Remember me

di cliffordsjuliet
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Remember ***
Capitolo 2: *** Mine ***
Capitolo 3: *** Rage ***
Capitolo 4: *** Fight. ***
Capitolo 5: *** You're not good. ***
Capitolo 6: *** I don't care about tomorrow. ***
Capitolo 7: *** It's you. ***
Capitolo 8: *** Broken people. ***



Capitolo 1
*** Remember ***


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10 maggio 2005.



Ricordo che faceva caldo, quel giorno.
I “quattro palazzi” erano immersi nel calore di una primavera sbocciata da poco, ma che sembrava voler fare già l’imitazione all’estate. Era una giornata come tante, uno di quei giorni in cui mia madre lavorava e mio padre pure, ed io che ero la sorella maggiore – pur avendo solo otto anni – dovevo prendermi cura di mio fratello e della casa. Jamie non ricorda molto di quel periodo, aveva solo cinque anni. Io sì. Io ricordo tutto di quell’anno, di quel giorno in particolare. Ricordo bene come quella mattina mi procurai un livido cadendo dallo scaletto, mentre cercavo di riordinare i piani alti della credenza, e come avessi passato il resto della giornata raggomitolata sul vecchio divano sfoderato a guardare i cartoni in compagnia di Jamie. Appena sentimmo i passi di mia madre rimbombare per le scale sporche e pericolanti della palazzina, però, scattammo in piedi. Spegnemmo il televisore un attimo prima che lei facesse il suo ingresso, stanca più del solito, ma con al seguito una novità.
“Beth, Jamie, venite qui” ci aveva chiamato, con la sua voce autoritaria sempre marcata da quella dannata stanchezza, la stanchezza di chi vede scivolare via la propria vita e con essa tutti i propri sogni. Ed aveva appena trent’anni. Ricordo che da piccolo Jamie piangeva spesso nel vedere la mamma così abbattuta. Piangeva perché lei più volte, nei suoi momenti di rabbia, aveva dato la colpa a noi. E allora c’ero stata io a consolarlo, nonostante fossi piccola anch’io, c’ero stata io ad abbracciarlo e a dirgli che sarebbe passato, che la mamma ci voleva bene. Ma in cuor mio neanche io ne ero tanto sicura.
Ricordo che la raggiungemmo all’ingresso del piccolo appartamento, e la trovammo lì che ancora doveva togliersi le scarpe, e attaccato alla sua gamba c’era questo cosino, un mucchietto di pelle e ossa e capelli che tremava, tutto spaventato. Ebbi un moto di rabbia a vederlo lì, nascosto dietro la gonna sgualcita di mia madre: quella era la mia mamma, cosa voleva quello?
“Questo è Ashton, o solo Ash. I genitori erano i signori del piano di sotto, se ne sono andati lasciandolo qui, quindi quando vorrà potrà stare qui con voi. Vero?”
Sapevo che era una cosa normale, lì ai quattro palazzi, che i genitori se ne andassero lasciando da soli i figli: ormai ci eravamo abituati a cose di questo genere. A volte i bambini venivano presi in custodia da qualcuno del quartiere, a volte andavano via, a volte morivano di stenti. I servizi sociali nessuno li chiamava, e forse era meglio così: anche io, che avevo solo otto anni, ero sicura che piuttosto che finire in una casa famiglia avrei preferito trovarmi morta stecchita per il freddo o la fame. Ma in quel momento avrei voluto solo dire che no, non era vero, a me non stava bene che quel bambinetto così scarno e sporco si intrufolasse in casa mia. Ero una bambina cresciuta in un posto dove alle tue cose ti ci devi attaccare, le devi tenere strette a te con le unghie e con i denti, ché se non lo fai c’è il rischio che ti vengano tolte. E mia madre era una cosa mia, e la vedevo sorridere così a quel povero orfanello, un sorriso che a me o Jamie non aveva mai rivolto, e quella cosa mi faceva rabbia: mia madre non aveva abbastanza affetto neanche per noi che eravamo i suoi figli, figuriamoci se ci fossimo trovati a spartirlo con un terzo incomodo. Jamie non ci pensava, ed era normale, aveva solo cinque anni lui. Aveva annuito a mia madre e poi si era avvicinato al bambino, per guardarlo meglio, come fosse stata un’attrazione di un circo.
“Ashton, questo è Jamie. È più piccolo di te, ha cinque anni” lo presentò mia madre, accovacciandosi sui talloni per osservare lo scambio di occhiate tra i due e poi, infine, un sorriso. Fu quella la cosa che mi fece sentire tradita più che mai, quel sorriso di mio fratello, la persona che come me viveva quella situazione di continua mancanza e che quindi avrebbe dovuto capirmi: senza una parola rivolsi uno sguardo carico di odio a mia madre e a quel bambino, allontanandomi dall’ingresso dopo aver sputato fuori con rabbia un “Non me ne frega niente di questo qui, che se lo prendano i servizi sociali”.



Mi guardo intorno nella stanza, che dopo tanti anni non è cambiata neanche un po’: ha le pareti grigie, come allora, con l’intonaco scrostato che nessuno si è mai preso la briga di ritoccare; il pavimento dalle mattonelle giallognole e sconnesse non è cambiato, così come il letto a castello, quella sottospecie di unione di due brandine poco resistenti messe insieme a dare l’idea di un letto vero. E lì c’è quel cassettone in legno scheggiato, ma quello non lo apro, so già cosa ci troverei: i vestiti di Jamie e poi i miei, ed alcuni anche di Ashton, dei quali mi sono appropriata nel corso degli anni. Non ci facevo nemmeno caso, quando prendevo qualcosa di suo; dopotutto Ashton era entrato nella mia vita senza chiedermi il permesso, si era preso l’affetto dei miei genitori, di mio fratello e, nonostante mi fossi opposta con tutta me stessa perché ciò accadesse, anche il mio: quindi perché io avrei dovuto avere qualche riguardo nei suoi confronti? Ora che ci penso mi rendo conto di quanto fossi cattiva, e non dico solo egocentrica, cinica, stronza e possessiva fino al midollo: dico proprio cattiva, perché così ero cresciuta. Ero venuta su pensando solo a me stessa, a cercare di non morire. Quella era la nostra priorità, ai quattro palazzi. Ero cresciuta anno dopo anno nascondendomi sempre più a fondo dietro la mia corazza, senza accettare mai l’aiuto di nessuno, orgogliosa com’ero; non avevo calcolato che presto quella corazza mi avrebbe inglobata del tutto, inghiottita, rendendomi la persona fredda e senza ombra di dubbio cattiva che ero.


Mi alzo dal letto di sotto, quello di Jamie dove ormai lui non dorme più, perché finalmente può stare al posto di sopra, al posto mio. Prendo un respiro profondo poi mi avvicino al cassettone, con la sacca rossa ancora vuota ben stretta tra le mani, pronta per essere riempita. Apro il primo cassetto, osservo i miei panni piegati, li infilo con cura nella sacca. Non lascio niente, neanche i vestiti che so che non indosserò mai più: non voglio lasciare tracce di me, in questo posto. Ho quasi finito di svuotare il cassetto quando noto una maglia nera, con uno stemma ed una scritta: ‘Slayer’, un gruppo che da ragazzi amavamo. Questa maglia non è mia, è di Ashton, ma mi chiedo effettivamente che differenza ci sia: che differenza c’è, tra lui e me? La prendo tra le mani tremanti e ne rimango quasi ustionata, la porto vicino al viso. C’è il suo odore su questa maglietta. Lui a differenza mia non potrà mai fare così, fuggire, scappare da sé stesso: Ashton non è mai stato forte abbastanza. Lui si è lasciato dietro pezzi di sé, sono ovunque, e questa maglia ne è solo l’ennesima prova. Io andrò via, lontano da qui, avrò una vita nuova. Lui non potrà mai fare finta di niente. Lui qui ha lasciato troppo di sé stesso, perché non è mai stato bravo a tenersi insieme, io ero quella brava a non cadere a pezzi, a mantenersi integra nonostante i continui colpi; ero io quella che gli impediva di crollare, la sua ancora alla terra. E so che il mio è un comportamento da vigliacca ma davvero non ce la faccio a restare, ho diritto anche io a ricominciare e questo posto è troppo pieno di tutto quello che voglio dimenticare. Gli anni della mia infanzia, la mia adolescenza, le giornate passate tra la scuola, la casa, e poi il cortile dei quattro palazzi dove giocavamo da piccoli, e che crescendo è rimasto il nostro ritrovo.
Non dirò addio a nessuno, prima di andare via. Non saluterò i miei genitori, e nemmeno Jamie, né tantomeno Rebecca, l’unica amica che abbia mai avuto. Dire addio a qualcosa è il primo passo per imprimertelo dentro, e questa è proprio la cosa che voglio evitare.
Dimenticherò tutto.
Dimenticherò tutti.
Dimenticherò questo posto, Lui, e pure me. Che se mi scordo lui inevitabilmente scordo anche me stessa, che tanto non c’è differenza.
Siamo uguali da far schifo, Ashton, ma qualcosa di diverso lo abbiamo: io ricomincerò.
Tu no.






#Chiara's corner
Hey people!
Avevo cominciato a postare un'altra mia fic, intitolata 'Valerie', ma poi l'ho eliminata. Quella arriverà in un futuro prossimo. Molto prossimo mi sa. Avevo intenzione di lasciare questa per un po' nel dimenticatoio e di passare a quella, che era decisamente meno triste e meno nel mio stile ma, si sa, le cose tristi saltano all'occhio e questa fanfiction faceva di tutto per farsi notare. Quindi Valerie resterà nel box per un po', e "Remember Me" prenderà il suo posto.
Vi avviso già che questa non è una storia drammatica. E' una storia di vita, di amore, ma non l'amore come lo vediamo noi. Spero che questo prologo vi sia piaciuto, perché presto andremo avanti con la storia, e spero di vedere qualche commento.
Se qualcuno lo ha notato, ci sono delle somiglianze con il libro "Il Rumore dei Tuoi Passi": onde evitare problemi, ci tengo a precisare che la storia non intende copiare quel romanzo, e nei prossimi capitoli lo noterete ancora di più, perché si svilupperanno in maniera assolutamente personale.
Detto ciò, spero che questo inizio vi sia piaciuto e non so, mi farebbe piacere vedere qualche commento.
Va bene, vado e smetto di dilungarmi ahahah
Un saluto generale,
Chiara.xx


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Capitolo 2
*** Mine ***


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Ashton non capiva un cazzo.
Sembrava che tutto quello che succedeva attorno a lui non gli appartenesse, che lui fosse fuori dal mondo. Quando avevo dieci anni avevo preso l’abitudine di andare a scuola da sola anche se i miei non volevano, che il posto era brutto e non era sicuro per una bambina come me. Ma io non avevo paura, quel posto per me era casa, quel quartiere che puzzava costantemente di immondizia e polvere, con quei quattro palazzi scalcinati e traballanti. Non mi sarei mai sentita al sicuro come mi sentivo lì. Quando arrivavo a scuola stavo sempre in un angolino per i fatti miei, gli altri bambini non mi volevano. Io sapevo cosa vedevano in me: uno sgorbietto magrolino che cucito addosso si portava l’odore di quei palazzi, quel posto da evitare. Ero sempre stata da sola: quell’anno, però, no. Mia madre decise che Ashton non poteva assolutamente permettersi di lasciare la scuola, così lo iscrisse alla mia stessa classe, in una scuola pubblica dove persino degli sfrattati, dei poveracci come noi potevano andare.
“Sei contenta, Beth? Ash sarà in classe con te!” mi disse mio padre una sera, mentre eravamo seduti tutti intorno al tavolo. A quelle parole io gli lanciai un’occhiataccia e misi il broncio, e spinsi via il mio piatto, che non volevo più mangiare. Mi si era chiuso anche lo stomaco. I miei genitori non capivano perché lo odiassi, loro stravedevano per quel bambino dall’aria così persa che a stento spiccicava parola se non con Jamie. Perché Ashton anche il fratello mi stava portando via, ovviamente. Ricordo ancora quel giorno in cui me lo ritrovai seduto affianco in classe, come se qualcuno gli avesse dato il permesso di farlo. Io ero arrivata prima, che con lui e Jamie non ci volevo stare. Da quando era diventato il “migliore amico” di Ashton neanche con lui avevo più voluto avere a che fare. Che stesse pure con Ashton, io non avevo bisogno di lui. Non avevo bisogno di nessuno. Quella mattina lui arrivò dieci minuti dopo di me, si avvicinò, e si sedette nel posto affianco al mio.
“Che vuoi da me?” abbaiai rabbiosa.
Mi guardò stupito. “Allora parli!” esclamò, con la sua irritante vocetta infantile.
“Non con te” specificai piatta.
“Adesso lo stai facendo” mi fece notare. Emisi un grugnito infastidito che assomigliava tanto al verso di un animale ferito, e stetti in silenzio. Non guardavo neanche nella sua direzione, avevo paura. Di cosa poi, rimase un mistero. Di un bambino alto un metro e un tappo di bottiglia, tutto ossa e pelle?
“Perché mi odi?” Mi voltai di scatto verso di lui. I bambini intorno a noi ci squadravano curiosi e diffidenti, stavano alla larga, ma in quel momento l’unica cosa che notai furono i suoi occhi. Erano verdi. Fu la prima volta che lo notai. Ed erano spalancati, erano tristi. Vedevo nei suoi occhi di bambino la stessa tristezza che sapevo riflessa nei miei. Non era giusto, pensai. Eravamo solo bambini. Non avremmo dovuto sapere cosa fosse la tristezza. Ora ci ripenso e capisco che gli altri bimbi ci stavano alla larga non per la nostra provenienza, ma per quel dolore che portavamo addosso, compreso nel pacchetto. Il dolore allontana le persone.
“Io non ti odio” mormorai, sotterrando per un momento l’ascia di guerra. In quel momento non lo sapevo ancora, ma in cuor mio avevo già cominciato a volergli bene, a vedere del buono in quel bambino che mi stava, piano piano, portando via tutto.


***


Rebecca la conobbi nell’estate dei miei dodici anni.
Frequentavo le scuole medie, era il primo giorno del secondo anno. Tra i banchi, nell’aula, formicolava l’odore della novità: la classe contava una bambina in più. Fu presentata a noi alunni dalla professoressa, e poi fu spedita a sedere accanto a me. Era l’unico posto che negli anni era rimasto libero, da quando Ashton non era più in classe con me.
Era strana, Rebecca.
Per i suoi dodici anni era bella, ordinata, non come me che avevo l’aria sempre un po’ trasandata e caotica. A me, l’aspetto esteriore rispecchiava il caos interiore. Ma quello che più mi colpì di Rebecca furono i suoi occhi: due stralci color verde bosco totalmente privi di amarezza. Ero sempre stata brava a leggere le persone, lo avevo imparato da piccola con i miei genitori. Rebecca era una persona che non conosceva il lato oscuro della medaglia. Lei veniva da fuori e ai quattro palazzi non ci aveva mai messo piede, ma conosceva quel quartiere. Lì c’erano i suoi nonni, ci disse. I genitori ci erano cresciuti, come noi, e se ne erano andati, come probabilmente avremo cercato di fare noi. Non aveva mai conosciuto il resto della sua famiglia. I suoi non le avrebbero mai permesso di avvicinarsi a quel posto.
Eppure, quando quel giorno varcai la soglia di casa, lei era con me. Ai genitori aveva raccontato che sarebbe andata a fare un giro con una compagna, senza specificare troppo.
“Mamma?” chiamai entrando nell’atrio e sfilandomi le scarpe da ginnastica incrostate di fango. Rebecca mi chiese se dovesse sfilarsi anche le sue, ma non ci fu bisogno. Indossava un paio di ballerine così immacolate che al confronto il pavimento di casa mia sembrava sudicio, nonostante la mania di mia madre per l’igiene.
“Oh Beth, ce ne hai messo di tempo eh!” sbottò una voce infastidita, seguita subito dopo dalla figura di Ashton che compariva dalla cucina. Si bloccò non appena notò la mia amica, che gli sorrideva timidamente con aria di scuse.
“È colpa mia” sussurrò intimidita. Ash scosse la testa imbambolato, e non disse niente. Avrei voluto picchiarlo, in quel momento. Probabilmente più tardi l’avrei fatto. Non poteva guardare così la prima amica che avevo, la prima persona con cui potevo sentirmi normale e non un rifiuto della società. Per me aveva sempre frasi aspre, occhiate infastidite e sospiri irritati. Cosa avevo io che non andava? Ero la sua migliore amica, meglio dire che ero l’unica che avesse. Che lì al quartiere nessuno lo voleva, un bastardo senza nome come Ashton. Lui giurava che compiuti i diciotto anni avrebbe cambiato il proprio cognome, ma i soldi per la causa non si sapeva da dove li avrebbe presi. Sognava, Ashton, accumulava desideri e speranze che presto l’avrebbero deluso. Io no. Io mi facevo bastare la realtà, anche se era scomoda e mi stava stretta. Io non sapevo vivere di illusioni.
Fu per quel motivo che, senza una parola, presi per mano Rebecca e la guidai nella stanzetta che condividevo con Jamie, lasciando Ashton lì all’ingresso, con l’espressione confusa che avrebbe portato con sé crescendo.  



 
“Oh, Beth?”
Mi rigirai nel letto, sbuffando. Ashton era rimasto a dormire da me ed ero costretta a condividere con lui la brandina, perché Jamie quando dormiva era impossibile, scalciava come un matto e spesso qualche calcio lo tirava anche a me, che stavo al letto di sopra.
“Che vuoi, Ash?” chiesi scocciata, con la voce impastata dal sonno.
“Ma Rebecca da dove è uscita?”
“Dall’uovo di Pasqua. Da dove vuoi che sia uscita, si è aggiunta alla mia classe. Perché? Ti interessa?” lo punzecchiai, girandomi per trovarmi faccia a faccia con lui.
Ashton mi diede una spinta che non mi smosse nemmeno, che altrimenti sarei caduta, e “Mamma mia se sei impossibile Beth! Volevo solo chiedere” si difese.
“Sì, ti interessa, guarda come reagisci! Be’, fattela passare. Rebecca è una mia amica” specificai. Non mi piaceva che Ashton si interessasse alle cose mie, ero possessiva. Gli volevo bene, ormai avevo imparato a convivere con quello strano sentimento, ma non ero pronta a condividere con lui anche Rebecca. Lei era l’anello di congiunzione che avevo con il mondo di fuori, uno stralcio sulla vita che avrei potuto avere nascendo in un posto diverso. Una vita in cui non devi preoccuparti di farti accompagnare ogni volta che metti piedi fuori dalla porta di casa, in cui nessuno fa storie se chiedi due euro per prendere un gelato con gli amici, in cui non devi vivere nel terrore che il tetto di casa ti crolli addosso, pericolante com’è. Era la mia eccezione, il mondo che vedevo tramite gli occhi di Rebecca, l’unica illusione che mi ero concessa. Non volevo che Ashton si appropriasse anche di questo.
“Oh, ma la smetti? A me non interessa proprio nessuno Beth. Certo che sei una palla. E comunque Rebecca non è tua. Lei è una persona, non un oggetto, forse è meglio che tu te lo metta in testa”.
E con quelle parole Ashton chiuse il discorso, voltandosi per darmi la schiena. Lui si addormentò poco dopo, io no. Rimasi per ore a fissare le sue spalle che si alzavano e abbassavano ritmicamente, riflettendo sulle sue parole. Io ero possessiva tanto con le mie cose quanto con le persone e in quel momento, rannicchiata in quel letto, non vedevo la differenza. Con una sensazione di inadeguatezza allo stomaco mi avvicinai di più al riccio, stringendomi contro la sua schiena. Lui si girò di scatto, arrivando a circondarmi con le sue braccia, per stringermi a sé. Ci addormentammo di nuovo insieme, così, stretti in due in un letto che a stento poteva contenere una persona, con i nostri odori che si mischiavano e i nostri confini che si confondevano.
Sarebbe sempre stato così, anche se sul momento non avrei potuto saperlo.
Con il tempo non saremmo cambiati.
Nessuno avrebbe saputo dire dove finivo io ed iniziava lui.







#Chiara's corner
Buongiorno people! Sono tornata piuttosto in fretta, dai. La verità è che nella mia testa Beth e Ash come personaggi sono già bell'e sviluppati, e anche Rebs è a buon punto! Quindi non so, li sto facendo incastrare in mille vicende e non ce la facevo a postare più tardi, davvero non ci riuscivo. Ma credo che cercherò di andare in maniera più... come dire, soft. Non vorrei che questa fic finisse presto come "Hold My Hand", ed io mi ritrovassi ad essere dispiaciuta per ciò.
Detto questo, ringrazio chi ha recensito/seguito/preferito. Grazie mille davvero! Mi fa un piacere immenso(:
Vi lascio con una foto di Rebecca, un bacio!
Chiara.xx


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Capitolo 3
*** Rage ***


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A dieci anni Ashton era un bambino pelle e ossa, più basso di molti suoi coetanei e decisamente più debole.
A dieci anni io sarei potuta passare per una bambina quasi graziosa, se non fosse stato per i miei capelli sempre in disordine e i vestiti di seconda mano imbrattati di polvere e fango.
A tredici anni Ash era cresciuto, ora era di media statura, si era irrobustito. Aveva ripreso colore con il passare degli anni, i capelli si erano infoltiti, sorrideva anche di più.
A tredici anni io, qualsiasi bellezza avessi avuto da bambina, l’avevo persa. Lo sapevo che non ero come le mie coetanee, che già cominciavano a svilupparsi e parlavano costantemente di assorbenti e reggiseni. Io a tredici anni il reggiseno ancora non lo mettevo, perché tanto non ne avevo bisogno, e non avevo mai perso neanche una goccia di sangue. Ero più alta di tutte le mie compagne, e più brutta. Sapevo che le mie clavicole erano troppo sporgenti, così come le scapole e le anche; non mi piaceva poter contare le mie costole, né tantomeno il fatto che tra le gambe ci passasse un treno, per quanto erano magre.
Invidiavo le altre ragazze, e anche Rebecca.
Lei a tredici anni era, se possibile, ancora più bella. Il fisico da bambina stava lentamente cedendo il passo ad uno più maturo, e tutte le sue rotondità stavano lasciando il passo ad una spigolosità prettamente adolescenziale, senza però perdere la morbidezza e la delicatezza dei tratti.
Io vedevo come i ragazzi guardavano la mia amica e la invidiavo, a me non guardava nessuno. Se poi era Ashton a lanciarle certe occhiate sognanti, allora m’imbestialivo sul serio: lo prendevo da parte per ricordargli di starsene al posto suo, e il più delle volte le prendeva anche. Non si ribellava mai, Ashton, lasciava che facessi di lui quello che volevo. Si lamentava per un po’ e poi stava zitto, tornava da me con la coda tra le gambe, come se fosse stato lui quello a sbagliare. Veniva da me e tutto tornava come prima, e Ashton rimaneva sempre più solo, e la colpa era solo mia, ma me ne facevo una ragione. Pensavo che io gli sarei bastata. Io che avevo condiviso con lui la casa, la famiglia, il letto. Che lo avevo stretto quando faceva gli incubi, che lo avevo odiato e poi apprezzato, arrivando a volergli bene come nessun altro sapeva fare. Io che, inconsapevolmente, lo stavo spegnendo nella morsa di quel rapporto soffocante che stavamo instaurando.




A metà giugno di quell’anno nel quartiere giravano nuove voci.
Dicevano che fosse arrivato un nuovo occupante. Andrew, si chiamava, ed era uno che per vivere faceva il pusher e, ogni tanto, tirava di boxe. Questo dicevano, e noi ci credevamo, non ci sembrava neanche tanto strano. Ad Ashton e Jamie la notizia era entrata in un orecchio e uscita dall’altro, non ci avevano fatto neanche tanto caso, avevano continuato ad andare avanti come se niente fosse cambiato. Io no. Io continuavo a crogiolarmi in un’idea malsana nata in un pomeriggio di poco tempo prima, che non avrei potuto condividere con nessuno. Neanche con Rebecca che, ormai, passava più tempo ai quattro palazzi che a casa sua. I genitori sapevano che ‘dormiva da Beth’, e che Beth aveva una casa nella campagna al di fuori di Melbourne. Roba da ricchi, da signori.
Io la campagna non l’avevo neanche mai vista e la mia, di casa, non era di certo quella che si sarebbe definita un’abitazione da signori, ma andava bene così. A Rebecca piaceva stare lì, diceva che ormai quel posto le era entrato dentro insieme alla polvere delle sue strade, ed era inutile cercare di tornare indietro. Era cambiata anche lei, nel corso del tempo. A stare tra di noi il suo sguardo si era fatto più consapevole, i suoi discorsi più profondi, il suo carattere più duro. Venire a contatto con la nostra realtà l’aveva spinta a creare la propria scorza resistente. Lei diceva che i palazzi erano un posto molto più vero del “mondo di fuori”, che lì imparavi cos’era davvero vivere, che la vita non è tutta rose e fiori e non è nemmeno scontata. Magari il giorno prima ci sei, e il giorno dopo non più. Aveva trovato i propri parenti dopo parecchie ricerche, ci si era impegnata ed io l’avevo aiutata, fino a quando non era arrivata alla verità. Quella che doveva essere sua nonna era una donna sui cinquantacinque anni che avevo visto poche volte. Rebecca si era presentata alla sua porta con il cuore in gola e, quando aveva bussato, alla donna erano bastati pochi attimi per fare due più due e riconoscere la nipote, portandosi le mani alle labbra in un gesto istintivo. Aveva stretto Rebecca in un abbraccio infinito, scoppiando in lacrime.
Ashton ed io c’eravamo stati, quel giorno. Ci guardavamo a disagio e non dicevamo niente, e cosa avremmo dovuto dire? Ci sentivamo inadeguati entrambi allo stesso identico modo. A guardare certe scene ti viene naturale porti la domanda fatidica: ed io? Io chi sono?.



Era luglio quando mi decisi a prendere coraggio.
Dissi a mia madre che uscivo a fare un giro per conto mio, che di stare in casa non ne potevo più. C’era un caldo asfissiante e poi anche l’atmosfera era pesante. Papà stava avendo problemi con il lavoro e questo poteva significare solo una cosa: tirare la cinghia. Non ci lamentavamo mai, noi, facevamo il nostro senza fiatare. Ci ribellavamo solo a volte, quando nostra madre veniva a farci la predica dicendo che avremmo dovuto ringraziare per tutto quello che avevamo, invece di avere sempre quei musi lunghi. Allora ci ribellavamo, e partivano le urla, gli schiaffi, porte sbattute e rabbia malcelata. Ringraziare per cosa, io non lo avrei capito mai. Per quel palazzo sudicio, per i vestiti di seconda mano? Per vedersi isolare dalle altre persone, neanche fossimo lebbrosi?
Quel giorno scappai via prima di potermi ritrovare a discutere con mia madre per l’ennesima volta.
Sulle scale del palazzo trovai Ashton, era seduto a terra, rannicchiato. Tremava tutto ed era sull’orlo delle lacrime. Mi sentii male, a vederlo così. Interruppi la mia fuga per fermarmi vicino a lui, mi sedetti.
“Oh, Ash. Che hai?” gli chiesi, scuotendolo piano.
“Vai via, Beth” rispose lui in un singhiozzo. Mi fece rabbia quella richiesta mascherata da ordine, ma non infierii.
“No, non vado. Tu ora mi dici cos’hai” replicai nuovamente, con quanta più gentilezza riuscii a mettere insieme, ma con decisione. Non avrei mai potuto prevedere la sua reazione.
“Cazzo Beth, ti ho detto di andare via! Per una buona volta smettila di essere così scassa palle e fatti i cazzi tuoi!” scattò, alzandosi in piedi e guardandomi con rabbia. Mi sentii gelare. Il suo tono era così duro, così definitivo, che non fece altro che aumentare la mia rabbia. Lo guardavo e provavo solo odio, odio e pena. Che era un bambino che giocava a fare il duro, lui, ma aveva bisogno di me per reggersi in piedi, era cresciuto attaccato a me come un rampicante, io avevo in mano il potere di fargli davvero del male. Eppure lui aveva il coraggio di scacciarmi, di fare finta che non fosse vero, di fare finta di avere il controllo della propria vita. Mi fece pena, in quel momento. Mi alzai anch’io, gli rivolsi la mia occhiata peggiore, cercai di imprimerci dentro tutta la mia rabbia.
“Sai cosa? Hai ragione, devo farmi i cazzi miei. Non venire più a piangere da me per i tuoi problemi, moccioso” sputai fuori glaciale, senza abbassare neanche per un attimo lo sguardo. La sua decisione vacillò, lo vidi, e pensai che fosse una persona fottutamente debole, e che io gli facevo solo del male. Lo pensai, ma non dissi niente. Aspettai che fosse lui a parlare.
“Ecco, brava, vedo che hai capito. Vai a rompere da qualche altra parte” disse, prima di girare i tacchi e scendere verso il suo appartamento. Quello dove non metteva piede da giorni, perché ormai stava sempre a casa mia. Quello dove per i primi tempi dopo l’abbandono non era riuscito ad entrare, perché era troppo pieno di ricordi, di dolore.
Sentii con chiarezza la porta che sbatteva con un tonfo secco, prima di risvegliarmi e riprendere a scendere le scale pericolanti, meno decisa di prima.
Io lo sapevo l’effetto che mi faceva, Ashton.
Mi faceva sentire cattiva.
Ed io non sopportavo quando la gente aveva ragione.





#Chiara's corner
Hey there people! Dai, nonostante i problemi con la scuola sto aggiornando abbastanza presto, sono passati appena quattro giorni! Ho scritto questo capitolo un po' di fretta e furia stamattina, mentre gli altri completavano il test d'ingresso che io avevo già finito, quindi non so cosa ne sia uscito davvero. Ho ricopiato sul computer ma non ho avuto la testa di controllarlo, credo che lo farò stasera però. Penso sia abbastanza obbrobrioso, ma mi serviva così com'è, perché dal prossimo le vicende si faranno.. come dire, parecchio movimentate. Nel quarto capitolo ci sarà anche molto riguardo Ashton/Beth (non ho ancora un nome per la bromance e odio questa cosa), quindi prometto che mi farò perdonare(:
Nel frattempo, parliamo di altro. 6 recensioni al secondo capitolo? No, sul serio, io vi amo. Non mi aspettavo che questa storia potesse avere un decollo così positivo, quindi davvero grazie mille di tutto. Prometto che entro stasera risponderò a tutti! Scusatemi davvero per il ritardo.çç
Detto ciò, vi lascio con un forte abbraccio come al solito!
Con affetto,
Chiara.xx

 


Okay, ho APPENA notato che siamo secondi tra le popolari, settore Multicapitolo Brevi con più parole per recensione positiva. Io.. oddio, non so cosa dire, sto tipo sclerando/saltellando/gioiendo e non so, sono così felice! Non so come dirvi grazie davvero, oddio!


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Capitolo 4
*** Fight. ***


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Quella sera faceva caldo.
Avevo tredici anni compiuti, una famiglia incasinata, un migliore amico che mi aveva appena mandata via. Ma, soprattutto, sapevo cosa volevo. Non ero una perdente, io, lì non avevamo bisogno degli indecisi. Per questo, quando suonai il campanello di un appartamento apparentemente comune, il mio gesto risultò più sicuro di quanto realmente fossi.
Aspettai poco prima che la porta si aprisse, mostrando un uomo sulla cinquantina alto e brizzolato, decisamente ben piazzato. Sulle braccia erano ben visibili i cordoni dei muscoli duri, le spalle erano larghe, coperte dai tatuaggi.
Andrew.
“Cosa vuoi, bambina?”
Storsi il naso, mal celando il disappunto che provai a quel nomignolo. “Sei Andrew?”
“Così pare” rispose l’uomo, burbero.
“E’ vero che sai tirare di boxe?” chiesi incerta. La voce, nonostante tutto, non vacillò.
Andrew sbuffò, incrociando le braccia. “Ti hanno mandata a farmi il terzo grado o cosa?”
“Niente del genere” scossi la testa con calcolata freddezza. “Voglio che mi insegni a tirare di boxe”.
Gli occhi chiari dell’uomo si spalancarono, sorpresi. Passarono pochi secondi prima che le sue labbra si piegassero in un sorriso divertito, impertinente.
“Non ho tempo da perdere con una mocciosa” soffiò duramente, facendo per chiudere la porta. Ma io fui più veloce, mi misi in mezzo, io ero decisa, e non sarebbe mai stato che non ottenessi ciò che volevo. A crescere come me, pensai, non si ha paura di nulla. Neppure di un ex marine sbruffone.
“Non sono una mocciosa. Vivo in questa merda senza neanche sapermi difendere, è vero, ma non sono una stupida e ottengo sempre quello che voglio” sputai fuori in un rantolo, come un animale pronto ad attaccare.
Non so cosa successe in quel momento, esattamente.
Non so cosa vide Andrew in me, in quei tredici anni fatti di ossa e vestiti troppo larghi, di labbra secche e di parole taglienti. Erano brutti i miei tredici anni, ero l’immagine del fallimento, del degrado, di qualcuno allo sbando, cresciuto da sé.
Fatto sta che lui qualcosa ci vide, in me, perché mi squadrò per pochi attimi ancora, prima di spalancare la porta dell’appartamento.
“So già che me ne pentirò” sospirò, passandosi una mano sul viso.
 
 
Fu l’estate in cui conobbi Michael Clifford.
Michael aveva quindici anni da compiere ma era già molto alto per la sua età, più di qualsiasi ragazzo avessi mai incontrato. Faceva sembrare il mio metro e sessantacinque tristemente scarso, al confronto.
Non aveva l’aria di uno cresciuto in mezzo alla polvere e alla miseria.
Aveva sempre quell’espressione imperturbabile, come se nulla lo sorprendesse. Come se nulla potesse scalfirlo.
Volevo raggiungere anche io quel punto, quello in cui non temi più nulla, avevo tredici anni ed ero stupida, e credevo che si potesse non avere mai paura. Mi sbagliavo. Anni dopo, Michael mi avrebbe confidato che lui, la paura, la conosceva fin troppo bene. Aveva paura di tante cose, ma più di tutto lui temeva il buio.
“Ho paura di ciò che non posso vedere” diceva, quando gli chiedevo la motivazione. “Che ne sai di cosa si nasconde nel buio? L’oscurità è subdola. Non fidarti mai di ciò che non puoi vedere con i tuoi occhi, Beth, perché finisci sempre per farti male”.
Gli avevo chiesto il motivo di quella sua frase ma lui non aveva risposto, si era rollato una canna e la conversazione era finita lì. In quel momento capì che i più spavaldi sono in realtà dei vigliacchi che si nascondono sotto una finta patina di indifferenza, e mi sentii disgustata. Ma a tredici anni ancora non lo sapevo, a tredici anni io Michael lo ammiravo.
Lo vidi per la prima volta ai campetti ad est del quartiere, quei campetti dove mia madre non voleva che mettessi piede. Aveva paura. Diceva che lì non era posto per una ragazza. Però in mezzo al fango e alla camorra dei palazzi, lì sì che era posto per me.
“I campetti” era il nome che utilizzavamo per riferirci ad un grande spiazzo asfaltato, con due canestri alle estremità. Era lì che ci allenavamo. Altro posto non c’era, e anche se l’asfalto faceva male ed era duro era meglio, che dovevamo abituarci. Dovevamo imparare a prenderle, a farci male, a sanguinare. Dovevamo capire cos’era il dolore, per imparare ad affrontarlo.
La prima volta che ci ero andata, Andrew si era presentato in compagnia di questo ragazzo alto e muscoloso, con i capelli sparati in ogni direzione.
“Michael” aveva detto Andrew, fermandosi davanti a me. “Questa è Bethany, alias Beth. È con lei che ti allenerai”.
Michael aveva alzato le spalle, indifferente, e l’allenamento era cominciato. Andrew ci aveva sfiniti, facendoci correre, fare piegamenti, flessioni, stretching. Mi chiedevo a cosa servisse, come avrei fatto poi, se ancora prima di iniziare a combattere ero già sfinita. Passò una mezz’ora buona prima che Andrew pose fine al riscaldamento, chiamandoci a sé.
Ci fece posizionare l’uno di fronte all’altro, poi chiese a me di provare a colpire Michael.
Provai ad osare un calcio, ma fu un attimo prima che il ragazzo agguantasse la mia gamba e, con una leggera spinta, mi facesse sbattere contro l’asfalto duro.
“Rialzati!” abbaiò Andrew asciutto. Mi fece riprovare più e più volte, fino a che non capii i punti deboli di Michael. Era veloce, ma troppo sicuro di sé, e dava per scontato le mie mosse. Finsi un calcio laterale, e quando si sporse per bloccarmi, lo colpì al viso con un fendente. Il ragazzo, preso alla sprovvista, barcollò all’indietro. Il sorriso soddisfatto di Andrew mi diede la carica, così ingaggiammo la nostra piccola lotta lì, velocità contro furbizia, esperienza contro capacità d’osservazione.
Finimmo che il sole era già tramontato, ed io ero stanca, mi faceva male tutto, ed il naso mi si era gonfiato dopo aver sanguinato abbondantemente mentre combattevo, senza che io avessi fatto nulla per fermare il flusso.
“Domani alla stessa ora” fu tutto quello che disse Andrew quando ci fermammo, sfiancati. Michael mi rivolse appena un cenno prima di allontanarsi, io rimasi a guardarlo per un po’, con il respiro ancora pesante.
Aveva le spalle basse, il passo era lento e strascicato, ogni tanto calciava qualche sassolino che si trovava sulla sua strada.
Non ero l’unica ad essere il ritratto del fallimento, pensai.
C’è ancora chi sta messo peggio di me, chi ormai si è arreso, la vita l’ha fottuto una volta di più.
 
 
 
“Dove sei stata?”
Ashton era sulla porta di casa sua, in quel momento spalancata. Mi fissava a braccia incrociate, l’espressione era dura.
“Ma che te ne frega a te di dove sono stata, dai, fammi entrare. Stasera resto da te”.
Ashton scosse la testa “No, tu qua non entri fin quando non mi dici dove sei stata”.
Lo guardai male. “Oh, ma i cazzi tuoi no eh? Ma cos’è sto terzo grado?”
“No, non me li faccio i cazzi miei, non finché tu sei così stupida che ti fai male da sola e neanche te ne accorgi. Ma lo vedi come sei ridotta, cretina, lo vedi? Ti ho seguita ai campetti oggi. Tu ti farai ammazzare Beth, te lo dico io, questa è la volta buona che ti fai male sul serio” sbottò lui con rabbia, fissandomi addosso il suo sguardo carico di risentimento. Non guardarmi così Ash, ti prego. Non guardarmi così perché per una volta sto facendo la cosa giusta, me lo sento, e se ci rimango secca poco male. Ovunque si starebbe meglio che qui, però io non me ne posso andare, tu hai bisogno di me. Non fare il duro che tanto lo so, che mi stavi aspettando. È colpa mia se tu stai male, se hai paura, se devi sempre preoccuparti. Mi dispiace, Ash.
“E allora morirò, che devo dirti! Almeno morirò facendo quel che mi va” risposi io. Non ce la facevo ad esternare i miei pensieri con lui, ero troppo orgogliosa per permettermi di aprirmi tanto, di essere così vulnerabile. Ashton sospirò, portandosi una mano a scompigliarsi i capelli.
“Guarda, dovrei picchiarti Beth, mandarti a farti fottere e smerdarti con i tuoi genitori”
Risi dolorosamente. “E allora perché non lo fai?”
E mi abbracciò.
Mi strinse a sé forte, così forte da farmi quasi male, affondando il viso tra i miei capelli. Gli accarezzavo la schiena piano, lo tenevo stretto forte quasi quanto lui.
“Io c’ho paura Beth. Senza te io non so cosa fare” mormorò.
Avrei voluto che non fosse così debole. Che non avesse paura, che cacciasse le palle, che avesse sempre la forza di andare avanti da solo. E invece eccolo lì, stretto a me in una tromba delle scale che puzzava di marcio, il corpo scosso dai tremiti e un paio di braccia esili e pallide che lo tenevano stretto come unica via per restare integro.
Non avrei mai trovato qualcuno debole come lui.
 
 
 
“Beth?”
Gli davo la schiena, eravamo nel letto matrimoniale che era stato dei suoi, lui diceva che con me riusciva a fare finta che non fosse successo niente, che non se ne fossero mai andati.
“Mh..” mugugnai, con il viso affondato nel cuscino.
“Non te ne andrai, vero?”
“Ma che domande mi fai, dove vuoi che vada?”
Ashton sospirò. “Rispondi, per favore”
Ruotai gli occhi al cielo e “no, non me ne vado” sbuffai esasperata. Neanche mi rendevo conto di quanto avesse realmente bisogno di quella rassicurazione, del conforto di avermi sempre vicina. Non lo vidi, ma sentì i capelli strusciare contro il cuscino, segno che stava annuendo.
“Lo giuri?”
“Lo giuro”.
E poi entrambi ci addormentammo, lui più tranquillo, io con un peso sullo stomaco.
Mi dispiace, Ashton, ma non sono mai stata brava a mantenere le promesse.





#Chiara's corner
Buongiorno!
Mi scuso immensamente per il ritardo ma si sa, la scuola è un ostacolo per tutti! Questo capitolo come al solito l'ho buttato giù in classe (in classe mi vengono le idee migliori, sì ahah anche se non giova al mio rendimento!) e lo controllerò tra poco, quindi per il momento chiedo scusa per eventuali errori. L'ho ricopiato sul pc e avevo troppa voglia di postarlo per poterlo controllare già!hahah
Come sempre, ringrazio voi che recensite/seguite/preferite, e giuro che risponderò il più presto possibile a tutti i vostri commenti che mi rendono davvero felice!
Credo di aver detto tutto, vi mando un bacio(:
Chiara.xx


PS: Qui ci sono due fanfiction che a me personalmente piacciono molto, ve le linko, sono davvero belle!


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Capitolo 5
*** You're not good. ***


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Io ad Ashton vorrei chiedere tante cose.
Se si ricorda di quell’altalena di legno scrostato, nel cortile sul retro della nostra palazzina. Se si ricorda di quella volta che mi spinsi troppo in alto e caddi, facendomi male al ginocchio, ma male davvero. Se si ricorda delle gare che facevamo, dei giochi, le corse, le lotte. I pianti, i litigi e poi gli abbracci. Quel volersi bene un po’ a modo nostro, un po’ odio un po’ amore. Farsi la guerra e poi finire ancora più uniti di prima.
Più di tutto ci sono delle cose che vorrei non scordasse. Dei particolari, così, momenti che però vorrei rimanessero impressi.
Tipo quella volta che compii quattordici anni. C’eravamo io e lui nella mia stanzetta, non facevamo nulla. Stavamo stesi, l’uno vicino all’altra, e fissavamo il soffitto. Eravamo andati avanti così per ore, fino a quando mia madre non mi aveva chiamata in camera sua. E allora ci eravamo risvegliati, e l’espressione perplessa che vedevo sul suo viso ero sicura che fosse presente anche sul mio. Lui mi seguii quando raggiunsi mia madre in camera. Lei era seduta sul letto con le gambe accavallate e, stranamente, quel giorno sorrideva. Di solito sorrideva pochissimo, mia madre, perché a lei quel posto le aveva fatto crescere il marcio dentro, lo stesso marcio che sarebbe cresciuto anche a noi. Quel giorno però no, quel giorno il suo sorriso c’era e lei acquistava vent’anni in meno, e per un attimo sembrò ancora una ragazza un po’ spaesata, che si è ritrovata dietro le sbarre ancor prima di riuscire a spiccare il volo.
“Beth, vieni qui, presto” mi incitò. Ed io mi avvicinai cauta, stringendo la mano di Ashton.
“Che c’è?”
“Ho una cosa per te. Questo era mio e lo misi al mio sedicesimo compleanno, ma dovrebbe starti bene, che sei alta tu. Hai preso tutto da tuo padre, mica sei come me che alla tua età ero un topino”.
Era orgogliosa del fatto che non fossi come lei, mia madre. Mi porse questa scatola di cartone un po’ ammaccata e consumata dagli anni, e dentro c’era quel vestito, quel vestito che non scorderò mai perché fu il primo che ebbi, la prima volta che mi sentii davvero una ragazza. Era un semplice vestito blu con un fiocco bianco sotto il seno e le spalline larghe, con quella gonna morbida in pizzo che scendeva fino a metà coscia. Era bello, da signorina bene, e magari non mi si addiceva quella definizione, ma per una sera avrei potuto fingere. Lo presi tra le mani sorridente ed emozionata, sfiorandolo con la delicatezza che si riserva alle cose preziose, quelle che non vuoi toccare troppo, che non vuoi rovinare.
“Allora? Vallo a provare, svelta!”. Non che ci fosse bisogno di dirmelo. Mi nascosi dietro l’anta dell’armadio e sfilai in fretta canottiera e shorts sporchi, e indossai quel vestito con la sensazione di star vivendo qualcosa di importante, qualcosa di nuovo. Avevo quattordici anni ed ero un maschiaccio, una ragazza che di femminile non ha un bel niente, e sapevo che nella vita non era un vestito elegante a fare la differenza, ma per una volta mi sentii una persona normale. Non ero più Beth l’egoista, Beth la scostumata, quella “dei palazzi”, quella cresciuta da sé, in mezzo alla polvere e la miseria. Per una volta avrei potuto essere qualcun altro, una persona diversa. Una persona migliore.
“Come sto?” sussurrai appena tornai davanti ai due, abbassando lo sguardo sulle mie gambe pallide e coperte da lividi e cicatrici, segni di vecchie botte e cadute. E mia madre sorrise di nuovo, e nel suo sorriso io ebbi la possibilità di vivere i suoi ricordi, e in quella quattordicenne che ormai sforava il metro e settanta che ero lei rivide sé stessa, mentre si affacciava timida e timorosa alle porte dell’adolescenza. Non come me, che le porte dell’adolescenza avrei voluto tirarle giù a suon di calci. Mi si posizionò vicino, prendendomi una mano per farmi piroettare.
“Sei bellissima, Beth” e per una volta, bella mi ci sentii davvero.
“Ash?” chiesi poi, rivolgendomi al mio migliore amico, che per tutto il tempo era rimasto appollaiato in un angolo del letto, in silenzio. Non l’avevo ancora notato, ma stava sogghignando. Le labbra gli tremavano e presto non ce la fece più a trattenersi, e scoppiò a ridere, rideva senza ritegno, mantenendosi lo stomaco.
“Che c’è? Faccio così schifo?” sbottai amareggiata, ma sempre con il mio tono rabbioso. Non ci riuscivo proprio a non fargli la guerra. E lui scosse la testa, cercando di tornare serio, ma continuando comunque a ridere.
“No, no. È che sei strana Beth. Ti vedi? Sembri una bambola infiocchettata”.
“Non è un male sembrare una bambola, Ashton”
“Sì ma tu non vai bene. Sei ridicola, togliti quel coso, è solo un vestito”.
Tu non vai bene. Furono quelle le parole che mi rivolse, facendomi sentire il peso di mille aghi che mi trafiggevano il petto. Tu non vai bene. E lo so che non vado bene Ashton, è una vita che me lo sento dire, ma se lo dici tu fa un altro effetto, non lo so perché, se lo dici tu è reale, e mi sento inadeguata così come sono, sbagliata come non sono mai stata.
“Vaffanculo Ash, se non vado bene io non vai bene neanche tu, ché ti diverti a fare tanto il superiore ma poi sei tale e quale a me: sei una bestia, non hai sentimenti” sbraitai, e con un gesto secco mi sfilai il vestito, quello stesso vestito che adesso mi sembrava contaminato. Non mi vergognai di mostrarmi in intimo davanti ad Ashton, ormai mi aveva vista tante volte che il mio corpo lo conosceva a memoria. Ci eravamo trovati, respinti e poi pian piano studiati, fino ad avvicinarci un po’ per volta, sempre un po’ in più. Fino a quel punto in cui indietro non si torna, in cui il mio sangue era il suo e viceversa. Per quel motivo quelle parole fecero così male. Lasciai la camera senza aggiungere altro, rivestendomi in fretta e correndo fuori da quella casa, che non avrei potuto sopportare di stare lì un minuto di più.
 
 
 
 
 
Io ad Ashton non feci conoscere mai Michael.
Lui era il mio segreto, lo vedevo così, come qualcosa da tenere nascosto agli occhi di tutti, da custodire gelosamente. Mike, così lo chiamavo, era bello. Aveva compiuto i sedici anni da poco ed era cresciuto ancora, superava il metro e ottanta, ma la sua faccia era sempre la stessa. Aveva quegl’occhi che sembravano scannerizzarti, chiari quanto impenetrabili. Non si faceva trovare impreparato Michael. Mica potevi capirlo, cosa pensava. Dovevi aspettare e sperare che fosse lui a decidere di uscire dal suo guscio, di mostrarsi a te, di renderti parte del suo piccolo mondo privato.
Passavamo tanto tempo insieme, io e lui. Ashton era geloso e questo si capiva, ed io per ripicca stavo con Michael ancora di più. Mi piaceva che fosse geloso, mi piaceva vedere che stesse male per me. Così capiva che io da lui potevo scappare, potevo andarmene quando volevo, e lui non poteva fare niente per impedirlo. E questo ad Ashton faceva paura. Io lo sapevo, che tanto lui poteva insultarmi, offendermi e scacciarmi quanto voleva, ma alla fine sempre da me sarebbe tornato. Lui aveva paura di perdermi, io no. Io sapevo che Ashton non sarebbe durato mezz’ora senza di me, e usavo questa cosa contro di lui. Avevo quattordici anni e non capivo il male che gli facevo, non capivo la cattiveria dei miei gesti, io volevo solo che Ashton si attaccasse ancora di più a me, volevo sentire che per qualcuno ero importante al punto di essere geloso di chiunque mi si avvicinasse. Non capivo che io, quel desiderio malsano, lo avevo sviluppato per sentirmi ricambiata. Perché quelle, quelle erano esattamente le stesse cose che provavo per Ashton. Non avevo paura che lui se ne andasse, ma ero gelosa marcia di chiunque gli si avvicinasse troppo. Ashton era mio. Neanche a Rebecca permettevo di stringersi troppo a lui, avrebbe potuto complicare le cose. Però intanto io stavo con chi mi pareva e piaceva. Lasciavo Ashton con Jamie giornate intere e poi passavo la mattinata in giro per i quartieri con Michael, era estate e faceva caldo, e non avevamo niente di meglio da fare. Le nostre giornate scorrevano tra gli allenamenti ai campetti, tra il suo appartamento che poi era anche quello di Andrew, e il cortile sul retro del mio palazzo. Ogni tanto fumavamo anche, insieme. Non era capitato spesso perché i miei genitori non mi avrebbero mai dato i soldi per le sigarette, non mi avrebbero mai permesso di spendere così ciò che loro racimolavano lavorando duramente. Mamma aveva anche il diploma, eppure era una semplice cameriera in un bar. Papà aggiustava le tubature. Però a volte Michael qualcosa in tasca lo aveva, e allora comprava sigarette per entrambi o, se ci andava, l’erba. Da noi l’erba la potevi chiedere a chiunque, spacciavano tutti, lì. A me stava bene fumare, e se Michael voleva spendere così i suoi risparmi poco male, erano problemi suoi. Non gli chiesi mai come guadagnasse quei soldi, anche se i lividi sempre più evidenti sul suo corpo giorno per giorno mi suggerivano qualcosa.
Ma io negavo tutto, negavo ogni idea mi passasse per la testa, e inconsapevolmente facevo esattamente ciò che mi ero ripromessa di non fare.
Lasciavo che la paura avesse la meglio sul resto.





#Chiara's corner.
Ciao!
Penso davvero di dovermi scusare per questo capitolo! L'ho scritto decisamente in fretta e furia stamattina e... be', questo è il risultato!çç. A me personalmente non piace molto, anche perché volevo dare ad Ashton un ruolo più centrale, ma dal prossimo lo avrà di sicuro. Nel prossimo vedremo anche di più Rebecca, la cara Rebs, e scopriremo qualcosa di abbastanza importante nella storia. Intanto vi lascio con una domanda: secondo voi Michael come se li procura i soldi per il fumo?
Sono curiosa di sentire le vostre teorie!
E nulla, come sempre vi ringrazio per le vostre recensioni che, davvero per me sono importantissime!(: E' solo grazie a voi se siamo secondi in uno dei settori delle popolari. Però anche voi lettori silenziosi... fatevi sentire ogni tanto, giuro che non mordo!lol
Hahah detto ciò vi lascio e vado a ripetere un po' prima di pranzo (studere, studere, post mortem quid valere?!).
A presto!!
Chiara.xx


 


Twitter: @_fadetogray

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Capitolo 6
*** I don't care about tomorrow. ***


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Quando avevamo quattordici anni, Ashton ed io avevamo preso l’abitudine di marinare la scuola. Jamie ci minacciava, diceva che lo avrebbe detto ai nostri genitori; noi ridevamo e facevamo sempre di testa nostra. E alla fine lui stava muto, mica la faceva davvero, la spia con i nostri. Dopo tanti anni lì dentro aveva imparato il concetto di onore e lealtà che solo quelli come noi hanno, un concetto piuttosto labile a dire il vero, che tiravamo fuori solo quando ci faceva comodo.
Rebecca spesso e volentieri stava con noi, durante quei momenti proibiti. Ai quattro palazzi c’era stata una novità nell’ultimo mese di estate: la mia amica si trasferiva. I suoi genitori avevano scoperto che in realtà non c’era nessuna Beth che abitava nella campagna di Melbourne, erano venuti a sapere che in realtà “Beth” veniva da quel posto che loro evitavano come la morte, da quei palazzi scalcinati, quel luogo perennemente impregnato dall’odore dell’immondizia e della polvere da sparo. Il posto al quale loro erano sfuggiti per un pelo.
Rebecca non si era vista un giro per un po’, e noi non sapevamo più niente di lei. Non avevamo cellulari, o computer come i nostri coetanei. L’unico computer in casa mia era un portatile risalente alla preistoria, ma era di mio padre. Roba privata, uno di quegli oggetti che noi non potevamo toccare. Eravamo bestie, noi, mica ragazzini normali: a toccare ciò che non ci apparteneva, rischiavamo di distruggerlo.
Quando una sera di fine estate la mia amica si era presentata a casa mia, quindi, avevo già capito che qualcosa non andava. Aveva gli occhi rossi di pianto, Rebecca, e il suo viso era dimagrito, più pallido del solito. Le ballerine che portava ai piedi adesso non erano più immacolate, erano sudice, come le strade di quel posto che, alla fine, aveva finito per inglobare anche lei.
Non aveva detto niente, si era limitata ad osservarmi per un tempo che mi era parso infinito, poi era scoppiata a piangere e a me era sembrato che mi stessero strappando l’anima in mille pezzi. Avevo imparato a riconoscere il pianto di chi cade e sa che da ora in poi risalire sarà quasi impossibile: erano lacrime che troppo spesso avevo visto sul viso di mia madre, su quello di Ashton e, a volte, anche sul mio. Conoscevamo la sensazione che si prova a toccare il fondo, quel dolore sordo, come un macigno che ti preme sul petto e man mano si allarga, e tu non puoi respirare e allora piangi, piangi e vorresti farla finita, che se quella è la vita allora forse non vale la pena di viverla. Nel 99% dei casi non si risaliva, da quel buco nero. E quell’1% lo lasciavamo giusto per i miracoli. Da quando Rebecca viveva lì dai nonni, le cose erano cambiate. Ce ne andavamo in giro per intere mattinate, da un cortile all’altro, ai campetti, ai vicoli più nascosti. Di farci vedere in giro non avevamo paura: i nonni di Rebecca le lasciavano libertà di scegliere se frequentare o no la scuola, e i miei genitori erano a lavoro. Ma anche se ci avessero visti, non temevamo la loro reazione. Erano loro, semmai, a doversi preoccupare di come avremmo reagito noi.
“Spagnolo, latino, fisica, chimica… tutte stronzate. Ti pare che Kurt Cobain andasse a scuola? Certo che no. Si è ritirato a sedici anni, eppure vedi dove è arrivato. La scuola non serve a un cazzo, Beth: è la vita vera a renderti una persona saggia, e all’intelligenza ci pensa il caso. A me di sapere come gli aeroplani riescono a star su non me ne frega un accidenti” ripeteva spesso Ashton mentre, seduti in un angolo nel cortile del palazzo di Rebecca, discutevamo su quello che avremmo voluto fare dopo.
Era un concetto strano per noi, quello del dopo, qualcosa di astratto, che non ci apparteneva. Rebecca era convinta che avrebbe finito il liceo e poi si sarebbe accontentata, non aveva più aspirazioni, lei. Si era vista strappare via brutalmente la sua vecchia vita e con essa tutti i suoi sogni, e la forza di reagire di sicuro non ce l’aveva.
Per noi era diverso. Ashton ed io, di aspirazioni, non ne avevamo mai avute.
Lui voleva ritirarsi, avrebbe aspettato giusto quei due anni che erano d’obbligo, poi avrebbe detto addio per sempre alla scuola. Aveva fretta di lavorare, Ashton, lavorare e mettere da parte i soldi. Sognava già la sua famiglia, era convinto che lui non avrebbe mai abbandonato i suoi figli, li avrebbe trattati sempre bene, li avrebbe fatti sentire amati. E allora io dovevo ricordargli che era un povero illuso, se credeva di trovare un lavoro decente senza neanche avere il diploma. Però non insistevo troppo, perché in fondo capivo i suoi pensieri. Ashton si era lasciato marchiare a fuoco dall’abbandono dei suoi genitori, e per quanto fingesse di aver dimenticato, dopo tanti anni, lui ancora ci stava male.
Io, dal canto mio, desideravo andare via.
Scappare, fuggire, lasciare quel posto. Finire il liceo, e poi chi lo sa, continuare o lavorare, ma lontano da lì. Volevo farmi una vita in un posto diverso, con persone diverse, ma questo non lo dicevo mica ai miei amici. Vedevo la paura negli occhi di Ashton ogni volta che esprimevo ad alta voce, quasi inconsapevolmente, il mio desiderio di andare via.
Ma se avessi dato ascolto a lui, io in quel luogo ci sarei rimasta incatenata.
Ad Ashton non importava del fatto che un giorno si sarebbe sposato, avrebbe trovato qualcuno, lui era convinto che quel qualcuno già ce l’aveva, ed ero io. Me lo aveva confessato senza vergognarsi una sera di settembre, mentre sedevamo attorno alla tavola, piluccando gli avanzi del pranzo che i miei ci avevano lasciato come cena.
“Beth, tu ci pensi mai a quando anche noi saremo adulti?” aveva detto con la sua voce tremolante, senza alzare gli occhi dal piatto. Io avevo risposto alla stessa maniera, annuendo.
“Spesso. Perché?”
“Non ti fa paura il pensiero?” mi aveva chiesto quasi titubante, come impaurito dalla mia potenziale reazione. Io però non feci una piega: c’era qualcosa che non andava in lui, lo notavo dai suoi gesti, dalle sue parole, non avevo voglia di tormentarlo.
“Niente affatto. Perché dovrebbe? Io se penso ad una me adulta, penso ad una me lontana da qui, e questo mi basta per non avere paura” risposi sovrappensiero, riprendendo a mangiucchiare controvoglia quella sottospecie di passato di verdure. E lì avevo sentito il cucchiaio di Ashton tintinnare contro il piatto, e la sua sedia strusciare violentemente contro il pavimento. Lui era scattato in piedi e mi aveva guardato smarrito, con un’aria sconvolta, impaurita.
“No. Tu non mi lasci da solo qui, hai capito? Tu non puoi Beth, non puoi” mi guardava con quella faccia e intanto scuoteva la testa, faceva paura, sembrava posseduto.
Mi alzai per fronteggiarlo, inarcando le sopracciglia.
“Ah sì? E chi lo ha deciso, Ash? Tu?” ribattei con aria di sfida, mentre i miei buoni propositi di non bistrattarlo andavano tranquillamente a farsi un giro.
In quel momento accadde quello che non avrei mai immaginato sarebbe accaduto proprio a me, Bethany, Beth, la ragazza dei quattro palazzi. La ragazza dalla quale la gente, di solito, si guardava.
Ashton scattò in avanti e, con una forza che non immaginavo possedesse, mi arpionò le spalle e mi portò vicino a lui, facendo scontrare i nostri corpi quasi con violenza, facendoli cozzare come loro solito.
Chinò la testa sul mio viso sconvolto e, in un attimo, le sue labbra furono sulle mie.
Fu un bacio rude, il suo, non sapeva neanche lui cosa fare e si vedeva, ma era solo un ragazzino di quattordici anni, e non voleva perdere anche me, aveva già perso troppo, la vita gli aveva tolto tutto, non gli rimaneva altro che quella fiducia che, puntualmente, lui riponeva nelle persone sbagliate.
Non fu romantico o sentimentale, il mio primo bacio, non ci fu nessuno scontro di lingue, non ci fu niente di calmo in tutto quello. Ci furono denti, morsi, e labbra premute, e i miei occhi spalancati fissi sui suoi, forzatamente chiusi; ci furono le mie mani a tirargli quasi con forza quei capelli crespi e ricci che si ritrovava, e le sue che ancora stringevano le mie spalle; ci fu un mare d’inesperienza e di insicurezza in mezzo, e in questo mare l’unico punto fermo eravamo noi, noi e le nostre labbra incollate, noi e le nostre urla taciute.
Si staccò dopo un po’, Ashton, allontanandosi appena.
“Io senza te non ci so stare, quante volte te lo devo dire?” mormorò, aggiustandosi la bandana nera tra i capelli. “Io sono sicuro che tu sarai la mia prima volta per tutto, Beth, che tanto lo so, io e te non possiamo essere divisi. Dimmi quello che vuoi, ma io se penso a me adulto, mi vedo con te al mio fianco”.
Aveva detto questo e poi era andato via di corsa da quella stanza, e aveva sbattuto la porta di casa così forte che non ero riuscita a sentire i suoi passi pesanti per le scale, anche se me lo immaginavo, mentre le saltava a due a due e correva verso l’appartamento del piano di sotto.
Ed io rimasi lì in quella stanza come una stupida, e tutto quello che riuscì a fare fu sfiorarmi le labbra con due dita, mentre un calore a me estraneo prendeva possesso delle mie guance, ed una sensazione insolita mi scombussolava tutto dentro.
Io non amavo Ashton, lui era impossibile: impossibile da trattare, impossibile da capire, impossibile da salvare.
Non lo amavo ma, in quel momento, pensai che avrei potuto mettere da parte me stessa per lui.
Pensai che sarei potuta rimanere in quel luogo che tanto odiavo, per lui.
Io non lo amavo, ma allora perché mi sentivo così?



#Chiara's corner
Buonasera!
*nascosta*.
Sono in un ritardo imperdonabile, lo so.çç
Sono pessima! Mi spiace così tanto:c di solito sono piuttosto veloce ad aggiornare, stavolta però la scuola mi ha letteralmente travolta, quindi scrivere/postare questo capitolo è stato un vero parto (ed, effettivamete non so cosa ne sia uscito. Doveva essere un capitolo importante ed invece è venuta fuori questa mezza cacchina, vabeh).
Comunque, so che è anche un po' corto ma credetemi, è stato difficile già scriverlo così com'è senza allungarlo ulteriormente. Mi serviva per la narrazione, comunque, e nel prossimo ritroveremo anche Michael e, surprise, Andrew! Dopotutto Beth e Michael praticano ancora la boxe, no? Avrà anche un motivo questo sport!
Detto ciò ringrazio chi recensisce, segue, preferisce o ricorda la storia: credetemi, non passate inosservati!
Per chiunque mi abbia chiesto di leggere le proprie fanfiction, e per coloro dei quali seguo qualche storia: entro domani pomeriggio mi vedrete, promesso!
Vi mando un abbraccio forte, spero non mi abbiate abbandonata!
Chiara.xx

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Capitolo 7
*** It's you. ***


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Arrivarono i miei quindici anni, insieme ai quindici anni di Ashton, a quelli di Rebecca.
Con essi arrivarono anche i sedici, e a quel punto le cose avevano già cominciato a cambiare, anche se io non me ne resi conto subito.
Rebecca, più di tutti, era cambiata.
Vivere due anni lì l’aveva fatta maturare più in fretta, aveva plasmato il suo carattere e anche il suo aspetto. I suoi capelli, che un tempo le ricadevano lunghi e sempre ordinati sulle spalle, erano stati recisi: al loro posto, un caschetto un po’ sformato le metteva in risalto il viso rotondo, facendola sembrare più piccola di quanto non fosse. Anche i suoi vestiti erano cambiati: dalle gonne chiare e stirate di fresco, le camicette ed i nastri, era passata a dei jeans anche di quarta mano, e delle t-shirt comprate a poco prezzo al mercatino della domenica. Anche i suoi sorrisi erano più rari, però. Sorrideva di meno e si lamentava di più, sbuffava in continuazione, alzava gli occhi al cielo e strepitava. A volte le rispondevo male, discutevo anche animatamente con lei. Altre volte invece la forza di litigare proprio non ce l’avevo, allora mi limitavo a mandarla a farsi fottere e ad andarmene via.
Non riconoscevo più quella ragazza che era diventata.
Se incrociavo anche per caso i suoi occhi verdi, io non vedevo nulla di quella che un tempo era stata la mia migliore amica.
Quel posto aveva cambiato anche lei, alla fine, e l’aveva fatto nel peggiore dei modi: rendendola una persona insoddisfatta della propria vita.
Io non sopportavo le persone così, forse perché a me avevano insegnato che niente scende dal cielo, ma non le sopportavo, le sue lamentele continue.
Era diventata una stronza apocalittica Rebecca, una da prendere a schiaffi, che se ti guardava con quel sorrisetto falso sulle labbra allora tu non potevi fare altro che urlarle contro, ma a lei sembrava non importare. Non le importava se dopo anni aveva lasciato anche lei il liceo, non le fregava di star mandando a puttane la sua vita. Era una persona svogliata, Rebecca, lei vedeva solo sé stessa.
Da un anno a quella parte, poi, c’era stata un’altra novità. Lei ed Ashton si erano fidanzati. Era successo così, per caso, iniziando con un bacetto innocuo a stampo e finendo anche a letto, e tutto questo senza dirmi niente, alle mie spalle, nel modo più meschino che esistesse. Finché, un giorno, non sentii le voci che giravano.
“Oh, ma che, Beth ancora non sa di Ashton e Rebs?”
“No, ti pare? A quest’ora avrebbe già alzato un casino da smuovere mari e monti, se l’avesse saputo. No, non le hanno detto niente”
“Ci voglio credere! E conoscendola, Beth, forse hanno fatto la cosa migliore”.

Quando avevo sentito quelle parole mi ero congelata sul posto, avevo sentito il freddo, un freddo strano, e subito dopo la paura.
Non volevo credere alle parole che avevo sentito.
Non ci credevo, anche se a pronunciarle erano state Anne e Veronique, le uniche altre ragazze della nostra età ad abitare in quel quartiere.
Non volevo crederci perché, semplicemente, questo avrebbe significato che le due persone di cui più mi fidavo al mondo mi avevano tradito.
Mi avevano mentito, pugnalandomi alle spalle in maniera spietata, senza neanche curarsi di chiedersi io come avrei potuto starci.
Beth era egoista, dicevano.
Io non sono egoista, avrei voluto rispondere.
Non sono egoista, ma ho imparato che qui, se non ci penso io a salvare me stessa, nessuno lo farà.



Mi ritrovai quasi a prendere a pugni la porta di casa di Ashton, a sfondarla con i calci, come a volerla buttare giù. E ad aprirmi ci fu lei, venne lei con quell’espressione perennemente scocciata, e quel “Sei tu” mormorato a mezza bocca che mi fece più rabbia di ogni altra cosa. La scansai senza troppe cerimonie, sentendo che se non mi fossi allontanata in quel momento avrei potuto benissimo prenderla a schiaffi.
Preferii dirigermi verso la stanza di Ashton, quel percorso che ormai sapevo a memoria, e lui era lì, seduto tranquillamente sul suo letto, come se non fosse successo niente. Come se non mi avesse mentito per tutto quel tempo.
“Oh, Beth, che è successo? C’hai una faccia che fa paura, sembri stravolta”.
“Chiedi a me cos’è successo, Ashton?” sbraitai a voce alta. “A me lo chiedi? Sei solo uno stronzo! Fatti un esame di coscienza, vedi tu cosa può esserci che non va”.
Lui si strinse nelle spalle, non rispondeva, ma io non avevo intenzione di cedere. Gli puntai il mio sguardo fisso addosso finché non si decise a farsi sentire.
“Io non lo so cos’è che hai, e sinceramente non voglio saperlo. Anche io ho i cazzi miei Beth, ti ho capita che come al solito hai solo voglia di urlare e litigare”.
Quella frase mi fece salire il sangue al cervello.
“Hai i cazzi tuoi, è vero, e ti aiuta quella puttanella a risolverli!” urlai, e senza neanche fermarmi a riflettere mi accanì contro di lui. Lo presi a pugni, schiaffi, morsi. Mi avevano insegnato che era così che si faceva la giustizia, ed io mi stavo solamente prendendo ciò che mi spettava. Lo graffiai fino a vedere le sue braccia sanguinare, lui mi tirava i capelli, cercava di fermarmi, ma non ci sarebbe mai potuto riuscire. Ero furiosa, non sentivo niente se non la mia rabbia, il mio astio, tutto l’odio che covavo e che era il motore della mia vita. Sperai di fargli male, ma male davvero, perché il dolore che provava fisicamente non sarebbe mai stato neanche un quarto di quello che provavo io moralmente.
Era cresciuto con me come un fratello, Ashton, aveva preso la parte migliore di me in tutti quegli anni ed io, anche se restia, gliela avevo concessa senza particolari lamentele. Era stato il mio migliore amico, l’unica persona che sarebbe mai stata in grado di farmi davvero male, era stato al centro del mio mondo per tanto di quel tempo che avevo perso il conto. Ed io neanche me ne ero resa conto in tutti quegli anni, lo maltrattavo, lo lasciavo da solo, ridevo delle sue insicurezze senza capire che ero io, in realtà, ad avere bisogno di lui. Lo davo per scontato e lui se ne era scappato appena ne aveva avuto la possibilità, mi era scivolato tra le dita senza che me ne accorgessi, mi aveva fatto male.
Aveva avuto il meglio di me e poi, quando non c’era stato altro di nuovo che potessi regalargli, mi aveva lasciata in un angolo come una macchina fotografica usa e getta. Ed io ero rimasta lì a cercare di trovare qualcosa di buono in me, qualcosa che lui non fosse riuscito a portarmi via, ma non ci riuscì. Non trovai nulla di buono in quei sedici anni fatti di odio e di rassegnazione che ero.
“Sei uno stronzo! Sei uno stronzo, ed io ti odio!” urlai un’ultima volta, prima di accasciarmi su me stessa e scoppiare a piangere senza freni.
Rebecca era lì che sosteneva Ashton, mi guardava dall’alto in basso come si guarda qualcosa di spiacevole, indesiderato.
“È inutile che frigni, Beth, la prossima volta impari che le persone non sono giocattoli. Nessuno ti appartiene, e tu non puoi decidere al posto degli altri” mi rinfacciò crudelmente, senza un minimo di pietà.
Quello che successe dopo non lo ricordo bene. Ci furono i miei genitori, accorsi dal piano di sopra a causa del rumore.
Ricordo le braccia di mio padre che mi avvolgevano, mi sollevavano da terra, e la sua voce che intimava ad Ashton di non farsi rivedere per un lasso di tempo prossimo al “per sempre”, se teneva alla propria vita.
Non feci molto caso a quello che successe da quando mio padre mi sollevò, lasciando che gli inzuppassi la maglia con i miei singhiozzi, ma una cosa non la dimenticherò.
Lo sguardo ferito di mia madre e, soprattutto, quello perso di Ashton.
Mi guardava come avrebbe potuto guardare il Paradiso dall'esterno, sapendo di non poterci più entrare.






#Chiara's space
Salve!
Questa volta almeno sono in tempo, dai.
So che questo settimo capitolo è corto, avevo anche pensato di allungarlo a dire il vero, ma poi sarebbero uscite... be', qualcosa come sei/sette pagine di Word!hahah Quindi, anche se a malincuore, ho dovuto dividerlo.
Che dire... il capitolo non vede Michael - che però sarà presente nel prossimo! - ma è incentrato su Rebs, su Beth e, soprattutto, su Ashton. Che quei due son stati divisi, Rebecca è cambiata ed è diventata il motivo del loro allontanamento, ed ora entrambi sentono di aver perso una parte fondamentale. Perché Ashton senza Beth non ci sa stare, ma neanche Beth sa andare avanti senza del suo migliore amico.
Ora che dire, spero di vedervi nelle recensioni di questo capitolo, voglio solo chiedervi un favore: non abbandonatemi adesso! La scuola purtroppo blocca un po' il ritmo di aggiornamento che ho di solito, ma prometto che, a costo di postare di notte, io Remember Me non l'abbandono. Questa storia ha un significato particolare per me, quindi state tranquilli che non me ne vado.
Vi ringrazio tantissimo come sempre per il supporto, e vi mando un abbraccio fortissimo!
Chiara.xx


 

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Capitolo 8
*** Broken people. ***


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Che rumore fa, qualcosa che finisce?
Qualcosa che è sempre stato e poi, di colpo, cessa di essere.
Che rumore fa un cuore che si ferma, per poi ricominciare la sua corsa malfermo, lentamente, controvoglia? Che rumore fa una persona quando crolla? E che rumore fanno i suoi occhi? Perché una persona può mentire quanto vuole ma i suoi occhi, gli occhi fottono sempre.
Così era stato anche per me. Avevo passato sedici anni della mia vita a tentare di tenere insieme una persona che poi, alla fine, aveva fatto a pezzi me.
Ed io, semplicemente, ero crollata.
Come crolla un castello di carte al primo soffio, ero caduta al suolo, distrutta. E non avevo fatto rumore. E allora come si fa, se non fai rumore?
Se sei distrutto e nessuno se ne accorge, e allora ti ritrovi tra le tue macerie da solo, come si fa? Se non fai rumore la gente mica lo nota, che è successo qualcosa.
Se c’era una cosa che avevo capito, in quei sedici anni passati ai palazzi, era proprio questa: la gente è cieca. Sente i rumori, se sono abbastanza forti, ma non vede.
Perché niente può contro la forza di volontà, e se è vero che “non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire”, io dico che non c’è peggior cieco di chi non vuol vedere.
Perché ci vedevano, me ed Ashton divisi.
Mi vedevano, mentre me ne andavo per le strade da sola, mentre girovagavo anche di notte, consapevole che avrebbero potuto benissimo farmi anche fuori, a stare in giro a quell’ora.
E vedevano Ashton, sempre attaccato al culo secco di Rebecca che quando m’incontrava voltava la faccia. Ma lui no, lui aveva anche la faccia tosta di piantarmi addosso il suo sguardo verdastro, quello sguardo duro, che mi accusava di averlo abbandonato.
Quanto ci stavo male io, quando quegl’occhi incrociavano anche per sbaglio i miei, nessuno poteva capirlo.
Erano sguardi che duravano attimi, ma che a me sembravano sempre lunghi un’eternità. Poi i suoi occhi tornavano a rivolgersi a quelli di Rebecca, più chiari dei miei e meno tormentati. In quei momenti, che ci trovassimo per strada, nel palazzo o fuori al cortile, io scappavo via. Correvo, fuggivo come solo una vigliacca avrebbe saputo fare, e mi rintanavo in qualche angolo. A volte, se ero in vena, andavo da Michael.
Il problema era che Michael mi capiva fin troppo, alle volte, lui poteva essere chiuso quanto voleva ma io no, io ero un libro aperto per lui. Gli bastava guardarmi in faccia con i suoi occhi che parevano scannerizzarmi per capire ogni cosa di me. Avevo imparato ad odiare questo lato di lui. Ormai non facevo altro, io, odiavo, ero incazzata e non potevo sfogarmi, e l’unica via di fuga era l’odio.
L’affetto, l’amore, la felicità, io neanche sapevo cosa fossero.
Ma di odio, di odio ne avevo a quantità industriali.
Non sopportavo questa cosa di Michael perché mi faceva pensare ad Ashton, perché io da Mike non potevo sapere nulla che non volesse dirmi, mentre lui poteva avere su di me qualsiasi informazione desiderasse. Anche lui, senza volerlo, prendeva senza mai dare. Così facevano le persone, con me.
Prendevano, prendevano, prendevano.
Quando poi mi prosciugavo, mi gettavano in un angolo.
Ed io mi ritrovavo più sola di prima. E quando, finalmente, ritrovavo la forza di rimettermi in piedi e ricominciare a costruire qualcosa, puntualmente c’era qualcun altro che pretendeva. Ed io come una cretina non mi ribellavo, no, lasciavo che di me facessero quello che volevano. Che io sapevo urlare, sapevo gridare con quanta forza avessi in corpo, sapevo picchiare e scalciare, ma alla fine ero tutto fumo e niente arrosto.
I frutti dei miei sforzi, quelli se li godevano gli altri.
Io però a Michael volevo bene.
Era il mio migliore amico ed aveva diciotto anni, e lui non aveva bisogno di pretendere, perché gli avrei dato qualsiasi cosa. Che lui era solo, ed ero sola io, e questo non sarebbe mai cambiato, ma a stare soli insieme qualcosa migliora. Ci facevamo forza, io e lui, ci guardavamo in faccia e cercavamo di nascondere tutta la nostra paura, la paura di due ragazzini catapultati in un mondo più grande di loro, la paura di restare soli per sempre.
 
 
 
 
 
 
Ricordo che ci fu un giorno, uno che non scorderò mai, la data non me la ricordo nemmeno ma non è importante, perché quello che conta è quello che successe.
Michael venne a bussare a casa mia che erano le cinque di mattina, ed io ero sveglia, altrimenti col cazzo che l’avrei sentito. Bussava così piano che sembrava quasi timoroso di farsi sentire, quasi come se non avesse voluto che quella porta si aprisse.
E, se avessi saputo cosa mi aspettava, probabilmente non lo avrei voluto neanche io. Mi tirai giù dal letto attenta a non svegliare Jamie e poi indossai una giacchetta di lana sulla vestaglia da notte, prima di aprire la porta senza neanche controllare dallo spioncino.
E c’era lui, lì, in piedi ma con una smorfia sul viso, una mano premuta su un fianco, il fiato corto. Il suo viso era vitreo, più bianco del solito, e più bianchi di così non ci si poteva essere, se eri un essere vivente.
Il problema era che, in quel momento, Michael non sembrava un essere vivente.
“Mike, che cazzo hai?!” gli chiesi, e la voce che rimbombò per la tromba delle scale aveva un che di macabro. Non capivo perché si tenesse il fianco, non capivo perché fosse così pallido. Mi sarei data mentalmente della stupida più volte, dopo, ma in quel momento non capivo niente. O forse, come mio solito, non volevo capire.
Spalancò gli occhi, quasi come se il suono della mia voce l’avesse spaventato, e poi cercò di parlare con una smorfia di sofferenza.
“Beth… Ah… io…” tentò di dire, ma era palese che non sarebbe riuscito a parlare. Gli mancava il fiato, aveva l’affanno, neanche avesse corso per kilometri, fermandosi poi davanti alla mia porta di casa. Inarcai le sopracciglia perplessa e preoccupata, e fu in quel momento che la sua mano pallida si spostò, scoprendo il fianco.
Tutto ciò che vidi in quel momento arrivò distorto alla mia mente.
I vestiti erano squarciati, lerci, imbrattati di sudiciume, e sul suo fianco pallido c’era una ferita lunga e, a giudicare dal sangue che ne usciva, anche profonda. La pelle attorno ad essa era arrossata e lucida. Michael fu attraversato da uno spasmo, e di nuovo una sua mano scattò a mantenersi il fianco, stavolta l’altra.
Il suo viso era bianco, stravolto, i capelli attaccati alla fronte e madidi di sudore.
E le sue mani, Cristo, le sue mani di solito diafane erano lorde di sangue, quel sangue che continuava a sgorgare da quel taglio irregolare, senza volersi fermare.
Spalancai la bocca, ero convinta che avrei urlato.
E invece non uscì niente. Semplicemente mi spinsi contro di lui, lo costrinsi a sedersi sulle scale, gli scostai le mani dalla ferita. Poi corsi in casa a recuperare la cassetta del pronto soccorso, e di nuovo fui da lui.
Non ero bravissima, ma qualcosa sapevo fare.
Non era un posto sicuro, quello, quindi avevo dovuto imparare in fretta le nozioni di base del pronto soccorso. Che un giorno mi sarei potuta ritrovare mio padre, mio fratello, persino mia madre magari, in condizioni come quelle in cui si era presentato Michael, e avrei dovuto sapermela cavare.
Disinfettai la ferita, ci versai quasi un’intera bottiglietta di acqua ossigenata. Poi bagnai un pezzetto di cotone, e presi a tamponarla con quello fin quando la fuoriuscita di sangue non si fermò.
Merbromina, aspettare che si secchi, poi ago e filo per ricucire il taglio.
Michael non disse una parola. Strinse i denti per tutto il tempo, facendosi scappare solo raramente un verso di sofferenza. Non ero brava in quelle cose ma, se lo avessimo portato in ospedale, gi avrebbero chiesto come si era procurato quella ferita. E non ero tanto sicura che fosse un’informazione da poter rendere di dominio pubblico.
Certamente, gli avrei fatto anche io il mio interrogatorio.
Se credeva di presentarsi a casa mia con un fianco squarciato e pensava che me ne sarei stata buona e tranquilla, aveva sbagliato persona.
Ma Michael mi conosceva, a lui bastava guardarmi negli occhi per capirmi, quindi non ci fu bisogno di costringerlo a parlare. Dopo che lo ebbi medicato, ed ebbi buttato il cotone sporco e la bottiglietta vuota di acqua ossigenata, mi sedetti accanto a lui, in attesa che prendesse parola.
Michael sospirò con un’aria rassegnata, sapendo che stavo aspettando.
“Io sono un sicario, Beth” disse senza preamboli, con un’aria talmente sconfitta che per un attimo mi persi a cercare di interpretarla, non concentrandomi sul significato delle sue parole. Quando poi lo feci, però, sentii qualcosa sgretolarmisi dentro. Fu come un colpo al petto, una pugnalata, sentivo il metallo freddo contro le ossa, incastrato tra gli organi vitali. E faceva male. Tanto male.
“Mike…”
“No, aspetta” mi interruppe con decisione. “Fammi parlare. È così. Sono un sicario, Beth, e lo sono da quando avevo sedici anni. Non avrei dovuto dirtelo, ma lo avresti capito da sola. Lavoro per Andrew. Lui mi trovò quando avevo dodici anni ed ero ancora a Los Angeles, un anno dopo la morte dei miei in un incidente aereo. Mi avevano appioppato ad una casa famiglia, ma io me ne scappai. Immagino che mi abbiano cercato per anni, ma dopo un po’ archiviano tutti i casi. Non posso saperlo di sicuro, perché sono venuto qui con Andrew neanche un mese dopo la mia fuga. Quando lo incontrai ero appena un bambino, e girovagavo da qualche settimana. O meglio, stavo nascosto tutto il giorno, poi la notte uscivo e senza farmi notare derubavo le persone. Pensavo che sarei potuto andare avanti solo così. Purtroppo, però, incappai nella persona sbagliata. Tentai di derubare Andrew. Lo avevo notato perché era vestito abbastanza bene, e aveva quell’aria un po’ seria che, per un bambino piccolo come me, poteva significare solo altezzosità. Chissà perché, mi convinsi che una persona così seria dovesse essere per forza ricca. Lo seguii per tutta la serata, e lui mi notò, ma io non me ne resi conto. Poi, quando si fermò ad un telefono pubblico per un’interurbana, mi decisi ad avvicinarmi. Non avevo notato che lui era lì fermo senza dire niente, aveva solo appoggiato il telefono all’orecchio, senza neanche comporre il numero. Non avevo notato la sua postura rigida, o il fatto che mi osservasse con la coda dell’occhio. Mi avvicinai e, quando pensavo che ormai sarebbe andata bene, si girò di scatto. Mi guardò in faccia, poi scoppiò a ridere. – Ne hai di cose da imparare, ragazzo. Chi sei? – mi chiese. Non gl’importava che avevo cercato di derubarlo. Gli raccontai chi ero e cosa facevo, e lui mi prese con sé. Non mi disse subito ogni cosa di sé o del suo lavoro, aspettò di potersi fidare. Mi dava ogni volta poche informazioni, misurate col contagocce, fin quando non crebbi, legato a lui da un patto d’onore che non avrei potuto dissolvere. Allora, a quel punto, mi disse cosa faceva. Mi disse che avrei potuto guadagnare anche io, se lo avessi seguito. E una volta messo da parte il mio gruzzolo, me ne sarei potuto anche andare. A lui però servivano due braccia forti e giovani, Andrew è uno solo e, anche se si tiene in forma, il tempo non risparmia nessuno. Accettai. Avevo solo sedici anni, Beth, e adesso che ne ho diciotto ho capito che da cose come queste non se ne esce mai. Sono legato per sempre a lui per una questione di onore, lo stesso onore che mi ha fottuto anni fa”.
 
 
 
Ero rimasta in silenzio tutto il tempo.
Non era mai capitato che Michael si aprisse tanto, che raccontasse tanto di sé stesso. Peccato che tutta quella storia mi facesse venire solamente il voltastomaco. Mi ritrovai a piangere, ma la mia espressione rimase immutabile. Immobile, imperturbabile.
Più tardi avrei capito che, in quel momento, persino Mike fece fatica a capire cosa mi passava per la testa.
Poi improvvisamente lo abbracciai.
Lo abbracciai, stringendomi a lui come avrei potuto aggrapparmi ad un’ancora se fossi stata una naufraga in mezzo ad un mare in tempesta, affondando il viso nel suo collo, stringendo le mani attorno alla sua schiena. Feci attenzione a non fargli male ma lo strinsi ugualmente forte, quasi fino a non poter respirare.
Quella fu l’ultima volta che vidi Michael.
Dopo che se ne fu andato, arrivò la polizia ai quattro palazzi.
E quel bastardo di Andrew era scappato. Dove? Chi lo poteva sapere. Si era nascosto, ma Michael non ci era riuscito, aveva diciotto anni e tutta la furbizia e la scaltrezza che fosse riuscito a mettere insieme, anche se si credeva un uomo vissuto, non sarebbero mai bastate a salvarlo.
A volte va così, mi dissi.
A volte le persone si fidano, e lì sono fottute.
Era quello che mi ripetevo mentre osservavo il mio amico che, con le mani ammanettate dietro alla schiena, veniva portato via.
A volte, poi, capita che le persone si affezionino.
E lì si fregano due volte, si mettono con le mani nel sacco da sole.
Io a Michael mi ero affezionata.
Ma tutto ciò che amavo, prima o poi, mi abbandonava.
Avrei imparato con il tempo a non legarmi più a nessuno.
Sarei stata la mia unica compagna di vita.





#Chiara's space.
Mi aspetto di tutto.
Di essere battuta, bastonata, malmenata nelle peggiori maniere.
E me lo meriterei perché, dopo tutto il caos che sto infliggendo alla povera Beth, questo capitolo è stato il colpo di grazia. Mi è venuto anche abbastanza lungo, e mi dispiace per Michael, e per la fine che gli ho fatto fare. Purtroppo doveva andare così, è la regola dei quattro palazzi, di chi lì ci incappa e allora capisce di essere fregato.
Ringrazio come sempre voi che recensite, preferite, seguite o ricordate. Mi rende sempre felice vedervi o leggere le vostre parole, davvero. Ora vado, rispondo subito a tutte le vostre recensioni, ci vediamo la settimana prossima!
Chiara.xx

 

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