Destino

di Arepo Pantagrifus
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I. ***
Capitolo 2: *** II. ***
Capitolo 3: *** III. ***
Capitolo 4: *** IV. ***
Capitolo 5: *** V. ***
Capitolo 6: *** VI. ***



Capitolo 1
*** I. ***


In seguito a un sonno, quasi eterno e forse privo di sogni, mi risvegliai in questo luogo terribile. Non serbo memoria sul modo in cui lo raggiunsi, probabilmente (è il mio inconscio che me lo suggerisce) in qualche maniera piuttosto misteriosa e oscura. Fui destato dall’improvvisa presa di coscienza del mio corpo; non nelle dolci maniere delle carezze o dei soffi leggeri, ma nel modo brutale e fulmineo con cui gli incubi ti strappano il sonno. Fatto è che quando rinvenni non ricordavo più nulla, nulla della mia vita passata (per quanto mi sforzassi non vedevo che il vuoto), come se mi fossi risvegliato nel sogno e non dal sogno. Come se mille informazioni, notizie, dati, conoscenze e affetti mi si fossero cancellati dalla mente. Faceva un effetto curioso: era come se cercassi un oggetto perduto, che ero convinto ci fosse, ma che dopo un po’ che cerco, lentamente, ne comincio a dubitare. Così, nell’ignoranza, dubitavo: dubitavo di me, delle mie capacità, della mia memoria, dell’esistenza, della realtà... Sparito tutto: ero rimasto solo; senza nessuno da rimpiangere o da ricordare. Senza alcuna consolazione, né identità. Forse, più che un risveglio, fu per me quasi una rinascita. Una rinascita in un altro mondo ostile ed ingeneroso.

 Le primissime sensazioni che provai, ricordo, furono un’immensa stanchezza e un intorpidimento che mi recludevano qualsiasi movimento muscolare. Ancora impossibilitato a muovermi aprii con meravigliosa fatica le palpebre, rimaste finora saldamente sigillate. Attesi un po’, in modo che le mie indolenti pupille si abituassero al cambiamento. Ma non avvertii nessuna minima variazione di luce: dedussi quindi di essere in luogo totalmente chiuso. Forse un sotterraneo, una stanza sbarrata, una prigione, o… chissà. Avevo la netta sensazione, però, che fosse un luogo al chiuso, vista la mancanza di circolazione d’aria. Ero disorientato e terrorizzato, come ci si risveglia affannati e bagnati nel proprio letto dopo sogni spaventosi. Appena uscito da quel forse lunghissimo letargo (come a me sembrava) mi sentivo così sfibrato, infiacchito e spossato che pensai a quale possibile sostanza mi avessero somministrato per indurmi in uno stato del genere. Ammesso che mi avessero rapito, ma potevo anche essere a casa mia, potevo essere svenuto improvvisamente, o potevo essere morto (questa ipotesi mi affascinò alquanto). Mentre confuso e inebetito pensavo a tutto questo, potevo constatare di essere sdraiato dalla grande pesantezza che avvertivo in tutta la parte posteriore del corpo, in particolare sul capo. Non avevo perso alcuna sensibilità, ero abbastanza cosciente, e in virtù della mia lucidità conclusi che non ero ancora morto, ma avevo da eliminare le altre ipotesi. Con uno sforzo maggiore di quello che avrei mai potuto immaginare riuscii ad alzare le braccia per stropicciarmi gli occhi. Realizzai che erano libere, totalmente prive di manette o corde che me le tenessero bloccate. Pensai che forse non ero un prigioniero, ma comunque… che senso avrebbe avuto? Data la situazione non mi spiegavo ancora l’assenza di luce… Un black-out? È saltata la corrente? Mi accorsi, però che non sapevo ancora niente del luogo dove mi trovavo così casualmente, quindi sarebbe stato inutile formulare congetture sullo stato attuale ed era il caso di rimandare le indagini a più tardi. Cercai anche di sollevarmi, ma un’improvvisa fitta al collo mi bloccò e mi costrinse a rimanere ancora sdraiato, finché non mi fosse passato lo stordimento. Cominciai allora a pensare: chi mai avrebbe desiderato per me una sorte del genere? E per quale assurdo motivo? In più, cosa ancora più importante: chi ero io? Quale fu la mia vita (se mai ne avessi avuta una), e avrebbe per caso svelato il motivo o la causa del mio insolito stato attuale? Assillato da queste e mille altre domande rimanevo disteso, nell’oscurità, attendendo il momento di alzarmi.

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Capitolo 2
*** II. ***


Mi svegliai nuovamente, dopo essermi accidentalmente addormentato, forse per la stanchezza o forse per la noia di aspettare. Stavolta mi sentivo decisamente più fresco e, in qualche maniera, ristorato. Mi alzai subito, al primo tentativo, senza che niente mi dolesse o che mi recasse fastidio.

Mi alzai, dunque, facendo la massima attenzione, e tastando, saggiando l’aria con le mani tutto intorno a me, come un cieco o un bambino ai primi passi, arrancai non conoscendo affatto le dimensione della stanza, e se c’erano altri oggetti. Quando raggiunsi la posizione eretta, non avendo incontrato alcun ostacolo sopra e intorno a me cominciai, o almeno ci provai, a dare un’occhiata in giro. Quello che vidi la prima volta che aprii gli occhi in questo posto non cambiava di molto da quello che vedevo, ora, vicino a me. Ero letteralmente circondato dalle tenebre più fitte e nere. Alzai il braccio per guardarmi la mano, ma riconobbi che anche io appartenevo totalmente allo stesso buio che mi accerchiava.

Rabbrividii all’impressione che ebbi quando alzai il mio braccio destro (ero convinto di averlo alzato), eppure tutto è in dubbio in assenza dei sensi, anche le più banali azioni diventano inquietantemente sospette. Avanzai l’ipotesi che fosse notte, e che quindi il buio nella stanza fosse difeso anche dall’esterno. Ma scoprii in seguito che per quanto si aspettasse, malgrado l’impossibilità di determinare un tempo o un qualsiasi intervallo di riferimento, non si riusciva mai a distinguere alcuna variazione di luce, o di oscurità. «Forse sono veramente nascosto in un posto remotissimo, e profondissimo…» pensai, ma scartai momentaneamente l’ipotesi convenendo che l’aria che si respirava era totalmente asciutta e priva di umidità. Mi accorsi poi del profondissimo silenzio che regnava in quel luogo. Tesi le orecchie in cerca di indizi sonori, ma nulla, assolutamente nulla si riusciva a percepire oltre a quel silenzio sepolcrale e il mio respiro. Quanto più scoprivo su quel posto, tanto più la mia preoccupazione, i miei timori e le mie paure aumentavano. Dall’oscurità più fitta cominciavano ad affacciarsi spettri di ipotesi crudeli e malefiche che torturavano la mia mente. Senza perdere il poco autocontrollo che mi rimaneva e raccogliendo tutto il coraggio che avevo in corpo feci qualche passo, con le braccia distese per scongiurare eventuali ostacoli, e strascicando i piedi per sicurezza. Il suolo, potei notare, era regolare, ovvero sembrava quello di un pavimento liscio, perfettamente livellato. Andai avanti così per molto, convinto che ben presto avrei incontrato un muro, una parete, o una qualsiasi barriera che chiudesse la stanza, e per questo ero sempre pronto all’imminente impatto. Impatto che non avvenne. Stremato dall’attesa senza fine, continuavo ad andare avanti a vuoto, nel vuoto che mi circondava. Infine decisi di fermarmi, dopo aver avanzato per chissà quanto tempo. Mi buttai a terra e guardai in alto (il cielo o il soffitto, quello che era), cercando un perché a tutto quanto. Attendendo la risposta mi addormentai.

Fu la prima volta che sognai di forme confuse, colori, luci e suoni di felicità, gioia e contentezza. Non ricordo quale fosse il soggetto del sogno, ma i sentimenti che provai al risveglio, in forte contrasto con quelli appena sognati, furono di una profonda depressione e tristezza. Con questo peso nell’anima (che me lo tenni per tutta la giornata, o nottata… ancora non so) mi alzai, e mi riaccucciai per esaminare la natura del pavimento. Tastando con le mani individuai dei solchi, che procedevano dritti, incrociandosi parallelamente con altri a circa un metro di distanza ciascuno. Potevano essere mattonelle, pavimentazioni artificiali, progettate, costruite, e quindi certa opera umana. Mi trovavo in un sotterraneo, un grande magazzino sotterraneo, le cui dimensioni dovevo ancora scoprire, ma ero certo che non appena avrei trovato una parete, seguendola sarei risalito alla porta, che usarono chi mi ha portato dentro, e che mi farà uscire. Rinfrancato e rincuorato mi misi subito alla ricerca. «In fondo… Non può essere tanto lontano, ormai. Forse non ho fatto altro che girare in tondo…» Scelsi una direzione e prestai la massima attenzione ad andare sempre dritto, le braccia tese, i piedi sempre paralleli, così, avanti verso l’ignoto. Finalmente una luce di speranza si accese nel mio cuore per scaldare ed illuminare quel luogo triste e agghiacciante. Fiducioso camminai a lungo, guardandomi intorno ormai con superiorità l’oscurità, non era poi così cattiva, ora che stavo per abbandonarla. Era solo un fenomeno, un semplice evento, un caso, una fatalità che sia buio… Ma presto avrei trovato l’uscita!

Camminai a lungo, a tempo soggettivo mi sembrò qualche ora, ma continuai, pronto, sicuro che entro poco avrei toccato la parete. Camminai diverse ore e mi convinsi di essere sempre più vicino. Se era un grande magazzino sotterraneo le sue pareti non erano affatto lontane. Camminai ancora finché la stanchezza a entrambe le gambe non mi costrinse a fermarmi. Ero sicuro di farcela, non potevo aspettare ancora. Non appena avrei riposato, sarei stato di nuovo pronto. «In fondo, pensai, potrebbe essere proprio qui accanto a me e non vederlo». Di nuovo ricominciai a camminare, ma stavolta liberamente, cambiando direzione quando mi sembrava di essere più vicino. Giravo, cambiavo, correvo, tastavo, ora freneticamente, ora più cautamente, ma ancora non riuscivo a trovarlo. Dovevo esserci quasi, dovevo per forza! Camminai altre ore sempre più senza meta, avevo perso la strada. Non sapevo più se stavo andando nella stessa direzione di prima, o se magari mi stessi allontanando dal muro (forse vicino). Non dovevo pensarci, altrimenti solo il pensiero  di allontanarmi dalla libertà mi soffocava. Sempre più indeciso, camminai, camminai e camminai ancora, finché dopo ore ed ore mi buttai a terra,  stremato e mi arresi.

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Capitolo 3
*** III. ***


Il silenzio di quelle tenebre, mi faceva sempre più paura. Era un luogo che si trasformava ogni volta in qualcosa di sempre più orribile e spaventoso. Quanto più scoprivo e quanto meno sapevo. Ogni volta che pensavo, o che provavo a ricordare, più aspettavo, più mi sforzavo, e più capivo di non sapere nulla, anzi di saperne sempre meno. Era un luogo di assenze totali. La mancanza di luce e suoni, di calore e felicità, di vita e movimento rendeva quel posto un vero inferno. E come ulteriore tortura la mancanza di ricordi mi costringeva ad un estenuante sforzo inutile e vano. Cominciai a pensare di essere vittima dei crudeli divertimenti di una mente perversa, che tortura e tormenta gli uomini in questa prigione maledetta. Condannando a vivere nella solitudine della morte. Se fossi veramente morto e questa fosse l’altra vita? Era impossibile dato che avvertivo ancora i più comuni segni vitali, ma d'altronde, nessun morto è tornato a raccontarci come sia veramente là sotto... Se questa fosse il vero aldilà? Pensare a queste cose mi faceva venir male: non potevo essere morto! Ero vivo, ne ero certo! Che fosse un sogno? Di solito, non è norma svegliarsi nei sogni, e non potevo essere al tempo stesso cosciente di sognare e non svegliarmi. Era forse un’allucinazione indotta da droga o farmaci? Sperai vivamente e con tutto il cuore di sì. Ma in questo caso non potevo fare che due cose: o rimanerci o svegliarmi. Era un po’ assurda l’idea di essere sveglio, lucido e attivo, e voler svegliarsi da quello che può sembrare un incubo. Innanzitutto che devi fare? Devi pronunciare un parola magica? Tagliarti una gamba? Farti il solletico? Era senza senso. E non sapevo che fare. Esiste un modo?

Svegliarsi… Se io morissi qui, forse, potrei risvegliarmi da qualche altra parte. Potrei fare qualcosa di diverso? Potrei aspettare la morte sdraiato, seduto, o accovacciato. Potrei correre fino allo sfinimento, nella speranza di schiantarmi su qualche probabile parete. Potrei sbattermi la testa sul duro pavimento, potrei strapparmi le vene a morsi, potrei tapparmi il naso fino a soffocarmi… Ma se non fosse così? Che ne sarebbe di me? Mi guardai intorno, anche se quaggiù quel verbo, ormai, significava soltanto girare la testa in qualche direzione, che c’era da guardare? Riflettei che non poteva esserci posto peggiore di quello. Se tanto ti dà tanto, non avevo nulla da perdere. La posta in palio era la vita, o la morte. Se avessi vinto, tanto meglio, altrimenti, sarebbe stato sempre meglio che quel postaccio maledetto. Presi la mia decisione. Ci ripensai ancora. Era difficile: poche volte in una vita hai tu stesso la piena libertà di decidere. Questo, per me, valeva tutto. Questa decisione sarebbe stata tutto. Ma io ne ero sicuro.

Respirai profondamente e cominciai a correre. Ora ero pronto a lasciare quella tomba dell’anima! Avrei corso per sempre, fino a quando non mi sarei sfracellato su una di quelle maledette pareti! Allora o mi sarei salvato o sarei morto! Acquistavo sempre più velocità. Dovevo essere una scheggia, che sfreccia nell’oscurità, peccato solo che non potevo vedere! Sempre più veloce, con il vento immobile nelle orecchie, le gambe spingevano da sole, nella follia dell’ultima corsa. Gridai, allora, con più forza che potevo, sfiatando anche l’ultima particella d’aria presente nei polmoni, pur di lacerare e squarciare quel immenso silenzio odioso e onnipresente. Mi rispose allora la mia stessa eco che lentissimamente si allontanava allargando smisuratamente gli orizzonti che avevo appena potuto immaginare. Questa me li stracciò, mostrandomi come in verità fosse tutto il quintuplo, il decuplo, il centuplo di quello che pensavo. Mi mostrava per quello che ero: un minuscolo e insignificante uomo che corre in un orribile e atroce universo nero. Il cuore mi pulsava per il terrore e per la consapevolezza di non poter essere più in grado di risolvere un problema del genere. Correvo ma ero sbalordito, i miei passi fallavano, vacillavano, quando inciampai, caddi e sbattei violentemente la testa. Eppure mi parve prima di svenire che le ombre ridessero di me, che mille sguardi sghignazzanti ridessero della mia incapacità, che i mostri dell’oscurità si prendessero gioco della mia insignificante esistenza. Non ero riuscito ancora a morire, e non ci sarei riuscito mai.

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Capitolo 4
*** IV. ***


L’oscurità stava ancora ridendo di me. Non smetteva di deridermi il silenzio. L’aria era diventata dura anche da respirare. Ricordo cosa provai prima di svenire: più s’allontanavano le mie grida, più capivo quanto ero piccolo in confronto all’immensità. Ero avvolto da nere infinità, in un posto che nessun umano avrebbe mai potuto costruire o pensarlo. Era come se una bestia mostruosa ti stesse continuamente osservando, ma, benché sapendo che ci sia, tu non puoi vederla, ma solo sentire il suo fetido alito soffiarti sulla nuca. Mi sentivo sempre più solo, inutile e fragile. Un contenitore sempre più vuoto, che pensa e che cammina, senza ricordi, senza più futuro. Se solo avesse potuto riempire quel involucro svuotato dai suoi ricordi, dalla sua vita. Fu allora che svenni, e nel sonno sognai un giardino. Un grande giardino pieno di strade e sentieri che si biforcano, creando un grande, immenso labirinto. Quando mi svegliai ero ancora lì, riverso al suolo. Mi doleva la testa, i capelli erano sporchi di sangue incrostato della ferita. L’oscurità mi stava spiando. Io non mi mostrai preoccupato, anche se sapevo che non potevo ignorarla. Stavo disteso e mi rivedevo le immagini del sogno. Tra i mille sentieri sapevo, il sogno mi aveva convinto, che uno di quelli mi avrebbe svelato il mistero. Speravo che non fossero anche quelle immagini fallaci e infedeli, frutto di quella mente malefica che stava pianificando la mia vita. Camminai tutto il giorno, in una direzione qualsiasi, fino a quando non mi venne di nuovo sonno. Mi coricai e presto ricominciai a sognare. Ero in una spiaggia, da solo. Stavo con i piedi in acqua, vicino alla riva. Una calma atmosfera di idilliaca tranquillità era sospesa in quel luogo ameno. Antichi sentimenti risorgevano dentro di me, ed ebbi quasi l’impressione di riconoscere o addirittura di ricordare qualcosa. Quando mi avvicinai sulla grande spiaggia deserta vidi che c’erano una serie di orme impresse sulla sabbia. Seguendole giunsi a un vecchio capannone in legno dietro ad una duna di sabbia. Appesi e per terra c’erano dei vestiti femminili, ma nient’altro. Tornando alla spiaggia vidi una barca lontano in mezzo al mare, ad un tratto si vide una figura salutare da lontano. Fu quella figura umana il primo essere vivente incontrato finora. Risposi al saluto trasmettendogli tutto l’amore e l’immensa gratitudine che gli dovevo per quel casuale incontro. Avvertivo che quel posto mi fosse familiare, ma ignoravo completamente chi potesse essere quella persona sulla barca. Al risveglio non potei far altro che rassegnarmi alla condizione di libero prigioniero dell’universo che mi occludeva, e, come un pazzo in un mondo di veglie, attendere il prossimo sogno.

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Capitolo 5
*** V. ***


Vivevo in quell’incubo aspettando solo il momento di dormire. A volte dormivo soltanto, tutto il tempo, sperando di conoscere la mia vita. Era l’unica maniera per trovare sollievo dalla crudeltà di quei invisibili orizzonti. Anche le tenebre diventavano più sopportabili, se si potevano eluderle con i sogni. In mondi così irreali, ma per me ben più reali, vicini e veri della realtà contingente, diabolica e inumana. «Sono entrato per sbaglio nei giardini degli Dei. Presso Esseri così potenti da non necessitare dei sensi.».

Mi capitò di sognare una volta stellata, piena di stelle lucidissime e tremolanti, fissate nel cielo per osservare e spiare le vite degli uomini. Mille occhi che ti scrutano nei tuoi movimenti, e ti ragguagliano minacciose che la tua esistenza è breve, che loro ti hanno visto nascere, e con maggior gioia ti vedranno morire. Nel sogno ero preoccupato da questi pensieri, sdraiato in un prato, vicino ad una foresta di abeti e pini di montagna, quando mi sentii preso per mano. Mi girai per vedere, ma era notte, e nell’oscurità riuscivo solo a distinguere la sagoma di una ragazza distesa di fianco a me. Ancora una volta ero vicinissimo a scoprire qualcosa, che mi avrebbe svelato qualcosa di me, ma era come se un ostacolo me lo impedisse di farlo. Ed io rimanevo impotente.

Dopo molto tempo, in seguito a molti sogni, sognai per la prima volta un ambiente casalingo: era una bella e grande casa, molto ben arredata, e dava su un cortile luminoso e arieggiato. Sembrava che non ci fosse nessuno, e quindi cominciai a guardare un po’ in giro, nelle stanze e nelle camere. Nella sala osservai attentamente delle cornici con foto di una famiglia felice: in una dei volti sorridenti mi salutavano, un uomo, una donna e tre bambini, uno dei quali ancora piccolino. Certamente avevano un’aria familiare: li riconoscevo! Con un tuffo al cuore, lontani ricordi riaffioravano dall’oblio. Quell’uomo dall’aria spensierata, con una bellissima moglie e dei magnifici figli ero io! Cominciai a riconoscere tutto: oggetti, cose, momenti, persone, fatti ricordi. Improvvisamente quella casa, anonima e sconosciuta, si stava trasformando nella mia casa! Le foto, i libri, i tavoli, i tappeti, i quadri. Ora ricordavo (e sognai di ricordare) finalmente chi ero! Correvo freneticamente da una stanza all’altra a cercare cose che so, mi ricordavo, di tenere lì. Pazzo di gioia, entravo nelle camere, e abbracciavo giocattoli, annusavo lenzuola, riconoscendo i miei bambini! Le memorie di tutta la mia vita finalmente ritornavano al loro posto.

Subito, però, non mi resi conto che in casa non c’era nessuno. Quello che rendeva ancora più inquietante la scena era il silenzio assoluto di quelle mura, quasi immobili e spettrali al ripensarci. Mi diressi inquieto verso l’ultima camera: quella mia e di mia moglie. Arrivato alla porta l’aprii lentamente. Da quel momento tutto assunse un aspetto sinistro. Cominciai a preoccuparmi per qualcosa che, sentivo, stesse per accadere. E l’attesa dell’evento poneva la mia anima in apprensione, verso una dimensione metafisica della realtà, che si sarebbe infranta soltanto dopo aver varcato quella soglia. E la porta si aprì. Dentro la stanza, dominata dal letto, la luce entrava dalla finestra, aperta, facendo entrare anche dell’aria che faceva ondeggiare lievemente le tende. Arrivato al centro della stanza mi bloccai angosciato: non c’era un alito di vento in quella stanza, ed i raggi del sole non mi scaldavano minimamente. Sempre più angosciato, mi guardai intorno, cercando un conforto, una speranza, una fine a quell’incubo. Mi sentivo soffocare: i sensi si stavano lentamente sciogliendo alla pazzia, quando nell’angolo della stanza vidi una donna.  Era di spalle, rivolta verso la specchiera di mia moglie. Si stava pettinando, o truccando, e si guardava allo specchio, come incantata. Mi avvicinai e potei riconoscere i suoi vestiti e il colore dei suoi capelli, il suo profumo aleggiava nell’aria, come una fresca fragranza lontana portata dal vento. Eppure il mondo taceva inanimato. Mi avvicinai ancora, fino al punto in cui non mi accorsi con sommo orrore che la sua immagine, il suo bel viso, non era riflesso dal vetro! Incredulo e terrorizzato, rimanevo pietrificato alle sue spalle osservando quelle mani che si affaccendavano su quei capelli, ignare, in modo del tutto naturale. Con il cuore in gola, il sudore in fronte e le mani tremanti, mi azzardai a pronunciare il suo nome. Lei si fermò, come per mettersi in ascolto. Allora, con la voce rotta dalla disperazione lo ripetei. Dopo un secondo si voltò. Due profondissimi baratri neri mi osservavano, mentre il resto (ciò che rimaneva della sua bellezza) sorrideva in un ghigno orribilmente e mostruosamente deformato. Non era lei! Non era lei! Era il mostro che mi perseguitava, la bestia che mi torturava, l’essere che godeva e si divertiva nel tormentarmi e nel seviziarmi, come aveva fatto fino ad ora con quei sogni illusori ed ingannatori! Ero io il suo giocattolo, il suo burattino, la sua marionetta. Come noi tutti, esseri umani, non siamo che fantocci, nelle mani del destino!   

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Capitolo 6
*** VI. ***


Una calma apparente si respirava nella clinica cittadina in quel tardo pomeriggio. Gli ultimi e sporadici visitatori comparivano isolati attraversando l’atrio, o salendo le scale, o uscendo da stanze che sapevano di lenzuola pulite e di medicine. La calma venne infranta da un folto gruppo di infermieri e dottori, che portarono un po’ di movimento attraversando le corsie di corsa per raggiungere il paziente che si era appena risvegliato. Ad attenderli c’era l’infermiera che aveva dato l’allarme, prestando le prime cure e il primo conforto all’infermo, ancora molto agitato. I medici lo esaminarono, e si confortarono trovandolo in soddisfacenti condizioni di salute, dovettero lottare, però, per tranquillizzare il disgraziato. Quando si fu quietato un poco, cominciò ad interrogare il personale: «Chi… Chi siete voi? Cosa volete da me?» I dottori si mostrarono preoccupati, poi uno di loro rispose: «Siamo dei medici; lei ora è ricoverato all’ospedale, nel reparto di terapia intensiva.» L’uomo, confuso e sempre più preoccupato, cominciò a guardarsi attorno ansimando. «Dove siete? Dove siete? Fatevi vedere!» gridò. Si lanciarono degli sguardi imbarazzati, non sapendo come confortarlo, quindi lo stesso si fece coraggio e gli spiegò: «Deve stare calmo, signore. Lei ha subito un incidente molto grave, dove purtroppo – si fermò un attimo – ha perduto l’uso della vista.»

L’uomo, allora, dopo un momento di immensa incredulità, cominciò a gemere e a divincolarsi nel suo letto, rendendo necessaria la chiamata di altri infermieri che lo tenessero fermo e calmo. Quando si  tranquillizzò, esausto e dubitante, chiese:  «D… Dov’è la mia famiglia? Dove sono i miei bambini?» Alla domanda gli infermieri si irrigidirono, mentre i medici, avendo terminato i loro esami, se ne andarono, lasciandolo nelle loro mani. Un’infermiera allora gli si avvicinò: «Non si preoccupi, deve riposare adesso.» Lui insisteva: «Voglio solo sapere dov’è la mia famiglia!» «Non deve pensarci, adesso. Deve dormire un po’.» «Dov’è la mia famiglia?» Un lungo e teso silenzio gli rispose. Allora ricominciò ad agitarsi e a gridare: «Dov’è la mia famiglia? Dov’è? Dov’è?», svegliando gli altri pazienti, che lo sgridarono furiosi. L’infermiera preoccupata, cominciò a calmarlo, ma era tutto inutile. «Ok, ok, senta, mi ascolti! Deve calmarsi. Se non si calma subito non glielo potremo dire.» Cominciò a calmarsi di una calma irrequieta, e solo allora, dopo una rapida consultazione con gli altri infermieri, seguita da dei rassegnati cenni di assentimento, l’infermiera si avvicinò al letto del paziente, che l’attendeva silenzioso, gli occhi fasciati, rivolti verso un punto invisibile ad osservare atroci oscurità. Sedendosi di fianco a lui, l’infermiera cominciò: «Lei è rimasto in coma per quasi due anni, dopo un tremendo incidente stradale. Vostra moglie morì sul colpo, mentre… abbiamo fatto di tutto, ma non siamo riusciti a salvarli. Sono tutti morti.» A quelle parole le bende non bastarono più a trattenere le lacrime. Esplose in singhiozzi trattenuti e soffocati dai quali trapelavano dei soffocati: «No! No! No...» Gli infermieri convennero di lasciarlo solo, vigilandolo da lontano. Lo lasciarono alle sue sterili lacrime. Era rimasto solo.

Ancora una volta si sentiva beffato, ma non poteva che rassegnarsi. Si sentì più che mai impotente ed inutile. Neanche quelle lacrime gli sarebbero bastate a richiamarli. Nell’ospedale chiusero le luci per la notte. I corridoi si spopolarono e diventarono deserti. Ma lui, costretto per la vita alla tortura delle tenebre, non se ne rese conto. Sperando solo di ritornare a sognare la notte, avvolto nelle sue oscurità, ora veramente solo, piangeva il suo misero destino.

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