggio la borsa sul tavolo, è lucido. Dev’essere passata Linda a lucidare la casa. Che carina Linda, che mi chiama sempre per sapere se abbia bisogno di una mano.
  • Lo sai che quella svampita di Jen Turpin vuole conoscere Martin?
  • Martin chi?
  • Stai ancora pensando a Keira? E si che è anche tuo amico oltre che collega. Freeman, l’Hobbit dai piedoni superpelosi. Watson, mio caro Sherlock. Sei poco perspicace ultimamente.
  • Ah Freeman. Vuole conoscerlo? Stai scherzando? E’ insieme ad Amanda da una vita, non ci penso nemmeno a presentarli. Quella Jen sarebbe capace di tutto.
  • Ma va, come sei melodrammatico amore. Secondo me le basta farsi un selfie per esibirlo in Facebook e un piccolo autografo da appendere in camera.
  • Come la volta in cui le è capitato d’incontrare James Franco? L’hai visto il selfie, si. Alle otto di mattina.
  • Ma che, sei scemo? Vuoi paragonarmi Martin a James? Ora gli mando un messaggio in Watsapp “Ben sostiene che tu sia intellettualmente paragonabile a James Franco”.
  • Dai, scema
Mi da uno schiaffo sulla spalla e sorride. Martin è un classy man. Non scenderebbe mai a bassezze del genere. Magari una sera lo convinco ad uscire tutti insieme, povera. Ci tiene. Vedremo, devo finire delle cose in sospeso. Si avvicina con in mano la scarpa dal tacco mozzato. La guarda sorridendo. Ha quel stramaledettissimo vizio di sorridere. Perché lo fa? Dovrebbero fare una legge ad personam che vieta a Benedict Cumberbatch di sorridere. Perché non ha il sorriso perfetto che ti fa innamorare, anzi, piuttosto brutto, ma tanto affascinante da farti cadere ai suoi piedi.
  • Il tacco si è rotto, guarda che storie. Vatti a fare una doccia, ti rinfreschi e mangiamo qualcosa. Che ne dici?
  • Ok
Proseguo lungo il corridoio che porta al bagno. Ben colleziona opere d’arte, ha il muro di casa sua tempestato di quadri. Foto, macchie colorate che mi guardano con sospetto. Procedo, chi lo sa se riuscirò a trovare un paio di scarpe belle e sensuali quanto quelle Prada tacco 12 che donano al mio piede una forma deliziosa. Chissà se troverò un paio di scarpe che possono abbinarsi bene al tallieur nero che devo mettere lunedì per l’intervista a Michael Fassbender. Non ci voglio pensare, quelle scarpe erano meravigliose, perfette, speciali, bellissime. Le adoravo. Questo bagno ha qualcosa di diverso. C’è qualcosa di nuovo nell’aria. Sembra primavera, chiedo a Ben se abbia cambiato deodorante per l’ambiente, chennesò, quello se ne inventa sempre una di nuova. E’ un’anima in pena, il mio Ben.
  • Ti sto cercando una camicia, risponde. Fatti sta doccia che poi si mangia, muoio dalla fame.
  • Che si mangia? Chiedo incuriosita.
  • Sushi, so che ti fa schifo ma a me piace un sacco.
  • Che, scherzi? Il sushi è odioso! Va bè che qui a Londra siete tutti super chic e amate mangiare orientale ma dei piatti alle cavallette di Bear Grylls non ne voglio manco sentir parlare.
  • Trovata! Ora ti porto la camicia.
Io e Ben ci siamo conosciuti alla Mostra del Cinema di Venezia durante la prima di Espiazione, quel film inguardabile, insomma, gliel’ho detto una marea di volte che la storia è interessante ma che la sua parte non si può vedere, che il regista di “Orgoglio e pregiudizio” non ha giocato al meglio tutte le sue carte e che la Knightley mi sta sullo stomaco come una lezione di matematica sugli integrali. Gli ho detto pure che quel vestito verde smeraldo sarebbe stato bene anche a me, solo che non potevo indossarlo. E me lo ha regalato. E’ stato un incontro piuttosto insolito, perché ricordo di essermi presentata come una pazza trafelata ed esaurita dal suo stressante ma amatissimo lavoro che senza accorgersi è inciampata sulla sua valigetta in pelle. Non che la cosa mi dispiacesse, ma il fatto di inciampare proprio sulla sua, di valigetta, mi ha messo piuttosto in imbarazzo. Lui, che stava mangiando un gelato al cioccolato con il suo manager, vedendo che avevo il pass come addetto stampa al collo non ha perso l’occasione di chiedermi se avessi la voglia e il tempo di bere qualcosa in sua compagnia. Se fossi stata cretina e un po’ svampita come la mia collega d’avventura avrei rifiutato per andare ad intervistare quello scansafatiche piaccione di George Clooney ma con molta probabilità non sarei né in quella villa sul ramo del lago di Como nè qui a parlarvi di noi. Perché mentre giocherellava con la paletta, facendola oscillare tra un dito e l’altro della mano destra, Ben sosteneva di adorare il mio sguardo e la mia spiccata attitudine a ridere per qualsiasi idiozia. Abitavamo tutti e due a Londra ed eravamo tutti e due a Venezia. Io soggiornavo a casa dei miei per il periodo della Biennale, lui soggiornava all’Excelsior. La stessa cosa insomma. Se non che quando ho fatto per salutarlo e tornare alla dura routine giornalistica mi ha allungato un biglietto con il suo numero di cellulare.
  • Se hai bisogno di qualsiasi cosa per il tuo lavoro, a Londra, chiamami.
  • Sarà fatto, Cumberbatch.
L’acqua ghiacciata è un toccasana per la cellulite. Ti viene la morte ma la cellulite dovrebbe scomparire in un secondo. Sopporto e mi immergo sotto le pazze gocce che scendono dalla doccia. Uno, due, tre. Esco dalla vasca e mi infilo l’accappatoio. Ho Ben davanti con una camicia in mano.
  • Oh, ciao. Da quanto tempo. Passami camicia.
  • Si, certo. Senti, devo andare un attimo in macchina, torno subito.
Adoro le sue camicie. Adoro lui. Che lascia distrattamente gli occhiali sul bordo della vasca. Decido di fargli una sorpresa, decido di vestirmi come Dio comanda, per una volta.

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