Provehito in Altum

di lulida
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Remember you and me ***
Capitolo 2: *** The promise of a life time - 2° capitolo ***
Capitolo 3: *** Strappi di me ***
Capitolo 4: *** capitolo 4. il tempo scandisce i sogni ***
Capitolo 5: *** capitolo 5- gli equilibri del cuore ***
Capitolo 6: *** cap-6. La sfida ***
Capitolo 7: *** capitolo-7- La partenza ***
Capitolo 8: *** capitolo 8 - Arrivo a Los Angeles ***



Capitolo 1
*** Remember you and me ***


 

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Capitolo uno
"Remember you and me"

 



C'è troppo silenzio in casa e il sonno tarda ad arrivare.
Sulla veranda, Cora sorseggia la sua tisana osservando il cielo notturno, ascolta il vento che muove rumorosamente i rami degli alberi del giardino, quasi tracciandoli e cerca di tenere a bada le emozioni, che dentro di lei, hanno la potenza di un mare in tempesta.
Quel giorno, sua madre le ha portato gli ultimi oggetti che teneva accantonati a New York.
Vecchie cose che non sono di alcuna utilità, ma che lasciate nella casa paterna, creavano una sorta di linea, un filo d'Arianna che la congiungeva alla sua vita precedente. 
Adesso, anche quel piccolo e sottile filo, fatto di libri più aperti da anni, foto datate e peluche polverosi non c'è più, niente che le appartenga si trova a New York.

Solo in quel momento percepisce tutta l'ineluttabilità della sua scelta e per la prima volta, pensa a ciò che fino ad allora aveva evitato di fare: ormai è fatta, non si può tornare indietro, non senza ripercussioni.
Deve ancora abituarsi all'andamento della sua nuova vita, a quanto ci sia un abisso tra quella di prima e quella che sta vivendo.
Un abisso attraversato d'un balzo, tanto, che neppure ha fatto in tempo ad accorgersi coscientemente di quanto le stesse accadendo.
Posa la tazza sul largo corrimano in legno della balaustra e dopo uno sbadiglio stanco, si mette davanti il vecchio album di fotografie, che ha sotto braccio.
Fa parte anche quello, del carico di cianfrusaglie, che sua madre le ha consegnato quella mattina.
Da tutto il giorno desidera guardare le foto al suo interno, ma ha atteso prima di poter cedere ai ricordi, preferisce non farsi vedere da suo marito mentre rimpiange un passato dove lui non è contemplato.

É piuttosto suscettibile a riguardo. 

In realtà, è eccessivamente sensibile a tutto ciò che ha come argomento lei senza lui.
Accarezza pigramente il tessuto blu e il piccolo cammeo a rilievo centrale della copertina.
Apre l'album sospirando.
La luce della luna, appena illumina le immagini, ma non ha bisogno di dettagli, conserva esattamente nella memoria le foto che sono al suo interno, basta una forma indistinta, perché i suoi ricordi compongano il resto.
I fatti della sua vita si mostrano ai suoi occhi in sequenza logica, non altrettanto i ricordi, che vagano e si incastrano, come la ruota girevole di una pellicola.
Gira velocemente, poi si ferma improvvisamente su dei particolari; di nuovo procede sempre più velocemente, finché non comincia a sbandare, priva di controllo e getta tutto lontano, nel vuoto.

Tanti anni, scivolano via.

Chiuse l'album e sorrise sentendo dei passi leggeri arrivare alle sue spalle, non aveva bisogno di voltarsi per sapere di chi si trattava e un piccolo brivido sulla pelle le attraversò la schiena ancora prima di sentire la sua voce arrochita dal sonno vicino all'orecchio: «Non mi piace svegliarmi e non trovarti a letto» - dice calmo, scostandole i capelli da un lato, con un tocco gentile, eppure possessivo.
La fa girare dolcemente e le sorride: «Non riesci a dormire?»

«Ogni tanto mi accade ancora» - dice lei, rispondendo al suo sorriso.

Lui nota l'album, lo osserva sospettoso ma non dice niente, glielo toglie di mano, lo poggia più distante che gli è permesso fare, senza che questo, lo obblighi a staccarsi da lei.
Coralline sorride più ampiamente e gli passa la mano tra i capelli mentre lui, guarda il cielo notturno con qualcosa in mente.
I suoi occhi brillano nell'oscurità, a tratti vi si riflette la luce argentea della luna, poi li sposta in basso, nuovamente su di lei, con espressione serafica.
China il viso sul suo collo, facendo un sospiro bollente contro la pelle di Cora mentre la stringe e subito, l'epidermide di lei, reagisce intensamente con brividi visibili in superficie.
Fa scorrere la mano sulla schiena del marito e pronuncia il suo nome, vorrebbe dirgli che fa troppo caldo persino per abbracciarsi, ma rinuncia e quindi rimane solo il suo nome, sospeso nell'aria.
La temperatura non è cambiata durante la notte: è calda e umida e favorisce l'insonnia, i corpi di entrambi sono leggermente lucidi di sudore ma lei non tenta neppure di liberarsi, anzi ricambia l’abbraccio con uguale intensità e forza.
I grilli e il frusciare delle foglie sono gli unici rumori che si odono intorno a loro e aggiungono uno schema ritmico alla quiete.
Cora fa scivolare le mani sul suo corpo baciandogli la spalla nuda, dal sapore leggermente salato.

«Non vieni a letto?» - domanda lui.

Un piccolo gemito esce dalla bocca, di seguito alla richiesta e le segnala l'accendersi di una leggera eccitazione che si è diffusa fino al ventre.
Sarebbe tentata, ma ha davvero troppo caldo, ed è stata una giornata infernale: «La temperatura è impossibile in camera» - sbotta in un leggero rimprovero intanto che lui attende, continuando ad accarezzarle i capelli, per non rompere il contatto fisico.
Suo marito è ostile a qualsiasi tipo d'impianto che condizioni l'aria e questo rende indubbiamente ostile lei.
Lui sorride e sparisce in camera e Cora dubbiosa, lo osserva allontanarsi.
Sa che ha in mente qualcosa, perché non si arrende mai, ce l'ha inserito nel DNA, il fatto che abbia ceduto tanto in fretta è quantomeno sospetto.
Infatti dopo pochi istanti ricompare ha due cuscini sotto il braccio e una coperta, li sistema a terra sorridendole.
Lei ride, sconfitta dell'ennesimo modo che ha suo marito di aggirare gli ostacoli: «Odio il campeggio» - lo provoca ostinata.
Lui si distende sul letto improvvisato, porta le braccia in alto e sbadiglia: «Giuro che se passa da queste parti un orso ti proteggo io» - la prende in giro con sguardo serio.
Cora si arrende e piano si accoccola contro la sua spalla, le stelle in lontananza, sopra le loro teste sono piccole capocchie di spillo luccicanti, l'aria a livello del pavimento è più fresca, tutto è dolcemente rilassante.
Immediatamente tra le sue braccia, l'assale un senso di tranquillità, simile a quella che prende quando si è sospesi tra la veglia e il sogno.
E proprio tra la veglia e sogno inizia a rievocare...

C'è tanta bellezza nei ricordi, molto più che in una fotografia, anche di quella custodita gelosamente.
I ricordi non sbiadiscono con il tempo, ma anzi si colmano di tenerezza e spesso con il passare del tempo, si è anche in grado di togliere le ombre che a suo tempo hanno fatto del male.
Hanno il fascino degli anni trascorsi, delle difficoltà superate e possono farci da guida per il futuro donandoci in qualche modo sollievo e serenità.
Così non si chiede se c'è una ragione per scavare ancora in quel passato lontano dove è stata la protagonista senza aver imparato bene la parte, dove ha improvvisato e spesso sbagliato, dove a volte è stata una comparsa e ha ascoltato a volte dialoghi che le sono stati incomprensibili.
Vuole solo lasciarsi andare alle ombre e ricordare ciò che più ha amato in vita sua.

Così ricorda... ricorda...



 
******




Angolo dell'autrice:


Salve, dopo tanto torno a scrivere su efp, ammetto di trovare imbarazzante descrivermi, quindi non lo farò, preferisco che mi conosciate, come conoscerete Cora, per mezzo di ciò che scrivo.
Se vi è piaciuto questo piccolo primo capitolo, gradirei molto avere un vostro commento perché tendo a scoraggiarmi piuttosto facilmente e un vostro stimolo mi renderebbe estremamente felice.

Ringrazio Heaven_Tonight per lo splendido banner e sappiate che dovete solo a lei se sono tornata su efp... 
Quindi adesso sapete chi dovete ringraziare o punire!


Lulida

 

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Capitolo 2
*** The promise of a life time - 2° capitolo ***


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Capitolo due

"Promise of a life time "

 
Mesi prima....
 
 
 
“Troppa gente: un soffocante, opprimente afflusso di pubblico„.
Quello il solo pensiero in testa di Coralline intanto che con sguardo torvo passava in rassegna volti sconosciuti.
Lì davanti, tutto intorno, il risultato dei suoi sforzi: le sue opere in mostra in una delle gallerie più prestigiose di Manhattan, e invece di esserne felice avvertiva soltanto uno strano disagio.
Assurdo, eppure era così: era intimorita dal mondo nel quale il suo desiderio di fama improvvisamente l'aveva scaraventata, e si ritrovava a rimpiangere l'anonimato che fino ad allora era stato un nido sicuro.
Nonostante esporre davanti a un pubblico di un certo livello, fosse stato da sempre il suo più grande desiderio, i suoi quadri le apparivano all'interno della fredda e formale sala espositiva come bambini pronti a farsi trucidare dal parere d'estranei in nome della sua ambizione.
Guardò nuovamente le tele illuminate dalle luci che si propagavano lungo le alte pareti, come se le vedesse per la prima volta; seguendo l'emozione che univa lei a esse, ed esse al lei.
Gli occhi dipinti la stavano guardando spaventati, erano specchi in cui si rifletteva, oracoli sentenziosi che sembrava domandassero cosa le fosse saltato in mente.
Quasi era tentata di chiedere loro perdono.
Non poteva immaginare che la mostra retrospettiva dell'artista più pagato al mondo, Damien Hirst, nella sala centrale della galleria, avrebbe trasformato il suo piccolo vernissage in un rifugio per gli ospiti illustri, un luogo dove nascondersi e respirare l'aria non contaminata dall'ego del britannico.
Critici rinomati a livello mondiale, lì per lui, stavano studiando i quadri di Cora con sguardo annoiato, e lei avrebbe voluto scavare una buca nel pavimento per uscirne soltanto quando tutto fosse finito.
Con un semplice trafiletto su testate giornalistiche del settore, avrebbero potuto stroncarle la carriera ancora prima che questa cominciasse.
Nessuno di loro le stava rivolgendo la parola, tutti troppo chiusi nei loro cliché stereotipati, sorseggiavano champagne da lunghi calici, rigidi come manichini dall'aria supponente.
Si sentiva invisibile in modo imbarazzante.
Un fantasma inconsistente.
Sospirando si domandò se avesse preso la decisione giusta nel selezionare l'abito da mettersi per la serata, forse indossare una corazza; una dura conchiglia dove sentirsi protetta da tanta ostilità, sarebbe stata più adeguata.
Si sentiva un corallo fragile e cristallizzato.
Il suo nome il suo destino; apparire resistente ma poi spezzarsi alla prima occasione.
Suo padre aveva chiamato lei Coralline e sua sorella Emerald, e strano a dirsi perché la cosa gli riusciva assai di rado; era stato lungimirante.
Emerald infatti, al contrario di lei era dura e indubbiamente si sarebbe sentita perfettamente a suo agio in quella stessa situazione.
Ispezionò ancora una volta l'ambiente con nervosismo, sperando stupidamente di vedere un componente qualsiasi della sua famiglia ma ovviamente nessuno di loro si trovava lì, lo sapeva con dolorosa certezza, eppure continuava ad allungare il collo alla loro ricerca.
Come facevano le conchiglie con il mare, riproduceva all'infinito l'eco di una speranza che non aveva motivo di esistere.
Rimase senza fare niente, in un angolo della stanza.
In attesa. Spaesata.
Demoralizzata.
Una ferita vecchia si aprì in modo nuovo e la lesione viva scavò in profondità; ma quel lasciarsi ferire fino in fondo, invece di abbatterla, la spronò a farsi forza.
Decise che era arrivato il momento di berci su e che Hirst le avrebbe offerto inconsapevolmente, l'unica consolazione a disposizione nei paraggi: un fiume dal colore ambrato che se era fortunata sarebbe riuscito a far scivolare i suoi detriti depositandoli sul fondo dello stomaco, dove forse sarebbe riuscita a digerirli.
L'atmosfera alla mostra di Hirst era quella che si respirava un po' ovunque nei luoghi alla moda di New York.
C'era ansia da prestazione.
Tutti gli ospiti erano là solo per “esserci„ e per farsi vedere.
A certi eventi culturali di Manhattan non si poteva mancare se si faceva parte della cerchia dei pochi fortunati, che ignoravano persino l'ammontare del proprio patrimonio; e in quelle occasioni ostentare ciò che definiva lo status sociale in una gara all'abito più costoso, il telefono di nuova generazione, l'orologio più prestigioso, era considerato indispensabile.
Cora conosceva bene certi individui e non rimase particolarmente colpita, li aveva frequentati per gran parte della sua vita ed era felice d'esserseli lasciati alle spalle, loro e le parole vuote, discorsi pieni di frasi che non cambiavano mai di significato: ricchi con ricchi e poveri con poveri.
Solo l'arte era in grado di sovvertire questa regola generale.
Un ricco poteva guardare con ammirazione, concentrato e dallo sguardo diluito poi rappreso, l'opera di un poveraccio qualsiasi e se aveva la fortuna di piacere a uno solo di loro, era fatta.
Nella gara di chi aveva di più, altri ricchi sarebbero arrivati a comprare l'opera più grande e più costosa della precedente.
Questo era accaduto ad Hirst pur non avendo un reale talento artistico.
Cora, si avvicinò a passi lenti alla tavola da buffet, la luce pioveva dall'alto come una cascata rendendo tutto più scintillante: abiti, gioielli, Rolex d'oro, i bicchieri, i vassoi lucidati a specchio, eppure gli ospiti rimanevano opachi come se avessero indossato uno schermo.
In attesa dello champagne Cremant che le stava versando il responsabile al servizio d'accoglienza, prese un piccolo appetizer e diede un'altra occhiata alla folla che accerchiava l'artista.
C'erano molti critici che scrivevano per la rivista Flash Art, riconobbe artisti che orbitavano intorno a Hirst, e le sembrò di distinguere anche diverse celebrità dello spettacolo.
Prese il bicchiere che le porgeva il bluter ringraziandolo con un sorriso, e concentrò nuovamente la sua attenzione in direzione della folla.
Sorseggiando lo champagne, si avvicinò pur rimanendo in disparte, ad ascoltare un membro del pubblico che rigido come un pezzo di legno, e preoccupato di recitare bene la sua parte, declamava le doti dell'artista.
Tutti si erano raggruppati intorno all'insignificante individuo e per ognuno, intrattenersi ad ascoltarlo, aveva motivazioni diverse: gli ospiti avevano l'occasione di lanciare uno sguardo da vicino all'eleganza altrui, Hirst aveva l'opportunità di soddisfare la sua vanagloria, per gli addetti del catering era un pretesto per rilassarsi, per Cora un presupposto per tenersi lontana dal suo vernissage ancora qualche minuto.
«Se Kafka avesse dipinto avrebbe creato opere simili a Hirst, e la performance visiva di questa sera, surreale, teatrale e dissacrante è l'esempio calzante della loro assonanza stilistica.» - proclamò con eloquenza il piccoletto e con qualche chilo di troppo che si trovava al centro dell'attenzione.
Cora si strozzò con lo champagne che aveva appena inghiottito, rossa in volto, congestionata, con occhi lucidi cercò di opporre resistenza ai colpi di tosse che avrebbero attirato l'attenzione sia degli ospiti che dell'artista, ma quando alla fine la scelta si ridusse a morire soffocata o espellere rumorosamente il sorso che aveva deciso di deviare il percorso in gola scegliendo la trachea tossì ripetutamente.
Come era prevedibile tutti quanti ruotarono la testa in sua direzione e la guardarono come fosse stata un demonio, e lei arrossendo stavolta per la vergogna, fece un piccolo cenno di scuse.
Tornarono a ignorarla, e si voltarono nuovamente verso il tipo grassottello dopo averle lanciato un ultimo sguardo, visibilmente infastiditi.
Ottenuta l'attenzione, il piccoletto continuò deridendo il sofisma astratto e ormai antico della bellezza come forma d'arte.
Quando alla fine gli ospiti applaudirono suo malgrado lo fece anche lei, e in quello stesso momento, avvertì la strana sensazione, qualcosa di contraddittorio e improvviso nell'aria che non l'aveva più abbandonata da quando aveva tossito.
Si guardò intorno per incontrare lo sguardo di chi la stava osservando con tanta intensità, ma la folla che nascondeva, rese impossibile individuarne l'origine.
Forse era solo la sua immaginazione a giocarle brutti scherzi, a farle sentire addosso occhi pesanti come la gravità... comunque, qualunque cosa fosse, preferiva darsela a gambe in fretta.
Una volta al sicuro al suo vernissage però, la sensazione d'essere osservata non diminuì.
Si guardò intorno ancora una volta alla ricerca della fonte del suo disagio, ma gli unici occhi puntati su di lei che individuò furono quelli dei suoi amici in fondo alla stanza.
Sorrise e una luce le riempì l'espressione del viso, tanto che si sarebbe potuto pensare che luminosità e affetto andassero di pari passo in lei.
«Quanta gente», disse Susan, appena si avvicinò.
Cora le diede un bacio sulla guancia: «Non sono qui per me. C'è Hirst nella stanza accanto, i suoi ospiti annoiati si rifugiano alla mia esposizione».
«Sono qua perché sei brava» - disse Timothy sorridendole.
«Perché non hai portato la tua ragazza?», lo rimproverò dando un bacio anche a lui.
Le fidanzate di Tim s'avvicendavano con la stessa velocità con cui lui si cambiava le camicie, le sue relazioni erano a orologeria, difficile che Cora riuscisse a vedere in sua compagnia la solita donna per due volte di seguito, spesso non faceva neppure in tempo a impararne i nomi.
«Ci siamo lasciati», affermò tranquillo.
Susan alzò gli occhi al cielo, ironica: «E non ha avuto tempo per trovare una sostituta».
Cora sorrise.
«Ero persa senza di voi. Per fortuna siete arrivati», disse con un sospiro.
Susan la guardò aggrottando le sopracciglia: «Non si sono visti i tuoi?».
Cora mormorò leggermente a disagio: «Non importa. Se mio padre fosse stato qui avrebbe avuto da ridire su tutto. - gli occhi le si velarono intanto che emetteva un respiro profondo - Meglio così».
«Bastardo!», esclamò Susan con tono gelido e senza nascondere l'irritazione.
«Va bene, davvero», cercò di spazzare via la tristezza con un sorriso, poi avvertì nuovamente quello sguardo fisso e sconosciuto, che si annunciava con un fremito all'altezza dello sterno.
Appena percettibile, ma insistente.
Aggrottò le sopracciglia e guardandosi intorno disse seria: «Anzi che ne direste di andarcene di qui?».
Tutta la stanchezza della serata le era apparsa improvvisamente sul volto.
«Sul serio? Vuoi lasciare il vernissage a metà?», le domandò stranita Sue.
Timothy, pittore anche lui invece non ebbe dubbi, sapeva benissimo come qualunque artista odiasse i tipi impomatati che si aggiravano alle mostre e fece immediatamente un cenno d'intesa in sua direzione.
«Non riesco a credere che tu voglia davvero andare. - intervenne leggermente brusca Susan - Hai lottato tanto e adesso che a hai ottenuto quello che vuoi, levi le tende?».
Non aveva tutti i torti, eppure per Cora non c'era niente di meglio che festeggiare con le uniche due persone al mondo che erano lì quella sera solo per lei. Che tutti gli altri andassero al diavolo.
«Ne ho già abbastanza. Per i miei standard, la stanza raccoglie più stronzi di quanti sia disposta a sopportarne».
Timothy le batté un cinque mentre Sue lanciava uno sguardo storto in modo fosse chiaro che la riteneva un caso disperato, sospirò e alla fine allungò la mano alzandola in loro direzione come una regina che dava il consenso: «Va bene andiamocene se è quello che vuoi».
Con passo lento guadagnarono l'uscita, e fuori l'aria gelida a folate colpì i loro volti facendoli rabbrividire e stringere nei cappotti, mentre un vapore denso e opaco usciva dai tombini, e si alternava con la luminosità dell'asfalto bagnato rischiarato dalle luci al neon.
«Dove andiamo?», domandò Cora con un'aureola di fiato condensato intorno alla bocca e battendo i piedi dal freddo.
«Intanto fermiamo un Taxi prima che tu muoia assiderata», rispose Sue andando sulla strada, appena vide l'auto gialla in lontananza.
Una bionda di un metro e ottanta che si sbracciava, non passava certamente inosservata, neppure a Manhattan, e il taxi si fermò immediatamente: «Al Pacha sulla 46», disse all'autista appena furono seduti sui sedili posteriori.
Susan era la tipica newyorkese che conosceva tutti i locali alla moda da frequentare in base ai giorni della settimana.
La discoteca era preceduta all'esterno da un fascio di luci che illuminavano l'entrata e i buttafuori che sembravano sequoie ai lati del tappeto, soppesarono attentamente il loro abbigliamento prima di sganciare la corda rossa per lasciarli entrare.
Il locale ampio per i modelli di NY, suddiviso su tre piani, era comunque talmente pieno di gente che rendeva impossibile muoversi senza strofinarsi addosso al corpo di qualcuno.
Lasciarono i cappotti al guardaroba e facendosi largo tra la folla, andarono alla ricerca del bar.
Trovarono uno spazio e si accomodarono sopra degli sgabelli di cuoio nero.
Intanto che il barman con la capacità di un giocoliere, preparava loro dei cocktail versando poi il liquore nei bicchieri sorridendo e ammiccando, Susan le domandò: «Come stai adesso?».
Cora alzò in direzione dell'amica il volto calpestato dal ricordo della delusione, che quella semplice richiesta aveva risvegliato in lei.
Incassò le spalle come se qualcosa potesse investirla da un momento all'altro e cercasse di prepararsi all'urto.
«Come ogni volta. Poi passa», rispose con l'esperienza di chi era stata delusa troppe volte.
«Ti ci vuole una bella sbronza. - sentenziò Tim porgendole il bicchiere con la solennità di un cavaliere che offriva l'arma per sconfiggere i suoi mostri - Da non ricordarti neppure come ti chiami, né chi è tuo padre»
Cora sorrise: «L'intenzione era quella».
Il Cosmopolitan buttato giù tutto in un sorso le bruciò la gola, lo stomaco e la scaldò immediatamente.
Al quarto si sentiva indubbiamente la testa leggera e la mente si trasformò in un tamburo vuoto dove i rumori intorno, colpivano e continuavano a rimbombare in un eco senza senso.
Al quinto bicchiere svuotato, ridevano e ridevano, nel modo più semplice che avevano le persone quando smettevano di prendersi troppo sul serio.
Il vuoto onnivoro sembrò abbandonarla almeno quella sera.
La mattina dopo Cora non aveva idea neppure come fosse arrivata a letto, ma a un certo punto, lo squillo del telefono la svegliò.
Erano quasi le due del pomeriggio.
Cercò di alzarsi, tentando l'impresa impossibile di stabilizzare un senso d'equilibrio che doveva essere affogato nei Cosmopolitan della sera precedente.
Percorse il corridoio come un vampiro che rifuggiva la luce, con le mani davanti alla faccia per proteggersi dai raggi del sole e raggiunse il telefono, intanto che flashback della serata tornavano preoccupantemente alla memoria... aveva vomitato... ballato... si era strofinata a un tizio... pomiciato... e non sapeva bene in quale in ordine... ma con chi?
«Pronto?», biascicò con lingua imbalsamata.
«Non hai idea Cora... parlano di te su Flash Art e sul New York Sun», rispose senza annunciarsi Sue, eccitata e impaziente.
«Cosa? - le sortì la domanda in un rantolo - Cosa?» - ripeté ancora, perplessa, con le guance improvvisamente congestionate.
Aveva caldo, dannatamente caldo, forse per la prima volta in vita sua.
«Sì, aspetta ti leggo il trafiletto del Sun».
Cora era tentata d'interromperla perché non tanto certa di voler sentire, ma Susan era troppo entusiasta perché fosse in grado di fermarla.
«L'atto critico, consiste in un giudizio di coraggio e valore. Il resto è semplice scrittura intorno all'arte. La questione centrale, sta nella definizione dei criteri su quale basarsi. Delle coordinate estetiche, ma che hanno in periodi diversi, avuto sensi estetici diversi. Sarebbe allora giusto chiedersi quali siano dei valori oggettivi, criteri di valutazione ugualmente applicabili all'arte di qualunque provenienza e periodo. Alcune caratteristiche generali come l'armonia, il ritmo, sono state selezionate per individuare un'opera d'arte ben riuscita, ma certi stili, sono caratterizzati da discordanza che ne compromettono l'unità e da asimmetria, mentre invece altri, danno precedenza all'equilibrio e alla staticità. Poi ci sono pochissimi, rarissimi casi, in cui tutto funziona, raggiungendo il medesimo scopo e nello specifico, siamo di fronte a una vera opera d'arte. É fuor di dubbio, che i dipinti della giovane artista Coralline Cromwell, di cui abbiamo visto l'esordio ieri sera e di cui siamo rimasti piacevolmente sorpresi, hanno in sé sia l'armonia, l'equilibrio e il ritmo, in un tutto concreto e indivisibile. Una visita alla galleria di Barbara Gladstone ci sentiamo di consigliarla. Grazie alle sue opere, non è tempo perso.»
Rimasero in silenzio per un tempo lunghissimo e Cora ebbe modo di ascoltare il battito del suo cuore, un ritmo nervoso che ogni tanto s'inceppava: la gioia, faceva capriole.
«Oh mio Dio...».
«Già! - le urlò dall'altro capo del telefono Sue - Io te l'avevo detto o no?»
Gli occhi di Cora si trasformarono in un itinerario: c'erano tappe, punti di partenza e arrivi: «Oh mio Dio», ripeté ancora una volta, del tutto inconsapevole.
«L'hai già detto - brontolò Sue, poi tacque, sembrò cambiare la direzione dei propri pensieri - Cora ti senti bene?»
«No» - rispose con onestà, reduce da un elettroshock che la faceva tremare.

 

******

Note dell'autrice: 


Un po' più in ritardo di quanto avessi preventivato (a causa di un dolore al braccio che mi ha bloccata per giorni) arriva l'aggiornamento che vi farà conoscere un po' di più la protagonista di questa mia FF. 
Ancora i nostri Marziani non sono all'orizzonte (d'altronde è una storia piuttosto atipica e non vado mai immediatamente al sodo, fatevene una ragione) ma spero che il capitolo vi piacerà comunque. 
Come sempre e come è scontato, qualsiasi commento sarà più che gradito, anzi necessario.

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Capitolo 3
*** Strappi di me ***


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Capitolo tre

"Strappi di me"

Cora sospirò, mentre teneva i palmi premuti contro il pannello della porta d'ingresso, un occhio chiuso e con l'altro guardava dallo spioncino della porta.
Era lei, non c'era alcun dubbio.
Dannato portiere. 
Improvvisamente, ucciderlo divenne una delle priorità della giornata... pensare che l'aveva persino difeso, quando gli altri condomini, si erano lamentati dei suoi continui pisolini sul posto di lavoro.
«Cercate di essere comprensivi» - aveva detto - «Sua moglie, ha da poco partorito e il bambino non lo lascia dormire durante la notte»
Ben le stava! Questo si ricavava ad essere indulgenti.
Adesso Emy, si trovava davanti alla sua porta e bussava ripetutamente, mentre il portiere che quasi sicuramente, se la stava dormendo beatamente seduto alla sua postazione, non l'aveva neppure vista passare.
Maledizione.
«Cora, lo so che ci sei!» - la voce della strega trasudava irritazione.

Se ne sarebbe pentito amaramente quando gli avrebbe lasciato la gratifica per Natale, poteva starne certo.
«Cora...» - continuò a colpire.

Sembrava avesse fretta. Buon segno. 

Poteva sperare di togliersela dai piedi piuttosto velocemente, una visita rapida, giusto il tempo necessario a rovinarle la giornata.
Non si vedevano da mesi... si erano sentite con la frequenza di una telefonata a trimestrale, solo perché Emy, teneva particolarmente a farle avere un resoconto dettagliato della sua vita perfetta.
Parlava di getto e quando aveva esposto tutto ciò che le interessava, aggiungeva un semplice: «E tu?» - dopo due secondi netti, trovava una scusa qualsiasi per attaccare.
Quindi era piuttosto strano che quel giorno avesse deciso di farsi viva.
Cora aggrottò le sopracciglia e per un attimo le venne la tentazione di fingere di non trovarsi a casa, ma era davvero un comportamento troppo infantile, persino per lei.
Con rassegnazione respirò a fondo e si preparò spiritualmente.
Voleva sicuramente qualcosa, restava solo da scoprire cosa fosse. 
D'accordo, ammetteva che non era proprio pervasa da profondo senso fraterno... non avrebbe mai vinto il concorso come migliore sorella dell'anno, comunque nemmeno Emy sarebbe mai stata in lizza per quel titolo.
Non era che Cora la odiasse, no... quella fase l'aveva superata... solo che vederla, le faceva maledire il fatto avessero gli stessi genitori, vissuto nella stessa casa e condividessero lo stesso pianeta.
Si sfilò il pennello che le raccoglieva i capelli dietro la nuca e li ravvivò, poi si passò la mano sul viso per cercare di togliere le chiazze di pittura e tentò di non pensare all'aspetto trasandato che aveva.

«Sei un disastro» - esordì Emy alzando il mento nobile, non appena Cora aprì.

Per quando le dispiacesse ammetterlo, sua sorella invece, era perfetta come sempre: capelli biondi, lunghissimi e lisci, raccolti in una coda elegante, truccata senza risultare volgare, vestita come se avesse appena posato per una copertina di Vogue e profumava tanto, di gelsomino indiano: probabilmente, quel giorno si era direttamente immersa nel suo adorato Clive Christian n°1 esagerando più del solito.
Ne consumava in quantità spropositate e Cora non aveva dubbi sul fatto che la commessa della profumeria Bergdorf Goodman con percentuale sulle vendite, si strofinasse le mani ogni qual volta la vedeva arrivare. 
Indossava un morbidissimo cappotto di cachemire color cammello con il collo di pelliccia, guanti, borsa e stivali facevano pendant. 
Persino il cane che aveva il cappottino e il guinzaglio intonato all'abbigliamento della padrona e declassato a semplice accessorio, contribuiva a rendere ancora più decorativo l'insieme. 
Definire Emy soltanto bellissima, era paragonare uno smeraldo a una biglia colorata.

«Buon pomeriggio anche a te» - la salutò con sussiego Cora, spostandosi per darle modo di entrare.

Emy passando si limitò a un cenno della mano in sua direzione e lenta come una una gatta pigra si avvicinò a lei, affiancando la guancia con affettazione, facendo solo il gesto di baciarla.
Quella cortesia era più di quanto le concedeva solitamente e Cora sospettò, che l'imposta da pagare a breve termine su quel bacio accennato, sarebbe stata notevole.
Scettica, si domandò cosa volesse barattare in cambio di tanto onore, visto che la maggior parte del tempo la considerava una povera disgraziata, socialmente un caso perso e quindi da tenere alla larga il più possibile.
Aveva impresso nella mente tutte le volte in cui grazie al suo aiuto si era sentita una nullità, di come questo l'avesse allontanata da lei man mano e molto prima, che la sorprendesse a cavalcare l'unico uomo per cui Cora si era presa una sbandata colossale.
Emise un respiro profondo al ricordo che forse neppure faceva più male, ma che aveva modificato per sempre il suo rapporto, non solo con sua sorella, ma con gli uomini e con l'amore in generale.
Per troppo tempo la sua vita era andata da una parte e lei dall’altra; poi aveva deciso di volersi bene, crescendo, distaccandosi, era riuscita a riacquistare un minimo di sicurezza, non tutti i giorni però, appena la vedeva, ritornava di botto a sentirsi il solito brutto anatroccolo di sempre. 

Con Emy non c'era gioco.
Anni di esperienza l'avevano formata sin da piccola a questa consapevolezza: riunioni di famiglia in cui diventava improvvisamente trasparente quando sua sorella entrava in una scena e catalizzava l'attenzione; oppure ragazzi per cui diventava tappezzeria, quando con le sue grazie sapientemente esposte, Emy gliela sbatteva letteralmente in faccia.
Anche se era cresciuta credendo alle favole, dove la ragazza gentile alla fine vinceva su quella più bella ma sgarbata, (ecco appunto, favole... se si chiamavano a quel modo un motivo doveva pur esserci) conosceva solo la realtà, dove la bella e prepotente avrebbe vinto sempre.

Era la bella ma stronza, alla fine della storia, a vivere felice e contenta, in barba alla tipa carina e un po' ingenua che nel fra tempo era diventata zitella e anche inacidita.
Di essere zitella in verità non le importava granché, la sua solitudine al contrario di quello che gli altri pensavano non le dispiaceva affatto, ma che fosse riuscita indirettamente a renderla chiusa, ostile e malfidata, non poteva perdonarglielo.

«Stavo dipingendo prima che arrivassi tu. Non ero a una sfilata»
«Ah sì, vero... ti diverti a fare l'artista» - disse con il tono ironico da vera stronza, accompagnandolo con una smorfia, intanto che entrava e le lanciava uno sguardo da capo a piedi abbassando leggermente gli occhiali da sole.
«Ho letto...» - continuò sarcastica - «Il New York Sun è diventato davvero un giornaletto da poco conto».
Cora sorrise acida mentre chiudeva la porta d'ingresso: «Così pare».
«Da come ti descrivono, sembra che tu sia il nuovo Michelangelo. A quando la nuova Cappella Sistina?».

Tolse il guinzaglio al cane e Cora lo guardò impotente dirigersi verso la camera da letto mentre la sorella studiava i suoi quadri con interesse nuovo.
Dopo aver puntato il preferito di Cora disse: «Starebbe bene questo nella mia cucina?».

Era sempre stato così tra loro: Emy doveva toglierle quello che più le piaceva, un vestito, un libro, un ragazzo... bastava accennasse a una qualunque preferenza e poteva star certa che lei sarebbe arrivata con le sue unghie perfettamente laccate a portarglielo via.
Era una specie di sport per Emy dove vinceva sempre la medaglia d'oro.
Stava già cercando di sganciarlo dal chiodo quando Cora la raggiunse per fermarla. 

«Non credo. Non si intona a frutta e verdura» - rispose e lo sistemò mettendolo dritto.
«E quello?» - Emy ne puntò un altro sopra il divano.

Cora contrasse la mascella e per un attimo imperò il silenzio.
Era chiaro che sua sorella non sarebbe uscita di lì fin quando non avesse avuto una sua tela sotto braccio. 
Saputo che avevano un valore non si sarebbe lasciata sfuggire l'opportunità di accaparrarselo.

«Ma non avevi detto che non ti piace affatto come dipingo?»
Emy, portando gli occhiali fin sopra la fronte fece un piccolo sospiro: «In effetti è così, ma adesso che sei diventata nota i miei ospiti per prima cosa mi chiederanno come mai non ho in casa un quadro di mia sorella, non trovi?» - poi storse la bocca e si voltò nuovamente verso il dipinto - «Ma davvero riesci a vivere vendendo questa roba?»

«Incredibile vero?» - replicò con sicurezza.
«Direi di sì» - disse con sarcastica diffidenza - «E comunque non troppo bene, considerando il modo in cui sei sistemata» - si girò intorno, valutando con attenzione l'arredamento semplice e non di particolare pregio - «Papà morirebbe se vedesse in quali condizioni ti trovi».

Cora era certa che con un'occhiata sua sorella avesse fatto il calcolo esatto di quanto aveva speso per arredare l'appartamento: su certe cose non sbagliava mai, conosceva il valore materiale di ogni cosa.

«Papà non lo uccide neppure la bomba atomica e comunque...» - disse in un moto di orgoglio - «Un appartamento di quasi novanta metri quadri, nel west side a pochi passi dal Central Park non mi sembra sia così deplorevole»
Emy rise beffarda: «Sei sempre stata così divertente e sopratutto una persona a cui basta tanto poco per essere felice»
«L'importante è esserlo in definitiva. Tu che hai tanto, lo sei Emy?»

La sorella le lanciò uno sguardo degno di un serial killer.
«Quand'è che ti trovi un uomo, ti sistemi e la smetti di fare la bohémien?» - domandò senza risponderle.
«Perché... i tipi da portarti a letto non sai cercarteli da sola?» - la voce di Cora vibrò di scherno.

Emy fece una smorfia, fingendo di incassare con indifferenza, ma lei che la conosceva bene, sapeva che quel leggero tremore sulle labbra era ira trattenuta.
«É vecchia questa battuta Cora. Dovresti aggiornare» 

Cora si domandò perché non fossero più in grado di ricostruire quel ponte, ormai bombardato, che molto tempo prima le aveva unite... ancora peggio, non avessero il minimo interesse a riedificarlo.
Usavano le macerie per tirarle l'una contro l'altra, ognuna sul proprio lato della barricata. 
Una voragine irrecuperabile fatto di astio civile.
«Emy avrei da fare. Devo consegnare una commissione a giorni...» - disse dopo un attimo di silenzio.

L'altra fece un ghigno: «E dimmi, ti pagano in noccioline?» - si avvicinò con passi lenti verso un'altra tela.
Cora sospirò, esasperata da quella guerra fredda: «In parole povere: cos'è che vuoi?».
«Devi tenermi il cane per quattro giorni» - disse voltandosi verso di lei, ostentando sfida che trapelava dagli occhi verdi.

Cora trattenne a fatica una rispostaccia che forse il cane intuì, perché senza apparente ragione, corse dalla camera da letto dove si era nascosto, fino alla sua gamba e le morse la caviglia. 
«Ahi!» - urlò allontanandolo con il piede. 
Quel cane era amorevole al pari della padrona.

«Devo fare un viaggio di lavoro, è un lavoro vero il mio e non posso portarmelo dietro»
«Ma tuo marito?...» - provò ad obbiettare mentre allontanava il cane che si allungava per morderla nuovamente.
«In viaggio di lavoro anche lui» - rispose con sguardo indulgente verso l'ammasso di pelo bianco - «Poi andate così d'accordo, è chiaro che ti vuole bene. Vedi come gioca?»

Cora rimase in silenzio meditando vendetta dal suo pozzo lugubre e profondo in cui si trovava.
Zoppicando leggermente a causa del morso le si avvicinò: «E mio nipote, nel tempo che voi due, avvocati con lavoro serio scorrazzate in giro, dove dovrebbe stare?»

«Il bambino starà dalla mamma naturalmente, ma non puoi certo pretendere che tenga anche il cane».
«No certo. Quella delle pretese sei tu».
«E poi» - continuò come se neppure l'avesse sentita - «Sai bene che Adele va fuori di testa quando vede il mio piccolo Seljak» - disse chinandosi e tirando in modo alternato le guance del maltese che ringhiò.
«In verità, chiunque va fuori di testa quando vede il tuo cane» - le fece immediatamente eco, sperando con quella risposta, di renderle accettabile la proposta che le stava per suggerire - «Perché non lo porti in una pensione?»

Dopo averle lanciato uno sguardo allibito, Emy sibilò: «Stai scherzando vero?»
Cora deglutì.
Anche se ormai era diventata una donna, non riusciva a superare il fatto di essere la sorella minore e si adattava con rassegnazione ai capricci della sorella più grande e prepotente.

«Il cane sta con te. Non ci va in una orribile pensione e poi non ti darà alcun fastidio. Oltretutto non hai neppure una vita» - si fermò un secondo a guardare qualcosa alle spalle di Cora e aggiunse piano, come assente - «Ti farà compagnia».
«Sto bene sola...» - mugugnò una debole protesta.
«Quello posso prenderlo?» - domandò Emy a bruciapelo ignorando completamente la sua risposta.

Cora la fissò un attimo, confusa dal modo inaspettato con cui sua sorella saltava da un argomento all'altro senza darle tempo di rispondere a nessuno di questi, poi si voltò verso il punto che le stava indicando.

Quel quadro, che Cora aveva sempre ritenuto fosse un pessimo esperimento, poteva essere il suo lascia passare per togliersela di torno senza subire troppo danno.
Se glielo avesse ceduto senza combattere, Emy avrebbe rivolto il suo interesse altrove, sospettando a ragione, che si stava liberando di qualcosa per lei, senza alcun valore artistico ma sopratutto affettivo. 

«In verità ci terrei molto...» - accennò, simulando un dispiacere che non provava affatto.
A quelle parole gli occhi di sua sorella si illuminarono di cupidigia e con pochi passi decisi, raggiunse la tela che staccò dal muro: «Sciocchezze» - replicò con tono sgarbato - «Ne hai così tanti e poi non devi affezionarti a tuoi quadri, è ridicolo. Sei troppo sentimentale, lo sei sempre stata. Devi ancora crescere sorellina» - lo rimirò tra le mani con soddisfazione - «Forse è tra i più belli che hai fatto»
A volte era relativamente facile prendere sua sorella per il naso.

«Sono certa che questo, nella tua cucina starà benissimo» - le disse con sorriso cortese.
Emy sbatté le palpebre in direzione della porta d'ingresso, facendo ondeggiare le ciglia folte.
Improvvisamente sembrava avesse fretta di andarsene.
La verità era, che per lei, non appena aveva ottenuto ciò che voleva, Cora cessava di esistere, così nessuna sorpresa che si indirizzasse verso l'uscita senza salutarla, né ringraziarla del quadro avuto in regalo.
In compenso, si rivolse affettuosamente a Seljak che ricambiò con morso ben assestato e Cora, ebbe l'impressione che persino il maltese non vedesse l'ora di togliersela di torno.
Per impedire che la inseguisse addentandola ancora, lo prese in braccio ma Seljak non ne fu particolarmente felice, anzi piuttosto furioso, reagì abbaiando in direzione della padrona.
Emy ridacchiò e si illanguidì mettendo il palmo sul petto, come se il cagnolino avesse risposto con il più premuroso dei commiati: «Gli manco già. Che amore».

Con il sorriso sulle labbra si allontanò di qualche passo mentre il maltese continuava a seguirla con sguardo affamato, come fosse stata un osso da spolpare e poi seppellire in giardino.
Finalmente Emy si diresse alla porta e urtando ripetutamente il quadro contro la spalletta del muro, la porta, contro le sue stesse gambe, uscì, inveendo ripetutamente per la tela, che a suo avviso, era troppo grande e ingombrante.
Cora la guardò sospirando con rassegnazione e la raggiunse sul pianerottolo, più per accertarsi che se ne stesse andando sul serio, che per salutarla.

Quasi certa che quel quadro avrebbe avuto vita breve (anzi non si sarebbe sorpresa affatto se non fosse uscito integro neppure dal palazzo) la guardò incedere sui suoi stivali tacco sedici, mentre i lunghi capelli di seta dorata, ad ogni passo le frusciavano dietro la schiena ondeggiando da una parte all'altra, in un movimento ipnotico.
Si domandò da dove fosse venuta fuori lei e i suoi capelli ribelli di un insignificante castano ramato.
Poi le apparve come un fotogramma mentale l'immagine di sua nonna, irlandese fino al midollo e pensò che in definitiva il sangue non era davvero acqua: lei era l'artefice del suo aspetto. 

Le assomigliava tantissimo: magrolina, sensibile, dall'aria un po' delicata, pelle chiara, occhi grandi da sognatrice e capelli che avevano lo stesso colore delle foglie in autunno.
Sua sorella che aveva già premuto ripetutamente il tasto dell'ascensore, la sottrasse all'immagine in cui si rivedeva, chiamandola a voce alta: «Quasi dimenticavo, tra poco Adele porterà il cibo per Seljak. Non fingere come tuo solito di non essere in casa».
Prima che potesse risponderle alcunché, la porta a battente si aprì ed Emy sparì alla vista, inghiottita all'interno della cabina.

«Seljak?» - ripeté il vicino di casa, che proprio in quel momento, stava uscendo dal suo appartamento.
Il biondo, guardò il cane sorridendo.

«Lascia perdere Armin. Mia sorella è stata in vacanza in Slovenia tempo fa e a ogni sua richiesta chiunque, sorridendo, le rispondeva seljak... lei si è convinta fosse un complimento e l'ha rifilato al cane»
Armin rise: «Tua sorella è una sagoma»
«Nel senso che viene voglia di farci il tiro al bersaglio?» - sospirò mentre il maltese cercava di addentare la mano del vicino che incautamente aveva cercato di accarezzarlo - «Comunque il nome gli si addice» - aggiunse a voce bassa.

Armin sorrise: «Nervosetto...»
Cora accarezzò il lungo pelo di Seljak, morbido come un tessuto prezioso: «Prova a vivere con mia sorella e vedrai che dopo mordi qualunque cosa anche tu»

«Le dirai mai che ha chiamato il suo cane “cafone„?» - domandò Armin, intanto che chiudeva l'appartamento con due giri di chiave.
Cora sorrise lentamente scuotendo la testa: «Non credo».
Guardò la tenuta del suo vicino: jeans, scarpe da jogging, felpa bianca con scritto “I love NY„ sotto una giacca in pelle, capelli biondi sparuti e volutamente in disordine.
«Vai a lavoro?» - domandò.

Lui annuì con un cenno della testa.
«Sono tutti agitati per lo spettacolo dell'ultimo dell'anno al Madison Square» - sorrise - «Oggi devo andare in sala prove. Tu ci sarai quest'anno tra la folla o ti chiuderai in casa come lo scorso anno a deprimerti?»
«Onestamente speravo di riuscire a deprimermi, magari con Seljak come compagnia»
«Devi trovarti un uomo!» - intervenne l'anziana signora Anderson apparsa furtivamente sul pianerottolo e che non aveva di meglio da fare a parte origliare tutto il tempo da dietro la sua porta.

Cora, sussultò presa alla sprovvista: «Sto bene così, grazie Melissa»
«Sei una bugiarda» - le disse avvicinandosi minacciosa, con un dito ossuto puntato contro di lei.
Armin sghignazzò senza provare neppure a contenersi e Cora infilò in fretta nell'appartamento dopo un cenno di saluto, intanto che Seljak tra le sue braccia, abbaiava e tentava insistentemente di addentare il dito della vecchia signora.

Chiuse immediatamente la porta alle sue spalle, prima che quel piano si trasformasse in una riunione di condominio, il cui l'ordine del giorno, era la sua vita sessuale o la sua completa assenza.
Non era quello, l'oggetto di conversazione da trattare con una vecchia impicciona che l'ultima volta le aveva rifilato la compagnia sgradita del nipote pervertito.
Sospirò e mise a terra Seljak che immediatamente corse in camera alla ricerca delle sue pantofole da addentare.
Quel cane aveva proprio bisogno di diverse sedute dallo psichiatra.
Dopo poco tornò trotterellando e scuotendo rabbioso la pantofola tra le fauci.
Dall'alto, Cora lanciò un'occhiata severa in direzione del maltese e si diresse verso lo studio, sperando di riuscire a passare l'ultima velatura al quadro, senza ulteriori interruzioni.
La stanza più che uno studio in realtà sembrava un magazzino, il retro di un negozio d'arte: colori poggiati ovunque, tele accatastate, barattoli in vetro colmi di pigmenti, pennelli nuovi o consumati fino alla ghiera; avrebbe seriamente potuto aprire un punto vendita.
Era il locale più luminoso dell'intero appartamento, anche in pieno inverno, poteva godere di molte ore di luce naturale, filtrata appena, dalle enormi finestre senza tende che davano sul Central Park.
Le piaceva stare là dentro, era il suo piccolo mondo colorato e caotico.
C'era odore aspro di diluente e colori a olio, che per chiunque altro era un tanfo sgradevole, ma che per lei, era il migliore dei profumi, persino migliore del costosissimo Clive Christian n°1 di sua sorella.
Prese nuovamente il pennello, lo intinse nell'olio di lino e immediatamente la mente smise di pensare a qualunque altra cosa... sua sorella non esisteva, suo padre non esisteva, il mondo intero spariva, agì in silenzio, con tocchi precisi, lenti ed era talmente immersa nel suo mondo senza tempo, che ebbe un sussultò quando sentì nuovamente bussare la porta.

Ovviamente, aveva perso qualsiasi speranza che il portiere si degnasse di avvertirla prima, quando saliva qualcuno.
Sospirando, mise i pennelli nel barattolo pieno di solvente e rassegnata si avviò nuovamente ad aprire la porta.
Adele, la domestica di sua madre, minuta, con il viso leggermente quadrato, gli occhiali tondi che non nascondevano il guizzo di luce nei suoi occhi furbi e vivaci, le fece il primo sorriso affettuoso della giornata.
L'abbracciò forte e brevemente, poi la lasciò andare per osservarla: «Sei troppo magra» - scosse la testa affatto felice di questa constatazione.
Cora le diede un bacio: «Sto bene»
«Non mangi abbastanza» 
«Adele smetti...» - esibì un mezzo sorriso lasciando in sospeso la frase, tanto Adele lo avrebbe capito che cosa intendeva: che non era più una bambina e sapeva badare a se stessa.
Chinò la testa in direzione delle mani della domestica e le tolse il peso delle borse piene di cibo per cane che portò in cucina.
Adele la seguì e si sedette in una delle sedie in acrilico bianco di fianco al tavolo in acero. 
Cora sorridendole ricordò quando da piccola, quella stessa donna di mezz'età, dall'aria stanca, che in quel momento aveva di fronte, le avesse preparato dei deliziosi muffin e aiutata a risolvere i problemi del mondo davanti una tazza di latte fumante.

Quanto tempo era passato... un'eternità.
Spazzò via quei frammenti con un sospiro, cercando di non pensare a ciò che aveva perso per strada ma di concentrarsi sulle cose rimaste, anche se forse, non erano propriamente le migliori.

Aprì il frigorifero alla ricerca di qualcosa da offrirle ma dentro c'era un eco inquietante, se Adele se ne fosse accorta le avrebbe fatto una predica infinita... la vocina familiare dentro di lei, ripeteva mentalmente quello che le avrebbe detto: “ti trascuri - da quando non mi occupo io di prepararti i pasti, non mangi come si deve - sei pelle e ossa„ così finse di rovistare alla ricerca di qualcosa che non esisteva, ma la domestica non si lasciò ingannare e le si rivolse con aria seria: «L'acqua va bene».

«Mi dispiace. Ma allestire la mostra mi ha portato via tantissimo tempo e non ho avuto modo di pensare ad altro» - prese un bicchiere da sopra il lavello, lo riempì d'acqua e glielo porse.
Adele strinse le labbra poco convinta ma fortunatamente, quel giorno, sembrava non avesse intenzione d'infierire: «Dov'è quel cagnaccio?» - domandò mentre sorseggiava l'acqua.

Cora alzò leggermente le spalle: «Credo a masticare le mie pantofole, nascosto da qualche parte»
Adele poggiò il bicchiere sul tavolo e la guardò inarcando un sopracciglio: «Chiudi la porta dello studio prima che faccia un disastro».
Cora rimase un secondo immobile.
Da una zona sperduta del cervello, si alzò una certezza e le diceva che l'inevitabile era già accaduto.
Sbatté le palpebre: «Oh mio Dio... fa che non abbia distrutto la tela».

Corse immediatamente verso lo studio con, nella mente, immagini della più terribile delle premonizioni.
Alla soglia dello studio si fermò terrorizzata dalla scena che aveva davanti: il maledetto cane aveva preso un tubetto di colore a olio, addentato, bucato e sparso il suo contenuto ovunque, sulle tele, sul pavimento, lui stesso era diventato una nuvola con chiazze di un bel rosso geranio.
Si sentì improvvisamente senza forze... come avrebbe fatto a ripulire tutto?

«Demonio!» - gli andò incontro minacciosa, cercando di strappargli il tubetto di bocca, in una specie di tiro alla fune dove nessuno vinse e il fragile contenitore in stagno, si aprì a metà.
Aveva voglia di piangere, era un disastro: il cane era diventato completamente rosso, lei aveva le mani piene di colore, la tuta imbrattata e lo studio... beh lo studio era in stato pietoso anche prima, poco male, ma i quadri sarebbe stato un lavoraccio ripulirli, ci sarebbero volute ore.

Guardò il cane con espressione feroce, il maltese accettò la sfida ricambiando e arricciando il minuscolo naso diventato rosso come quello di un clown.
«Ti uccido...»
Seljak ringhiò e si accucciò sulle zampa anteriori pronto ad attaccarla.
«Vai a farti una doccia» - intervenne Adele alle sue spalle - «Qua ci penso io».
«Adele...» - pronunciò con tono lamentoso Cora - «Come diamine faccio adesso? Hai visto in che condizioni è? Non verrà mai via il colore da tutto questo pelo»
«Lo faremo tosare» - rispose tranquilla la domestica.
Cora guardò il cane con malefica soddisfazione: «Hai sentito? Niente più pelo, sarai brutto e nudo come un verme».

Il cane piegò la testa da un lato con sospetto. 
Non aveva ben chiaro cosa gli sarebbe accaduto ma già immaginava non si sarebbe messa benissimo per lui.
«Adesso vai a ripulirti, avanti. Se tua madre ti vedesse conciata così... sai cosa direbbe?».

Come un'illuminazione le vennero a mente le lamentele di Therese e la cosa la lasciò indifferente.
Fece spallucce: «Tanto non viene mai. Per lei il west side è il Bronx».

Stava per uscire dalla stanza, quando Adele le disse, come fosse una risposta: «Tuo padre ha comprato il Sun stamani».
Cora sapeva cosa significava. Suo padre leggeva soltanto il Times e se aveva fatto questo strappo alla regola ferrea, seguita scrupolosamente da anni, era solo per lei: «E...?» - domandò in trepidazione. 

Cercava sempre di aggrapparsi a qualcosa quando si trattava di suo padre, alla più flebile delle speranze... fosse anche stata la luna nel secchio.
Adele alzò gli occhi al cielo: «... E niente. Ha bofonchiato. Brontolato. Ha detto a tua madre che se metà dell'impegno messo in simili stupidaggini, lo utilizzavi per diventare avvocato, a quest'ora saresti stata la più brava del suo studio» - sospirò - «É il complimento migliore che puoi aspettarti da lui»

«Immagino di sì. Me lo farò bastare» - rispose con mascella indurita.
«Dovresti chiamarlo» - disse Adele iniziando a ripulire e guardandola di sottecchi.

La domestica la sorprese in quella innocente sua fragilità che la invadeva quanto più insisteva a voler sembrare indifferente e dura. 
Poi, l'attimo dopo, la vide sopraffatta dalla rabbia, come se credesse di fermare il moto dell'universo a muso duro.
«Nemmeno per sogno» - rispose Cora.
«É solo preoccupato per te a modo suo. Questo braccio di ferro tra voi due è davvero ridicolo».
«Dillo a lui, non sono stata io ad iniziare».
«Dovreste finirla entrambi. So che ti fa male il fatto che non sia soddisfatto delle tue scelte. Ma so anche, che questo risentimento nei suoi confronti, è solo il rovescio della medaglia del bene che gli vuoi. Vorresti che rispettasse la tua identità, il fatto che sei una donna e fai le tue scelte senza aspettare il suo consenso, che non sei più una bambina. Vedi il problema è che per lui lo sei. Per lui sei ancora la sua bambina. Devi venire a patti con questo ed accettarlo, non puoi chiedergli quello che non è in grado di cambiare».
«Non ha Emy, che è la perfezione? La luce dei suoi occhi? Lei non l'ha mai deluso. Si tenga lei» - bofonchiò mentre si avviava verso il bagno.
«Non sai quello che dici» - Adele scosse la testa con rimprovero - «Si è attaccato in modo morboso ad Emy perché sente che tu gli sfuggi».
«Bene che si attacchi a lei! Sembra che tutti gli uomini della mia vita amino attaccarsi a lei» - le urlò ormai in corridoio.
«Fammi capire... ce l'hai con tuo padre perché non riesci a perdonare Jay?»
«Fanculo! No» - urlò infilandosi nel bagno e sbattendo la porta.

Al diavolo tutto!
Non voleva pensare a niente, meno che mai a Jay. Era un capitolo chiuso, sbarrato, eliminato.
Bastava quel nome per sgretolare il suo equilibrio e nonostante il tempo trascorso, ancora non aveva imparato a gestire i sentimenti che al suo suono, tornavano come in un terremoto interiore.
Per superare davvero la cosa, forse avrebbe dovuto affrontarla e dire ciò che provava, liberandosene una volta per tutte, ma non era così semplice.
Le difese personali, che spesso escludevano chiunque le stesse intorno, la facevano chiudere in se stessa come un riccio e semplicemente preferiva negare ci fosse un problema.
Si guardò allo specchio: Orrore! 
Era molto peggio di come si era immaginata. 
Si lavò alla meglio prima di infilarsi sotto la doccia, strofinandosi ripetutamente mani e viso.
Osservò scivolare la schiuma rossa lungo la ceramica del lavabo e sparire nella piletta dello scarico.
Sospirò pensando alle parole di Adele, avrebbe dovuto davvero decidersi ad affrontare la situazione con suo padre prima o poi.
Aveva sperato in una mossa di Oliver da tempo e anche se al vernissage non si era presentato, l'acquisto del Sun poteva considerarlo un inizio di resa, dopo tutto.

Si infilò dentro la doccia e si sentì, senza nessuna buona ragione che lo giustificasse, come schiacciata al suolo.
Forse era il peso di un conflitto tra essere e dover essere, tra le aspettative e realtà, tra esistenza e aspirazione. 
Era l'attesa, la paura di trovarsi come molti anni prima, a dover affrontare discussioni che non aveva alcuna voglia di riprendere. 
L'idea che potesse esserci un avvicinamento a suo padre, invece di sembrarle una coperta rassicurante in cui avvolgersi, le appariva più come una tenda fatta di ragnatele.
Quando tornò da Adele era di pessimo umore: «Grazie» - disse vedendo che nel fra tempo aveva pulito tutto.

«Ora vado tesoro» - disse dandole un bacio sulla guancia - «Porto a tosare il cane e ti faccio sapere quando è pronto».
«Vai già via?» - sussurrò Cora abbassando lo sguardo.
Adele le accarezzò il mento sorridendole: «Resterei con te tutto il giorno, lo sai».
Lei sospirò e fece una smorfia: «Lo so, non puoi».
Si diresse verso l'anta sopra il lavello alla ricerca di un bicchiere e la domestica le si avvicinò da dietro, accarezzandole i capelli.
«Cora, piccola, non farmi sentire in colpa. Quella casa da quando te ne sei andata sembra un manicomio... Quanto vorrei che le cose tornassero come una volta»
«Niente, torna mai come prima»
«Almeno qualcosa che si avvicini, tesoro. Potresti fare un piccolo sforzo? Magari andando al pranzo del primo dell'anno dai tuoi? Sai che ci tengono»

Cora sospirò pesantemente: «Manca più di un mese»
«Hai tutto il tempo per prepararti mentalmente» - le sorrise.
Lei storse la bocca: «Non so. Papà romperà come al solito e non voglio rovinarmi anche quel giorno»
«Non ti farà prediche. Ci saranno anche i tuoi nonni. Sono anziani e quando si arriva a quell'età, ogni anno potrebbe essere l'ultimo. Vuoi togliere loro la gioia di vederti?»

Cora la guardò socchiudendo le palpebre a due fessure: «Questo è giocare sporco Adele!»
«Mi costringi» - c'era dispiacere, ma anche determinazione nella sua voce: qualcosa di difficile da afferrare, in equilibrio tra un'intonazione dolce e una consapevolezza troppo dura.
Cora prese coraggio, finalmente riuscì a dimenticare se stessa, il suo orgoglio e replicò: «Va bene, dille pure che vado» - gli occhi assorti, attraverso lo spiraglio delle ciglia, erano come se cercassero di focalizzare un punto lontano - «Tanto so che è tutta opera della mamma questo invito» - fece una pausa e sospirò. Poi le si rivolse nuovamente con tenerezza - «Spero ti abbia pagata bene, in cambio del lavoro sporco che hai fatto al posto suo».
Adele si strinse nelle spalle: «Ha promesso che mi darà una settimana di riposo a tra Natale e Capodanno»

«Magnifico... quindi sarò sola quel giorno?» - esclamò mettendosi le mani sui fianchi.
«Ci saranno tutti i tuoi parenti» - le sussurrò prendendole la testa tra le mani e portandola alla sua altezza, le diede un bacio in fronte.
«Non vedo l'ora» - brontolò tentata di rimangiarsi la promessa estorta non del tutto onestamente.
Adele rise: «Avanti. Vuoi essere trattata da adulta? Fai l'adulta. Nessuno ti prenderà mai sul serio se continui a comportarti come una bambina offesa» - l'ultimo raggio di sorriso gli tramontò piano sulle labbra mentre aggiungeva - «Cora, sei adorabile, ma appena qualcuno fa il gesto anche solo accennato di tenerti da parte, tu ti allontani mille volte di più e chiudi ogni ponte. Non posso negare che tuo padre si è comportato da idiota. É un vecchio irlandese burbero che pensa sempre di aver ragione, ma tu non lo stai aiutando per niente» - le rivolse un'occhiata rapidissima, come un pensiero fulmineo - 

«Vallo a trovare allo studio, gli farà piacere»
«Vuoi dire come a me avrebbe fatto piacere fosse venuto all'inaugurazione della mostra?» - fece una smorfia stringendo le labbra - «Ma il grande Oliver Cromwell non può abbassarsi a fare il primo passo, vero?... »

Adele sospirò esasperata. 
«Cora, te ne sei andata di casa sbattendo la porta. Dicendogli che i suoi soldi poteva infilarseli su per il culo»
«Avevo ragione» - rispose cocciuta, incrociando le braccia sotto il petto.
«Sono d'accordo. Si è comportato da cretino ed era più che ovvio che avresti reagito così: non ha fatto che gettare benzina sul fuoco e il tuo mezzo sangue irlandese non aspettava altro che una ragione qualsiasi per scendere sul campo di battaglia. Quello che mi piacerebbe sapere però, sia da te che da tuo padre, è cosa ve ne fate della ragione...» - scosse la testa impercettibilmente - «Ti fa sentire meno la sua mancanza? o a lui la tua? non capisco davvero fin dove volete trascinarla questa cosa. Da anni va avanti ormai. Impara a perdonare le persone Cora... » - prese il cappotto dallo schienale della sedia su cui l'aveva poggiato e lo infilò - «Per tuo padre ormai è tardi, è un vecchio burbero senza speranze, ma tu cerca di cambiare e in fretta prima di ritrovarti ad essere come lui»

Aggrottò la fronte corrugandola: «Non sono come lui»
Adele prese la borsa e la mise a tracolla: «Sei pazza come un cavallo al pari di tua madre e sei intransigente come tuo padre»
«Ehi...» -brontolò indirizzandole un'occhiataccia.
«É il motivo per cui non hai uno straccio di uomo, nonostante tu sia uno schianto di ragazza» - si guardò intorno - «Ora pescami quel diavolo di cane, così lo porto via».
Come era scontato, Cora lo trovò nascosto sotto il letto, visibilmente indispettito.
Fu presa dai sensi di colpa vedendolo così offeso, in fin dei conti era stata lei l'imprudente a lasciare la porta dello studio aperta, era per colpa sua se il povero Seljak era diventato un rosa geranio acceso e doveva anche rasarsi a zero.
Si sedette a terra, ai piedi del letto: «Seljak, vieni qui».

Batté sulla gamba per richiamare la sua attenzione, ma il cane si voltò dall'altra parte.
«Seljak. Dai, non fare il permaloso. Ti compro delle pantofole nuove per farmi perdonare».
Il maltese le indirizzò uno sguardo indifferente e non si mosse di un passo.
«Ti porto a fare un giro al Central Park quando torni dal parrucchiere» - cercò di mediare.
Si sentiva una vera idiota a conversare con un cane che non capiva niente di quello che gli diceva, eppure il tono, sembrava lo stesse rassicurando.

Piano si avvicinò e lei lo prese in braccio: «Pace fatta?».
Si alzò con cautela da terra sempre tenendolo stretto e lo portò da Adele che l'attendeva davanti all'ingresso.
«Spero solo non abbia ingoiato del colore. Se dovesse sentirsi male non me lo perdonerei» - disse mettendogli il guinzaglio.
Adele scosse la testa e la rassicurò: «Non mi è sembrato avesse l'interno della bocca sporca di tinta, quando alla meglio l'ho ripulito poco fa».

La domestica aprendo la porta d'ingresso le fece l'ultima raccomandazione: «Vai a fare la spesa. Sei davvero troppo magra... Dio sa solo quanti pasti hai saltato e quante notti in bianco hai passato per dipingere»
Adele la conosceva troppo bene.
«Recupero adesso che la situazione si è stabilizzata. Non preoccuparti»
«E vai da tuo padre» - ripeté per l'ennesima volta.
Cora sbuffò confessando: «Non saprei neppure di cosa parlarci... Che gli dico?»
Adele le indirizzò uno sguardo che stava a significare “ti perdi proprio in un bicchiere d'acqua„ poi le suggerì: «Digli che sono passata a trovarti e ti ho detto che si era sentito male. Chiedigli come sta'».
«Papà si è sentito male? Me lo dici solo adesso?»
«Perché non è niente di grave. Ha solo mangiato troppo come al solito approfittando dell'assenza di tua madre»

Cora strinse le labbra con disapprovazione.

«Sai come è tuo padre. Therese si impegna a fargli mangiare germogli e insalate, ma appena si volta, Oliver addenta qualunque cosa, anche se il dottore gli ha tassativamente proibito di mangiare carne e frittura. É un vero testone e non c'è davvero bisogno di andare troppo lontano per sapere da chi hai ereditato la tua ostinazione» - disse Adele prima di salutarla definitivamente e avviarsi verso l'ascensore.
Cora chiuse la porta pensierosa.

L'idea che suo padre si fosse sentito male aveva fatto sì, che guardasse in faccia la sua cocciutaggine in tutta la sua assurdità.
Improvvisamente nel suo campo di battaglia personale, si era creata una bolla, tutto si era placato e la preoccupazione aveva preso il posto delle piccole cose meschine.
Quella sera stessa, dopo il dunch con Sue e Tim sarebbe andata da suo padre intenzionata a ricucire gli strappi.
Guardò l'orologio, era già terribilmente in ritardo e Sue sarebbe uscita da scuola a minuti.
Doveva darsi un mossa.

Corse in camera a vestirsi e mentre si truccava, con il telefono stretto tra la spalla e l'orecchio chiamò il servizio taxi; quando fu quasi pronta ad uscire, il segnale acustico del computer l'avvertì dell'arrivo di un messaggio nella posta elettronica.
«Non lo guardare Cora» - si disse - «Non hai tempo... non lo guardare»
Ok una sbirciatina veloce, solo per sapere chi era.
Joseph... 
Un sorriso ebete le si stampò sulle labbra... e fu il sorriso più bello che potesse fare, perché era del tutto inatteso.

Nota dell'autore: 

Salve, ecco un nuovo aggiornamento della mia FF... procede la conoscenza di Cora, so bene che può risultare un po' noioso il fatto che non ci siano i Marziani ma era fondamentale farvi sapere un po' meglio cosa muove la protagonista prima di procedere.
Spero vi sia piaciuto comunque.
Se volete darmi consigli, opinioni o quant'altro li accoglierò volentieri.

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Capitolo 4
*** capitolo 4. il tempo scandisce i sogni ***


                        I sogni scandiscono il tempo.

 
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“La fine di tutto il nostro esplorare
sarà arrivare al punto di partenza
per conoscerlo per la prima volta.”
T. S. ElioT
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Erano passate le sette quando Cora uscita dal taxi guardò con una leggera ansia l'edificio grigio, dalla struttura pesante e solida, dello studio legale Sullivan&Cromwell.
Come molti complessi intorno al porto era stato costruito negli anni settanta dopo l'opera di smantellamento di palazzi fatiscenti, con lo stile essenziale e gelido che a quel tempo aveva ottenuto un crescente successo.
Salì velocemente i gradini davanti all'ingresso e spinse la porta a vetro, dirigendosi con passo sicuro verso l'ascensore che si trovava in fondo all'enorme stanza a pianterreno, che con lo splendore delle sue nichelature e lo squallore di un laboratorio, appariva quasi più fredda e vuota del palazzo all'esterno.
Intanto che attraversava l'atrio, a quell'ora deserto, guardò nervosamente l'orologio e pensierosa si morse il labbro.
Era dannatamente tardi e sperava che suo padre non avesse cambiato improvvisamente abitudini, decidendo proprio quella sera di tornare a casa prima di cena.
Cora aveva un rapporto davvero conflittuale con lo scorrere del tempo, credeva di averne a sufficienza fin quando non si accorgeva che era troppo tardi, e a quel punto si affidava alla sua buona sorte che spesso le era avversa.
Uscì dall'ascensore, dirigendosi velocemente in direzione dell'ufficio che si trovava in fondo al corridoio dell'ultimo piano, ed era così concentrata, andava così di fretta, come un treno in corsa con sguardo fisso davanti a sé, che non notò la piccola soglia in ottone che separava il disimpegno dalla sala d'attesa creando un'irregolarità nella pavimentazione.
Inciampò rumorosamente, il piede cedette e per poco non si trovò la faccia spalmata a terra.
La segretaria, per superare la pila dei documenti che le nascondevano la visuale, si alzò leggermente dalla sedia e la guardò con rassegnazione, altre volte in passato era capitato che assistesse alla sua goffaggine e in quell'entrata rovinosa vi trovò ulteriore conferma.
Cora recuperò in fretta la postura eretta e fece un leggero sospiro di sollievo mentre l'altra si sedeva nuovamente.
Se Irina si trovava ancora in ufficio, c'era anche suo padre.
Le si avvicinò con calma mentre l'altra continuava a osservarla, come un malvagio rapace nubiano, da dietro la scrivania.
La russa dalle ossa grosse, zigomi importanti e labbra sottili, in quel momento sembrava stesse valutando se assaggiare o meno Cora per cena.
Lei fece un timido sorriso: «C'è mio padre?».
La signora si comportò come se non avesse neppure aperto bocca, spostò una pila di cartelle a lato della scrivania già stracolma, frugò tra i vari documenti e quando trovò il fascicolo che le interessava, si premiò con un sorso di caffè lasciando l'impronta di rossetto sul bordo della tazza.
Intanto che Coralline attendeva la sua risposta osservò pensierosa le guide del telefono e i tre bloc-notes sulla scrivania, le graffette, il contenitore per le penne e uno scaffale per i libri alle spalle della segretaria che continuava a ignorarla.
Quando ritenne d'aver atteso più di quanto fosse umanamente sopportabile, ripeté con tono determinato: «C'è mio padre?».
Irina si concesse un altro sorso di caffè, il cui odore insieme a quello di matite appena temperate riempiva l'aria e si alzò in piedi, annoiata, sovrastandola con la sua altezza.
«Chiedo se può riceverti», le rispose.
La segretaria aveva un viso duro e l'aria affaticata.
I capelli biondi, tendenti al grigio, erano tagliati corti e l'espressione del suo viso denotava una certa rigidità di carattere.
Aveva la tipica fredda autorità delle donne sovietiche, per cui, ogni parola che usciva dalla sua bocca suonava come una sentenza, ma anche se non brillava in simpatia, era un indispensabile aiuto, efficiente, organizzata, e parlava oltre che russo e inglese, tedesco, francese, spagnolo.
Era uno spettacolo vederla passare da una lingua all’altra durante le riunioni.
Intanto che camminava lentamente verso l'ufficio e attraversava la stanza, Cora arricciò il naso e rabbrividì sentendosi addosso tutto il freddo della tundra siberiana.
Quando Irina tornò, lei la guardò con occhio indagatore cercando d'indovinare quale potesse essere il responso.
La segretaria le disse con calma: «Ha detto di accomodarti».
Cora annuì ed entrò nell'ufficio chiudendo la porta alle sue spalle.
«Puoi aspettare un secondo?», le domandò Oliver da dietro la scrivania mentre con il palmo copriva il microfono del telefono.
La figlia sorrise con una percepibile rassegnazione.
«Certo che no... - continuò rivolto all'apparecchio, poggiando la schiena contro la poltrona di pelle nera - non serve che Ronin approvi finché la quota è in possesso della Karenan».
Era tipico di suo padre far accomodare qualcuno nel suo ufficio intanto che si trovava intento in conversazioni telefoniche di lavoro, ma in fin dei conti, tutte le persone di successo facevano così, la storia era piena di uomini di potere che costringevano a lunghe attese.
Provavano probabilmente una sorta di delirio da onnipotenza nel sapere che potevano farlo.
«I giudizi nei confronti delle prestazioni sono troppo influenzate dalle attese», continuò Oliver con chi era all'altro capo dell'apparecchio.
Suo padre parlava con tono di voce degno di una divinità.
Avrebbe potuto tranquillamente aggiungere solennemente: così venga fatto.
«In effetti», non poté fare a meno di bisbigliare Cora con un sorriso malevolo.
Suo padre le lanciò un'occhiataccia mentre continuava: «Un dato diventa un’informazione quando è capace di modificare la probabilità delle decisioni, poiché la situazione è già critica, eviterei di darne».
A quel punto, lei smise di ascoltarlo e intanto che girava intorno a osservare la stanza, percepì soltanto che l'argomento tra suo padre e colui che si trovava all'altro capo del telefono era divenuto più serio.
La stanza era spaziosa, con scrivania, poltroncine e un piccolo tavolo da conferenza in un angolo, con posti a sedere per otto persone.
Era impeccabilmente ordinata come la ricordava.
Sul tavolo del padre c'erano mucchi d'istanze ammonticchiate con precisione davanti a lui, gli appunti e i dati di riferimento fissati in alto sulle cartelle, a portata di mano.
Sopra una pila attirò la sua attenzione una conchiglia che conosceva bene.
Non riusciva a credere che la tenesse lì come un ferma carte.
Sorrise e la prese tra le mani rigirandola.
Era indubbiamente “quella„ conchiglia.
La riconosceva per la tacca laterale che aveva a causa di una caduta avvenuta molti anni prima... caduta... più che altro lei l'aveva lanciata contro il muro in un momento di rabbia.
Storse le labbra ripensando a quel giorno e convenendo con se stessa, che non sempre era stata una figlia facile da gestire.
Si avvicinò lentamente a una delle vetrate terra-cielo che davano sui due lati dell'ufficio, dove c'era una magnifica veduta su lo sky line di Manhattan e sul porto.
Con il cielo che aveva il colore dell'abisso, da lassù New York, sembrava un pianeta disabitato fatto di luci e stelle.
Il fiume Hudson placido, su cui si rispecchiava l'illuminazione colorata a lungo raggio della guglia del Chrysler Building e dell'Empire State Building, veniva percorso lentamente dai traghetti a loro volta illuminati.
Rigirò tra le mani la conchiglia che aveva raccolto da bambina, sorridendo nuovamente, perché quando si ritirava nei pensieri che assomigliavano a vicoli stretti senza via d’uscita, vagava spesso anche nelle strade delle cose belle.
L'aveva trovata tra le alghe abbandonata dalla corrente, e per molti anni a seguire durante gli inverni freddi, se l'era messa all'orecchio quando la neve, copriva ogni cosa intorno a lei.
Il suono le ricordava che a volte la distanza era relativa, a volte bastava tendere l'orecchio, e lo spazio che separava due luoghi o due persone, non esisteva più.
Ripensò allo stupore e al senso di meraviglia quando suo padre una volta tornati a casa, gliela aveva avvicinata, tappandole l'altro orecchio con la mano.
«Cosa senti?», le aveva chiesto Oliver immaginando sua figlia rispondesse, che udiva il suono dell'Oceano.
«Malinconia», aveva detto invece pensierosa.
Era il rumore struggente delle cose passate, quello che lei ascoltava in un eco.
Cora d'altronde, non rispondeva mai ciò che suo padre supponeva.
Mise la conchiglia all'orecchio come allora, e sentì ancora quel mormorio lontano e costante.
«Ci senti ancora la malinconia?», le domandò Oliver affiancandosi a lei.
Cora che non s'era accorta avesse terminato la telefonata, sorrise e senza guardarlo continuò a scrutare il panorama.
«Sei il socio dello studio legale più importante degli Stati Uniti, e usi una conchiglia trovata a Long Beach, come ferma carte?».
Anche lui sorrise, guardando a sua volta il panorama.
«Per gli antichi greci, la malinconia era la consapevole impotenza», disse seguendo il corso dei propri pensieri.
«L'umor nero - sospirò lei, richiamando alla mente vecchi studi scolastici - il fluido degli artisti», rispose quasi compiaciuta con un filo di voce.
Riteneva che fosse la complessità stessa della vita a rendere fragili e impotenti.
Un concetto che suo padre non condivideva.
Ricordò cosa ripeteva sempre a lei a sua sorella: «Non scoprite mai le vostre debolezze, - diceva poggiando le mani, sulle loro piccole spalle ossute - alle persone comuni succedono in continuazione contrattempi, ostacoli che non riescono a superare, ma voi, siete fatte di un’altra pasta. Voi siete un metro al di sopra della gente che è lì fuori nel mondo. Ricordatelo».
Già da allora Cora aveva deciso che voleva essere della pasta di cui erano fatti tutti gli altri e si sentiva molto più affine alle persone che Oliver riteneva mediocri.
Desiderava la libertà di poter essere debole, fragile e vulnerabile, perché non si sentiva affatto un metro sopra agli altri.
Quando poi da adolescente si prese una cotta, per un ragazzo che aveva nove anni più di lei, e la cui massima aspirazione era divenire uno spacciatore, fu chiaro immediatamente, che da lì in poi, il rapporto con suo padre non poteva che subire un doloroso tracollo.
Improvvisamente anche agli occhi di Oliver non era più fatta di altra pasta, e quello fu un risultato tanto diverso dalle sue aspettative che la spaccatura tra loro divenne incolmabile.
Spaccatura che lei aprì ulteriormente decidendo di divenire proprio uno di quegli artisti che lui tanto disprezzava.
Cora non si aspettava che potesse capire, o aver fiducia in lei, in definitiva sul conto di Jay aveva visto giusto, e questo l'aveva resa definitivamente ai suoi occhi, la figlia che non sapeva cavarsela o prendere decisioni giuste.
Jared in effetti, si era dimostrato esattamente lo stronzo che suo padre le aveva paventato, ma in quel caso la sua scelta - se di scelta si poteva parlare - non era stato un atto di volontà, ma semplicemente un destino ineluttabile.
Un destino, con un grande senso dell'umorismo.
Quando lo conobbe, Jay aveva ventitré anni e un gran casino in testa.
Arrivò un giorno a casa del fratello, il migliore amico di Cora, e aveva gli occhi più blu che lei avesse mai visto.
Seduta sul divano a mangiare arachidi, quando lui apparve - perché di una vera e propria apparizione si trattò - per poco non morì soffocata a causa di un'anacardi, che per la sorpresa aveva ispirato in profondità nella gola, e del quale solo per pura fortuna era riuscita a liberarsi, senza dare nell'occhio.
All'improvviso l'appartamento di appena quaranta metri quadri, mal messo e con i muri scrostati da cui si vedeva affiorare almeno tre diverse tinte, per lei divenne una foresta lussureggiante, con cascate, fiori che sbocciavano e tutto il resto.
E mentre per lui, Cora sembrava invisibile e non esisteva altri che suo fratello, come una povera ebete non riusciva a smettere di fissargli i muscoli delle braccia, la leggera peluria schiarita dal sole sugli avambracci, e gli occhi che sembravano gemme liquide.
Carico sulla spalla di una sacca a tracolla che dava l'impressione di essere pesantissima, indossava un paio di jeans scoloriti, chiari, logori e una maglietta grigia dalle maniche corte.
Dalla tasca del pantalone posteriore, spuntava un biglietto del treno.
Buttò a terra la borsa nell'ingresso e abbracciò suo fratello con una pacca sulla spalla mentre lanciava a lei un'occhiata veloce.
Per un istante, lo vide aggrottare le sopracciglia con curiosità.
In quel momento esatto, decise che lei si sarebbe innamorata di lui, che ci sarebbe andata a letto, e che lui le avrebbe spezzato il cuore.
Ma chi rinunciava mai, a mangiare un cioccolatino solo perché sapeva già il sapore che aveva? Chi rinunciava a leggere un libro, perché conosceva il finale?
Cora sapeva da subito che non ci sarebbe stata storia più votata al fallimento della loro, eppure nei giorni che seguirono, fece di tutto perché lui la notasse.
Nella sua fantasia da ragazzina, non faceva che immaginare mentre la baciava, l'abbracciava, la spogliava... ma per Jay era solo l'amica troppo giovane di suo fratello.
Sospirando, doveva ammettere che un po' le mancavano quelle sensazioni: innamorarsi di nuovo, sentirsi ancora stupida, avere qualcuno a cui pensare nelle notti in cui non riusciva a prendere sonno.
Non le mancava Jared... no... ma quei sentimenti che solo con lui, aveva provato.
Nonostante tutto ricordava ancora con tenerezza la sera in cui, dopo aver bevuto troppo, l'aveva portata via da una festa.
Lei che stanca di essere ignorata, quella volta aveva deciso di vestirsi da donna e aveva cercato di vendicarsi, dando le sue attenzioni a un ragazzo, che equivocando immediatamente la situazione le aveva messo pesantemente le mani addosso.
Non aveva neppure fatto in tempo a dire a Trevor di non essere interessata che Jay era intervenuto concludendo il tutto in una rissa.
Sentendosi terribilmente responsabile, oltre che una completa idiota, aveva assistito impotente e con le lacrime agli occhi, che Jared venisse ferito appena sotto il petto con un'arma da taglio, e Trevor prendesse una tale scarica di cazzotti, che li per lì temette fosse morto.
Qualcuno nel vicinato, allarmato dal baccano, aveva chiamato la polizia e tutti si erano dispersi prendendo strade diverse.
Jay l'aveva afferrata per un polso, e portata con sé.
Così accadde che rimanessero finalmente soli...
All'inizio, in modo innocente, lei chiese di poter vedere la ferita, e lui si era tolto la maglia, in modo altrettanto innocente.
Lei gli aveva disinfettato il taglio, cercando di non pensare ad altro che alle cure da dargli, ma dopo qualche secondo le labbra di Jared avevano sfiorato le sue, e un calore immediato, aveva colorato le sue guance.
S'era trovata a balbettare probabilmente qualcosa di profondamente stupido e fuori luogo, perché lui fece un largo sorriso, e a quel punto Cora seppe di aver appena acquistato un biglietto di sola andata e che finito il viaggio, non sarebbe mai più stata la stessa.
Oliver fece un profondo respiro, interrompendo il corso dei ricordi di Cora.
«Avrei dovuto capirlo già da allora», disse.
Per un attimo assorta com'era, alzò un sopracciglio senza riuscire a collegare la risposta che le aveva appena dato, poi sorrise e rispose: «In effetti, avresti dovuto».
Finalmente si voltò a osservarlo e rimase in silenzio, temendo che qualunque parola avrebbe incrinato quell'equilibrio miracoloso tra loro.
Allo stesso tempo, forse in seguito alle difficoltà che aveva attraversato negli anni e che le tornarono alla mente, osservando il volto dell'uomo, ogni senso di affetto sparì, come quando la nebbia di botto svanisce.
Scomparsa la nebbia, rimase solo un mondo vuoto, un panorama orribile per gli occhi di una figlia.
Lui vide l'espressione sul volto di Cora e sospettando da cosa fosse generata le prese la mano.
Con la sensazione di calore di quel tocco semplice, ma che diceva fin troppe cose, l'affetto tornò e lei decise di accettare ciò che lui aveva da offrirle in quel momento, senza pretendere altro.
Lasciò che le labbra di suo padre le premessero la guancia e gli appoggiò il capo sul braccio.
Una smorfia di Oliver, quasi d'imbarazzo, si accentuò sentendola sospirare e lei sorrise.
Durante quei pochi secondi, mentre stavano in piedi l'uno accanto all'altro, Cora imparò una lezione preziosa: suo padre era soltanto un uomo.
Mille volte lo aveva percepito irraggiungibile e indistruttibile, ma era soltanto un uomo.
Non era intenzionato a farle male, perché lei era in grado di fargliene a sua volta: erano sullo stesso piano.
«Parlavi del caso Blomk al telefono?», disse alzando la testa dalla sua spalla, e ponendo termine a quel momento di tenerezza, cui entrambi erano poco abituati.
Suo padre annuì, porgendole la cartellina che aveva in mano.
«È un tipo onesto secondo te?», domandò lei dubbiosa, prendendola.
«Ineccepibile dal punto di vista morale, anche se con alcune piccole cadute di stile», annuì Oliver con la testa.
«Non rimarrà granché di quella morale, dopo la sentenza. Ha fatto una figura piuttosto magra, mi è sembrato di capire», constatò lei in una sintesi lucida.
Lei e suo padre si chiarivano così, parlando di casi giuridici invece che di se stessi.
Oliver sospirò: «Cosa ne pensi?».
Cora sfogliò i documenti e lui ebbe l'impressione che stesse leggendo in maniera selettiva, poche righe di ogni pagina, dedicando un massimo di dieci secondi a foglio.
«Devo riconoscere che l'intera storia è strana, ha un che di campato in aria», disse dopo poco.
Oliver si grattò sul collo e assunse l'aria paziente, in attesa di ascoltare cosa avesse da dirgli sua figlia.
Lei fece una piccola smorfia e aggiunse: «Sono convinta che Kal Blomk, si sia fatto fregare e credo che in questa storia c'è qualcosa di completamente diverso da quello che lasciano intendere le accuse».
L'avvocato fissò Cora con sguardo indagatore e interessato.
«Che cosa vuoi dire esattamente?», domandò con voce improvvisamente animata.
Lei alzò la spalla con indifferenza.
«Solo speculazioni... eppure sono convinta che qualcuno l'abbia usato».
«E che cosa te lo fa credere?».
«Dai resoconti appare chiaro che nel passato, Blomk sia stato molto guardingo. Tutti i movimenti finanziari che aveva fatto in precedenza ben documentati. Quello che è accaduto non quadra affatto con il suo carattere. A detta dell'accusa, si è comportato come una specie di kamikaze e questo semplicemente non coincide con il suo modo di agire».
«Perciò cosa credi che sia successo?», domandò suo padre incalzante.
«Posso solo fare una congettura, e prendila per quello che è: credo infastidisse qualcuno di potente e abbiano usato quel progetto per incastrarlo. Deve essere successo qualcosa. Qualcuno di cui si fidava, oppure qualcuno che ha passato intenzionalmente delle informazioni false. Ciò che mi sembra più strano, è che al processo preliminare, neppure abbia provato a difendersi come se gli fosse stato intimato il silenzio con qualche minaccia».
Oliver sospirò: «E hai scoperto tutto questo dopo due secondi e con un'occhiata veloce alla documentazione?».
«Ho tirato a indovinare», sorrise tornando a guardare l'orizzonte.
Suo padre scosse la testa.
«Blomk frequenta molte donne. C'è però una persona che da alcuni anni ricorre nella sua vita con una frequenza regolare, e con la quale ha un rapporto per così dire, fuori dai soliti canoni...».
«In che senso?», gli lanciò uno sguardo incuriosito.
«Blomk ha una relazione con Sara Millen».
«Quella Sara? Non era sposata con il senatore?».
«É ancora, sposata con il senatore».
Cora alzò un sopracciglio.
«Perciò lei in poche parole è infedele, e minacciano Blomk di rendere pubblica la tresca, se parla e cerca di difendersi?».
«In realtà, sospettiamo sia il senatore stesso, ad averlo incastrato dopo aver scoperto l'adulterio».
«Sempre detto io che l'amore porta solo guai, - disse con un respiro profondo, e aggiunse dopo un attimo - brutta storia...».
Il padre annuì e lei lo guardò con una ruga fra le sopracciglia, mentre diceva: «Anche per questo, sono contenta di essere l'artista di famiglia e di lasciare a te certi grattacapi».
«Eppure sei stata in grado di scoprire dopo pochi secondi, quello che i miei avvocati hanno appurato con un mese di ricerche».
Gli sorrise e gli riconsegnò la cartella della documentazione.
«Forse dovresti assumere avvocati più bravi», ironizzò sapendo dove voleva andare a parare suo padre.
«Io volevo te!», borbottò prendendo la cartellina che lei gli porgeva.
Cora scrollò le spalle.
«Non sempre si ottiene quello che si vorrebbe. A volte ci tocca quello che meritiamo, altre volte anche meno».
Oliver si era domandato spesso perché mai Cora avesse puntato su una professione tanto stravagante come quella artistica, quando risultava chiaro, che aveva una dote naturale per risolvere i casi e una buona dose d'intuito, che non guastava affatto.
In cuor suo, aveva sempre sognato di farne una socia, certo dopo una dura gavetta, ma riteneva fosse in gamba e la prova erano gli ottimi risultati ottenuti, negli anni in cui si era dedicata allo studio e alla conoscenza del diritto penale.
Aveva visto in lei un futuro avvocato di prestigio, che difficilmente avrebbe potuto avere altro che una strada spianata; era in gamba, una buona presenza e sapeva farsi valere quando necessario.
Avesse continuato, avrebbe avuto senza dubbio una carica più remunerata di quella di un qualsiasi artista.
Invece aveva scelto deliberatamente di abbandonare il mondo sicuro che lui le offriva, e di puntare su un progetto ad alto rischio senza il suo consenso, anche senza il minimo aiuto finanziario da parte sua.
Alla fine l'aveva avuta vinta lei, come sempre, e ottenuto sufficiente successo da permetterle di tornare da lui a testa alta.
«Come stai?», chiese a un certo punto sua figlia guardandolo di sottecchi.
Oliver le puntò gli occhi addosso con un attimo di perplessità, chiedendosi da dove nascesse la sua improvvisa preoccupazione.
«Come un diciottenne», aveva cercato di scherzare.
Lei però non lo trovò affatto divertente.
«Papà, Adele mi ha detto che ti sei sentito male», aveva sospirato.
«Quella vecchia pettegola. Ecco perché sei qui.», fu la risposta, naturalmente conseguente di suo padre.
Per qualche secondo, Cora parve sprofondare nei suoi pensieri.
Poi tornò a rivolgersi ad Oliver con rinnovata determinazione nella voce.
«Non vuoi proprio accettare che non puoi più fare la vita di una volta. Dovresti seguire scrupolosamente le indicazioni del dottore...».
Oliver per un attimo la guardò disorientato.
Osservò quella donna, che non finiva mai di stupirsi fosse sua figlia.
Per quanto ci provasse, non riusciva a riscontrare una sola somiglianza con se stesso, né nell'aspetto, né tanto meno nella personalità.
Era tutta sua madre, anche nel modo di parlargli: come fosse stato un bambino da rimproverare.
Alla fine, abbandonò i suoi inutili sforzi di farle credere che tutto andasse per il meglio e la guardò disarmato.
«Il medico... - sbuffò dirigendosi alla scrivania e gettando con indifferenza sul ripiano, la cartella della documentazione - Mi ha propinato solo cure di vago conforto, troppo semplici e ovvie per poter essere credibili. Proprio stamani pensavo che il mio corpo, fino adesso forte come una roccia e che non mi ha mai tradito, si sta sgretolando».
Cora scosse la testa pensierosa.
«Nessuno può oltrepassare i limiti stabiliti dalla natura, forse il tuo corpo è più saggio di te e mette zavorre che ti obbligano a rallentare».
Oliver cambiò immediatamente argomento: «Parlami di te».
La figlia trasse un respiro profondo.
«C'è poco da dire».
Si sedette sulla scrivania come quando era bambina, di fronte a lui.
Era strano riprendere confidenza con suo padre, strano e familiare al tempo stesso.
Entrambi fingevano che niente fosse accaduto.
Era il loro modo di affrontare i problemi e nei limiti invalicabili di cose non dette, difendevano entrambi la loro posizione palmo a palmo, riconquistando piano qualche pollice del terreno perduto.
Non andava tutto in linea retta nel loro modo di chiarirsi e neppure con una traiettoria determinata, caso mai assomigliava a un gioco di carte memory, gli argomenti venivano rimescolati sul tavolo: questo va con quello e quello con quell’altro.
«Hai visto tua sorella?».
Cora ebbe un leggero sussulto a quella domanda che non si aspettava.
«Oggi», sospirò ruotando gli occhi.
Oliver sorrise ironico: «Non ne sembri felice».
«Non ce la faccio a fingere, ok? Non pretendere troppo» - rispose con aria afflitta.
«Sta andando bene quella specie di lavoro che hai?».
«Sì, papà. Me la cavo.», rispose Cora con un sorriso storto.
«Che tu ci creda o meno: ne sono felice».
Lei abbassò lo sguardo dondolando le gambe sospese.
La fiducia... il perdono... era qualcosa che non si poteva comprare come un medicinale, come un rimedio immediato. Si doveva riconquistare giorno dopo giorno.
A lei occorreva tempo per cercare le risorse necessarie per andare oltre, in quel momento era ancora troppo presto per saper viaggiare dentro se stessa, per ascoltarsi e comprendere il passato e accettarlo per quello che era.
Forse prima o poi ci sarebbe riuscita e risultato facile credere che suo padre era davvero felice dei suoi risultati, ma non subito.
Abbozzò un sorriso, ma forse assomigliava più a una smorfia.
«Beh... - disse scendendo dalla scrivania - Adesso devo proprio andare».
Il limite temporale prefissato per il loro primo incontro, era già stato superato con un piccolissimo margine.
«Di già?», domandò suo padre.
Cora guardò prima l'orologio al polso, poi fuori della finestra nel buio e sentendosi in colpa, la sua voce assunse un tono più basso e dolce.
«Sì, tra poco riportano a casa Seljak dalla toelettatura... ha avuto un piccolo scontro con un tubetto da quaranta dollari e hanno perso entrambi».
«Tua sorella ti ha appioppato il cane?», domandò Oliver, riprendendo improvvisamente la sua solita espressione negativa, colma di scetticismo che in genere dedicava a lei e non a Emy.
Cora aggrottò le sopracciglia accorgendosi immediatamente che qualcosa contrariava suo padre.
«Ha detto che aveva in programma un viaggio di lavoro e non sapeva dove lasciarlo», aggiunse indecisa e dubbiosa.
«Come no! Di lavoro...», l'espressione di suo padre non mutò e gli occhi continuarono a essere punte di spilli.
Contro ogni buon senso, Cora avrebbe voluto chiedergli cosa lo impensieriva, ma poi ritenne fosse più saggio sorvolare.
La sua massima aspirazione al momento, era tirarsi fuori dall'incontro senza portare alla luce schegge sepolte, di alcune ne aveva piena consapevolezza, altre invece erano solo congetture e le punte di spillo acuminate preferiva rimanessero dov'erano.
«Io vado allora. - avvicinò le labbra per baciarlo sulla guancia - Cerca di riguardarti e smetti di agire come fossi immortale».
Suo padre annuì e lei aggiunse: «Il primo gennaio sono stata invitata da mamma al pranzo di famiglia - lo guardò di sottecchi - spero non sia un problema per te».
Oliver le indirizzò uno sguardo acuto, profondo, esasperato.
«Cora mi sono arreso da molti anni ormai. Hai vinto tu... hai sempre vinto tu. Il mio unico problema era vederti gettare la tua vita e niente mi toglie dalla testa, che quel gran bastardo, sia il colpevole di tutto».
«Quel gran bastardo, come lo chiami tu... conta per me, come un due di picche e non c'entra un bel niente con la vita che conduco. Smettila di dare la responsabilità ad altri di come sono fatta. Sono diversa da come mi volevi, me ne rendo conto, e se per te è un problema e dopo anni pensi ancora di non poterlo accettare, lo capirò e rinuncerò al pranzo».
Oliver alzò le sopracciglia dinanzi a quell'affermazione decisa della figlia e scosse la testa.
«No e poi no... oltretutto tua madre mi ucciderebbe se venisse a conoscenza che hai rinunciato a causa mia».
 
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Lascia dormire il futuro come merita.
Se si sveglia prima del tempo,
si ottiene un presente assonnato.
 
Franz Kafka
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Cora uscì dall'ufficio con la promessa che si sarebbero rivisti presto, e dalla Sullivan&Cromwel, con un senso di leggerezza.
Era andato bene l'incontro, pensò con soddisfazione una volta seduta sul sedile posteriore del taxi; erano stati in grado di non tirare fuori nessun risentimento, e riusciti a rimanere all'interno del cerchio magico oltre quale era pericoloso avventurarsi, perché di là da quello si trovavano litigi e incomprensioni.
Scese dall'auto un isolato prima di dove era ubicato il suo appartamento perché la serata nettamente indirizzata al meglio, nonostante la temperatura rigida, le aveva fatto venire una gran voglia di fare una piccola passeggiata rilassante tra le vetrine già addobbate per il Natale, piene e invitanti.
Preda improvvisamente a uno strano spirito natalizio, dopo aver ricontrollato l'orologio, decise che c'era abbastanza tempo per avventurarsi alla ricerca di qualche regalo.
Tornò a casa carica di pacchi e pacchetti, una borsa con la spesa per non farsi trovare impreparata fosse tornata Adele, e una buona scorta di pantofole per Seljak.
Buttò ogni cosa sul divano soddisfatta e andò in cucina a sistemare la spesa nella dispensa, e nel frigorifero, che nonostante tutto appariva ancora terribilmente vuoto.
Prese una mela e addentandola si sedette sul divano con il portatile sulle gambe, decisa a rispondere immediatamente al messaggio di Joseph, prima che arrivasse il rompiscatole a quattro zampe con il nuovo look e di sicuro più nervoso di come era già solitamente.
La sua amicizia con Joseph era di lunga data e fatto strano era che nonostante questo, non sapeva quasi niente di personale sul suo conto perché le raccontava i suoi fatti con il contagocce, si trattava di un tipo molto misterioso e lei adorava che lo fosse.
Preferiva di gran lunga quell'alone di mistero a rivelazioni vere o presunte.
In compenso, su argomenti che non avevano attinenza con fatti riservati parlava ampiamente, e sapeva essere divertente ma anche estremamente profondo.
Insomma, le loro piccole schermaglie erano un appuntamento che aspettava con ansia e non poteva negarlo... si trattava di un vero amico... amico che le piaceva molto. Fin troppo.
Una specie di relazione, anche se entrambi non si erano chiariti a riguardo e a lei in definitiva andava benissimo così.
Sapeva ormai da un pezzo di non essere tagliata per avere legami sentimentali, ed era pienamente soddisfatta della sua solitudine, o almeno, lo era finché tutti non iniziavano a chiederle perché non avesse un uomo.
Purtroppo chi le voleva bene non vedeva di buon occhio il fatto che fosse completamente disinteressata all'amore.
C'era un esercito di amici e parenti che non avevano di meglio da fare che cercare di accasarla con qualcuno e correggere quello che secondo molti, era tutto un modo sbagliato di vivere.
Quello che non volevano capire, era che lei amava stare sola e le poche volte che aveva provato ad avere una relazione la sua vita era solo peggiorata, di conseguenza si guardava bene dal fare nuovi tentativi.
Senza contare che ormai aveva i suoi spazi, i suoi orari, le sue libertà che non avrebbe mai diviso, e Joseph in tutto questo, era un ottimo compromesso.
Qualche ora più tardi decise di mettersi a dipingere.
Dopo tutto ciò che era accaduto e che le aveva occupato gran parte del pomeriggio, non rimaneva che passare la notte in bianco cercando di concludere la commissione che a giorni avrebbe dovuto consegnare.
Era cosa singolare, come a lei eternamente in ritardo, piacesse assolutamente giocare d'anticipo riguardo gli incarichi di lavoro, non transigeva e non si sarebbe sentita in pace con la coscienza fin quando non lo avesse finito.
Una volta soddisfatta, ripose i pennelli nel barattolo colmo di solvente, e solo in quel momento osservando l'orologio, si rese conto che aveva fatto quasi l'alba.
Si alzò dalla sedia e con la mano premuta contro la vita si inarcò cercando sollievo.
A volte i suoi giorni passavano vuoti e immobili, e non accadeva niente di niente, altre volte diventavano pieni di scossoni improvvisi, e sembrava tutto si accavallasse in un susseguirsi frenetico.
Ciò che stava vivendo in quell'ultimo periodo era convulso, e una strana sensazione d'attesa e di ansia le suggeriva che quel ciclo incostante era solo all'inizio. Lo percepiva sull’epidermide come una sottile corrente che le sfiorava la pelle trasmettendole stati emotivi dall’ambiente circostante.
Non aveva idea di cosa fosse, eppure quella percezione intensa le suggeriva che in qualche modo la sua vita stava finalmente prendendo una svolta decisiva, e che tutto stava andando per il verso giusto.
Sbadigliò e stancamente si avviò verso la camera.
Si spogliò gettando alla rinfusa gli abiti sulla poltrona di fianco al cassettone, e di nuovo, sbadigliò più profondamente intanto che si infilava la camicia da notte, e prima di ficcarsi al caldo sotto le coperte, accarezzò Seljak, che ai piedi del letto ringhiava nel sonno.
Santos, aveva deciso di ripiegare su un colore turchese invece di una toelettatura completa e conoscendo i gusti di sua sorella ne sarebbe stata entusiasta, Cora però lo trovava assolutamente ridicolo e anche Seljak sembrava non avesse apprezzato.
Si infilò sotto le coperte, sospirò beatamente godendosi il riposo meritato a pieno e completamente depredata delle sue energie, sfinita si addormentò nel giro di una manciata di minuti.
Sembrava passato un battito di ciglia, da quando aveva chiuso gli occhi al momento in cui iniziò a percepire il primo squillo del telefono che interruppe il silenzio assoluto nella casa in penombra.
Cora fece scivolare i piedi fra le lenzuola in flanella all'interno del suo involucro caldo, da prima con lentezza, poi sempre più nervosamente.
Il suono la stava svegliando man mano e la faccia seminascosta dall'orlo della coperta, si contrasse in una smorfia. Rannicchiandosi, si rigirò premendo la testa nel gonfio cuscino senza avere la minima intenzione di andare a rispondere.
Ma alla fine per quanto non lo desiderasse, i due mondi, quello del sogno e quello della realtà, entrarono in collisione e il sonno divenuto ormai fragile, si crepò in mille pezzi sotto l'incertezza che potesse essere qualcosa d'importante: il pensiero andò immediatamente a suo padre e al suo stato di salute.
Tirò fuori il braccio dal nascondiglio caldo fatto di coltri per ruotare la sveglia sul comodino verso di sé ed esaminare il display, erano le nove, praticamente l'alba per quel che la riguardava.
Brontolando, sollevò la coperta da cui uscì immediatamente il tepore che si trovava al suo interno e poggiò i piedi sul pavimento ghiacciato, imprecò quando non trovò vicino al letto, le pantofole che il cane aveva nascosto chissà dove.
Corse in punta di piedi lungo il corridoio, sperando, quasi pregando non fosse accaduto niente di grave, ma il fatto che squillasse il telefono di casa e non il cellulare che usava per lavoro non lo trovava incoraggiante. Solo Sue e chi era di famiglia avevano quel numero, e comunque tutti erano a conoscenza di quanto fosse tassativamente vietato chiamarla prima di mezzogiorno a meno che non si trattasse di qualcosa di serio, per il semplice motivo che sapevano bene quanto spesso avesse l'abitudine di dipingere durante la notte e che per questo motivo dormiva fino a tardi.
Arrivò al telefono, e in salotto intravide che Seljak con esagerato impegno si stava dedicando a mordere le sue pantofole.
Cora arricciò il naso disgustata vedendole, e sospirò un attimo prima di rispondere.
«Dormivi?...», le domandò una voce familiare all'altro capo dell'apparecchio.
Era un tono maschile garbato e profondo.
Mentre spostava il peso del corpo da un piede all'altro sul pavimento freddo, aggrottò la fronte cercando di ricordare il viso a cui suono era collegato.
Il cuore lo riconobbe prima della sua mente ancora addormentata, perché ebbe un leggero sussulto.
«No. - mentì sbadigliando - Dimmi pure».
Non le andava di far capire che non aveva la minima idea di con chi stesse parlando. Chiunque fosse lei gli aveva laciato il suo numero privato, possedeva una voce dannatamente familiare, e a quel punto poteva solo sperare che lui andando avanti le desse sufficienti informazioni in modo da dar vita a una connessione di ricordi ed evitarsi una figuraccia.
Oltretutto, ormai appurato dal tono esente da qualsiasi turbamento e quasi pigro dello scocciatore che non c'erano catastrofi all'orizzonte, sperava si sbrigasse, in modo che lei potesse tornare nel mondo dei sogni.
Intanto che attendeva la risposta dall'uomo misterioso si avviò in direzione della camera con il cordless all'orecchio, intenzionata a infilarsi immediatamente a letto e addormentarsi non appena la conversazione fosse giunta al termine.
L'uomo rispose con un leggero rimprovero, punto nella sua sensibilità.
«Dimmi pure?... Non ci sentiamo da una vita e mi rispondi così? Sinceramente mi aspettavo un po' più di entusiasmo da parte tua».
In Cora ci fu come un “clic” di un interruttore che da spento si accese e tutto divenne lapalissiano.
Spalancò gli occhi dalla sorpresa e improvvisamente vigile esclamò: «Shannon?!».
La corrente della memoria la trascinò suo malgrado nell'angolo di cuore più nascosto, quello che dedicava da sempre, soltanto a lui.
La nitidezza dei ricordi, la precisione dei loro contorni la colse come un momento in quell'unico “clic”, in quel nome affiorato alla bocca c'era un'esplosione di sentimenti benevoli e affettuosi.
Lo sentì ridere in modo sommesso, e canzonatorio rispose: «Ora sembri sveglia, finalmente. Mi stavo seriamente offendendo».
Come una bambina che ascoltava una fiaba prima di addormentarsi, sorrise al suono di quella voce che adorava e si sedette sul letto rilassandosi, senza più il desiderio di terminare in fretta la comunicazione.
L'avrebbe ascoltato per ore.
«Dormi ancora fino a mezzogiorno?», aggiunse lui.
Sentendosi stupida, quasi si commosse del modo in cui lui la conosceva e la ricordava.
Era possibile sentirsi felici e malinconici al tempo stesso?
Cercando di azzittire la sua voce interiore e le sue emozioni in subbuglio, finse di essere infastidita: «Non scocciare. Sai che lavoro di notte».
Lo sentì ridere: «Già... come le puttane».
Shannon era un vero e proprio cacciatore d'occasioni quando si trattava di fare battutacce, ma Cora non riusciva ad arrabbiarsi con lui perché tra loro c'era un feeling naturale. Con quei suoi occhi a volte dorati a volte di un marrone liquido che catturavano e addolcivano il cuore, si faceva perdonare qualunque cosa e dal primo istante, per lei era stato una specie d'amore a prima vista mai finito.
Si portò le ginocchia al mento, facendosi cullare dalla familiarità di quella conversazione rassicurante, e che annullava il tempo passato per cui niente sembrava davvero interrotto.
«Cosa ti porta a chiamarmi all'alba dopo secoli che non ci sentiamo?», sorrise.
«Ti va un brunch al Sarabeth tra tre ore?».
Cora si drizzò sul letto.
«Ti trovi a Manhattan? Non ti stai prendendo gioco di me come tuo solito, vero?», disse piano, come chi si avvicinava a un'illusione e non a una certezza.
Shan, che dall'altra parte capì la sua trepidazione sospesa tra speranza e timore, rise divertito.
«Tra tre ore all'incrocio tra la 15th e la 9th e non fare tardi come sempre. Se non ti vedo dopo dieci minuti vado via».
Si, indubbiamente ricordava tutti i suoi difetti fin troppo bene e nonostante avrebbe preferito si fosse scordato quel piccolo particolare dei suoi continui ritardi, trovò anche quella puntualizzazione ricca di significato.
Come se potesse vedere il suo imbarazzo, abbassò lo sguardo arrossendo leggermente.
«Sono diventata puntuale», rispose con ben poca decisione nella voce.
Dall'altra parte dell'apparecchio sentì Shannon scoppiare in una fragorosa risata.
«Sicuro sei diventata bugiarda», ironizzò.
Cora sorrise con nostalgia e il desiderio di vederlo divenne ancora più forte.
«Diciamo che per te lo sarò», rispose rassegnata alle sue punzecchiature.
«Questa è un'affermazione più sincera.- fece una breve pausa e sospirò- Mi trovavo alla mostra di Hirst al Gladstone ieri sera, e quando ho visto il tuo nome tra le opere esposte m'è venuto un colpo».
A Cora sembrò ci fosse una sorta d'orgoglio nella sua voce, ma forse la stava solo immaginando e si aggrappava a qualcosa d'inesistente.
«Ora mi spiego perché ti sei rifatto vivo. Adesso che sono famosa, posso entrare nuovamente nella cerchia delle tue amicizie?», scherzò punzecchiandolo a sua volta.
Naturalmente Shannon non era intenzionato a lasciarle impunita quella piccola puntura.
«Quando venderai i quadri ai prezzi di Hirst ne riparleremo, per adesso non sei ancora degna», pronunciò con tono scherzoso ma anche leggermente polemico.
Cora affondò la testa contro il cuscino.
Quella di Shan, era chiaramente una battuta, ma le diede occasione di pensare a che tipo di persona voleva divenire e invece quale fosse il rischio di diventare.
«Mi vorresti anche se divenissi odiosa come lui?».
Lui fece una pausa prima di proseguire. Le sue parole erano più lente del solito, come se le stesse scegliendo con cura.
«Ti vorrò sempre. - poi sospirò - Ora però devo lasciarti. Ho delle cose da fare prima del nostro incontro. Parleremo dopo».
Dall'altro capo del telefono udì voci e suoni di macchine passare.
Si domandò dove potesse trovarsi e lo immaginò mentre a passo spedito cercava di evitare fotografi o qualche ammiratrice troppo assillante.
Lo ascoltò bisbigliare qualcosa piuttosto infastidito a una persona che gli camminava accanto.
Una voce familiare gli si contrappose. Arrogante e fredda.
Cora spalancò le pupille stupefatta mentre silenziosamente pregava non fosse chi temeva, ma più rifletteva più le sembrava lui.
Come un rapace sollevò la testa dal cuscino con scatto rapido e veloce.
«C'è Jared accanto a te?», domandò mentre la mano serrata teneva il telefono e la mascella le si contrasse.
Non riusciva a credere avesse parlato con lei tutto il tempo mentre il fratello ascoltava la loro conversazione.
Dall'altro capo del telefono sentì Shannon farfugliare nervosamente con chiunque gli fosse vicino, poi si rivolse a lei, seppure negandole la risposta che andava cercando.
«Tra tre ore piccola. Ora non posso parlare», tagliò corto.

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Capitolo 5
*** capitolo 5- gli equilibri del cuore ***


 
                                                                       
Dopo la pausa delle vacanze torno con un nuovo aggiornamento. 
Spero vi piaccia e che abbiate voglia di farmi sapere cosa ne pensate.
Ringrazio tutti quelli che mi seguono, che sono tantissimi anche se silenti... fatevi vivi XD
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                                                                          L'equilibrio del cuore 



Cielo grigio ingombro di nuvole, vento freddo e raffiche che si insinuavano anche sotto gli abiti più pesanti, gelando il corpo fino all'osso.
Il giorno prima era piovuto, l'ultimo di una lunga serie di temporali che nel mese di novembre imperversavano su New York, e precedevano di poco le nevicate.
Cora intirizzita, stringendosi il cappotto intorno alla vita cercò di farsi largo tra la folla, riuscendo finalmente a imboccare 9th Avenue.
La zona dell'Upper Side era centro pulsante di Manhattan, scontato fosse colmo di gente che andava e veniva di qualsiasi etnia o estrazione sociale.
Un crogiolo di corpi riversi in strada, presi da una vera e propria frenesia delle feste che era destinata a peggiorare fino a raggiungere uno smisurato apice durante la notte del trentuno dicembre.
L'inconfondibile brusio della città e il traffico, anche se sperimentato da anni, al momento, consapevole dei minuti che passavano, della calca invalicabile che metteva a rischio il suo appuntamento con Shannon, la stavano rendendo particolarmente nervosa.
Infastidita, le sarebbe piaciuto dare calci a caso e farli affrettare.
Era il colmo: a pochi passi dal luogo prestabilito, e lei bloccata contro un muro di turisti e newyorchesi oziosi.
Avesse perso la possibilità d'incontrarlo, non se lo sarebbe mai perdonato.
Come sempre aveva fatto tardi, e anche se era vero che riuscire a essere puntuale a New York equivaleva a una specie di miracolo, c'era pur da dire che lei, il destino, l'universo intero, mettevano tanto del suo.
Prese un respiro profondo per sciogliere la tensione, sforzandosi di restare calma nonostante il senso d’inutilità che l'avvolgeva, e con il massimo impegno raggiunse una sorta di stato di rassegnazione.
Lasciò che le spire del serpente umano si muovessero nella loro lentezza e la trascinassero mentre pensieri, attimi sospesi e perduti, si accavallavano all'immagine dello Shan che ultimamente vedeva soltanto in interviste.
Sembrava un sogno fatto d'inchiostro e carta stampata: un volto dentro uno schermo con nulla in comune con il suo migliore amico.
Sentire al telefono la sua voce in un certo senso aveva allentato tanti dei suoi dubbi: il tono affettuoso, le schermaglie, le davano la speranza che il loro fosse un legame ancora solido nonostante il destino li avesse allontanati, e da molto tempo non si frequentassero più.
L'ultima volta che si erano incontrati, era stato alla morte della dolcissima nonna Ruby.
Stretti l'uno all'altra nella condivisione di un dolore struggente, si erano trasformati in due atomi uniti dal medesimo sentimento, seguendo semplicemente la forza chimica dell'amicizia.
Vederlo sofferente l'aveva contagiata, e piangere insieme a lui in un momento d’intesa e calore, di emozione vera e profonda, era stato uno sviluppo conseguente.
Era sempre più convinta che la loro amicizia potesse superare qualunque cosa, anche la distanza e il tempo.
C'era e basta, come l'aria nei polmoni.
Neppure ciò che era accaduto tra lei e Jared era riuscita a scalfire la loro unione. Loro due, esistevano prima di tutto.
Il piccolo ricordo bastò a trafiggerla e ad alimentare ancora di più l’ansia, ma poi fortunatamente lo vide, e la tensione si sciolse come una treccia di capelli, tutto il nervosismo sparì con un semplice, unico respiro che si allargava sulle spalle.
Eccolo. Riconoscibile tra la folla come un faro nella notte: cappello calcato in testa, piede appoggiato al muro, mani sprofondate nelle tasche.
Con calma si avvicinò, e lui sorrise con occhi bassi, senza guardarla.
«Sei in ritardo», disse quasi divertito non si fosse smentita neppure quella volta.
Cora arricciò il labbro con smorfia colpevole: «Di poco».
Shannon si allontanò dalla parete, ed eliminò la distanza che li separava lasciando vagare lo sguardo su di lei, come se ci stesse riflettendo.
«Ti perdono soltanto perché è tanto tempo che non ci vediamo», disse guardandola con serietà e sforzandosi di non sorridere, poi l'afferrò per un polso. «Vieni qui», la portò a sé abbracciandola con forza.
Lei che non si sarebbe mai abituata all'intensità della sua stretta, rimase immobile, ben serrata all'interno di quella impetuosità travolgente. Qualche secondo dopo gli diede una pacca affettuosa sulla spalla e riuscì ad allentare la presa che le stava togliendo il respiro.
«Fatti guardare», gli disse.
Si allontanò leggermente, e per un lungo istante rimasero a fissarsi in quella goffa posizione: corpi a stretto contatto, le braccia di lui intorno alla vita di Cora, la schiena di lei inarcata all'indietro.
Con ammirazione esclamò: «Sei in gran forma».
Lo era davvero. Dimagrito e ringiovanito di almeno dieci anni.
Shannon pienamente consapevole, perchè di sicuro se l'era sentito dire almeno un migliaio di volte prima di allora, abbozzò un sorrisetto e punzecchiandola come d'abitudine, le prese una ciocca di capelli tirandola leggermente da un lato.
«Tu invece no».
Particolarmente sensibile quando lui si prendeva gioco della sua chioma, gli lanciò un'occhiataccia e lo colpì in testa con la borsetta.
S'era impegnata in ogni modo possibile quella mattina per renderli docili, ma l'umidità aveva cancellato in un attimo i sui tentativi, ed erano tornati immediatamente gonfi e ricci.
«Se hai intenzione di sfottermi ti avverto che me ne vado. Giuramento!», si voltò, ma lui l'afferrò per la vita, trattenendola e sogghignando.
«Sei diventata permalosa durante la mia assenza?».
La tenne ferma sollevandola da terra.
«Lasciami andare, rompiscatole», brontolò fissandogli le braccia.
La mise giù e le strizzò l'occhio, per poi rivolgerle uno dei suoi sorrisi migliori.
«Ma dai che scherzavo! Sei bellissima.- aggiunse ridacchiando - ... E i tuoi capelli sono perfettamente in ordine».
Altro colpo con la borsetta, questa volta sulla spalla.
«Dopo quest'ultima risposta spiritosa offri tu, e ti avverto: ho intenzione di mangiare un'enorme fetta di torta alle fragole», rispose tentando di pettinarsi i ricci con le dita, ma questi continuavano a scattare come molle in ogni direzione.
Shannon incredulo alzò il sopracciglio: «Ancora fissata con quella torta?».
Cora si strinse nelle spalle e arricciò il naso: «La torta alle fragole del Sarabeth è un classico! Ci sono cose, che continuo ad amare al di là del tempo».
Lui indefinibile, si nascose dietro un sorriso lieve: «È quello che mi auguro», le rispose pensieroso.
Cora infagottata su se stessa a causa del freddo, con braccia conserte, inclinò la testa da un lato e mormorò: «Se ti riferisci alla nostra amicizia, sappi che se anche è passato tanto tempo, e le cose sono molto cambiate sopratutto per te, il bene che provo nei tuoi confronti non avrà mai cedimenti».
Calò una piccola pausa tra loro nella quale Shan vagò in basso con lo sguardo, come a cercare cosa risponderle, anche se stretta tra le labbra, sembrava volesse trattenerne una già pronta.
Sorrise un po’ sghembo, e quando gli occhi tornarono sul viso di lei, incorniciato dai capelli castani e arruffati, assunsero un’espressione seria, pensierosa: «Anch'io ti porto sempre nel cuore, lo sai. Mi sei stata vicina quando nessun altro l'ha fatto, e non ti ringrazierò mai abbastanza per questo, ma... - scosse leggermente la testa con le labbra chiuse a linea retta - non era a questo che mi riferivo».
Lo osservò cercando di decifrarlo, ma prima che riuscisse a mettere a fuoco la situazione, la prese sotto braccio e la condusse in direzione del Sarabeth.
Il locale era di quelli antichi e che dell'immutabilità faceva il suo punto di forza: bancone in marmo e legno, camerieri in camicia bianca, nessuna musica ma il chiacchiericcio della clientela a fare da sottofondo, il tendone esterno dello stesso verde irlandese probabilmente dal giorno della sua apertura, le porte di legno ancora tinte con smalto bianco, i bovindo e le finestre che davano una visuale completa sulla strada, da tempo immemorabile, le stesse.
Lo avevano eletto loro rifugio da sempre, da quando cioè la vita di Shannon, troppo difficile e complicata, li aveva spinti molti anni prima a mettersi seduti e a raccoglierne i pezzi che cadevano in frantumi.
Spesso davanti a una buona torta, sognando il loro futuro avevano costruito castelli con la fantasia, e se anche i casini che lui combinava come fossero state onde, di volta in volta li spazzavano via, ne costruivano di nuovi, fin quando ne realizzarono uno così bello che lui non aveva voluto che si disgregasse più, e finalmente aveva cominciato a guarire da se stesso.
Un condensato di profumi, crema, cioccolato e confetture, che impregnavano l'aria, e il tintinnio di porcellane, insieme a voci sommesse, li accolsero appena entrarono.
Salutarono la proprietaria che da dietro il bancone ricambiò con un largo sorriso amichevole, dopo di che Shan la guidò a prendere posto in una panca ad angolo, a pochi metri dall'ingresso.
«Vuoi l'uscita vicina nel caso tu debba fuggire in fretta?», se ne prese gioco lei, intanto che si toglieva il cappotto e lo metteva a lato della seduta.
Lui che prestava crescente attenzione all’accesso della sala come se aspettasse qualcuno, distratto e titubante intanto che seguiva con gli occhi il flusso in entrata, per un attimo rimase interdetto a quella domanda.
«Perché?», e fu tutto quello che riuscì a risponderle mentre metteva la giacca accanto a quella di Coralline.
«Chi deve arrivare?», insistette lei.
Tolse il cappello e lo poggiò sopra il cappotto, poi passò la mano tra i capelli per ravvivarli: «È da molto tempo che non vengo in questo posto. Hanno cambiato un po' di cose vedo», disse non rispondendo alla sua domanda diretta.
Non avevano cambiato un bel niente nel locale. Era evidente fosse solo un modo per evitare l'argomento e neppure troppo ben riuscito.
Le capacità deduttive di Cora erano il risultato di una lunga esperienza, una sorta di guida automatica che entrava immediatamente in funzione quando si trattava di lui.
«Cosa mi stai nascondendo?».
Shan le indirizzò un'espressione innocente.
«Che vuoi che nasconda?», rispose limitandosi a spiegazzare il labbro superiore verso destra.
Assomigliava di più a una smorfia che a un sorriso, ma una smorfia attraente, che diceva e non diceva niente.
Cora prese il menù per pura formalità e per un momento fu tentata di lanciarglielo contro come fosse stato una stella da ninja.
Lui senza affrontare il suo sguardo le tolse il menù dalle mani posandolo sul tavolo, quasi avesse intuito la sua fantasia pericolosa.
«Ordiniamo?», domandò senza scomporsi.
Poco dopo un cameriere stava ripetendo le loro richieste, più per prudenza professionale che altro.
Shan e Cora confermarono e dopo poco si trovarono a parlare davanti a due abbondanti fette di torta e una cioccolata calda e fumante.
Lei usò il calore della tazza per scaldarsi le mani ancora gelate, mentre Shannon si informava casualmente se aveva ascoltato qualche canzone del gruppo.
Replicò vaga che non amava molto la musica, preferiva la pittura.
Evitò di dirgli che non ce la faceva ad ascoltare la voce di Jared, che in quegli anni, aveva accuratamente fatto a meno d'incappare in qualunque cosa avesse a che fare con lui.
Abbassò il capo, lacerata.
Per nulla risentito dalla risposta, Shannon scherzò e fece una battuta che la rimise immediatamente a suo agio, poi le domandò dei suoi quadri, del suo rapporto con la pittura e con un sorriso disarmante, commentò: «Così hai fatto una mostra al Gladstone. Forte!”
Lei reagì arrossendo in uno strano e limitante senso di pudore.
Non sapeva rispondere, se non con espressione ambigua e sorpresa, in bilico tra snobismo e vulnerabilità: «Non ci sono solo io. È l'esposizione sugli esponenti di un genere».
«È comunque un bel traguardo», disse trangugiando la sua torta e sporcandosi la bocca di cioccolata.
Per un attimo lei non disse nulla, ma lo guardò con la tenerezza che avrebbe riservato a un fratello maggiore ritrovato, sorrise affettuosa, mentre il desiderio di pulirlo con il tovagliolo diventava quasi irresistibile.
Si trattenne a fatica e distolse lo sguardo per non cedere alla tentazione.
«Che ci facevi in una galleria?», domandò lei mentre i loro occhi divergevano.
Shannon alzò il viso dal piatto lasciando il boccone a metà, mentre lei in attesa della risposta beveva con calma.
Shan sorrise serafico, lasciando le labbra leggermente socchiuse in modo fanciullesco.
«Ero a vedere le opere di Hirst, te l'ho detto al telefono. Barbara ha insistito perché partecipassimo».
Barbara. La proprietaria della galleria.
Cora sospirò rimanendo a lungo a contemplare la palpabile lontananza che li separava: lui ormai era una celebrità, la sua presenza veniva richiesta agli eventi mondani.
Ignorò lo sguardo di Shannon che continuava a fissarla attentamente, e sorseggiò ancora la cioccolata.
Come l'avesse letto i pensieri rispose con un sorriso quasi beffardo: «Rimango un emarginato, tranquilla. Emarginato di lusso, ma sempre emarginato».
Lo guardò attenta: «Com'è essere famosi?».
Lui appoggiò un gomito sul tavolo e mescolò la cioccolata. Il cucchiaino tintinnava contro la tazza.
Si fermò e alzò gli occhi su di lei facendo un sospiro.
«All’inizio è stato divertente perché era come una conferma che esistevo, che non ero invisibile, e i primi successi mi hanno dato davvero l’illusione d'aver risolto tutti i problemi, poi però sono arrivati anche i prezzi da pagare, e che non sono stati in denaro ma in serenità, tempo, salute, rapporti umani. Ho perso molte cose che prima davo per scontato, ma sarei un pazzo se me ne lamentassi. La popolarità in definitiva è la conferma che le cose che faccio hanno un valore, che faccio bene il mio lavoro. Tutti mi conoscono, mi abbracciano, mi baciano, ma io non conosco nessuno. È una sensazione bizzarra quanto sbilanciata. Ogni rapporto è falsato capisci?».
«Credo di sì», confermò con un cenno della testa.
«Dopo un po' hai voglia di cose vere - sorrise facendole l'occhiolino e una pausa a effetto - e cerchi di nuovo le vecchie amiche, quelle per cui sai d'essere sempre il solito buono a nulla».
«Non sei mai stato un buono a nulla. Stupido!», protestò seria.
Sorrise malinconico: «Intorno abbiamo soldi, l'abuso di chi fa le regole, lo scontro continuo tra la creatività e mercato. La musica è solo la minima parte, ma finché quello che facciamo piace alla gente, ci sopportano - il sorriso si allargò mischiato a un sospiro - pronti però a darci un calcio nel sedere appena non siamo più la gallina dalle uova d'oro. La conquista di una meta non dà la pace, semplicemente prepara a una nuova lotta, non fosse altro che per il mantenimento della posizione raggiunta».
Lei gli diede un buffetto affettuoso sulla guancia.
«Suoni perché sei schiavo della tua batteria. Fino a vent’anni non sognavi i lussi, non sapevi nemmeno che esistessero e il bello è che tutto quello che hai, l’hai ottenuto facendo ciò che ti piace. Al resto non ci pensare».
Shan rise silenziosamente: «Ogni giorno ringrazio il cielo e la batteria per questo».
«Piuttosto, come te la cavi?».
«Tante brutte abitudini l'ho eliminate, ma qualcuna bisogna pur mantenerla. Giusto per non dimenticare da dove sono venuto».
Cora sospirò e non si fermò ad affrontare l'argomento.
Si fece seria e gli occhi le si inumidirono, rapiti da un ricordo improvviso.
«Perché non me lo chiedi?», optò improvvisamente lui per una domanda, solo apparentemente generica.
Lei rimase per un istante a osservarlo, senza saper che rispondere, vaga e inerme.
«Domandarti cosa, scusa?».
Distolse immediatamente lo sguardo. 
Insicura e presa alla sprovvista, concentrò l'attenzione sul logo del locale impresso in oro sulla porcellana della tazza.
«Lo sai», allungò il viso in sua direzione.
Ripresa sicurezza lo squadrò con sfida.
«Va bene...come sta?», mormorò alla fine, un po' sarcastica.
Shannon tirò indietro il viso soddisfatto.
«Non riesci neppure a pronunciare il suo nome? Perché non glielo chiedi tu stessa come sta?», rispose guardando in direzione della porta e salutando con un cenno della mano.
Cora non aveva bisogno di voltarsi per sapere chi stesse per raggiungerli ma lo fece comunque.
Nel giro di un secondo si ritrovò due occhi blu enormi puntati addosso, aghi di ghiaccio che non si diluivano davanti a niente, capaci di sbranare, racchiusi in un corpo freddo e perennemente controllato.
C'erano persone che con lo sguardo conquistavano, mentre altre smontavano senza dare il tempo di proferir parola, poi c'era lui, che con una sola occhiata faceva entrambe le cose.
Camminava lento nel più assoluto silenzio che era piombato nel locale.
Come fosse stato sulla passerella di un’invisibile sfilata, sapendo che tutti lo stavano guardando perché era quello il compito che gli spettava, il suo destino; altero, vagamente scocciato, incedeva di fronte a donne frementi della sua apparente vicinanza.
Cora si ripromise di uccidere Shannon e immaginò di usare il menù ninja per farlo, e tra sé maledisse il cameriere che dopo l'ordine lo aveva sottratto.
Jared arrivò al loro tavolo con l'aria sicura di chi è abituato a essere sempre ben accolto, piegò le ginocchia e puntellò i gomiti sul piano in legno. Si sporse in avanti, tanto che lei lo ritrovò a pochi centimetri di distanza.
«Che bello vederti», le disse con un sorriso.
Era vestito con dei semplici jeans scoloriti, una giacca che dava l'impressione d'avere almeno dieci anni, una maglia bianca e delle scarpe da ginnastica assurde, i capelli molto più lunghi dell'ultima volta che lo aveva visto, l'aria un po' stanca, ma nonostante questo, da quando era entrato nel locale tutte le donne e probabilmente anche qualche uomo, non gli avevano staccato gli occhi di dosso, e delle ragazze, entusiaste, iniziarono a ridacchiare indicandolo.
Era una delle tante cose che Cora odiava di lui, ovunque andasse catalizzava l'attenzione. Era magnetico, e su di lei questa caratteristica aveva la capacità opposta: lo respingeva con tutta l'energia possibile.
Jared era come una cometa fiammeggiante che gli altri si fermavano a guardare, a indicare col dito trattenendo il respiro.
Una cometa che sorprendeva, apparendo all'improvviso, passando davanti agli occhi.
A suo tempo si era illusa che quella cometa fosse sua, per un istante lo aveva sperato, ma poi lo aveva visto allontanarsi verso nuovi orizzonti, nuovi cieli, nuovi occhi, e dopo di allora ogni volta che appariva riusciva a pensare soltanto al buio che rimaneva quando spariva nuovamente.
Mugugnò un saluto in risposta con ancora il pezzo di torta in bocca che non voleva andare né su, né giù.
L'aria le sembrò immobile e pesante quanto un gas velenoso, era come un silenzio in attesa che qualcosa esplodesse, e le svelò un aspetto della realtà che credeva d'aver ormai sepolto e dimenticato.
Nonostante tutto, erano ancora due micce.
«Vai da Damien?», domandò Shannon al fratello.
Jared staccò gli occhi da lei, e lo guardò forse per la prima volta da quando era entrato nel locale.
Aggrottò le sopracciglia e con la mano fece segno di pulirsi la bocca.
«Se ne avete voglia, perché non fate un salto anche voi dopo?».
Si rivolse di nuovo a Cora mentre Shannon si affrettava a passarsi il tovagliolo intorno alle labbra.
«Ho visto i tuoi quadri alla galleria. Bei pezzi».
Lei non riuscì a leggervi franchezza in quel complimento, non si fidava di Jared, e le fu impossibile interpretarlo diversamente da una sottile e diplomatica ipocrisia, per non dispiacerla.
Ma di piacere a Jay in fin dei conti a lei non importava niente, poteva anche evitare lo sforzo di fare il gentile visto che non era richiesto.
Il “grazie„ che rispose fra i denti stava a indicare: “risparmiati la fatica„.
Ogni secondo che passava, lui compieva piccoli movimenti in avanti per avvicinarsi di più, ormai la gamba sfiorava quella di lei in una provocazione costante.
Il contatto fisico era la cosa più difficile da dimenticare per Cora, non era qualcosa di reversibile, non era possibile liquidare dalla mente le sue carezze e il piacere che le davano.
Aveva potuto dimenticare le parole, i gesti, i sorrisi, ma non il calore del suo corpo che a suo tempo le aveva fatto socchiudere gli occhi nel naufragio di ogni resistenza.
Odiava il modo in cui lui le ricordava costantemente che prima di qualunque cosa, lei era carne, e che su quella non aveva controllo.
Imbarazzata e non avendo idea di come fare a fermarlo senza destare la curiosità di Shan, optò per spostarsi e rintanarsi in un angusto angolo della panca.
Chiusa nei suoi torbidi pensieri non alzò lo sguardo dal piatto che aveva di fronte. Come per scacciarlo.
Come per mettere subito in chiaro che non le interessava averlo vicino, che lei e lui non sarebbero stati vicini in quel momento, né in nessun altro.
Come per sfuggire da lui.
Dopo averle rivolto ancora qualche domanda senza ottenere risposta, Jared con un sospiro tolse i gomiti dal tavolo e tornò in posizione eretta.
Sapeva che cavarle una parola di bocca era impresa impossibile.
«Va bene, vi lascio al vostro brunch. - sorrise rivolgendosi al fratello, poi dandole un'ultima occhiata le disse con voce cupa - Non ti disturbo oltre. È stato un piacere come sempre non parlare con te».
Era consapevole d'aver fatto la figura dell'idiota incapace d'aprir bocca, ma non le importava.
Dirgli anche una sola frase poteva diventare un boomerang.
Si doveva stare attenti alla parola che si sceglieva di usare con Jared, c'era il rischio di perderne il controllo, perché lui se ne appropriava e la faceva tornare indietro per colpirla alla testa. Scelta sbagliata, e l'avrebbe immediatamente trasformata in arma alzata contro di lei.
Salutò con la mano, sempre senza sollevare gli occhi dal piatto.
«Ci vediamo», disse intenta a raccogliere con la forchetta la confettura e lo zucchero a velo usciti ai lati del dolce.
Lo sentì sospirare pesantemente, come se sul punto di andarsene, avesse comunque trovato qualcosa che gli rendeva difficile il congedo.
Appena fu sicura non la potesse più vedere, scivolò mollemente contro la seta che rivestiva la panca.
La mente era vuota, c'era solo confusione, ma di quella in compenso, ne aveva tanta da poterne distribuire a tutte le persone all'interno del locale.
Shannon rise sporgendosi in avanti.
«Indubbiamente ami sempre le stesse cose», pronunciò divertito.
La guardò con espressione misteriosa che Cora non seppe come interpretare, ma che di sicuro però l'aiutò a ritrovare improvvisamente energia, e sopratutto la rabbia.
Si risollevò come un cobra, e nemmeno un'istante gli tolse dal volto i suoi occhi accusatori.
«Shan giuro che sarei tentata di strozzarti. Avresti potuto quantomeno avvertirmi», sibilò.
Lui scosse la testa.
«Prima o poi dovrete risolverla questa cosa».
«Quale cosa? Non c'è niente da risolvere. Non lo sopporto e basta, non è difficile da capire, credo. Solo a te non vuole entrare in quella testaccia dura».
Shannon ridacchiò e poggiò le braccia sullo schienale della panca con atteggiamento insolente.
«Anche lui in gran forma, non trovi?».
Cora abbassò lo sguardo infastidita: «Non saprei, non l'ho guardato. Non mi interessa granché».
Clienti del Sarabeth, approssimandosi all'uscita del locale, osservarono Shannon con interesse, che consapevole d'essere stato riconosciuto sorrise amabilmente, e mentre si alzava per concedere un paio di foto, per un attimo la fissò. Anche se dagli occhi di lui non filtrava nulla, Cora arrossì, trasparente.
Sapeva che l'amico si preparava a farle una predica, gli si leggeva in viso.
Non si faceva illusioni, sapeva che appena i fans se ne fossero andati le sarebbe toccato un discorsetto.
Si preparò all'impatto senza scomporsi, cercando di rimanere impassibile.
«Certo che siete assurdi voi due. - sbottò infatti, appena il gruppetto di persone si fu allontanato - Non vi vedete da una vita e quando accade, sembrate bambini di due anni».
Cora con labbra chiuse e arricciate rimase a meditare silenziosamente per qualche istante.
Shan aveva ragione, ma nonostante questo costava fatica ammetterlo, anche perché una parte di lei, lo incolpava per averla costretta a rivederlo quando non ne aveva alcuna voglia.
Vista dalla prospettiva di Shan; Jared e lei, erano due persone alle quali voleva bene che proprio non riuscivano a capirsi. Più da vicino, per come Cora la viveva, erano un banale errore distribuito su due cuori, che non le andava di ricordare, e che ogni volta lo vedeva invece le tornava alla mente.
Riconobbe con obiettività che era davvero soltanto a causa sua se lei e Jared non riuscivano ad avere neppure l'apparenza esteriore di un rapporto civile.
«L'ultima volta che abbiamo parlato siamo quasi arrivati alle mani», disse seccata, confermando di fatto l'esattezza del rimprovero di Shan.
L'amico alzò gli occhi al cielo prima di risponderle: «Lui non lo avrebbe mai fatto. Piuttosto era di te che dubitavo».
Sorrise e si morse il labbro perché le sembrava di essere ancora più bambina, in un momento in cui si sarebbe dovuta prendere sul serio, ma il pensiero di quel giorno, in cui avrebbe potuto darne di santa ragione a Jared senza subirne conseguenze, le regalò un breve ma intenso attimo di soddisfazione.
«Mi chiedo soltanto se è pretendere troppo per una volta, poterti incontrare senza che tuo fratello si faccia vivo».
Shannon fece schioccare le labbra spazientito.
«Che ti piaccia o no è mio fratello, non posso certo dirgli di sparire solo perché vederlo ti fa andare in fibrillazione».
«Non mi fa andare in fibrillazione. - replicò piccata - Per me, Jared non esiste».
«Dimostramelo allora».
Lei lo guardò senza capire.
«Vieni all'art-studio da Damien», proseguì lui in tono di sfida.
Cora non seppe cosa dire.
Sentì che l'aveva tradita.
Che non l'aveva ascoltata quando aveva espresso il desiderio di trascorrere del tempo soltanto con lui.
Gli stava davanti e si limitava a guardarlo non trovando niente da rispondere.
«Spero tu stia scherzando», riuscì a pronunciare alla fine, troppo confusa per intraprendere una qualsiasi discussione sensata.
Lui scosse la testa: «Sono serissimo».
«Non capisco cosa dovrei dimostrare venendo con te da Hirst», rispose, più sulla difensiva di quanto intendesse fare.
«Che riesci a stare nella stessa stanza con Jared senza avere un attacco di claustrofobia», sorrise soddisfatto d'essere riuscito a metterla alle strette.
Non c'era niente di peggio per Cora che perdere la faccia rispetto alla propria coerenza: diceva una cosa e dopo si doveva comportare di conseguenza, costava quel che costava.
Quindi non poteva giustificare a se stessa una qualche eventuale incoerenza, neppure se la sottoponeva a prove che non le andava di superare, e questo spiegava perché in quel frangente, si sentisse messa in trappola dalle sue stesse parole.
«Tutto ciò è molto stupido. Te ne rendi conto, vero?».
«Intendi dire stupido quanto il tuo atteggiamento?».
Incrociò gli occhi dorati di Shan, chiari e limpidi, che risvegliarono in lei il desiderio di riuscire a superare quel suo limite, di andare oltre, per non lasciarsi condizionare dalla presenza di una persona che invece purtroppo la condizionava eccome.
«Non che io tolleri Hirst più di quanto riesca a fare con Jared, sono squilibrati e insopportabili entrambi», provò un'ultima difesa.
Cora vide sulla faccia di Shannon un certo divertimento, come si fosse aspettato che avrebbe tirato fuori un motivo qualsiasi per aggirare l'ostacolo: chiaramente si stava congratulando con se stesso per averla interpretata così bene.
La stava palesemente deridendo, e la guardò per un bel po’ con scetticismo, ma poi disse solo: «Dovresti dargli un'opportunità. Ti accorgeresti che non è male - e aggiunse a voce più bassa - Le persone cambiano. Crescono».
Cora inclinò leggermente la testa.
«Stiamo ancora parlando di Hirst, vero?».
Shan sollevò debolmente gli occhi mentre passava la mano tra i capelli, lasciò le dita sospese tra la chioma e con un profondo respiro rispose: «Certo, parliamo di Hirst».
Cora alzò le spalle, mentre lui meditava sul fatto che non esisteva persona più ottusa della sua amica quando si trattava di Jay, eppure trovava in un certo senso, qualcosa di rassicurante nella sua cecità.
Dopo anni che la guardava, vedeva ancora la stessa infantile testardaggine, la medesima capacità di crearsi abissi che poi il suo cuore non riusciva a saltare.
Cora fece un sorriso dolce e improvviso.
Conteneva tutta la sua fragilità e proprio per quel motivo, perfetto sul viso di lei, ma non glielo avrebbe mai detto, perché era ancora come la ragazzina che arrossiva per ogni complimento, che non sorrideva quando aveva l'apparecchio ai denti per paura di essere presa in giro, che abbassava lo sguardo se la guardava fissamente.
Pensò a quanto fosse incredibile che certe persone riuscissero a rimanere nei pensieri senza che nemmeno uno se ne accorgesse, d'incidere il nome sulla pelle, e a distanza di anni, essere ancora lì.
Guardandola, s'accorse che nonostante le mille prove alle quali l'aveva sottoposto la vita, esisteva una sua parte debole e tenera. Una parte dove viveva il meglio di lui.
«Va bene, se ci tieni tanto andiamo allo studio dell'artista vivente più pagato al mondo. Vediamo se cambio idea su di lui», replicò con un'espressione di beffarda condiscendenza, acconsentendo ancora non troppo convinta.
Shannon rispose al sorriso con espressione astuta: l'aveva avuta vinta e non era facile con lei.
«Cosa ha a che fare Jared con Hirst?», a parte la curiosità, non avrebbe saputo spiegarsi perché avesse fatto quella domanda.
In genere non le importava molto di chi conosceva Jay, ma in quel caso l'accoppiata era quantomeno bizzarra.
Shannon con circospezione si allungò verso di lei e disse piano, appena udibile: «È proprietario insieme ad altri investitori di For the love of God».
Cora bevve un altro sorso di cioccolata prima di rispondere: «Il teschio in platino coperto di diamanti? La stravaganza più costosa nella storia dell'arte. Ho sentito che Hirst l'ha venduto in piccole percentuali perché non riusciva a trovare un acquirente unico».
«Esattamente. Jared ne possiede una percentuale».
Cora cercò gli occhi di Shan e incontrandoli, sospirò incerta: «Nell'ambiente si vocifera che le quotazioni di Hirst siano enormemente calate e come fenomeno si sia sgonfiato, nessuno investirebbe più grosse cifre su di lui. Come tutte le mode, molti ritengono abbia fatto il suo tempo».
Shannon annuì, la notizia non gli giungeva nuova: «Jay ha usato un suo dipinto come copertina del nostro ultimo album, e fatto in modo di rialzare le quotazioni con pubblicità di massa e a minimo costo».
Cora aggrottò le sopracciglia...Jay ne sapeva una più del diavolo, ma c'era davvero da sorprendersi?
«Io onestamente non ne capisco molto di queste cose - proseguì l'amico - e certamente tante stranezze artistiche di Hirst, come la sua ossessione di rappresentare la morte ad esempio, non le condivido».
«Di certo però, ha trovato terreno fertile in Jared. Ha sempre avuto una curiosità morbosa nei confronti della morte», rispose piano, pensierosa.
Aveva colpito a caso, ma doveva essere stata comunque una palla difficile, bassa, perché lui batté le palpebre e la guardò storta.
Appena si rese conto d'aver espresso ad alta voce quel pensiero, si morse le labbra desiderando con le mani prendersi le parole e infilarsele un'altra volta in bocca.
Shannon disse visibilmente irritato: «Jared non è morboso nei confronti della morte. Cora falla finita con questa storia».
Le parole avevano cercato la sicurezza facile, l’àncora forte, la gravità nelle cose, ma doveva ammettere che non era così certo che Cora sbagliasse, non del tutto almeno.
In qualche modo, lei lo costringeva sempre a origliare se stesso, come se bisbigliasse continuamente segreti che lo riguardavano, che contro la sua volontà gli imponevano un viaggio improvviso e inaspettato nel passato.
Per qualche minuto niente si mosse in lui. Solo i pensieri.
Shan aveva cinque anni, tre Jared, quando il padre uscì dalle loro vite, o meglio, quando loro uscirono dalla sua.
Ricordava ancora l'abbandono.
Fu in una condizione di agitato, velenoso furore che lui aveva riversato sulla loro madre, e a cui poterono assistere solo come impotenti spettatori, troppo piccoli per reagire.
Intanto lei piangeva, come niente fosse s'era avvicinato a loro, aveva scomposto i capelli di Jared con una carezza rude, e piegandosi sulle ginocchia, in tono paterno si era raccomandato: «Fai il bravo».
Quella fu l'ultima frase che suo fratello sentì dal padre.
Un istante dopo s'era alzato, e aprendo la porta aveva sorriso a Shan dicendogli che sarebbe andato a comprare il latte.
Lui era rimasto immobile, come le sere prima, appoggiato contro il muro che ormai sembrava l'estensione del suo corpo.
Aveva il terrore di quell'uomo che per lui era poco più di uno sconosciuto, temeva le sue reazioni.
Sapeva per esperienza che stava uscendo per andare a bere nonostante emanasse già odore insopportabile di alcol e che quando fosse tornato, si sarebbe accanito nuovamente sulla madre.
Lo sapeva anche lei, e stanca di quella vita caricò i suoi figli in macchina, senza una meta, senza soldi e solo buoni pasto nella borsa, con l'unico desiderio di fuggire.
Spesso da piccoli, durante le notti nelle quali non riuscivano a dormire, Jared con i suoi enormi occhi blu che illuminavano il buio gli chiedeva perché la loro madre l'avesse abbandonato, perché la loro non era una famiglia come le altre, a lui che era il fratello maggiore, e pensava per questo possedesse tutte le risposte.
Shannon di risposte non ne aveva però, alcune cose accadono e basta gli rispondeva, di farla finita, di dormire, poi lo colpiva con il cuscino perché smettesse di porgergli domande che facevano soffrire anche lui.
Qualche anno dopo vennero a conoscenza del suicidio del padre, e se per loro terminò la fuga, per Jared, iniziarono nuovi modi di rimanere legato a lui.
Era un elastico invisibile al resto del mondo, ma aveva l'effetto e il motore di un ventilatore: lo bloccava in un vortice senza via d'uscita.
Quando il padre era andato a fondo doveva aver portato con sé qualcosa di Jared, o peggio ancora: qualcosa del suo mondo doveva essere morto insieme a lui.
Così, quando aveva iniziato a recitare anni più tardi, se mandavano un copione dove un personaggio moriva di morte violenta, si poteva star certi che lo avrebbe interpretato.
Era il suo modo di liberarsi da quel fantasma o forse per instaurarci un dialogo.
«Scusami», pronunciò poco dopo lei con un sospiro, strappandolo con forza ai suoi pensieri.
Shannon rispose sorridendo anche se lievemente ferito.
Ormai aveva orecchie resistenti a tutto ciò che veniva detto sul fratello, i soliti pettegolezzi li sopportava, ma Cora sapeva dove colpire e affondare.
Oltretutto di suo fratello, aveva una pessima opinione.
Era vero che lei aveva conosciuto il peggio di lui, in un periodo difficile, prima che la musica salvasse la vita di entrambi e prima che il successo arrivasse a forzargli la mano, e a farlo diventare improvvisamente adulto.
Jared era sempre stato un tipo vivace e molto intelligente: già da giovanissimo s'era lanciato nel mondo del lavoro, incontrando personaggi scaltri che spesso si erano approfittati della sua inesperienza.
La sua ingenua visione da provinciale, e le persone che lo avevano ingannato, delle volte raggirato, gli avevano lasciato un'amarezza profonda, e una rabbia impotente, che spesso sfogava sulle persone a cui voleva più bene.
In quel periodo incontrarono l'eroina: Shan per primo, Jared seguì a ruota.
All'inizio erano convinti di poter tener sotto controllo la situazione, di farla rimanere una trasgressione da compiere ogni tanto, ma con certa roba non si poteva scherzare: aveva preso immediatamente il sopravvento su qualunque altra esigenza, divenendo un bisogno assoluto, una dipendenza totale.
La loro vita si era trasformata ben presto in quella di randagi con l'unico pensiero della prossima dose, perdendo ogni controllo sul mondo che li circondava.
Jared diventò incostante, inaffidabile sul lavoro, e l'unica soluzione che trovarono fu quella di rubare, iniziarono a entrare nelle case, e a combinare discreti casini.
Un clima di sospetto li avvolgeva, nessuno si fidava più di loro e questo umiliava e distruggeva Jared più di ogni altra cosa, forse anche più dell'eroina.
Così prese la decisione.
La comunicò a Shannon mentre stava entrando in un locale, e invece lui ne usciva incamminandosi in una strada buia di New York.
Aveva deciso di partire, era stanco disse, voleva andare al caldo della California e tentare la strada del cinema, dove non sarebbe stato giudicato oppure rifiutato da chi lo riteneva una presenza imbarazzante.
Shannon era quasi certo che la decisione, avesse a che fare con Cora e con l'assegno che il padre di lei gli aveva offerto per togliersi di torno alla figlia.
Aveva preso una decisione vera e definitiva, andarsene per non specchiarsi negli occhi di lei, per non vedere il modo in cui lo guardava suo padre, per cui era solo un drogato e un fallito.
Fino ad allora erano stati inseparabili lui e Shan, ma Jared all'improvviso aveva deciso di prendere una strada diversa: doveva sparire, togliersi di mezzo, per il bene di tutti, per la sua sanità, per il suo equilibrio, per la sua dignità.
In California si ripulì dalle sue dipendenze e delle sue paure.
Divenne un incantatore di serpenti, distrusse la sua timidezza, e senza scorciatoie o soluzioni semplici guardò in faccia la realtà, si rimboccò le maniche e accettò qualunque lavoro gli proponessero.
Con occhi aperti non permetteva a nessuno di approfittarsi della sua ingenuità, la nascondeva dietro miliardi di corazze, non si faceva ingannare da discorsi che cercavano di plagiarlo.
Era la dimostrazione vivente che si poteva arrivare in cima senza compromessi, semplicemente lavorando come un mulo, e Jared non dormiva neppure la notte per pensare a fare soldi.
Gli voleva un bene dell'anima anche se non parlavano molto, erano troppo diversi, ma avevano comunque uno splendido rapporto.
Se Shan gli consigliava qualcosa, a Jared entrava da un orecchio e gli usciva dall'altro, ma lo amava e si sarebbe dannato per lui e la cosa era assolutamente reciproca.
Nessuno gli toglieva dalla testa che quel carattere d'acciaio di Jay, quella voglia di arrivare a tutti i costi, quella rabbia che ancora a stento riusciva a domare, era dovuta all'abbandono e poi alla morte del padre. Era stata la chiave, l'elemento scatenante di un bisogno di rivalsa contro un destino che sembrava già segnato.
Jay era un guerriero che non arretrava mai.
La sua guerra l'aveva combattuta giorno dopo giorno: per vincere la diffidenza, la solitudine di chi decide di andare avanti a ogni costo e senza mentire.
Aveva rischiato di tutto facendo esperimenti, alcuni più pericolosi di altri, convinto ne valesse sempre la pena, facendo i conti con la parte oscura di lui, anche a costo di rischiarci la pelle.
Apriva gli occhi la mattina ed era pronto a correre, dove non importava, un traguardo lo attendeva comunque.
Guardò un attimo Cora mentre s'infilava il cappotto e si apprestava a uscire dal Sarabeth, con sguardo adombrato si domandò se fosse la scelta giusta rimetterla sulla strada di suo fratello, c'era il rischio che nella sua corsa la travolgesse... eppure qualcosa gli suggeriva che forse, per lei, avrebbe rallentato. Lo sperava.
Si alzò a sua volta, indossò la giacca, il cappello e dopo aver pagato il conto la raggiunse.
Con un sospiro aprì la porta e immediatamente una sferzata di vento gelido, aria fredda e umida gli colpirono la faccia.
Fu quasi uno shock passare dal caldo del locale alla temperatura esterna, notevolmente scesa.
Guardò il cielo limpido, azzurro intenso.
La sentì rabbrividire, ma nonostante questo, dire comunque: «Possiamo fare una passeggiata».
Shannon tirò fuori le mani dalle tasche, la circondò con le spalle facendole spazio sotto la giacca e lei si raggomitolò aspirando il profumo di cuoio. Il calore di Shannon le diede sollievo.
«Hirst ha lo studio ad almeno sedici isolati da qui e stai già morendo di freddo. Meglio prendere la macchina, la passeggiata la faremo la prossima volta”.
Cora scosse la testa domandandosi quando mai avrebbero avuto un'altra possibilità, poi sollevò lo sguardo a cercare gli occhi di lui e arrendendosi annuì.
Shan le diede un colpetto sulla sommità del capo facendo un largo sorriso.
«Mi piace quando sei ubbidiente», era di nuovo sereno, senza più ombre.
Cora alzò gli occhi al cielo e orgogliosamente avvicinò il viso al suo collo strofinandogli le mani contro l'addome: «È solo il freddo che mi fa venire a patti».
Ridacchiò e Cora rispose con un largo sorriso. Pace era stata fatta!
Era la cosa più bella di Shannon, soprattutto per lei che non faceva che combinare pasticci: perdonava subito.
Svoltato l'angolo però, con sorpresa, si accorse che il suo corpo senza preavviso né apparente motivo, s'era irrigidito sotto i palmi.
Cercò i suoi occhi e notò che aveva lo sguardo puntato sull'altro lato della strada.
Seguì la traiettoria e si accorse di un gruppo di fotografi che scattavano foto come impazziti.
«Spuntano fuori dal nulla. - le disse con un sospiro pieno di disagio - Secondo me escono direttamente dal suolo».
Inforcò velocemente gli occhiali scuri e calcò il cappello più in profondità mentre aggiungeva: «Ti comunico che da oggi sei ufficialmente la mia nuova ragazza o passatempo, a seconda di chi scriverà l'articolo».
Cora nascose il viso contro la sua spalla e lo strinse un po' di più: «Baciamoci, gli daremo la notizia esclusiva del giorno».
Shan la fissò, ma quando vide la sua faccia si rese conto che lo stava prendendo in giro.
Aveva un'aria così stranamente divertita che lui le rispose allo stesso modo: con un sorriso storto. Ma fu un istante, subito dopo assunse un'espressione seria e lei trasse la conclusione che la leggerezza era finita o almeno era stata accantonata.
La stava esaminando a fondo, con riflessiva serietà.
Non poté stabilire cosa si muovesse nella sua testa, ma immaginò fosse sincero quando disse: «Credo che qualcuno arriverebbe a uccidermi per una cosa del genere».
«Sei innamorato?», esclamò con stupefatta contentezza.
Aveva temuto che quel momento non sarebbe mai arrivato per lui: che non avrebbe mai avuto voglia di affidare la sua vita a qualcuno. 
Che come lei, si fosse arreso all''evidenza che l'amore era solo una bugia.
Che si sarebbe accontentato del surrogato di ragazze fin troppo giovani e che evaporavano dalla sua esistenza più in fretta delle buone intenzioni.
Era felice che le cose fossero andate diversamente.
Lui però la guardò con sconcerto come se gli avesse appena mostrato un serpente a sonagli e Cora capì di aver sbagliato su tutta la linea.
«Ma che vai dicendo?», le domandò intanto che i fotografi li costringevano ad affrettare il passo.
«Scusami, ma hai detto che ci sarebbe chi ti ucciderebbe se mi baciassi, e ho pensato avessi qualcuno... », si giustificò con il fiato corto, mentre lottava per stargli dietro.
Shan buttò fuori l'aria che aveva trattenuto e fece una risata serena: «Hai pensato male».
I fotografi riuscirono a raggiungerlo bloccandolo da più lati, e lo tempestarono di domande che lui schivò aprendo la portiera a Cora, per poi entrare rapidamente dal lato guidatore.
«Schifosi paparazzi. - farfugliò a denti stretti per non far vedere loro il labiale, mentre a tutta velocità, metteva in moto e partiva. Alzò leggermente gli occhiali per guardarla - La tua reputazione, è rovinata per sempre ora che ti hanno vista con me», sorrise mortificato.
Lei alzò le spalle con disinteresse. Il sedile riscaldato le stava togliendo un po' del freddo entrato fino alle ossa, e al momento era l'unica cosa che riteneva degna d'importanza.
«Sei sempre restia a usare i social network vero? Niente Twitter?», domandò lui come se seguisse un incomprensibile logica.
Cora lo guardò aggrottando la fronte: «Uso solo Fecebook per rimanere in contatto con altri pittori della galleria, ma molto raramente. Mi annoia. Perché me lo domandi?».
«Bene...», rispose mentre imboccava la Greenwich Ave.
«Mi vuoi spiegare il motivo di questa strana domanda o devo tirare a indovinare?».
«È solo che... ecco... ho delle fans piuttosto apprensive che hanno l'abitudine di usare twitter per esprimere il proprio dissenso alle donne che frequento».
Cora scoppiò a ridere: «Ma sul serio? Devo aspettarmi insulti pesanti?».
Shan sorrise: «Pesantissimi».
«È questo uno de “i prezzi da pagare„ a cui ti riferivi prima?».
«La tua vita privata viene sventrata e non appartiene più a te stesso. Io ormai ho fatto il callo, ma mi dispiace per chi si ritrova immischiato nel mezzo a causa mia».
«Non ti preoccupare troppo. Siamo tutti adulti Shan, e non sei responsabile del modo in cui gli altri si comportano».
Togliendo una mano dal volante le mise il braccio intorno al collo e l'attirò a sé: «Ma tu sei la mia piccola, la mia principessa. È normale che mi preoccupi».
Lei gli rivolse un lieve sorriso.
«Ho una reputazione così immacolata che sporcarla un po' non potrà che farle bene».
Lui alzò un sopracciglio e tornò a mettere la mano sul volante.
«Quanto immacolata?», le rivolse un sorriso storto e lei avvertì una punta improvvisa d'insicurezza.
«Meglio non affrontare l'argomento. Potrei sconvolgerti», ridacchiò nervosamente.
«Devo trovarti un uomo», disse con voce grave, abbandonandosi sullo schienale con lo sguardo fisso sulla strada.
«Lo farei fuggire gambe levate».
A lui venne la faccia da mascalzone.
«Ne ho uno che non scappa davanti a niente».
«Sono un tale disastro che farei fuggire anche lui», rispose lei guardando fuori dal finestrino mentre la velocità dell'auto diminuiva, e il susseguirsi rapido di alberi e case tornavano a essere delle forme distinte.
Shannon accostò, parcheggiò sulla five th ave, davanti l'arco del Washington Park, e la fissò con sguardo tranquillo. Le poggiò la mano calda sulla guancia e le sorrise.
Lei non riuscì a spiegarsi esattamente la sensazione, ma tutto d'un tratto le era balenato la consapevolezza sfuggente che lui avesse preso una decisione definitiva.
Il suo pensiero andò subito allo strano turbamento provato quando, appena arrivata all'appuntamento, lui l'aveva guardata con aria altrettanto strana. La percezione che avesse qualcosa in mente l'aveva perseguitata tutto il tempo in cui erano rimasti al Sarabeth, ma poi i loro discorsi, l'arrivo di Jared, non le avevano dato modo di ragionarci troppo su.
Non era sicura se stava lavorando di fantasia oppure no, ma sapeva che Shan in alcuni momenti la guardava con un'intensità particolare, e che una qualche considerazione, come un'ombra, attraversava il suo sguardo. Solo che lei non riusciva a determinare quale fosse.

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Capitolo 6
*** cap-6. La sfida ***



Eccomi finalmente con un nuovo aggiornamento. 
Influenza, tecnologia avversa, impegni e pigrizia mi hanno tenuta lontana per un po'... ma ecco che sono riuscita a consegnarvi un'altra piccola parte di questa FF.
Prima di tutto voglio ringraziare una persona gentilissima che ho conosciuto per mezzo di questa storia e con la quale mi sono divertita a vaneggiare insieme :) Elena <3

                                                      


                          La sfida




A Shannon piaceva New York. 
Accusava il fascino insano del fisiologico squallore proprio dei suoi edifici che si manifestava con una coerenza impressionante in ogni singolo dettaglio.
A suo giudizio, rappresentava alla perfezione l'avamposto della cruda realtà, con tutte le rogne del caso.
Era un luogo dove c'era sempre una luce accesa da qualche parte e sempre qualcosa da fare, anche se non sempre questo qualcosa si poteva definire ‘legale’; una città che regalava una sferzata d'energia immediata, anche se poi, non faceva mai fare la somma di quanta in cambio ne togliesse; che gli sapeva dare la pacificante consapevolezza, d'essere nel posto giusto al momento giusto.
Rallentando il passo, con calma guardò la strada dinnanzi a sé seguendo mentalmente la precisa destinazione che aveva in testa; lo studio di Hirst non era lontano, ma le case universitarie intorno al Washington Square, di una democratica uguaglianza, rendevano abbastanza facile confondere i punti di riferimento e ci voleva un nulla per trovarsi da tutt'altra parte.
Lanciò la sigaretta facendola seguire dall'ultima boccata di fumo e diede un'occhiata a Cora che silenziosa camminava a suo fianco.
Più s'avvicinavano alla meta, e più lei si gonfiava d'orgoglio come un soldato pronto allo scontro.
Cos'era che cercava di combattere con quell'aria fissa, intenta e silenziosa? C'era davvero bisogno di dirlo?
La sua guerra personale aveva un nome, un cognome e una data di nascita che lui conosceva fin troppo bene.
Era soprattutto un rimpianto quello contro cui combatteva: l'amore che Jared le aveva negato, la forza che lei non aveva avuto, e la somma di ciò che non era riuscita a ottenere da suo fratello e da se stessa la vestiva di dignitosa ribellione.
Aveva seppellito ricordi importanti, coperto il fallimento sminuendolo, mettendo in luce solo le incapacità di Jay, le sue debolezze. Tutto questo, per non soffrirne la perdita.
Un giorno, con metodica consapevolezza, aveva deciso di non versare più una lacrima per lui e di chiudere per sempre.
Le donne erano fatte così... potevano occorrere mesi, anni, prima che arrivassero a tagliare fuori un uomo dalla propria vita, ma quando accadeva bastava un secondo per agire e passare dal pensiero ai fatti.
Se anche le avesse dato tutto a quel punto: amore, cuore, musica, anima, pazienza, Jared non sarebbe mai riuscito ad ammorbidirla, perché non sarebbe mai stato in grado di cambiare ciò che non voleva più essere cambiato.
«Dimmi che non hai intenzione di mantenere quell'espressione tutto il pomeriggio», le disse con tono leggermente seccato, come già intuisse la risposta.
Era abbastanza comune che tra due persone con molto da chiarire ci fosse uno scontro di personalità, ma tutto questo veniva amplificato in lei, assumendo l'aspetto esagerato di una tragedia senza soluzione.
Shan non aveva rimedi, solo una piccola idea che poteva rivelarsi il peggiore dei disastri o il migliore dei successi, questo dipendeva molto dalla fortuna.
Lei cercò un rifugio in un atteggiamento ironico che però non ne mascherò il disagio: «Non avevo voglia di venire, sei tu ad avermi costretta! E comunque non ho idea di quale espressione tu stia parlando», concluse rivolgendogli una smorfia.
Shannon sorrise e non rispose; temeva che se avesse detto qualunque cosa sarebbe finito con il ridere della sua posa da guerriera; alzò invece il volto al cielo per farsi accarezzare dai raggi del sole che riempirono i suoi occhi di bagliori luminosi, e lo stesso vento che si divertiva a spettinare i capelli di Cora, gli sferzò il viso.
Era il clima che amava: freddo e assolato.
Ci fu un attimo di stallo in cui godette dell'aria pungente, poi disse con un sorriso: «Sei una vera rompiscatole, sai?».
Le vide aggrottare la fronte a quella frase inaspettata e dopo un istante sgonfiarsi di tutto il nervosismo che l'aveva irrigidita fino ad un secondo prima.
Più passavano i minuti, meno a Shan sembrava possibile accettasse l'offerta che era intenzionato a farle.
Si trattava di trovare le parole giuste, quelle alle quali lei non avrebbe potuto dire di no e dopo, in qualche modo, avrebbe trovato i mezzi per arrivare dove voleva arrivare, ma quel primo scoglio lo metteva a disagio.
Non era mai stato particolarmente bravo a fare discorsi e di solito lasciava quel compito a Jared, che al contrario di lui, non aveva difficoltà o incertezze in proposito. 
Purtroppo però, spesso lo faceva anche a caso, e questo inalberava Cora immediatamente. 
Una sua battuta avrebbe fatto naufragare in un secondo qualsiasi possibilità di convincerla.
Si ritrovò involontariamente a storcere la bocca, perfettamente al corrente che delle volte suo fratello era davvero una testa di cavolo.
Era essenziale metterla nell'atteggiamento giusto prima che lo incontrasse e le guastasse l'umore.
Lo sguardo cambiò rotta e si posò sull'arco del Washington Park.
Il centro del piazzale con le siepi e i prati che aveva conosciuto nei giorni della sua adolescenza si estendeva davanti ai suoi occhi nella dolce luce del sole autunnale e, anche se non era proprio come sopravviveva nel suo ricordo, senza pensarci due volte prese la direzione dell'ingresso.
Lei lo osservò incuriosita ma non fiatò mentre lo seguiva, solo l'espressione mutò immediatamente trasformandosi in quella della ragazza più accondiscendente del mondo.
Fu lui a darle una spiegazione anche se non richiesta: «Volevo fare un giro prima di andare da Hirst».
Lei annuì con un cenno impercettibile e gli sorrise.
Oltrepassarono il grande arco in marmo bianco, circondato ai due lati dalla distesa dei sempre verde che preannunciava l’entrata e s'incamminarono lentamente in direzione della piazza.
Il peso e la tensione di cui spesso la città caricava, li abbandonò immediatamente e vennero colpiti dalla sensazione d'essere in una New York atemporale, immobile nella sua velocità.
«C'erano un mucchio di spacciatori in questo parco quando lo frequentavo io», disse quasi tra sé, osservando gli anziani che giocavano a scacchi e i bambini che correvano intorno la fontana.
«E tu li conoscevi tutti», rispose lei dopo una breve pausa di valutazione.
Si accomodò sulla fredda panchina in pietra arenaria e alleggerì lo sguardo eloquente con un sorriso. 
«Comunque da secoli, il parco è stato ripulito».
Lui rispose al sorriso.
«Sono indubbiamente vecchio».
Sospirò passandosi la mano dietro la nuca, e le sedette accanto.
«Piuttosto...» - buttò la frase con noncuranza - «Non te l'ho ancora domandato. Come ha accolto Oliver il tuo successo in campo artistico? È orgoglioso della tua esposizione?».
Non volle confessarle d'essere andato a trovarlo allo studio quella mattina. 
Preferiva rimanesse un piccolo segreto tra uomini, perché gli era parso d'intuire che Oliver gli avesse affidato un pezzo di cuore da custodire in quelle confidenze fatte.
«Sai com'è mio padre...».
Le parole uscirono dalle labbra di Cora amare e riluttanti.
Non parlava mai di Oliver se non in termini vaghi, e Shannon si domandava se quei silenzi nascondessero una nostalgia struggente, simile a quella che provava anche lui, che nei suoi racconti d'infanzia non parlava mai del padre o della sua completa assenza. 
«So com'è tuo padre» - rispose sorridendole amaramente - «ma so anche come sei tu».
Shan le aveva insegnato ad andare in bicicletta senza mani, a far volare gli aquiloni al Central Park, le aveva impartito le prime lezioni di guida, tutte cose che avrebbe dovuto fare con Oliver che invece non era mai presente nelle tappe fondamentali della figlia, e questo lei non glielo aveva mai perdonato.
Per non incontrare il suo sguardo, Cora lo posò in direzione di uno scoiattolo che si stava arrampicando sull'albero.
«Facile per te parlare. Non hai certo dovuto passare la vita a combattere contro le sue pretese e convivere con il fatto di non arrivare mai».
Come poteva darle torto? Ma come poteva darle ragione?
«Avessi avuto un padre, con o senza pretese nei miei confronti, di certo non avrei perso il mio tempo a combatterci», le disse guardandola con severità.
Lei restò in silenzio, consapevole di non esser sola nel suo carico di tristezza.
«Non intendevo... » - lo guardò - «Deve essere stata dura per te, Shannon».
Lui scrollò le spalle.
«È dura per tutti Cora» - si sporse in avanti e poggiò i gomiti sulle ginocchia - «Forse anche per tuo padre. Ci pensi mai?».
Una contrazione veloce del labbro si trasformò in una smorfia. 
«Indubbiamente gli ho reso le cose difficili. Non sono un risultato di cui va fiero».
Shannon le diede un colpo leggero con la spalla, e le accennò un sorriso come ulteriore patto d'amicizia: «Io sono fiero di te».
Ridacchiò a testa bassa: «Anch'io lo sono di te».
Lui guardò lontano, verso un orizzonte che non sembrava vedere.
«Ne so qualcosa di mandare all’aria destini già scritti e d'inseguire utopie, ma quando si intraprende quella strada, bisogna accettare che certe nostre scelte potrebbero venir meno alle aspettative degli altri. Quel che conta, è mantenere intatta la nostra anima e, prima o poi, chi ci ama capirà».
Lei rifletté per un momento e poi gli strinse delicatamente il palmo. 
Sorrise leggera, senza convinzione: «Mi auguro tu abbia ragione».
Le sembrò bellissima e sensibile, e ferita dalla pena che la coglieva quando temeva d'aver perduto qualcosa di molto caro. 
Distolse gli occhi dai suoi, e immediatamente dopo sentì il calore umido delle labbra di Cora sulla guancia.
Gli occhi tornarono su di lei, soffermandosi a studiarla e sembrò di vedere due volti: il primo ricordo che aveva della ragazzina, così come l'aveva conosciuta, e un secondo che si trovava in superficie, da donna. 
Non era la prima volta che succedeva. 
Durava per una frazione di secondo, ma abbastanza per lasciargli vivere l'esperienza un po' bizzarra del tempo annullato.
«Ehi, certo che ho ragione! Io ho sempre ragione. E per dimostrarti quanto credo in te» - fece una pausa nella quale colpì le ginocchia con i palmi, producendo un suono secco - «voglio commissionarti un dipinto».
Non reagì subito, rimase a guardarlo un attimo. 
Era la prima volta che Shan esprimeva il desiderio di avere un quadro dipinto da lei.
«La ragazza che sogna e ti assomiglia... l'ho visto in galleria», proseguì deciso spiazzandola.
La ragazza di cui stava parlando, dormiva in posizione fetale e aveva un demone che le volteggiava sopra con le braccia protese... sembrava volesse afferrarla dall'alto...
Adesso che Shan però le aveva fatto notare la somiglianza più o meno reale con se stessa, per associazione d'idee avrebbe potuto dire che il demone assomigliava a Jared.
Non era stato assolutamente voluto, era stato semplicemente il caso ad averle giocato un brutto scherzo quando lo aveva dipinto. 
«Non mi somiglia...» - rispose incerta. Poi aggiunse convinta - «Posso dartelo appena finisce l'esposizione. Non è stato venduto».
Alla luce degli ultimi fatti preferiva sbarazzarsene, e se questo rendeva felice Shan, meglio che mai.
Avrebbe dovuto aggirare i vincoli di vendita privata che le aveva imposto la galleria, ma non sarebbe stato difficile...
Lui però scosse la testa: «Voglio sia molto più grande».
Cora alzò un sopracciglio con sguardo interrogativo. Il quadro al Gladstone superava i due metri, non era affatto piccolo: «Quanto di più?».
Shannon fece un ampio gesto, allargando le braccia con disinvoltura, come immaginasse d'averlo davanti: «Tutta una parete. Si tratta di un regalo che vorrei fare a Natale», sembrava piuttosto compiaciuto all'idea.
Conosceva bene la generosità del suo amico, lei stessa era stata più di una volta beneficiaria dei suoi doni.
Prese tra le dita lo splendido ciondolo a forma di lacrima dal quale non si separava mai, e che le aveva regalato l'anno prima.
Niente di più normale quindi, che facesse le cose in grande.
Natale... fra sei settimane: «Ti rendi conto del lavoro impegnativo che mi chiedi con così poco preavviso?».
Era restia, ma non gli aveva detto immediatamente di no. Questo fece nascere dentro di lui la forza corroborante di un piccolo ottimismo.
Quando le parlò, la sua voce era provocazione mascherata d'innocenza: «Quindi è un sì?».
«Mi stai mettendo in seria difficoltà».
«Pensaci su. Hai tutto il tempo», le diede un buffetto sulla guancia e lei lo fissò con sguardo imbronciato, ma senza rimprovero.
«Non molto, a quanto sembra».
Chiuse la bocca in una piega indecisa: di solito si sarebbe informata sulla reale dimensione, sulla tecnica da usare, avrebbe contrattato il prezzo per essere certa che tutto fosse chiaro e trovarsi poi con pretese che non era in grado di soddisfare; ma Shannon era un caso speciale per un mucchio di ragioni. Era il suo più caro amico e qualunque condizione le avesse posto non avrebbe potuto negargli nulla. Lo sapeva lei e lo sapeva anche lui.
Un mese. Pochissimo, per un quadro che si prospettava dalle dimensioni enormi.
Shan le diede il colpo di grazia: «Ci terrei davvero molto».
Non che ne avesse intenzione, ma sarebbe stato difficile dirgli no e non sentirsi un verme dopo quella dichiarazione. 
Sospirò: «Non ti preoccupi nemmeno di domandarmi se ho altri impegni da rispettare, se ho altre commissioni».
Shan cercò di nascondere un mezzo sorriso: «Ne hai?».
«Mi sto quasi offendendo! Certo che ne ho. Devo consegnarne una tra una settimana».
Lui esibì un'espressione innocente, come si faceva davanti all'ovvio: «Posso aspettare sette giorni...».
Restò in silenzio e lui si rese conto che stava valutando l'opportunità... era già così difficile da convincere, e non conosceva ancora la parte peggiore dell'accordo.
«Sì o no?» - incalzò lui decidendo che era il momento di metterla alle strette - «Ti offro un lavoro e fai la preziosa!? Cos'è, sei diventata tanto famosa che non puoi degnarti d'accettare una commissione da un amico?».
«Non è vero» - rispose sentendosi rimproverata ingiustamente - «Sai benissimo che lo farò... è solo che mi piacerebbe avere maggiori ragguagli, oltre a lamentarmi del fatto che mi lasci davvero poco tempo per ciò che chiedi...».
«Hai detto un sì. Non fare storie».
«Quantomeno sulla dimensione vorresti non essere vago? Dovrebbe avere la misura di una parete modesta o di quella di un salotto? Varia molto, sai?»
«Ovvio che lo so! Diciamo sette metri».
Lo guardò inquieta: «Tu sei pazzo».
«Cinque?».
«Shannon ti prego, sii serio!».
«Ok. Quattro e non ne parliamo più».
Era la contrattazione più assurda che le fosse mai capitata. Ma di cosa si sorprendeva? Era con Shannon che stava parlando.
Prese il cellulare dalla borsa intenzionata a chiamare immediatamente il fornitore di tela e il falegname perché preparasse il telaio il prima possibile.
Lui la bloccò: «Tranquilla. Non dev'essere su tela».
Cadde per qualche istante il silenzio, una pausa durante la quale lo osservò: «Ok» - spense il cellulare e lo ripose, in attesa che l'amico si decidesse a darle spiegazioni - «Ti ascolto».
Ma lui non sembrava intenzionato ad articolare meglio il suo pensiero.
«Parliamone dopo con calma. Ti dirò bene cosa voglio ma non ora. Adesso godiamoci il parco ancora qualche minuto, e non preoccuparti troppo della data di consegna. Se ci vorrà più di un mese aspetterò. Non ti farò certo questioni per una o due settimane».
«Hai detto che è un regalo...», rispose dubbiosa.
Argomento delicato...
Cercò d'anticiparne la conclusione prima che lei arrivasse a intuire troppo, perché in quel teatro che era diventato la testa di Shan, gli atti dovevano susseguirsi in un ordine preciso d'informazioni centellinate.
«Andiamo ad ascoltare il tizio che sta suonando il pianoforte?», la esortò, sentendo nell'aria le note di una musica dolce.
Lo guardò come fosse matto, ma poi sospirò e si lasciò condurre in direzione della musica, un suono sommesso, una melodia ripetuta che cresceva e si addensava man mano che s'avvicinavano.
Sorrise osservando Shan che memorizzava l'esibizione sull'iPhone, così lontano da lei nella sua concentrazione e, anche se un poco le dispiaceva sembrasse tanto distante, lo trovò incredibilmente bello perso nella musica, in un potere d'attrazione che lo confinava nella solitudine più assoluta.
C'era in quel momento qualcosa di lui che le ricordava Jared, anche se i due erano lontani mille miglia l'uno dall'altro, sia come personalità che come aspetto fisico, e per un attimo si chiese, se in altro tempo senza che ci fosse stato Jay a ottenebrarle la mente e il cuore, fra lei e Shannon sarebbe potuto nascere qualcosa.
Preferì non dare una risposta inutile a una domanda altrettanto inutile e continuò semplicemente ad osservarlo, godendosi quel momento.
Si rese conto che lo stava guardando con aria affascinata solo quando lui si voltò verso di lei, e allora tentò di comporsi rapidamente, ma ormai l'aveva vista.
Le sorrise.
«Ho ancora l'abitudine di registrare e catalogare qualunque suono mi piaccia».
Dotato di una memoria musicale formidabile, bastava ascoltasse anche solo una volta la sonorità che aveva destato il suo interesse, perché riuscisse a riprodurla con la batteria senza alcuna difficoltà.
Suonare d'istinto, a orecchio, seguendo il ritmo del cuore, rimaneva ancora il suo metodo preferito per creare musica.
Soddisfatto della registrazione ottenuta, uscirono dal parco e si avviarono in direzione dello studio di Hirst.
In silenzio, assorbiti dai loro rispettivi pensieri, arrivarono all'incrocio nel quale confluivano le due arterie principali della città e dove, era ubicata la palazzina a due piani che l'artista utilizzava come studio. 
Immobile ai piedi dei gradini, Cora rimase qualche secondo assorta a guardare lo stabile tinteggiato di rosso veneziano e il portico bianco che aveva di fronte. 
Accigliata fece un sospiro di accettazione e Shan, che interpretò quell'indugio come un nuovo tentativo di fuga, le afferrò un polso per tirarla lungo le scale, fin davanti l'ingresso.
«Ci tratteniamo poco vero?», disse lei mentre l'amico premeva il campanello.
In risposta lui scrollò le spalle, per nulla scoraggiato dalla sua mancanza d'entusiasmo.
«A meno che non ti vada di rimanere».
Fece una pausa scrutandola.
«Temo sia impossibile che questa eventualità si realizzi. Ho promesso che ti avrei accompagnato, non che questo mi sarebbe piaciuto».
Lo guardò negli occhi finché lui alzò le braccia in segno di resa.
«Va bene ho capito» - disse strizzandole un occhio - «Non puoi rimproverarmi d'aver almeno tentato».
Cora girò la testa a guardare il traffico ancora incerto del primo pomeriggio. «Continua pure a tentare, ma senza di me».
Shan rise divertito, poggiando la spalla contro lo stipite del portone che in quello stesso lasso di tempo venne aperto. 
L'assistente di Hirst, un uomo orientale, magro, arcigno, stranamente alto per la sua etnia, guardò da prima Shan che riconobbe senza difficoltà, e l'attimo seguente posò gli occhi su Cora.
Si fece di lato perché entrassero.
«Il maestro vi attende».
Una volta varcata la soglia, prese in consegna i loro soprabiti e fu tutto.
L'accoglienza era stata quella che si trovava entrando in un congelatore ad alta pressione, dove un gelo invisibile penetrava a viva forza nei polmoni, e fece chiudere Cora nel guscio come un mitilo su cui veniva spremuto del limone.
L'assistente li guidò precedendoli in un lungo corridoio fino a raggiungere un unico passaggio blindato.
Nella parete di fronte a loro si trovava il boccaporto di una cassaforte della grandezza di una porta, con due volantini enormi che lo facevano somigliare al portello di un caveau di una banca.
L'assistente di Hirst lo spinse; doveva essere pesante, ma nonostante questo scivolò senza fare resistenza.
Appena ne varcarono la soglia si trovarono in una stanza bianca, asettica, essenziale.
Al centro, immersi in quel chiarore, circondati da opere d'arte, vide i profili opalescenti di Jared e Damien.
Lì davanti a loro Jay era tre persone in una.
Era l'uomo che Cora ancora detestava e la faceva rodere di un'ansia incapace di dominare.
Era il fratello che Shan adorava.
Era il grande attore, il cantante, la star internazionale al quale non veniva mai negato niente, neppure il tempo prezioso di Hirst.
Appena li vide entrare, ne divenne una quarta: era il bambino che voleva mostrare un gioco al quale desiderava ardentemente farli partecipare.
Fu quest'ultima persona che in uno slancio improvviso sorrise in loro direzione facendo segno perché si avvicinassero.
Cora emise un sospiro pesante e per un attimo lo fissò senza espressione o amicizia nello sguardo. 
Shan le bisbigliò all'orecchio: «Tranquilla. Per quanto tu sia appetitosa, non ti mangeranno».
Ma lei non ne era sicura.
La fiducia era un lusso che Cora, ne era convinta fin nel profondo del cuore, non poteva permettersi con Jay. Non in questo mondo.
Si sentì sezionata mentre percorrevano quei pochi passi che occorrevano a raggiungerli, e quando gli fu di fronte sorrise fredda in modo che quel sorriso non gli fosse d'incoraggiamento. 
«Alla fine siete venuti. Come è riuscito Shannon a trascinarti fin qui?», domandò lui.
«Mi ha lanciato una sfida», rispose di pessimo umore.
Jared rise senza spontaneità, lasciando che sulle labbra per qualche secondo continuasse ad aleggiare un sorriso ironico: «È ancora così facile menarti per il naso?».
«Solo per Shan», pronunciò guardandolo dritto negli occhi.
Jay continuò a sorridere, e convinto com'era che lo scherno parlasse per lui, diresse lo sguardo in direzione del fratello, senza dire nulla e senza più interesse.
Cora che aveva familiarità con quel continuo pendolo che in lui oscillava fra concedere attenzioni e noia, capì immediatamente che si era preso il vantaggio di mostrarle indifferenza. 
Era una sua tecnica ben collaudata per far sì che una donna si dannasse nel tentativo d'ottenere un briciolo d'interessamento da parte sua, e se anche Cora lo sapeva, ogni volta riusciva a farla sentire comunque come una bambina bisognosa d'approvazione. 
Vedeva la trappola, ma ci cadeva comunque.
«Bella maglia» - disse con sarcasmo - «Infestazioni di topi a casa tua?», aggiunse dando uno sguardo distratto alla sua blusa bucata.
Lui le rivolse un mezzo sorriso: «Oh... molte grazie. Anche tu sei estremamente elegante», rispose senza scomporsi.
Cora con una smorfia volse lo sguardo altrove, e ci fu un silenzio durante il quale gli occhi di lei si rifiutarono di incrociare quelli di Jared.
Per quanto però cercasse di mantenerli inespressivi, il suo linguaggio del corpo era palesemente sulla difensiva.
Lui le si avvicinò all'orecchio facendola trasalire: «Non mordo, Coralline» - disse piano - «Non c’è bisogno che fissi il muro per evitare il mio sguardo».
Il viso le prese fuoco.
«Fai meno il presuntuoso Jared», lo guardò con occhi socchiusi in modo minaccioso, e lui si limitò ad allargare il sorriso.
Cora fece velocemente un passo in avanti, ben decisa a non rivolgergli più la parola e diresse la sua attenzione su Shan che nel frattempo stava stringendo con forza la mano di Hirst. 
Quest'ultimo lo ricambiò con un tale vigore, che lei temette di riflesso per il suo palmo: se quando fosse stato il suo turno, il “maestro” glie l'avesse stretto con quella forza, c'era la seria possibilità glielo riducesse in briciole.
Sussultò quando sentì il braccio di Jared intorno la vita e, sulla sua pelle resa sensibile dal freddo, il calore di quel tocco fece raddrizzare i peli come aculei, ma sarebbe morta piuttosto che fargli capire che quel tocco le bruciava come un'ustione.
Lui l'attirò ancora più a sé, togliendola alla portata di Hirst che già protendeva la mano.
Lo guardò un'istante, sorpresa da quell'atteggiamento possessivo, ma per quanto nei suoi occhi sembrava ci fosse inquietudine, il suo tono fu disinvolto come sempre: «Damien, lei è l'artista di cui ti ho parlato. I suoi lavori erano in galleria. Ricordi?».
Cora non voleva e neppure poteva immaginare cosa si fossero detti Damien Hirst e Jared sul suo conto.
Il maestro la esaminò a fondo, con piglio autoritario, era basso ma si sentiva un gigante, il suo ego lo sollevava di parecchi centimetri da terra facendolo apparire esattamente quello che era: un piccoletto su un piedistallo già sgretolato.
Alla fine le sorrise, ma senza calore, e assomigliava più alla smorfia ironica di un alcolizzato.
«Ah, sì.» - le diede le spalle e con un gesto ampio della mano indicò le sue opere - «Che ne pensa, mia giovane artista?».
Era chiaro che lo studio era il suo santuario dove ricercava devozione. Privato, come i suoi conti in Svizzera.
Cora percepiva che avrebbe dovuto sentirsi onorata, che lui lo pretendeva, che probabilmente prima di lei, in molti lo erano stati, ma per quanto cercasse di scavare a fondo non sentiva assolutamente niente che potesse essere lontanamente interpretato come ammirazione.
Anche se qualcosa le diceva che il grande artista stava cercando di ammortizzare il suo debito nei riguardi di Jared concedendo attenzioni a lei, per educazione avrebbe dovuto pur dire una frase di circostanza. Frase che però non arrivava.
Ferma e silenziosa in mezzo la stanza bianca come la via lattea, era solo felice che Damien non vedesse la sua espressione confusa.
Guardò Jared di sbieco e lo intravide sorridere.
«Se non gli dici qualcosa tu, parlo io e non censuro quello che penso», bisbigliò, irritata da dover dipendere dal suo aiuto.
Il sorriso dell'uomo si allargò. 
Era divertito e non faceva niente per nasconderlo, poi lo vide trarre un ampio respiro come quando decideva di scendere in campo.
Nella concessione che le stava facendo, Cora era certa avesse giocato un pizzico di narcisismo.
Jared era pienamente consapevole delle sue capacità dialettiche, ne andava orgoglioso, e mostrare la sua abilità era un'occasione troppo ghiotta perché potesse rinunciare.
Su poche cose lei riteneva si potesse fare affidamento quando si trattava di lui: vanità e orgoglio.
«Damien le prime reazioni ai tuoi lavori sono il silenzio e la paura, per questo Cora tace. La stessa paura che è nemica della vita» - iniziò con calma, sicuro di sé - «Si può essere convinti di tante cose. Ma è solo quando ci troviamo davanti la morte che capiamo se le nostre certezze reggono davvero il confronto. La tua arte ha questo potere: è un inno alla vita per mezzo della sua assenza. Con una sola immagine scuoti qualunque verità e metti di fronte ognuno di noi alle proprie debolezze, più se ne è sconvolti più siamo fragili davanti l'inevitabile. Di fronte ai tuoi capolavori, sarebbe più giusto chiedere che cosa si pensa di noi stessi, perché è come guardarsi in uno specchio che proietta ciò che diventeremo senza appello».
Damien lo guardò soddisfatto, con un leggero sorriso che gli aleggiava sulle labbra: «Bravissimo Jared. Hai capito perfettamente, in pochi ci riescono», si voltò a contemplare le sue opere come se le vedesse anche lui per la prima volta.
Cora sgranò gli occhi incredula e faticò a trattenersi dal rimanere a bocca aperta.
Le stupidaggini che Jared propinava erano senza misura. Ammirò incondizionatamente la sua faccia di bronzo.
«Lodiamo le persone in proporzione alla stima che esse hanno per noi», non poté fare a meno di citare tra i denti. 
Jared le assestò una gomitata nelle costole, e le rivolse un'occhiata tanto significativa da indurla a tacere. 
Cora batté le ciglia con fare conciliante, anche se di fronte a persone piene di sé, e che godevano nell'essere ossequiati, lei si trasformava in un'altra, non resistendo alla tentazione di diventare cattiva. 
Non poteva farci niente, era più forte di lei.
Sorrise, in una generica dimostrazione di buona volontà quando Hirst si voltò nuovamente in loro direzione.
«Quindi anche lei è decisa a entrare in questo sporco e corrotto mondo artistico», le disse il maestro, incoraggiandola a parlare dei suoi interessi.
«Sono cresciuta circondata da opere d'arte, temo fosse inevitabile», disse con semplicità, annuendo leggermente con la testa.
«Il padre di Cora possiede molti dipinti antichi ereditati dai nonni», specificò Shannon.
Vide Hirst illuminarsi in volto: «Davvero? Adorerei poter dare un'occhiata».
Lei sorrise riluttante immaginando suo padre alle prese con Hirst, e probabilmente anche Jared seguì lo stesso filone di pensiero, perché sulle sue labbra apparve un sorriso mefistofelico.
«Lei ha un bell'accento europeo, signorina...?», continuò lui, notando probabilmente solo allora che non conosceva neppure il suo nome.
«Cromwell...», si presentò lei.
«Cromwell... Cromwell...» - rimasticò pensieroso - «Inglese se non sbaglio... c'era un Cromwell del XV secolo che guidò i puritani e la cui statua commemorativa si trova a Westminster...».
«Oliver Cromwell», assentì.
«Quindi è una nobile...».
Come ogni inglese, per quanto innovativo, sembrava particolarmente impressionato da qualcosa che Cora non viveva minimamente come un vanto.
«Sono newyorkese signor Hirst. Qua nessuno fa caso a queste cose».
«Oh, mi chiami Damien se le fa piacere».
Improvvisamente la trovava degna di chiamarlo per nome; era certa che se gli avesse detto chi era suo padre, l'avrebbe eletta amica del cuore.
«Signor Hirst va benissimo», rispose poco disponibile nei riguardi di una proposta che le appariva solo apparentemente sincera.
Lui rise: «Lei è una creatura interessante, signorina Cromwell... davvero particolare».
Jared sorrise attirandola a sé: «Non immagini quanto, Damien».
«È un complimento?», domandò lei dubbiosa.
«Certo che lo è. Il mondo è così pieno di persone facilmente prevedibili, che non vale la pena conoscere», le rispose il maestro.
«Lei non è all'altezza della sua fama signor Hirst, si dice nell'ambiente che sia una persona intrattabile».
Sogghignò divertito e suoi piccoli occhi divennero luminosi: «Oh... divento un vero adulatore quando incontro qualcuno che desta il mio interesse».
Cora si domandò cosa tra, i quadri antichi che appartenevano a suo padre, il suo pedigree, o la statua in bronzo a Westminster del suo avo, l'avesse improvvisamente resa tanto interessante ai suoi occhi.
Forse era stato l'insieme.
Non era la prima volta che accadeva che qualcuno cambiasse atteggiamento nei suoi confronti per quei motivi e, anche se ormai avrebbe dovuto esserci abituata, questo la infastidiva comunque.
«Lei ha un mercato nel mondo dell'arte signorina Cromwell... giovane, di talento, dalle nobili origini... sono cose che interessano il pubblico, dovrebbe sfruttare questo potenziale».
Un bagliore selvaggio tradì nervosismo negli occhi di Cora. Hirst stava veramente esagerando.
«Signor Hirst non ho fatto tanti sacrifici per usare scorciatoie. Se sono arrivata dove sono, lo devo solo a me stessa. Sono i miei quadri ad essere in vendita, non la mia persona».
Lui batté le mani, affatto impressionato: «Ho capito: deve dimostrare a se stessa che non è solo un inutile dignitario annoiato che si dedica all'arte».
Cora si sentì stringere ancora di più da Jared. La conosceva troppo bene perché ignorasse che non avrebbe lasciato impunita una frase del genere, e con tutto il corpo cercava di farla desistere.
Sospirò rassegnata: «Forse, dopotutto lei è davvero lo stronzo che tutti dicono!».
Lui rise: «Lei mi piace signorina Cromwell, mi piace davvero. Senza peli sulla lingua».
Diede una pacca sulla spalla a Jared e gli disse: «Non te la lasciar sfuggire, amico mio».
«Ha equivocato signor Hirst.» - disse lei indurita - «Tra me e Jared non c'è niente».
«Equivocato? Non direi. È abbastanza palese l'attrazione che c'è tra voi, e se non c'è davvero niente come lei afferma signorina, dovrebbe esserci!».
«Ti sbagli Damien» - rispose Jay sciogliendola dall'abbraccio e avvicinandosi all'artista - «La ragazza è davvero troppo complicata, e io ho bisogno di cose semplici. Non ho tempo per altro».
«Facili... volevi dire. L'espressione giusta è “donne facili”, non semplici. Bionde, oche e possibilmente minorenni», fu la risposta pronta di lei.
Shan aggrottò la fronte. 
Ohi, quello era l'equivalente di un colpo nelle palle.
Negli occhi di Jared apparve uno sguardo rude e la voce non mascherò un velo di nervosismo: «E comunque è già occupata con mio fratello».
Cora si risentì rapidamente di quell'insinuazione che non era la prima volta che veniva fuori. 
«Ancora con questa storia? Shan ed io, siamo solo amici. Che tu ci creda o meno».
«Come no!» - strinse le labbra, e fece quello sguardo che lei detestava, quello che propinava quando ascoltava solo se stesso e derideva tutti gli altri - «Anch'io ne ho parecchie di amiche così». 
L’ironia di Jared la mise a disagio. 
La sua voce poteva diventare fredda e tagliente quando voleva. 
Un tempo lei ne avrebbe avuto soggezione ma quel giorno la trovava solamente sgradevole.
Hirst intervenne a smorzare la tensione e disse rivolto all'amico: «Non sempre ciò che è adatto a noi e ciò che desideriamo sono la stessa cosa, fattelo dire da un esperto».
Ci fu lo spazio di un lungo silenzio in cui Jared portò uno sguardo indolente sull'artista. Finché concesse: «Possibile, ma l'opzione non è negoziabile quindi perché porsi il problema».
Alla fine Jared le rivolse un sorriso senza allegria, lanciandolo contro di lei come una sferzata, serio, quasi bruciante.
La sua arroganza fece scattare qualcosa in lei, un'irritazione che cercò di bloccare.
Decise di non raccogliere la provocazione e di non degnarlo neppure dell'occhiataccia con cui avrebbe voluto fulminarlo. 
«Vieni Jared» - disse Hirst - «Ho messo insieme delle stampe che potrebbero piacerti».
Jay annuì deciso, come gli avesse proposto qualcosa che non vedeva l'ora di fare, eppure continuava a fissarla in silenzio e a non muovere un passo.
Alla fine quando l'artista lo sospinse, si diresse con lui verso un espositore dove c'erano diverse litografie.
«Meno male che avevi detto che era cresciuto», disse Cora all'amico quando rimasero soli.
Shannon alzò le sopracciglia divertito: «Mai fatto il suo nome. Parlavamo di Hirst, ricordi?».
Jay e l'artista stavano discutendo dei pregi di una litografia.
«Da quando in qua ti appelli a cavilli?», disse lei leggendo con noncuranza il cartellino del prezzo che faceva capolino da sotto la stampa che Jared teneva sollevata. 
Dovette serrare le labbra per soffocare un sussulto.
Guardò l'amico con espressione interrogativa ma l'altro sollevò le spalle quasi con rassegnazione.
«Lo sai che è sempre stato un appassionato, e adesso che può investire dei soldi sta mettendo su una discreta collezione d'arte».
Lui per un attimo le rivolse uno sguardo concentrato, come cercasse di capire cosa ne stesse pensando e lei si affrettò ad alzare i palmi.
«Non è certo affar mio come spende i suoi soldi».
Shannon sorrise con calma: «In parte potrebbe esserlo».
«Non vedo come».
Lui schiarì la voce e le rughe leggere sulla fronte si approfondirono.
«Hai presente quel quadro su parete che ti ho commissionato?».
«Avevi detto grande quanto una parete, non che dovesse essere dipinto direttamente su un muro...».
Lui ridacchiò e scrollò le spalle come se volesse scusarsi e prenderla in giro allo stesso tempo. 
«Errore mio... ma anche tuo. Avevo precisato che la tela non ti sarebbe servita».
Una pioggia di piccoli dettagli trascurati caddero come lubrificante sugli ingranaggi che aveva in testa. 
«Non dirmi che è per lui».
Shannon sorrise confermando di fatto ciò che temeva e lei scosse la testa.
«Hai deliberatamente nascosto dei particolari che avrebbero potuto influenzare la decisione d'accettare o meno la tua offerta».
«Volevo parlartene con calma, non nascondertelo. So che non vai d'accordo con Jared e temevo che questo potesse condizionarti».
«Quindi dovrei dipingere un quadro su una parete a casa di tuo fratello?».
Annuì: «Esattamente».
Lei sospirò e con un gesto nervoso si mise una ciocca ribelle dietro l'orecchio.
«Shan non sono una bambina. Non hai bisogno di prepararmi a niente, ok? Smettila di essere iperprotettivo. Piuttosto dimmi come ha preso lui la notizia».
«Ancora non sa niente. Aspettavo di avere prima una tua conferma».
Cora fece un mezzo sorriso: «Quindi potrebbe anche rifiutare».
«Non contarci, adorava quel quadro. È stato ore a parlarne con Hirst».
Il viso di Cora divenne inespressivo, incolore: «Ma per quale motivo non posso dipingerlo su tela e poi spedirlo? Che differenza può fare per lui?».
Sospirò. In quale avventura stava per cacciarsi?
Abbandonare New York e andare a Los Angeles per dipingere la parete dell'uomo che detestava, che a suo tempo le aveva spezzato il cuore... con un'esposizione in corso al Gladstone, con l'agenda piena d'impegni, con interviste decisive per giornali del settore nelle prossime settimane. 
Improvvisamente serio, Shan assunse un'aria determinata: «Ti pagherò benissimo e sarà un enorme pubblicità per te».
Pubblicità? Non era solo quello il motore che in quel momento la stava spingendo ad accettare.
Erano la rabbia, le cose irrisolte, la sfida, le cose non dette, la ragazzina che a suo tempo non aveva saputo trattare Jared come si sarebbe meritato, le battaglie contro se stessa, i sensi di colpa, la curiosità, il denaro, la ricerca dei propri limiti, le occasioni e le opportunità perdute. 
Lì davanti a Shan, c'era un'altra Cora in quel momento.
Ripensò al suo passato, era una bambina a quel tempo e i bambini non affrontavano le cose, ma ora era una donna e questo le diede un enorme sicurezza.
Ora la situazione era diversa e avrebbe saputo tenergli testa. 
Per quanto avesse ragioni migliori di allora per cui sarebbe dovuta stare lontana da lui, la vita in quel momento le stava lanciando una sfida. 
Cora non era più una ragazzina innamorata, doveva scegliere se continuare a sfuggirlo e non affrontarlo o finalmente prendere in mano la situazione e dimostrargli che non le importava più nulla. 
«Affare fatto?», disse Shan afferrando il suo palmo con un sorrisetto impudente.
Alla fine, preferì non rispondere e gli strinse la mano.






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Capitolo 7
*** capitolo-7- La partenza ***


             
           
 
Nota dell'autore: come sempre ringrazio chi commenta e segue la storia. 
In questo capitolo vengono descritti gli ultimi preparativi prima di abbandonare New York alla volta di Los Angeles. 
Buona lettura, spero vi piaccia.

                                                                                              -  La    Partenza   -

A Gramercy, in una palazzina bianca che dava su una via tranquilla, Ann stava rosolando la cipolla e l'aglio a fuoco lento, mentre Cora tagliava i pomodori e le carote sul piano della cucina.
Dallo stereo usciva la voce di Billie Holiday e le note di “I’m A Fool To Want You” riempivano la stanza.
A parte poche chiacchiere sul cibo, nonna e nipote non avevano parlato molto, si erano dedicate da subito a preparare il pranzo, seguendo i gesti rituali che da anni le legava l'una all'altra più di qualsiasi discorso.
Ann assaporò la salsa visibilmente soddisfatta di se stessa.
«Che ne pensi?», le porse il mestolo perché l'assaggiasse anche lei.
«Perfetta come sempre», rispose Cora con un sorriso.
Ma Ann scosse la testa, e come si fosse ricordata in quel momento che mancava qualcosa, abbandonò il mestolo dentro la pentola e si diresse verso il frigorifero.
«E così... sei andata a casa di tua sorella a...».
La nonna lasciò la frase in sospeso mentre apriva l'elettrodomestico e rimaneva a guardarne l'interno, in cerca di qualcosa che non sapeva più cos’era.
Cora intuì ciò che andava cercando e prese il concentrato: «... A portarle Seljak», disse terminando la frase per lei e porgendole il barattolo.
Erano passati sei giorni dalla proposta che le aveva fatto Shan nello studio di Hirst, in quel lasso di tempo aveva terminato e consegnato la commissione, svuotato la dispensa, e per ultimo, riportato il cane a Emy.
Rimaneva da mettere le poche, ultime cose in valigia, e sarebbe stata pronta per la partenza.
«Oh grazie», Ann fece un delizioso sorriso.
Sua nonna era una delicata ed elegante signora di ottant'anni, una versione più vecchia e più bassa della mamma di Cora, che portava con grazia le sue rughe e i suoi capelli argentati.
Solo dal tremore alle mani e dal fatto che fosse un po' svampita si capiva che in effetti non aveva più tutte le sue facoltà.
«Come l'hai trovata?».
«Emy? Come sempre. Quando sono arrivata a casa sua stava urlando contro il marito. Tutto nella norma, direi».
Ann scosse la testa e soprappensiero aggiunse il concentrato al sugo.
«Tua sorella è una donna debole che riesce a trovare un’identità solo attraverso un uomo. Purtroppo, ha scelto un uomo davvero pessimo», continuò a parlarle mescolando.
«Dici? Io ritengo l'abbia trovato esattamente come meritava», rispose Cora sorseggiando del vino, quasi certa che il prossimo argomento sarebbe stato la sua piatta vita sentimentale, agli antipodi di quella movimentata di Emy.
Vecchio stampo come tutte le nonne, Ann si era sposata molto giovane, adorava il marito, e non vedeva l'ora che anche Cora avesse la sua stessa vita appagante.
Secondo lei era ora che conoscesse una brava persona, si sposasse, si trasferisse in una casa con giardino e avesse dei figli.
Era la sua idea di “brava persona” a essere confusa.
Non aveva idea del perché nel cuore di Ann fosse rimasto tanto a lungo il suo primo amore adolescenziale: forse perché era diventato un attore, un divo che spesso vedeva in tv e di cui subiva il fascino, forse perché ai tempi della loro relazione, con sua nonna era sempre stato molto gentile.
Qualunque cosa fosse, aveva un debole per Jared, ed era il motivo principale per cui stava evitando di dirle che sarebbe partita a breve: non voleva rischiare che quella deliziosa e apprensiva nonnina, iniziasse a farsi film romantici.
«Tu sei diversa da lei. Nessuno riuscirebbe a metterti i piedi in testa», Ann prese il calice che era sul piano della cucina, e sorseggiò il suo vino.
«Uomini all'orizzonte?» - aggiunse dopo un attimo.
Cora scosse la testa negando, con la speranza di cavarsela così.
«Sto benissimo senza. Amo il mio lavoro, ho buoni amici e il tempo per fare ciò che mi piace. Cosa che probabilmente non mi potrei permettere se fossi sposata e avessi dei figli», le rispose portando l'insalata a tavola.
La nonna la seguì con il cestino del pane.
Ann non riusciva proprio a capire perché non si fosse ancora sistemata, e in teoria, la nipote poteva comprendere il suo punto di vista.
Anche a lei sarebbe piaciuto incontrare la persona giusta, un uomo dotato di sensibilità e che al tempo stesso riuscisse ad affascinarla, che le comprasse dei fiori senza motivi particolari, e sapesse sorprenderla...
Ma nella realtà gli uomini così non esistevano, o se esistevano, a lei non erano mai toccati.
Secoli prima c'era stata la storia con Jared... e poi?
Non molto di più, in realtà.
C’erano stati altri due uomini durati pochissimi mesi.
Negli ultimi anni gli appuntamenti erano diradati, fino a sparire del tutto, e adesso l'unico irriducibile rimaneva Victor Hopper.
Victor era un'artista e frequentava gli stessi ambienti di Cora, andavano alle stesse esposizioni, conoscevano le stesse persone ed era capitato una decina di volte fossero usciti insieme ad amici comuni.
Dopo approcci poco più che abbozzati, le aveva domandato di andare a bere qualcosa, da soli, e quando lei si era rifiutata, era diventato insopportabilmente insistente, rendendola ancora più ferma nella sua decisione.
Victor aveva avuto un debole per lei fin da l'inizio, ma Cora no, trovava patetico quel suo modo di tormentarla, e proprio non lo poteva soffrire.
In realtà, doveva ammettere che con il passare del tempo era divenuta molto esigente... troppo.
E tutto questo dove l’aveva portata?
Lì dalla nonna che la osservava con preoccupazione, mentre si preparava a fare le inevitabili domande sulla sua vita sentimentale.
«Che mi dici di lui?», domandò Ann con sguardo improvvisamente attento.
«Di chi?», rimase interdetta.
«Di Victor. Di chi credevi stessi parlando?».
Cora fece un sonoro respiro.
L'ultima volta le aveva detto che quell'uomo la infastidiva, ed evidentemente non lo aveva dimenticato.
Con il passare dell'età Ann aveva sviluppato una memoria molto selettiva, ricordava in maniera impressionante solo quello che le tornava comodo.
«Sto via per un mese. Spero che nel frattempo si rassegni», disse soprappensiero, quasi senza rendersene conto.
La nonna drizzò immediatamente le antenne.
«Parti? E dove vai?».
Per evitare l'argomento Victor era caduta in uno ben peggiore, ma ormai era certa che non l'avrebbe lasciata in pace fin quando non l'avesse messa al corrente di tutti i particolari.
«A Los Angeles» - rispose fuggendo a mescolare il sugo. Assaggiandolo nuovamente aggiunse: «Secondo me è pronto».
«Da Jared?!», cinguettò con sguardo malizioso l'altra.
Per la nonna Los Angeles era indissolubilmente collegata a Jay, e almeno in quel caso non aveva torto.
«Shan mi ha incaricato di fargli un quadro», ammise contro voglia.
«Mia cara, ma è magnifico! E quando parti?».
«Domani», disse spegnendo il fornello.
«Tuo padre lo sa?».
«Non è così fondamentale che lo sappia», rispose preparando i piatti.
«Brava. È meglio», convenne pensierosa con un cenno della testa.
Cora sbuffò.
«Non farci ricami. È solo lavoro».
«Lo so bene» - disse spalancando innocentemente gli occhi azzurri, così simili a quelli della madre di Cora - «Ma non puoi negare a una vecchia signora d'avere delle speranze e sognare il romanzo per la propria nipotina».
Cora sorrise. Alcune persone invecchiando tornavano ingenui come bambini e sua nonna era indubbiamente una di quelle.
«Non vorrei rimanessi troppo delusa».
«Più delusa di vederti avvilita e triste?».
«Non sono triste», rispose portando i piatti a tavola.
«Ah. Ah.» - disse puntando un dito in sua direzione - «Ma non hai smentito d'essere avvilita».
«Nonna se non la smetti di farmi prediche, pur di non sentirti, giuro che non vengo più a pranzo da te».
In realtà era una minaccia vuota e Ann lo sapeva.
Andare dalla nonna le dava sicurezza e le faceva tornare in mente quando, da piccola, immaginava che un giorno anche lei avrebbe avuto una casa e una vita come la sua.
Assi stagionate sul pavimento scuro; arredamento fuori moda ma accogliente, camino acceso... i pranzi della domenica con tutta la famiglia riunita, fiori profumati come centrotavola, la poltrona dove il nonno si rilassava e leggeva: tutto parlava di una vita vissuta in perfetta serenità.
Ogni volta che entrava in quella casa, veniva assalita da splendidi ricordi.
«Gli hai parlato?», domandò Ann irriducibile.
«A chi?».
«Lo sai!».
«Non ne ho idea. Per questo te l’ho chiesto», rispose mettendosi seduta.
«A me lui piace», disse Ann sedendosi a sua volta.
«Non ne hai mai fatto mistero, mi sembra».
«E dimmi, quando ti ha vista dopo tanto tempo, è rimasto abbagliato dalla tua brillante personalità?».
Cora rise: «Oh, eccome».
«Io lo trovo molto attraente».
«Essere attraenti non è tutto. Ci sono cose molto più importanti che si dovrebbero guardare in un uomo».
«Ti ho già detto che tuo nonno era terribilmente attraente da giovane? Molto virile».
«Nonna!».
«E comunque, ti era sinceramente affezionato. Ti trattava come una principessa».
Certo, come no...
La nonna era all'oscuro del vero motivo per cui Jared era sparito dalla sua vita: non aveva voluto dirle che una delle sue nipoti era puttana, lei una stupida, e Jared un porco che non aveva saputo tenerlo nei pantaloni.
In quel momento però si sentiva messa alla prova, e per il gusto di far sparire l'immagine che Ann conservava di lui, le sarebbe piaciuto poterle raccontare tutti i retroscena, invece rivolse solo un pallido sorriso in risposta alle idee sbagliate, ma rassicuranti, che l'altra aveva.
«Non potremmo cambiare argomento?» - domandò cominciando a mangiare - «Più passa il tempo e più diventi una vecchia impicciona».
«Evitare la conversazione non serve a niente».
«Che importanza può avere parlarne? Dipingerò una parete: è il motivo per cui sono stata chiamata, e unicamente quello che mi accingo a fare».
«Conoscendoti non dubito che farai solo quello. Ma che spreco», disse con tono profetico.
«Ha ben altro a cui pensare che non a me. Hai visto che donne frequenta? Non è più il Jared che conoscevamo noi. È un pallone gonfiato pieno di boria... va in giro solo con modelle e attrici».
Qualcosa fece male, ma non avrebbe saputo dire cosa. Forse la verità delle sue stesse parole.
«Non hai nulla da invidiare a quelle sciacquette», la guardò sua nonna con aria determinata.
Cora lasciò andare un respiro che non si era accorta di trattenere.
«Infatti a loro non invidio niente: neppure Jared. Se lo tengano».
«Oh... le mie donne preferite», il nonno entrò nella stanza interrompendo l'argomento.
Cora ne aveva udito i passi pesanti, sicuri, e ancora prima di sentirlo parlare, aveva captato il tenue odore dolciastro dei sigari che lui amava fumare mentre guardava le partite degli Yankees alla tv.
«Ciao nonno».
Lui si avvicinò alla tavola e le diede un bacio sulla fronte, poi salutò la moglie con l'antiquato baciamano.
Cora sorrise divertita. Quei due avevano un rapporto assolutamente invidiabile.
Il nonno era un uomo romantico di carattere e continuava a essere galante con Ann, ad aprirle le porte e a tenerla per mano quando camminavano per strada; sempre premuroso e fedele, era evidente adorasse la nonna, e ripeteva spesso quanto si sentisse fortunato ad averla incontrata.
«Cora va a casa di Jared», esordì Ann rivolta a suo marito.
Lei sospirò con delusione, aveva sperato che con l'entrata in scena di suo nonno, l'argomento si sarebbe finalmente concluso e avrebbe potuto godersi il pranzo in pace.
«E chi sarebbe?», domandò lui con sguardo interrogativo in direzione della nipote.
Lei scosse la testa: «Lasciala perdere. È una sciocchezza».
«Ma come chi è? L'attore!», rispose la nonna spazientita.
«Ah quello. Allora vai a Hollywood... tra i divi del cinema», le disse il nonno facendole l'occhiolino.
«Non vedo l'ora», ironizzò con una smorfia.
«Dovresti portare anche tua nonna con te. Si divertirebbe ad andare a caccia d'autografi», scherzò il nonno sulla passione della moglie per gli attori, e strappando così un lieve sorriso alla nipote.
«Finirei con il correrle dietro tutto il giorno».
Ann indispettita scrollò le spalle: «Prendetemi pure in giro voi due... e comunque a me farebbe piacere rivedere Jared dopo tanto tempo. Era così gentile e carino. Un perfetto gentiluomo del sud».
Cora scoppiò a ridere.
Non aveva idea di cosa sua nonna rammentasse di Jared, ma gentiluomo era l'ultimo aggettivo da associare a lui.
«Oh sì, assolutamente perfetto!», rispose cercando di riprendere il controllo dei suoi muscoli facciali.
«Non mi sembri convinta», sorrise suo nonno.
Ann attonita, la guardò con espressione leggermente tronfia e Cora pensò che non poteva lasciar esplodere la smentita che le saliva dentro, perché era evidente che la nonna aveva detto una cosa che riteneva vera.
Preferì mediare.
«Diciamo che formulare un giudizio su una persona, è qualcosa di per se, inconsistente per principio. Una somma d'impressioni, che nel corso del tempo determinano una valutazione in base unicamente a esperienze personali. Per mezzo delle sue conoscenze, la nonna vede Jared in un modo, io in base alle mie, in altro. Potremmo avere ragione entrambe, oppure nessuna delle due», disse versandole dell'acqua nel bicchiere.
Ann la guardò con noncuranza e sorseggiò dal calice che le aveva appena riempito.
«Quando parli così, sei tutta tuo padre. Così diplomatica, così abile».
Cora sorrise perché sapeva che aveva ragione.
«Ti sembra...?», esitò con furberia. Poi disinvolta aggiunse: «Adesso vogliamo mangiare per favore e smetterla con questo argomento?».
Anche se trovava bello che sua nonna si preoccupasse tanto per lei e che la tenesse d'occhio, Cora non aveva nessuna intenzione di parlare di Jared. Aveva le sue buone ragioni per non volerlo fare.
A metà pomeriggio uscì dalla casa dei nonni e trascorse il resto della giornata in uno stato di smania irragionevole.
Per evitare di pensare chattò con Joseph, stirò un paio di gonne, prese un altro trolley, tolse i pelucchi dal cappotto nero che voleva mettersi il giorno dopo, controllò per l'ennesima volta di non aver dimenticato niente, e quando finalmente arrivò l'ora di andare a dormire, invece di crollare come aveva sperato, si sdraiò in camera da letto a fissare il soffitto senza riuscire a chiudere occhio.
La notte fu corta e tumultuosa: un misto d'insonnia e sogni agitati.
Nonostante il suo corpo le avesse ordinato tutto il tempo di riposare, la sua mente aveva turbinato in pensieri che si erano accavallati gli uni sugli altri, lasciandole una strana frenesia che si era protratta fino all'alba; a quel punto era suonata la sveglia, e lei si era sentita più stanca di quando era andata a letto.
Scrutandosi nello specchio Cora fece del suo meglio per non far affiorare un'espressione desolata.
Un'impresa per nulla facile davanti all'immagine di se stessa.
Si guardò il volto pallido girandolo prima a destra, poi a sinistra: la bocca era gonfia, le occhiaie profonde e lo sguardo spento.
In genere, la mattina evitava di studiarsi troppo proprio per risparmiarsi un tale spettacolo sconfortante, ma quello era un giorno speciale, il giorno della partenza, e senza secondi fini o motivi particolari, le sarebbe piaciuto mostrarsi al meglio.
Forse era puerile, vanitosa, perché no, anche un pochino superficiale, ma quale donna non lo diveniva nella speranza di far rodere dal rimpianto un vecchio amore?
Per l'occasione aveva messo un abito bianco, che aderiva alla perfezione fino le ginocchia: raffinato e dall'ampio scollo a v, metteva in evidenza i suoi punti di forza.
Le scarpe Lanvin, pearl pumps tacco dieci, facevano il resto.
Il sottotitolo dichiarava: sono una donna di classe e inaccessibile!
Soffocando uno sbadiglio guardò Susan attraverso lo specchio.
Si era offerta d'accompagnarla all'aeroporto, e in quel momento, seduta sul bordo del letto, stava facendo un resoconto dettagliato del giorno precedente, e di come suoi piccoli alunni ricchi e viziati, le avessero fatto passare un venerdì infernale.
Da quando qualche giorno prima, era stata informata della partenza di Cora, era diventata più logorroica del solito, temendo probabilmente che per un mese non avrebbe avuto l'occasione per raccontarle qualsiasi cosa le passasse per la testa.
Quando poi, senza troppo slancio, Cora aveva aggiunto che la commissione ottenuta l'avrebbe portata a Hollywood, lei era saltata letteralmente dalla gioia, e da quel momento, non c'era più stato modo di contenere il suo entusiasmo.
Era convinta, che grazie alla pubblicità del Sun e alla visibilità data dal Gladstone, d'ora in avanti occasioni del genere sarebbero giunte in abbondanza per l'amica.
Susan aveva sempre creduto in lei, spinta ad andare avanti, a puntare alla luna, e quel successo lo sentiva un po' anche suo.
Cora l'ascoltava distrattamente mentre era intenta in uno smokey eyes che serviva a nascondere le occhiaie.
Nel frattempo, l'amica cambiò argomento passando agli ultimi drammi sentimentali accaduti al Pacha.
Cora a mala pena capì che le stava raccontando di Jimmy: il barista carino, che flirtava un po' con tutte per avere mance sostanziose, ma che in realtà preferiva gli uomini. Molte però non sapevano che fosse dell'altra sponda, e questo creava non pochi malintesi.
«Quanti ne vuoi stendere a Los Angeles?», le domandò improvvisamente Sue, interrompendosi.
Cora le lanciò uno sguardo interrogativo attraverso lo specchio.
«Non stai esagerando?», insistette la bionda squadrandola dalla testa ai piedi, con espressione strana e indefinibile.
Lei si fermò, e si studiò prima da un lato, poi dall'altro.
«Dici? Sta male?».
Con senso critico pensò che in effetti, quel trucco sarebbe stato più adatto alla sera.
Susan si avvicinò allo specchio per guardarla da vicino.
«No, sei decisamente favolosa, ma vorrei sapere che intenzioni hai...».
Cora inarcò un sopracciglio.
«Nessuna. Perché?».
«Non che io non sia d'accordo sul fatto che voglia rimetterti su piazza, anzi direi che è ora... », aggiunse, mentre Coralline le lanciava un'occhiataccia.
«Ho solo messo un po' più trucco del solito» - si affrettò a chiarire - «Devo coprire le occhiaie. Ho dormito malissimo stanotte».
«Agitata per il viaggio?».
Scosse la testa.
«Sono sei ore di aereo, niente che non posso affrontare» - disse quasi per convincere se stessa - «Ho solo sonno».
Aggiunse credibilità alla sua affermazione soffocando un altro sbadiglio.
«Non me la racconti giusta» - disse guardandola con serietà e accarezzandole un riccio - «Secondo me c'è altro che ti rende nervosa».
«Mi dispiace anche un po' che non passeremo il Natale insieme come abbiamo sempre fatto, anzi a tal proposito... ».
Sorridendo si diresse verso l'armadio da cui estrasse un pacco che le porse con soddisfazione.
«Per te! Non ho idea se tornerò in tempo e quindi preferisco che tu l'abbia in anticipo».
Sue, presa completamente alla sprovvista da quel dono inaspettato, la guardò senza saper cosa dire.
«Io non te l'ho ancora comprato... », riuscì a farfugliare alla fine, mortificata.
«Ho aspettato l'ultimo momento per questo. Sapevo che saresti andata subito ad acquistarmi qualcosa se te ne avessi lasciato il tempo» - le diede un bacio - «Goditelo e stai zitta».
L'amica la guardò con aria colpevole.
«Avrei potuto arrivarci anche da sola. Dovevo immaginare che avresti fatto qualcosa del genere».
«Smettila di fare la lagna, altrimenti lo riprendo», disse tirando a sé la scatola.
Susan scosse la testa, e lo trattenne con forza.
«Non provarci. Ormai me lo hai dato ed è mio!...», rispose guardandola in cagnesco mentre tornava a sedersi sul letto con il regalo sulle ginocchia.
«Grazie».
Rimirò la scatola e poi la scosse accanto all'orecchio con delicatezza.
«Posso aprirlo o preferisci che aspetti il giorno di Natale?», domandò senza saper bene cosa fare.
«È tuo. Aprilo quando vuoi», rispose Cora chiudendo le valige e guardando l'orologio.
Una volta tanto sembrava che fosse riuscita a rispettare la tabella di marcia che si era imposta.
Come Cora si era immaginata, Susan si avventò sull'enorme coccarda e bastò un attimo perché estraesse il cappotto acquistato da Macy's.
Le vide comparire sul volto stupore e soddisfazione nello stesso istante.
Dopo averlo rimirato e lisciato come un cucciolo, si alzò e le diede un sonoro bacio.
«È bellissimo. Giuro che quando torni ti faccio trovare un regalo degno di questo nome», disse stringendola con forza.
«Oh dai, non è niente. Era anche in offerta» - rispose sorridendo mentre cercava di liberarsi dalla stretta - «Mi spettini così».
«Mi prendi per scema Cora Cromwell? Non ci sono offerte da Macy's in questi periodi!», allentò la presa leggermente.
Lei si limitò a fare spallucce: «Non ti avevo detto di godertelo e stare zitta?».
Prese il manico della valigia: «Piuttosto aiutami a portare i bagagli».
Sue guardò in tralice il pavimento dove si trovavano le borse da viaggio.
«Indubbiamente la sintesi non è una tua qualità», disse con le mani sui fianchi.
«Lo so, lo so. Ho esagerato come sempre, ma una donna ha bisogno delle sue cose ovunque vada».
«Vai a Los Angeles, non nel deserto. Immagino ci siano negozi anche lì», disse riponendo con cura il cappotto nella scatola.
Cora scosse la testa: «Sicuramente mi sarò dimenticata qualcosa».
Sue afferrò due valige.
«Tanto valeva impacchettassi casa e spedivi direttamente quella».
«È così evidente che non sono abituata a stare lontana da New York per lunghi periodi, eh?».
«Come tutti i newyorkesi», ridacchiò Susan seguendola verso l'ingresso.
«Hai chiuso il rubinetto centrale dell'acqua? Staccato il telefono? La corrente?», la interrogò mentre Cora assicurava la porta con tre giri di chiave.
La serratura fece l'ultimo scatto.
«Sue sembri mia madre».
«L'hai avvertita?», domandò l'amica con sguardo incupito intanto che si avvicinavano all'ascensore.
Cora premette il tasto di chiamata, poi sospirò e iniziò a parlare con tono formale, come stesse dando una lezione a scopi didattici.
«Naturalmente. Le ho anche lasciato il doppione delle chiavi dell'appartamento da usare in caso d'emergenza. Soddisfatta?».
«Era per chiedere» - si strinse nelle spalle - «Hai sempre la testa fra le nuvole».
Fortunatamente l'ascensore arrivò vuoto, e vi infilarono i bagagli dentro.
«Posso chiederti una cosa?», disse Sue mentre premeva il tasto per il pian terreno.
«Ti ascolto».
«Non sembri molto felice di questa commissione».
«È solo che non ero preparata. Ho pochissimo tempo... ».
Sue a quella spiegazione non credette neppure un attimo.
«Sì. Questa è la scusa ufficiale. Voglio conoscere la verità ufficiosa».
Quello per Cora sarebbe stato il momento giusto d'ingoiare l'orgoglio e confessare cosa la rendeva tanto inquieta, ma ancora una volta le parole le mancarono.
Non poteva dirle che l'uomo che era stato la causa molti anni prima di tante sue lacrime, era lo stesso che avrebbe beneficiato della commissione che si apprestava a fare, Sue sarebbe stata in pensiero inutilmente dove non c'era niente di cui preoccuparsi.
Aveva tutto perfettamente sotto controllo... a parte quel minimo e normalissimo nervosismo fisiologico.
«Non amo le sorprese nel mio lavoro», rispose.
Di fronte all'assenza della risposta sperata, l'amica perseverò precisando: «Bisogna che ti abitui a questi ritmi d'ora innanzi se desideri ottenere commissioni importanti».
«Ok» - rispose freddamente e felice che l'arrivo al pian terreno avesse messo termine alla conversazione.
Intanto che il portiere aiutò a infilare le borse da viaggio nel vano bagagliaio dell'auto, l'argomento venne accantonato, e come Cora aveva sperato, non fu ripreso neppure una volta partite e imbottigliate nel traffico del fine settimana.
«Potevo chiamare un taxi. Ti risparmiavi questo ingorgo».
«Neppure per sogno! Altrimenti a che servono le amiche?».
Susan ostile suonò il clacson contro le auto ferme davanti a lei.
«Ti invidio sai...» - aggiunse dopo un attimo - «Per il tuo lavoro. Non per altro».
Cora rise: «Grazie per la precisazione».
Sue non pensava di avere un talento vero, di possedere quello sprizzo di genialità che invece vedeva in Cora e aveva preferito un lavoro sicuro, darsi all'insegnamento, piuttosto che a una vera e propria carriera artistica.
«Beh, ammetterai che “maestra” non è un lavoro che fa sognare».
«Potresti sempre ricominciare a dipingere, nessuno te lo vieta».
«Certo come no. Avanti! Non ho mai brillato in bravura, chi vogliamo prendere in giro?».
«A me piacciono i tuoi quadri», borbottò Cora.
«Tu sei di parte. Non conti» - altro suono di clacson - «... e dimmi, lo conosco il tipo per il quale vai a dipingere?».
«Non credo... è un regista di videoclip e documentari», rispose a disagio.
Anche se necessario, non le piaceva raccontare a Susan una parziale verità.
Un vero sollievo arrivò solo quando la forma del JFK e le sue rampe che portavano al parcheggio sopraelevato si disegnarono all'orizzonte.
Si diresse immediatamente al check in, e tornata da Susan cercarono un posto tranquillo dove bere un caffè e scambiarsi un ultimo saluto.
Sgomitando nella calca che affollava l'aeroporto riuscirono a farsi largo fino a trovare due posti a sedere.
Cora lasciandosi andare contro la poltroncina, si rilassò.
Accavallò le gambe e appoggiò i gomiti con nonchalance sui braccioli, trattenendo l'ennesimo sbadiglio.
«Vado a prenderti il caffè» - disse Susan - «Speriamo riesca a svegliarti un po'».
Ne dubitava, ma tentar non poteva certo nuocere.
«Grazie», le sorrise e la osservò allontanarsi con camminata svelta e decisa.
Tornò dopo qualche minuto tendendole il bicchiere.
«Grazie» - l'afferrò e ne bevve un sorso - «Ne avevo proprio bisogno».
Sentì solo un liquido caldo, senza sapore, che gli scorreva in gola.
«Appena sei sull'aereo approfittane per dormire».
«Sicuro» - confermò scolando quello che restava della pessima bevanda.
Guardò l'orologio e aggiunse: «Devo andare».
Si alzò e gettò il bicchiere nel cestino.
«Cerca di non cacciarti nei guai come fai sempre», le disse Susan baciandola sulla fronte e stringendole forte il viso fra le mani.
Sue però non sapeva che i guai e Cora viaggiavano assieme, che ne era portatrice sana a caccia di scintille.
«Ti chiamo appena arrivo», le mormorò all'orecchio e immediatamente si allontanò.
Superato lo scanner dei controlli si avviò verso il gate e prese posto in una delle tante sedute disposte a forma geometrica.
Attese pazientemente, provando una sorta di sollievo per le procedure sbrigate e, al tempo stesso, una nuova, consapevole tensione al pensiero che di lì a poco si sarebbe imbarcata.
L'imminente partenza le diede modo di riflettere su ciò che l'aspettava.
Quali emozioni l'avevano davvero spinta a intraprendere quel viaggio? Dove era realmente diretta quando aveva accettato quella proposta di lavoro?
Delle volte il nemico attendeva nascosto, non fuori, ma piuttosto dentro di noi.
Era fastidioso, invadente, e si chiamava “Ego”. Esaltava, rendeva orgogliosi, poneva mete sempre nuove, e spesso faceva cacciare nei guai.
Sopraffatta dalla solitudine, nel candore asettico dell'anonimo gate, cercò di resistere al sonno in cui si sentiva precipitare.
Si allungò, sbadigliò, chiuse gli occhi sperando di liberarsi dalla stanchezza e alla fine si assopì.
Era passata una manciata di secondi, forse qualche minuto, quando il suono del cellulare la svegliò.
Afferrò il telefono e rispose in un attimo, prima che partisse la segreteria telefonica.
«Cora, sei già in volo?», le domandò Shannon.
«Non ancora. Sono in attesa al gate», rispose cercando di sembrare più lucida di quanto non fosse in realtà.
«Tutto bene?».
«Tranquillo. Tutto come da programma».
«Shayla, l'assistente di Jared viene a prenderti all'aeroporto, ti mando la foto in modo che tu possa riconoscerla. Ci vediamo tra qualche ora. Fa buon viaggio».
Diede un'occhiata veloce alla ragazza alquanto ordinaria che le apparve sullo schermo e ripose il cellulare.
Dopo l'imbarco l'hostess la guidò al suo posto e non dovette aspettare molto perché l'aeroplano, iniziasse a muoversi lungo le corsie dell'aeroporto che portavano alle piste di decollo.
Ci fu un progressivo aumento del suono dei motori a reazione e si staccò da terra.
Era decollato.
Non sarebbe tornata a New York prima di un mese.
Ora l'aspettava questa nuova città, Los Angeles... insieme alla vicinanza di Jared, e la tensione quasi irresistibile che questa le provocava, in un territorio non suo, dove era ospite, e che l'avrebbe costretta ad adattarsi a convivere con lui.
Decise che era opportuno impostare fin da subito le basi per una pacifica coabitazione; solo se questa fosse stata la priorità per entrambi avrebbero potuto tentare d'instaurare un qualche tipo di rapporto.
Non avrebbe potuto ignorarlo come aveva sempre fatto, o andarsene alla prima frase sbagliata.
Questo le apriva nuove possibilità.
Il modo in cui lui aveva reagito alla sua presenza, il modo in cui l’aria intorno le aveva pizzicato la pelle mentre si era avvicinata a lui, diceva chiaramente che avevano ancora parecchia strada da fare prima di raggiungere un certo controllo, prima di riuscire a stare vicini senza scatenare una guerra.
Troppo dolore e troppe parole non dette erano passate in uno scambio di sguardi.
Però la speranza c’era.
Aveva fatto una promessa a Shan, e a qualsiasi costo, non avrebbe infranto l'impegno preso.

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Capitolo 8
*** capitolo 8 - Arrivo a Los Angeles ***


                            Arrivo a Los Angeles




«Cora?...»
Con sollievo si voltò in direzione della voce sconosciuta che aveva appena pronunciato il suo nome.
Aveva temuto che individuare l'assistente di Jared nel caos dell'aeroporto, potesse trasformarsi in una caccia al tesoro. Fortunatamente non era stato così.
«Shayla?»
La bionda le porse la mano che lei strinse energicamente.
«È un piacere conoscerti. Spero tu abbia fatto buon viaggio».
«Sì e no», sorrise.
«Vieni, ti aiuto con le valige», disse l'altra con cortesia spingendo il carrello colmo di bagagli e guidandola verso l'uscita del terminal.
Appena le porte scorrevoli si aprirono e si ritrovò all'esterno, Cora venne investita da una risacca di onde sonore, odori, ed effetti cromatici.
In un cielo azzurro e limpido, apparvero le enormi superfici riflettenti degli edifici, abbacinanti sotto il sole californiano.
«Sei già stata a Los Angeles prima di adesso?», le domandò l'assistente, appena si accomodarono in macchina.
Cora rilassandosi contro il seggiolino, chiuse gli occhi per un'istante: «Un po' di anni fa. Ricordo poco e nulla».
In verità ricordava di non averla molto amata.
Tutto troppo influenzato da Hollywood, che raccontava se stessa attraverso la vita delle persone che in essa vivevano.
Al di là dei numeri del bilancio, i milioni di fatturato o gli utili prima delle tasse, Los Angeles era una città che si guardava vivere, come se assistesse a un film proiettato attraverso uno specchio. 
Dietro il nulla, davanti il vuoto.
L'altra cautamente si immise nel traffico, e pronunciò un'inoppugnabile verità che neppure Cora potè negare.
«Fa molto più caldo che a New York».
«La cosa non mi dispiace affatto».
Inclinò un po' il capo per godere del raggio di sole attraverso il vetro del finestrino, e guardò le abitazioni scorrere velocemente davanti ai suoi occhi.
Al contrario di New York, che tendeva a emarginare la povertà ai limiti, a Los Angeles, erano i ricchi a prendere le distanze dalla città, e più si allontanavano dal centro, più il lusso diveniva evidente. 
Allungò le gambe, cercando di sciogliere i muscoli intorpiditi dalla lunga immobilità.
«Non manca molto» le sorrise l'assistente studiando i suoi movimenti «Vuoi ascoltare un po' di musica per ingannare il tempo?».
Cora scosse la testa, e l'altra abbandonò sul cruscotto il telecomando dell'autoradio che aveva già preso in mano.
Imboccarono una strada secondaria, stretta e tortuosa che conduceva alla sommità di una collina. Con una rapida manovra, la bionda s’infilò dentro un cancello in ferro battuto aperto a metà, e  fermò l’automobile nel parcheggio privato. 
Cora scese dal veicolo scorgendo Shannon in fondo al viale che, allargando le braccia pronte ad accoglierla le si fece incontro.
«Benvenuta» la strinse brevemente «Fatto buon viaggio?».
Ripensò ai turisti che le avevano impedito di chiudere occhio tutto il tempo, e scosse la testa. 
«Un po' animato, ma lasciamo perdere. L'importante è essere qui».
Si guardò intorno.
«L’esterno è veramente splendido», disse con sincera ammirazione.
«La villa è rimasta disabitata per molti anni» le spiegò mentre faceva strada verso l'ingresso «Ci sono ancora dei lavori in corso, ma quest'ala dell'edificio è fortunatamente terminata».
Le aprì la porta e si fece da parte per lasciarla entrare.
L'interno ricordava le grandi case messicane: pareti in calce, travi in legno, cotto e pavimenti dai motivi vivaci.
«Ti mostro la tua camera, così ti metti comoda», le disse salendo i primi gradini della scala a chiocciola.
«Sarai stanca», aggiunse scompigliandole i capelli.
«Un po'», rispose lei continuando curiosa a guardarsi intorno.
«Per oggi prendila con calma, riposati, fai un giro della casa, ambientati…».
La guidò in un lungo corridoio pieno di opere d'arte appese alle pareti.
Cora cercava di non perdere nessun particolare, finché senza rendersene conto, rallentò il passo.
Accorgendosi che era rimasta indietro, Shan diminuì l'andatura a sua volta: «Molte tele sono state messe all'asta insieme alla casa. Non tutte le ha scelte Jared».
«Neo impressionismo cubista, primi anni settanta», disse lei puntando gli occhi su una tela.
Shan fece qualche passo in avanti e aprì una porta, rimanendo sulla soglia.
«Se lo dici tu mi fido. La tua camera è di qua.» indicò con un ampio gesto del braccio.
Cora entrò nella stanza dall'aspetto confortevole. Oltre il comodo letto, una poltrona e un piccolo scrittoio, c'era una grande portafinestra dalla quale si intravedeva il giardino.
Shan indicò un’altra porta: «Il bagno».
Interessata molto più al panorama, Cora fece scorrere la vetrata e uscì all'esterno, in una terrazza che si affacciava sulla piscina naturale a forma di laghetto.
«Per il momento» disse Shan arrivato a suo fianco «Credo d'averti detto tutto». Guardò per un istante il ragazzo che aveva appena portato le valige e poi tornò a rivolgersi a lei «Ti lascio disfare i bagagli e mentre ordini le tue cose, ne approfitto per sbrigare un impegno di lavoro. Qualunque cosa ti serva, chiedi pure a Shayla o a chi trovi in giro per casa».
Cora staccò gli occhi dal panorama per indirizzarli sull'amico.
«E Jared?».
Shan si limitò a rilevarne l'espressione mentre pronunciava il nome del fratello.
«Non tornerà prima di stasera».
Per alcuni secondi Cora rimase in silenzio, poi tornò a guardare in direzione del giardino, scura in volto. 
«Bene», disse con piglio sicuro.
Shan abbassò fugacemente lo sguardo e consultò l'orologio con una rapida occhiata.
«Devo proprio andare... Torno da te il prima possibile, mi raccomando fa la brava durante la mia assenza».
«Tranquillo, darò solo fuoco alla casa».
Lui la guardò torvo e lei fece una piccola smorfia.
«Avanti. Togliti dai piedi».
Qualche minuto dopo che fu uscito, Cora si trascinò lentamente nella stanza, scalciò le scarpe e sedette sul letto.
Rimase immobile per qualche secondo: sentiva dolorante ogni singola parte del corpo, e non si sarebbe voluta muovere dal letto per le successive ventiquattro ore. 
Invece con un sospiro guardò le valigie. 
Si alzò seppur controvoglia, ne estrasse un pantalone e una maglia, e si diresse in bagno. 
Uscì dalla vasca soltanto quando fu completamente rilassata, e pronta a mandare definitivamente al diavolo la donna sofisticata partita quella mattina da Manhattan: senza trucco, vestita semplicemente, con i capelli raccolti, si sentì finalmente a suo agio.
In attesa tornasse Shan, decise di vagare senza meta per la casa. 
Percorse i corridoi, entrò nelle stanze, trovò i passaggi della vita di Jared; una vita impigliata, sospesa nella penombra, nel silenzio della casa vuota, negli odori assenti, negli oggetti quotidiani.
Ovunque riecheggiava la disperata vanità degli oggetti: le “cose” erano lì a parlarle dell'effimera esistenza che lui stava conducendo in quegli ultimi anni. Cora ebbe l'impressione più che mai, che Jay si fosse dimenticato chi era stato, da dove era partito, e quindi alla fine il vero se stesso.
A ogni passo che la ragazza percorreva, sentiva le sarebbe stato impossibile relazionarsi con lui. Questa sensazione non aveva a che fare con il passato che avevano condiviso, e che ormai rappresentava solo l'epilogo di qualcosa che era andato irrimediabilmente perso.
Affondava al contrario, nella contemporaneità. In una nuova distanza tra loro.
Vagando, si ritrovò al laghetto che da subito aveva attirato la sua attenzione.
Rimase lì, all'ombra di un albero, pensando quanto lontano fosse arrivato quel ragazzo che alle prime esibizioni aveva sì e no venti persone che lo andavano ad ascoltare.
Nonostante questo Jared non si era mai perso d'animo, e cantava per quei venti come fossero stati duemila, con la stessa grinta, con la stessa voglia di dare il massimo. Doveva bruciare i ponti col passato, con tutto, a qualunque costo, e questo aveva fatto scattare una rabbia che non poteva non ascoltare, e che sfogava dentro le canzoni.
Cora si chiedeva se, arrivato in cima fosse realmente felice e se finalmente aveva acquietato la sua anima tormentata. Shan fermo dall'altro lato della piscina alzò il braccio, e le fece cenno di raggiungerlo destandola dai suoi pensieri. Gli sorrise e si mosse in sua direzione.
«Ci hai messo troppo!» lo rimproverò bonariamente appena gli fu davanti.
«Ti sei annoiata?».
«Un po'. Ma ho curiosato in giro per passare il tempo».
Sedettero intorno a un tavolino da dove si poteva godere la vista della piscina e del giardino che la circondava. C'erano degli uccellini che cantavano tra gli alberi, ma per lo più era silenzio.
«Questa tranquillità te la sogni nella tua adorata NY».
Lei pescò una patatina dal sacchetto che lui teneva in mano.
«Avrò gli incubi stanotte con tutta questa pace».
Shan ridacchiò e infilò a sua volta la mano nella confezione.
«Non ammetterai mai che Los Angeles è meglio di New York, vero?».
«Nemmeno sotto tortura, semplicemente perché non lo è. Ma mi adatterò a questo posto orribile pur di avere il piacere della tua compagnia».
«È per questo che hai accettato la commissione? Per il piacere della mia compagnia?».
«In parte.» disse infilando la patatina in bocca «Ma più per i soldi», rise sommessamente.
«Ti conosco fin troppo bene Cora Cromwell. So che l'ultima cosa che ti muove è il denaro».
Lei tornò un attimo seria: «Sono una giovane artista in ascesa. Devo pensare al mio futuro», riconobbe con franchezza.
«Già, un'artista di talento. Sembra ieri, che eri una ragazzina di buona famiglia ossuta, secchiona e rompi palle. Oh già, rompi palle lo sei ancora». 
«Solo perché ho sempre seguito le regole, al contrario di te». 
«Una secchiona: la prima della classe, leader alle proteste studentesche, redattrice del Crimson... Probabilmente detieni ancora il record della peggiore pianta grane di Harvard».
«Fatti gli affari tuoi».
Lui rise: «Quando hai piantonato l'Harvard Yard per manifestare contro lo squilibrio della distribuzione della ricchezza in America, credo tu abbia tolto vent'anni di vita a Oliver».
«Un branco di corrotti. Sono solo contenta di essermene tirata fuori», rispose con un'ombra d'irritazione nella voce.
Lui la osservò: «Certe volte mi domando come facciamo a essere amici. Non abbiamo niente in comune».
«Eri un cattivo ragazzo» fece una breve pausa, in faccia un’espressione troppo solenne per poter essere presa sul serio «la tua pessima reputazione mi è servita durante l'adolescenza, nella lotta alle convenzioni stabilite da mio padre». 
Shannon sorseggiò dalla bottiglia la sua birra e sorrise: «Quello era Jared. Io a Oliver sono sempre piaciuto».
«Vero. Tu piaci a tutti». 
Shan aveva lo sguardo di chi non sapeva giudicare. Era come avvolto da un alone di benevolenza, quell’alone che impediva di trovare terreno fertile all'avversione. 
«Mi piace questa stanza», disse lei quando Shan dopo un'ora, la portò a vedere la parete che avrebbe dovuto dipingere.
Era una grande e luminosa sala da pranzo che coincideva da un lato con la cucina, e dall'altro con l'ingresso.
«Il tavolo andrà spostato da qui».
«D'accordo».
Lo studiò di sottecchi, mentre sollevava la bottiglia e beveva la Beck's ormai calda.
«Per tutto il tempo che lavorerò qua dentro sarà una specie di cantiere, e immagino Jared non voglia mangiare in mezzo a colori e solventi...» buttò lì con apparente naturalezza.
«Non lo avrai tra i piedi. Sta tranquilla».
«Bene».
«Bene», ripeté lui con un sospiro esasperato.
«Occorre un telo bianco, nastro da mascheratura, un ripiano dove appoggiare l'attrezzatura e un trabattello», il tono era diventato più fermo, come le succedeva di frequente quando parlava del suo lavoro, quasi attingesse sicurezza dalle proprie conoscenze.
«Scrivi un elenco e consegnalo a Shayla. Ti farà avere tutto entro stasera». 
Qualche ora dopo, rimasta sola, Cora tirò fuori dall'imballaggio il materiale che le aveva consegnato la zelante assistente di Jared, mentre Shan, dall'altra parte della città, stava cenando in chissà quale ristorante dove lei si era rifiutata di seguirlo.
Aveva troppe cose da fare per mangiare qualcosa di più elaborato di un panino preparato in fretta.
Quando ebbe terminato di montare il trabattello, spinto e tirato il tavolo fino al punto scelto, e trasformata la stanza in uno studio, fece un passo indietro, e ammirò il risultato ottenuto a tempo di record.
A modo suo, era molto ben organizzata: gli anni senza contare sull'aiuto di un uomo, le avevano aguzzato ingegno e capacità pratiche.
L’unica cosa che mancava, pensò, era uno stereo a tutto volume. Ma presto avrebbe provveduto anche a quello.
Adesso l'ambiente le appariva molto più familiare: bastavano dei pennelli, una superficie da dipingere, e si sentiva immediatamente a casa ovunque si trovasse.
Era in cima al trabattello e stava tracciando le prime linee quando un suono di passi catturò la sua attenzione.
Non poteva essere altri che Jared.
Si voltò e il sorriso che gli rivolse fu freddo ma non del tutto ostile. Tra loro c'era una tensione iniziale che al momento non le interessava attenuare.
Jay allungò una delle due tazze che aveva in mano in sua direzione.
«Ehi», la salutò.
«Ehi», rispose lei con lo stesso tono.
La osservò con un pizzico di preoccupazione mentre cercava di scendere dall'impalcatura, operazione che risultò più complicata del previsto.
«Sei una scalatrice con i fiocchi, vedo», la prese in giro una volta che posò i piedi a terra.
Con testa alta ed espressione sicura lei si strinse nelle spalle: «Sì, è tra i miei hobby preferiti scendere sgraziatamente da strutture traballanti». 
«Beh stai attenta, finché sei sotto il mio tetto sono responsabile per te».
«E io illusa, che credevo di essere l'unica responsabile di me stessa», gli disse intanto che toglieva i residui di grafite dalle mani strofinandole sui pantaloni.
In silenzio Jared aspettò avesse finito, e poi le porse nuovamente la tazza: «Allora come va? Fatto buon viaggio?».
«Non mi lamento», rispose prendendola con titubanza. «Cos'è?», immaginava fosse uno dei suoi intrugli salutisti.
«Té bianco».
«E a te come va Jared?», gli domandò distrattamente mentre sorseggiava la bevanda che profumava di bosco.
Intravide sotto il suo braccio un copione; se era fortunata si sarebbe dedicato a quello e l'avrebbe ignorata dopo i primi convenevoli.
«Bene, ma il lavoro mi massacra», lasciò cadere senza interesse la sceneggiatura sulla poltrona togliendole quella speranza.
«Lo immagino: anche i minatori sarebbero d’accordo nel ritenere la tua, una vita faticosa».
La sua frase lo fece sorridere.
«Scusami se non ti ho fatto gli onori di casa oggi, ma sono nel bel mezzo di un grosso progetto».
«Tranquillo, non c'è problema. Anch'io sono stata occupata nell'organizzarmi, non mi sono neppure accorta della tua assenza». Una bugia bell'e buona.
 Lui osservò con interesse i barattoli pieni di colore che erano ordinatamente allineati su un ripiano insieme a una varietà considerevole di pennelli, tamponi di cotone, una mascherina, guanti di gomma e attrezzature varie sparse un po' ovunque.
«Hai fatto in fretta a predisporre la stanza».
«Prima è, meglio è. Voglio togliermi velocemente il pensiero di questo lavoro», si lasciò sfuggire.
«Devo prenderla forse sul personale?».
«Prendila come credi», fece spallucce. «E scusa... » simulò mortificazione «Non volevo crearti tanta confusione nella stanza. Ritengo che non la potrai usare finché il dipinto non sarà concluso».
Lui sorseggiò un po' del suo tè. «Oh, certo che volevi», rispose fissandola negli occhi con espressione astuta.
Cora non si lasciò intimidire. In fin dei conti non le dispiaceva che Jared avesse capito il senso nascosto del disordine. Era sveglio, lo era sempre stato, e lei aveva fatto affidamento su questo.
«Ti ringrazio per la comprensione».
Continuò a fissarla in silenzio in modo penetrante. A lungo. Nessuno manteneva il contatto visivo per tanto tempo. Sembrava stesse puntando una preda. Tuttavia, per quanto lo trovasse molesto decise che non gli avrebbe concesso la soddisfazione di fargli pensare che non fosse in grado di tenergli testa. Oppure che la mettesse a disagio. Non la impressionava affatto. Che facesse pure l'incantatore. 
«Abbigliamento notevolmente più sportivo dei tuoi soliti canoni...», sentenziò infine lui girandole intorno.
Bè se voleva trovarla in ghingheri era in ritardo di diverse ore.
«Sono in versione comoda, da lavoro», spiegò.
«Niente vestiti da vamp quando dipingi?».
«Io vamp? Sei ubriaco per caso?», si stava divertendo a sfotterla? Che razza d'idiota.
«Bevo solo acqua. L'alcol rallenta i riflessi, e non posso permettermelo con te».
«Grazie. Lo prenderò come un complimento», rispose lei.
«Ne vuoi parlare?», le disse poi Jared in maniera inaspettata, ma senza troppo entusiasmo.
Cora si mise immediatamente sulla difensiva, e pur intuendo quale potesse essere l'argomento domandò: «Di cosa?».
«Di questa convivenza forzata. Non ti fa strano dopo anni che mi hai evitato?», avanzò di un passo verso di lei e Cora cercò di resistere alla tentazione di arretrare, anche se dentro, indietreggiava come un cane che aveva preso troppe botte.
Dopo tanti anni di silenzio tra loro, era ridicolo rivangare il passato proprio allora... ma forse in quel momento lui lo riteneva indispensabile per instaurare una buona coabitazione.
Negli anni, si erano incontrati in tre o quattro occasioni, sempre casualmente, sempre comportandosi con esemplare  risolutezza, ed evitando di rimanere soli.
Incontri pieni di convenevoli di rito, grande distanza emotiva e formale educazione.
In fin dei conti, entrambi erano persone civili che, oltre a un pezzetto di passato, avevano in comune l'affetto per Shannon.
Ormai erano come due estranei che non avevano nulla da dirsi, eppure le era impossibile non ricordare che con l'uomo che si trovava davanti ai suoi occhi, aveva condiviso i momenti più intimi e intensi della sua vita.  
Non era facile stargli di fronte senza provare vergogna per la fragilità che in passato a lui, e solo a lui, aveva mostrato.  
Ancora a distanza di tempo, non sapeva dimenticare quella relazione e lasciarsela del tutto alle spalle.
Aveva fatto finta che niente fosse successo, che non fosse stata realmente così importante, ma, nel momento in cui erano di nuovo l'uno di fronte all'altra, guardandosi negli occhi senza intermediari, distrazioni o vie di fuga, l'intensa emotività che aveva cercato d'ignorare per tanto tempo la stava investendo in pieno. E faceva male.
«Certo che sì», ammise infine.
«Vuoi parlarne?».
«No», rispose secca.
«No?», chiese dubbioso.
«No!». Il tono di Cora era ancora più definitivo.
Non gli doveva alcuna spiegazione, non era pronta per farlo, più che mai con una notte insonne e sei ore di viaggio alle spalle.
Per qualche istante rimasero in silenzio, sfidandosi con lo sguardo. Poi lui cedette: «Dato che a te sta bene non affrontare l'argomento, cerchiamo solo di arrivare in fondo a questa cosa e fare in modo che non prenda una brutta piega. Ok?».
«Non è che non voglio. È che non ne abbiamo mai parlato. Perché iniziare adesso?», dal suo tono trapelava una punta di sarcasmo.
«Meglio tardi che mai».
«No, meglio mai con te. Hai avuto anni per farlo, e a questo punto, direi di tralasciare anche le ovvietà. Siamo qui, sotto lo stesso tetto perché abbiamo deciso di mettere una definitiva pietra sopra anche ai risentimenti».
Gli andava di parlare... dopo anni?
Dopo che lei aveva deciso di dare un segnale forte anche a se stessa accettando quel lavoro, e di mettere la parola fine anche agli strascichi del passato?
Peggiore della sua incapacità di tenere in piedi una relazione, c’era soltanto il suo tempismo.
«Sei pronta a impegnarti per cercare d'andare d'accordo?», le domandò scrutandola attentamente.
Sostenne fieramente l'esame approfondito che le rivolse. Era la solita questione di dimostrare chi era il più forte tra loro. E lei non poteva perdere. In fondo, quella era una delle poche cose che avevano in comune. Venivano da due famiglie totalmente diverse, ma in qualche modo, sia il padre di Cora che la madre di Jared li avevano caricati dello stesso peso: mai mostrarsi deboli!
«Se lo sei tu», fece spallucce, ma in cuor suo non ne poteva più di quel confronto. 
Doveva chiudere l’argomento, andare a riposarsi, riprendere il controllo di sé.
Per sfuggire alla tenacia di Jared spostò l’attenzione sui progressi che aveva apportato sulla parete.
«Capisco che frequentare solo modelle analfabete sia un tantino noioso e tu voglia allargare i tuoi orizzonti, ma io avrei altro da fare a parte dilettarti. Shan non mi paga a sufficienza per diventare una piacevole compagnia per te. Quindi, possiamo tornare al vero motivo per cui sono qui?» e senza dargli il tempo di rispondere, aggiunse con l’aria più professionale di cui era capace «...Potrei avere bisogno di materiale difficile da reperire, e mi servirebbe la tua conoscenza della città per sapere come muovermi».
«Tienimi questa», disse allungandole la sua tazza.
Cora guardò il tavolino che era a pochi centimetri di distanza, e sul quale avrebbe potuto benissimo poggiarla.
Chiaramente la richiesta aveva un significato simbolico, del tipo: sono gentile con te, se tu lo sei con me... o una stronzata del genere…
Sbuffò ma la prese, intanto che lui rovistava nella tasca alla ricerca del cellulare.
«Conosco una persona che può esserti d'aiuto. È il responsabile dei restauri al MoCA e saprà dove indirizzarti. Gli parlerò domani stesso avvertendo che lo contatterai», disse facendo scorrere i numeri della rubrica.
«Ti ringrazio».
Sembrava fosse riuscita finalmente nel suo intento di portare la conversazione su questioni di lavoro.
Jared prese una penna e scrisse velocemente su un foglio.
«Qui c'è il suo nome e numero, così potrai metterti d'accordo direttamente con lui non appena lo avrò informato».
Le tese il foglio mentre riprendeva la tazza, e Cora guardò gli sgorbi che aveva buttato giù di fretta.
Erano a malapena leggibili.
«Questo è un tre?».
Lui annuì e sorrise.
«La mia scrittura è terribile. Un terapista probabilmente avrebbe molto da studiarci».
Nonostante Cora non lo desiderasse, le sfuggì un'espressione divertita.
Alzò gli occhi e incontrò il suo sguardo.
Chiaramente un errore: i suoi famigerati occhi blu la imprigionarono.
Tutto sommato capiva perché avesse Hollywood e mezzo mondo ai suoi piedi: seppure le costava fatica, sapeva essere abbastanza obbiettiva da ammettere che era oggettivamente un uomo carismatico.
Distolse lo sguardo scottata da quell'attimo di smarrimento.
L'ora tarda e la stanchezza dovevano aver limitato di molto le sue capacità di autocontrollo.
Meglio tornare vigile.
«Nessun problema», disse magnanima.
Jared proseguì dandole informazioni utili sul restauratore del MoCA e mettendosi a sua disposizione con tranquilla efficienza.
Niente che non fosse misurato nei suoi gesti o nella sua voce, niente che le ricordasse lo sbruffone di sempre, dimostrando che quando voleva sapeva essere serio e non necessariamente uno stronzo totale. Di certo l'esperienza gli aveva insegnato a limare all'occorrenza certi suoi difetti.
Giocoforza si ritrovò a osservarne le mani che muoveva mentre le parlava.
Aveva sempre amato le sue lunghe dita affusolate. E anche se ormai non le facevano più lo stesso effetto, portarono a galla un accenno di malinconia, che lei dopo veloce analisi, archiviò come normale e, tutto sommato sensato.
Di quelle mani in fin dei conti ne conosceva il tocco, e non c'erano stati altri amori importanti che ne avessero cancellato l'impronta.
Ma fu solo una manciata di secondi; corresse immediatamente il flusso dei propri pensieri concentrandosi sulle sue parole, e non su di lui.
«Ho visto che hai posato per Christopher Pugliese», le disse improvvisamente sorprendendola.
Rimase favorevolmente colpita dal fatto che nominasse l'artista semi-sconosciuto.
«Sì» annuì «Siamo amici. Tra qualche mese inaugureremo una serie di laboratori residenziali di pittura, musica, cibo, poesia. Christopher conosce molti musicisti di nicchia. Abbiamo già fatto un bel gruppo. Ma comunque non si tratta di un'iniziativa commerciale. È riservata solo ad artisti di talento».
Tante informazioni non erano richieste, ma preferiva addentrarsi in quell'argomento relativamente neutro piuttosto che in altri potenzialmente pericolosi.
«Una volta ho visto una sua mostra a Londra. Credo fosse per promuovere Save the children», rispose lui con aria annoiata. Si capiva benissimo che riteneva i risultati di Christopher ben poca cosa.
Lei annuì ancora.
«Non è affermato come Hirst e mi sorprende tu lo conosca».
«In verità non avevo la minima idea di chi fosse» rispose con un sorriso ineffabile «Ho solo riconosciuto te, nei suoi dipinti, e devo dire che non ti ha reso giustizia».
Cora storse la bocca: più che un complimento indirizzato a lei, sembrava un attacco immotivato di disistima nei confronti di Chris.
Decise che non era il caso di scoprire altri nervi, respirò profondamente e rispose indulgente:  «Forse. Ma a me piace».
«... e siete solo amici?», buttò lì, come cedendo a un impulso, osservandola con malizia per verificare se l'avesse messa a disagio.
La domanda era assolutamente inappropriata, fuori luogo, e date le circostanze, eccessiva. 
«E tu... con l'ultima modella appena ventenne con cui sei stato fotografato... solo amici?», fu la risposta secca di lei, netta come il taglio di un bisturi.
Negli ultimi tempi, sembrava che Jared prelevasse le sue compagnie femminili direttamente dall'asilo.
Lui scrollò le spalle con noncuranza, e aggiunse con quel tono tranquillo e distaccato che faceva sembrare giusto tutto quello che gli usciva dalla bocca: «Era solo una domanda per fare conversazione. Non c'è bisogno di prendertela così, “piccola”».
Cora provò un'improvvisa fitta di rabbia.
I lineamenti le si rannuvolarono, mentre il sorriso da giocatori di scacchi di Jared si dilatava.
Era sgradevolmente esasperata da quell'aria da saputello e decise che per quella sera aveva fatto il pieno delle sue cazzate da macho.
Incrociò le braccia sotto il petto e chinò la testa da un lato: «Be, allora forse, tanto per fare conversazione, credo di dover chiarire un paio di cose con te. Non sono la tua “piccola”, e se dobbiamo andare d'accordo ti consiglierei di evitare argomenti personali. L'unica cosa di cui dobbiamo parlare è di lavoro, “piccolo”. La mia arte e, la mia competenza sono l'unica cosa che devono interessarti. So che sei abituato alle donne che fanno di tutto per avere la tua attenzione e uno dei tuoi fascinosi sorrisi, ma io non sono una di loro. Non aspiro a diventare una delle tue tante fans, perciò riserva le allusioni e i tuoi ridicoli giochetti a loro. Non ti permetto di fare il coglione con me: hai perso questo diritto molti anni fa, quando ero troppo ingenua e stupidamente persa per metterti in riga».
Una settimana a programmare il comportamento da tenere e solo un minuto perché Jared con il suo atteggiamento le rovinasse tutto.
Le sarebbe piaciuto spiegargli quanta tensione aveva accumulato durante la giornata in previsione di quell'incontro, per non parlare della confusione e del bisogno di difendere i confini del proprio spazio emotivo. Non si trattava solo di una sfida professionale che doveva affrontare, ma del carico emotivo e psicologico che comportava... e Jared non aveva capito niente di tutto questo!
Lui continuò a guardarla con i suoi occhi blu, ridenti, simili a quelli di un ragazzino dispettoso il cui più grande piacere era quello di mettere continuamente alla prova il mondo in cui era costretto a vivere.
Non sembrava particolarmente colpito da quello che Cora gli aveva detto; data la sua esperienze di vita probabilmente ben poche cose lo colpivano, e tuttavia la luce beffarda dei suoi occhi aveva lasciato posto a un lampo d'interesse.
Aveva il ghiaccio nella voce quando parlò: «Non ti preoccupare, Coralline. Starò attento a non turbare troppo la tua suscettibilità, date le circostanze, meglio evitare spargimenti di sangue sul tappeto persiano. Che, d’altra parte, avrebbe comunque bisogno di una ripulita.», elusivamente guardò il grosso e compatto tessuto di lana che ricopriva il pavimento, e sul quale Cora aveva poggiato incautamente dei barattoli.
Lei si portò le mani ai fianchi e stava per dirgli dove poteva ficcarsi il tappeto ben arrotolato, quando vide che Jared, con il sorriso supponente di chi pensa già di aver vinto la partita qualche match in anticipo sulla fine dei giochi,  stava aspettando la sua esplosione di rabbia.
Decise di non dargli soddisfazione. Fece un profondo respiro, e poi esibì il sorriso più dolce: «Bene, siamo d'accordo allora» consultando l'orologio aggiunse «Che ore si sono fatte? Oh cavolo! Sarà meglio che vada a dormire. Ho avuto una giornata piuttosto pesante».
Lui corrugò la fronte, spiazzato dal suo cambio di programma, e per una volta tanto sembrò non avere nessuna battuta pronta che avrebbe potuto regalargli una casa base.
Per la prima volta in tutta la sera, nella sua voce si avvertì un certo risentimento mentre, senza guardarla in faccia, le rispose: «Buonanotte allora. Io rimango ancora un po' e ne approfitto per leggere il copione».
«Bene, ottima idea. Buonanotte», rispose lasciandoselo velocemente alle spalle.

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