Crystallize

di PapySanzo89
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Flag in the Ground ***
Capitolo 3: *** The Devil's Trill ***
Capitolo 4: *** Compositore ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Note: John in questa storia non credo arrivi ai 30 anni (non nel senso che muore prima, nel senso che non ha nemmeno 30 anni XD), e di conseguenza Sherlock ne dovrebbe avere all’incirca 26 o 27.
Ringrazio Hotaru_Tomoe per il betaggio, come sempre <3  
 
 
 


 
PROLOGO
 
 
Fa freddo tra le strade di Londra, in un pomeriggio come un altro di ottobre, ma il sole è alto nel cielo e stranamente pare non verrà a piovere per il resto della giornata. Il vento fa stringere nel cappotto i passanti che si affollano per le vie e corrono e corrono come se fossero sempre di fretta e non riuscissero a prendere la vita con calma, come se quella vita stesse fuggendo loro di mano e dovessero fare in modo di riuscire a raggiungerla, di poter avere ancora un po’ più di tempo. John Watson è lì in mezzo a loro. Lui però cammina stanco, appoggiandosi al bastone, diretto al colloquio di lavoro in uno studio medico in centro città a quasi mezz’ora di metro da dove abita lui. Ma almeno così spera di potersi pagare un alloggio migliore di quello in cui per ora gli tocca stare.

John è più disilluso che altro, ormai non capisce nemmeno tutta questa fretta che gli altri hanno. Eppure una volta anche lui era così, e di questo è sicuro. Gli sfuggirebbe perfino un sorriso se solo ne avesse voglia. Ma è semplicemente troppo apatico per fare anche quello.

Si guarda intorno e continua a camminare, il vento fa sì che debba stringere un po’ gli occhi per poter andare avanti, ma porta con sé odore di caffè caldo e un po’ lo fa star meglio, tuttavia una parte di lui non si ritrova in quelle strade e in quelle vie. È stato lontano per così poco, eppure eccolo qui, uno straniero nella sua terra, costretto a riabituarsi ai collegamenti della metro, agli Starbucks spuntati come funghi, ai nuovi negozi e alla città in generale.

Ma va bene così. Qualcosa gli dice che va bene così, che troverà un suo posto perché prima di andarsene un posto per lui c’era. Allora continua a camminare in mezzo alla folla che ogni tanto lo spintona e si scusa mentre la restante non lo degna di mezzo sguardo. Cammina con la schiena dritta e il mento alto. È sempre stato un uomo fiero e sempre lo sarà, questo nessuno è riuscito a portarglielo via.
 
Cercare di scendere nella galleria della metro e non essere spintonato all’ora di punta è più o meno come sperare che Dio scenda dal Cielo e benedica tutti quanti, così John non presta caso alle persone e decide di lasciar perdere le scale mobili e di scendere le due rampe che lo separano dalla metro, poggiandosi malamente al bastone. Spera che l’incontro di lavoro valga tutta la strada e che non sia un altro buco nell’acqua, non ha la forza di sentire l’ennesimo no e ancora di meno la sua strizzacervelli dirgli che tutto prima o poi andrà per il meglio.
Lui la guarda inarcando un semplice sopracciglio e vorrebbe tanto chiederle come potrebbe andare peggio secondo lei, ma evita di farlo, così come evita di scrivere un blog su quello che gli succede. Del resto, non gli succede nulla di eclatante da quando è tornato.

Un suono proveniente dal fondo delle scale cattura il suo orecchio, ma al momento è troppo impegnato a pensare per far caso a cosa possa essere, questo almeno finché non arriva alla piattaforma e nota con la coda dell’occhio un uomo in completo nero vicino al muro che suona il violino con viso assorto.

John viene spintonato da qualcuno e solo allora si accorge di essere rimasto fermo, in mezzo ai piedi di tutte quelle persone così di fretta e così indaffarate, e allora si sposta, ma invece di dirigersi verso la propria banchina si dirige verso il musicista, che continua a suonare ad occhi chiusi e mettendoci un entusiasmo tale che John non ha mai visto in nessun altro.

John ascolta le note, la musica che creano, e ne rimane incantato. È forte, è potente, è piena di energia, e decisamente appassionata; gli comunica cose che non avrebbe mai pensato uno strumento come il violino potesse comunicargli. Il suono è un crescendo e assieme alla musica anche l’uomo che ha davanti pare prendere vita propria, muovendosi come trasportato da ciò che sta suonando, e John lo trova uno spettacolo meraviglioso, qualcosa a cui non ha mai assistito prima, nemmeno a teatro, nelle rare volte in cui una sua ragazza lo aveva costretto ad assistere a un concerto sinfonico. Nessuno lo ha mai colpito così tanto.

Davanti a quel muro bianco piastrellato e decisamente sporco, quel ragazzo è evidente come il sole nel cielo. il completo nero viene messo in risalto da una camicia bianca, i ricci scuri si muovono sinuosi come il suo proprietario, le mani fanno movimenti secchi e rapidi, efficacissimi per trasportare quel suono meraviglioso al di fuori dello strumento.

E John si dimentica di tutto, si dimentica dell’appuntamento per il lavoro, si dimentica di essere nella metro, si dimentica perfino di essere a Londra, per un attimo è trasportato da qualche altra parte, assieme a quell’uomo che nessuno, a parte lui, sembra degnare di un’occhiata. Ma come si può essere così ciechi, così sordi da allontanarsi senza fermarsi a guardarlo e ad ascoltarlo? Come si può non godere di un attimo del genere? Come si può tirare dritto senza essere rapiti da delle noti simili?

La musica per un attimo va in calando e John segue i movimenti della mano sull’archetto come se si trattasse della sua, si chiede se andrà avanti (lo spera) o se la musica finirà lì e lui si ritroverà trasportato nuovamente alla realtà. Ma la musica riparte e questa volta è un crescendo che mette i brividi e lo fa rimanere lì, a fissare a bocca semi aperta lo spettacolo che un solo uomo può fare col proprio violino.

Poi, d’improvviso la musica finisce, l’archetto viene levato dalle corde con un secco movimento della mano e il ragazzo apre gli occhi, posandoli su di lui.
E John rimane incantato.

Lo sguardo del ragazzo è di sufficienza, gli occhi azzurri come il cielo terso lo fanno quasi sentire giudicato senza apparente motivo, sembrano analizzarlo e trafiggerlo ma a lui non importa assolutamente nulla di tutto questo.

Applaude, John, applaude forte ed entusiasticamente, poi mette una mano in tasca e tira fuori il portafogli, si avvicina al ragazzo e gli lascia cinque sterline –che è anche più di quello che potrebbe permettersi di lasciargli- nel porta violino e gli sorride.

“Grazie per avermi regalato cinque minuti di splendore.” gli dice e l’espressione del ragazzo cambia. Le sopracciglia si distendono, gli occhi si fanno meno freddi e decisamente più curiosi, le labbra si separano e formano una piccola o che sembra quasi di incredulità, ma poi quelle stesse labbra si distendono e prendono una piega dolce e il ragazzo gli regala uno dei sorrisi più belli che John abbia mai visto in vita sua, poi il violinista si inchina, con fare canzonatorio, davanti a lui e finge di levarsi un cappello che non indossa.

John sorride di tutto il teatrino e lo applaude ancora una volta, ma non si accorge che il ragazzo ha aperto bocca e che probabilmente sta per dirgli qualcosa, invece nota l’orologio e che si è fatto dannatamente tardi ed impreca tra sé e sé, ringraziando nuovamente il ragazzo per lo spettacolo e allontanandosi in fretta e furia per andare a prendere la metro.

Il ragazzo, dietro di lui, gli guarda la schiena e sorride mentre imbraccia di nuovo per bene il violino e incomincia un’altra sonata.
 
***
 
Il colloquio è stato molto più facile –ma decisamente molto più lungo- di quello che pensava, la donna che gestisce l’ambulatorio è stata estremamente soddisfatta delle sue credenziali e gli ha chiesto di lavorare per loro praticamente da subito. John è contento almeno di quella notizia, ma si sente comunque stanco nell’animo e non vede l’ora di tornare in quella topaia di appartamento e rilassarsi un po’. Da domani cercherà un nuovo posto in cui alloggiare.

Prende la metro anche per tornare a casa e una donna, vedendolo col bastone, gli chiede se gradirebbe avere il suo posto, ma John le fa cenno con la mano di no e le risponde che sta benissimo così. Scende a Baker Street per il cambio con la linea grigia e, inconsciamente, si allontana dalla sua postazione per avvicinarsi al muro di mattonelle bianco sporco davanti a cui poche ore prima ha visto il violinista.

Purtroppo ora nessuno allieta l’atmosfera superficiale e caotica di Londra con dell’ottima musica e quel posto gli sembra solo incredibilmente vuoto, nonostante la moltitudine di persone che continuano ad andare e venire.

Quel ragazzo gli ha regalato davvero uno sprazzo di felicità, e gli avrebbe dato molto di più se solo ne avesse avuto modo.
Beh, semmai lo rincontrerà, avrà l’occasione di farsi perdonare e di ringraziarlo come si deve. 
 
 
 
 
NOTE:
Non so che tipo di musica vi aspettiate che suoni Sherlock, ma mi spiace dirvi che non è sicuramente qualcosa di Beethoven o Tchaikovsky, (io che sono molto più “rozzaccia”) bensì la canzone è questa: Crystallize consiglio di ascoltarla perché io la amo. XD

Capitolo cortissimo, lo so, comunque credo che questa sia la prima fic che scrivo senza avere una trama ben definita in testa. È qualcosa a cui ho pensato l’anno scorso o giù di lì, in Irlanda, ma tutto s’incentra in realtà a John che vede Sherlock in un contesto non suo mentre suona il violino, quindi questo avevo in mente e dietro questo scriverò ad estro e vediamo cosa ne viene fuori (sperando ne venga fuori qualcosa…)

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Capitolo 2
*** Flag in the Ground ***


CAPITOLO PRIMO

 

 

Londra quest’oggi è bianca. Bianca come la neve che ne ricopre le strade e la leggera nebbiolina che porta con sé umidità e fa dolere la spalla di John. Ma va tutto bene, perché le luci natalizie rischiarano il cielo tinto di rosso del pomeriggio e regalano giochi di luci e ombre contro le vetrine dei negozi e la neve sui tetti. Il sole sta calando e l’aria fredda inizia ad infiltrarsi dentro ai giubbotti e ai cappotti invernali, facendo venir voglia di entrare a riscaldarsi le ossa in una qualsiasi caffetteria, ma a Natale mancano pochissimi giorni e tutti sono troppo indaffarati ad entrare ed uscire dai negozi con nuovi acquisti piuttosto che notare il freddo che ricopre la città.

 

John ha finito il turno all’ambulatorio e si affretta a tornare a casa. Non ha persone a cui fare regali per Natale, lui. Sua sorella non la sente da quando è tornato –e non crede sappia nemmeno che ha rimesso piede in Patria- e i suoi genitori ormai sono venuti a mancare da qualche anno; di amici invece, al momento, non ne ha.

 

John prende un profondo respiro e l’aria fredda gli entra dentro, passando per la gola e arrivando dritta ai polmoni, gelandolo. Gli piace la sensazione, ha patito talmente tanto caldo e per talmente tanto tempo che un po’ di freddo non lo spaventa.

 

Due ragazzini gli passano accanto, ridendo tra loro e correndo a guardare le vetrine dei negozi di giocattoli e John si ferma a osservarli.

Gli vengono d’improvviso in mente i Natali passati con sua sorella, da bambini, mano nella mano a gironzolare per le strade semi deserte della campagna mentre i loro genitori li guardavano e scattavano foto che sono andate perse nel tempo.

Nonostante siano ricordi talmente lontani da fargli quasi pensare che appartengano a un’altra persona, questi riescono a scaldare il cuore a John e a fargli pensare che, forse, mandare un messaggio a Harry non sia poi una così brutta idea.

 

I due ragazzini si spostano dalla vetrina e corrono via, trasportati lontano dalla musica natalizia dei negozi e John li guarda correre, stringendo inconsapevolmente il manico del bastone tra le dita.

Fa un altro respiro e, d’improvviso, sente qualcosa riempirgli il petto. È come un’improvvisa voglia di vivere, qualcosa di gioioso e infantile che gli riscalda i polmoni.

 

Decide di cambiare direzione, non vuole più tornare a casa, preferisce invece fare una lunga camminata per la città e riscoprire vie vecchie e nuove.

 

Si massaggia le mani infreddolite e se le scalda portandole alla bocca, soffiandoci sopra fiato caldo. Il profumo di caffè invade la via che sta percorrendo e nota uno Starbucks da cui la gente entra ed esce in continuazione, lasciando uscire un leggero tepore dal locale.

 

Cammina osservando le vetrine con sguardo nuovo, osserva i giocattoli che non comprerà per nessuno e i maglioni con le più improbabili stampe natalizie che, ammette solo a se stesso, a lui piacciono molto. È sempre stato il più affezionato al Natale, in tutta la sua famiglia, quasi gli dispiace che la magia sia scomparsa un po’.

 

Nota i Babbo Natale in giro per città che chiedono un aiuto anche questo inverno per i meno fortunati di noi e John gli lascia quello che può, ora che ha un lavoro e se lo può permettere. Il Babbo Natale (che, a giudicare dal viso semi nascosto dalla barba e dalla parrucca, non deve avere più di vent’anni) lo ringrazia e suona la campana che tiene in mano, augurandogli buon Natale. John sorride e ritorna a camminare.

 

È la folla a destare la sua curiosità prima di tutto: un ammasso di gente raggruppata sulla piazzola davanti a una Steak House. John si avvicina incuriosito dai visi sorridenti di quelli che non potrebbe far altro che definire spettatori e poi la sente, chiara e cristallina come la prima volta. Non crede di potersi sbagliare sul suono di quella musica.

 

Stringe il bastone e, senza nemmeno accorgersene, fa una piccola corsetta fino a lì, dove il suono di un violino che non potrebbe mai dimenticare si fa strada nelle sue orecchie, nella sua mente, nelle sue cellule.

 

Si avvicina alla folla e chiede permesso, chiede di poter passare e le persone perlopiù si spostano, mentre altre non accennano a muovere un muscolo, ma ora John è abbastanza vicino da poterlo vedere e sì, è proprio lui, il suo violinista in completo.

 

Questa volta si è portato dietro un accompagnamento e dall’IPod ai suoi piedi escono suoni di tamburi, flauti, pianoforti e John ride, ride perché è Natale e quel ragazzo sta suonando una musica che non riesce a far altro che ricordargli i campi verdi della Scozia in pieno luglio, le colline assolate e le scogliere rocciose che mostrano sempre sulle cartoline, il sole che sorge e ti riscalda, calmo e quieto finché non ti accorgi troppo tardi che stai sudando ed è il caso di levarti la giacca che ti sei portato dietro per sicurezza. Quel ragazzo suona e a lui vengono in mente le sue radici [1] e i suoi viaggi in Scozia con la famiglia, quand’era ancora un bambino e riesce anche a fargli tornare in mente il freddo pungente che si provava alla sera, quando il sole calava, e non c’entra nulla che lì –a Londra- faccia freddo, perché non è lo stesso freddo a cui John pensa.

 

Il ragazzo suona sempre con gli occhi chiusi, come se guardare il mondo che lo circonda potesse in qualche modo farlo deconcentrare e così John ne approfitta per ammirarlo meglio, sforzandosi di guardare tra le persone che ha davanti.

 

Il viso è assorto, le labbra sono piegate in un sorriso appena accennato e le sopracciglia denotano vera concentrazione, i capelli ricci sembrano leggermente sudati e John pensa che congelerà se non ha davvero altro da mettersi addosso a parte la giacca del completo e una sciarpa che, ora nota, è ripiegata ed appoggiata accuratamente nel porta violino.

Poi la sua attenzione viene catturata dal collo bianco e longilineo e dal violino a cui è appoggiato, risalendo lungo il legno scuro e arrivando alla mano che lo stringe e alla mano che, con gesti rapidi, regge l’archetto e lo muove creando quella musica che a John entra nel cuore.

 

Poi la mano arresta il movimento sulle corde e il ragazzo apre gli occhi portandoli sulla folla, non vedendolo, e fa un piccolo sorriso iniziando a fare qualche passo mentre si sgranchisce la mano che tiene l’archetto e lascia che la musica dell’IPod prosegua da sola, lasciando solo i tamburi a suonare per diversi secondi.

 

John è in attesa. Non può definirsi in altro modo. È in attesa di vedere se proseguirà o se lo spettacolo è finito e gli sembra che anche gli altri spettatori stiano fremendo per l’aspettativa, questa volta attendendo in un silenzio che sembra quasi religioso.

 

Poi il ragazzo imbraccia di nuovo il violino e le ultime note escono come una cascata e la gente si ritrova ad applaudire ancora prima che l’esecuzione possa essere finita, mentre John prega che facciano un attimo di silenzio per poter sentire fino alla fine quell’interpretazione straordinaria. E, quando finisce, John è ricolmo di gioia.

E ha un’idea.

 

 

Sherlock attende che la folla se ne vada –dopo avergli lanciato qualche monetina- e nel mentre mette via con cura il proprio violino e spegne l’IPod, staccando le casse portatili. Non sente più la punta delle dita e teme che i guanti non gli saranno di qualche utilità adesso. Tenta di scaldarsele come può, soffiandoci sopra e massaggiandosele, e nel frattempo si allaccia la sciarpa al collo. Tutto lo sforzo che ha fatto fin ora non è valso a niente e adesso dovrà tornare di corsa a casa, prima di prendersi una polmonite per essersi scordato il cappotto. Certo, se non gli avessero telefonato e detto che era una questione di vita o di morte magari se lo sarebbe anche ricordato, prima di prendere il violino e piombare in strada fermando il primo taxi.

 

Si infila i guanti e come temeva la sensazione non è delle migliori, gli servirebbe davvero qualcosa di caldo per…

 

“Caffè?”

 

Sherlock, ancora piegato sulle ginocchia per chiudere il porta violino, alza la testa e la prima cosa che incontra è un contenitore bello fumante della Starbucks, poi una mano abbronzata, dalle unghie curate e dalle dita un po’ tozze con dei piccoli calli che gli fanno capire il lavoro dell’uomo davanti a sé, risale poi lungo la manica del cappotto verde scuro e va ad incontrare delle labbra incurvate in un sorriso sincero e degli occhi blu come il mare d’inverno.

 

L’uomo, forse vedendolo non rispondere, fa un piccolo colpo di tosse e sembra quasi imbarazzato, così ritrae di poco la mano che gli sta offrendo il caffè.

 

“Probabilmente non ti ricorderai nemmeno di me, sono passati quasi due mesi ma…”

“No, mi ricordo di te!” Sputa subito fuori Sherlock e prende il bicchiere bollente prima che l’altro possa decidere di aver avuto una pessima idea. L’uomo sembra sorpreso (e che questo sia dovuto al fatto che si ricordi di lui o alla sua voce, non lo saprebbe dire) ma il suo sorriso ricompare nuovamente su quelle labbra fini e Sherlock gli sorride di rimando.

 

Come avrebbe potuto dimenticarsi di lui? Gli ha fatto uno dei più bei complimenti che abbia mai sentito in vita sua. E questo non riguarda solo il fatto che lui sia un vanesio irreprensibile, è che l’espressione che quell’uomo gli ha fatto quel giorno –di pura gioia- lo ha accompagnato per tutto il resto della giornata, facendolo sentire apprezzato. Sa, perché ne è consapevole –tutti i geni conoscono i propri limiti-, che è bravo in ciò che fa, ma quell’uomo lo ha fatto sentire importante per qualcuno. Davvero importante per qualcuno.

 

“Grazie.” Dice infine, abbassando gli occhi, scaldandosi le mani sul bicchiere di polistirolo, lasciando entrare il calore attraverso i guanti ghiacciati. È stato un gesto molto carino da fare, almeno può ammetterlo a se stesso.

 

“L’ho preso nero, non sapendo cosa preferissi, ma mi sono munito di bustine di zucchero e mi hanno gentilmente regalato un po’ di panna.”

 

Sherlock chiude la custodia del violino con un gesto secco e si alza, sovrastando di parecchi centimetri l’uomo davanti a sé che non sembra minimamente impressionato.

 

“Nero, due di zucchero. Hai fatto un’ottima scelta a non prendere altro.”

 

Sherlock finalmente prende un sorso del caffè e per un attimo prova un brivido caldo lungo tutta la schiena. Finalmente qualcosa che riesce a scaldarlo come si deve, più del cappotto e più dei complimenti. Il caffè scende lungo la gola e gli arriva nello stomaco e Sherlock si sente improvvisamente bene.

 

“Splendido.” Si lascia sfuggire e l’uomo davanti a sé ride sommessamente.

Sherlock adesso sente ancora un pochino più caldo.

 

 

John guarda il violinista e, da così vicino, immagina possa avere venticinque anni o qualcosa in più. Non sa cosa sia questa sensazione di familiarità, non ci ha mai parlato prima, non sa nemmeno come si chiama, figuriamoci provare qualcosa del genere, eppure è questo ciò che sente.

 

“Sei stato straordinario. Davvero fantastico.” Gli dice, giusto per parlare un altro po’ perché quella voce baritonale, in un corpo così esile, lo ha sorpreso parecchio e per un attimo si è chiesto come mai non accompagnasse il violino con la propria voce piuttosto che con l’IPod, ma poi si è reso conto che forse non è il caso di chiederglielo.

 

Vede le guance del ragazzo diventare di un rosa più acceso e si domanda se sia per il complimento o per il caffè.

 

“Grazie, io…”

 

“Sherlock!” un uomo dai capelli brizzolati interrompe quello che il ragazzo stava per dire e corre nella loro direzione, afferrando il violinista per il braccio. “Muoviti! Dobbiamo andare!”

 

E poi è tutto un susseguirsi di istanti e immagini, il ragazzo si scusa con lui e lo ringrazia ancora, l’uomo dai capelli argentati gli intima di muoversi, John rimane fermo con il caffè in mano senza sapere cosa dire o cosa fare e, d’improvviso, il violinista –Sherlock- è già lontano, oltre la folla.

 

John non sa bene cosa sia successo e gli dispiace di essere stato privato della compagnia dell’altro, soprattutto dopo che ha trovato il fegato di avvicinarglisi in quella maniera.

Però doveva essere qualcosa d’importante se è fuggito via in quel modo, dimenticandosi perfino l’IPod. John lo nota solo ora e si china a prenderlo, aiutandosi col bastone. È un semplice IPod nero, dal modello sembra avere almeno un paio d’anni, e lui non sa cosa fare. Se lo lascia lì sicuramente qualcuno se lo prenderà, ma non può nemmeno aspettare che l’altro torni a riprenderselo, se mai lo farà.

Storce le labbra e decide di tenerlo: se sarà fortunato lo incontrerà un’altra volta. E dentro di sé spera ardentemente di essere così fortunato.

 

Comunque adesso sa qualcosa in più. Sa il suo nome: Sherlock.

E non sa perché, ma gli viene da ridere. Una persona così particolare non poteva di certo avere un nome banale come il suo. Quel nome gli calza a pennello.

 

 

 

Sherlock si getta a peso morto sul divano del 221B di Baker Street e respira a pieni polmoni, dopo una corsa fatta a perdifiato.

L’aria in casa è fredda, tutto lì dentro è freddo, non ci mette piede da quella mattina e ovviamente nessuno si è premurato di accendere il caminetto. Di sicuro non può pretendere che lo faccia la signora Hudson, è stato lui il primo a dirle di non toccare niente.

 

Ma la cosa che davvero lo fa imbestialire è che tutta quella messinscena non è servita a nulla, tutte quelle ore di appostamento al freddo e al gelo sono state semplicemente buttate ed ora dovranno ricominciare tutto da capo.

 

Poi però gli viene in mente una cosa e allunga la mano per afferrare la custodia del violino e trarla a sé, aprendola con un singolo gesto.

Dentro, mezzo spiegazzato a causa della corsa e della custodia troppo piccola, c’è il bicchiere di Starbucks che quell’uomo gli ha regato quel pomeriggio.

Non ha avuto il coraggio di buttarlo via e l’ha conservato, in uno strano gesto di sentimentalismo che non gli appartiene.

 

Con mano delicata prende il bicchiere e tenta di ridargli la forma originale, girandoselo tra le mani, finché non nota una scritta fatta velocemente con indelebile nero e rovinatasi a causa delle gocce di caffè finiteci sopra ma ancora leggibile: John.

 

Sherlock si alza di scatto a sedere sul divano e rimane a fissare il bicchiere con espressione stupita.

John. È quello il suo nome? Deve avergli dato per sbaglio il suo bicchiere o forse lo ha fatto con intenzione? Ma in quel caso –immagina- avrebbe aggiunto qualcos’altro oltre il nome. Il cognome magari, o il numero di telefono. No, dev’essere stato uno semplice scambio di bicchieri, probabilmente aveva preso due caffè neri e non si era fatto problemi riguardo al quale dargli.

 

Quindi il suo nome è John.

John. John, John, John.

 

Sherlock non sa perché ma si ritrova a sorridere e a pensare che quell’uomo, così poco comune, decisamente tutto fuorché banale, ha il nome che forse meno gli si addice. Eppure, in una strana incongruenza di pensiero, lo trova perfetto.

 

Si alza, Sherlock, e va ad appoggiare il bicchiere col nome di John sulla mensola del camino per tenerlo in bella vista.

Qualcosa gli dice che lo rivedrà e che, soprattutto, gli restituirà l’IPod che si è dimenticato.

 

 

 

 

 

 

 

Note:

[1] John Watson ha origini scozzesi. XD

Questa volta la musica, come ben intenso (spero) non è un assolo di violino ma un accompagnamento, eccola: Flag in the Ground Personalmente la amo, e per fortuna ho trovato la base. XD

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Capitolo 3
*** The Devil's Trill ***


 
 
CAPITOLO SECONDO
 
 
 
 
Londra è fredda quel giorno, più del solito. Il vento batte contro le finestre e le fa tremare, le nuvole ricoprono il cielo e annunciano una pioggia torrenziale che, John sa, non tarderà ad arrivare; nelle strade la gente corre a ripararsi nelle case e i poveri indomiti che restano lì fuori all’aperto sono i clochard che non hanno dove andare.
 
John è a casa, in piedi di fronte alla finestra che vibra su cui poggia una mano per attutire il suono, sentendola poi gelarsi pian piano contro il vetro freddo.
Lungo tutta la via la luce è saltata e ora la sera sembra più buia che mai, fortunatamente il suo turno all’ambulatorio è finito parecchie ore prima e lui è riuscito a tornare a casa senza morire assiderato nel tentativo.
 
Nel suo piccolo monolocale regna il silenzio. Dalla strada non arrivano suoni, a parte il vento che fischia impetuoso, e lui non ha voglia di guardare la televisione ma quel silenzio così assoluto gli incute quasi timore.
 
Gli ricorda delle notti in Afghanistan, del silenzio obbligatorio dopo una determinata ora perché bisognava assolutamente dormire, dei commilitoni che invece si ritrovavano fuori dalle tende –coperti da pesanti strati di vestiti siccome la notte nel deserto può essere mortale quanto il sole di giorno- perché di dormire proprio non avevano intenzione per la paura di venire attaccati nel sonno.
Il silenzio è una delle poche cose che davvero odia, ma ora che ne è attorniato non riesce a fare nulla per toglierselo di dosso.
 
Basterebbe accendere la radio, fare qualche passo nella stanza per ricordarsi che sì, i rumori esistono. Non gli servirebbe far altro che un respiro più pesante o un colpo di tosse, ma il silenzio lo paralizza ed è una cosa che odia, quasi più degli incubi sulla guerra.
E purtroppo sa che il suo inconscio non glieli risparmierà quella notte.
 
John continua a rimanere davanti la finestra e continua a tenere la mano sul vetro tremolante, sentendo gli spifferi provenire dall’intelaiatura in legno, vecchia probabilmente quanto l’intera Londra.
 
Uno scricchiolio arriva dal piano di sopra e John sposta l’attenzione sul soffitto, riuscendo finalmente ad uscire da quel limbo di pensieri. I passi al piano di sopra si moltiplicano e John capisce che il suo vicino è tornato.
 
Sospira finalmente, e si sposta dalla finestra, addentrandosi –per modo di dire- nella cucina, dove si prepara una tazza di tè e le sue orecchie ringraziano il suono dell’acqua che bolle e la fiamma che sfrigola viva.
 
Appoggia le mani sul piano cottura e quella sinistra si va a scontrare con l’IPod che John ha dimenticato di aver lasciato lì.
Nemmeno lo guarda mentre stringe le dita attorno alla plastica scura, volta il viso solo quando –senza nemmeno volere- lo accende e una luce azzurrognola lo avvisa dell’ultima canzone che è stata riprodotta.
John alza le sopracciglia.
 
Il giorno in cui l’ha preso se l’è messo in tasca e poi lo ha appoggiato sul bancone senza nemmeno aprirlo, farlo gli era sembrata quasi un’invasione della privacy.
 
Forse è stato un pensiero stupido da fare ma a tutt’ora, quando legge l’ultimo brano suonato, gli sembra quasi di star un po’ guardando dentro a quel ragazzo. Un po’ come se aprisse la porta della sua camera e si mettesse a curiosare tra le sue cose senza permesso.
Sorride comunque nel leggere il titolo del brano e pensa che è l’ultima canzone che il ragazzo ha suonato quando si sono visti.
No, non il ragazzo: Sherlock.
 
Si rigira un po’ l’IPod tra le mani e pensa proprio a lui, a quegli occhi azzurri come il cielo d’agosto e le labbra piene che s’incurvano gentilmente in un tenero sorriso dopo essere state imbronciate.
Ormai sono tre settimane che non lo vede, Natale è passato, e una parte di lui non desidera altro che vederlo, scambiare ancora qualche parola, magari bersi un caffè in santa pace senza che nessuno li interrompa o glielo porti via di corsa senza nemmeno riuscire a salutarlo.
 
John spegne l’IPod e se lo mette nella tasca dei pantaloni del pigiama, prendendo poi la sua tazza di tè e decidendo di andare a leggere a letto, troppo stanco di tutti quegli spifferi e quelle finestre tremanti.
 
***
 
John è stato perfino troppo clemente col suo infimo inconscio.
 
Si sveglia sudato e tremante nel letto e il libro con cui si è addormentato cade a terra, sospinto dal movimento repentino delle coperte.
 
Lo stomaco gli si è chiuso ma sente lo stesso l’urgenza di vomitare, però rimane lì, fermo sul letto a prendere profondi respiri e a tentare di calmarsi, col sudore freddo che gli scende lungo la schiena e gli costella le tempie e la fronte.
 
Appoggia la testa sulle ginocchia e si calma, buttando l’aria dentro e fuori ogni tre secondi come gli hanno insegnato per gli attacchi di panico. Poi si getta a peso morto all’indietro e il suo corpo cade sul materasso, facendolo rimbalzare a causa delle molle vecchie e logore. Dovrà assolutamente cambiarlo, pensa giusto per allontanare gli incubi che continuano ad attanagliargli la mente.
 
Fissa il buio della stanza che lo circonda e poi chiude gli occhi, incontrando solo altro buio e non volendoci avere più niente a che fare. Volta di poco il capo e va a vedere l’orologio che gli indica che mancano poco più di dieci minuti alle quattro di mattina.
Sbuffa stanco e si chiede che diavolo potrebbe fare alle quattro di mattina perché ormai sa che non riuscirà più a dormire. Maledice se stesso e tutti i suoi problemi.
 
Si stropiccia la faccia e poi tenta di voltarsi su un fianco, ma qualcosa gli urta la coscia e lui si ricorda –imprecando perché, cavolo!, avrebbe potuto romperlo- di avere l’IPod in tasca.
 
Lo tira fuori e di nuovo la lucetta azzurra fa capolino ma questa volta, nota John, la canzone è cambiata e lui si chiede quanto diavolo si sia agitato nel sonno.
La musica è partita da quasi due minuti ma ovviamente, senza cuffie, non produce alcun suono. E John si manda al diavolo e pensa che quello sia semplicemente un segno del destino e che, privacy o meno, una canzone non avrebbe potuto far altro che fargli bene e gli avrebbe chiesto scusa quando lo avrebbe rivisto.
 
Si alza e, al buio, cerca con mano pesante le cuffie che sa di aver appoggiato lì da qualche parte sulla scrivania e quando le trova si affretta ad agganciarle all’IPod e a tornare a letto, facendo ripartire la musica, qualunque essa sia, da capo.
 
Non fa nemmeno in tempo a mettersi sotto le coperte che qualcosa gli dice che forse quella non è la canzone più adatta a lui al momento, sembra qualcosa di tetro e non gli sembra sia il caso, ma poi la musica sale e riconosce che quello è proprio il violino di Sherlock, non ha dubbi a riguardo –non sa come, ma è sicuro che quel suono possa essere solo del suo violino e che quel tocco possa darlo solo la sua mano- e sembra essere arrabbiato. Sente la mano affondare violentemente sulle corde con l’archetto e qualcosa dentro di sé si sente arrabbiata come lui.
 
Passano interminabili secondi di altri strumenti di cui a John non frega assolutamente nulla e aspetta solo che torni il violino e gli infonda quel senso di incazzatura che lui vuole solo riuscire a buttare fuori in qualche modo. Quando il violino riparte la sua mano si muove con esso e inizia a fare strani volteggi in aria seguendo la melodia e iniziando a sentirsi più rilassato e più capito, un qualcosa che gli sembra assolutamente assurdo e impossibile, e invece eccolo lì, mentre fa ripartire la musica da capo senza aspettare di sentire il brano seguente e rimanendo su quello per almeno altre tre volte, mentre la mano pian piano si adagia sul materasso e lui riesce a calmarsi e rilassarsi e, addirittura, ad addormentarsi.
 
***
 
L’IPod si è completamente scaricato e le cuffiette si sono attorcigliate in un groviglio che John, appena sveglio, non ha alcuna voglia di districare, così le stacca e le poggia in malo modo sul comodino, stropicciandosi gli occhi per il sonno.
 
È presto, ma stranamente si sente riposato lo stesso e comunque deve alzarsi per il turno in ambulatorio, quindi scalcia via le coperte –rabbrividendo un po’ per il freddo- e si avvia verso il bagno, dandosi una sciacquata veloce in faccia giusto per svegliarsi del tutto.
 
Non sa che altre canzoni ha sentito quella notte, ma sa solo che i suoi nervi sono calmi e rilassati e che poi ha dormito come un pupo. Quasi quasi quell’IPod se lo tiene.
Sorride al pensiero mentre cerca un cavo USB per poter collegare l’IPod al computer e poi va dritto a farsi un caffè, accendendo la televisione per i fatti di cronaca lasciandola al volume più basso possibile.
 
Si prepara due toast e guarda se sul cellulare abbia ricevuto qualche chiamata o qualche messaggio, trovandone solo uno di Harry (alla fine l’ha contattata), decide di risponderle dopo e si mette seduto a tavola a far colazione.
 
Il telegiornale lo informa di pettegolezzi riguardanti il principe Harry di cui non gli può interessare di meno (dei pettegolezzi, non del principe Harry) e poi passa ai fatti di cronaca.
C’è stato un incidente a Piccadilly, la villetta di un ricco imprenditore è stata svaligiata durante la notte mentre il proprietario era in vacanza con la famiglia, Sherlock si trova su una scena del crimine e…
 
John quasi si soffoca col toast quando vede Sherlock alla Tv –vicino all’uomo dai capelli brizzolati che ha visto l’altra volta- mentre una donna cerca di allontanare le telecamere e di oscurare l’obbiettivo, ma quello è proprio Sherlock e John non ha minimamente dubbi, non potrebbe non riconoscerlo.
 
Gli occhi si abbassano automaticamente sulla scritta bianca su sfondo rosso dove sta scorrendo il luogo dell’omicidio. E John non ha nemmeno bisogno di pensare, prende il giubbotto ed esce di corsa da casa, chiamando Sarah e dicendole che non si sente bene e non sarebbe potuto andare a lavorare. Del resto è la prima assenza in più di tre mesi in cui non ha fatto altro che fare straordinari.
 
Non si è nemmeno accorto di essersi dimenticato IPod e bastone nell’appartamento.

***
 
La folla riunita gli fa capire prima del previsto dove sia stato commesso l’omicidio e non deve farsi tutta la via avanti e indietro per trovare chi sta cercando.
Si avvicina al nastro adesivo della polizia e questa volta si fa largo a spintoni contro le persone che non lo vogliono lasciar passare e si ferma a cercare con gli occhi Sherlock, pregando non c’entri niente con tutta quella situazione.
 
I capelli neri, la carnagione chiara e il cappotto scuro sono abbastanza evidenti nel giardino di una casa di periferia e John se lo ritrova davanti, a pochi metri di distanza, tranquillo, con le mani dietro la schiena che sta parlando –piuttosto animatamente- con l’uomo dell’altra volta. John lo guarda e, nonostante lo scenario non sia proprio dei più rosei, sorride nel vederlo. Fortunatamente sembra non aver nulla a che fare con quella brutta storia.
 
Ha le guance rosse per il freddo, sta molto probabilmente sbraitando qualcosa contro l’uomo dai capelli argentati che lo guarda e scuote la testa rassegnato che infine lo afferra per un braccio e lo porta lontano dagli sguardi delle telecamere che lo stanno riprendendo.
 
Sherlock ha l’espressione di un bambino arrabbiato, ma gli occhi gli brillano e si muove sul posto come se fosse di casa, non si fa problemi a parlare con gli agenti di polizia né a circolare per tutto il giardino, evidentemente cercando delle prove. John non capisce cosa ci faccia quel ragazzo lì, non capisce come mai possa passare oltre il nastro della polizia, ma capisce che è tutto a posto e adesso non riesce a fare altro che guardarlo.
 
Sherlock probabilmente sente di essere osservato perché si volta proprio nella sua direzione e lo guarda per diversi secondi.
L’espressione imbronciata cambia e diventa inizialmente sorpresa, poi il viso si distende, le sopracciglia si sollevano e la bocca ne segue l’esempio prendendo la forma di quel suo caratteristico sorriso mezzo storto. Dimostra stranamente qualche anno di meno.
John alza la mano in cenno di saluto e Sherlock alza timidamente la mano in risposta, evitando di farsi troppo notare dagli altri. Alla fine si volta verso l’uomo dai capelli brizzolati -quello che deve essere evidentemente un poliziotto- e dopo avergli fatto un cenno si allontana a grandi passi per avvicinarsi a John.
 
«Inizio a credere che tu mi stia seguendo.» esordisce Sherlock e John fa un sorriso sghembo, mentre la folla attorno a loro si agita e chiede informazioni all’altro. Sherlock non li degna di alcuna attenzione e rimane a fissare John con le mani dietro la schiena e l’aria di un uomo vissuto, John non sa perché ma a quell’aria spavalda non crede poi così tanto.
 
«Oggi potresti aver ragione.» gli risponde semplicemente e vede che l’altro è rimasto un po’ spiazzato, lo guarda con aria interrogativa e poi rivolge lo sguardo a terra, tossendo visibilmente in imbarazzo.
 
«Sembra qualcosa d’interessante.» dice guardando oltre la spalla di Sherlock che si volta nuovamente per dare un’occhiata a tutta la scena e si accorge solo in quel momento che Lestrade gli sta facendo segno di avvicinarsi. Evidentemente qualcosa gli sfugge, come al solito.
«Hai da fare subito dopo di qui?» gli chiede John -distogliendo evidentemente Sherlock dai propri pensieri- perché non ha alcuna intenzione di perdere un’occasione del genere.
Sherlock si volta verso di lui e sembra quasi sorpreso dalla domanda.
«Io… no, credo di non avere niente da fare.»
 
«Mi tieni compagnia per quel famoso caffè allora? Certo, se non ci metti una vita a finire qui.» John dice quelle parole ma in testa sua pensa che aspetterebbe volentieri anche una vita se poi potessero parlare liberamente.
 
Il volto di Sherlock si illumina in un bel sorriso e John pensa che sì, evidentemente anche lui ha voglia di bersi quel famoso caffè.
 
«Non dovrei metterci molto, dammi dieci minuti, forse un quarto d’ora.» John annuisce e a quello Sherlock si allontana, tornando dall’uomo coi capelli brizzolati che gli porge un fascicolo.
 
Sherlock resta fermo qualche secondo a leggere e ogni tanto gli lancia qualche occhiata a cui John risponde con un’alzata di sopracciglia piuttosto eloquente e allora Sherlock si volta nuovamente verso il fascicolo, per poi restituirlo al poliziotto e sondare nuovamente il terreno.
John non ha idea di cosa stia facendo, ma trova sia affascinante guardarlo.
 
Poi d’un tratto Sherlock si allontana ed entra in casa, lanciandogli un semplice sguardo che può voler dir tutto e niente, e John si ritrova a fissare la porta che si chiude alle spalle e poi l’uomo dai capelli brizzolati gli sta parlando.
 
«Ispettore Gregory Lestrade.»
 
Il cuore di John salta qualche battito per la sorpresa, e infine si volta a guardare l’uomo che gli è a qualche metro di distanza: non si è nemmeno accorto si fosse avvicinato, troppo preso ad osservare Sherlock.
 
Si schiarisce la gola e raddrizza la schiena, sorridendo allo sguardo gentile della persona che ha di fronte.
«John Watson.» dice semplicemente, non sapendo che altro fare se non prendere la mano che l’altro ha allungato e stringerla.
 
«Mi scusi se mi permetto, ma vede, Sherlock è qui per darci una mano e da quando è arrivato lei non ha fatto altro che balbettare e voltarsi a fissarla, quindi vorrei chiederle se potrebbe aspettarlo magari da qualche altra parte prima che mi faccia incriminare un innocente.» il tono è leggero e  amichevole, John trova un sorriso sincero sul viso dell’ispettore e alla fine rilassa le spalle, sorridendogli di rimando.
 
«Non è il tipo da balbettare, immagino.» dice John, perché vuole sapere più cose possibili su quel ragazzo e, in fin dei conti, è una cosa abbastanza evidente.
 
«Direi proprio di no, non credevo nemmeno una cosa simile fosse possibile.» poi l’ispettore si volta a guardarlo meglio, inarcando un sopracciglio, probabilmente sorpreso dall’affermazione che ha fatto John. «Credevo foste amici.» calca leggermente sull’ultima parola -e John non è sicuro se l’abbia fatto con intenzione o meno- e sa perfettamente cosa stia tentando di sottintendere e sghignazza della cosa.
 
«Ci siamo visti due volte e avremo parlato al massimo dieci minuti.» evita di dirgli che l’ultima volta è stata proprio colpa sua il fatto che è riuscito a parlargli così poco siccome l’ha trascinato via, ma ora almeno può quasi capire il perché.
 
L’ispettore lo guarda con aria scettica e poi sorride con espressione confusa. «Beh, buona fortuna con Sherlock Holmes allora. Gliene servirà parecchia.» e detto questo si volta e si allontana ma John lo richiama urlando il suo nome.
 
«Sarò in quel bar all’angolo, gli dica di raggiungermi lì per favore!»
L’ispettore annuisce e John si allontana dalla folla che si accalca ancora e sembra che niente e nessuno riesca ad allontanarla.
 
***
 
John è immerso nei suoi pensieri quando la sedia si scosta e Sherlock Holmes (ora che sa anche il cognome lo ripete a mente e gli sembra che sia semplicemente perfetto) gli si siede di fronte, togliendosi sciarpa e cappotto.
 
«Hai fatto in fretta.» gli dice mentre si accomoda e gli occhi dell’altro non si scostano dai suoi. Sono intensi i suoi occhi, nota John. Sono di un azzurro pungente che ricordano il cielo cristallino di alta montagna e sembrano scavargli dentro come nessuno è mai riuscito a fare. Li trova straordinari e non vede perché dovrebbe interrompere uno spettacolo simile distogliendo lui per primo i propri.
 
«Una cosa piuttosto banale e sembra che tutti qui siano un branco di idioti, non è stato nulla di eclatante.» risponde con aria saccente e l’espressione particolarmente annoiata. Sotto sotto si vede che è una specie di farsa, ma John si ritrova a sorridere come un ebete del suo modo di fare.
 
Sta per dirgli qualcosa quando la cameriera si avvicina per prendere l’ordine di Sherlock. Lui è già stato servito con un caffè nero che gli sta riscaldando le mani grazie al bicchiere bollente, probabilmente il caffè si raffredderà prima che lo possa bere ma al momento non ha importanza, al massimo ne ordinerà un altro.
 
«Quindi sei un investigatore? Un poliziotto? E io che ti ho dato i miei averi.» scherza John, ridendo dello sguardo adesso sdegnato dell’altro. È incredibile come quel ragazzo riesca ad esprimere così tanto con una sola lieve alzata di sopracciglio.
 
Sherlock si toglie i guanti appena la sua ordinazione arriva e anche lui le passa sopra la ceramica della tazza, rabbrividendo un poco.
 
«Sono un consulente investigativo.» gli dice, guardandolo nuovamente negli occhi dopo aver preso un sorso di caffè. John a quell’affermazione storce la bocca e continua a fissarlo, chiedendo silenziosamente spiegazioni. Sherlock alza gli occhi al cielo ed è pronto ad una tiritera che non finirà mai. «Aiuto la polizia quando brancola nel buio, ovvero sempre. Ho aperto un blog negli ultimi tempi e finalmente la polizia ha capito di dover dare retta a me. C’è voluto più del previsto, sono quasi sei anni che mi spingo per entrare nel giro, ma alla fine ce l’ho fatta. Comunque come ho detto sono degli idioti, o mi avrebbero dato retta molto prima.» prende un altro sorso di caffè e rabbrividisce di nuovo. Gli piace la sensazione di venir scaldato, del caffè che gli scende lungo la gola e va a riportargli un po’ di calore nel corpo esposto ad intemperie per ore, ovviamente nessuno lo sa, del resto lui non è il tipo da queste cose.
 
John lo osserva e Sherlock vede il dubbio nei suoi occhi. C’è abituato ormai, gli ci sono voluti anni per poter mettere bocca negli affari della polizia, anni di duro lavoro e di prove consegnate prima che la polizia avesse solo il tempo di guardarsi intorno, anni di sbeffeggiamenti e di porte chiuse in faccia perché era solo un ragazzino e cosa ne poteva sapere lui? Quindi non è per nulla strana l’espressione di John in questo momento, forse dovrebbe dargli qualche dimostrazione, dovrebbe dedurre qualcosa su di lui e spiattellargli tutta la verità in faccia come fa di solito, anche se di solito questa cosa non piace molto alla gente.
 
Una parte di lui non lo vuole fare perché se questa cosa non piace in generale perché dovrebbe piacere a John? Però quella stessa parte si chiede che cos’abbia di così importante questo medico militare che lo fissa stranito per farlo titubare. Non ha mai avuto un dubbio nella sua vita e non gli sembra il caso di iniziare.
 
Inizia a parlare senza nemmeno accorgersene. Butta fuori informazioni, frasi lunghissime e senza nemmeno una pausa perché teme che se si fermerà non riprenderà più a parlare. Butta fuori tutto ciò che sa e vede l’espressione dell’altro diventare mesta, poi sorpresa, poi incredula ma lui non si ferma e continua a parlare. Parla della guerra, dell’assenza di amici o famiglia, di disturbo psicosomatico e alla fine stringe talmente tanto la tazza da farsi venire le nocche bianche ma nemmeno se ne accorge.
 
John lo guarda a bocca aperta e Sherlock pensa a quale reazione sia la più probabile ora. Solitamente viene preso a male parole, qualcuno lo ha addirittura preso a pugni una volta, adesso quindi –per logica deduzione- si aspetta che John lo insulti, si alzi e se ne vada.
Ma John non fa nulla di tutto ciò.
 
«Fantastico.» si limita a dire all’inizio e Sherlock non è così sicuro di aver capito bene. «Cioè, fantastico. Sì, un tantinello troppo personale e non pensavo di essere così leggibile ma… fantastico.» ripete di nuovo, evidentemente a corto di parole.
 
Sherlock sente qualcosa che assomiglia tanto al calore che gli dona il caffè quando -nelle fredde giornate invernali- lo scalda salirgli all’altezza del cuore, ma questa volta il calore è più simile ad un vero e proprio incendio.
 
Resta per qualche istante in silenzio e poi si schiarisce la gola, giocherellando con la tazza ormai vuota per metà.
Non lo dà troppo a vedere ma internamente sta sorridendo, e pure tanto.
 
Ma John non si ferma con le domande, vuole sapere come mai si trovasse a suonare più di una volta in mezzo alla strada, di che caso si stesse occupando, di cosa abbia fatto fino a quel momento e tante altre domande che Sherlock non si è mai sentito porgere in ventisei anni di vita. Nessuno, a parte i suoi genitori e suo fratello, si è mai interessato così tanto a lui.
E allora parla, gli racconta di aver iniziato l’università ma di aver mollato a qualche esame dalla fine perché per quello che voleva fare lui l’università non gli serviva a niente, in più conosceva certe materie molto più approfonditamente di certi suoi insegnanti. Gli racconta di come vive ora, gli racconta del caso grazie al quale loro sono riusciti ad incontrarsi e John ascolta e ascolta e ascolta talmente tanto e tanto a lungo che ormai sono entrambi alla terza tazza di caffè e a Sherlock pare di avere il cuore leggero, gli sembra di essere in una strana bolla che non fa passare né il tempo né le parole della gente, lasciando entrambi in una specie di atmosfera intima e calda che non ha mai provato con nessuno.
 
E per qualche secondo resta quasi spiazzato dalla cosa, ma alla fine contrattacca e chiede a John tutto quello che non può dedurre e John gioca con lui, gli dà degli indizi dai quali deve capire da solo la risposta, sfida il suo acume in modi talmente scontati e quasi patetici che Sherlock trova assolutamente adorabili.
 
Dal caffè passano al tè e ad un certo punto John ordina da mangiare per entrambi (anche se Sherlock ha risposto di non aver fame) ed improvvisamente il prendersi un caffè è diventato un pranzare insieme ma John non ha nulla da fare nel pomeriggio e Sherlock pare del suo stesso avviso, così continuano ad occupare quel tavolino con vista sulla strada affollata parlando.
 
***
 
La cameriera si avvicina loro e fa un piccolo colpo di tosse per richiamare la loro attenzione. John si volta a guardarla stranito mentre Sherlock le rivolge uno sguardo infastidito per l’interruzione.
 
«Scusate il disturbo ma staremmo chiudendo e…» la cameriera sembra in difficoltà, probabilmente non è sua abitudine allontanare i clienti dal locale.
 
John si volta a guardare fuori dalla finestra e nota che il sole è tramontato da un pezzo e che solo i lampioni e i negozietti che lasciano le vetrine con le luci accese rischiarano le strade altrimenti buie. Il vento si è alzato nuovamente e i passanti alzano i baveri dei cappotti, sembra anche che verrà a piovere, le nuvole scure non promettono nulla di buono.
 
John si sorprende di aver passato un’intera giornata in un bar e non essersene nemmeno reso conto, se anche Sherlock è sorpreso della stessa cosa non lo dà a vedere.
 
Entrambi si alzano e Sherlock prende sciarpa e cappotto e li indossa con qualcosa che John potrebbe solo definire altezzosità ma che gli piace da morire, si dirige alla cassa per pagare ma la cameriera ha evidentemente già fatto la chiusura.
John la guarda stranito e sta per dire qualcosa quando la ragazza lo precede. «È già tutto pagato.» dice semplicemente e si addentra nello sgabuzzino per prendere scopa e paletta.
John si volta verso Sherlock e lo guarda divertito.
 
«Beh, come hai detto tu, mi hai dato i tuoi risparmi quando ci siamo visti e mi hai anche offerto un caffè, dovevo pur sdebitarmi.»
 
«Un caffè e qualche sterlina non sono paragonabili a un pranzo e qualcosa come otto litri di caffè. A testa.»
 
Sherlock gli passa accanto e lui finisce con l’osservarlo: è come se quel ragazzo fosse una sottospecie di calamita e lui non riuscisse a togliergli gli occhi di dosso.
 
«Tutto questo dipende dai punti di vista.» si limita a rispondere aprendo la porta a vetri del bar e uscendo, aspettando che John lo raggiunga. John ringrazia e saluta la cameriera rimasta sola, poi si avvia.
 
È solo quando mette piede fuori dal locale e sente qualche canzoncina arrivare dal fondo della strada che si ricorda una cosa.
 
«Dannazione, non ho il tuo IPod con me! L’ho lasciato a casa.» dice mentre si passa una mano sulla faccia e si dà mentalmente dello stupido. Sapeva l’avrebbe visto, avrebbe anche potuto ricordarselo. Storce la bocca e lo guarda. «Mi sa che mi toccherà ridartelo la prossima volta che ci vediamo.» e nel dirlo le sue labbra di aprono in un sorriso che Sherlock non riesce a far altro che imitare.
 
«Mi sembra un ottimo compromesso.» si limita a dire con le mani dietro la schiena.
 
Restano in silenzio a guardarsi per qualche istante, poi un tuono spezza quella specie di armonia che si è creata tra loro e John sospira, guardando il cielo.
 
«Questa volta sarai tu a dovermi trovare però.»
 
Sherlock volta la testa a guardarlo e pare sorpreso dall’affermazione. John all’inizio gli mostra solo il profilo, gli occhi del blu più bello che abbia mai visto rivolti al cielo coperto, poi si volta verso di lui e lo osserva di rimando.
 
«Ti ho sempre trovato io, adesso, mio caro consulente, siccome questo pare essere proprio il tuo lavoro, pretendo di essere trovato. E se succederà credo proprio che questo potrà essere chiamato destino.» evita di continuare la frase come vorrebbe, ma ci sarebbero tante cose da dire e ognuna con un significato diverso dall’altro. Comunque, decide lì in quel momento, se sarà destino lo sarà per sempre.
 
La pioggia inizia a cadere copiosa e distorce i contorni dei palazzi affianco facendo uno strano gioco di luci ed ombre con i lampioni, mentre il vento fa rabbrividire entrambi per la differenza di temperatura che c’era tra dentro e fuori il locale.
Sherlock lo fissa per qualche istante, rimanendo in silenzio, poi gli si forma un ghigno in viso, qualcosa che assomiglia molto a uno sguardo di sfida, qualcosa di intimidatorio.
 
«Allora sta pur certo che ti troverò John Watson. E non sarà destino, sarò io ad averlo fatto.»
 
John si domanda per qualche istante come Sherlock sappia il suo cognome, poi si ricorda di Lestrade e quella domanda cade nel dimenticatoio, non è una cosa che gli interessa più di tanto. Si sorridono per l’ultima volta poi ognuno prende la propria strada, correndo tra la pioggia scrosciante udendo solo i rumori dei tuoni e le strade rischiarate a giorno dai fulmini. Non si sono nemmeno salutati perché che bisogno c’è di salutarsi quando entrambi sanno che si rivedranno a breve?
John adesso sa che tornerà all’appartamento e ascolterà a tutto volume le note del violino di Sherlock e Sherlock sa che andrà a casa, si farà una doccia e poi si asciugherà i capelli davanti al caminetto guardando il nome di John scritto con l’indelebile sul bicchiere che non ha intenzione di buttare.
 
 
 
 
 
 
 
NOTE:
La canzone del giorno è questa (lei è tipo bravissima ma possibilmente non guardatevi il video perché è orrendo XD), enjoy:
The Devil’s Trill  
Poi giusto un due paroline, tendenzialmente il prossimo capitolo sarà l’ultimo a meno che non mi vengano in mente altre idee, incrocio le dita che la storia comunque vi stia piacendo –soprattutto perché mi rilassa tantissimo scriverla e sono contenta <3
Punto secondo, come ho detto in Ermetanzo lunedì parto per il Giappone quindi per un mesetto non farò aggiornamenti (piango) perché non avrò proprio il tempo materiale per scrivere ma soprattutto non mi porto dietro il computer perché solo quello pesa tipo 8 chili XD ma spero mi verrà ispirazione per qualche nuova storia tra vari templi :3
Per il resto spero il capitolo vi sia piaciuto e se non aggiorno con nient’altro non si sa mai nella vita ci sentiamo tra un mese *_*

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Capitolo 4
*** Compositore ***


CAPITOLO TERZO (EPILOGO)
 
 
 
 
La periferia di Londra è estremamente buia e silenziosa, non c’è quasi alcun suono se non il rumore del vento che soffia tra i cassonetti e qualche ratto nascosto che corre da una parte all’altra della strada nel tentativo di trovare cibo vicino ai ristoranti ormai chiusi. È l’una del mattino di un tetro e grigio mercoledì che minaccia pioggia, con le sue nubi nere e l’aria che entra dalle narici e ti arriva nei polmoni, ghiacciandoli.
E John è lì, in quel mercoledì notte; è lì che cammina in quei vicoli grotteschi aspettando che qualche malvivente ne esca fuori mentre accompagna di peso un suo collega a casa, è lì mentre il suo pensiero va alla serata appena trascorsa in una falsa pizzeria italiana mentre il suo capo iniziava la solita riunione mensile sul come tutti dovessero andare d’accordo e darsi una mano e quale occasione migliore che bere e mangiare in allegria, è lì mentre pensa che al posto di quella serata avrebbe preferito fare qualsiasi altra cosa, come ad esempio starsene a casa con una tazza di tè fumante in mano ascoltando le note del violino di Sherlock riempirgli l’anima grazie al suo IPod. Sì, quella sarebbe stata una serata perfetta. Sarebbe stata ancora più perfetta se solo ci fosse stato Sherlock, ma…
Sospira e scuote la testa e si vieta categoricamente di pensare a da quant’è che non vede quel ragazzo, da quant’è che vorrebbe sentire di nuovo il suono della sua voce e vedere quelle mani posarsi delicatamente sull’archetto e suonare qualcosa, unicamente per lui. Sospira al ricordo di quell’unica volta in cui sono stati insieme tutta una giornata e a come gli occhi di Sherlock si siano illuminati a certe domande, a come ogni tanto le guance gli si imporporavano a un complimento e a come Sherlock sia riuscito a dargli dell’idiota più di una volta ma l’unica cosa che è riuscito a pensare John è a quanto diavolo fosse adorabile.
Sant’Iddio è estremamente fottuto. Fottuto da un ragazzino di nemmeno venticinque anni che ha visto in totale tre volte e con cui ha parlato a malapena una volta e mezza. Se non è pazzia questa John proprio non sa cosa sia.
 
Allora sta pur certo che ti troverò, John Watson. E non sarà destino, sarò io ad averlo fatto.
 
Le parole di Sherlock gli riecheggiano nelle orecchie in quel silenzio immenso e il cuore di John salta stupidamente un battito. Ha aspettato. Ha davvero aspettato e sperato di rivederlo di lì a pochi giorni, che Sherlock sarebbe saltato fuori dal posto più improponibile per dirgli che era ovvio l’avrebbe trovato, perché lui fa questo, lui trova tutto ciò che vuole perché lui fa questo per lavoro.
Il fatto che non si siano ancora rivisti dopo quasi due mesi gli fa solo pensare che quello che ha sentito lui con Sherlock, quello che ha provato a stare con quel ragazzo seduto in un bar a non far altro che parlare, sia stata una cosa unilaterale.
Ma poi ricorda le guance arrossite di Sherlock e le occhiate date da sotto le ciglia scure quando pensava di non essere visto e il cuore gli si fa un po’ più leggero.
E poi al diavolo! Se Sherlock non si farà vivo nella prossima settimana John ha tutta l’intenzione di andare a Scotland Yard, trovare Gregory Lestrade e spingerlo a dirgli dove diavolo si trova Sherlock. Destino o meno John non ha più tempo per queste cazzate.
 
John si ricorda cosa sta facendo e dove sta andando solo quando il suo nuovo collega –Michael, se non ricorda male?- inizia a farneticare qualcosa sui turni e sull’impossibilità di vivere bene a Londra e John si desta dai suoi pensieri, lasciando perdere per un attimo Sherlock e tutto ciò che porta dietro a sé quel nome, concentrandosi su quello che deve fare, che nell’immediato futuro è lasciare il suo collega sulla porta del suo appartamento e poi fare dietrofront e tornare a casa sua –che sta tutta dall’altra parte di dove si trovano adesso- prima di morire congelato.
Il collega balbetta ancora qualcosa stringendo il braccio attorno al collo di John che per un attimo non respira e poi indica un palazzo, John spera solo sia la casa giusta e che il tipo non sia troppo ubriaco per non distinguere dove siano.
Una volta arrivati Michael inizia a frugarsi nelle tasche dei pantaloni in cerca delle chiavi, lamentandosi ancora di qualcosa che John è sinceramente troppo stanco per ascoltare ma aspetta paziente accanto a lui, terrorizzato dall’idea che l’altro cada da un momento all’altro non reggendosi bene sulle gambe.
 
Alla fine sembra che l’altro trovi le chiavi in una tasca interna del giubbotto e alza una mano a salutare John, che ricambia con un mezzo sorriso e lo guarda entrare in casa per sicurezza.
 
Mai più, si dice quando il portone si chiude e può finalmente andarsene ma rimane lì per qualche istante, con le mani nelle tasche, sui gradini del portone a fissare per qualche minuto il cielo.
 
Non si vedono molte stelle a Londra, l’inquinamento luminoso –anche se scarso in quella zona- gioca brutti scherzi e John può vederne solo una minima parte ma gli piacciono le stelle, tanto.
In Afghanistan, di notte, il cielo era un vero e proprio spettacolo e quella è una delle poche cose che gli manca di quel posto, se non addirittura l’unica.
 
John sbuffa e si decide a lasciar perdere il cielo e tutti i suoi pensieri e a muoversi per tornare a casa: giornata di riposo o meno non ha intenzione di gironzolare senza meta.
 
Respira a pieni polmoni il freddo di Londra, l’aria seppur inquinata, per darsi una bella svegliata perché gli aspetta almeno una buona mezzora di camminata e chiude gli occhi un istante, concentrandosi sul niente, ascoltando il silenzio che lo circonda come una manna dal cielo e lasciando che i pensieri scivolino via lasciandogli qualche istante di infinita pace.
 
Il problema è che poi Londra non è proprio così silenziosa.
 
Un bidone dei rifiuti cade malamente a terra seguito a ruota da un uomo che evidentemente è troppo ubriaco per non urtare oggetti immobili.
Evidentemente non è la giornata di John.
Con un ulteriore sospiro si volta verso l’uomo e fa qualche passo in sua direzione, intenzionato a chiedere se avesse bisogno di qualcosa e se si sentisse bene ma l’uomo -molto più lucido di quanto John si fosse aspettato- si rialza da terra in pochi istanti e ricomincia a correre e proprio nella sua direzione, spintonandolo per passare e continuare a correre senza voltarsi indietro.
John ha un’imprecazione sulle labbra –è così tardi, è così stanco, fa così freddo- ma questa viene fermata da uno strattonamento nei riguardi della manica del suo giubbotto che viene tirata ed improvvisamente si ritrova trainato da Sherlock che lo tira per il braccio e gli intima di muoversi.
 
«Cosa diavolo…?»
 
«Non c’è tempo, John. Dobbiamo fermarlo.»
 
E John guarda la figura di Sherlock. Guarda i suoi ricci scuri illuminati dai lampioni delle strade, guarda il suo cappotto grigio scuro aprirsi dietro di lui mentre corre, guarda per qualche istante i suoi occhi dal colore impossibile fissarsi nei suoi prima di voltarsi verso l’uomo che stanno inseguendo e guarda i suoi zigomi alti e improvvisamente è come se John potesse respirare di nuovo.
E tutto ciò che John si sente di fare a quel punto è liberare la stretta della mano di Sherlock dal suo giubbotto e cominciare a correre sul serio. Non è mai stato uno bravo con gli scatti ma ha fiato da vendere e stamina in esubero quindi perché non sfruttarle?
 
Sherlock gli fa un mezzo sorriso sghembo e lo supera e John riesce solo a pensare all’IPod che ha con sé in tasca e al fatto che questa sera –questa sera!- glielo restituirà e che questo vorrà pure dir qualcosa, no?
Sorride tra sé e sé e accelera il passo.
 
 
                                                                                                            ***
 
Il rumore di piedi che strisciano per terra, di telefoni che continuano incessantemente a suonare e di voci stanche che rispondono il più professionalmente possibile tengono compagnia a John, che se ne sta seduto su una sedia di legno malconcia nel corridoio di Scotland Yard ad aspettare che Sherlock esca dall’ufficio di Gregory Lestrade. Per che cosa lo stia aspettando, John non ne è poi così sicuro.
Diversi agenti lo sorpassano e gli scoccano un’occhiata interrogativa alla quale lui non risponde, tenendo la testa alta ad osservare la porta a vetri che lo separa da Sherlock. Sherlock che cammina avanti e indietro, le mani che si muovono velocemente e il cappotto che si apre dietro di lui come un mantello mentre –anche se non può sentirlo ne è sicuro- parla a raffica senza riprendere nemmeno fiato per spiegare cos’è successo. Accanto a Lestrade un’agente con le braccia incrociate scuote la testa smuovendo i folti capelli ricci scuri e apre bocca per dire qualcosa, Sherlock la zittisce con un solo sguardo e gli occhi di lei si fanno glaciali. John non sa bene cosa stia succedendo là dentro ma in poco più di dieci minuti è ben riuscito a vedere che Sherlock non è molto amato in quel posto, diversi agenti non si sono risparmiati battutine sarcastiche quando è entrato –completamente disinteressati dall’essere sentiti o meno- e non hanno risparmiato nemmeno occhiate verso l’ufficio di Lestrade bisbigliando poi qualcosa quando notavano di essere osservati da John.
E John non riesce davvero a capire cosa possano avere contro Sherlock, perché John lo guarda e l’unica cosa che riesce a vedere è un bellissimo e brillante ragazzo di venticinque anni che è tutto uno svolazzamento di cappotto, di mani sollevate in aria, di sorrisi vittoriosi e felici e occhi accesi d’entusiasmo.
Lo sa, perché ha assistito personalmente, che ha una lingua velenosa e pungente e che i suoi modi sono spesso raffazzonati ma è una cosa che passa assolutamente in secondo piano se messa a confronto alle cose stupefacenti che riesce a fare.
Almeno secondo John.
 
Alla fine John nota un cambiamento nella postura del detective che finisce col coprirsi gli occhi con una mano e a scuotere la testa, sospirando poi verso il soffitto e a fare un cenno a Sherlock con la mano verso l’uscita.
John è in piedi quando la porta si apre e sente la stanchezza e la fame cadergli addosso come un macigno ma non dice nulla facendo un piccolo sorriso in direzione di Sherlock quando questo lo raggiunge a grandi falcate.
Sherlock ha gli occhi di un bambino il giorno di Natale e il sorriso più felice che abbia visto da quand’è tornato a Londra e sta per dirgli qualcosa se non fosse che la donna dell’ufficio di Lestrade si avvicina.
«Ehi, strambo, lo sai che il rapimento è illegale, vero?»
Il sorriso di Sherlock si spegne di colpo e John sente un improvviso odio per quella donna a cui non ha nemmeno mai rivolto la parola.
Sherlock si volta nella sua direzione e la guarda con fare annoiato.
«Dovrei sapere di cosa stai parlando?»
La donna si avvicina e indica John con il mento come se questo dovesse spiegare tutto per filo e per segno.
«Nessuna persona sana di mente passerebbe del tempo con te di sua spontanea volontà. Allora, cos’è, l’ha rapita? Possiamo fare qualcosa a riguardo immediatamente»
John la guarda e per un attimo non sa cosa dire, ritrovandosi a parlare con un’agente di polizia del suo possibile rapimento, poi vede con la coda dell’occhio la postura di Sherlock irrigidirsi e tutta la meravigliosa serenità del consulente investigativo svanire nel nulla.
E John è improvvisamente furioso.
«In realtà,» dice senza nemmeno pensare a cosa sta facendo e prendendo la mano di Sherlock nella sua, accarezzandone il dorso con il pollice «saremmo nel bel mezzo di un appuntamento quindi se non ha nient’altro di intelligente da dire preferiremmo andarcene» e può sentirlo da sé che il sorriso che sta facendo è un sorriso grottesco e per nulla amichevole.
L’espressione sbigottita della donna che cerca di balbettare qualcosa ma fallisce miseramente fa capire a John che non ha nessuna intenzione di continuare a guardare quello spettacolo pietoso quando può andarsene di lì in quel preciso momento e passare un po’ di tempo con Sherlock. Sherlock che gli restituisce timidamente la stretta di mano come per dirgli grazie, Sherlock che gli fa scaldare il cuore con un gesto semplice come quello, ed improvvisamente per John è semplicemente tutto troppo e quello che fa è voltare i tacchi dopo aver fatto un cenno con la testa verso la donna e trascinarsi dietro Sherlock senza aggiungere altro.
Riesce a calmarsi solo quando escono da quel posto e l’aria notturna gli dà uno schiaffo in faccia ed improvvisamente è di nuovo sveglio e infreddolito e l’unica cosa che vorrebbe fare sarebbe infilarsi sotto le coperte dopo aver mangiato qualcosa di caldo.
Si volta verso Sherlock per chiedergli cos’ha intenzione di fare ma le parole gli si fermano in gola quando vede come l’altro lo stia guardando e John improvvisamente non sente più poi così tanto freddo.
Non è mai stato guardato in un modo simile e perciò non saprebbe nemmeno spiegare il tipo di sguardo, ma gli sembra quasi che Sherlock abbia scoperto l’ottava meraviglia del mondo. Il ché è ovviamente stupido perché John è semplicemente John.
Sherlock, la mano che stringe ancora con forza la sua, gli si avvicina di un passo e sono talmente vicini che i cappotti si sfiorano.
«Fame?» si limita a chiedere con quella sua voce bassa che in uno strano modo fa pensare a John alle belle giornate passate sotto il piumone d’inverno con qualcuno che ti abbraccia e ti scalda e ti ama.
John lo guarda negli occhi e sente lo stomaco chiuderglisi ma non perderebbe un’occasione del genere per tutto l’oro del mondo.
 
«Da morire»
 
Sherlock gli sorride e annuisce, tirandolo poi per la mano per farsi seguire e alzare l’altra per fermare un taxi.
 
«Baker Street. C’è un ristorante cinese ancora aperto, anche se per poco.»
 
John lo guarda per qualche istante, annuisce e lo segue.
 
***
 
Il 221B di Baker Street lo accoglie con il caminetto ancora acceso -il fuoco scoppiettante l’unico rumore oltre i loro passi- e un odore che in qualche maniera è famigliare e allo stesso tempo estraneo. Tutto di quel posto gli fa pensare alla parola casa. Sarà il calore del fuoco che gli sta togliendo di dosso il freddo pungente che gli si era attanagliato addosso, sarà il fatto che tutto in quel posto sembra vissuto, che c’è qualcuno dentro che non solo ci vive per avere un tetto sopra la testa ma che proprio lo abita perché tutto ciò su cui posa lo sguardo gli fa pensare a Sherlock.
C’è caos ovunque, pile e pile di documenti scompostamente messi in posti dove dei documenti non dovrebbero stare, tazze di tè sulla parte libera da provette sul tavolo in cucina con dentro ancora le bustine, libri lasciati aperti pieni di appunti fatti a matita e post-it tra le pagine chiuse, foto appese direttamente alla parete con puntine di diverso colore (e John non sa se i colori siano abbinati a qualcosa ma conoscendo quel poco che conosce Sherlock pensa comunque di sì), sul caminetto un teschio gli restituisce lo sguardo mentre un pugnale se ne sta conficcato nel legno tenendo ferme quelle che sembrano bollette e richieste scritte a mano e vari altri ammennicoli e per ultimo il suo sguardo cade sul divano dove si trova il violino (e il cuore di John perde stupidamente un battito al ricordo di mattonelle bianche di una metro che fanno da sfondo a un bellissimo ragazzo con proprio quel violino tra le mani mentre suona una musica che a John ha cambiato non solo la giornata, ma a quanto pare la vita da quando è tornato a Londra) l’archetto poggiato con delicatezza sul tavolino di fronte.
È così diverso dal posto dove fa ritorno lui alla sera (le poche cose che possiede ancora impilate in una valigia sotto il letto, i libri mai tirati veramente fuori, l’armadio semi sgombro perché non si è mai preso la briga di disfare gli scatoloni) che il sorriso gli nasce naturalmente sulle labbra insieme a una strana sensazione alla bocca dello stomaco.
L’odore di cinese impregna l’aria del soggiorno e ci mette un attimo a ricordarsi che è lì con Sherlock.
Sherlock.
John si volta in direzione del ragazzo che poggia la busta del cinese sul tavolo in cucina e si spoglia di giacca e sciarpa, lasciando tutto poggiato malamente sulla sedia e voltandosi in sua direzione con uno strano sorriso complice.
John gli si avvicina e Sherlock gli fa cenno di sedersi dove più preferisce.
Mangiano perlopiù in silenzio, cullati dal rumore delle bacchette che si muovono, il vento sulle finestre e il fuoco nel camino. Parlano del caso, ovviamente. John vuole sapere il più possibile di tutta la faccenda e Sherlock non si esime dal tirare fuori più dettagli possibili. È tutto così domestico e famigliare che John non riesce in nessun modo a credere di conoscere quel ragazzo da così poco e di aver messo piede lì dentro per la prima volta.
 
Chiacchierano ancora quando il cibo è finito e i cartoni del cinese vengono spostati di lato per far loro spazio sul tavolo. Parlano ancora quando Sherlock apre una seconda bottiglia di vino e allunga le gambe sotto il tavolo come se non ce la facesse a stare seduto in maniera normale. Continuano a parlare e parlare ma improvvisamente, John non sa nemmeno come, le dita delle loro mani si sfiorano sopra il tavolo e la caviglia destra di Sherlock è poggiata sulla sua sinistra.
Ed è bello, Sherlock. Per la non-sa-nemmeno-quale-volta il pensiero gli affiora e non riesce a fare a meno di notare gli zigomi alti, gli occhi chiari illuminati dalla piccolo luce fredda della cucina, i capelli ricci che sembrano indomabili quanto la sua stessa persona, le labbra piene stirate in un sorriso mentre lo guarda e sembra semplicemente felice che John sia lì con lui in quel momento.
E d’improvviso, senza nemmeno pensarci, John allunga la mano e il semplice sfiorarsi di prima diventano due mani che si stringono con forza, i sorrisi canzonatori si spengono per dare spazio a sorrisi timidi, con occhi che si guardano con una luce del tutto diversa rispetto a prima.
 
«Sei riuscito a trovarmi,» dice John, quasi per spezzare quell’aria carica di sottintesi che si è formata tra loro «iniziavo quasi a preoccuparmi, caro consulente investigativo» il tono è scherzoso, le dita che accarezzano la mano di Sherlock no.
Sherlock lo studia per qualche istante, la testa inclinata di lato come a mostrare la linea lunga e perfetta di quel collo bianchissimo, e John si lascia osservare senza dire nulla, gli occhi puntati su due nei sul collo di Sherlock che lo pregano di avvicinarsi e assaggiare quel lembo di pelle. Si lascia scrutare dall’altro senza fretta, senza nessun problema, lasciando che i suoi pensieri gli si leggano in faccia perché vuole sapere se per Sherlock è lo stesso, se sono sulla stessa pagina e vogliono la stessa cosa.
Sherlock si alza improvvisamente in piedi con una grazia che non dovrebbe essere concessa ad un nomale essere umano e tira John per la mano, di modo che si alzi anche lui.
«Non sottovalutarmi in questa maniera, John,» dice con la sua bassa voce «volevo prima chiudere questo caso così da avere più tempo»
Sherlock gli è così vicino che i loro vestiti quasi si sfiorano e il suo respiro gli solletica la pelle del viso.
John deglutisce mentre con occhi mezzi socchiusi guarda quella bocca che è lì, a pochi centimetri dalla sua, basterebbe allungare un poco il collo per riuscire a-
«E per cosa ti serviva tutto questo tempo in più?» si ritrova a chiedere spostando gli occhi verso quelli dell’altro e poi di nuovo verso la sua bocca, come una falena attirata dalla luce di una lampada.
Sherlock lo bacia e John lo attira a sé con quanta più forza possibile, la mani incastrate nei suoi capelli ricci, la bocca che morde, succhia, bacia mentre Sherlock gli si appoggia addosso e improvvisamente John è intrappolato tra Sherlock e il tavolo della cucina. Non si può lamentare di niente.
Le mani di Sherlock si aggrappano al suo maglione e lo tirano, poi toccano il collo di John con reverenza, poi sono sui suoi fianchi e tra i suoi capelli e John lo sente ovunque ed è una sensazione mai provata prima ma va bene, Dio, va più che bene.
La bocca di Sherlock si allontana dalla sua e John ansima -quasi senza fiato- con gli occhi chiusi mentre appoggia la fronte sulla spalla dell’altro e cerca di darsi una calmata, un contegno, qualcosa.
«John» la voce di Sherlock è così vicina che John ne sente ogni più piccola sfumatura mentre le labbra di Sherlock gli si poggiano tra i capelli in un casto bacio e, oh mio Dio, non è la cosa più tenera che gli sia mai capitata?
«John» ripete la voce di Sherlock perché John non riesce in alcun modo a far uscire un suono dalla sua fottuta bocca per rispondergli decentemente. Allora John si rialza, scostando a malavoglia quella bocca dai suoi capelli, e va ad incontrare gli occhi di Sherlock.
Sherlock, guance arrossate, capelli spettinati e occhi lucidi, gli restituisce uno sguardo languido che gli fa tremare un po’ le ginocchia e poi le mani di Sherlock tirano di nuovo il suo maglione e John si alza senza fare storie e segue Sherlock, ovunque stia andando, perché improvvisamente si rende conto che lo seguirebbe fino in capo al mondo se solo glielo chiedesse.
 
***

La camera di Sherlock è illuminata vagamente dalla porta lasciata aperta e dalla poca luce del lampione che entra dalla finestra, c’è poco da poter vedere se non la sagoma del letto e dell’armadio ma John non presterebbe attenzione a dove si trova nemmeno se fosse tutto illuminato a giorno. Sherlock lo bacia in un modo che a John fa esplodere il cuore, lo sfiora ovunque in punta di dita come se temesse di poterlo rompere (a lui, John…) o come se temesse che da un momento all’altro potesse svanire nel nulla. John lo tira a sé, gli afferra i fianchi con forza e gli fa capire che non è un’illusione, che è lì con lui e che ha tutta la più buona intenzione di restarci.


C’è un solo attimo di esitazione, un singolo John detto a voce bassa mentre le mani toccano sotto i vestiti e il letto è a distanza di mezza falcata.
John guarda quegli occhi chiari resi languidi da baci e carezze ed è come se Sherlock gli avesse detto tutto ad alta voce. Annuisce, John. Annuisce e gli sfiora una guancia con la mano e Sherlock si riversa in quella carezza, baciandogli il palmo e fermando la sua mano con la propria come a non volerlo lasciare andare.
Ma John non ha intenzione di andare da nessuna parte, sente l’odore della pelle di Sherlock, il calore del suo corpo e si sente finalmente a casa.
 
***
 
Sherlock emette un concerto fatto di soli John come se quella fosse l’unica parola in grado di pronunciare in quel momento e John ha il cuore in gola al pensiero che probabilmente è proprio così. Il suo nome cambia suono a seconda di dove John lo tocca e John non ha mai pensato, mai una volta in vita sua, che il suo nome fosse qualcosa di più che un comunissimo nome affibbiato alla maggior parte della popolazione ma adesso, pronunciato dalla bocca di Sherlock, è la parola più bella e musicale che abbia mai sentito in vita sua ed è una parola importante e John si sente importante. E la voce di Sherlock è bassa e roca quando John gli sfiora le cosce con le labbra, alta e giocosa quando gli solletica i fianchi o gli bacia la pancia, deliziata quanta gli succhia il collo e John si sente il fautore di quella musica, si sente come la mano di Sherlock che, sinuosa e incantatrice, muove l'archetto producendo melodie indimenticabili.
E John questo si sente adesso: un autore di melodie indimenticabili. Perché il suono della voce di Sherlock che chiama solo e unicamente lui è qualcosa di straordinariamente potente. Sherlock che invoca il suo nome mentre John ne sfiora le carni e si muove sinuoso sotto di lui è la musica più bella che abbia mai sentito, Sherlock che pronuncia con voce roca il suo nome a fior di labbra dopo l’orgasmo è la conclusione migliore a quella melodia che non è mai stata sentita da nessuno prima di lui.
John è riuscito a comporre una melodia che gli è entrata nel cuore ed è sicuro non lo abbandonerà mai.
 
***

John non è tanto sicuro che riuscirà mai a togliere la mano dai capelli di Sherlock (non è tanto sicuro che vorrà mai farlo) né tantomeno di riuscire a smetterla di baciarlo ogni volta che gli occhi incontrano i suoi, o che metterà mai più piede fuori da quel letto perché per quale diavolo di motivo dovrebbe farlo quando Sherlock è lì che lo abbraccia e lo guarda come se fosse lui quello fantastico?
Ed è una sensazione strana quella, è una cosa che non ha mai provato prima, è qualcosa che gli si forma a forza nel petto e in qualche modo gli stringe i polmoni e lo fa smettere di respirare perché, mio Dio, è innamorato perso di un ragazzo conosciuto pochi mesi addietro e con cui ha scambiato poco più di qualche parola in un pomeriggio d’inverno. Eppure è la verità inconfutabile di quello che sente mentre osserva il respiro di Sherlock tornare regolare, mentre guarda gli occhi languidi tornare vigili e attenti e fissarsi nei suoi, mentre le mani di Sherlock gli circondano la vita e John spera che non le toglierà mai di lì, mentre sente il proprio cuore saltare diversi battiti al solo guardarlo, al solo vedere un mezzo sorriso timido accompagnare uno sguardo che vuol sembrare quasi di indifferenza ma che fallisce miseramente.
«Forse era il caso di chiudere le tende» si ritrova a dire sottovoce per non rompere troppo un silenzio più che perfetto mentre i primi, tenui raggi di sole si fanno largo oltre la finestra, illuminando la figura nuda di Sherlock che John non finge nemmeno di non guardare. Sherlock ghigna e si alza per qualche istante (la mano di John che resta ferma sul suo fianco perché non può andare troppo lontano, non adesso) prendendo le coperte e sollevandole coprendo entrambi fino sopra la testa.
«Così dovrebbe andare bene uguale» sussurra di rimando in quel bozzolo fatto unicamente da loro due e null’altro.
E a John sorride perché sì, va bene. Va tutto più che bene.
 
***

Fa caldo, fa troppo caldo, fa incredibilmente caldo. La maglia gli si è attaccata alla pelle per il troppo sudore, l’aria è irrespirabile e troppo –troppo- calda, la sabbia tirata su dal vento gli entra in bocca, negli occhi, e dove diavolo ha lasciato il foulard? E gli occhiali? Perché fa caldo se è notte? Di notte fa freddo, di notte fa così incredibilmente freddo, le stelle si vedono per chilometri a non finire ma questa sera no, questa sera è buio e caldo ma non è normale, c’è qualcosa che non va c’è qualcosa che-
Qualcosa gli afferra la gamba e lo trascina verso il basso, John guarda a terra e vede che la sabbia si è aperta e delle mani lo afferrano e lo tirano, vogliono risucchiarlo dentro, vogliono prenderlo e non farlo uscire mai più, vogliono-
Alza la testa quando una luce si fa largo al di sopra di una duna e per un istante si dimentica delle mani, si dimentica dell’essere trascinato giù, sempre più in basso mentre le ginocchia ormai non riescono più a muoversi perché sono state completamente risucchiate, si dimentica di tutto perché-
Lo vede, sopra la duna con le scarpe perfettamente pulite perché la sabbia sembra non scalfirlo, cappotto in mezzo al deserto dove la notte è calda e le stelle non risplendono e il violino imbracciato come fosse un’arma, come se potesse aiutarlo in qualche maniera, come se il solo suono potesse essergli di qualche conforto e aiutarlo ad uscire da lì, ma dal violino non esce alcun suono nonostante Sherlock stia agitando braccia e archetto e John vuole sapere cosa c’è che non va, cosa sta succedendo, vuole raggiungerlo perché-
Un colpo sordo e Sherlock è a terra, il violino disperso da qualche parte dietro di lui, il sangue che viene assorbito dalla sabbia dandole un colore più scuro. Sherlock ha gli occhi aperti verso il cielo senza stelle e un proiettile nel cranio, rivoli di sangue che ne distorcono i contorni netti, Sherlock è-
«-John!»
John si sveglia e la prima cosa che si ritrova a pensare è che è buio. È buio, , ma non è il buio del deserto e le sue gambe ben adagiate comodamente su un letto (non suo) e non risucchiate da arti ignoti nella sabbia. Poi una mano gli tocca tentativamente la spalla e John si ritrova a trasalire come un idiota perché non se lo aspettava, perché nessuno lo ha mai toccato al risveglio da un incubo, perché sembra tutto così fuori posto, ma la mano non si sposta e anzi resta lì e aumenta la presa.
«John…»
John fa respiri profondi e cerca di calmarsi concentrandosi su quella mano, su quel tocco, su Sherlock.
Si sente morire di vergogna e imbarazzo per essersi fatto vedere così la prima notte che passano insieme –la prima dannata notte, non gli poteva essere risparmiato almeno questo?- e si passa una mano sul viso, sentendosi la fronte sudata ma fredda. Sherlock gli accarezza la schiena e in qualche modo questo fa sentire John ancora peggio.
«Guarda in cosa ti sei andato a cacciare.» cerca di dire con un filo di voce facendo dell’ironia ma in realtà non crede di essere mai stato così serio in vita sua.
Un ex-medico militare con zoppia psicosomatica e incubi nel cuore della notte.
Sherlock a quel punto gli si avvicina e la mano che accarezzava la schiena di John si ferma sul suo fianco in uno strano abbraccio.
Ha caldo, John. Ha tremendamente caldo e la gola chiusa e un senso di claustrofobia che non se ne vuole andare ma non se la sente di allontanare il corpo di Sherlock appoggiato al suo mentre la mano libera di Sherlock va ad afferrare la sua e a stringerla.
«Dici questo solo perché non hai ancora visto cosa tengo nel frigo.»
E John rimane un attimo interdetto, una mano che si massaggia i muscoli dietro il collo e gli occhi che finalmente si alzano per incontrare quelli dell’altro, prima di sentire l’inizio di una risata farglisi largo nel petto per poi ritrovarsi a ridere, ridere quasi fino alle lacrime con Sherlock che lo segue a ruota, la mano sempre stretta a tenere quella di John come se non volesse farlo andare via e volesse rassicurarlo che c’è, che è lì con lui, e John ride ancora e Sherlock riesce finalmente a rilassarsi dopo l’incertezza di aver visto John agitarsi e aggrovigliarsi nelle lenzuola e non aver avuto la minima idea di come aiutarlo.
Quando entrambi riescono finalmente a smettere di ridere come i due idioti che sono si guardano, poggiati entrambi alla testiera del letto, e restano ad osservarsi per diverso tempo, senza fretta (perché in fin dei conti che fretta c’è?), e un sorriso nasce spontaneo sulle loro labbra.
John si ritrova a baciarlo ancora prima di essersi accorto di aver mosso un muscolo.
Sherlock lo abbraccia e il silenzio li circonda, l’unico suono i mormorii di entrambi, il fiato corto, le labbra che si toccano.
 
***
 
«Dato che sembra evidente che il sonno non è più un’opzione proporrei di alzarci»
Sherlock, sdraiato perpendicolare sul letto con la testa appoggiata al suo stomaco, glielo dice senza un’inflessione particolare, sembrando testare cosa John ne pensi di quell’idea, del resto sono a malapena le cinque e rimanere sdraiati non sembra poi un’idea tanto brutta. Ma Sherlock ha ragione, il sonno è un qualcosa di molto lontano al momento e non gli farebbe schifo una tazza di caffè.
«Devo pur vedere cosa tieni in quel frigo, no?»
Sherlock sorride e si alza.
 
***
 
«Questa è decisamente la cosa più strana che abbia mai visto. Perché diavolo tieni una testa nel frigo?» John mescola il caffè e per metà è divertito e per metà è disgustato da ciò che ha appena visto mentre si incammina nel soggiorno per mettere più spazio possibile tra lui e la cucina.
Sherlock è tutto uno svolazzamento di vestaglia sopra al pigiama mentre si aggira attorno al tavolo e John non riesce davvero a credere a quanta grazia possa avere una persona che cammina a piedi scalzi sopra al tavolinetto in soggiorno a quell’ora indecente del mattino. Per quanto riguarda lui invece si è rimesso i propri vestiti e nulla gli è mai sembrato più scomodo e inappropriato in vita sua.
«Un esperimento sulla salivazione, ho dovuto approfittare della distrazione di Molly per prendere quella testa ma ne è valsa la pena.»
Il cucchiaino di John si ferma improvvisamente.
«Chi è Molly?»
Sherlock sistema qualcosa nel frigo e si pulisce le mani sui pantaloni non prestando troppa attenzione al tono o alla domanda di John di per sé.
«Oh? Oh, una conoscente all’obitorio, l’hanno trasferita qui da poco ma sembra stranamente accomodante nei miei riguardi per cui ne approfitto il più possibile.»
John sorride e beve il caffè chiedendosi se con tutto il suo acume Sherlock davvero non sappia come mai questa Molly è così stranamente accomodante.

Si poggia con il fianco sul tavolo in soggiorno e sente qualcosa di solido collidere contro il legno duro e d’improvviso –come un idiota- ricorda di avere con sé l’IPod di Sherlock che per un qualche miracolo non è rovinosamente caduto dalla tasca dei suoi jeans.
Appoggia il caffè sul tavolo e tira fuori l’IPod ringraziando non si sia rovinato e poi guarda Sherlock (ancora intento a guardare qualcosa nella cucina) e sorride.
«Alla fine sono riuscito a restituirtelo» dice facendo voltare Sherlock in sua direzione per capire di cosa stia parlando. Sherlock guarda l’IPod nero tra le dita di John e alza un lato della bocca in un mezzo sorriso. Gli è mancato il suo IPod, stava quasi pensando di prendersene uno nuovo non fosse che sapeva che prima o poi avrebbe rivisto John.
«Mi ha aiutato, sai, in notti insonni» John evita di parlare degli incubi ma sa perfettamente che non serve dirlo ad alta voce perché l’altro capisca.
Sherlock gli si fa vicino e alza una mano afferrando il polso di John che tiene l’IPod e resta così, diversi secondi a fissarlo dritto negli occhi.
«Sono contento che ti sia servito» dice a bassa voce non scostandosi troppo da John. Si sorridono e c’è un enorme peso di detto/non detto tra loro ma Sherlock spezza il momento allontanandosi per tornare in cucina annunciando che gli serve un caffè doppio e di poggiare pure l’IPod dove meglio crede.
John osserva la figura di Sherlock ai fornelli mentre prepara la caffettiera e scuote la testa, ancora un po’ incredulo di tutta la situazione.
Appoggia l’IPod sul caminetto e osserva con aria dubbia il teschio che gli restituisce lo sguardo con occhi vuoti e decide che sì, è proprio un vero teschio, quando il suo occhio cade sopra qualcosa a cui prima non aveva fatto caso. Nascosto dietro pugnali, fogli svolazzanti e qualche libro lasciato a prendere polvere si intravede uno dei classici bicchieri da portar via di Starbucks, solo che questo è un po’ ammaccato, come se fosse stato compresso in qualche maniera, e il cartone ha i classici segni di quando viene bagnato, come se fosse stato sotto la pioggia.
Il cuore di John salta un battito.
Nella sua testa risuona un non può essere assieme a un non farti troppi film mentali ma si ritrova ad allungare comunque una mano e a prendere il bicchiere mentre con un orecchio sente la caffettiera fischiare e Sherlock parlare di qualcosa mentre si versa il caffè e fa ritorno verso il soggiorno ma John si rivolta il bicchiere fra mani e là, nero su bianco, il suo nome scarabocchiato e mezzo rovinato dalle gocce di pioggia cadute quel giorno di tanti mesi fa lo guarda di rimando: John.
Un semplice bicchiere di carta con il suo nome sopra. La prima volta che si sono scambiati qualche parola.
«L’hai conservato per tutto questo tempo?»
Sherlock, che stava seguendo un filo di discorso tutto suo, alza gli occhi dalla sua tazza di caffè e li fissa su cosa invece tiene John, improvvisamente ammutolito.
John alza gli occhi incredulo a guardarlo e un sorriso spontaneo gli alza le labbra e può vedere il colorito pallido di Sherlock acquistare un po’ di colore sulle guance, imbarazzato.
«Era importante,» si limita a dire Sherlock senza riuscire a proseguire come vorrebbe.
Era importante perché qualcuno per la prima volta gli si era avvicinato con un gesto gentile. Era importante perché quel giorno faceva freddo, non sentiva più le dita e un estraneo visto una singola volta in metro gli si era avvicinato per porgergli un caffe e fare due chiacchiere, con lui. Era importante perché oltre le dita, quel giorno, anche il petto gli si era riscaldato con una sensazione nuova, bella.
«Ho saputo così che ti chiami John, dopotutto.» si risolve a dire senza aggiungere altro perché tanto non saprebbe nemmeno come fare.
John riappoggia il bicchiere sulla mensola vicino all’IPod (cosa potrebbe simboleggiare di più loro due se non proprio quel bicchiere e quell’IPod in quel momento non lo sa nemmeno lui) e si avvicina in pochi passi prendendo il viso di Sherlock tra le mani e baciandolo con tutta l’intenzione del mondo. Lo bacia come se non dovesse mai lasciarlo andare, lo bacia cercando di fargli capire cosa significhi per lui, lo bacia perché può e perché è bello farlo e perché Sherlock ha conservato un bicchiere.
«Suono il violino a orari improponibili, posso stare per giorni senza parlare e ho una vita frenetica,» è la prima cosa che dice Sherlock a fil di voce appena John si scosta per indugiare in baci sul collo, sugli zigomi, di nuovo sulla bocca «tengo teste mozzate nel frigo e ho un fratello insopportabile.» continua Sherlock col fiato corto perché John gli sta mandando in cortocircuito il cervello e se da una parte vorrebbe tanto che John la smettesse di baciarlo con così tanta cura e devozione perché così proprio non riesce a pensare normalmente dall’altra spera ardentemente che John non smetta mai.
John si ferma con la bocca sulla guancia di Sherlock (uno Sherlock il cui petto si alza e si abbassa in maniera quasi allarmante) e con un ultimo bacio si scosta per guardarlo negli occhi, sorridendo.
«C’è un motivo per cui mi stai dicendo tutto questo?»
«Due nuovi conviventi dovrebbero sapere i propri difetti.»
E dovrebbe essere terrificante, non è vero? E forse il fatto che John non la pensi per niente in questa maniera dovrebbe preoccuparlo in qualche modo, ma Sherlock parla di convivere –con lui- e l’unica cosa a cui riesce a pensare John è dove riuscirà ad incastrare tutti i suoi libri in quella libreria già così stracolma in soggiorno.
«Io ho problemi con la gestione della rabbia, ho problemi di fiducia e una sorella alcolizzata e come hai sperimentato tu stesso di prima mano faccio spesso incubi. Ma ho dei bellissimi maglioni natalizi che penso starebbero benissimo nell’armadio vicino le tue camice di seta.»
Sherlock storce il naso all’idea e John ride, non riesce ad impedirselo, e poco dopo Sherlock ride con lui ed è tutto così calmo, così tranquillo, così famigliare che John teme che tutto si frantumerà da un momento all’altro facendolo risvegliare nel suo orrido monolocale in periferia.
Ma i rumori di Londra si stanno risvegliando, il sole ormai rischiara quasi del tutto l’appartamento e John non è mai stato uno bravo ad inventarsi questo tipo di domesticità nei suoi sogni.
«A quanto pare dovrò conoscere un fratello insopportabile» John sorride nel dirlo e Sherlock alza gli occhi al cielo, esasperato.
«Posso solo consigliarti di non accettare passaggi da estranei che si accostano con limousine nere ma servirebbe solo a rallentare l’inevitabile»
E John, per ora, non chiede perché non vuole sapere, per ora va tutto benissimo così e quindi vuole godersi questo momento il più possibile, in qualche modo sa che andrà bene.
«Sherlock…»
Il consulente si volta a guardarlo e John gli scosta dei riccioli ribelli dalla fronte.
«Suoneresti qualcosa per me?»
E il sorriso di Sherlock è bellissimo quando lo guarda e tutti e due sembrano un po’ emozionati da quella richiesta.
«Tutto quello che vuoi, John.»
E a loro non serve altro.


 
 
 
 
Fin.
 
 
 
 
 
 
NOTE AUTRICE:
Allora… uhm, salve?
Tipo… non ho la minima idea se qualcuno si ricorda ancora o meno di questa storia (perché era… il… 2014……….) ma dovevo finirla. So che sembrerà stupido in qualche maniera ma questa è una di quelle storie che proprio mi rimaneva sul groppone non finire perché, nella sua semplicità, le voglio proprio bene e voglio proprio bene a questi due idioti.
Il plot –grazie a Dio- me l’ero già segnato per quest’ultima storia nel 2014 e, anche se ovviamente non sarà venuta esattamente fuori come la volevo all’epoca, più o meno tutte le parti che volevo mettere me le ricordavo quindi insomma, l’avessi scritta all’epoca forse sarebbe venuta fuori meglio ma non rivanghiamo troppo il passato coff coff.

In questa ultima shot non volevo parlare di musica (al contrario delle prime tre) perché la musica viene fuori proprio da Sherlock quando fa l’amore con John e all’epoca la trovavo una cosa molto romantica la trovo romantica pure adesso perché se no l’avrei tolta ed era anche un po’ il significato di tutta la fic in sé.
In sintesi, sono felice di avercela fatta, perché questi due nonostante la quarta stagione riescono sempre a rimanermi nel cuore (e forse un po’ li odio per questo) e perché volevo farla.
Se qualcuno è arrivato fino a qui, se qualcuno dell’epoca c’è ancora e l’ha letta, beh grazie. Spero comunque vi abbia regalato qualcosa.

Questo invece è un appunto che mi ero segnata sempre nel 2014 e mi ha fatto troppo ridere e quindi lo lascio nelle note a riprova che davvero non maturo mai. X’D

LA MIA OTP è IL BICCHIEPOD (ANCHE SE TAZZAPOD E’ PIU’ CARINO) ovvero il bicchiere con l’IPod, altro che Johnlock XD IBicchiere

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