Il Cimitero dei Vivi

di giascali
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Il Cimitero ***
Capitolo 2: *** Ricordi fastidiosi. ***
Capitolo 3: *** Il Fantasma ***
Capitolo 4: *** L'altro mondo ***
Capitolo 5: *** Muppet ***
Capitolo 6: *** La città dei morti. ***
Capitolo 7: *** Il verdetto. ***
Capitolo 8: *** Sibyl Martin ***
Capitolo 9: *** La Biblioteca dei morti ***
Capitolo 10: *** La Biblioteca dei vivi. ***



Capitolo 1
*** Il Cimitero ***


Capitolo 1
Il cimitero

 
 
Cacchio, cacchio, cacchio!
Sono in stramega-ritardo!
Cercai di accelerare il ritmo ma non riuscivo a pedalare più velocemente di così.
Per l’ennesima volta, guardai il quadrante del mio orologio e sbuffai, rendendomi conto dell’ora: erano le sette e mezzo.
E i miei amici mi stavano aspettando da mezz’ora. In altre parole: ero morta.
Scossi la testa, cercando di dimenticare che, non appena fossi arrivata, Dominique mi avrebbe certamente ucciso.
Quando la ruota anteriore della mia bicicletta toccò l’erba del giardinetto davanti al cancello del cimitero, quasi mi venne voglia di ritornare a casa. La mia amica mi avrebbe certamente uccisa, per quel ritardo. Ma, sapendo quanto fosse importante per lei quella cosa resistetti, resistetti a quell’impulso, che di sicuro mi avrebbe salvato la vita e mi avrebbe accertato qualche anno in più, e scesi dalla bici.
La inchiavai e scavalcai il cancello, entrando nel campo santo.
Di sera, il silenzio che lo caratterizzava, lo rendeva ancor più inquietante.
Il buio era ormai sceso e colorava tutto di grigio o nero, alcune lapidi erano così vecchie che avevano delle crepe sulle loro superfici. Ma, per quanto potessero essere antiche, ognuna aveva almeno una composizione floreale come addobbo. Alcune ne avevano di vecchie e rinsecchite e altre di fresche e nuove, ma, comunque, l’odore che emanavano i fiori, sia quelli morti che quelli appena colti, dava la nausea, da quanto era carico e dolciastro.
Fortunatamente, l’odore nauseante fu presto scacciato via da una leggera e fredda brezza, rabbrividii dentro la mia semplice felpa nera, pentendomi di non essermi coperta meglio, ma era pur sempre estate e non avrei potuto sapere che ci sarebbe stato quel maledetto venticello.
Continuai il mio cammino tentando di ignorare il freddo, dovevo trovare la lapide del nonno di Dominique.
Se non sbaglio adesso dovrei girare a destra, pensai, mentre camminavo nel vialetto.
E fortunatamente avevo ragione! Proprio dove mi ricordavo fosse la lapide, distinsi la luce di una candela e le mie due amiche, Jenna e Dominique.
Probabilmente mi stavano aspettando.
Feci l’ultimo tratto che mi distanziava da loro di corsa, forse se mi avessero vista stanca avrebbero avuto pietà di me…
-Scusate! – esclamai, quando le raggiunsi. Allora le due ragazze si girarono verso di me, Jenna mi sorrise raggiante e Dominique mi regalò un sorriso lieve.
-Come? – chiesi stupita dalla loro reazione. – non siete arrabbiate? Sono in ritardo di mezz’ora! –
-Pagare! – esclamò Jenna in direzione di Dominique, io, intanto, ero ancor più confusa.
-Accidenti, Ellison, mi hai fatto perdere cinque sterline. – mormorò contrariata la ragazza.
-In che senso? – domandai. Jenna ghignò, prima di rispondermi.
-Veramente l’appuntamento era per le sette e mezza, ti abbiamo detto prima così saresti arrivata in orario o, in casi estremi, meno in ritardo. Poi, io e Domi abbiamo scommesso: io sapevo che ti saresti accorta dell’orario Domi no. – solo io ho delle mie amiche che potessero scommettere su di me.
-Non chiamarmi Domi. – disse infastidita la diretta indirizzata, mentre si legava i suoi lunghi capelli viola scuro in una coda di cavallo. Jens si limitò ad ignorarla e mi passò una barretta di cioccolato.
-Un Mars? – mi propose. Accettai di buon grado.
-E David? – chiesi, riferendomi al nostro amico.
-Sta arrivando, d’altronde è lui quello che doveva portare la tavola Ouija. – annuii. Lui era l’unico a possederne una, di noi quattro. E la tavola era indispensabile per compiere il rito per poter parlare con il nonno di Domi.
Diedi un morso alla merendina che mi aveva offerto Jenna, gustandomi il gusto del caramello, misto al cioccolato, la mia droga, praticamente.
Intanto la mia amica stava preparando il tutto: dispose quattro candele, in modo che ognuna fosse disposta esattamente nella direzione di uno dei quattro punti cardinali.
Le accese in senso antiorario e fece lo stesso con un profumato incenso, che posò sopra la lapide di Abrahm Williams, il nonno di Dominique.
Ripose l’accendino nella sua borsa di cuoio, regalatole dalla madre, una medium di New Orleans, e si sedette accanto a me, in attesa di Dav.
Si portò qualche rasta dietro l’orecchio e prese dalla borsa un piccolo libro rilegato in pelle.
Lo sfogliò finché non trovò la pagina giusto e cominciò a leggere con attenzione, probabilmente era la pagina che parlava del rito.
-Cosa dobbiamo fare, oltre ad entrare nel cerchio e a posare le mani sulla tavola? – le chiesi mentre cercavo di sbirciare nel libro.
-Niente. Oltre a quello voi non farete niente. Sono io quella che dovrà dire la formula. Sai, l’ho imparata a memoria. – disse orgogliosa. I suoi occhi nocciola brillarono nel buio.
-E allora perché stai leggendo il libro? –
-Oh, questo dici?-  annuii con convinzione. – è solo la mia copia di Harry Potter, bella, vero? Me l’ha rilegata mio padre. – mi sbattei la mano sulla fronte.
-Ehi, ragazze! Dove siete?! Questa cosa pesa! – esclamò una voce nelle tenebre. Non  poteva essere che David, infatti fu proprio lui quello a comparire qualche secondo dopo che lo sentimmo parlare. Vedendolo, scoppiai a ridere.
-Ma come ti sei vestito? – dissi tra le risate, Jenna si unì a me.
David si guardò per poi rivolgerci un’occhiata confusa. Forse non aveva capito che per una seduta spiritica non era necessario dipingersi il viso di rosso e indossare un turbante.
-Jenna mi ha… Jenna! – esclamò il mio amico non appena si accorse dello scherzo che gli aveva fatto la mulatta.
Lei si limitò a ridere ancor più forte.
-Dovresti smetterla di dare ascolto a quello che dice Jenna, Dav. – disse Domi mentre accarezzava i capelli biondi del suo fidanzato, cercando di consolarlo. Lui le sorrise e annuì. La ragazza rovistò nella sua borsa nera e prese un fazzoletto, per poi porlo a David.
-Ecco, pulisciti, adesso. Non voglio che tu abbia la faccia tutta rossa mentre cerchiamo di evocare mio nonno. – Dominique gli sorrise e gli diede un bacio sulla punta del naso. Come risultato, ottenne le labbra sporche di rosso. Borbottò qualcosa contro l’esser credulone di David Walker e l’amore di Jenna per gli scherzi.
Quando il ragazzo fu pronto, dopo ben mezz’ora, ci disponemmo in cerchio, ognuno di noi era dietro ad una candela e avevamo appoggiate le mani sulla tavola Ouija.
-La prossima volta voglio che qualcuna mi aiuti a portarla. – mormorò scontroso il ragazzo per poi soffiare contro una ciocca di capelli che gli era caduta su uno dei suoi occhi azzurri. – Quella cosa è pesante! - esclamò infine.
Dominique gli accarezzò la spalla ma non disse niente, come noi, del resto.
Infatti, Jenna lo ignorò e si legò i rasta in una crocchia disordinata. Si tolse tutti i braccialetti, ed erano veramente tanti, e li ripose nella borsa di cuoio marrone chiaro. Poi buttò questa alle sue spalle e appoggiò anche lei le mani sulla tavola.
-Se proprio vuoi, la prossima volta, ti potrebbe aiutare Ellison. – disse Jenna.
-Ehi! Perché proprio io? – ribattei contrariata.
-Perché io mi occupo già del rito e, se se ne occupasse Domi, non credo che i due sarebbero molto concentrati… - lanciò un’occhiata maliziosa in direzione dei due piccioncini.
David mi sorrise e la sua fidanzata si limitò a fulminare Jens con lo sguardo, cosa non tanto difficile, visto che, con i suoi grigi occhi contornati dall’eyeliner, ci riusciva benissimo. Sempre.
Con un sospiro, riportai la mia attenzione sulla tavola.
Jenna fece lo stesso e cominciò a pronunciare la formula che ci avrebbe fatto entrare in contatto con Abrahm Williams.
Mi ricordavo del nonno di Domi, era un dolce vecchietto dai capelli bianchi, radi sulla nuca, e da baffi che gli coprivano il labbro superiore. Con me era sempre stato gentilissimo, spesso mi ero ritrovata a parlarci di libri insieme, uno dei nostri argomenti preferiti.
Lo avevo incontrato la prima volta che ero andata a casa di Dominique, un giorno, dopo la scuola.
Lui se ne stava lì, sulla veranda, a leggere un libro, mentre era seduto su una poltrona da esterno.
La copertina del volume era gialla, con delle scritte nere in rilievo ed era un po’ rovinata. Evidentemente, non era la prima volta che leggeva quel libro.
Mentre chiacchieravo con la mia amica, che all’epoca aveva ancora i capelli castani, avevo notato che la copertina mi era familiare. L’avevo letto anch’io, quel libro.
Non appena avemmo salito quei quattro scalini, la mia amica mi presentò subito a suo nonno.
-Lui è mio nonno materno Abrahm. Ma io lo chiamo nonno Abe. Vero? – aveva chiesto infine, voltandosi verso il diretto interessato.
Lui aveva ridacchiato mentre annuiva, per poi voltarsi verso di me e guardarmi con interesse.
Io aveva spostato il peso da un piede all’altro, leggermente in imbarazzo, mentre mi grattavo una guancia.
-E tu? Come ti chiami, figliola? – all’epoca non mi aveva dato fastidio quel soprannome ma,  nel seguirsi degli anni, non avevo più autorizzato nessuno a chiamarmi così. Solo Abrahm Williams poteva farlo. Comunque, sentendomi soprannominata così, avevo sorriso per la confidenza che mi aveva già dato, nonostante non sapesse neanche il mio nome. La sua voce era calda e confortevole, sembrava essere capace di mettere a suo agio chiunque.
-Io sono Ellison. Ellison Hyde. – avevo risposto, mentre mi portavo una ciocca di capelli neri dietro l’orecchio.
-Come “Il curioso caso del dottor Jekyll e il signor Hyde”! – aveva esclamato, io avevo ridacchiato perché mi faceva piacere che qualcuno sapesse che avevo, in un certo senso, il cognome di un personaggio famoso, e poi annuito, mentre Domi ci guardava con confusione. Lei non aveva letto il libro e ovviamente non poteva capire di cosa stessimo parlando.
Insomma, così iniziò la mia sorta di amicizia con il nonno di una delle mie migliori amiche.
Pensavo a questo, quando Jenna mormorava questa parole:
- Oh, potente terra madre
   Apri la porta tra il mondo di noi vivi
   E dei morti
   Per non dimenticare ciò che va ricordato.  –
Ripeté questo per un’altra volta, per poi tacere a aspettare.
Passarono due minuti ma non succedeva niente.
-Non è che hai sbagliato qualcosa? – chiese dubbioso David.
-Non ho sbagliato niente. Uno spirito, per uscire dal suo mondo, ci mette un po’. Dobbiamo solo attendere. – e, detto questo, la tavola iniziò a brillare. La planchette cominciò a muoversi da una parte all’altra, come se fosse impazzita.
-Nonno Abe? – mormorò tra un singhiozzo Domi, nella sua voce c’era tanta speranza. Speranza di poter parlare di nuovo con suo nonno.
La lancetta continuò per qualche minuto a sbizzarrirsi, poi, si rallentò, all’inizio lievemente, per poi prendere a muoversi ad una velocità che reputai normale.
Si fermò su una lettera. S.
Ma, prima che potesse indicarne delle altre, sentimmo delle voci adulte gridare.
Impallidimmo tutti all’istante. Il cimitero, nella nostra piccola cittadina, chiudeva alle sei del pomeriggio, cioè ore fa. In fretta, Jenna mormorò qualcosa e spense le candele, soffiandoci contro. Afferrò tutte le sue cose e le mise nella borsa, mentre noi facevamo lo stesso con le nostre. David si tolse il suo maledetto cappello e lo mise sotto braccio, mentre con l’altro prendeva la tavola Ouija, questa volta aiutato dalla fidanzata. Mi alzai il cappuccio della felpa, in modo da coprirmi un po’ il viso e cominciai a correre, nella speranza che i custodi del cimitero non si accorgessero della nostra piccola e innocente incursione serale.
Dopo essermi allontanata di almeno venti metri dalla lapide, mi voltai, per controllare se anche i miei amici fossero scappati. Non c’era nessuno. Bene. Sotto la pallida luce della luna notai però qualcosa di quadrato e scuro. La superficie era irregolare. Il libro di Jenna. Doveva esserle caduto dalla borsa. Sospirando ritornai indietro, per prenderle il libro. Ero cresciuta con la convinzione che ogni libro fosse un tesoro unico e prezioso e quindi non potevo lasciarlo lì.
Sospirai e misi “Harry Potter e la Camera dei Segreti” nella borsa etnica che avevo preso in un giorno di primavera a Camden Town. Feci per ricominciare a correre ma inciampai.
Caddi subito a terra e l’impatto con il freddo e duro terreno mi tolse il fiato. Rotolai di lato e immagazzinai nei miei polmoni tutta l’aria che potessero trattenere.
Espirai e mi sentii meglio all’istante, anche se il ventre mi faceva male lo stesso per il colpo doloroso. Scuotendo la testa mi alzai da terra. Ma qualcosa mi impediva di allontanarmi. Abbassando lo sguardo notai che attorno alla mia caviglia, coperta dai jeans scuri, c’era una cosa dura e bianca. Il cuore cominciò a battere all’impazzata.
Sentivo i custodi farsi sempre più vicini e quella cosa non ne voleva sapere di staccarsi da me, nonostante stessi tirando con tutte le mie forse, senza però toccarla.
Notando, con una punta di terrore, che adesso riuscivo ad intravedere la luce emanata dalle torce degli uomini che stavano cercando quegli stupidi che si erano intrufolati nel cimitero, deglutii e cercai di liberarmi usando le mani.
Fortunatamente riuscii nel mio intento e iniziai a correre più velocemente che potevo, sapendo bene che i miei amici avevano già scavalcato il cancello del campo santo.
Quando raggiunsi i confini del cimitero, mi aggrappai all’istante alle sbarre del cancello e cominciai ad issarmi, con non poca difficoltà. Arrivata a metà strada, mi fermai un attimo, per controllare dove fossero i guardiani del posto e, quando intravidi le luci delle torce lontano da dove mi trovavo, feci un sospiro di sollievo. Mi tolsi il cappuccio e guardai cosa tenevo in mano da quando mi ero liberata. Sotto la luce della luna brillava un poco. Era un anello.
Ma come ci è finito un anello infilato in un radice? Era impossibile che quella che mi teneva in una morsa stretta la caviglia fosse una mano, un mano mortalmente bianca. Ma dovevo ammettere che, per un attimo, mi era sembrato così, prima di capire che si trattava di una radice.
Scuotendo un’altra volta la testa, mi infilai l’anello nella tasca dei jeans neri. Guardai in basso e vidi Jenna, Dominique e David guardarmi con ansia e preoccupazione, misto ad un tocco di sollievo. D’altronde non puoi fare a meno di fare così, quando uno dei tuoi migliori amici è seduto a cavalcioni sul cancello del campo santo della cittadina in cui vivi. E se poi ci si aggiunge il fatto che fino a poco fa sei scappato dai custodi dal prima menzionato stesso campo santo, le occhiate diventano ancor più preoccupate. Ammesso che possano farlo. Dedicai loro un sorriso trionfante, che non durò molto, visto che caddi come un sacco di patate dal punto in cui fino a poco fa ero seduta con tanto orgoglio per aver recuperato il libro di Jens.
-Ahio. – mormorai, mentre mi massaggiavo il mio povero fondoschiena brutalmente messo male.
-Ma dov’eri? Eravamo preoccupati da morire. Quando abbiamo pianificato che, se fossimo stati inseguiti dai custodi, - ovviamente il piano lo aveva ideato Domi, tra tutti noi, solo lei era quella abbastanza pessimista da pensare che ci avrebbero potuto scoprire. – saremmo corsi via. Subito. Si può sapere perché sei tornata indietro? – nella sua voce c’era isteria. Sorrisi per la preoccupazione che la mia amica aveva provato per me.
Presi dalla borsa il libro di Jens e glielo mostrai, per giustificare quello che avevo fatto. Poi lo porsi alla sua proprietaria.
-Grazie. – disse con un sorriso la ragazza, mentre si scioglieva i capelli. Jenna prese i suoi braccialetti e li indossò di nuovo. Feci un lieve sorriso, era raro vederla senza quei bracciali. Era come se facessero parte di lei. – E adesso cosa facciamo? – chiese poi.
-Eh?! – esclamai. – abbiamo appena evitato di farci prendere dai guardiani del cimitero, mentre facevamo una seduta spiritica per evocare suo nonno - indicai Domi. – e parlarci e tu ci chiedi cos’altro vogliamo fare?! – anche se conoscevo Jenna da tre anni, alcuni dei suoi comportamenti mi lasciavano ancora interdetta. Come poteva anche solo aver la voglia di fare qualcos’altro? Io in quel momento desideravo solo sedermi. Figurasi andare da qualche parte. La ragazza scrollò le spalle. – Allora? – chiese ancora. Sospirai esasperata.
-Che ne dite di andare a casa mia? – propose David. – Tanto è qui vicino. – scossi la testa, ancora sconvolta dall’iperattività dei miei amici e mi avviai con loro a casa del biondo, che, tra l’altro, non era poi così tanto vicino al campo santo della città.
Stupido Walker.

Note dell'autrice:
Okay, lo so, ho un'altra storia in corso ma questa mi stava chiamando! DOVEVO pubblicarla, anche perché ci sono molto affezionata ^-^ Comunque, devo ringraziare Lacus per aver letto per prima il capitolo e avermi incoraggiato, sinceramente ho un po' di fifa. Ad ogni modo, spero che questo primo capitolo vi sia piaciuto tanto quanto a me è piaciuto scriverlo.
Le recensioni sono sempre gradite e mi fareste davvero felici se ne ricevessi :)

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Capitolo 2
*** Ricordi fastidiosi. ***


Capitolo 2
Ricordi fastidiosi

 
Ci sono giorni in cui non mi alzerei dal mio letto neanche per tutto l’oro del mondo.
Quello dopo la nostra incursione al cimitero era un di quei giorni; peccato che la voce di mia madre fosse molto più convincente del mio amato materasso ad una piazza e mezzo e del mio comodissimo cuscino.
Ma d’altronde chiunque è più convincente di un letto comodo con una brocca d’acqua in mano e la minaccia di buttartela addosso, se non ti alzi.
Quando mia madre uscì dalla mia stanza, tirai un sospiro di sollievo. La doccia a letto era una delle cose che più odiavo. Era già successo che mia madre ne facesse uso. E in tutte cercavo di non andare a scuola per colpa di un spaventosa verifica di geometria, che mi avrebbe abbassato la media e sconvolta la psiche per almeno tre ore, senza far ricorso a della cioccolata, ovvio.
Alzai il busto, appoggiandomi con la mano destra a guardai ad occhi socchiusi la mia stanza.
C’erano alcune prove del fatto che fossi entrata più tardi delle altre volte: i vestiti erano buttati a terra, o quanto meno più disordinatamente del solito, e la borsa era finita sulla scrivania di legno scuro.
Decidendo che ormai ero abbastanza sveglia per alzarmi dal mio “nido”, mi allontanai dal letto e raccolsi i vestiti dal pavimento, per poi gettarli nell’armadio. Mi passai una mano tra i capelli e feci uno sbadiglio. Presi dalla borsa il cellulare e controllai se avessi ricevuto chiamate. Niente.
Lanciai l’aggeggio sul letto e mi diressi in bagno.
La mia stanza era sempre stata disordinata, fin dall’alba dei tempi, come mi piaceva dire, ma era più forte di me. Gli abiti, in un modo o nell’altro, finivano sulla sedia o nell’armadio a far parte di una montagna di abiti scuri. I libri, invece, siccome era da tempo che non avevo più spazi dove riporli, erano appoggiati dovunque: sopra altri libri, sotto o sul letto, nei cassetti, davanti la piccola finestra che dava sulla strada davanti alla mia casa. Il resto delle mie cose non aveva mai avuto un posto e per cui era normale che li trovassi nei posti più disparati.
Aprii la porta del bagno e con un gesto veloce mi tolsi la maglietta larga che mi faceva da pigiama.
Una volta era stata di mio padre e per cui su di me sembrava quasi un vestito.
Gettai l’indumento nella lavatrice e aprii la manopola dell’acqua calda. Aspettando che venisse, gettai un’occhiata allo specchio sopra il lavandino. Rifletteva l’immagine di una ragazza sui sedici anni, alta più o meno 1,60, magra, con gli occhi neri e capelli dello stesso colore, e la pelle pallida. Storsi il naso vedendo la mia carnagione quasi bianca. Mi ricordava troppo quella cosa che mi aveva afferrato la caviglia nel cimitero. Abbassai lo sguardo e notai che sul torace stavano comparendo dei lividi.
Erano sicuramente dovuti alla caduta di ieri sera.
Portai il polpastrello del medio sopra uno di questi e lo sfiorai.
-Ahio. – mormorai contrariata.
Era davvero possibile che quella cosa che mi aveva afferrato la caviglia fosse una mano?
Cioè, era impossibile, giusto? Le mani non possono sbucare dalla terra e stringerti per non farti andar via, no? In quel momento non ero più sicura di niente.
Spostai la mia attenzione dai miei lividi all’acqua, ora calda, della doccia e ci entrai, cercando di far finta che il fatto della notte prima non fosse mai esistito.
Mentre mi insaponavo i capelli, però, mi venne un ulteriore dubbio: come si spiegava la faccenda dell’anello, allora?
Quando finii di lavarmi, mi precipitai in camera, con un’ enorme incertezza. Mi fiondai sull’armadio e cercai i pantaloni che avevo indossato la sera prima. Dopo averne gettati molti altri sul pavimento, trovai il paio che volevo. Infilai la mano nella tasca.
Si, era ancora lì. L’anello di ieri sera. Lo tirai fuori da lì e lo osservai con curiosità.
Com’era possibile che fosse finito lì?
Me lo misi al dito e mi vestii.
Entrai in cucina, mentre ancora cercavo di ragionare sulla faccenda. Mi sedetti al tavolo della colazione mormorando un saluto a mia madre.
-‘Giorno. – la mia voce era assente, ero troppo occupata a tentar di capire cosa ci facesse un anello infilato in una radice. Ammesso che quella fosse una radice. No, lo era sicuramente. La mani non possono sbucare dal terreno. Di questo, ero certa.
-Buongiorno, tesoro. – trillò mia madre. – com’ è andata ieri? –
Alzai lo sguardo dal tavolo e lo posai su mia madre, Helen Blake in Hyde. Aveva quarantacinque anni ed era ancora bellissima. Lunghi e mossi capelli bruni le scendevano lungo la schiena, i suoi brillanti occhi verdi mi guardavano con affetto e un sorriso era comparso sul suo volto pallido cosparso di lentiggini.
Ogni volta che facevamo loro visita, i miei nonni non potevano fare a meno di dire che assomigliavo moltissimo a mia madre. Ma io credevo che la somiglianza non fosse poi così lampante, anche se loro affermavano sempre che, se non fosse stato per il colore degli occhi e dei capelli, sarei potuta essere benissimo la sua versione giovanile, eccetto forse anche per le efelidi che io non avevo.
A questo punto della conversazione, avevo sempre storto il naso, infastidita. Non mi piaceva l’idea che fossi considerata la versione più giovane di qualcuno. Io ero Ellison e basta.
- Bene. – borbottai, ancora presa dai miei pensieri. Non avevo avvisato mia madre della nostra innoqua gita al cimitero, solo che saremmo andati a casa di uno di noi e che avrei tardato.
- Tieni. – posò davanti a me un piatto con sopra uova strapazzate e un bicchiere di succo di frutta.
- Hai programmi per oggi? – mi chiese, mentre ero impegnata ad ingozzarmi della colazione.
Inghiottii il cibo e feci un segno di diniego, mentre alzavo lo sguardo. Sorrisi, vedendola dall’altro lato del tavolo della cucina. Stava mangiando e nel frattempo sfogliava un libro con interesse.
“Orgoglio e Pregiudizio”. Già letto.
-No, perché? – chiesi.
-Mi potresti dare una mano in libreria, oggi? – domandò soprapensiero, mentre cambiava pagina. La mia famiglia possedeva una piccola libreria, l’unica in città, specializzata in libri di narrativa. In effetti, vendevamo solo quelli. Da quando mio padre era morto, mia madre aveva continuato a gestirla egregiamente da sola ma ogni tanto mi chiedeva di aiutarla, spesso durante la fine della scuola, quando gli studenti compravano i libri di letteratura assegnati per le vacanze, o per fare l’inventario. Ogni volta che ero lì, per la maggior parte del mio tempo, finivamo sempre per fermarci e cominciare a leggere, per poi essere raggiunte dai miei amici ed iniziare a chiacchierare.
-Certo, quando devo venire? –
-Alle quattro. –
Mi alzai da tavola, per cominciare a pulire i piatti.
Quando ebbi quasi finito, guardai fuori dalla finestra. Fuori era una bella giornata, il Sole splendeva e non c’era quasi nessuna nuvola in cielo. Sorrisi, felice per il bel tempo. Ma, quando notai la figura che mi squadrava, nell’ombra proiettata dalla quercia della casa di fronte alla nostra, cambiai subito espressione. Il sangue mi si gelò nelle vene e impallidii all’istante, come se avessi appena visto un fantasma ed in effetti era vero. Perché, dalla finestra avevo appena visto Abrahm Williams
.


Note dell'autrice:
Okay, ieri ho finito il sesto capitolo, quindi posso continuare a pubblicare abbastanza velocemente senza farmi prendere dal panico.
Comunque, questo capitolo è molto di passaggio, ma serve per far capire un po' com'è la quotidanietà di Ellison. Povera ragazza, non c'è niente da fare: sono crudele coi miei personaggi :')
Che ne pensate della madre di Ellison? Sto pensando di farla apparire un po' di più... Boh, devo vedere cosa farle fare nei prossimi capitoli. A proposito, ci saranno vari riferimenti ad altre saghe di libri, serie tv ed altro in questa storia, per rendere il tutto più reale.
Ad esempio, in questo ho "citato" Orgoglio e Pregiudizio... caso vuole che ieri l'abbia visto alla tv... *^* povero il mio Darcy, me lo immaginavo più bello. Bingley sembrava un idiota ma okay. 
Spero che questo capitolo vi sia piaciuto, un grazie a i tre che hanno recensito e messo nelle loro liste!

 

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Capitolo 3
*** Il Fantasma ***


Capitolo 3
Il fantasma
 
 
Il cielo si era rannuvolato velocemente, grazie ad un vento fresco che mi stava agitando i capelli lì, all’aperto. Ero davanti alla lapide di Abraham, in mano tenevo l’anello che avevo vi trovato ore fa.
Alla luce del Sole, non vedevo nessuna maledettissima radice che avrebbe potuto farmi inciampare e cadere a terra. Mi accigliai. Questa situazione si faceva sempre più bizzarra: prima una radice mi faceva rovinare, poi trovavo un anello sul posto, e il giorno dopo vedevo il nonno morto della mia migliore amica.
Non sapevo esattamente cosa mi aspettassi di trovare al cimitero ma, non appena avevo visto Abraham, avevo sentito che sarei dovuta andarci.
Facendo un sospiro, mi inginocchiai davanti la lapide. Scrutai con attenzione ciò che vi era inciso sopra:

Abraham Williams
19\08\1929-07\03\2013
Padre, marito e vorace lettore

Ogni libro è una vita, leggerli è viverne una.
Feci un lieve sorriso.
Quella frase mi era sempre piaciuta. Abraham la diceva sempre, d’altronde l’aveva "ideata" lui.
A qualche decina di metri da dove mi trovavo, si stava tenendo un funerale, notai distrattamente. Cercai di non farci troppa attenzione, siccome mi avrebbe ricordato il giorno di quello di mio padre.
All’epoca avevo dodici anni. Il cielo era totalmente oscurato da grigie nuvole, promettenti un temporale a breve. Eravamo in pochi ad aver partecipato alla cerimonia, solo dei familiari intimi e gli amici più cari di mio padre, Samuel Hyde era sempre stato un tipo riservato e per niente esibizionista.
Quel giorno, mi ero tenuta lontano dagli altri, non volevo che qualcun altro tentasse di avvicinarmi; sebbene avessimo tutti perso la stessa persona, ognuno di noi provava un dolore ed una nostalgia diversi e quindi nessuno poteva capire cosa sentivo. Volevo stare da sola.
Così ero finita proprio sul ciglio della buca che il becchino aveva scavato. Era profonda almeno due metri e mezzo. Sul fondo, avevano già depositato la tomba.
All’interno c’è mio padre, avevo pensato con un misto di tristezza e stupore. Non ci potevo ancora credere che l’uomo che mi aveva trasmesso l’amore per i libri, come mia madre, del resto, e che mi aveva insegnato a leggere, fosse lì.
Sentendo che le lacrime stavano per un’altra volta per sgorgare, avevo sbattuto per qualche volta gli occhi, per poi portarmi un ciocca, sfuggita allo chignon che mi ero fatta, dietro l’orecchio.
Come omaggio al mio defunto genitore, avevo raccolto i capelli, come gli piaceva, e indossato l’abito nero che mi aveva comprato per il mio ultimo compleanno, come se avesse predetto la sua morte.
Quando avevamo gettato i girasole, i suoi fiori preferiti, non avevo più potuto trattenermi: mi ero sciolta in lacrime. Ero stata l’ultima a buttare il fiore, con il viso tutto bagnato. Poi, avevo cominciato a singhiozzare sempre più forte. Ero riuscita a smettere solo quando la mano di mia madre si era posata sulla mia spalla, tranquillizzandomi.
Sbuffai lievemente al ricordo del funerale di mio padre. Mi asciugai una lacrima che mi era sfuggita e mi rialzai, squadrando ancora la lapide.
Come era stato possibile che avessi visto il suo proprietario?
Non ero pazza, di questo ne ero certa, o quasi. 
-Ellison. – mi chiamò una voce che ben conoscevo. Proveniva da dietro di me e sembrava una di quelle voci che ti invocano nei sogni, quelle che cerchi di raggiungere ma che non ci riesci mai. Mi voltai verso colui che aveva pronunciato il mio nome.
-Signor Abraham? – era lui. Davanti a me c’era davvero lui. Feci un verso di sorpresa.
-Oh, andiamo, ci conosciamo da anni. Penso che tu possa cominciare a chiamarmi Abe. –
Rimasi in silenzio, quello che stava accadendo non poteva essere reale. Abraham Williams era morto. Che stessi veramente impazzendo? O forse stavo soltanto dormendo e quello era un sogno.
Mi pizzicai un braccio, forte. Niente: non mi svegliavo.
Rabbrividii, quello non era un sogno, ma la realtà.
Abraham mi sorrise e sul suo volto comparvero ancor più rughe, soprattutto agli angoli degli occhi e vicino alla bocca.
Impallidii. Perché di tutte le persone morte che mi potevano comparire in un attimo di follia, la mia mente aveva proprio scelto quella di Abraham?
L’uomo, o il fantasma, davanti a me sorrise ancor di più, scoprendo i suoi denti bianchi. – Sono reale, Ellison. Stai tranquilla. – disse con voce confortevole.
-Come… come posso saperlo? Tu sei morto. Non dovrei… vederti. – balbettai. Abraham sorrise ancora.
-Lo so, figliola. Sono morto ma sono qui, grazie a te e ai tuoi amici. –
-Cosa? – esclamai con stupore. I suoi occhi brillarono di intelligenza.
-Ieri sera, quando avete fatto quel rito, mi avete invocato, no? – annuii. Ancora non riuscivo a credere che lui fosse lì. Allora il rito aveva funzionato? – la vostra amica, Jenna Martin, mi ha fatto ritornare. Non avrei potuto comunicare con voi, usando solo la mia essenza, così mi sono impossessato della tavola Ouija e ho cercato di parlarvi ma non ci sono riuscito. – assunse un’espressione dispiaciuta. – E poi ho tentato di fermarti, ero disperato, e ho usato una radice per evitare che te ne andassi. -
-Vuoi dire che… - cercai di dire e, prima che finissi di parlare, lui annuì, confermando il mio sospetto.
-Esatto. La mano era la mia. Cioè, non proprio la mia. Era una radice. Sono riuscito a controllarla, e credo che abbia assunto le sembianze della mia mano, per un momento. – si guardò la diretta interessata. - Mi dispiace di averti spaventato ma volevo parlare con la mia nipotina. – ad un tratto, la sua voce si fece triste.
Al ché rimase in silenzio.
Mi lasciai cadere accanto alla sua tomba e cominciai a giocare con uno stelo d’erba. Lo staccai, per poi portarmelo davanti agli occhi e fissarlo con curiosità.
Pareva secco e… grigio. Come se all’improvviso fosse senza vita.
-Quando vengo a contatto con qualcosa di questo mondo, questa diventa così. – spiegò Abraham, mentre si sedeva accanto a me. Mi girai verso di lui. Ci separavano trenta centimetri, eppure riuscivo a sentire che, al contrario delle altre persone, emanava freddo. – è come se la portassi nell’altro mondo. –
-Altro mondo? – chiesi con curiosità. Allora esisteva il Paradiso, l’Inferno e tutte le altre cose? I miei genitori non erano mai stati religiosi e perciò ero cresciuta nutrendo non poca indifferenza verso i sacerdoti e le chiese. Durante i miei sedici anni di vita ci ero entrata massimo una decina di volte. Mia madre o mio padre non mi avevano mai costretto a frequentarle, volevano che scegliessi io in ciò in cui credere. E avevo deciso di rimanere nel mezzo, tra gli atei (come i miei genitori) e i credenti (come i miei nonni), insomma, credevo che ci potesse essere qualcosa, oltre a noi, ma ci avrei potuto prestar fede solo se ne avessi avute le prove. Ma ora che il fantasma accanto a me mi stava dicendo che esisteva un altro mondo, stavo cominciando seriamente a considerare l’idea che potesse esistere un posto in cui si va dopo… la fine dei nostri giorni. No, era impossibile, decisi poi.
-Non è il Paradiso, se intendi questo. E neanche l’Inferno. La morte arriva per tutti ed è uguale per ognuno di noi. – la sua voce era grave e bassa. Rabbrividii sentendo cosa aveva detto. – Semplicemente, figliola, quando moriamo, andiamo in un altro posto. Ma possiamo andarcene se qualcuno ci evoca, come è successo ieri sera. –
A quel punto scoppiai a ridere. Non potevo farne a meno: quello che Abraham (ammesso che non fosse una mia allucinazione, cosa che ancora pensavo) mi aveva detto era assurdo. Dopo la morte non c’era niente.
Risi finché non mi vennero le lacrime agli occhi, mentre mi tenevo la pancia con le mani.
Durante tutto questo Abraham rimase inflessibile, non cercò neanche di fermarmi.
Non feci neppure caso ai passanti che mi sorpassavano e guardavano male.
-Hai finito, figliola? – mi domandò, quando finii la mia performance da isterica.
-Che intendi dire? – mi asciugai una lacrima.
-So perfettamente che adesso tu stai pensando che tutto questo sia un’allucinazione, ma, Ellison, io sono reale. Per un qualche motivo, tu mi vedi, anche se non ho fatto niente perché ciò avvenisse. -     
-Come posso sapere che non sei un frutto della mia immaginazione che adesso non mi stia inventando tutto? –
I suoi occhi azzurri divennero malinconici. – Guardati la caviglia, Nellie. – disse usando il soprannome che mi avevano dato da piccola.
Alzai il tessuto dei pantaloni e mi guardai il punto che mi aveva indicato.
Attorno alla mia caviglia c’erano delle ombre violacee.
Sembravano impronte di polpastrelli.
Era tutto vero, allora
.       

Note dell'autrice:
allora, la spiegazione per l'apparizione della mano è cambiata molto, man mano che scrivevo la storia e ne è uscita questa. Ora, lo so che leggendo questo capitolo potrebbe sembrare sconclusionata, io stessa l'ho pensato leggendolo poiché non mi ricordavo cosa ci fosse scritto in quello successivo, ma giuro che si spiegherà tutto.
Ad ogni modo, finalmente ho imparato come si scrive "Abraham"! Yeah! Non sapevo che si scrivesse così. Stupido internet. Coooomunque, questo capitolo vi è piaciuto? Vi sareste aspettati che la storia prendesse questa piega?
Un grazie ad J_Angel, Far Cry e Silena che hanno recensito l'altro capitolo e a chi segue, preferisce e ricorda questa storia <3

 

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Capitolo 4
*** L'altro mondo ***


Capitolo 4
L’altro mondo

 
Mi sfiorai lievemente i lividi, visibilmente stupita della loro esistenza.
Sentii all’istante una fitta di dolore alla caviglia così allontanai la mano.
Una radice non poteva avermi stretto così forte da provocarmi un livido, quindi quella cosa che avevo visto la scorsa notte era veramente la quasi - mano di Abraham, posseduta dal suo stesso spirito, appena tornato dal mondo di cui parlava.
-Ok, supponiamo che io ti creda: perché sei venuto da me? Non hai detto che avresti voluto vedere Dominique? – chiesi con voce un poco diffidente.
Nei suoi occhi si fece strada un’espressione addolorata. – Lo avrei voluto. Ho cercato di farmi… percepire da lei ma senza successo. Così sono ritornato qui, alla mia lapide, trovandoti. Ti ho chiamata e il resto lo sai. –
Aggrottai la fronte. – Ma, se Dominique non ti ha visto, perché io sono capace di farlo? –
Abraham scosse la testa. – Non lo so. Però penso che tu sia come Jenna. –
- Una specie di medium? – ero troppo stupita per cercare di dare un significato a quanto mi stava dicendo. Per il momento, mi dedicai solamente a capirci un po’ di più della situazione.
-No: ma hai lo stesso qualcosa di speciale. Non so cosa, però. – mi mordicchiai il labbro, esitante. Intanto si portava l’indice e il pollice sul mento, guardandomi pensieroso.
-E ora? – domandai. Sperai vivamente che Abraham avesse in mente cosa fare adesso che era riuscito a farsi percepire. Cosa voleva fare? Aveva intenzione di rimanere qui per sempre? Oppure sarebbe tornato all’altro mondo?
-Io credo che sia meglio che ritorni da dove sono venuto. – affermò. – Ma ho bisogno del tuo aiuto per farlo. – riportò la mano in grembo e la intrecciò con l’altra.
-Del mio aiuto? – ripetei, incredula.
Lui annuì, serio. – Devi recitare la formula. Ho come la netta sensazione che tu possa riportarmi lì. O quanto meno che tu possa fare qualcosa. Qualcosa di speciale. – alzai un sopraciglio, alzandomi e guardandolo circospetta.
Mi pulii le mani, sfregandole sui jeans neri. Sentii, contro la stoffa dura dei pantaloni, l’anello. Lo tirai fuori e solo in quell’istante, notai che sulla sua superficie recava delle iniziali:
"P. G .L.".
Nella parte opposta era inciso un arco con una freccia pronta per essere scoccata.
- Nellie? – mi richiamò Abraham. Distrattamente mi infilai l’anello al medio, certa che quell’oggetto fosse importante, anche se ancora non avevo capito il suo scopo. Annuii, per far capire all’uomo che lo avevo sentito e feci quanto mi aveva richiesto:
-  Oh, potente terra madre
   Apri la porta tra il mondo di noi vivi. – chiusi gli occhi, nel tentativo di ricordarmi il resto della formula ma anche perché, se tutto questo avesse funzionato, non volevo veder andar via Abraham un’altra volta.
- E dei morti
   Per non dimenticare ciò che va ricordato.  –
Aprii un occhio, tentando di capire se ci fossi riuscita. Non mi pareva che fosse cambiato nulla. Alzai l’altra palpebra. Davanti a me, c’era ancora Abe. Gli lanciai un’occhiata interrogativa. Non capivo: sembrava così sicuro di quello che aveva detto… possibile che si fosse sbagliato? Oppure avevo commesso io un errore?
- Non ha funzionato. – affermò, con voce sconsolata.
Fu non appena disse questo che mi sentii risucchiare all’indietro e portata in un altro posto.
 
Era come se ogni particella del mio corpo si staccasse dalle altre. Però, a causa di questo, non sentivo dolore, no, piuttosto una forte sensazione di smarrimento, rafforzata dal fatto che stavo andando chissà dove.
I miei capelli neri sbattevano contro il viso, come onde scure che mi impedivano la visuale. Non stavo precipitando, era come se fossi nell’occhio di un ciclone che viaggiava in orizzontale.
Una sorta di vortice. Era una sensazione difficile da spiegare, siccome credo che non esista nessuno che abbia provato lo stesso.
Con le mani cercai di aggrapparmi a qualsiasi cosa, per tentare di fermare questo vorticare, invano. Nel mio tentativo fallito, compresi come si sentiva Alice mentre precipitava lungo la tana del Coniglio Bianco, però, non vedevo galleggiare in aria nessun orologio a pendolo, o quanto meno non ancora. Per fortuna.
 
Il mio… lo si poteva definire propriamente viaggio? (ebbene in quel momento non ci badai molto a dare un nome alla mia… nuova esperienza, visto che ero troppo occupata per girarmi su me stessa, nel tentativo di capire dove fossi) finì presto.
A primo impatto, non mi sembrava che mi fossi mossa di un centimetro: ero nel cimitero. Eppure, sentivo, dentro di me, che il posto dov’ero era molto diverso da quello da dove ero partita. Enormemente diverso. Mi passai una mano tra la frangetta, mentre nel mio volto compariva un’espressione sorpresa e, ne ero certa, confusa. – Ma… dove sono? – feci vagare il mio sguardo ancora per un poco. – Abraham? –
Niente. Possibile che avessi viaggiato solo io?
Mi alzai da terra, appoggiandomi all’erba morbida e ben curata.
Era di una strana sfumatura tra il verde ed il grigio. Bizzarro.
Scrutai con più attenzione le incisioni della lapide di fronte a me, una volta in piedi, e trattenni il respiro.

Ellison  Eve Hyde
17/05/1997- ____
Sotto, c’erano delle mie foto nel corso degli anni. In tutto erano sedici, come la mia età, realizzai inquietata. Mi avvicinai alla roccia, guardandola diffidente, come se fosse un’ allucinazione o uno scherzo di pessimo gusto. Quando toccai la pietra fredda e liscia, constatai che non era affatto una finzione.
Deglutii. Ma perché era lì? Io non ero morta, giusto? E poi, anche se lo fossi stata, perché mai non c’era la data? Staccai la mano dalla lapide e ricominciando a guardarmi attorno, decisa a tenermi al più lontano dalla mia pseudo tomba.                                                                                                                        
Iniziai così a vagare per il campo santo, seguendo il sentiero e scorgendo, ogni tanto qualche nome che conoscevo, per lo più dei miei compagni di classe che, ne ero sicura, era impossibile che fossero morti. O almeno così credevo.
Non sapevo cosa stessi cercando, se era quello ciò che stavo facendo nel cimitero, cosa di cui dubitavo un poco, ma ero certa che, una volta che mi ci fossi trovata di fronte, l’avrei riconosciuto, aiutata dal mio sesto senso.
Ero intenzionata a passare su ogni centimetro di superficie del campo, quando mandai al diavolo ogni mia intenzione per fermarmi di fronte ad una lapide.
Sbancai di colpo, leggendo le sue incisioni e, con tutte le mie forze, sperai vivamente che quelle lapidi non indicassero veramente chi fosse morto.
Mi inginocchiai di fronte alla pietra regolare. Non conoscevo il materiale con cui fosse fatta ma sapevo che la sua proprietaria avrebbe approvato la scelta da viva, visto il suo colore grigio con sfumature blu. In alto a destra, era incisa una peonia, il suo fiore preferito. Mamma… pensai con le lacrime agli occhi. Sfiorai la superficie della lapide, temendo che forse, se l’avessi toccata, sarebbe caduta a pezzi.
Non successe niente, ovviamente.
-Hai perso qualcuno? O forse dovrei dire che qualcuno ha perso te? – disse una voce alle mie spalle. Era giovanile, sicuramente appartenente ad un ragazzo di poco più grande di me, e scherzosa. Mi voltai, per scoprire chi fosse il suo proprietario.
Mi ritrovai di fronte ad un ragazzo, sui diciassette o diciotto anni. La sua bocca era aperta in un sorriso amichevole, che però non mi fece alcun effetto, visto il mio umore del momento.
Indossava dei jeans scuri, non aderenti, che gli coprivano parte delle scarpe da ginnastica grigie. Addosso aveva un giubbotto di pelle nera e sotto una maglietta grigia, con delle scritte arancioni che dicevano: “ MEGLIO CHE TI ABITUI PRESTO ALLA MIA PRESENZA”.
Tra i capelli castani scuro era appoggiato un paio di Ray Ban dall’aria costosa, con la montatura arancione, lo stesso della maglia.
Alle orecchie aveva degli auricolari, probabilmente appartenenti ad un ipod di ultima generazione e molto caro, visto che tutti i suoi abiti dicevano lo stesso, eccetto forse per la t-shirt.
Il suo volto era pallido, molto più del mio, e le labbra avevano un’ inquietante sfumatura azzurrina, come se stesse congelando per il freddo, nonostante nel cimitero ci fossero circa venticinque gradi, forse di più.
Spostai il peso da un piede all’altro. Intanto l’anello al dito medio cominciò a riscaldarsi.
Però non scostai lo sguardo da quel ragazzo, incerta di cosa pensare su di lui.
Una leggera brezza si alzò, facendo ondeggiare gli steli d’erba grigiastri. Era come se in quel posto tutto dovesse essere più o meno di quel colore. – Chi sei? – chiesi, guardandolo negli occhi.
Erano strani almeno quanto lui, se non di più: l’iride, come la sua chioma disordinata e folta, era castano scuro ma, nonostante non fossi abbastanza vicina per esserne sicura, con delle pagliuzze dorate, e, inoltre, questa era più scura alla sua estremità, nera.
Erano circondati da occhiaie molto scure, quasi violacee.
Il ragazzo fece di nuovo quel sorriso e si portò una mano in tasca, prima di rispondere:
-Io sono… - fece un profondo respiro teatrale a cui risposi facendogli segno di muoversi, un po’ infastidita. – Percy - alzò il pollice, come se stesse contando. – Gabriel - fece lo stesso con l’indice. – Lee Arrow. – sollevando infine il medio, finendo quella pagliacciata.
Alzai un sopraciglio, sentendo quel nome così lungo. Percy alzò le mani, fino a portarle allo stesso livello delle spalle strette. – Non sto scherzando! – sorrise ancora. Sembrava quasi che non potesse fare altro. L’anello adesso iniziava perfino a pulsare. Fui tentata di toglierlo ma quello non era il mio problema principale, ora. – E, no, non sono figlio di Poseidone.*–
Assunsi un’espressione scettica, di fronte alla sua battuta. – Davvero? Non sai fare di meglio? – gli domandai con voce ironica e allo stesso tempo divertita ma non per la sua battuta, no di certo. Questa volta fu il suo turno di alzare il sopraciglio. – Se tu avessi anche solo la minima idea di chi sia il personaggio a cui mi riferisco, ora rideresti. – osservò, truce.
Incrociai le braccia al petto. – Io so di chi stai parlando. Soltanto perché hai degli abiti costosi, non vuol dire che sono meno erudita di te. –
Percy sollevò le sopraciglia, sorpreso dalla mia risposta. – Erudita? Cavolo, se queste sono parole che usi ogni giorno, è ovvio che lo sei più di me! – esclamò, strappandomi un sorriso. Si grattò la guancia, guardandosi attorno. – E poi assomiglio più a Nico.*– mormorò soprapensiero, camminando in equilibrio sul bordo del sentiero del cimitero.
Annuii, anche se questa somiglianza non la notavo molto, visto che il figlio di Ade aveva i capelli neri e non se ne andava in giro con un sorriso che andava da un orecchio all’altro, come il suo.
Si voltò verso di me, come se si fosse appena ricordato di qualcosa di importante. - E tu? Come ti chiami, ragazza dei misteri? –
Scoccai un’ultima occhiata alla lapide di mia madre, prima di rispondere: - Io sono Ellison Hyde. –
Percy si girò e continuò il suo gioco da equilibrista fino a me. Al ché, mi porse la mano.
La sua pelle era fredda come il ghiaccio ma liscia e morbida, sarebbe stata piacevole, se non avesse la mano simile ad un piccolo frigorifero.
-Hai la pelle calda. – constatò, sorpreso. Alzò lo sguardo fino ad incontrare il mio e potetti confermare le mie teorie sul colore dei suoi occhi: aveva davvero delle pagliuzze dorate ed un cerchio nero che delimitava l’iride. Staccò la mano dalla mia, non smettendo di guardarmi in quel modo confuso e sorpreso. – Da dove vieni? – domandò, dopo qualche minuto di silenzio e scandendo bene ogni sillaba.
Però prima che ebbi l’occasione di rispondere sentii che, di nuovo, ogni singola particella del mio corpo si staccava dalle altre…
 
Questa volta, non sentii nemmeno che viaggiavo. Mi accorsi di cosa mi stava accadendo solo grazie a quella sensazione iniziale e alla fine, quando atterrai sull'erba, capii di essere ritornate per la sfumatura degli steli: erano verdi, senza alcuna sfumatura grigia.
Feci un sospiro di sollievo, sinceramente rincuorata di essere di nuovo lì, per quanto non possa essere… normale stare in un cimitero in compagnia del nonno di una delle tue migliori amiche.
-Nellie? – mi chiamò Abe. Mi voltai verso di lui, rassicurandolo con un sorriso. Nel mio breve periodo in quel… posto, mi ero scordata, dopo un po’, che c’era lui, ad aspettarmi qui. – Dove sei stata? All’improvviso sei scomparsa! Sei stata via parecchio. –
-Davvero? – ribattei frastornata. A me sembrava di essermi assentata solo per una decina di minuti, massimo mezz’ora.
Abraham annuì, grave. – Sei scomparsa da almeno due ore. Forse anche tre. –
Mi tastai la fronte, leggermente dolorante. – Mi fa male la testa. – mi lamentai. Feci per alzarmi ma le forze mi vennero meno e caddi a terra.
Abraham fece un verso di disapprovazione. – Forse è meglio che tu ti riposi un po’. Viaggiare nell’altra parte deve averti preso non poche energie. –
Sgranai gli occhi, alle sue parole. – L’al… altra parte? – balbettai.
Annuì ancora.
 Cacchio.

* riferimento a Percy Jackson, protagonista della saga di Rick Riordan Percy Jackson e gli Dei dell'Olimpo, figlio di Poseidone. Uno dei protagonisti anche nella saga Eroi dell'Olimpo.
** Nico di Angelo, figlio di Ade (spero di non fare alcuno spoiler a chi sta leggendo i primi libri della saga) e amico di Percy. Diciamo che non se ne va in giro con un sorriso a trentadue denti.


Note dell'autrice: 
Allora, come avevo promesso, qui si spiega un po' meglio la questione della mano - radice e si introduce un nuovo personaggio, Percy *-*
Il suo nome è un chiaro riferimento alla saga Percy Jackson e gli Dei dell'Olimpo, sì, ma vi avevo detto che avrei fatto dei riferimenti a libri, serie tv e chi più ne ha più ne metta, e poi questi libri sono molto importanti per me *-* Comunque, metterò alcune spiegazioni per chi ne ha bisogno a fine capitolo anche se vi consiglio i libri di Riordan perché sono un qualcosa di semplicemente fantastico, Silena capirà ;)
Coooomunque... ritornando al nome di Percy, umh, gliel'ho affibbiato perché mi piace, lo trovo carino e così lui avrebbe potuto fare quella battuta da quattro soldi. 
Ad ogni modo, un grazie a chi ha recensito lo scorso capitolo e un benvenuta a Lacus che ha cominciato a recensire la storia *-* Presto tornerò ad Underworld, promesso.


 

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Capitolo 5
*** Muppet ***


Capitolo 5
Muppet  
 
Con un sospiro, cercai di rendere più realistici i suoi occhi, ripassando ancora una volta il loro contorno, invano. Il risultato assomigliava vagamente ad un Muppet, quello psicopatico, per intenderci meglio.
Lo so, la mia dote creativa non era delle migliori ma non è che io avessi molto altro da fare adesso che avevo finito con l’ultimo cliente, mentre mia madre era ancora a scrivere la domanda per i nuovi libri, e avevo un tremendo mal di testa, per cui leggere era fuori questione.
Sbuffai, annoiata.
-Quindi sarebbe questo il ragazzo che hai incontrato? – mi domandò Abe, da dietro la spalla.
Annuii, senza guardarlo. – O è lui o Animal. –
-Non credo che sia possibile incontrare uno di quei peluche in un’altra dimensione. – affermò, dopo un po’. Mi voltai verso di lui, le mani appoggiate al balcone.
-Allora quella è un’altra dimensione? – chiesi sorpresa.
Abraham annuì, scrutando ancora il mio disegno. Arrossendo, lo girai dalla parte ancora bianca.
Quella specie di ritratto non rendeva giustizia al suo proprietario. – E hai qualche ipotesi per cui io sarei stata in grado di andarci, qualche ora fa? – incalzai, ansiosa di scoprire la verità.
Non appena ero stata in grado di alzarmi in piedi, Abraham mi aveva spiegato che ero andata da dove proveniva lui, ovvero, a quanto mi diceva adesso, un’altra dimensione a cui si poteva accedere morendo. Ma, se questo era vero, allora dovevo essere morta e poi essere ritornata in vita.
Abraham credeva che non fosse stato così per me, siccome il mio corpo era scomparso, ma non sapeva darmi atre spiegazioni per ciò che era accaduto.
Sinceramente ne ero rincuorata: sapere di essere morti per ritornare in vita nell’arco di più di due ore era allarmante e terrificante.
-Ehi! Come va? – saltò una voce che seguiva il suono della campanella alla porta. Mi girai e, quando scorsi Jenna che si dirigeva verso di me, tra due scaffali contenenti gialli, tentai di sorridere amichevolmente. – Non è che ieri sera uno spirito ti ha mangiato la lingua? Io e gli altri ti abbiamo mandato dei messaggi. –
Corrugando la fronte, controllai il cellulare. – Qui ci sono degli sms solo da parte di Dominique – Abraham sospirò affranto. – e David. – constatai, guardandola scettica.
Jenna mi rivolse un’occhiata del tipo “E tu mi ascolti pure?”. Alzò le spalle. – Credito scarico. – si giustificò, anche se sapevamo entrambe che non gliene fregava molto di scusarsi per certe sciocchezze. Annuii e mi appoggiai al balcone, imitata presto da lei.
-Che fai? – chiese passando lo sguardo sui volumi posati sul balcone di legno di quercia. Lì, tragedie del Rinascimento si alternavano ad alcuni Fantasy.
-Niente. – borbottai, appoggiandomi sempre più sul mobile.
Jenna prese da questo un foglio, lo guardò un poco confusa. – Perché hai disegnato Animal dei Muppet? – a quel punto arrossii di nuovo, tentando si afferrarlo.
-Non sono affari tuoi. – mormorai vaga, mentre mi sporgevo dal balcone. Jenna si tirò indietro appena in tempo e sorrise, malandrina. Si portò una treccina dietro l’orecchio, con ancora quel sorriso irritante.
-Oh, la piccola Nellie si è presa una cotta per qualcuno e ha cercato di disegnarlo? – trillò, assomigliando ad una bambina di cinque anni infantile, immatura, infantile, irritante e… l’ho già detto infantile?
Al pensiero di prendere una cotta per un tipo come Percy, rabbrividii. Ugh. Scossi la testa, furente.
-Dammelo. – ordinai porgendo la mano.
Jenna fece un sorriso sornione e andò a sedersi su un gradino delle scale che di solito usavo per raggiungere i libri più in alto. Stupida statura. Prese un volume a caso ed iniziò a sfogliarlo, ignorando bellamente il mio sguardo minaccioso. Intanto, io mi stavo avvicinando lentamente.
Con ancora gli occhi fissi sul libro mormorò: - Lo sai che, se detta ad un ragazzo, quella frase potrebbe essere fraintesa? –
Strinsi pugni, ricordandomi che, se l’avessi presa a calci adesso, non avrei dimostrato di essere più matura di lei. L’omicidio è ancora illegale, Ellison. Resisti. Accidenti, a volte sembrava che volesse veramente istigarle, le persone.
Feci un altro passo, silenziosamente. Ancora qualcun altro e l’avrei raggiunta.
- Ah, si? – mormorai distrattamente.
La ragazza annuì, non guardandomi ancora. – Questo libro è carino. Me lo regali? – chiese.
-Spiacente, niente privilegi per gli amici. – risposi con un ghigno, mentre le strappavo il disegno dalle mani. Inutile dire quanto fossi soddisfatta in quel momento.
Si imbronciò. – Come sei generosa. – disse, sarcastica. Scese dal gradino, scoccando un’altra occhiata al foglio che tenevo in mano e portando il giallo al balcone.
Quando lo infilai nella busta Jenna domandò: - E, comunque, chi è lui? –
Per poco non feci cadere il libro, siccome sobbalzai all’istante.
Alle mie spalle, Abraham ridacchiò. Controllandomi, evitai di girarmi per scoccargli un’occhiataccia. Riportai la mia attenzione su Jenna e storsi il naso. – Nessuno. –
Lei inclinò la testa di lato. – Come il tizio dell’ Odissea? – sorrise sorniona.
Evitai di risponderle.
 
- E adesso che farai? – mi chiese Abraham, mentre ritornavo a casa dalla libreria. Mamma rimaneva ancora lì per un po’. Non aveva finito tutto il lavoro e voleva che cucinassi la cena.
Spingevo la bicicletta, per poter parlare con Abe, nonostante fossero molte le possibilità di essere presa per matta se mi avessero vista.
Guardai accigliata la strada. – Non lo so. – borbottai. – Forse ritornerò lì. Credo che sia l’unica cosa da fare per scoprire perché io possa andarci, no? –
Abraham annuì, acconsentendo al mio piano. – Intanto sappiamo, Nellie, che non apri un portale, o quanto meno non per tutti. Solo per te. Forse dovresti chiedere aiuto a quel ragazzo. –
Scossi la testa. – Non credo di poterlo ritrovare, e poi so cavarmela da sola. – affermai.
Calciai un sasso soprappensiero. Mi grattai la nuca, cercando di pensare a quando avrei potuto “viaggiare”.
-Non lo dubito. Ma forse avere qualcuno del luogo accanto a te, visto che tu non puoi farmi ritornare indietro, ti potrebbe essere utile. – osservò lui.
Mi fermai e voltai verso di lui. – Vediamola così: se lo incontrerò dall’altra parte, gli chiederò di aiutarmi, va bene? Altrimenti farò tutto da sola. –
- Mi sembra ragionevole. – commentò, mentre ricominciavamo a camminare. – Quando hai intenzione di viaggiare di nuovo? – chiese, poi.
Ci pensai un po’ su. – Domani. –
 
***
 
-Vi giuro che quella ragazza esiste! – esclamai per l’ennesima volta. Poi sbuffai. Possibile che i miei due migliori amici non credano che avevo incontrato veramente una ragazza che si è smaterializzata all’improvviso?
-Forse l’hai solo ricordata. – suppose Peter, mentre faceva dondolare le gambe. Era seduto su una tomba del cimitero. Era una tomba privata, in cui dentro c’erano delle lastre di marmo su cui incisi i nomi dei proprietari. Quella famiglia doveva essere proprio vanitosa. Aggrottai la fronte, quando mi chiesi se lo fossi stato anche io, in vita. Ma niente. Non mi ricordavo nulla o, se non nulla, solo alcuni flash ed informazioni fondamentali, come il mio nome e cognome, la mia data di nascita e delle scene di quella che doveva essere la mia vita. Per il momento, ancora niente di imbarazzante.
Scossi la testa. – Non credo. La ragazza l’ho vista qui. L’ho toccata.- feci una pausa, ricordandomi la sensazione della pelle di Ellison contro la mia. - Era calda. – aggiungo poi.
Bree arricciò il naso, forse infastidita da qualcosa che avevo detto, e si scostò i lunghi capelli platino. Ma che problema ha? Decisi di non farci caso, siccome la mia amica era un tipo particolarmente complicato.
-Forse era uno dei soliti tizi in coma. – disse con voce acida.
Peter spalancò gli occhi. – Se così fosse, allora potrebbe essersi risvegliata mentre parlavate! –
Alzai un sopraciglio. – E quindi secondo voi sarebbe stata in coma per neanche mezz’ora? – scossi la testa ancora una volta. – No, deve esserci una soluzione. –
-Com’era? – domandò all’improvviso Peter. Nonostante fosse dubbioso sull’esistenza di Ellison, ero certo che ne fosse interessato lo stesso.
Mi strinsi nelle spalle, cercando di capire come descrivere al meglio Ellison. – Era carina. Con i capelli ed occhi neri. – ci pensai un po’ su. – Bassa e magra, pallida. – tentai di non dar peso a Bree che torturava l’orlo del suo vestito. – Portava degli abiti neri. –
-In perfetta armonia con questo posto. – commentò acida.
Annuii. – Di certo tu non lo sei. – replicai. Non mi sembrava giusto che le desse addosso, senza neanche conoscerla e che fosse presente.
Bree fece un sorriso, il primo della giornata. – Lo prenderò come un complimento. –
Poi successe qualcosa di strano: fu come se, all’improvviso, il cimitero abbandonasse quella sfumatura di grigio che sembrava dover esserci in ogni cosa ed acquisisse il suo colore originale.
Per un breve istante, mi parve di sentire un leggero venticello. Mi alzai subito in piedi.
C’era qualcosa, dentro di me, che mi diceva che dovevo andare da un’altra parte.
-Percy? Cosa c’è? - mi domandò con voce preoccupata Bree.  Mi girai verso di lei.
-Non lo sentite? –
-Cosa? – chiese confuso Peter.
Scossi la testa. – Seguitemi. – dissi solo, ed iniziai a correre, senza neanche voltarmi per accertarmi che loro facessero lo stesso.
Dentro di me sentivo crescere una frenesia incontrollabile. Avvertivo il bisogno di arrivare ad una determinata lapide di quel cimitero, come se stesse accadendo qualcosa di straordinario e, in un qualche modo, il mio corpo lo avesse percepito.
Mi frenai di colpo davanti alla tomba di una ragazza. I miei amici mi sbatterono contro ma, visto che Peter era solo un bambino di tredici anni mingherlino e Bree magra come un chiodo, non mi smossero di un centimetro, nonostante non fossi robusto per niente.
Lessi il nome e feci un sorriso enorme.
 
Ellison Eve Hyde
17/05/1997-_______
 
- È lei. – mormorai compiaciuto. Ad una parte di me piaceva il fatto che fossi stato attratto fino a lì.
Non avrei saputo dire perché. – Allora esiste! – esclamò Peter, sorpreso.
Gli dedicai un’occhiata di traverso, accompagnata da un sorriso sbilenco. – Strano, eh? –
Peter, se avesse potuto, sarebbe arrossito. – No, non… - ammutolì all’improvviso. E presto capii anche il perché: sulla tomba, a circa un metro dal terreno, era comparso un buco nero. Però, invece di risucchiare tutto ciò che lo circondava, questo soffiava aria calda, come se fosse un enorme phon.
Protesi una mano per toccarlo ma Bree mi afferrò il polso. – Cosa stai cercando di fare? Non sappiamo nemmeno cosa sia! –
Non le risposi, ero troppo occupato a guardare affascinato quello spettacolo. Sentivo, dentro di me, che io conoscevo ciò che stava per accadere. Era come se avesse fatto parte della mia precedente vita. Feci un passo avanti, liberando il braccio dalla presa della mia amica. Mi avvicinai ancora di più, fino ad avere la punta del naso che quasi toccava quel piccolo miracolo.
Era frustrante non ricordarmi perché lo trovassi così familiare ma la sensazione che mi stava dando riusciva, in un qualche modo, ad acquietarmi. Alzai nuovamente la mano per cercare di toccarlo, quando, qualcosa mi venne addosso.
L’attimo dopo mi trovavo a terra, con qualcuno sopra di me.
-Ahio. – mi lamentai, mentre cercavo di sputare i capelli finiti in bocca e scostarmi quelli negli occhi. Diedi un’occhiata a chi mi aveva praticamente investito e sorrisi.
Era Ellison. – Ti sono mancato? – le domandai, con voce profonda.
La ragazza alzò il viso dal mio petto e parve rendersi conto di dove si trovava perché assunse un adorabile rossore. Si scostò da me violentemente. – Tantissimo. – disse con sarcasmo. – Non vedevo l’ora di rivederti, infatti. –
Risi divertito ed anche Peter si unì a me, ma meno convinto. Bree, invece, era troppo impegnata a guardar male Ellison. – Quindi è lei? – chiese come se stesse parlando di un vecchio e puzzolente scarpone. Mi diede un poco di fastidio ma ormai c’ero abituato: Bree aveva la brutta abitudine di essere leggermente snob e gelosa dei suoi amici.
Ellison le lanciò un’occhiataccia. – Se per “lei” intendi me, sì, io sono io. Strano, eh? –
Scoppiai nuovamente a ridere, alzandomi in piedi. – Cosa ti porta qui? I magnifici colori del posto? La compagnia vivace e vitale? Oppure ti sono mancato veramente? –
Bree sospirò rumorosamente, evidentemente infastidita.
Per l’ennesima volta, quel giorno, mi chiesi che problema avesse.
Ellison spostò lo sguardo da lei e lo posò su di me. Scosse la testa. – Sono in cerca di risposte. – disse. In cambio, io mi misi a ridere di nuovo.
Non ci potevo fare niente: il modo con cui l’aveva detto, così solenne, come se fosse alla ricerca del Santo Graal, era troppo divertente.
-Se stai cercando il calice che Gesù Cristo ha usato all’ultima cena, sei sulla strada sbagliata. – riuscii a dire, ancora ridevo. Ellison mi scoccò un’occhiataccia.
-Non sto cercando un leggendario calice, altrimenti noto come Santo Graal, ah, a proposito, guarda che alcuni studiosi hanno ipotizzato che invece ci abbiano versato il suo sangue alla sua morte, e nessuna ipotesi non è stata ancora confermata, quindi evita, perché ti rendi solo ridicolo, ma risposte. –
-13, sì, no, 1492… - iniziò a dire Bree. Si fermò. – Ora che hai avuto le tue risposte, puoi andartene. –
-Bree! – la redarguì Peter, scandalizzato. Si voltò verso Ellison. – Ciao. – sorrise, mostrandole le sue fossette, che io avevo soprannominato “fossette che conquistano”, il nome veniva spiegato dall’espressione di adesso di Ellison. – Io sono Peter Hale. Precisamente, che domande ti stai ponendo? –
La ragazza sbatté per qualche secondo le palpebre, prima di rispondergli. - È una storia complicata. – sospirò.
-Ottimo. – commentò Peter con un sorriso. Le fossette, se possibile, gli divennero ancora più evidenti. – Sono le migliori.

Note dell'autrice:
Avrei voluto/dovuto aggiornare qualche giorno fa, ma ho avuto da fare, tra libri, uscite, serie tv... Insomma, non ho fatto quasi nulla. Sono un essere poco produttivo .-.
Cooooooomunque, mi sono resa conto che Peter si chiama come lo zio di Derek Hale (della serie tv americana Teen Wolf) solo dopo un po' di tempo. Che giochi che mi fa il mio subconscio *-*
Ad ogni modo, in questo capitolo compaiono due nuovi personaggi: Peter e Bree. Umh, diciamo che li adoro entrambi anche se Bree è parecchio acida ma poi si capirà perché. Promessa di boyscaut. Anche se non ne ho mai fatto parte.
Vabbè, spero che il capitolo vi sia piaciuto, un grazie a chi ha recensito quello precedente e un "in bocca al lupo" per chi sta sostenendo gli esami! *-*

 

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Capitolo 6
*** La città dei morti. ***


Capitolo 6
La Città dei Morti
 
 
 
Decisi quasi subito che quel Peter mi piaceva, al contrario della ragazza, Bree.
Era incredibile quanto potesse essere acida una persona. E per cosa poi? Ancora non capivo. Cercando di ignorarla, raccontai del tentativo non del tutto fallito di evocare Abraham e di come, ripetendo la formula, mi fossi ritrovata qui.
Alla fine del mio racconto, la faccia di Bree aveva perso quell’espressione insopportabile di superiorità, per assumerne una indifferente che però era pur sempre un passo avanti.
Peter si era seduto sulla mia lapide, ancora non capivo dove fossimo e perché avessi una lapide, e Percy per terra. Strappava soprapensiero i fili d’erba, per poi ridurli a pezzettini. Bree si scostò ancora una volta una ciocca di capelli biondo platino e, quando notò che la stavo guardando, mi lanciò un’occhiataccia con i suoi occhi verdi.
-Che storia assurda. – sentenziò.
Spalancai la bocca. – Stai forse insinuando che non è vera? – strinsi forte i pugni. La ragazza sollevò un sopraciglio ma non mi rispose. Incrociò le braccia al petto e avrei giurato di vedere una cicatrice, sul suo polso sinistro.
-Bree può pensare quello che vuole, io ci credo. – intervenne Percy. Si rimise in piedi e si passò una mano tra i capelli. – Per inventarti qualcosa dovresti essere una sorta di genio. – aggiunse poi.
Sollevai un sopraciglio. – Intendi che non lo sono, forse? –
Percy arrossì e con la coda dell’occhio vidi Bree fare un verso indignato. – Certo che hai sempre la risposta pronta. – borbottò il ragazzo, facendomi riportare la mia attenzione su di lui.
Peter si limitò a ridacchiare e mi si strinse il cuore. Era un ragazzino così carino, con i suoi riccioli dello stesso colore del cioccolato e quel sorriso dolcissimo. Come era potuto morire così presto?
-Per capirci qualcosa potremmo portarti dal Consiglio. – ragionò a voce alta, una volta che ebbe finito di ridere.
-Il Consiglio? – ripetei con diffidenza.
Percy annuì. – Buon’idea. – si misero a camminare, presto seguiti da Bree, lasciandomi lì, in piedi sulla mia tomba con una gran confusione e di certo un’espressione stupida in volto.
-Il Consiglio? – domandai ancora, seccata del fatto che non mi avessero spiegato niente.
Percy si voltò e mi dedicò un sorriso. – Cosa ci fai lì? Vieni! –
Dopo un attimo di esitazione, sospirai e mi decisi a seguirli. – Cos’è il Consiglio? – domandai quando li raggiunsi.
-Un gruppo di persone morte. Li eleggiamo ogni cinque anni. –
Mi fermai all’improvviso, la fronte aggrottata. – Voi… votate? –
-Certo. Come potremmo altrimenti decidere chi ci rappresenta? – mi rispose come se fosse ovvio Bree, guardandomi gelidamente. Ignorai il suo sguardo e mi rivolsi a Peter e Percy, con un grugnito poco elegante. – Possono votare anche i bambini? – chiesi. Diedi un’occhiata a Peter. Doveva avere al massimo tredici anni. O almeno li dimostrava, siccome era morto e non sapevo da quanto.
-Solo quelli scelti dal Consiglio. Quelli che si dimostrano abbastanza maturi. Io sono uno di loro. – aggiunse con una punta d’orgoglio il ragazzino cosicché non potei fare a meno di sorridere. Si, mi piaceva sempre di più. – Ma il minimo d’età è di quattordici anni, quindi… non è una gran cosa, il mio caso. – disse facendo spallucce.
Mi chiesi se si potesse adottare un tredicenne morto. Se così fosse stato, avrei fatto carte false per convincere mia madre.
-Perché mi portate da loro? – domandai.
-Potrebbero sapere perché, nonostante tu sia viva, possa venire qui. Non volevi saperlo? – mi stuzzicò Percy. Questa volta fu il mio turno per arrossire ma per l’indignazione. Annuii, stringendo le labbra, e non gli risposi, preferendo guardarmi attorno.
Oramai, eravamo davanti ad un cancello di ferro nero. Si congiungeva con delle mura abbastanza basse, di circa un metro e cinquanta, di pietra grigia. Vi era appeso un cartello, che riuscii a leggere solo quando ci fui davanti. Diceva: “Cimitero dei vivi”.
-“Cimitero dei vivi”? – lessi ad alta voce.
-È dove ci troviamo. Nel Cimitero dei vivi! – Percy finì la sua spiegazione allargando le braccia con fare teatrale e gettando la testa all’indietro.
-Tan tan taaaaaaaaaaaan! – canticchiò Peter, rendendo la scena ancor più ridicola ma facendomi scoppiare a ridere.
-E cosa dovrebbe essere un “Cimitero dei vivi”? – domandai, una volta che riuscii a parlare senza ridere.
-È una sorta di promemoria. Tutti coloro che vivono a Broseley hanno una lapide. Una volta che muori a Broseley, la tua lapide scompare ed appare la tua casa. Ognuno ha una casa, qui. - Peter ne indicò una. Era piccola, di pietra grigia, con sfumature brune, anche il tetto era fatto di pietra ma queste erano totalmente grigie. La porta era di legno scuro, probabilmente di quercia. Ad ogni lato, aveva due finestrelle, graziose con le intelaiature brune. Dalle finestre si vedeva l’interno della casa, sembrava accogliente. – Quella è la mia. -  la casa era circondata da un piccolo giardino con l’erba verde (ovviamente c’era pure l’immancabile sfumatura grigia) e ben curata. C’era persino una cassetta delle lettere, lucida e dipinta di bianco.
-Che carina. – commentai con un sorriso. Peter mi rivolse un sorriso compiaciuto. Ne indicò un’altra. Era in stile coloniale, bianca e decisamente più grossa di quella di Peter. Nel giardino della casa, c’erano numerose aiuole. In queste vi erano coltivate amarilli , bucaneve e qualche cardo silvestre  che sembravano essere messi a forza, lì. Cercai di ricordarmi che significato avessero quei fiori, una volta avevo letto un libro a riguardo, era di mia nonna, andava matta per quel genere di cose, ma mi venne in mente solo che l’amaryllus significava fierezza ed eleganza, probabilmente anche qualcos’altro. Ad ogni modo, la casa sembrava isolata, si erigeva tra le altre e se ne differenziava così tanto da apparire sola. Mi chiesi se anche il suo proprietario fosse così.
-Quella è di Bree. – spiegò Peter, al ché mi voltai verso la diretta interessata, che non mi degnò nemmeno di uno sguardo e si voltò dall’altra parte. Mi domandai subito se non stesse nascondendo qualcosa. Mi ripromisi di fare delle ricerche.
-Qual è la tua? – mi rivolsi a Percy che era rimasto in disparte. Stava guardando avanti, spensierato ma, alla mia domanda, assunse un’espressione confusa e frustrata.
-Non ne ho una, io vivo nel palazzo del Consiglio. –  spiegò lentamente, come se facesse fatica a dire quelle parole
Aggrottai la fronte. – E perché? – fece spallucce.
- Non lo so. Non credo che sia una specie di punizione, perché qui anche coloro che non hanno fatto niente di buono nella vita hanno una casa. E poi, se anche fosse, non me lo ricorderei. – si strinse nelle spalle, tentando di evitare il mio sguardo curioso. Probabilmente lo metteva a disagio parlare di quella sua piccola bizzarria ma non mi arresi.
-Intendi che non ti ricordi la tua vita? - Percy annuì e non potei fare a meno di provar un gran dispiacere per lui.
Gli posai una mano sul braccio. – Proprio niente? –
Scosse la testa. – Solo il mio nome. –
-Solo? –
Annuì ma poi sul suo volto comparve un sorriso minuscolo e malandrino. – Però il mio nome è abbastanza lungo. –
Sollevai gli occhi al cielo, cercando di nascondere il sorriso che non ero riuscita a trattenere. Dopotutto non era male, quel Percy. – Rammento anche qualcos’altro, però molto confuso. -
-Vogliamo muoverci? Oppure ti sei già dimenticata della tua “missione”? – ci riprese Bree, guardandomi in modo truce. Le scoccai un’occhiataccia. Come risposta, incrociò le braccia al petto e si voltò, ignorandomi bellamente.
Percy annuì e le circondò le spalle con un braccio. La superava di pochi centimetri, notai. Bree incrociò il suo sguardo e si lasciò sfuggire un sorriso. Il ragazzo le disse qualcosa a bassa voce e Bree fece un cenno col capo, per poi ridacchiare.
Quando si voltò e vide che li stavo osservando, mi guardò trionfante. Distolsi velocemente gli occhi.
-Dai, andiamo. – ci spronò Peter che era rimasto a guardare la scena. Annuii e lo seguii, con Percy e Bree alle mie spalle.
Attraversammo un ampio viale, ai cui lati stavano affacciate le case dei morti. Ognuna era costruita con stili e colori diversi. Nessuna sembrava accordarsi con quella vicina e avrei scommesso che, viste dall’alto, sarebbero parse un’enorme coperta patchwork. Ogni tanto scorsi delle strade, più strette rispetto a quella che stavamo percorrendo, intersecare la via. Ed ogni volta vidi altre case. Mi chiesi quante persone fossero morte a Broseley, la mia città.
-Quindi ognuno ha la propria casa. – mormorai.
Peter annuì. – Appare una volta che muori. Ed è sempre costruita secondo i tuoi gusti. –
-Ma potresti anche condividere una casa con qualcun altro? –
Il ragazzino strinse le labbra, assumendo un’ adorabile espressione concentrata. – Intendi come coppia? –
Scossi la testa. – Non solo, anche come famiglia. –
Ci pensò su ancora un po’, per poi rispondere: - Non succede molto spesso ma, se non ricordo male, i Grayson hanno una casa. Vivono insieme. La signora Grayson non ha una casa per conto suo e neanche il signor Grayson. Ma forse è anche perché sono morti insieme. –
-Sai come? – domandai.
-Un incidente d’auto. Credo sia piuttosto doloroso, anche se non ne ho mai visto uno. – sul suo volto apparve un’espressione corrucciata.
-Non è un bello spettacolo. Una volta ne ho avuto uno con mio padre. – mormorai, ricordandomi dei vetri dei finetrini rotti e di mio padre che lottava contro l’airbag, facendo intanto una risatina isterica.
-E sei sopravvissuta? – chiese con stupore.
Annuii con non poca titubanza. – Sì e anche mio padre. – aggiunsi. – Perché? Non tutti gli incidenti sono letali. –
-Oh. Pensavo di si. Sai, non ho mai visto un’ automobile. –
Strabuzzai gli occhi. – Cosa? Mai? Ma quando… - non conclusi la domanda.
-Sono morto? – finì per me con un sorriso.
Feci un cenno d’assenso. Peter si strinse nelle spalle. – È stato più o meno duecento anni fa. –
Vedendo la mia espressione, Peter scoppiò a ridere, attirando l’attenzione di Percy e Bree.
-Come mai ridi? – gli domandò.
-Per niente. – tergiversai io, incrociai le braccia al petto e, quando notai che anche Bree aveva la mia stessa posa, le feci cadere ai miei fianchi. – Continuiamo? –
Presto il viale che stavamo percorrendo ci condusse ad una sorta di centro della città. Le strade ora erano fabbricate con dei mattoncini squadrati e bruni. Ai lati della strada c’erano dei lampioni di ferro nero, sembravano essere usciti da un film di Tim Burton. Anche gli edifici parevano cambiati, innanzitutto era evidente che non fossero più case, avrei scommesso che si trattasse di negozi.
Un’insegna confermava la mia teoria, diceva “Libreria della Luna”.
Era un edificio piccolo, con gli infissi di legno scuro. Vicino alla porta, c’era un’ampia vetrina che mostrava qualcuno dei libri più recenti e dietro questi un commesso, un uomo basso e sulla sessantina. Aveva degli occhiali rotondi e spessi.
Un altro edificio si distingueva dagli altri. Innanzitutto perché era molto più alto e grande degli altri. Era di marmo grigio ed una scalinata piuttosto lunga portava all’ingresso. Sarà stato alto circa tre o quattro piani e sull’edificio vidi una cupola. Le finestre iniziavano ad apparire dal secondo piano in poi, così non potetti vedere precisamente cosa c’era all’interno ma scorsi alcune figure in movimento. Si affacciava su una piazza al cui c’entro stava una fontana. In mezzo alla vasca, spiccava una statua che raffigurava tre donne. Una era vecchia, una era adulta e l’ultima un’adolescente. La riconobbi, era la dea Ecate. Aggrottai la fronte e seguii gli altri lungo la scalinata.
Arrivati in cima, ci ritrovammo di fronte ad un grande portone di legno. Sembrava molto pesante ma Percy riuscì a spostarlo adoperando solo una mano. Lo tenne aperto, permettendoci di attraversare l’uscio e, quando gli passai accanto, mi rifilò un sorriso che ignorai, troppo occupata a mangiare con gli occhi la sala in cui ero appena entrata. Era grandissima, quadrata. Dei lampadari di cristallo grigio scuro pendevano dall’alto soffitto, simili ad una cascata scintillante. Ai lati del locale si affacciavano dei corridoi alle cui pareti vidi appesi dei quadri dipinti ad olio. Il pavimento era coperto da un elegante tappeto color oro scuro. Davanti al portone d’ingresso stava un’ulteriore scala, di qualche tono più chiara delle pareti grigie.
Nonostante fosse alquanto insolito, quell’abbinamento di colori sembrava funzionare, anzi mi piaceva molto. – Wow. – mi lasciai scappare, girando su me stessa per osservare meglio la stanza.
Percy sorrise divertito e si chinò, in modo da sussurrarmi all’orecchio: - Questa stanza fa sempre lo stesso effetto a tutti, e non hai ancora visto la biblioteca. –
A quella parola, sono certa che i miei occhi si illuminarono. In quel posto c’era pure una biblioteca? Cercai un possibile accesso con lo sguardo, per poi essere fermata dalla risatina di Percy. – Non è qui. Occupa l’ultimo piano, più o meno. – sollevai un sopraciglio alle sue parole ma non le commentai, nonostante mi incuriosissero non poco. Adesso avevo altro da scoprire.
Lo seguii lungo le scale, cercando di non fare caso alle occhiatacce che mi stava lanciando Bree. Sinceramente, ero tentata di girarmi e chiederle che problema avesse ma non pensavo che fosse il caso. In cima alle scale, prendemmo un corridoio a destra e lo percorremmo tutto, fino a ché non ci trovammo in un’altra stanza.
Era sempre quadrata e le sue pareti di pietra grigia, però non era stata arredata con lo stesso sfarzo della prima e si trovava in penombra.
Con la coda dell’occhio notai un piccolo uomo. Doveva avere sui cinquant’anni. Era piuttosto basso, forse qualche centimetro in meno del mio metro e sessanta, e in carne. Era seduto ad uno scrittoio, che mi fece venire subito in mente il libro Cuore, a testa china, e si guardava attorno con fare nervoso. Quando ci scorse, balzò giù dallo scrittoio e ci corse incontro, con espressione allarmata. – Arrow! Cosa ci fai, qui? Lo sai che i membri del Consiglio non vogliono essere disturbati… -
Percy gli fece cenno di smettere. – Credo che i membri potrebbero essere interessati su quello che ho da dire, Theodore. –
Theodore si accigliò per un momento, si sistemò gli occhiali rotondi e fece lo stesso coi capelli castani, tra cui vidi parecchie ciocche grigie, e scrutò con attenzione Percy che mi indicò con un cenno del capo. Al ché, l’uomo si voltò verso di me e mi guardò con attenzione. – Come ti chiami, figliola? –
Repressi a stento un grugnito, a sentire quel nomignolo. Anche se era morto, l’unico autorizzato a riferirsi così a me a quel modo rimaneva Abrahm. – Preferisco Ellison, signore. Il mio nome è Ellison Hyde. –
Al sentire il mio cognome, Theodore, che aveva alzato gli occhi al cielo al mio “preferisco Ellison”, sgranò gli occhi. – Hyde? –
Annuii con titubanza. Avrei voluto chiedergli il motivo di quella reazione, ma non me ne diede il tempo, perché corse subito all’altro lato della stanza a premere il pulsante di un citofono, che fino ad ora non avevo neanche notato, e mettersi a parlare con chi c’era dall’altra parte.
-Sì, fa Hyde di cognome. Come “potrebbe mentire”? Va bene, controllerò. – con un sospiro smise di premere il bottone e mi si avvicinò un’altra volta.
-Hai dei documenti con te, fi… signorina Hyde? –
Spalancai gli occhi a quella formalità ma annuii lo stesso e feci per prendere il portafoglio, fortunatamente l’avevo con me, sebbene non mi ricordassi neanche di averlo portato, decidendo che era meglio assecondarlo per capire meglio la situazione.
Percy, invece, sembrò non prenderla allo stesso modo. – Ma stiamo scherzando? Neanche fossimo all’aeroporto! – si bloccò di colpo e  guardò verso il basso, iniziando a borbottare qualcosa. Lo ripeté a voce più alta. – Come quando ho quasi rischiato di perdere il volo per Londra. Tutta colpa dei controlli. –
Non badai più di tanto al suo vaneggiamento, al contrario di Peter e Bree, che osservavano Percy con stupore, e mostrai il mio libretto scolastico, anche se non sapevo come ci fosse finito, lì, a Theodore, che sembrò soddisfatto anche se, usando le sue parole avrebbe preferito “una carta d’identità, che superficialità”.
L’uomo annuì e si diresse verso il portone, quando vi fu davanti, si girò verso di noi e ci fece cenno di avvicinarci.
Aprì la porta, di quercia, con delle borchie scure di metallo e alta tre metri, con un arco gotico, e tutti i membri della stanza si voltarono a guardarci.
La stanza era di forma circolare, in penombra come quella in cui stava Theodore e fatta dello stesso materiale, apparentemente. In alto a destra, nella parete che stava di fronte alla porta, vidi una piccola finestra. La stanza aveva soltanto un grande tavolo a forma d’arco. Vi erano tredici sedie, la settima spiccava tra queste, siccome era la più grande ed era una poltrona reclinabile nera, mentre le altre anonime e di legno, vuota, a differenza della maggior parte delle altre.
Una donna, alta e spigolosa, con i capelli perfettamente acconciati, si alzò dal suo posto ed appoggiò le mani sul tavolo. – E voi che ci fate qui? Stiamo lavorando. – disse con voce nasale e fastidiosa. Dimostrava quarant’anni o giù di lì. Indossava una camicetta azzurra ed una gonna che le arrivava alle ginocchia.
-Ho detto io a Theodore di farli passare, Suzanne. – la informò un uomo, posandole una mano sulla spalla, che lei tolse con uno sbuffo.
-E perché, sentiamo. – ribatté Suzanne, incrociò le braccia al petto.
-Perché nutro una grande stima di Percy, e so che vuole dirci qualcosa di importante. Ed inoltre ho i miei validi motivi. – al ché rivolse la sua attenzione a me.
Spostai il peso da un piede all’altro. Non mi piaceva essere al centro dell’attenzione ma non volevo che quest’uomo mi considerasse una debole, così ricambiai lo sguardo. Aveva i capelli color cannella, che iniziavano ad essere radi all’attaccatura. Gli occhi nocciola erano ravvicinati ed infossati, la fronte spaziosa. La mascella non era molto pronunciata. La sua altezza era nella media, così come la corporatura. Indossava un completo elegante grigio, composto da una camicia banca, una cravatta di seta ed un gilet. Mi porse la mano, che strinsi dopo un secondo di esitazione. Era fredda, come quella di Percy, ma meno morbida. – E quale sarebbe il vostro nome, signorina Hyde? –
-Ellison. – risposi, chiedendomi perché avesse omesso il fatto che ci avesse permesso di entrare anche per il mio cognome, perché era per questo, ne ero certa.
-Io mi chiamo Oliver Meyer, decimo membro del Consiglio, piacere. –
Borbottai anch’io “un piacere”. – Il motivo per cui sono qui… -
-Ah, sì, certo. – ritornò al suo posto e fece cenno ai suoi colleghi di fare altrettanto. – Dicci pure, signorina Hyde. Siamo spiacenti ma non tutti i membri del Consiglio sono qui, avevano altri impegni. – si sedette e nella stanza piombò il silenzio.
Rispiegai così una seconda volta la mia storia, di come fossi arrivata qui, dopo aver cercato di riportarci un fantasma che avevo evocato la sera prima e che ero tornata per capire come fossi capace di arrivarci.
Alla fine del mio racconto, Oliver congiunse le mani a piramide ed assunse un’espressione pensierosa. Lanciò degli sguardi agli altri membri, che quel giorno erano otto, e si rivolse di nuovo a me. – Non sappiamo come tu sia capace di fare queste cose, Ellison Hyde, se tu ed i tuoi amici foste così gentili da… -
Ma non feci in tempo per sentire il resto della frase che mi sentii strattonare. Stavo ritornando indietro.

Note dell'autrice:
Okay, in questo capitolo si capiscono un po' più di cose della storia, ad esempio il motivo del titolo e come funziona il Cimitero dei Vivi. Che ne pensate? Qui sotto vi metto i link per andare a vedere il significato dei fiori del giardino di Bree, mi sono divertita a cercarli:
-Amaryllus: 
(http://www.giardinaggio.it/linguaggiodeifiori/singolifiori/amaryllis.asp)
- Bucaneve: (http://www.giardinaggio.it/linguaggiodeifiori/singolifiori/bucaneve.asp)
- Cardo selvatico: (http://www.giardinaggio.it/linguaggiodeifiori/singolifiori/cardo_silvestre.asp) .
Diciamo che spiegano un po' della sua storia ma senza fare spoiler ^-^
Un grazie a chi ha recensito lo scorso capitolo!

 

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Capitolo 7
*** Il verdetto. ***


Capitolo 7
Il verdetto.
 
 
 
Quella notte feci un sogno, ma forse sarebbe meglio definirlo incubo, siccome mi svegliai in un bagno di sudore. Ero da sola al buio in una sentiero fatto di rocce bianche, sospeso in mezzo al cielo scuro e stellato. Davanti a me la strada si divideva in due vie. Una portava ad una cittadina che mi era familiare e lì vi potevo già scorgere mia madre ed i miei amici.
L’altra conduceva ad una città più grande ed intrigante della prima, totalmente a me estranea, abitata da sconosciuti. Lì vi vidi pure Percy e Peter che mi facevano cenno di raggiungerli.
Ad un tratto, Bree mi passò accanto, mi lanciò uno sguardo di sufficienza oltre la spalla e si diresse verso Percy e Peter, mormorando: - Cadrà prima di decidere. –
Al ché mi girai alle mie spalle e vidi con orrore che degli scheletri, seppur lentamente, si stavano avvicinando, alcuni inciampando sugli altri.
Rivolsi di nuovo la mia attenzione alle due strade. Da una parte avrei voluto andare raggiungere i miei cari, dall’altra desideravo andare in quella città misteriosa.
Mordendomi il labbro inferiore, accennai un passo in direzione della seconda città ma, non appena posai il piede sul sentiero, mi accorsi con orrore che non c’era niente che mi fornisse sostegno e che, ormai, stavo precipitando nel vuoto, buio e ostile.
Avrei voluto urlare, davvero, ma l’unica cosa che riuscii a fare fu agitare le braccia e andare nel panico.
Mi risvegliai nel mio letto, madida di sudore ed ansimando. Mi portai una ciocca di capelli dietro l’orecchio. Mi alzai dal letto, dopo essermi liberata dalle lenzuola a suon di calci ed essere caduta sul pavimento, colpevole la mia leggendaria ed inesistente grazia. Uscii dalla mia stanza e mi diressi in salotto.
Il soggiorno di casa mia era una stanza di forma quadrata, con la carta da parati graziosa e gialla, che si riusciva a scorgere soltanto in due pareti, siccome le altre erano coperte da una libreria che andava dal pavimento al soffitto. Era ammobiliato con due divanetti rivestiti con del cuoio rossiccio ed un tavolinetto di ciliegio, basso e ovale. C’era pure una televisione ma la guardavo per lo più la sera. – Mamma? – mormorai. I miei occhi si fermarono subito sull’orologio appeso ad una delle pareti del salotto. Segnava le undici e quaranta. Strano, di solito, nonostante i miei sforzi, non mi svegliavo mai così tardi.
-È andata in libreria, Elly. – disse Abraham alle mie spalle. Mi voltai sorpresa, non mi aspettavo di ritrovarmelo a casa. In questi tre giorni, mi aveva detto che di notte stava nella sua vecchia casa, a guardare sua figlia, suo marito, e la nipote, alias Dominique.
-Mmh? – mormorai per poi abbandonarmi su uno dei divani.
-Hai avuto un incubo, figliola? – al sentire il mio soprannome, sorrisi, rincuorata. Portai le ginocchia al petto ed annuii. Era in piedi, vicino ad una delle due finestre del soggiorno.
Abraham si portò la mano destra ai baffi ed iniziò a giocherellarci, come faceva sempre quando pensava a qualcosa di particolarmente complicato, in vita. – Sarà stato solo un sogno, ne sono sicuro. – Feci nuovamente un cenno d’assenso. Lo pensavo pure io. – Ma ora raccontami cos’è successo nell’altro mondo, ieri sera eri parecchio stanca e non l’hai fatto. –
Gli riferii tutto quello che era successo, omettendo l’antipatia che Bree non aveva cercato di nascondere nei miei confronti. Alla fine del mio racconto, Abe strinse la presa ai suoi baffi ed iniziò a borbottare. – Mmh, le cose si fanno interessanti. Sono morto da quattro mesi ma fino ad ora ho conosciuto solamente Oliver Meyer, dei membri del Consiglio. Individuo davvero interessante. Possibile che ti conoscesse prima che tu andassi, nel vero senso del termine, nell’altro mondo? –
Scossi la testa. – Non vedo come possa essere possibile, non l’ho mai visto prima di ieri in vita mia e non credo che appartenga alla nostra epoca, quindi è escluso che valga per lui. –
Abraham fece un verso d’assenso. – Giusto. – mormorò. – Fatto sta che devi ritornare lì, non solo per capirci un po’ di più di questa faccenda ma anche per capire quale sarebbe stato il loro verdetto. –
Spalancai gli occhi, ricordandomi all’improvviso che Oliver, Suzanne e tutti gli altri membri del Consiglio mi stavano per dire anche dell’altro. Chissà se mi avrebbero aiutato…
- Perfetto! – esclamai ed intanto imboccai il corridoi da cui ero uscita e feci per raggiungere la mia camera. – Ci vado subito! -
Entrai nella mia stanza ed iniziai all’istante a cercare qualcosa da mettermi, non volevo perdere un attimo di tempo. Presi dall’armadio una maglietta grigia e dei jeans. Stavo cercando le scarpe, quando Abraham comparì alla soglia della camera. Aveva le braccia incrociate al petto ed un’espressione benevola in viso. – Cosa c’è? – domandai con curiosità. Sembrava che stesse assistendo ad uno spettacolo particolarmente divertente.
Fece un passo in avanti ed io mi alzai dal pavimento, abbandonando le ricerche della scarpa sinistra, mi pareva di aver visto la destra in mezzo a dei libri…
-Forse è meglio che tu riposi, Elly. – non mi diede neanche il tempo per replicare che aggiunse: - È da due giorni che vai lì. Riposati un po’. Passa del tempo coi tuoi amici e tua madre. Così ti stancherai troppo. –
Sgranai gli occhi. – Pensavo che anche tu volessi capire cosa sta accadendo! – ribattei.
-Voglio soltanto che tu non ti affatichi troppo. Non posso stare con mia nipote ma con te sì e, fino a ché non ritornerò indietro, posso prendermi cura di te, impedendoti di stancarti. –
Feci un passo indietro, ferita. – E così sono solo un ripiego? –
Abraham inclinò la testa di lato, squadrandomi, prima di sorridermi e rispondere: - Assolutamente no, figliola. Farei lo stesso anche se Dominique potesse vedermi, lo sai che ti voglio bene. –
Ricambiai il sorriso. – Grazie. – riuscii a trovare la scarpa sinistra e presi anche la destra. Me le infilai e corsi fuori casa. Sentivo Abraham seguirmi. Non sapevo che pure i fantasmi potessero avere il fiatone.
-Dove stai andando? – mi domandò mentre scioglievo il catenaccio della mia bici.
Gli rivolsi uno sguardo acceso di adrenalina. – Indovina. –
 
Per esperienza, sapevo che mia madre non si sarebbe preoccupata, non vedendomi a casa, a volte accadeva che mi dimenticassi di avvertirla, ma questa volta le avevo lasciato un biglietto, per prevenzione. Abraham era ritornato a casa di Dominique però mi disse, prima che andassi dall’altra parte, che lo avrei rivisto al mio ritorno e mi augurò di scoprire qualcosa.
Il mio quinto viaggio fu identico ai quattro che lo precedevano: mi fece perdere il senso dell’orientamento e girare la testa.
Ricomparii un’altra volta sulla mia lapide. Chissà se c’era un motivo oppure quel fenomeno era solo frutto del caso.
-Ehi, bentornata. – disse una voce maschile. Alzai lo sguardo dell’erba grigiastra e incontrai quello di Percy. Sfoggiava il suo immancabile sorriso a trentadue denti e, sinceramente, fui rincuorata nel vedere una faccia che conoscevo, anche se solo da pochissimi giorni.
-Già. – mormorai. Provai ad alzarmi ma il mio equilibrio non si era ancora stabilizzato e sarei caduta, se Percy non mi avesse afferrato giusto in tempo la mano. – Grazie. – dissi, staccandomi da lui e constatando che la sua pelle ora mi sembrava nettamente più calda.
Traballavo ancora, così mi appoggiai alla mia lapide. Il cimitero era sempre lo stesso, non sembrava che ci fossero meno tombe rispetto al giorno precedente. Mi chiesi dove fossero quelle dei miei amici e se lo spazio potesse finire. Magari le dimensioni della città e del cimitero erano stabilite in maniera proporzionale? Lo dubitavo. Forse in quella dimensione i luoghi in cui far sorgere nuove case o tombe non finiva mai.
-Ehi, ci sei? – mi distolse dai miei viaggi mentali Percy, agitandomi una mano davanti al viso.
Sbattei le palpebre, confusa. Ogni tanto mi capitava di perdermi nei pensieri, come era appena successo. Però succedeva di rado che lo facessi quando ero in compagnia, eccezion fatta di quando ero in classe. Arrossii. – Sì, scusa, stavo pensando. –
Percy fece un sorriso. – Non dovresti scusarti del fatto che pensi. Ho conosciuto tante persone che non lo facevano e neanche avevano la decenza di… - sospese la frase, in viso aveva un’espressione sorpresa e smarrita, come se  non potesse credere a quello che stava dicendo.
-La decenza di… - lo incoraggiai a continuare.
Sorrise. – Di accorgersene e chiedere umilmente perdono in ginocchio. – proseguì. Il suo sorriso si allargò. – Ho… ho ricordato qualcosa! – esclamò, per poi fare un urletto entusiasta.
Ridacchiai, contenta per il suo buon umore. – Peter e Bree dove sono? – domandai poi, sperai che non si capisse dal mio tono che non nutrivo molta simpatia per quest’ultima.
Percy interruppe quello che sembrava il suo ballo della vittoria. Si voltò verso di me e fece un “Mmh?”. Si grattò la testa, arruffando i suoi capelli castani. – Credo che siano in città, non so. Quando ho detto loro che sarei venuto qui, hanno rifiutato di accompagnarmi, più che altro Bree l’ha fatto. Peter non voleva lasciarla da sola. –
Si sedette per terra ed io feci lo stesso, mettendomi accanto a lui. Era piacevole parlarci, anche se non pensavo lo stesso la prima volta che l’avevo visto. Ero già troppo impegnata a cercar di capire cosa mi stesse accadendo, sebbene la situazione fosse la stessa, adesso, e lui sembrava voler scherzare su tutto, cosa che non mi era molto utile. Ora però mi metteva a mio agio, in un certo senso. Percy, nonostante fosse morto chissà da quanto tempo, era come qualsiasi altro ragazzo vivo. A parte, forse, per il fatto che leggesse, non conoscevo molti ragazzi della mia scuola che lo facessero, tranne per David.  Credo che, se si fosse comportato in maniera diversa dalla sua, avrei preso molto peggio la questione del parlare con una persona morta.
-E come mai sei voluto venire qui? – chiesi.
Percy smise di tamburellare le dita sul ginocchio destro, quello più vicino a me, e si girò.
Il suo colorito parve diventare leggermente più scuro, come se stesse riprendendo le sembianze di quando era vivo, e solo in seguito realizzai che era arrossito. – Io volevo avvertirti di quello che hanno deciso i membri del Consiglio. –
Alzai le sopraciglia, in attesa del “verdetto”. Cosa avrebbero deciso? Mi avrebbero permesso di restare in quello strano mondo così diverso dal mio? Oppure mi avrebbero esiliato? Sarebbe finita così la mia avventura? No, non mi sarei arresa: ero decisa a capire da cosa traessero origine le mie capacità, di chi fosse l’anello che ora avevo al dito e perché sembrava che Oliver Meyer mi conoscesse. – Allora? – lo esortai a continuare.
Percy scoccò la lingua e prese qualcosa dalla sua tasca. Poi mi porse un foglietto piuttosto sgualcito. Lo spiegai. C’era scritto:
 
"Carissima signorina Ellison,
nonostante la sua assenza durante la pronuncia del nostro responso, abbiamo comunque proferito la nostra decisione, che spero che il suo amico Percy Gabriel Lee Arrow le consegni al vostro prossimo incontro. Ebbene, le concediamo tre ore al giorno nella nostra biblioteca per effettuare le ricerche che desidera fare.
Le ore potranno essere trascorse nella fase del giorno che più preferisce ma non dovranno essere distribuite nella maniera che desidera: una volta che le avrà iniziate, dovrà finirle e, se uscirà prima dello scadere del tempo, dovrà rinunciarvi fino al giorno successivo.
Scadute le tre ore, dovrà sgomberare la stanza e prendere tutte le vostre cose.
Speriamo che ci terrete costantemente al corrente delle vostre scoperte.
Il Consiglio."
 
Sorrisi. – È… è fantastico! Mi permettono di restare! – esultai in direzione di Percy.
Ridacchiò. – Lo so. –
Alzai un sopraciglio e lo guardai con aria scettica. – In che senso? –
Fece un ghigno. – L’ho letto, cosa credi. – sbuffai, sollevando gli occhi al cielo. Fu solo in quel momento che mi stupii di non averlo mai fatto, le altre volte che ero venuta nell’altro mondo. Era grigio chiaro, completamente sgombro di nuvole. Cercai con lo sguardo il sole o qualsiasi altra fonte di luce ma non ne trovai. Eppure non era buio, era come se la volta celeste emanasse luce e sicuramente era così ancor prima che i miei nonni nascessero ma mi sembrava una cosa tremendamente innaturale. Dov’era il Sole?
Ero cresciuta in un mondo con il Sole, mi piaceva sdraiarmi e godere del calore che mi infondeva la sua luce, non avevo mai considerato che ci potesse essere un posto che non lo avesse.
Mi sdraiai sull’erba, intenta a guardare ancora il cielo. Aveva lo stesso colore delle nuvole, quelle poco cariche d’acqua, quando ancora ci sarebbe voluto molto tempo prima che iniziasse a piovere.
Percy, per tutto il tempo delle mie elucubrazioni, mi guardava dubbioso, come se si stesse chiedendo cosa fosse meglio fare in quel momento. Poi, quando mi distesi, lui imitò il mio movimento. – Allora? Sei così incavolata che mi vieti il piacere di sentire la tua possibile risposta? – disse con tono scherzoso, anche se non sembrava molto convinto.
Scossi la testa, sorridendo. – No, ficcanaso. – Rise. – Stavo pensando: dov’è il Sole? – indicai la volta.
Aggrottò la fronte. – Qui ci sono solo le stelle ma nessuno ci fa caso. –
-Oh. – mormorai sconsolata. Mi sentii delusa, quel posto era diventato una sorta di paese delle meraviglie dark, per me, e sapere che mancassero cose che avevo sempre dato per scontate, mi fece sentire anche fuori posto: io non sapevo niente di quel luogo.
Iniziai a giocherellare l’anello al dito medio, passandomelo davanti agli occhi.
- Cos’è quello? – domandò Percy.
Gli mostrai l’anello e lui spalancò gli occhi, togliendomelo dalle mani. Se lo rigirò tra le dita affusolate e pallide. Poi lo infilò all’anulare della mano destra. Gli calzava alla perfezione, contrariamente a me, che nel mio dito medio ballava non poco.
-P. G. L. Sono le mie iniziali. – ragionò a voce alta.
Mi misi a sedere. - È vero. Forse è tuo. –
Percy annuì alle mie parole, mentre continuava a studiarlo con attenzione. – Me lo ricordo. – inclinò la testa di lato e i suoi capelli coprirono lievemente l’occhio sinistro. – Me l’hanno regalato per un mio compleanno. – accarezzo l’incisione dell’arco. – Dove l’hai trovato? – mi chiese poi, girandosi verso di me.
Mi mordicchiai il labbro, prima di rispondergli. – Nel cimitero della mia città. Quello del mio mondo. – specificai dopo. – Come può essere finito lì? –
Fece spallucce. – Credimi, non ne ho idea. -

 
Note dell'autrice:
Avevo promesso a Zampa che avrei pubblicato il capitolo ieri, quindi vi porgo le mie scuse, purtroppo ho avuto da fare e non ho avuto il tempo per aggiornare .-. Ad ogni modo, spero che questo capitolo vi piaccia, sebbene sia piuttosto di passaggio.
Però qualcosina succede, no?
Percy ricorda qualcos'altro della sua vita precedente, Ellison può andare nella biblioteca per fare le sue ricerche e si scopre il proprietario dell'anello. Ma ora sorge un ulteriore domanda: come ci sarà finito lì?
Eh, eh, è abbastanza difficile questa, lo so.
Dei, sembro un tizio che annuncia come sarà la prossima puntata di un anime o qualcosa del genere. Forse dovrei considerare l'idea di farmi curare. Forse.
Al prossimo capitolo!

 

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Capitolo 8
*** Sibyl Martin ***


Capitolo 8
Sibyl Martin
 
 
Ho incontrato Jenna quando avevo circa tredici anni, mancavano pochi mesi al mio compleanno. Quattro, se non erro. Il che implica che io la conosca da tre anni e qualche mese.
Ricordo che ci fu presentata il primo giorno dopo le vacanze natalizie. La professoressa di algebra, Miss Horne, era entrata in classe con accanto a sé una ragazzina dalla carnagione scura.
Poi entrambe, all’altezza della cattedra, si erano fermate e girate verso noi.
Al ché, la Horne aveva iniziato a presentarci la nuova arrivata, che se ne stava in silenzio, studiandoci con curiosi occhi nocciola. - Lei sarà la vostra nuova compagna di classe, Jenna Martin. Viene da New Orleans, in Louisiana.- aveva detto. Alla parola “Louisiana”, ricordo che tutta la classe si era protesa in avanti, desiderosa di carpire più informazioni della nostra esotica e nuova compagna di classe. Broseley era una cittadina piccola, ogni accenno ad altri luoghi attirava sempre l’attenzione.
Anche io mi ero protesa, per poi pensare che Jenna sembrava un lupo con il collare, con addosso la divisa scolastica. Non era un insulto, non sono mai stata il tipo che pensa questo genere di cose, a differenza di Mona Hogg, che quando mi vedeva in giro non perdeva occasione per chiedermi se da grande avessi preso la professione di becchino, per via dei miei abiti perennemente neri, ma una constatazione: Jenna Martin sembrava fuori posto con la camicia bianca, la cravatta e la gonna scura. I suoi capelli, tra cui scorsi delle treccine e delle ciocche con delle perline, gli orecchini colorati, e la sua espressione, come se stesse studiando chi tra noi potesse diventare un suo futuro complice, mal si adattavano all’uniforme.
- Vuoi dire altro, Jenna?- aveva aggiunto poi la Horne. Dal suo tono si capiva che sperava che la tredicenne aggiungesse qualcosa, magari un aneddoto interessante, ad esempio “Sì, i miei hobby sono: suonare la cornamusa e fare foto ai rettili ed anfibi. Una volta ne ho scattata una ad un alligatore.”, ma Jenna non disse altro. Non sembrava desiderosa che altri sapessero i tredici anni che aveva trascorso prima di venire in Inghilterra. Era come se volesse condividere quei ricordi solo con pochi prescelti.
Allora, la professoressa aveva cercato di non assumere quell’espressione annoiata, a cui ero ormai abituata e che non mi aiutava molto a capire perché fosse così importante imparare a risolvere le equazioni, e indicò il banco accanto al mio. - Puoi sederti, lì, Jenna, allora. - aveva detto.
In quel momento, credo di aver mandato mille e più maledizioni a David, già mio amico dai tempi della terza elementare quando, nonostante a quell’età l’altro sesso appariva ai più a dir poco disgustoso e bizzarro, aveva fatto amicizia con me e Dominique offrendoci un po’ della sua merenda, perché si era seduto con la mia amica dall’altra parte dell’aula, lasciandomi da sola.
Jenna, alle parole dell’insegnate, aveva fatto spallucce e raggiunto il posto indicatole. Poi aveva disposto le sue cose nel banco, senza dirmi nulla. Non che io avessi tentato un approccio.
Rammento che con la coda dell’occhio l’avevo guardata. Era a dir poco esotica, con la sua pelle color caffèlatte e i capelli scuri e intrecciati. I lineamenti facevano capire subito che uno dei suoi genitori fosse creolo, con il naso schiacciato e le scure labbra carnose, ma nella sua “presentazione” Miss Horne non aveva specificato chi potesse essere, così supposi che si trattasse della madre, perché “Martin” non sembrava un cognome originario di New Orleans.
Dopo averla studiata, avevo lanciato un’occhiataccia a David, allora un allampanato tredicenne con i capelli biondi decisamente troppo lunghi e alcuni brufoli visibili sulla fronte spaziosa, che aveva risposto con una linguaccia.
Avevo riabbassato lo sguardo e tirato fuori dallo zaino un libro, perdendomi nella lettura.
 
Io e Jenna siamo diventate amiche solo qualche giorno dopo. Era entrata nella libreria di mia madre ed io gironzolavo tra gli scaffali come al solito. Cercavo dei libri che non avessi ancora letto, anche se era difficile, siccome non ne erano arrivati di nuovi. Jenna aveva chiesto, senza rivolgersi veramente a qualcuno, siccome mia madre stava gestendo tre clienti, quanto costasse il giallo che aveva preso da chissà dove, visto che non mi ricordavo neanche che ce l’avessimo. Vedendo che mia madre non poteva occuparsene, le ero corsa in aiuto e ci eravamo messe a parlare, con la gentilezza cauta tipica che si usa quando parli con un tuo compagno di scuola di cui non sei proprio amico ma che ti sta simpatico.
Da quel momento in poi, Jenna, che ancora non si era legata veramente a qualcuno, in classe, aveva iniziato a venire ogni pomeriggio, solo per parlare con me, anche se avevo dei libri da riordinare o altro da fare. Poi, come se fosse parte di un processo naturale, faceva già parte della mia ristrettissima cerchia di amici e tutti e tre amavamo quando si metteva a raccontare delle vie colorate del quartiere francese quando c’era il Martedì Grasso.
 
La foto che stavo guardando, raffigurava proprio noi quattro nella camera di Jenna, una piccola e colorata stanza, senza una porta ma un velo di perline dai colori cangianti, con numerose collane al collo, intenti ad ascoltare la nostra amica. Nell’immagine, Jenna mi stava intrecciando i capelli, Dominique disegnava, nel nostro gruppo era l’unica in grado di farlo in modo decente, e David era sdraiato placido sul tappeto della camera.
Mentre maneggiava i miei capelli, neri come inchiostro, Jenna parlava di quando sua madre, qualche giorno prima di Martedì Grasso, le intrecciava i capelli, canticchiando.
La foto era stata scattata da Sibyl, era entrata nella stanza e a tradimento aveva immortalato il momento.
Ero a casa di Jenna, ma lei non c’era. A quanto diceva suo padre, Paul, un giornalista, era uscita per andare a trovare Evelyn Adams. Quando me lo disse, sorrisi, nessuna delle due voleva definire propriamente il loro rapporto.
Ero seduta sul divano del salotto, tentando di mascherare la mia tensione. Non avevo ideato un vero e proprio piano e avevo il terrore di venire fraintesa. Non volevo raccontare a Sibyl della mia “abilità” ma avevo bisogno di qualcuno esperto nel settore e l’unico nome che mi era venuto in mente era quello di Sibyl Martin
La sopracitata, entrò nel salotto, in mano un vassoio con sopra delle tazze, una teiera, un contenitore di zucchero, un piattino con del limone e due cucchiai. Sorrisi all’istante, sentendomi scivolar via la tensione. Amavo prendere il tè a casa Martin: Sibyl si discostava dalla tradizione inglese e, in qualsiasi infuso scegliesse, finiva col aggiungere immancabilmente sempre il limone e lo zucchero di canna, adoravo il risultato.
Mia madre preferiva il tè freddo, come me, d’altronde, ma facevo eccezione per quello preparato da Sibyl, e non preparava molto spesso quello caldo, per lo più durante le giornate particolarmente piovose o fredde, che non erano poi questa gran eccezione in Inghilterra.
Con un sorriso, guardai Sibyl versare con eleganza la bevanda in una tazzina di porcellana per poi porgermela e fare lo stesso con la sua. Sibyl assomigliava molto a sua figlia Jenna. Avevano entrambe gli stessi lineamenti, e corporatura, ma la prima aveva un non so ché di più elegante, forse era dovuto per i suoi capelli ricci e scuri che ora teneva legati in una treccia o le sue lunghe ciglia nere che le contornavano gli occhi scuri, più di quelli nocciola della figlia, che aveva ereditato dal padre Paul. Oppure era perché Jenna non si vestiva con lo stesso stile sobrio di sua madre e preferiva indossare colori vivaci e svariati accessori, come decine di braccialetti e più di una collana al collo.
Sibyl prese un cucchiaino e lo riempì di zucchero, prima di versarlo nella tazzina e metterci anche una spruzzata di limone. Mescolò il tutto e diede un sorso, prima di posare i suoi occhi scuri su di me, da oltre la tazza.
Soprapensiero, io feci lo stesso, sperando che Sibyl non notasse il mio comportamento strano. – Nellie, - richiamò la mia attenzione, ad un certo punto, vedendo che non mi stavo decidendo a parlare. – non sei venuta per vedere Jenna, vero? –
Posai la tazzina sul tavolino davanti al divano, cu cui c’erano anche il vassoio e una rivista, ed annuii. – Sì, la stavo cercando. –
Sibyl sorrise. – Oh, ti prego. Dammi del tu, ci conosciamo da anni, Nellie. –
Sul mio viso si fece strada un altro sorriso. – Okay, Sibyl. –
Si appoggiò con la schiena alla poltrona di fronte a me. – Ritornando al discorso di prima… per cosa sei venuta, allora? –
Le mie mani, che ora tenevo in grembo, iniziarono a torturarsi l’un l’altra. Non sapevo se farle sì o no le domande che desideravo porle, forse sarebbe stato meglio dire che non sapevo se fosse stato meglio se mi avrebbe presa per pazza o no.
-Per farle delle domande sul suo lavoro. – le risposi dunque.
Al ché, Sibyl parve per un attimo sorpresa, poi divenne seria ed annuì. Mi scrutò attentamente e poi mi chiese: - Cosa vorresti sapere? –
Lanciai un occhiata al resto della stanza e individuai senza problemi Abraham: era sulla soglia della cucina e ci stava guardando. Dopotutto anche lui era curioso di cosa sarebbe successo, siccome ero venuta lì esclusivamente per lui. Mi grattai la guancia, lievemente imbarazzata ed incerta sulle domande da fare. – Emh… ecco… -  cosa avrei dovuto dirle? Accampare delle scuse e affermare che le mie erano solo ipotesi oppure raccontarle tutto? Non sapevo propriamente perché non avevo raccontato nulla ai miei amici, e pensare che loro sapevano tutto di me, e nemmeno dire se avrei mai svelato loro l’esistenza di una mia capacità che mi permetteva di viaggiare in un altro mondo, ma, nonostante mi sarebbe risultato utile, mi sembrava una sorta di tradimento riferire del mio “viaggio” a Sibyl. Propesi per la prima opzione. – Mi può spiegare come funziona l’evocazione di uno spirito? Insomma, come… come si fa a riportarlo indietro. – a quelle parole, sentii la mia voce spezzarsi. Odiavo il pensiero che Abraham fosse riuscito a ritornare senza che potesse parlare Dominique. Alle mie parole, Sibyl sollevò un sopracciglio e non rispose, mandandomi ancora di più in agitazione. – Insomma, supponiamo che dei ragazzi cerchino di evocare lo spirito di una persona. Se questo rito viene interrotto a metà, questo fantasma quindi si ritrova a dover vagare per l’eternità qui? Oppure può ritornare indietro? E se sì, come? – finite le domande che desideravo porle, richiusi la bocca e mi riappoggiai allo schienale del divano, rendendomi conto solo ora che mi ero sporta verso Sibyl. La donna rimase ancora zitta. Bevve un altro sorso di tè, continuandomi a guardare. Mi portai una ciocca di capelli dietro l’orecchio, in agitazione. Poi, dalla cucina ne uscì Paul. Con la mano sinistra si teneva al petto varie scartoffie, alcune spiegazzate ed altre macchiate di caffè, invece con l’altra portava la cartella che usava per andare al lavoro. Con il dorso della mano destra si riaggiustò gli occhiali senza montatura e rivolse ad entrambe un sorriso. – Devo andare. Ho un’intervista urgente da fare! – si chinò su Sibyl per darle un bacio a fior di labbra e scappò via dalla porta, seguito con lo sguardo da noi due.
Era proprio diverso da sua moglie. Sibyl sembrava prendere tutto con calma e sarebbe arrivata in ritardo, piuttosto che iniziare a correre, al contrario di Paul che sembrava aver bisogno sempre di qualcosa da fare e correva sempre da un posto all’altro. Se Jenna aveva ereditato molto da Sibyl, in quanto a ereditarietà fisica, aveva preso la stessa quantità di tratti del carattere del padre.
Una parte della mia mente si chiese che intervista urgente avesse da fare in una cittadina come Broseley. Forse l’intervista era con un signore venuto da una città grande, come Londra…
-Bisogna completare il rito. – mi distrasse dai miei pensieri la voce della madre di Jenna. Mi voltai subito verso di lei, ricordandomi solo adesso per cosa ero venuta. Sentii Abraham sussultare.
Riposai lo sguardo su di lei. – Cosa? -  domandai con voce improvvisamente rauca.
Sibyl socchiuse gli occhi, prima di specificare. Mi ricordava vagamente un gatto che stava tranquillo sotto il sole. – La risposta alla tua domanda. Vorrei sapere cos’è successo ma, finché ci sono fantasmi in giro prima dei tre giorni dell’oltretomba, mi basta sapere che qui c’è un fantasma del tutto innocuo e che ora sai come riportalo indietro. -
Non appena vide la mia espressione sorpresa, sorrise, bevve un altro sorso di tè e si voltò verso la cucina. No, sarebbe meglio dire che posò il suo sguardo a destra dell’entrata, esattamente dov’era Abraham. Poi, i suoi occhi si alzarono, fino ad incontrare i suoi, sempre che lo vedesse, cosa che proprio adesso stavo iniziando a sospettare. Il nonno di Dominique, incrociato lo sguardo color caffè di Sibyl, sbiancò del tutto, sempre che potesse farlo, vista la sua attuale situazione di fantasma. Sibyl sorrise di nuovo, assumendo un’espressione amichevole e tranquilla che non avevo mai visto nel volto di sua figlia. – Ciao, Abe. -

Note dell'autrice:
Umh, sì, questa volta il ritardo si è fatto sentire di più.
Già.
Chiedo venia ma mi sono imposta di avere almeno un capitolo di scorta (?) ogni volta che pubblico, quindi volevo aggiornare una volta finito il nono che ho appunto terminato oggi :)
Comunque... anche questo è di passaggio parecchio ma mi serviva per introdurre Sibyl che ho intenzione di far spuntare altrei volte nella storia u.u 
E poi mi piace il suo personaggio. Voi che ne pensate?
Coooooooomunque, mi è piaciuto molto scrivere questo capitolo, sopratutto per la prima parte. Amo scrivere di Ellison con i suoi amici in questo genere di scene pre-viaggio. David poi... devo assolutamente dargli più spazio nella storia, sto iniziando ad amarlo. 
Prima di andare, voglio fare un accorgimento che non ho scritto nel sesto capitolo (in cui si nomina per la prima volta la cittadina di Ellison): Broseley esiste veramente. E' una città che si trova in... come si chiamano le cose in cui è suddivisa l'Inghilterra? Vabbe', Broseley è nel Salop. Anche chiamato Shropshire. Vicino al Galles.
Al prossimo capitolo :)

 

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Capitolo 9
*** La Biblioteca dei morti ***


Capitolo 9
La biblioteca dei morti
 
 
Rilessi un’ulteriore volta il messaggio che Dominique mi aveva appena mandato, per poi iniziare a scervellarmi su cosa risponderle. Il testo diceva: “Ehi, David ed io andiamo a vedere la replica de ‘Il Castello Errante di Howl’, vuoi venire?”.
Mi passai distrattamente una mano tra i capelli. Domi adorava quel genere di film e quello che oggi sarebbe andata a vedere era uno dei suoi preferiti ma non potevo venire con lei, anche se non mi avrebbe fatto male mettere da parte per un qualche ora l’altra dimensione. Umh, dovevo trovarle un nome al più presto.
Lanciai un’occhiata ad Abraham. Stava guardando fuori dalla finestra, le mani incrociate dietro la schiena. Mi sarebbe piaciuto fargli incontrare un’altra volta Dominique ma ieri avevo dedicato l’intera giornata a capire come farlo ritornare indietro, siccome non vedevo come potesse comunicare ancora con Dominique e questo era ciò che più voleva al mondo, lo sapevo, e morivo dalla voglia di vedere la fantomatica biblioteca di cui mi aveva parlato Percy.
Dopo aver preso in considerazione l’idea che l’anello che avevo trovato fosse suo, né io né lui ci eravamo sentiti di ritornare al palazzo del Consiglio e così avevamo finito per parlare.
Poi, dopo quella che era sembrata un’ora, ero ritornata indietro.
Mi ripromisi di scoprire se potessi controllare anche quando tornare nella mia dimensione.
Digitai velocemente un “mi dispiace, ho un impegno.” e  presi le chiavi dal gancetto apposito. Io  e mia madre ne eravamo dipendenti in una maniera schifosamente imbarazzante, visto che eravamo entrambe distratte per natura e tendevamo a scordarci dove posavamo le nostre cose. Dopo la quarta volta che aveva dimenticato dove avesse messo il suo paio di chiavi, mia madre aveva appeso il gancetto, dichiarando con determinazione, e un orgoglio per niente velato, che d’ora in poi lì avremmo agganciato le nostre chiavi.
Ignorai il mio cellulare che mi avvisava dell’arrivo di un altro messaggio e aprii una porta. – Vado. – avvisai Abraham. Sorrisi. Era come se fosse ancora vivo e avesse bisogno di sapere dove fossi.
Abraham distolse lo sguardo dalla strada. – Il tuo telefono ha squillato. – mi fece notare. Annuii.
-Lo so. –
Sollevò un sopraciglio, assumendo un’espressione lievemente confusa. – Non lo leggi? –
Scossi la testa. – Ora ho solo voglia di andare là. –
Fece un sorriso furbo. – C’entra forse un certo ragazzo che assomiglia ad Animal? – insinuò.
Sollevai gli occhi al cielo e sbuffai infastidita, sperando che non si accorgesse che intento ero arrossita. Poi rincontrai il suo sguardo azzurro e sorrisi. – No, ma una biblioteca. Devo aggiungere altro? –
Mi salutò con un “ sta’ attenta” che mi fece ricordare tremendamente mio padre.
 
Ricomparii, come al solito, sulla mia lapide. Ora che sapevo quale fosse il suo significato, vederla rendeva meno irrequieta. Era una garanzia che, nonostante fossi capace di andare da una dimensione e l’altra, una delle quali, tra l’altro, accessibile soltanto con la propria morte, vivessi, esistessi ancora in entrambi i mondi. Era una sensazione strana ma rassicurante. Se devo essere anche sincera, mi faceva sentire anche leggermente potente. Ero atterrata a sedere, senza neanche prendere alcun tipo di botta, potevo ritenermene soddisfatta. Non sapevo ancora come fosse possibile essere pienamente padroni di quei viaggi ma quella volta, in un modo o nell’altro, mi ero concentrata, pregando mentalmente di non finire per contro qualcosa o qualcuno (come successe la seconda volta che avevo “viaggiato”) e aveva funzionato.
Rimasi seduta per un po’, ogni volta che succedeva, mi sentivo disorientata, con la testa che mi girava.
Solo quando riuscii a riprendermi dal mio stato di intontimento, mi resi conto che nel Cimitero dei Vivi non c’era nessuno. Deglutii. Ero da sola, come la prima volta che ci ero arrivata, però, la situazione era totalmente diversa, perché adesso sapevo dov’ero e, in un certo senso, non c’era Percy pronto a infastidirmi con riferimenti a suoi omonimi figli di Poseidone.
Mi diedi subito della stupida.
Non aveva senso affidarmi completamente a qualcuno che non ricordava neanche la sua vita. No, dovevo essere indipendente, in quella mia “missione”.
Mi misi in piedi e andai con passo spedito e sicuro verso ilo cancello del cimitero. Questa volta non mi fermai a guardarne il cartello o le case ma posai gli occhi subito sulla strada, per poi insultarmi fra me, nuovamente. Certo che non ero completamente indipendente: non ricordavo per nulla la strada per andare al palazzo del Consiglio!
La prima volta che ci ero andata, mi ero limitata a seguire Percy, Peter e Bree ed ora non avevo la minima idea di dove e quante volte dovessi svoltare per raggiungerlo.
Con uno sbuffo, mi sedetti sul marciapiede davanti al campo santo. Mi presi la testa con le mani, lasciando che i miei capelli mi isolassero dal resto dell’ Oltretomba, così mi ero ritrovata a volerlo soprannominare, nonostante non fosse un nome molto originale ma lo trovavo azzeccato e poi Sibyl vi si era riferita così, quindi doveva essere giusto, in buona percentuale.
Come potevo fare? Dovevo chiedere indicazioni a qualcuno del luogo? Non c’era nessuno, però. Dovevo andare a suonare di casa in casa? No, avrebbe dato troppo nell’occhio e non volevo attirare l’attenzione.
Alzai la testa e, quando il mio sguardo scorse una piccola casa di pietra, mi ricordai che qualcuno a cui chiedere aiuto c’era: Peter. Mi rimisi in piedi frettolosamente, rischiando, tra l’altro di finire con la faccia a terra, e corsi verso casa sua. Rallentai l’andatura, non appena posai il piede sul piccolo vialetto che tagliava in due il giardino di Peter, poi quando mi ritrovai davanti alla porta di legno scuro, mi fermai, notandovi una cartolina caduta vicino. Su una delle superfici, c’era una foto color seppia di una ragazza più o meno della mia stessa età. Cercai di prenderla per vederla meglio ma, non appena la mia pelle sfiorò la cartolina, sentii una risata femminile. Mi rialzai e mi guardai attorno ma non vidi nessuno che potesse aver riso, così, questa volta, presi la foto con più decisione.
 
Una ragazza, sui quindici o forse sedici anni, agitava davanti il naso di un bambino di otto anni, dai riccioli castani, identici ai suoi, un fazzoletto colorato. – Prova a prenderlo! – disse. Il bambino non se lo fece ripetere due volte ed iniziò a rincorrerla, ridendo divertito dal gioco che gli aveva appena proposto la sorella maggiore.
 
Con un sussulto, la cartolina mi cadde dalle mani. Cos’è successo? Feci per riprenderla, con l’intenzione di capire se la visione che avevo appena avuto fosse stata causata proprio da quell’oggetto, quando la porta davanti a me si aprì.
-Ciao. – mi salutò Peter con un sorriso enorme. Le fossette gli erano già comparse agli angoli degli occhi castani. Dio, era così carino. Sembrava una calamita per gli abbracci. Mi costò non poco autocontrollo non farlo.
-Ciao. – risposi con sollievo nella voce, perché così potevo chiedergli cosa fosse appena accaduto.
Il suo sguardo cadde sulla cartolina e la prese da terra. Poi, non appena la toccò, i suoi occhi si fecero per un istante distanti. Quando ritornarono normali, sorrise, malinconico e mormorò “Margaret” con voce triste. Incontrò, dunque i miei occhi e il suo sorriso si fece timido. – Grazie per averlo trovato. – mi ringraziò, facendomi capire ancora di meno della situazione corrente.
-Cos’ era quella… -
-Visione? – mi interruppe. Annuii. – Era un ricordo di mia sorella. – si rigirò tra le mani la foto, studiandola. – Si chiamava Margaret. –
-È qui? – domandai, non pienamente certa se fosse sì o no una domanda da fargli, ma non riuscii a trattenermi.
Peter scosse la testa. – No, se ne andò prima… prima… - strinse le labbra, per poi continuare la frase. Dopotutto non doveva essere facile parlare della propria morte, soprattutto se eri un tredicenne che aveva tutta una vita da vivere, ancora. – prima che io morissi. Se ne andò in America. E credo che sia ancora lì. –
Aggrottai la fronte. – Cosa intendi dire? Non penso che sia possibile vivere così a lungo… -
Alle mie parole, sorrise leggermente divertito. – Non intendo quello. Broseley non è l’unica città nel mondo. –
Spalancai gli occhi. -  Stai dicendo che ci sono altre città come questa nell’Oltretomba? Tipo New York? Londra? Parigi? Roma? –
Peter annuì. – Però non possiamo andarci. Una volta che una città diventa la tua casa, se ci muori, non puoi spostarti. Ci rimani per sempre, credo. Non so se si può morire anche qui o qualcosa del genere. –
Sbattei, una, due, tre volte le palpebre, sorpresa di come funzionasse quel mondo così bizzarro. - È triste. – sentenziai dopo qualche secondo.
Peter si grattò la fronte, arruffando i suoi riccioli color cioccolato. – Un po’ ma credo che i ricordi esistano per questo. Per alleviare il senso di nostalgia. – guardò un ultima volta la cartolina, prima di infilarsela nella tasca dei pantaloni beige.
Mi soffermai un istante ad osservare il suo abbigliamento, nonostante non fossi il tipo di persona che giudica le persone per quello che indossano, anche perché io non mi vestivo molto spesso con l’attenzione che ci metteva Dominique, una gran vanitosa, tra l’altro, ma non narcisista, affatto.
Aveva addosso una camicia bianca a maniche corte e pantaloni beige, che gli arrivavano quasi a toccare le scarpe strausate. Era un abbigliamento vagamente formale ma si capiva che non fosse molto costoso, dagli abiti lisi ma puliti.
-Come mai sei qui? – mi domandò, riscuotendomi dai miei pensieri.
Scossi la testa, tentando di concentrarmi a pieno su di lui. – Emh, devo andare alla biblioteca ma… -
-Non hai la minima idea di come arrivarci? – annuii, in imbarazzo. – Perché non me lo hai chiesto prima, allora! –
Sentendo la sua voce allegra, risi e lo ringraziai.
Scosse il capo, come per dirmi che non era nulla di che, chiuse la porta alle sue spalle e cominciò a camminarmi affianco, spiegandomi, ogni tanto, che strada avessimo appena preso, cercando di aiutarmi a memorizzarla più in fretta.
Quando arrivammo al confine con il quartiere residenziale, se lo si poteva definire così, e il resto della città, mi sentii sollevata. Le risposte alle mie domande erano sempre più vicine.
-Margaret era la tua unica sorella maggiore? – chiesi a Peter, non appena oltrepassammo la “Libreria della Luna”.
-Uh? – fece in un primo momento. Molto probabilmente era perso nei suoi pensieri e, sinceramente, mi rincuorava il fatto che non potessi essere l’unica con quella caratteristica. Fece cenno di no. – Ne avevo un’altra, Tara, ed un fratello maggiore, il suo gemello, Victor. Poi c’erano Jordan e Caroline, i più piccoli. –
Spalancai gli occhi. – Famiglia numerosa. - commentai. Peter sorrise per poi annuire. – Ce lo potevamo permettere, in un certo senso. Papà era il proprietario di una fabbrica. Cioè, all’inizio. –
Mi accigliai. – Cosa intendi dire con… - ma non potei continuare la frase che la mia attenzione fu richiamata da un “Ehi, Ellison!” dall’altra parte della fontana, quella con la statua di Ecate.
Sollevai lo sguardo per incontrare poco dopo quello di colui che mi aveva chiamata, Percy, ovviamente.
Mi salutò con la mano ed io feci altrettanto.   
Quando li raggiungemmo, non potei fare a meno di scoccargli un’occhiataccia. – Dov’eri finito? –
Si scambiò uno sguardo divertito con Bree, prima di cominciare a ridere. Sentendo la risata di Bree, rimasi per un attimo interdetta: non l’avevo mai sentita. Bree sembrava una ragazza così seria, tutte le volte che l’avevo vista, mentre cercava di far finta che non esistessi ed in volto aveva quasi sempre la stessa espressione ma con Percy si trasformava. Sembrava più umana, più viva.
Mi chiesi come fosse stata la sua vita passata, magari circondata da uno stuolo di ammiratori, visto il suo aspetto. Bree, con l’accostamento inusuale dei suoi occhi verdi e i capelli platino, che però funzionava, decisamente, il suo fisico snello, forse un po’ troppo magro, e i lineamenti del volto affilati ma piacevoli, era bella.
Scossi la testa. Non erano affari miei, ma, diamine, volevo capirla. Era come se avesse due personalità: una acida ed un’altra allegra e senza pensieri, che usava solo con Percy. Chissà da quanto si conoscevano, quei due.
Mi sorpresi a chiedermi, poi, se ci fosse del tenero, tra loro. Scacciai la domanda dalla mia testa con non poco fastidio. Insomma, non sono qui per questo.
Peter fece un piccolo sorriso, forse anche lui preferiva una Bree sorridente ad una acida. – Ieri hanno pattinato per tutta la città fino a tardi, siccome non sei venuta. – mi spiegò.
Percy smise di ridere ed annuì. – Un grande divertimento comporta una grande sonnolenza. – alzò un dito per dare maggior enfasi alla sua battuta.
Cercai di non ridere alla sua citazione mal riuscita ma mi scappò lo stesso una risatina. Percy se ne accorse e fece un ghigno. Si portò una mano tra i capelli castani e li scosse, arruffandoli ancora di più. – Andiamo? – disse con tono duro Bree. La sua facciata spensierata era già sparita e le braccia incrociate al petto. Il ragazzo accanto a lei annuì e le tolse il braccio dalla vita, che prima non avevo notato, per poi darle un buffetto sulla guancia. Bree parve tranquillizzarsi, perché sciolse le braccia ed iniziò a camminargli accanto.
Cercai con lo sguardo gli occhi di Peter ma lui fece spallucce, come per dirmi che non dovevo farmi troppe domande su di lei, ed iniziò a seguire i suoi amici, gridando un “Ehi! Aspettateci!” che mi fece sorridere, era come se facessi già parte del loro gruppo e la cosa mi piaceva non poco.
Salimmo le scale senza incontrare nessun membro del Consiglio, Peter mi spiegò che si riunivano solamente una volta alla settimana, per confrontarsi. Questi incontri potevano durare tutto il giorno ed era per questo che nel palazzo c’erano dodici camere da letto. La tredicesima, quella mancante, non c’era perché il suo proprietario era membro del Consiglio per diritto e non cambiava mai, quindi aveva direttamente una casa per sé dall’altra parte della piazza.
Stavo per domandargli chi fosse questo fatidico tredicesimo membro, quando finimmo di salire l’ennesima rampa di scale, arrivando così all’ultimo piano del palazzo.
Il soffitto era a cupola e la porta della biblioteca era alla fine della stanza. Doveva essere minuscola. Non potei fare a meno di deludermi. Percy ne aveva decantato le lodi, quel giorno che avevamo scoperto che l’anello era suo ed ora dovevo basare le mie ricerche soltanto su del materiale composto al massimo da una libreria?
Storsi il naso ma non dissi niente, piuttosto mi diressi con passo deciso verso la porta. Era senza serratura, constatai una volta arrivata davanti, con sorpresa. – Ma cosa… ? –
-Devi usare la chiave. – mi spiegò Percy. Mi voltai verso di lui, trovandomelo affianco.
-Quale chiave… oh! – esclamai, quando notai il pulsante d’ottone, assomigliava tanto ad un campanello vecchio stile, con sopra disegnata una chiave stilizzata. Lo pigiai e sotto di esso, dove c’era una piccola rientranza squadrata del muro, apparve dal nulla una chiave.
Esattamente nello stesso istante, spuntò sulla porta una serratura. Presi la chiave, era di ferro nero, grande e antica. Mi ricordava tanto quella di Coraline. Feci scattare la serratura ma, dopo il primo, sentimmo un secondo suono. Sembrava una specie di “pop”. Spalancai gli occhi, quando vidi che la porta si stava avvicinando sempre di più a noi quattro. Feci un passo indietro, intimorita.
Percy deglutì e mi afferrò il braccio. – Non credo che basterà. –
-Cosa intendi dire? –
-Tu… sei un gran lettrice, eh? – mi chiese ignorando la mia domanda.
Annuii, non riuscendo a capire dove volesse andare a parare. Bree imprecò. – Oh, fantastico. –
La porta avanzò ancora e Percy mi strattonò all’indietro, per poi iniziare a trascinarmi fino alle scale. Dietro di noi, sentii che anche Peter e Bree stavano correndo verso di lì ma non ne capivo il motivo. Cioè, cosa stava succedendo? Perché la porta si stava espandendo?
Quando la sopracitata ci si avvicinò ancora più velocemente, decisi che le mie domande potevano aspettare. Aumentai il passo, in modo da non dover essere più trascinata da Percy, anche se mi stava tenendo ancora per il braccio.
Non appena oltrepassammo una linea dorata, spessa circa cinque centimetri, sul pavimento, mi strattonò, facendomi fermare e per poco cadere a terra. Con poca grazia cercai di darmi del contegno ed osservar la porta che, man mano che si avvicinava a quella striscia, di cui mi rendevo conto dell’esistenza solo ora, diminuiva la sua velocità, finché non si fermò.
Ci furono alcuni secondi di silenzio che poi venne spezzato da Percy: - La tua camera deve essere piena di libri. – mormorò, guardando, forse un poco intimorito, la porta.
-Ancora non capisco cosa c’entri con questa porta che ha appena cercato di ammazzarci. – replicai, ignorando la sua osservazione, anche se era vera al 100%.
Bree fece uno sbuffo. – Questa non è una biblioteca come quelle nel tuo mondo. Cambia in base a chi la apre. Ogni chiave da accesso ad una biblioteca diversa e solo il proprietario può usare la sua chiave. – scoccò la lingua. – E la biblioteca non contiene quindi gli stessi libri ma tutti quelli che il possessore della chiave ha letto, vuole leggere o di cui ha bisogno. È per questo che Percy ti ha chiesto se fossi una grande lettrice. – mi sembrò di sentire un filo di tono possessivo, quando pronunciò il nome di Percy. Fece un altro sbuffo seccato. – Questo non farà altro che aumentare il lavoro. –
Aprii la porta e per poco non svenni per la vista che mi si parò davanti. La biblioteca era immensa. Occupava l’intero ultimo piano del palazzo e, siccome si parlava dunque della cupola, era rotonda, a più piani. Ne contai almeno cinque. Degli scaffali aderivano perfettamente alle pareti, che straripavano di volumi, pergamene, volantini e quaderni, e coprivano interamente le pareti. In un angolo, scorsi una stretta scala a chiocciola che portava fino al tetto, su cui vidi anche una botola.
In mezzo alla sala correva un tavolo in cui erano posate, ad intervalli di tre metri, o forse di più, delle lampade. Al muro davanti alla porta, c’era uno schermo con il conto a rovescia. Segnalava che erano già passati due minuti delle tre ore di tempo ma adesso me ne importava poco.
Girai su me stessa per osservare meglio la biblioteca. Adesso capivo perché Percy me ne avesse parlato in quel modo. Era magnifica.
Sentii un colpetto di tosse. Mi voltai e vidi sulla soglia Percy, Bree e Peter. Il primo stava guardandosi attorno fischiando colpito, la seconda aveva un’espressione seccata e il terzo stava con il naso all’aria, guardando il soffitto.
Feci un sorriso colpevole. – Mia madre ha una libreria. – mi giustificai.
Bree aveva ragione: ci sarebbe stato molto lavoro da fare.


Note dell'autrice:
E finalmente siamo arrivati al capitolo in cui Ellison vede la biblioteca... Ne voglio anch'io una così ç_ç 
Umh, so che all'inizio può sembrare non molto pertinente al tema della vita dopo la morte della storia ma c'è una spiegazione per come funziona la biblioteca e la metterò più avanti >_>

La certoline/ricordi invece sono più un espediente narrativo e, sinceramente, mi piaceva l'idea che ci fossero. 
Umh, non ho altro da aggiungere, ringrazio le ragazza che hanno recensito lo scorso capitolo e spero che anche questo vi piaccia ^-^

 

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Capitolo 10
*** La Biblioteca dei vivi. ***


Capitolo 10
La biblioteca dei vivi
 
 
 
Non avrei saputo dire cosa avessi sognato quella notte, dire di non averlo fatto per niente sarebbe stata solo una mera bugia, siccome sapevo benissimo che non funzionavano affatto così le cose, probabilmente per la stanchezza che sentivo addosso, quasi fosse una coperta bagnata, adagiata sulle mie spalle.
Dopo aver passato quella che era sembrata una mezz’ora a capire come funzionasse effettivamente la biblioteca dell’Oltretomba, avevamo cominciato a catalogare i libri che avevo letto, perciò inutili, nonostante non fossi molto favorevole a questa opinione.
Proprio la mia testardaggine nel difendere il mio pensiero a proposito che la lettura era uno dei fondamenti della società contro la pigrizia di Percy e Bree, che erano stati proprio loro a lamentarsi della quantità di materiale, ci aveva fatto spendere altri dieci minuti.
Dopo l’intervento di Peter, che era riuscito ad acquietare gli animi di noi tre, ancora non avevo capito come, avevamo iniziato seriamente a dividere i libri utili alla nostra ricerca, definizione che preferivo di gran lunga anche se, a detta di Percy, non differiva molto da quella precedente, dagli “altri”. Ed era stato dopo alcuni minuti che avevo iniziato a sentire la ormai familiare sensazione che preveniva ogni mio viaggio attraverso le dimensioni. Le prime due volte che avevo sentito quella specie di strappo allo stomaco, ero riuscita ad evitare il “salto dimensionale” soltanto concentrandomi sul titolo che avevo sotto gli occhi, ovvero l’edizione spagnola de “La città delle bestie”, “La ciudad de las bestias” (a quanto pareva, la biblioteca forniva i libri anche nelle lingue che il possessore del momento conosceva e questo mi aveva portato a maledire non poco il giorno in cui avevo deciso che imparare lo spagnolo con David sarebbe stato divertente) per poi perdere l’attenzione e quindi scomparire senza un briciolo di dignità nel bel mezzo di una risata, è imbarazzante dirlo ma forse mi era scappato anche un grugnito, scatenata dalla caduta di Percy da una sedia.
Dopo essere ricomparsa nel cimitero, Abraham non c’era, probabilmente mi aspettava a casa, siccome si era fatta sera, avevo provato a ritornare indietro, più che altro per un proprio capriccio personale, visto che per il resto di quel giorno non avrei potuto continuare le mie ricerche.
Quando ebbi compreso che probabilmente la stanchezza fisica, e anche mentale, a questo punto, influiva sulla mia capacità di andare da una dimensione all’altra, mi ero trascinata fino a casa mia, come e con quali forze non avrei saputo dirlo, con sincerità.
Comunque, il giorno dopo, venni svegliata da una doccia decisamente indesiderata.
Mi alzai di scatto e sbattei la fronte contro qualcosa, o forse qualcuno, siccome sentii un “Ahi” che io non avevo decisamente pronunciato.
Al che, misi a fuoco la persona che molto probabilmente aveva appena causato l’improvviso calo del mio Q.I.: mia madre.
Stava massaggiandosi con espressione dolorante la fronte. – MA SEI IMPAZZITA?! – esclamai.
Prima di allora era successa solo una volta che mia madre mi svegliasse con una secchiata d’acqua ma erano passati almeno cinque anni e credo che la mia reazione fosse piuttosto ragionevole e giustificabile. Mi guardai attorno e con sollievo constatai che l’acqua non aveva arrecato nessun danno: nessun libro zuppo o mp3 affogato, solo una me fradicia.
-Visto che non sono ancora stata internata in un ospedale psichiatrico, credo che la risposta sia no, Ellison. – mi rispose lei, con fare tranquillo, forse un poco seccato dalla mia reazione.
-Allora speriamo che, se ancora non ti è stato diagnosticato niente, non sia ereditario! – replicai, alzandomi dal letto. Presi un asciugamano, mia madre lo aveva portato ed appoggiato sulla sedia di fronte alla scrivania, per asciugarmi i capelli. – Potevi bagnare i libri. – aggiunsi poi con tono infastidito.
Anche mia madre si alzò dal mio letto. Scosse la testa. – Li ho tolti apposta. Non permetterei mai che un libro si rovini per colpa mia, soprattutto se tuo. –
-Oh. – okay, era già stata perdonata per questa sua gentilezza, dopo di che una domanda mi sorse spontanea: - Perché mi hai svegliata? –
Mia madre alzò il pollice della mano destra. – Primo perché non puoi dormire per tutto il dì, l’altro giorno te l’ho permesso e hai quasi perso metà giornata. – sollevò l’indice. – Secondo perché i tuoi amici stanno suonando al campanello da venti minuti. –
-Ah. – mi limitai a rispondere. – Dì loro che arrivo subito. –
Mi guardò alzando un sopraciglio, le mani ai fianchi. Sollevai subito le mani. – Oppure posso farlo benissimo io. –
Sembrò soddisfatta della mia ripresa, perché mi sorrise e diede un buffetto sulla guancia. – Sbaglio o è da un po’ che non li vedi? –
Mi morsi l’interno della guancia. – Non sbagli. –
Con tutta quella storia dell’Oltretomba, avevo trascurato i miei, e soli, amici, era vero e me ne vergognavo. In quel momento decisi subito che avrei rimediato quel giorno, magari distogliendomi dalla mente pensieri che includessero ragazzi morti, biblioteche magiche e membri del Consiglio di una cittadina morta che sembravano conoscere il mio cognome.
Corsi alla porta d’ingresso per accogliere i miei amici. Non appena mi vide, Dominique mi squadrò dalla testa ai piedi, per poi dire: - Hai le occhiaia. – con tono serio e forse un poco preoccupato. Sorrisi, probabilmente era così: Dominique era cambiata molto crescendo, dimostrava raramente  affetto per i suoi cari ma si preoccupava sempre per loro. David ridacchiò, al commento della fidanzata. – Fatto tardi, Hyde? –
Portai gli occhi al cielo. – Non immagini quanto. – mormorai ed in effetti era così, la sera prima ero ritornata a casa alle sette circa, fortunatamente mia madre non si era preoccupata e mia aveva lasciato andare a dormire direttamente, ma mi ero addormentata solo dopo troppo tempo.
-Oh, qualcosa di interessante? – si intromise Jenna, entrando in casa e buttandosi sul divano. Mi feci da parte per far entrare anche David e Dominique.
Scossi la testa, avevo capito benissimo cosa intendesse Jenna. – No, nessun nuovo libro. – La mia amica mi guardò alzando un sopraciglio. – Strano. -
Tossicchiai, leggermente imbarazzata ed andai in camera mormorando un “arrivo subito”.
 
Sono sempre stata una ragazza introversa. In vita mia non ho mai avuto molti amici. In parte perché tendo a legare con poche persone e queste devono avere almeno una passione in comune con me e la pazienza per sopportare i miei ritardi. E, beh, ne avevo trovate poche in sedici anni di vita, ovvero: David, Dominique e Jenna. Avrei affidato la mia vita a loro. Ognuno di noi sapeva tutto degli altri tre. Ad esempio, loro sapevano che avevo paura che il cancro che uccise mio padre potessi averlo anch’io, un giorno, e questo potesse negarmi di esaudire i miei sogni di viaggiare per il mondo e trovare nelle librerie libri scritti da me.
Di Dominique sapevamo che un giorno avrebbe voluto lavorare per la Picture, oppure per un’altra importante casa cinematografica; di David che aveva una cotta per la sopracitata dall’età di quattordici anni ma che solo dopo un anno aveva avuto il coraggio di chiederle d’uscire e solo perché aveva scommesso con Jenna che lo avrebbe fatto una volta che Dominique avrebbe avuto i capelli viola.
E, beh, di Jenna sapevamo della sua omosessualità.
Ce lo aveva detto in un pomeriggio d’autunno, poco dopo l’inizio della scuola. Eravamo tutti a casa di David a guardare la prima puntata della seconda stagione di Sherlock (BBC). David ed io stavamo discutendo su con chi potesse stare realmente Sherlock, con Dominique che ogni tanto ci interrompeva dicendo che John era la sua anima gemella e cose del genere. David preferiva Irine, io Molly, di gran lunga.
-Beh, sono belle tutte e due. – si era poi intromessa Jenna. – Ma io preferisco Molly. –
A quel punto ricordo di essermi voltata verso il mio amico per esclamare un “Ah!” di vittoria. Ricordo che poi David aveva borbottato qualcosa contro la solidarietà femminile. – Chissà se anche lei è lesbica. – aveva continuato intanto Jenna, facendoci impietrire tutti e tre.
Dopotutto avremmo dovuto aspettarcelo che avrebbe fatto una “rivelazione” del genere in questo modo, Jenna era il tipo che preferiva non mentire e, se proprio doveva nascondere la verità, allora preferiva tacere ma, se voleva, cosa che era assai più probabile, ti diceva tutto con una naturalezza, quasi parlasse di cose banali, tipo “Ah, ho iniziato un libro nuovo” o “Oggi devo andare a comprare il latte”, esattamente come aveva appena fatto.
C’erano stati alcuni minuti in cui tutti e quattro tacemmo, limitandoci a guardare attentamente Sherlock che scopriva la password di Irine Adler, poi David aveva parlato: - Irine di sicuro. –
Alla sua, pessima, battuta, Jenna scoppiò a ridere, presto seguita da me e Dominique.
Ricordo che, dopo quel pomeriggio, avevo trovato Jenna più spensierata, quasi si fosse levata un peso di dosso. Con quella frase, David le aveva fatto capire che ciò che aveva appena detto non era importante, le volevamo bene.
Per questo mi sentivo tremendamente in colpa per non aver detto subito loro che potevo andare da una dimensione all’altra, come una specie di Caronte che traghetta però solo la sua, di anima, compresa di corpo dal mondo dei vivi a quello dei morti.
Eppure non me la sentivo di rivelare il mio segreto. Soprattutto per Dominique, che era una scettica nata. Non mi avrebbe creduto, avrebbe potuto benissimo pensare che mentivo, la prendevo in giro, e non volevo questo. Era la mia migliore amica. E non potevo neanche dirlo a David e Jenna, che sarebbero stati sicuramente affascinati dalla cosa, perché sarebbe stato ingiusto verso Dominique.
Scossi la testa, sottraendomi a quei pensieri che mi tormentavano da quando Abraham aveva pronunciante le parole “Elly, sei appena stata in un’altra dimensione, è da lì che provengo e vanno inesorabilmente tutti, una volta morti”.
-Dove si va? – domandai non appena varcai la soglia del salotto.
Dominique sollevò gli occhi grigi, prima posati sulla finestra della stanza, e li puntò su di me. Indicò il suo ragazzo. – In biblioteca. Sta andando in paranoia per i compiti delle vacanze. – spiegò con tono seccato. – Per lo più per la ricerca che la Parrish ci ha dato da fare, quella sulla riproduzione cellulare. –
Mi grattai la guancia. – E allora? – lanciai un’occhiata a David. – Tu vai bene in scienze, è la tua materia preferita, fa’ la ricerca e basta, no? –
-Bisogna farla in gruppo, genio. – aggiunse Jenna con tono divertito.
-Ah. – caddi dalle nubi, per poi maledire la mia pessima abitudine di dimenticare cose importanti come quella. – Ma è ancora metà luglio. Abbiamo tempo. –
Il mio amico scosse la testa. – No, fra qualche giorno parto con i miei  e i gemelli per il resto dell’estate. Andiamo in Cornovaglia, dai nonni. – il padre di David era originario di quella zona, la madre invece era dello Yorkshire. Si strinse nelle spalle e fece un sorriso triste a Dominique. – Non ci vedremo per il resto delle vacanze. – storse il naso. – Cioè, ritorno solo alla fine di agosto e io non ho voglia di passare gli ultimi giorni a dannarmi con voi due – indicò me e Jenna- che vi dimenticherete puntualmente di portare il materiale. – Succedeva sempre.
 Arrossii. – Okay, non c’è bisogno di fare certe accuse! – borbottai. – Vado a prendere quello che ci serve. – feci per andare di nuovo in camera mia ma dovetti ritornare sui miei passi e riaffacciarmi sul salotto. – Che ci serve per fare la ricerca? –
Dalla cucina, fu mia madre a rispondermi: - Che ne pensi di un cervello? –
 
Non appena realizzai, sarebbe meglio dire “ricordai”, che in biblioteca c’erano anche delle copie di giornale piuttosto vecchie. Un giorno ne avevo sfogliata una che risaliva a dieci anni prima. Mi sarebbero potute servire per il favore che mi aveva chiesto Percy…
 
-Ellison. – attirò la mia attenzione Percy, distogliendola da una pila di libri che parlavano di come tenere ordine nella propria vita, partendo dai propri spazi personali. Non avevo idea di averne bisogno. Mi voltai verso di lui, era proprio dietro le mie spalle. Come avevo fatto a non notarlo? Feci un passo indietro, per non essere costretta ad alzare la testa per guardarlo in faccia. – Dimmi. – lo incoraggiai.
Si grattò con visibile imbarazzo il capo, prima di parlare: - Io non so perché stia cominciando a ricordare cose del mio passato ma non mi bastano. Mi ritornano in mente solo aneddoti, non volti. Non ricordo neanche la faccia di mia madre. Non so se sono cresciuto, con una madre. –
Spalancai gli occhi. – Mi dispiace. – gli dissi colta da una profonda pietà nei suoi confronti. Alzai una mano e la posai sul suo braccio. Ancora una volta, constatai che avevamo temperature differenti ma la sua sembrava essersi alzata, dall’ultima volta che l’avevo toccato.
Scosse la testa. – Non è colpa tua, non devi. Però… potresti fare qualcosa per me? –
Annuii, senza pensarci troppo.
Si concesse un sorriso lieve. – Qui il tempo funziona in maniera diversa che nel mondo dei vivi. – si mordicchiò il labbro. – però sono riuscito a farmi dire da Oliver come e ho fatto i miei calcoli. Sono morto quattro anni fa’. Io vorrei…ti sarei per sempre grato se facessi delle ricerche su di me, sulla mia scomparsa. – il suo tono a quel punto si fece più deciso. – Voglio sapere come sono morto, che facce avevano i  miei famigliari. Potresti farlo per me? –
Sorrisi. – Certo. A che altro servirebbero gli amici, sennò? – risposi a quel punto, lieta di poterlo aiutare, per poi stupirmi della mia stessa affermazione. Eravamo davvero amici. Quel pensiero mi piacque. Avere Percy come amico mi rincuorava, rendeva tutta quella faccenda più rassicurante, grazie al pensiero di avere una persona accanto, lui, in quel caso.
Un sorriso prese piede sul suo volto, sebbene non fosse bello come quelli di Peter, lo trovai lo stesso piacevole.
Grazie, Ellison. –
 
Non appena entrammo nella biblioteca, buttai lo zaino sul primo tavolo che trovai libero e mi eclissai con la scusa di andare in bagno. Presi la strada per andarci, per poi svoltare verso la stanza in cui tenevano i giornali. Subito mi accolse un forte odore di carta invecchiata ed inchiostro. Dentro non c’era nessuno, all’in fuori di me, ovviamente, e una vecchietta vestita di rosa.
Non vi badai e corsi alla sezione degli scaffali in cui c’erano i giornali risalenti a quattro anni fa. C’era una sola copia per ogni giorno ed era riposta ordinatamente in uno scomparto.
Purtroppo per me, Percy non aveva calcolato anche il mese in cui era morto, e così le mie ricerche si fecero più difficili e lunghe. Con uno sbuffo mi misi al lavoro, contando sul fatto che la morte di qualcuno sarebbe stata messa sicuramente in prima pagina, visto che Broseley era una cittadina piccola. Adoperano quel metodo, ci misi poco per trovare una copia di giornale, pubblicata nell’Aprile del 2009, in cui il titolo in prima pagina recitava: “Scomparso sedicenne”.
La sfilai dallo scomparto per trovarmi di fronte ad una versione di Percy viva. Mi fece un certo effetto, per essere sinceri. E chi lo immaginava che da vivo fosse più carino. Mi maledii all’istante per quel pensiero e stessi ancora un po’a contemplare la foto.
Era indubbiamente lui. Il ragazzo fotografato aveva i suoi stessi capelli castano scuro arruffati, forse leggermente più corti ma avevo letto da qualche parte che i capelli e le unghie, una volta morti, continuavano a crescere, e gli occhi inusuali, allegri, dietro degli occhiali a televisione. Sorrisi al pensiero che Percy portasse gli occhiali in vita. Lo rendeva tenero.
Sì, occhiali a parte, si capiva perfettamente che fossero la stessa persona, il naso era affilato, gli zigomi alti e le labbra piene. Solo il colore della pelle poteva far nascere qualche dubbio, siccome il Percy che conoscevo io non era abbronzato, ma era proprio lui.
Non appena mi assicurai di averlo riconosciuto, portai la mia attenzione all’articolo, qualche pagina dopo. Diceva:
“Ieri, dopo quattro ore che non era ritornato a casa, è stata denunciata la scomparsa di Percy G. L. Arrow (16 anni). La madre (Lauren Cremer) afferma che il ragazzo avesse detto che sarebbe uscito con alcuni amici, prima di scomparire. Ma i suddetti, Michael Shearer e Jonathan Stohl (entrambi coetanei di Percy) hanno risposto alle domande dei detective dicendo che quel giorno non avevano alcun impegno con l’amico. Ci si domanda dunque se il ragazzo non avesse un appuntamento che teneva a tenere segreto. A queste insinuazioni, la famiglia ha subito risposto che Percy non è un drogato e nemmeno un criminale, infatti la perquisizione nella camera dei ragazzi ha dimostrato che il ragazzo non nascondeva droga. Gli investigatori hanno quindi supposto che la sparizione del ragazzo possa avere a che fare con dei rivali del padre, Richard B. Arrow, proprietario della famosa industria Arrow.”
Aggrottai la fronte. Avevo vaghi ricordi della scomparsa di un sedicenne poco prima che mio padre morisse ma, siccome non ne ricordavo il nome, non avrei mai collegato il caso alla situazione di Percy. Quindi esisteva davvero. Ne avevo la prova proprio tra le mani.
-Carino. Chi è? – chiese una voce alle mie spalle, facendomi sobbalzare, per la sorpresa.
Finii con il far cadere la copia del giornale che Dominique raccolse. Studiò la pagina che stavo leggendo. – Oh, ricordo il caso. È stato prima di tuo padre, no? –
Annuii.
-Se non sbaglio, andava alla Winston Churchill. – in quel momento invidiai non poco la mia amica per la sua memoria. Io, un dettaglio come quello, non me lo sarei mai ricordato. Poi, la ringraziai mentalmente: quella era un’altra buona scoperta da riferire a Percy.
-La scuola privata per figli di papà? – domandai, anche se ero quasi certa di non essermi sbagliata.
Dominique fece un cenno d’assenso. – Mio cugino Henry ci andava ma non erano nella stessa classe. Percy era più piccolo di qualche anno ma lo conoscevano tutti, lì. – fece una smorfia. – Per suo padre. – spiega poi.
Storsi il naso al pensiero di essere famosa solo per un genitore, sebbene il mio fosse un caso simile: a Broseley non erano molti i morti di cancro. Presi il giornale dalle mani di Dominique e lessi le ultime righe: “Ad ogni modo, la famiglia di Percy sta organizzando delle ricerche per il ragazzo e rende disponibile il numero dei telefoni di Lauren e Richard in caso qualcuno trovasse indizi sull’attuale ubicazione del ragazzo.”
Sotto vi erano i  numeri di telefono. Come se fossi in trance, ignorai la mia amica e andai subito a fotocopiare la pagina appena letta.
-Perché ne stai facendo una fotocopia? – domandò Dominique. Mi aveva seguita.
-Eh? – non avevo pensato ad una risposta in caso mi facessero domande, ma ad essere ancor più sinceri, non mi aspettavo che nessuno mi trovasse a leggere l’articolo di quattro anni prima riguardante la scomparsa di un ragazzo che non avevo mai conosciuto, prima di sei giorni prima. Era così strano pensare che fino a una settimana fa’ la mia vita fosse così banale.
-Allora? – mi incalzò la ragazza.
-Non lo trovavi carino? – le feci un sorriso malizioso, sventogliandole sotto il naso la fotocopia ed eludendo con maestria la sua domanda. Rise. – Come mi hai trovata? – le chiesi dopo aver messo a posto il giornale e riposto il foglio nella tasca dei miei jeans, mentre tornavamo da Jenna e David.
Si strinse nelle spalle. – Non ti ho trovata subito. Prima ho pensato che fossi veramente in bagno ma ci stavi mettendo troppo e Jenna ha insinuato che fossi scappata dalla finestra per non fare la ricerca. – Feci uno sbuffo, sentendo cosa avesse detto la mia amica. Quella era una cosa che avrebbe potuto fare più lei, che odiava stare troppo tempo ferma. – Ho vagato un po’ tra gli scaffali ma poi pensato che di sicuro ti eri nascosta da qualche parte a leggere, perché avevi trovato qualcosa di interessante. – Sì, quello era più probabile. – E sono andata nella stanza dei giornali. – fece spallucce.
-Sì, è successo più o meno questo. – mormorai, leggermente a disagio, e sperando che Dominique non si insospettisse. Mi sedetti al tavolo ed aprii il primo libro che mi trovai davanti. – Allora? Cominciamo questa ricerca di geografia. – tentai di avere un tono allegro, spensierato, sebbene i miei pensieri fossero più concentrati su di un ragazzo dagli occhi con le pagliuzze dorate.
-Scienze. – mi corresse David.
Sbuffai. – Stessa roba. -


Note dell'autrice:
Allora, innanzitutto mi scuso per non aver nè pubblicato nè risposto alle recensioni ma sono stata una settimana in vacanza e la rete wifi faceva schifo, inoltre dopo pochissimi giorni è iniziata la scuola (auguro un buon lunedì a tutti, a proposito) e quindi non ho avuto molto tempo libero per pubblicare, anche perché avevo intenzione di finire di scrivere il prossimo capitolo! *^*
Prometto che il prossimo aggiornamento sarà più veloce e che risponderò appena possibile alle vostre recensioni e vi ringrazio :)
Prima di passare ad altro, tengo ad aggiungere un'altra cosa per coloro che seguono la mia altra storia, I Sei Elementi: ovviamente non l'ho abbandonata, mi trovo, purtroppo, afflitta dal tipico blocco dello scrittore ma OVVIAMENTE non ho abbandonato la storia, in caso qualcheduno lo avesse pensato. Credo che non potrei mai farlo.
Ad ogni modo, in questo capitolo sono riuscita a tener fede a due promesse che mi ero fatta, ovvero di far ricomparire Helen e gli amici di Ellison *^* E per questo sono molto soddisfatta. Ora devo solo pianificare la prossima apparizione... Ugh.
Al prossimo capitolo :)


 

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