When Two Worlds Collide.

di Nayuki911
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


Titolo: When Two Worlds Collide.
Anime: L'Attacco dei Giganti
Rating: Arancione 
Genere: Drammatico, Generale, Slice of life | Capitoli: 1 / ? - In corso.
Tipo di coppia: Het | Note: AU | Avvertimenti: Nessuno
Personaggi: Mikasa Ackerman, Levi, Altri.

“E pensare che tutto era iniziato con una banalissima lite.
Poteva davvero essere una svolta nella sua misera vita?
Sarebbero state due anime destinate ad unirsi, o a scontrarsi senza esito?




When Two Worlds Collide.


Capitolo 1.


«.. A-Allora, cosa vuole ordinare?»
Di certo non poteva dire che quella ragazza non fosse carina, ma sembrava un tantino distratta, come se i suoi pensieri fossero rivolti ad altro.
I suoi occhi cerulei la fissavano un po’ sottili, era evidente la stesse scrutando, ma sperò con tutto il cuore che lei non lo notasse. La sentì sbuffare, già pronta a rimettere il blocchetto in tasca, assieme alla penna, quindi si affrettò a parlare.
«Solo un’altra birra, grazie,» si schiarì la voce.
«Una?» domandò la ragazza dai capelli color rame, senza neanche fissarlo, scoccando un’occhiata curiosa all’amico seduto accanto. L’uomo annuì, e la congedò smettendo di osservarla, quindi la seguì con lo sguardo mentre tornava al bancone, solo allora la vide allacciarsi meglio il grembiule nero con un gesto scocciato.
«Erwin. Nel nome del tuo monociglio, giuro che ti ammazzo.»
L’uomo dai capelli biondi se la rise di gusto, quindi prese un sorso della sua birra, un sorriso compiaciuto dipinto sul volto.
«E’ carina, molto carina. Ma non è il tuo tipo, in effetti.»
«Ah, tu credi!? E’ quello che ho cercato di dirti fino ad un minuto fa, ma non mi hai-»
«Ahh! Si è fatto tardi, devo davvero proprio scappare. Ci pensi tu?» Fece un cenno di capo in direzione dea cassa, ed era palese che se la stesse svignando per non pagare.
«Tch, taccagno come tuo solito.»
«Dai, qualche sera offro io. Guarda dove ti ho portato oggi, insomma! Ci sentiamo per telefono, Levi.» Quella fu l’ultima frase che disse, prima di sparire tra la folla e dirigersi verso l’uscita con la valigetta in mano.
Per essere un giovedì comune, quel pub era piuttosto affollato, e dando un’occhiata alle cameriere, poteva anche darsi una spiegazione. Sebbene fossero tutte molto carine, nessuna era il suo tipo ideale, troppo vanitose - addirittura scostumate, o troppo timide e asociali. Non che lui fosse da meno, visto che per spiccicare parola impiegava una ventina di minuti buoni, e se proprio non ci riusciva, non era un dramma: preferiva stare da solo.
L’unico motivo che lo aveva spinto a parlare con quella ragazza dalla coda di cavallo, era stato il suo migliore amico Erwin, che gli aveva lanciato una sorta di sfida, conclusa ovviamente nel peggiore dei modi.
Erwin era davvero un brav’uomo, ma era davvero ossessionato dall’idea di vedere Levi sposato, con figli e con una carriera soddisfacente. Almeno su quest’ultima non poteva lamentarsi, visto che era un noto uomo d’affari. Lavoravano insieme, ed erano così diventati migliori amici, sapevano tutto l’uno dell’altro, e Levi lo apprezzava in tutto e per tutto. Eccetto per quella piccola pecca che lo vedeva vittima di abusi psicologici.
Solo perché Erwin era felicemente sposato, non significava che lo dovesse essere anche lui. Ci aveva provato più volte a dirgli che stava bene, che avere un buon lavoro fosse sufficiente a completargli la vita, ma Erwin non ne voleva proprio sapere, ed insisteva, nel dire che prima o poi, anche lui si sarebbe innamorato.
Forse. Ma non delle donne che era lui a consigliargli.
 
«L-La sua birra.» La ragazza dai capelli ramati era tornata. Neanche se n’era accorto, essendo sovrappensiero.
E adesso che diamine ci avrebbe fatto, con quella birra? Neanche la voleva.
«..Sì, grazie.» Attese che la ragazza fosse sparita nuovamente, prima di prenderne un sorso, già ampiamente disgustato. Non gli restava che berla tutta e poi ritirarsi nel suo appartamento, probabilmente avrebbe guardato un po’ di tv, appisolato sul divano, prima di concedersi una bella dormita.
 
Passò una mezz’ora buona, prima di rendersi conto che il pub si stava lentamente sfollando. Forse era ora anche per lui, di levare le tende. Non appena si alzò dal tavolo, si infilò la giacca, rigorosamente nera, e si avviò al bancone, laddove al momento, non c’era anima viva.
Si schiarì la voce, per attirare attenzione, finché una ragazza gli venne incontro.
Lei sembrava diversa da tutte le altre: non aveva la solita espressione da ragazza vanitosa, o di quelle sempre falsamente sorridenti; al contrario, sembrava piuttosto apatica, o meglio dire riservata, sulle sue. I capelli neri come la pece sembravano piuttosto setosi, irregolari, un ciuffo le ricadeva sulla fronte proprio in mezzo. Forse la fissò un po’ troppo a lungo, perché la vide scostarlo lentamente, a disagio. Sembrava stanca, ma magari era semplicemente assonnata.
Diede un’occhiata all’orologio, segnava le 22.46. Non era molto tardi, eppure un senso di stanchezza lo pervase da capo a piedi.
«Dovrei pagare. Du-Tre birre, » si vergognò quasi a dirlo, chissà per quale motivo. Sarebbe passato per un ubriacone, forse, ma chi se ne importa? Probabilmente quella ragazza non si sarebbe mai ricordata di lui.
La ragazza, silenziosa, si limitò a rilasciargli lo scontrino, indicando la cifra da pagare con un cenno, senza emettere un singolo suono. Forse era più che stanca, sembrava quasi sul punto di svenire da un momento all’altro.
«.. Tutto bene?»
«Sì.» Disse con schiettezza, continuando a fissare lo scontrino.
Al diavolo le ragazze, al diavolo Erwin e al diavolo le birre. Pagò quello che c’era da pagare, lasciò anche una mancia, e non seppe neanche per quale fottutissimo motivo. Borbottò un sommesso “Arrivederci” e si diresse verso l’uscita, desideroso di tornarsene a casa.
 
************************
 
 
 
 
L’appartamento era piuttosto modesto, un misto tra il moderno e il rustico, forse un accoppiamento piuttosto bizzarro, ma del resto non era mai stato bravo con gli immobili, era in casi come questi che sentiva la mancanza di una donna.
Tornare a casa e trovare qualcuno che gli dicesse “bentornato”, tornare dopo una lunga giornata di lavoro e sentire un profumo femminile a riempire l’appartamento, o meglio ancora, il profumo di un buon pasto fatto in casa.
Aveva tutto quello che un uomo potesse desiderare: un buon lavoro, un’ottima reputazione quanto a professione, un migliore amico, varie conoscenze, una bella casa, e un divano beige comodissimo.
Ma non aveva mai avuto l’amore, e ogni tanto tornava a pesargli come un macigno. Figuriamoci se lo avrebbe mai ammesso davanti a quel tirchio di Erwin. Piuttosto si sarebbe mozzato la lingua.
Si abbandonò sul sofà, fece zapping per vedere cosa ci fosse di interessante in tv, e senza neanche rendersene conto, si appisolò, cadendo in un sonno piuttosto profondo.
 
Quando si svegliò, diede subito un’occhiata all’orologio appeso sulla parete, segnava l’ora 00.50. Come aveva fatto ad addormentarsi così?
Si alzò forse troppo di scatto, quasi inciampò con i piedi sul tavolino, imprecò silenziosamente, anche se nessuno gli vietava di farlo ad alta voce, del resto.. era solo.
Si guardò intorno, alla ricerca del telecomando, spense la tv e si diresse nella propria camera, dove un grande letto matrimoniale lo attendeva. Anche in casi come questi, rimpiangeva il fatto di non avere nessuno che lo rimbeccasse quando era necessario. Detestava appisolarsi così presto, perché con tutte le probabilità del mondo, adesso avrebbe passato una nottataccia, e considerando che l’indomani avrebbe avuto una riunione importante, non giovava di certo a suo favore.
Tentar non nuoce, e di provare, ci avrebbe provato sicuramente.



 
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«Sasha, io qui ho finito, vai tu a servire il tavolo 3? Hanno chiesto due panini e una coca, io sono già in ritardo. Ci pensi tu ad avvisare il capo?»
La ragazza dai capelli ramati per poco non fece cadere il vassoio con i bicchieri.
«D-Dì già? Ah, s-sì, vai pure, penso a tutto io!»
«Perfetto. Grazie.» Prese la borsa, il giubbotto, e fece per avviarsi verso l’uscita, quando qualcos’altro attirò la sua attenzione.
«Sasha.. di chi è quella valigetta?»
La ragazza cadde dalle nuvole, quindi seguì lo sguardo dell’amica e lo proiettò sul tavolo in questione.
«Non ne ho ide-ah! Sarà sicuramente di quel tipo basso, in compagnia dell’uomo dal cespuglio in front- un attimo, sto arrivando! Accidenti, Mikasa.. non lo so, sarà sua, lasciala qui, conservala nel deposito o portala con te, domani verrà sicuramente a cercarla se è così importante!»
«Certo che è importante. E’ una valigetta da lavoro, deve esserlo per forza.»
«Allora va’ a restituirgliela. Io non posso muovermi da qui--!»
«Nemmeno io, sai benissimo che devo andare.»
«Lo so, allora— ah, dannazione! Portala qui, fammi vedere.»
Mikasa si avvicinò al tavolo, prese la valigetta e la portò all’amica. Si accovacciarono a terra, dietro il bancone, presero dunque ad esaminare l’oggetto in questione. Era nera, probabilmente di pelle – a giudicare dall’odore.
«Ok, adesso la apriamo, e cerchiamo qualche informazione che possa ricondurci al proprietario, va bene?»
«Ma.. questo non è sbagliato?»
«No, Mikasa, se vogliamo restituirgliela dobbiamo avere un briciolo di indizio, non ti pare? Fammi vedere un po’—ah, guarda qui c’è qualcosa, che sia una lettera d’amore? No, uhm..»
«Sasha, smettila.» Ma era troppo tardi, la ragazza aveva già controllato mezzo repertorio, e senza trovare nulla che non fossero documenti, cianfrusaglie e fogli di carta.
«Ma queste cose non dovrebbero avere una specie di etichetta? Gesù—ah, forse ci siamo!»
«Oh.»
 
Levi A.; Loyal Corporation.
Monroe Street 00056/B
 
«Corporation..  sembra un uomo importante. Ha anche lasciato una mancia piuttosto generosa.»
«Sicuro! Lo hai visto poi il suo amico? Sembrava proprio uno di quelli tutti in tiro. Il tappo un po’ meno, insomma.. troppo basso per essere di rilievo!»
«Sasha. Da quando, essere bassi equivale a non poter essere importanti?»
«Non è molto lontano da qui, va’ a portargliela!» cambiò totalmente discorso, e nel mentre si diede un’occhiata in giro, fortunatamente del capo nessuna traccia.
«Cosa stai dicendo? Questo è l’indirizzo del suo ufficio, non di casa sua, sciocca.»
«Sicura? A me sembra una palazzina--»
«Sì. E anche se fosse, hai visto che ora è? Non potrei comunque piombare a casa di un perfetto sconosciuto a quest’ora della notte, e...»
«Ma lo hai detto tu che potrebbe essere importante!»
«… La porterò con me, e domani mattina vedrò di raggiungere quest’ufficio, e.. consegnargliela. Adesso devo veramente scappare.» Prese la valigetta, la borsa, il cappotto e lasciò l’amica ancora accovacciata a terra, con l’espressione confusa e frastornata. Il rumore che fece la porta nell’essere richiusa, attirò l’attenzione di molti clienti, quindi Sasha poté cogliere l’occasione per sbucare da dietro il banco, a mo’ di fungo. «A-Arrivo con i panini!»
 
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«Porca puttana.»
 
Queste furono le prime parole che pronunciò, Levi, l'indomani mattina, una volta varcata la soglia di casa, dopo essersi reso conto che la sua mano sinistra, solitamente intenta a trasportare la valigetta, era del tutto vuota.
Nell’arco di pochi secondi, ebbe un flash della sera prima; la valigetta ancora poggiata contro il piede della sedia.
Sudò freddo: lì dentro c’era praticamente tutta la sua vita.
Cercò di darsi una calmata, raggiungere l’ufficio in fretta e furia era sicuramente la scelta migliore; Erwin avrebbe saputo cosa fare. Lui sapeva sempre cosa fare.
 Prese le chiavi dalla tasca, raggiunse la sua Porsche con uno slancio atletico lungo il vialetto, e si avviò verso quella strada che ormai avrebbe potuto percorrere ad occhi chiusi; quella solita, strada monotona, che lo avrebbe portato ad un viaggio verso morte certa.
 



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N.d.A. Solo un piccolissimo tentativo di una longfic. So già come andrà a finire, io diventerò un sacco di patate ecc, ecc.. MA COMUNQUE. Spero vi piaccia, e niente, la dedico alla mia Nexys, senza la quale non avrei tutta questa ispirazione ♥ Buona lettura! ~

 

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


Capitolo 2


Ci mise un po’ ad aprire gli occhi e notare che l’orologio sul comodino segnava le 8.10. Sbadigliò silenziosamente, si alzò dal letto controvoglia, del resto, quattro ore di sonno non erano proprio il massimo. Non importava, aveva un compito da svolgere, e stanca o meno, non aveva tanta scelta: si trattava della vita di qualcun altro, e quella valigetta avrebbe potuto fare la differenza. Si stiracchiò fino a far scrocchiare ogni singolo muscolo, dopodiché andò dritta a darsi una sciacquata, non fece neanche colazione. Prese un paio di jeans, quelli già sistemati sulla poltroncina ai piedi del letto, una maglioncino, cappottino blu, borsa, sciarpa, berretto di lana, e.. ah, quasi dimenticava la valigetta. 
 Stava per uscire dalla porta, quando fece un balzo indietro; lasciò in fretta e furia un bigliettino sul tavolo della cucina, con su scritto: 

Farò un po' tardi. Nel frigo c’è da mangiare.”


Messo il naso fuori, strinse la giacca al petto, l’aria era molto fredda, ma per lei non era mai stato un problema: amava il freddo. Chiuse il portoncino alle spalle, e come ogni mattina, quando decideva di uscire, cercò un autobus che la portasse a destinazione.
Si rigirò il foglietto tra le mani, quello in cui aveva appuntato l’indirizzo dell’ufficio, la sera prima. Lo mise in tasca, pregando con tutto il cuore di arrivare in tempo.
O di arrivare e basta.


 
*****************************


«Sono fottuto.» 
«Che accoglienza! Buongiorno anche a te, comunque. Ah, bel parcheggio! Caffè macchiato?»
Erwin tese una mano, porgendogli il bicchiere; lo accettò senza se e senza ma, a giudicare dal coperchio trasparente appannato, aveva l’idea di essere davvero caldo, e in una mattinata gelida come quella, faceva davvero piacere.
Lui odiava il freddo
« ..grazie. Ma resto comunque fottuto,» bevve un sorso, talmente in fretta che quasi si ustionò la lingua. «Porca puttana.» 
«Ehi, calma! Sbaglio o sei un po’ agitato, stamattina? Entriamo, così mi racconti. Dov’è la tua valigetta? Ah, che freddo spizzichino!»
Levi lo seguì, roteando gli occhi al cielo, più volte. Quell’uomo sembrava sempre sulle nuvole, ancora si domandava cosa lo spingesse a fidarsi ciecamente di lui. 
Quando misero piede nell'edificio, un tepore si diffuse fin dentro le sue membra, grazie al cielo i riscaldamenti erano già in funzione, e dentro un ufficio come quello, era il minimo. 
Era un palazzo di vetro, quarantasei piani. Da lassù si poteva ammirare un panorama spettacolare; si ergeva al centro della città di Ginza, e come tutti gli edifici nei dintorni, non passava di certo inosservato. Per la gente che viveva lì, non era affatto una sorpresa.
«Dritto al punto. L’ho persa. Temo di averla lasciata al pub, ieri...»
Per poco Erwin non si strozzò con il caffè.
«Scusami, non.. credo di aver capito bene-»
«Mi hai capito benissimo. Me ne sono accorto stamattina. Mi sono svegliato, sono uscito di casa, e la valigetta non c'era. A quel punto mi è venuto come un flash, e temo di averla lasciata lì.»
«Merda. Questo è un problema. Hai provato a chiamare al locale?»
«E' un pub notturno, non è aperto la mattina, idiota.»
«Lo dicevo io, che avere il numero di una di quelle belle fanciulle sarebbe servito a qualcosa, ahah!»
Nessuna risposta, solo uno sguardo dei suoi, sottili, pungenti, più affilati di mille coltelli. E quelli di Levi erano piuttosto pesanti.
«--! Scherzavo!»
«Sono fottuto.»
«Lo hai già detto. Non hai delle copie dei documenti, sul computer che hai in ufficio?»
«Non tutti. E la presentazione che avrei dovuto fare oggi.. era tutto lì dentro, dannazione..»    
«Calmo, calmo, adesso vediamo come fare.. Ah, buongiorno, Petra!»
«Buongiorno Erwin. Levi.»  
Levi fece un cenno di capo, liquidandola quasi subito, entrando nella sala riunioni. Al momento le sue priorità erano ben altre, e se non avesse trovato in fretta una soluzione, sarebbe stato un grosso guaio.
Erwin si scusò con la collega, raggiungendo l'amico, stando certo di essersi chiuso la porta di vetro alle spalle.
«Potresti essere un tantino più gentile, con lei, Levi. Sai che ti viene dietro da secoli!»
«Non mi interessa, e lo sai già.» Si abbandonò su una sedia, nello sconforto più totale, le mani sulla fronte; quanto avrebbe voluto strapparsi i capelli.
«Su, su, avrai tempo per la calvizie, intanto rilassati. Vedremo di temporeggiare, magari possiamo tenere la presentazione insieme.» cercò di incoraggiarlo, prendendo posto accanto a lui.
«E che documenti presenterò, quando mi chiederanno dimostrazioni e tesi?»
«Levi. Un episodio simile può succedere a chiunque, non sei né il primo e né l'ultimo. Andrà tutto bene, rilassati. Ancora è presto, per la riunione, e tu hai bisogno di tranquillizzarti.»
Erwin era così, diplomatico, un bonaccione. La faceva sempre facile, anche quando le cose si mettevano male. Aveva sempre una soluzione, era la calma fatta a persona. 
«Mi serve un altro caffè,» proferì, sbatacchiando il suo bicchiere ormai vuoto.
«Vai a prenderlo, il tizio all'angolo della strada li fa veramente buoni, come hai visto. E.. non fare quella faccia, c'è freddo ma ne varrà la pena. Non ti sei nemmeno tolto la giacca, ci credo che prendi l'influenza, poi!»
Levi annuì con un cenno scocciato, lasciandolo lì a parlare praticamente da solo. Forse non avrebbe dovuto criticarlo, in fin dei conti, senza uno come lui, sarebbe stato perso; non per nulla, era stato proprio Erwin a trovargli quel lavoro benestante, l'unico a scorgere del potenziale in lui. Senza, probabilmente starebbe ancora vendendo crocchette di pollo.
Si voltò appena, prima di lasciare la sala, la mano poggiata sul muro - gelido anche quello.
«Grazie, comunque vadano le cose.» 
«Dovere, Levi.»

 
***************************************


«Ah.»
Questa era stata la reazione di Mikasa di fronte a quell'immenso edificio.
Era noto e risaputo quanto quel quartiere fosse rinomato, ma considerando il suo scarso stipendio, non era solita andarci spesso. 
Sembrava piccolissima, a confronto. Una formica al cospetto di un formicaio, o forse peggio. Con la valigetta ancora in mano, si diede un'occhiata in giro: chiunque entrava o usciva da quel palazzo, aveva l'aria di essere una persona importante; i vestiti sembravano costosissimi, e.. possibile che tutti avessero una sottospecie di valigetta?
"Immagino di sì", disse tra sé e sé, salendo le scale, avvicinandosi alla vetrata che dava spazio all'ingresso. Con la valigetta ancora in mano, cercò di guardare oltre. Per un attimo, si chiese cosa avrebbero pensato, se una come lei, fosse entrata lì dentro; non che i suoi vestiti fossero da stracciona, ma la gente sembrava tutta in tiro, lì, snob, con la puzza sotto il naso. 
Fece un passo indietro, forse spaventata da tutta quella enormità, forse incantata, o invidiosa.
Qualcosa del genere, una come lei, poteva soltanto sognarla.
La tentazione di lasciare la valigetta lì davanti e scappare, divenne fortissima.
Ma non lo fece, perché era una brava ragazza, e questo era evidente, o non si sarebbe trovata in un quartiere del tutto ignoto, solo per restituire una valigetta ad un perfetto sconosciuto.
Nemmeno lo ricordava in viso. 
Perché, non lo ricordava?
Mikasa era un'osservatrice nata, ma a volte guardava senza guardare. Era stato lui a pagare il conto? Proprio non riusciva ad immaginarsi il suo volto, quella sera era troppo sovrappensiero, come tutte le altre, del resto.
Si voltò di scatto, scese le scale a raffica, avrebbe dovuto lasciare quella valigetta al locale, sicuramente l'uomo sarebbe venuto a cercarla e tutto si sarebbe risolto nel migliore dei modi. Che ci faceva una come lei, lì? 
Si sentì improvvisamente osservata, con mille che occhi puntati addosso; ci mancavano solo le palpitazioni. La mano serrata sul manico della valigetta, l'altra a tenere la borsa, i piedi camminavano praticamente da soli, non sapeva neanche cosa stesse facendo.
La vista si annebbiò all'improvviso.
L'edificio fu l'ultima cosa che vide, prima di sentire una fitta lancinante alla testa. Avvertì un dolore fortissimo al braccio, e cadde a terra come una pera cotta.



Tutto bene..?

Cos'era quella sensazione di umido, addosso?

Oi, ragazzina, tutto bene?

Qualcuno la stava chiamando. Era forse morta? Com'era successo?


«Ma tu guarda che ragazzina impertinente, mi hai versato addosso tutto il caffè. Hai idea di quanto costi, una camicia come questa?»

Aprì gli occhi, lentamente. Una piccolissima parte della folla che poco prima la osservava curiosa, era intorno a lei, bisbigliava cose che non riuscì a comprendere, per via del ronzio alle orecchie. Un uomo dai capelli corvini la fissava intensamente, la fronte corrugata, lo sguardo forse preoccupato. 
Ah, era uno di loro. Uno di quelli eleganti, in tiro, con la giacca da mille bigliettoni. La camicia bianca era macchiata di marrone, e adesso si spiegò la sensazione di umido addosso; era probabile che durante l'urto, gli avesse versato il caffé addosso, e adesso aveva persino una camicia sulla coscienza. Capì immediatamente che lo sguardo di preoccupazione era più rivolto al suo indumento costoso, che a lei.
Sbatté le palpebre più volte, prima di mettere a fuoco il viso dell'uomo; era davvero elegante, fine, il naso all'insù, i capelli neri con un taglio bizzarro le ricordarono qualcosa. Che fosse lui l'uomo che cercava? 
No, era impossibile.
Avrebbe sicuramente ricordato degli occhi così.
Di ghiaccio, magnetici. Le mani sotto la sua schiena erano fredde, lo poté sentire anche attraverso la stoffa del cappotto. Non riusciva nemmeno a parlare, non appena ci provava, avvertiva un senso di nausea, come se dovesse vomitare da un momento all'altro. Sentiva lo stomaco compresso, un gran mal di testa, e tutto ciò che voleva, era andare a casa, mangiare qualcosa e farsi una bella dormita. 
Ma prima aveva quella commissione da sbrigare.

«L-Le..»
«Stai bene? Gesù, perché non guardi dove metti i piedi, la prossima volta?»
«...»
«.. ci siamo già visti?.. Stai male?» La osservò a lungo. Quegli occhi neri, adesso del tutto aperti, gli riportarono in mente la serata precedente. Con tutte quelle cianfrusaglie addosso, non l'aveva affatto riconosciuta. Eppure, la sera prima, ricordò di esserne rimasto colpito. Proprio per la sua diversità, rispetto a tutte le altre, pari a dei manichini di legno. Falsi e sbilenchi.
«Mi viene da vomitare. Deve essere stato un calo di pressione.»
«Sei a stomaco vuoto?»
«...»
«Vieni, ti aiuto ad alzarti.»
La folla cominciò a diradarsi; Mikasa poté avvertire alcuni mormorii sommessi, del tipo "Ma che cappotto ha?", "Fa a pugni con la sciarpa rossa!", "Sembra pallidissima.. dici che soffre di anoressia?" e altre frasi poco gradevoli che non facevano altro che aumentare il senso di nausea.
«Le ammazzo,» brontolò, mentre si reggeva all'uomo, per alzarsi in piedi. Notò che era un po' più basso di lei, ma evitò di farglielo presente.
«Ignora. Comunque è vero, quella sciarpa stona, con il blu del cappotto.»
«Non ho chiesto il suo parere. E comunque questa sciarpa è importante, e la metterei addosso anche con qualcosa di.. di verde.»
«Sembreresti un albero di natale.» Aggiunse l'uomo, farfugliando qualcosa di incomprensibile mentre provava a pulirsi la camicia. La accompagnò educatamente su una panchina lì vicino, facendola sedere, quindi, prese posto accanto a lei.
«Ti ho già visto, vero?» ripeté l'uomo, anche se dentro di sé sapeva già la risposta.
Con quello, Mikasa fu sicura che fosse Lui, l'uomo in questione. Come aveva fatto a dimenticarselo? Avrebbe dovuto stare più attenta.
«Lei.. si chiama Levi? Io.. ho la sua valigetta, sono.. una delle ragazze che lavorano al pub in cui è stato ieri, con il suo amico.»
Per poco, all'uomo non venne un infarto.
«Hai la mia valigetta?» chiese, quasi interdetto.
«Sì, è proprio...»
Merda. Dove diamine era la sua valigetta? Fissò il punto in cui avrebbe dovuto essere, ma la realtà è che c'era soltanto del terriccio, un po' di neve, e.. nient'altro.
«... ce l'avevo in mano, un attimo fa. Poi sono svenuta, e.. deve essere caduta da qualche parte.. nei dintorni,» balbettò confusa, ancora frastornata da quel fastidioso ronzio.
«Cosa? Stai dicendo che l'hai persa a neanche un giorno dall'averla ritrovata?» a quel punto balzò in piedi, con uno sguardo colmo d'ira, avrebbe fatto paura a chiunque. Ma non a lei. Non ad una ragazza che, se avesse voluto, avrebbe potuto stendere tutta la folla in una manciata di secondi. Scattò in piedi anche lei, forse troppo in fretta; un giramento di testa la costrinse a sedersi di nuovo, a tenersi la testa tra le mani, ma nulla le impedì di alzare la voce, benché per i suoi canoni fosse comunque bassa.
«Lasci che le dica una cosa, brutto bifolco. Io non ero neanche tenuta a portargliela, visto che è stato lei a lasciarla incustodita. Ho quattro ore scarse di sonno, non mangio da ieri, e il mio primo pensiero, stamattina, era quello di fargliela riavere, visto che sicuramente è qualcosa di importante. Ho passato un'ora intera in quel maledetto autobus, e sento ancora la puzza di sudore. Sono stanca, potrei vomitare da un momento all'altro, e lei sa solo accusarmi, persino per quella stupidissima camicia?»
Batosta numero uno. L'uomo rimase in silenzio per alcuni secondi, forse un po' accigliato; ma la punta di orgoglio gli impedì di porgerle delle scuse, almeno non subito.
«Non è una stupidissima camicia. E poi, autobus..? Quanti anni hai?»
«Diciotto.»
«E non hai la patente?»
«Non posso permettermela,» tagliò corto. Scoccò uno sguardo eloquente ai suoi abiti, sguardo che intendesse dire "a differenza sua", e quello, fu sufficiente a concludere la discussione.
L'uomo prese un profondo respiro, quindi tornò a sedersi accanto a lei, con una mano in fronte, l'altra su un ginocchio. Restò alcuni minuti in silenzio, sbuffando, osservando i minimi dettagli di quella strada tanto affollata. 
«Scusa, non dovrei avercela con te. E' che per un attimo, ho creduto davvero di essermi salvato il culo.»
«Anche io. Insomma, dopo tutta questa strada, speravo che almeno si concludesse tutto per il meglio

«Già.»
«
 .. Era molto importante, vero?»
«Già.» 
Poteva leggerci la disperazione, negli occhi di quell'uomo. Non seppe dire esattamente perché, ma per un solo attimo si rivide in lui. Il che, vista la differenza di rango, non era sicuramente possibile.
Si morse un labbro, le mani sulle ginocchia, ancora tremanti. Era mortificata, sul serio.
«Grazie comunque, ho apprezzato il tentativo,» l'uomo parlò ancora, sempre senza guardarla.
«Avrei dovuto lasciarla al pub, sarebbe venuto a riprendersela, ne sono certa.»
«Sarebbe stato tardi comunque. Ho una riunione, tra poco, e tutti gli appunti erano lì.»
«Ah. Sapevo, che era importante. Senta.. mi dia un minuto, vado a cercarla. Se qualcuno l'ha presa, non potrà essere poi così lontano. Sono velocissima a correre. E-»
«Se provassi a correre, cadresti a terra in un attimo, nelle tue condizioni attuali.»
«...»
«Non importa, davvero. O meglio, importa, ma è andata così. Adesso è meglio che vada. Cercherò di salvare il salvabile.» Guardava dritto dinnanzi a sé, con lo sguardo un po' perso, finché non si alzò definitivamente, rivolgendole uno sguardo piuttosto calmo. Non aveva nulla a che vedere con l'uomo che si era lamentato per la propria camicia. Era diverso, nella sua eleganza. Sembrava diverso dagli altri. A quel punto sentì il dovere di scusarsi, anche per tutto il resto.
«Mi dispiace. Anche per averla urtata, insomma.. la sua camicia. Io, davvero non-»
«Fa niente. Ne ho altre. Oggi non potrebbe davvero andare peggio.» La salutò così, con un cenno di capo, senza neanche guardarla in viso.
 
Mikasa, ancora intontita, rimase seduta per un po', afflitta. Da un lato, il senso di colpa devastante, dall'altro, la rabbia di essersi persino presa un rimprovero, nonostante tutto. Una come lei, lì, era decisamente fuori posto.


 
********************************


«Levi, dove diavolo ti eri cacciato? Ho una notizia bellissima!» Erwin lo riaccolse a braccia aperte, alzandosi persino in piedi.
«Tutto questo è un sogno e io non sono davvero fottuto?»
«Hanji ha trovato la tua valigetta!»
«..Prego?»
«Sì, sì! Nella confusione, qui fuori, ha visto questa valigetta in mezzo al nulla, e.. sai com'è Hanji, no? Ha l'occhio di falco, l'ha riconosciuta subito e ha pensato di prenderla! L'etichetta con il tuo nome le ha dato la conferma definitiva! Non è buffissimo? Ah, i miracoli!» Si chinò, sparendo sotto il tavolo, facendo uscire fuori una valigetta nera, quindi gliela sventolò davanti, soddisfatto.
Non poteva crederci. 
Era la sua valigetta, esattamente come l'aveva lasciata. Ebbe l'istinto di gettarsi sopra il tavolo e prenderla in mano, tant'era rincuorato, ma prima.. c'era un'altra cosa che doveva fare.
«..sì, i miracoli. Ascolta, devo andare un attimo qui fuori, torno subito, ci metterò un attimo.»

Lasciò Erwin a bocca spalancata, con la valigetta ancora sospesa a mezz'aria, incredulo.

Non riusciva a crederci, quella ragazza, in qualche modo, gli aveva davvero salvato la vita.
Si precipitò fuori dall'ufficio, anche solo per rincuorarla, dirle che tutto si era sistemato, e che poteva stare con il cuore in pace.
Solo in quell'istante di serenità interiore, si rese conto di averla trattata davvero male. Non se lo meritava per niente, in fondo aveva fatto tutta quella strada solo per portargli la valigetta e salvargli la carriera. Il fatto è che era talmente sovrappensiero che non gli importava nulla, al di fuori del suo lavoro.
Non le aveva neanche chiesto il suo nome.
Si sarebbe decisamente scusato. E magari le avrebbe pure offerto da mangiare.

Una volta fuori, volse subito lo sguardo alla panchina, si avvicinò.
Due anziani si scambiavano notizie sull'ultima partita di football.

Si guardò attorno, dappertutto, ma della ragazza, non vi era nessuna traccia.




Continua...



________________________________________________
N.d.A. WOOO, ma che succede!? Avrete notato come ho descritto pochissimo la vita di Mikasa, e non è perché io voglia fare le cose alla sbrigativa, ma perché per adesso voglio incentrare il tutto su Levi. Quindi.. sì, è fatto di proposito.
Tutto a tempo debito!
Se avete critiche o consigli, sono sempre ben accetti, quali sono le vostre impressioni? Mi piacerebbe saperlo, anche perché io so già come concluderla! DEHEHEHE<3 Mando un bacio alla mia cara Nexys, a cui continuo a dedicare questa sciocchezzuola! ~

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


Capitolo 3


La giornata si era conclusa al meglio.
Aveva passato ore a chiedersi che fine avesse fatto quella ragazza, se avesse mangiato qualcosa, se si sentisse più in forma. In tutti i suoi ventisette anni non gli era mai capitato un avvenimento simile:
né quello di dimenticarsi un oggetto importante in un luogo pubblico - o da qualsiasi altra parte - né tantomeno quello di ricevere la visita inaspettata di una giovane e avvenente fanciulla che lo aiutasse senza alcuno scopo.
Essendo piuttosto palese, il suo essere benestante, avrebbe potuto aspettarsi una specie di riscatto. Invece quella santa ragazza era piombata nella sua vita con tutte le intenzioni migliori al mondo. Certo, gli aveva macchiato una delle sue camicie preferite, ma gli aveva anche salvato la giornata.
Probabilmente avrebbe ricevuto persino un aumento, cosa che francamente gli dava più soddisfazione personale che economica, ma il vero fulcro di quel giorno, fu semplicemente lei.
Quella ragazza dai capelli corvini, dagli occhi neri e lo sguardo magnetico. A primo impatto sembrava indiavolata con il mondo intero, ma se la si osservava attentamente, traspariva una sensazione di pace, genuinità.
Non capitava spesso, che ad uno come lui, delle persone restassero impresse nella mente.
L'unica eccezione era stata rappresentata da Erwin, un tipo apparentemente eccentrico, alla mano, socievole, aspetti che Levi non aveva mai trovato interessanti, essendo lui l'esatto contrario. Ma quando aveva capito che sotto quel mantello di spirito giovane c'erano anche una serietà e una compostezza da uomo in carne ed ossa, era riuscito a donargli tutta la fiducia che portava in corpo.
Quella ragazza pareva l'opposto, decisamente apatica, proprio come lui: ecco perché lo incuriosiva tanto.
Normalmente, si sarebbe tormentato giornate intere, pur di di reperirla, ma sapendo dove trovarla, si mise l'animo in pace.
 
Passò del tempo seduto sul sofà, a riflettere. Sarebbe stato da maleducati, non andare a ringraziarla il giorno stesso. D'altro canto, però, non voleva darle l'idea di essere stata fondamentale. La verità è che per quanto lo scocciasse ammetterlo, lo era stata eccome.
Al diavolo le congetture, avrebbe fatto le cose di testa sua.
Andare a ringraziarla, sarebbe sicuramente stata la cosa più giusta, visto che non aveva nemmeno preteso nulla.
 Si alzò con uno slancio atletico, aprì il frigo con un gesto piuttosto brusco, con l'intento di prendersi una birra.
Per essere un uomo benestante, non faceva molta spesa; il frigorifero era infatti mezzo vuoto.
Mancava una donna in quella casa.
Nel momento in cui iniziò a ripeterselo anche lui, capì che quel dannato Erwin Smith lo stava influenzando anche troppo.


 
**************************


Il turno era iniziato alle 18 in punto, come tutti i giorni. Sebbene l'apertura del pub fosse alle 19.30, impiegavano l'ora precedente a pulire, preparare il cibo, e gettare gli avanzi della sera prima. Essendo un venerdì, ci sarebbe sicuramente stata confusione, anche se gettando un'occhiata all'esterno, Mikasa poté scorgere un cielo un po' cupo.
 
«Dicono sia in arrivo un temporale, tra oggi e domani.» Brontolò Sasha, alle sue spalle.
«Mh.. non mi dispiace, la pioggia.»
«Ah, a me è indifferente! Ma se fa brutto tempo, nessuno metterà il naso fuori di casa.»
«...»
«Quindi nessuno verrà qui. E se la gente verrà, sarà di malumore e.. non ci lasceranno la mancia!»
«Sasha. Stai esagerando» la rimbeccò, punzecchiandole il naso.
«Sistema i tavoli, io penso a lavare i bicchieri.»
 
 
**************************
 
 
Come la ragazza aveva previsto, una leggera pioggerellina aveva iniziato a ricoprire l'intero quartiere, anche se per essere il mese di Febbraio, era piuttosto normale. Mikasa adorava il freddo, e anche se la pioggia le metteva un po' di tristezza, i momenti dopo, quelli in cui l'aria si presentava fresca a più respirabile, valevano tutto.
Tuttavia, la pioggia non aveva fermato l'orda di ragazzi che, alle prese con la noia di un tipico venerdì sera, avevano cominciato a riempire il pub in meno di mezz'ora. Non era la soltita confusione a cui erano abituati, ma di certo, era meglio di una serata senza lavoro.
 
A parte un gruppo di ragazzi piuttosto rumorosi, e un tavolo di quella che sembrava una coppia di giovani fidanzati, fu una serata piuttosto tranquilla, né troppo chiassosa, né poco movimentata. Mikasa si lasciò sfuggire un sospiro pesante, nel vedere che un gruppetto di poppanti, non avevano lasciato la benché minima ombra di mancia.
Forse Sasha non aveva poi tutti i torti.
"Dannati adolescenti, spero che a diciott’a
nni andiate a fare i lavori forzati," pensò, mentre puliva il tavolo, togliendo i piatti fatti di pomodoro e qualche foglia di lattuga.
 
Il rumore della porta che si apriva, attirò la sua attenzione, erano già le dieci passate, ma non si stupì tanto dell'orario, quanto dell'uomo che vide mentre varcava la soglia.
Le rivolse un cenno di capo, la sua solita giacca le fece storcere il naso. Era ancora lì, quell'uomo, per la seconda sera di fila. Ebbe l'istinto di andargli incontro e chiedergli se si fosse dimenticato qualcos'altro, ma era improbabile e di poco gusto, perciò decise di lasciar perdere: non aveva tempo per perdersi in chiacchiere; si recò dietro il bancone, e sparì nei meandri della cucina, con una pila di piatti tra le braccia.
 
Quando uscì, gli occhi attoniti di Sasha, puntati praticamente addosso, la indussero a fermarsi di colpo, sul posto.
«Cosa c'è.»
«Quel tipo.. ha chiesto di te. Credo voglia sia tu, a servirlo.»  Il tono della ragazza pareva un po' sorpreso, persino gli occhi, parevano indagatori. C'era forse qualcosa di male? Si astenne dal risponderle  solo perché era piuttosto seria nel proprio lavoro, e fare attendere i clienti era sbagliato.
Sfilò carta e penna dal taschino dei pantaloni e si avviò al tavolo che l'uomo aveva scelto, in fondo a sinistra, lontano da tutto il resto.
 
La domanda che l'aveva perseguitata da un po' di giorni, era "Che ci faceva uno come lui lì?"
Gente come quella avrebbe dovuto cenare in ristoranti di lusso, posti rinomati con un'etichetta dignitosa; allora perché mangiare in un pub? Perché rimpinzarsi con un panino e una birra? Restavano sempre comuni mortali affamati, ma faceva comunque uno strano effetto. La tentazione di chiederglielo fu fortissima, ma preferì tacere, e prendere l'ordinazione.
«..Salve.»
«Ehi»,  
posò il menu, non appena la vide.
«Cosa le porto?»
L'uomo si accigliò un minimo, come affascinato. Lei non lo stava neanche guardando. 
Se era in dubbio che la professionalità in quel locale fosse un pregio, quella ragazza gli diede la conferma assoluta. Tuttavia, si aspettava una reazione diversa, tanto per cominciare un saluto differente da un "cosa le porto". Ad esempio un "Com'è andata oggi, alla fine? Sa, ero tanto preoccupata per lei. E come sta la sua camicia?"
Improvvisamente ebbe la tentazione di presentarle il conto della smacchiatoria. Pazienza, non si sarebbe mica rassegnato.
«Un panino, il numero sette», disse, senza neanche sapere cosa avesse preso, era più concentrato a scrutare la ragazza dagli occhi profondi. A giudicare dall'espressione che fece, comunque, non doveva essere un'ottima scelta.
«.. Da bere?»
«Una birra. E.. vorrei anche ringraziarti per oggi.»
Mikasa alzò finalmente gli occhi, scontrandosi con quelli dell'uomo; per un attimo ne rimase colpita, smise persino di scrivere, la bocca schiusa dalla sorpresa.
«Non ho fatto niente. Da bere..?»
«.. una birra», sospirò, amareggiato. A quanto pare non c'era verso di ringraziarla a dovere.
Aprì la bocca, sul punto di dire qualcosa, ma la ragazza svanì in tempo record, lasciandolo da solo, con il menu in mano, a fissare il punto ora vuoto del pavimento di legno.
«Davvero fantastico», borbottò, richiudendo il libretto con uno scatto.
 
Non dovette tardare molto, prima di essere servito, dalla stessa ragazza sfuggente. Sembrava sempre così di fretta, eppure doveva ammetterlo, era sicuramente in gamba, rapida e per nulla incompetente, a differenza della tipa con la coda di cavallo ramata.

Mikasa posò abilmente il vassoio sul tavolo, servendogli la birra, e il cesto con il panino; Levi poté accorgersi di una zucchina fuoriuscire dal pane, dovette sforzarsi parecchio per non commentare con disgusto: non sopportava le zucchine. Mormorò un "Grazie" sommesso, già con i nervi a fior di pelle, prima di vederla riprendere il vassoio sotto braccio. Fu più rapido di lei ad afferrarle il polso, e costringerla a tornare indietro di almeno un passo.
«Puoi cenare con me?» chiese, senza pensarci due volte.
La ragazza sgranò gli occhi. Era chiaro come il sole che la sua risposta sarebbe stata negativa, ma tanto valeva provare. In qualche modo doveva pur parlarle.
«Non posso. Se non lo avesse notato, starei lavorando.»
«Se non lo avessi notato, non c'è quasi nessuno.
Almeno siediti. Cinque minuti. Non ti ruberò altro tempo, lo prometto.»
Mikasa fece un sospiro, si voltò in direzione del bancone. Non essendoci la tipica confusione di un venerdì sera, a causa del mal tempo, e essendo gli ordini già presi, magari poteva concecergli quei cinque minuti che tanto bramava.
«Cinque», sottolineò, mentre prendeva posto di fronte a lui, tra gli sguardi praticamente stupefatti di Sasha.
Decise di ignorarli, quindi ripose il vassoio sul tavolo, e avvicinò la sedia, in modo da mettersi comoda, con le mani giunte sotto il legno, anche se a disagio. Levi annuì, palesemente soddisfatto; mise da parte il proprio panino, ci sarebbe stato tempo per mangiarlo, e in in ogni caso, vedendo quella zucchina molleggiante, gli era passata la fame.
«Volevo solo ringraziarti. Sai, per la valigetta. Alla fine la mia collega l'ha trovata, probabilmente è passata di lì mentre eri svenuta, l'ha presa e l'ha portata dentro l'ufficio. Ecco perché non ce ne siamo accorti.»
«Ah. Bene.. mi fa davvero piacere. E' tutto?» chiese, spietata. Continuava ad evitare le sue occhiate, più intenta invece ad osservare l'ingresso, come in attesa di qualcosa. O di qualcuno. Non sembrava trepidante, o perlomeno non in senso positivo. Piuttosto, in uno stato di ansia.
Levi inarcò un sopracciglio. A che diamine di gioco stava giocando, quella ragazza?
«..No. Volevo anche dirti che le zucchine mi fanno schifo.»
«Perché ha ordinato questo panino, allora?» domandò, sempre distrattamente.
«Non stavo neanche guardando il menu. Ero concentrato su di te.»
Questo sembrò catturare l'attenzione da parte della ragazza, la quale si voltò del tutto, viso contro viso, occhi contro occhi. Poté persino giurare di averla vista arrossire, ma non ne fu sicuro, per via delle luci.
«..Non so che dire. Io-»
«Ero venuto qui solo per ringraziarti, a dire il vero, e per chiederti come stai. Mi hai davvero salvato la giornata, probabilmente te ne renderai conto, più in là.»
«Sto bene. Ed è..  fantastico, sul serio. Credevo fosse venuto qui per presentarmi il conto della smacchiatoria.»
«Era un'idea, all'inizio.»
Che quella ragazza gli avesse letto nel pensiero? Si creò una strana sintonia immediata, tra i due, e adesso che finalmente si guardavano negli occhi, sembrava che tutto il resto del locale fosse svanito. Sembrava persino che lei si fosse sciolta, quindi approfittò per poterne studiare il viso, i tratti femminili, le labbra non troppo sottili, il naso, quegli occhi che lo aveva attratto fin da subito, persino i capelli sembravano setosi. Rimasero in silenzio per studiarsi, anche la ragazza sembrava interessata al suo fascino, di certo non si poteva dire che non fosse un uomo attraente. Ancora una volta, ebbe la tentazione di domandargli cosa ci facesse, in un posto del genere, e proprio mentre fece per aprir bocca, si irrigidì nuovamente, alzandosi in piedi all'improvviso, gli occhi rivolti all'ingresso, ad un tratto tristi e malinconici.
Levi lo notò subito, ma fu più attento alla sua espressione, piuttosto che dal motivo di tanto sbigottimento.
«Devo andare, scusi.. si goda la cena» mormorò a bassissima voce, se Levi non avesse avuto un udito formidabile, neanche l'avrebbe sentita.
Annuì, anche se contrariato, non poté far a meno di seguirla con lo sguardo, staccando un morso dal panino, con voracità mista a rabbia.
Avrebbe voluto chiederle il nome. L'aveva nuovamente dimenticato.
Cosa aveva visto? Cosa le impediva di concedersi cinque minuti di pausa per stare in sua compagnia? Cosa c'era di così importante?
 
Poi lo vide. Li vide.

E tutto ebbe improvvisamente senso.

A quel punto, persino la zucchina non sembrava più tanto malvagia.




Continua...




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N.d.A. ~ WIIIIIIIIIII! Che succede che succede ommioddio cosa ha visto Mikasa?
Opzione 1: Eren titano (??)
Opzione 2: Annie titano (???)
Opzione 3: Levi Ackerman con il maneuver (????)
Bando alle ciance, spero che un pochino vi stia piacendo! Io mi sto trovando molto bene a scriverla, le cose mi vengono spontanee e mi sto davvero divertendo, perché è  tutto nella mia mente! E’ interessante, Nexys (sì parlo proprio con te *indica*) leggere le tue teorie—vediamo con cosa te ne uscirai stavolta!
Un grosso bacio, w la Rivamikaaaaaa ♥

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Capitolo 4
*** Capitolo 4 ***


Capitolo 4


Se l’era vista sparire davanti, così come l’aveva vista arrivare. Gli bastarono cinque secondi netti per capire il motivo.
Un ragazzo piuttosto alto, dai capelli scompigliati color cappuccino, fece il suo ingresso accompagnato forse da un amico, poco meno alto di lui. Aveva un’aria piuttosto benestante, a giudicare dai propri abiti, né troppo eleganti, né eccessivamente sportivi. Camicia verde, giacca a vento e pantaloni marroni, mocassini leggermente più scuri (“Ottima scelta”, pensò tra sé e sé.).
Non appena vide Mikasa, il ragazzo dai capelli scompigliati (notò in un secondo momento fossero di un colore più scuro, ai lati) le rivolse subito un sorriso – che a Levi apparve come uno dei più sgradevoli avesse mai visto in vita sua. Dopo averle teso un braccio per afferrarla, la baciò sulle labbra.

Lì per lì provò una strana sensazione, sgradevole anche quella, ma non poté far a meno di notare quanto la ragazza fosse riluttante, o almeno, non sembrava troppo convinta. Forse era timida e non le piaceva scambiarsi effusioni in pubblico, o magari non era il tipo da relazioni.

«O magari dovrei farmi i fattacci miei,» disse un po’ troppo ad alta voce, prendendo un sorso dal suo bicchiere.
 A quel punto si chiese che tipo di relazione ci fosse, tra i due.
Ammesso che ci fosse.
E anche se ci fosse stata, non doveva mica intromettersi, del resto, le faccende amorose di una ragazzina non erano qualcosa che lo riguardava.
Vide Mikasa rivolgergli un cenno di scuse, prima di seguirla con lo sguardo e vederla sparire probabilmente sul retro, mentre l’altro ragazzo si avvicinò al bancone, salutando la ragazza con la coda di cavallo. E pensare che era venuto fin lì per ringraziarla a dovere.
Con un gesto scocciato, addentò il panino con voracità.
Decise persino di ignorare le zucchine, in fondo, non erano poi così male.

 
************

Come anche lui si era immaginato, il pub iniziò ad affollarsi dopo una mezz’ora, e della ragazza dai capelli corvini non c’era nemmeno più traccia. Iniziò a chiedersi che fine avesse fatto, ma non aveva tempo per stare appresso ad una ragazzina con la testa tra le nuvole; probabilmente aveva dato troppo peso a quella faccenda, e un grazie era stato più che sufficiente, non aveva mica bisogno di pregarla in ginocchio affinché lo stesse a sentire.
Gli aveva salvato la giornata, forse la carriera. Fine. Non c'era più nulla da dire o fare.

Quando decise di andare a pagare, si dovette accontentare della solita ragazza apparentemente svampita; già non appena si avvicinò alzò gli occhi al cielo, scocciato. La ragazza, come poté immaginare, non lo capì.
«Sì?»
«Il conto.»
«S-Sì, ma certo! Fanno 8.70!»
Non si premurò neanche di chiederselo, lasciò una banconota da 10 e fece per avviarsi verso l’uscita, conscio che probabilmente la tipa avrebbe impiegato altri minuti preziosi per fare i calcoli sul resto.
«Ah, grazie mille signore della valigetta! Torni presto!»
Ebbe l’istinto di voltarsi di scatto e suonargliele di santa ragione, innanzitutto perché se solo il locale fosse stato meno affollato, tutti avrebbero saputo della sua sbadataggine, grazie a quell'appellativo sfrontato; e seconda cosa, perché così, a pelle, non le stava affatto simpatica. I motivi per cui si trattenne, furono comunque abbastanza ovvi.


Fortunatamente, fuori non pioveva più, in compenso, l’aria era davvero frizzante, proprio per questo rinunciò a tenere la giacca sopra la spalla, e la indossò accuratamente, prima di controllare di avere portafoglio e telefono in tasca.
Fuoriuscì una bottiglietta di liquido trasparente dall’interno di una di esse, versandone il contenuto sulle mani; le sfregò per bene e rimise la boccetta al suo posto.
Odiava essere germofobico. Ma quei locali, come qualunque altro edificio non fosse casa sua, pullulava di batteri e scarsa igiene.

La sua Porsche non era posteggiata troppo lontano, fortunatamente; considerando il fatto che odiasse il freddo, aveva scelto con cura il parcheggio, in modo da non trovarsi in difficoltà, una volta tornato. I vocii di alcuni bambini si confondevano tra i rumori dei clacson e delle urla di alcuni anziani che si lamentavano per il troppo chiasso. Pensò che se non avessero urlato di rimando, ci sarebbe stata sicuramente più pace. Sospirò pesantemente, altri due vocii si unirono al rumore assordante del clacson di un furgone. Quella strada era davvero parecchio affollata.

«…»
«Ti ho detto che non mi va.»
«Fai sempre così, ultimamente.. sono..»


E non sentì più nulla, a causa di un tipo piuttosto paffuto che gettò un urlo dal finestrino di un camion, lamentandosi della poca efficienza dei semafori.

Ignorò l’omino delle nevi e tese l’orecchio, gli parve di riconoscere la voce femminile, ma non ne fu troppo sicuro. Non aveva nulla da fare – i grandi pregi della solitudine! – quindi non gli sarebbe costato nulla dare un’occhiata. O meglio dire, origliare una conversazione.
Svoltato l'angolo, fece qualche passo indietro, in direzione di un viicolo cieco che dava spazio a dei cassonetti dell’immondizia, cosa che francamente lo fece titubare un attimo. Scorse una luce provenire dalla lanterna accanto, e capì che quello doveva essere il retro del pub, probabilmente corrispondeva alle cucine.

Da lontano, scorse le due figure intente a discutere animatamente. Non aveva una vista eccezionale, ma non gli ci volle molto a riconoscere il ragazzo che aveva visto poco prima, quello alto, con i capelli di due colore diversi; aveva le mani in tasca, l’aria da chi è appena stato preso a schiaffi.  Di profilo aveva davvero una faccia lunga. Si sporse un po' di più, per capire chi fosse la seconda persona, anche se era certo di non essersi sbagliato; si rifugiò dietro un cassonetto, cercando di ignorarne il cattivo odore, ed ebbe tutte le conferme del mondo.
Era lei, la ragazza dai capelli nero pece, le braccia conserte, la fronte corrucciata, gli occhi spenti, seppur illuminati dalla luce piuttosto forte della lanterna. Il Suo profilo era invece impeccabile, le metteva in risalto i lineamenti, persino quelli più nascosti, come le labbra sottili.

A primo impatto, forse per via delle frasi che aveva udito poco prima, sembrò che la ragazza fosse in difficoltà, ma adesso che li guardava per bene,  sembrava tutto fuorché nei casini; anzi, pareva essere lei a dominare la scena, vista la faccia delusa e affranta del tipo dalla faccia oblunga.

Silenziosamente, fece alcuni passi avanti, il suolo era piuttosto scivoloso, ma piuttosto che poggiarsi alle pareti ispide dell’edificio o al cassonetto che aveva accanto, si sarebbe fatto mozzare la testa, perciò restò in equilibrio, sperando che nessuno si accorgesse della sua presenza.

«Comincio a credere che tu non sia più molto interessata a me, o sbaglio?»
«No, non è questo il punto.»
«Allora qual è? Spiegamelo, perché sarò io ma non ci arrivo! Persino Eren non riesce a capirti, ultimamente. E voi due vi dite sempre tutto!»

"Che sia l'altro tipo?" si chiese, e intanto mise il piede sopra una pozzanghera piuttosto profonda, generando un piccolo rumore che non sarebbe passato inosservato. Pregò con tutto il cuore che entrambi avessero uno scarsissimo udito.

«Torno a ripeterti, Jean, non sono cose che—aspetta. Chi è là?»

“Merda.”
Per un attimo avvertì il cuore fargli un balzo consistente, tentò di allontanarsi come meglio poté, prima di scorgere un micio arancione sopra un cassonetto balzare da un sacco all’altro, fino ad arrivare ai piedi della ragazza.
Per una volta fu felicissimo di essere di bassa statura.

«Sei solo tu..» La ragazza si chinò per accarezzare il micio; sebbene non fosse vicinissimo a lei, la vide più rilassata. Curioso, anche lui amava i gatti.
«..mi stai ascoltando? Mikasa?»

Mikasa. Ecco come si chiamava.

Fu come aver scoperto un indovinello da migliaia di yen. No, come aver concluso una delle sfide più difficili mai affrontate. Il che era bizzarro, perché tutto era successo per delle occasioni mancate di chiederle il nome.
Si addiceva parecchio alla sua fisionomia.
“Mikasa..” ripeté mentalmente.
Sembrava tutto nella norma, forse adesso poteva smettere di origliare. Neanche a quindici anni, aveva mai fatto una cosa simile. Cosa l'aveva spinto a tanto?

«Senti, io.. dovrei andare, ero passato solo per un saluto, comunque. Ti chiamo stasera, dopo il turno.»
«.. Va bene.» Il sospiro pesante, il tono di voce spento.
Sentì un’altra sequenza di frasi, ma la voce era così bassa da non essere minimamente udibile.
Avvertì dei passi lontani, il rumore di una porta sbattere, e si lasciò andare al primo vero respiro della serata. Non si era nemmeno accorto di aver trattenuto il fiato per una decina di secondi buoni.

Rimase ad occhi chiusi per alcuni istanti, che passò a riflettere su quanto ascoltato, prima di riaprirli, e trovarsi la figura della ragazza a braccia conserte, praticamente a dieci centimetri scarsi da sé. A giudicare dall’espressione, pareva parecchio adirata.
«Che cazzo-»
«Origliare è sbagliato. Soprattutto alla sua età.»
Non seppe per cosa entrare in escandescenza per primo: per il fatto di essere stato beccato o per quello di essere stato scambiato per un vecchio pettegolo alla ricerca di affari altrui. O per un vecchio e basta.
«Non è come pensi. Stavo andando a prendere la macchina, ho sentito la tua voce, mi sembrava strana dal tono alto che avevi, credevo fossi in pericolo e sono venuto a dare un’occhiata.»
«Stavo usando un tono alto, perché se non lo avesse notato, questa città è puro traffico. E comunque come può vedere, sto bene, quindi poteva anche andare via subito.»
Durante tutto il discorso, riuscì solo a concentrarsi sulle sue labbra – che da vicino non sembravano poi così sottili – e sulla sua pelle di porcellana.
Mikasa. Se lo ripetè ancora una volta, e nel mentre, ascoltava con attenzione le sue parole, alternando qualche sguardo anche ai dintorni, per non sembrare davvero un maniaco in pensione.
«Sapevi che ero lì?»
«Sì. L’ho capito subito. E’ una specie di stalker?»
«.. no. Ti ho già detto come sono andate le cose, e non ho intenzione di scusarmi.»
Questo sembrò metterla a tacere; l’espressione adirata venne sostituita da una più malinconica, forse addirittura dispiaciuta. Perché degli occhi così belli dovevano essere tristi? Pensò quanto potesse essere ingiusto, avrà avuto sì e no vent’anni scarsi.

«..Va tutto bene?» le chiese, dopo alcuni secondi di silenzio, passati a guardarsi negli occhi, in cerca di chissà cosa.
«Sì. Adesso dovrei tornare dentro, buonanotte.»
In una frazione di secondi le afferrò il polso, senza essere troppo irruento, proprio non trovava pace sul fatto che lei non volesse neanche starlo a sentire.
Non seppe neanche perché l’avesse fermata. Ringraziarla di nuovo? Chiedere più informazioni su quel tipo? Chiederle se avesse problemi familiari o cose simili? Non si conoscevano neanche, non era nemmeno affar suo.
La verità è che la fermò e non seppe cosa dirle.
Poi la guardò negli occhi, e capì di averle già comunicato tutto quello che la sua voce non riuscì a compiere.
«E’ complicato. Per favore.» Mikasa posò le dita affusolate sul suo braccio, come a chiedere tacitamente di rimuoverlo e lasciarla andare.
Non poteva di certo trattenerla contro la sua volontà.

«D’accordo. Se hai bisogno..»
«Sì, sì. Verrò a trovarla nel suo ufficio. Tanto so dov'è», ironizzò, cercando di tranquillizzarlo, con quel modo di fare che però andava in contrasto con il suo sguardo apatico.
La lasciò andare, a malincuore, sfiorandole il braccio con la punta delle dita; si arrese all’evidenza di essere troppo estraneo nella sua vita, per poter irrompervi come nulla fosse, con la pretesa di aiutarla. Che poi, non poteva neanche confermare il fatto avesse davvero bisogno di aiuto.

«Sì. Buonanotte. Sta’ attenta. Mikasa
La ragazza dai capelli corvini ebbe un attimo di stordimento, prima di riflettere per bene, e intuire che lui avesse sentito il proprio nome durante la conversazione precedente. Gli rivolse uno sguardo interrogativo, prima di sentenziare.
«Buonanotte, uhm.. può ricordarmi il suo nome? L'ho letto nell'etichetta della valigia, ma.. »
«Levi.»
«Levi..» ripeté, scandendo bene ogni singola lettera. «Mi piace
Fu l’ultima cosa che le sentì dire, prima di vederla sparire sul retro, il rumore della porta gli ricordò vagamente quello della sua lavanderia, il che gli ricordò di essere ancora in un posto sudicio.
Rimase fermo qualche istante, con una mano in tasca, l’altra con le chiavi della macchina già pronte per partire. Era stata una serata strana, quella. Non riuscì a capire cosa l’avesse sorpreso di più, in tutta onestà; se il suo nome o l’interesse che nutriva per la sua personalità.

I suoi pensieri furono interrotti dalla vibrazione del cellulare, per poco non gli caddero le chiavi di mano. Sullo schermo, comparve il nome “Erwin” a caratteri cubitali, ci mise più di un minuto per capire che fosse un messaggio e non una chiamata in arrivo.
“Dannati telefoni tecnologici.”

L’sms, diceva:

Settimana prossima, ho un altro posto carino da farti provare!
Ps. Porta comunque la valigetta, magari è il caso che rimorchi un’altra bella fanciulla! Ahah!”


«Disgraziato.»

Si maledì da solo, per avergli raccontato tutto sulla storia della valigetta, una volta rientrato in ufficio, perché conoscendo Erwin, sapeva che sarebbe stata altra carne da mettere sul fuoco. Era sicuro, infatti, che non avrebbe perso occasioni per rinfacciarglielo, e sfruttare quella storia a suo piacimento: quel messaggio, era una conferma lampante.

Posò il cellulare in tasca, e ancora rivolse un ultimo sguardo all’ingresso del pub, pensando che tuttavia, il suo migliore amico non aveva sempre cattive idee.



Continua...

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N.d.A: sono conscia che questo capitolo sia un po' pallosetto, ma ehi, le cose non possono sempre procedere veloci u.u Quando mai, succede nella vita reale? Mpf. Dedico il tutto alla mia Nexys, e spero che un pochino sia di vostro gradimento <3

 

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Capitolo 5
*** Capitolo 5 ***


Capitolo 5

 
Erano passate ormai due settimane, e di quelle ragazza, non ebbe più notizia.
Non che non fosse tornato al pub, semplicemente.. l’unica sera in cui aveva deciso di mandare al diavolo l’orgoglio e cercarla lì, non l’aveva trovata.
Erwin gli chiese più volte come mai avesse voluto tornarci con tanta enfasi, caratteristica che Levi non mostrava mai – se non di rado, e lui si era limitato a dire “E’ stato l’unico posto che mi ha fatto apprezzare seriamente le zucchine.”
Inutile dire che quella scusa non aveva affatto funzionato, non solo perché Erwin era un tipo sveglio, ma soprattutto perché non rientrava davvero nel carattere di Levi, apprezzare un cibo che fino a poco tempo prima aveva odiato con tutto se stesso.
Eppure Erwin era un pezzo di pane, e pur di vedere il suo migliore amico felice, lo avrebbe seguito e supportato in capo al mondo.
Quella sera fu abbastanza piatta, perché della ragazza non vi era nemmeno l’ombra, e il panino che aveva ordinato non gli seppe neanche più buono di come lo ricordava.
Deglutì a fatica ogni singolo boccone, guardando qualunque cosa attorno a sé, in cerca della giovane, con la speranza che sarebbe saltata fuori dal nulla, magari dal bancone vicino.
Erwin non chiese, perché era troppo acuto per non averlo già intuito.
La cosa che preoccupava Levi, in un certo senso, era il motivo di tutto quell’interesse, scaturito praticamente dal nulla. Forse era stata colpa di Erwin e di tutte le fesserie che gli aveva messo in testa: quando mai si era interessato così tanto ad una persona che non fosse se stesso?
 
Non la conosceva neanche. A stento sapeva il suo nome – solo perché aveva origliato in quella conversazione a due, altrimenti avrebbe impiegato una manciata di giorni, prima di saperlo.
“Ma le cameriere non hanno un cartellino, di solito?” Se n’era uscito una mattina, nel bel mezzo di una noiosissima riunione sul mercato internazionale.
Non sapeva niente di lei: se fosse impegnata con quel tipo dalla faccia oblunga, quanti anni avesse, se frequentasse ancora la scuola, il college, se fosse una tipa da vino o da birra, se amasse la cioccolata calda, che tipo di stagione preferiva, se fosse figlia unica o avesse dodici fratelli al seguito.
Non sapeva assolutamente niente. Ma soprattutto, perché voleva sapere quelle cose?
Era solo una ragazza come tante, e certo, era bella, giovane, e aveva quegli occhi magnetici, a volte un po’ tristi.. in realtà erano stati quelli ad attrarlo in quel modo. Perché mentire a se stesso e dirsi che era uguale alle altre, quando sentiva a pelle che non era affatto così?
Ricordava bene, cosa lo avesse spinto a cercare un dialogo, ed erano proprio stati quegli occhi spenti, che aveva visto illuminarsi quando aveva capito di aver salvato la giornata a qualcuno. In quel momento pensò anche quanto potesse essere altruista; magari aveva sprecato una mattina intera solo per ammazzarsi il collo e raggiungere il suo ufficio. Non l’aveva trattata proprio bene, ma in sua difesa, poteva comunque dire che ci aveva provato più volte, a farsi perdonare.
Una delle due, lei era praticamente scappata con il ragazzo alto, la seconda, non l’aveva trovata.
Non era proprio nel sangue di Levi, arrendersi, ma se il destino avesse voluto, li avrebbe fatti rincontrare, in un modo o nell’altro.
Ma forse, quel tipo di cose, succedevano solo in un film a lieto fine.
 

********************************
 
Fu una fredda sera di Febbraio, a sconvolgergli la vita.
Ma alle dieci di sera, non poteva ancora saperlo.
Era troppo impegnato a scegliere una camicia da indossare, perché Erwin aveva avuto la brillante idea di prelevarlo con la forza senza se e senza ma, per un post-serata in un nuovo “locale”. All’inizio, non capì il motivo per il quale lo avesse sottolineato con tanta misteriosità, successivamente.. beh, nemmeno.
Uscire non gli avrebbe di certo fatto male, anche se lui era più un tipo da casa-divano-film in salotto. E comunque, era un tipo piuttosto accondiscendente.
Senza batter ciglio, si era ritrovato fuori dal portone di casa con un cappotto pesante, dei guanti e una sciarpa di lana a coprirlo fino al naso.


«Quanto sei esagerato, ahah!» Erwin rise sonoramente per una manciata di secondi buoni, prima di togliere la sicura ed invitarlo ad entrare.

«Sta’ zitto. Ci saranno -30 gradi, qui fuori.» 
Aprì lo sportello con uno scatto energico, e non appena si accomodò sul sedile in pelle tra imprecazioni e parolacce, quasi gli prese un infarto nel veder sbucare la testa di Mike dai due schienali anteriori.
«Che caz- che cazzo ci fa lui qui?» E la domanda fu nettamente rivolta ad Erwin, visto che sapeva perfettamente quanto tra i due non corresse buon sangue. Ignorò l’uomo biondo e il suo fastidioso pizzetto, e sgranò gli occhi in direzione del suo migliore amico, il quale, dopo aver atteso la chiusura dello sportello, rimise la sicura e riaccese il motore. Nessuna spiegazione, nessuna parola, solo un sorrisetto compiaciuto e un’alzata di spalle.
Mike era un caro amico di Erwin, ma Levi non poteva proprio sopportarlo. Sembrava sempre sulle nuvole, un po’ spaesato, e aveva quel fastidioso vizio di stare incollato alla gente, quasi volesse respirargli addosso.

«Acqua di colonia?» La testa di Mike ad un millimetro dalla sua spalla sinistra.
 
«Taci e spostati, testa di c- dove hai detto che stiamo andando, Erwin?»

«Ah, che impazienza, sarà una bella serata, tra soli uomini! E vedrai che ci divertiremo.» Erwin non toglieva mai quel sorriso a trentadue denti, e per stavolta avrebbe lasciato correre. Ma quando si fossero trovati da soli, gli avrebbe dato il ben servito per aver portato quell’idiota di Mike con loro. Evitò di fare questioni solo perché in fondo, era una persona a cui Erwin teneva molto, e decise di non immischiarsi. Di certo, sarebbe stata una serata noiosissima, soprattutto se quel deficiente non si fosse spostato immediatamente dalla sua spalla.
 
«Mike. Potresti almeno evitare di infettarmi con i tuoi germi? Li sento camminare nella mia cazzo di spalla.» Sbottò, ponendo la mano a mo’ di freno contro la faccia dell’uomo.

«Oh, quanto siamo irritabili, oggi! Ehi, Erw! Stasera lo facciamo scatenare un po’, che dici?»

Erw?” «Cristo, potrei seriamente vomitare. Dov’è che stiamo andando, comunque?»

«Andiamo, Erw, diglielo un po’!»
 
«Oh già, Erw, dimmelo tu. Dove stiamo andando?» Levi tentò di non farsi beffe dell’amico, ma fu più forte di lui: quel soprannome era davvero ridicolo; Erwin era già un nome sufficientemente corto, non c’era bisogno di storpiarlo in quel modo.
In tutta risposta, Erwin si prese una pausa di riflessione, prima di rispondere, e ci mise davvero parecchio tempo, tanto che Levi si chiese se non stesse per morire di crepacuore.
 
«Oi. Non era una domanda da un milione di yen-»
 
«Lo so, è solo che.. temo non ti piacerà troppo la risposta.»
 
«Non preoccuparti, tanto la serata si è rovinata nel momento esatto in cui ho visto “Mr.Mi appioppo a chiunque mi capiti a tiro” dietro di me. Solo portarmi in un night club, potrebbe farmi star peggio.»
 
«…»
 
«…»
 
«Levi..»
 
«Fammi scendere da questa cazzo di macchina.»
 
A quel punto fu tutto immediato: Levi si gettò dalla parte di Erwin per sbloccare le sicure, intanto l’uomo al volante fece una sterzata così brusca da costringere Mike a scollarsi definitivamente dal sedile anteriore. Levi godette parecchio, ma non ci diede troppo peso, l’obiettivo era far accostare la macchina, scendere e tanti saluti. Erwin non demorse, e approfittando il fatto che quella strada fosse momentaneamente isolata, sterzò violentemente verso sinistra, in modo che Levi staccasse le sua mani dal volante e dintorni.

«Levi, sei per caso impazzito!?»

«Voglio scendere. Fammi scendere. Ti incendio la macchina mentre dormi. Traditore.»

«Stavo solo scherzando--!»
 
«…»
 
A quel punto ci fu un momento di silenzio. A detta di Levi, quel bastardo di Mike si gustò tutta la sua reazione. Erwin non ci pensò minimamente ad accostarsi, né a decelerare la corsa, perché sapeva che Levi adesso si sarebbe calmato.
 
«…Sai che non devi farmi prendere questi colpi, mio Dio, Erwin!»
 
«E tu sai che io non ti porterei mai in un posto dove ci sono spogliarelliste e transessuali! E’ solo un locale notturno, ci sono cameriere carine, della buona musica, e servono dei drink eccezionali.»
 
«Mi chiedo come tu faccia a sapere queste cose.»
 
«Perché io sono un bongustaio, ci sono già stato, e poi.. sicuramente la mia movida è molto più intensa della tua.»
 
Questo bastò per porre fine a quella discussione e far chiudere Levi in un silenzio di protesta.
 
L’unico momento in cui tornò a parlare, fu per lasciarsi scappare un commento poco gradevole sulla fila che vi era all’entrata del locale. Inutile dire che un solo sguardo bastò per fulminare Erwin Smith, il quale, con un semplice occhiolino, lo rassicurò subito.
 
«Tranquillo, non faremo la fila al gelo. Mike ha delle conoscenze. Ci faranno entrare subito.»
 
Era bello il modo in cui lui ed Erwin si capissero al volo; almeno non avrebbe dovuto farsi tre ore di fila sotto quel freddo assassino. Ma di una cosa era certo: non avrebbe mai ringraziato Mike.
Se avesse iniziato a pestare a sangue il proprietario, avrebbero fatto anche entrare lui, con le dovute raccomandazioni.
 
Il locale non era malaccio, ad eccetto per alcuni tipi loschi posizionati all’entrata, probabilmente già ubriachi. Sbuffò come suo solito, guardando Erwin in maniera torva, prima di scendere e assicurarsi di aver chiuso bene lo sportello. Ebbe la tentazione di dire “Ehi, lasciamo qui Mike”, fingendo che la macchina avesse qualche problemino ad aprirsi, ma Erwin abbassò il finestrino per urlargli di cominciare ad entrare, mentre lui cercava un posto per l’auto, lontano da lì.
Quale momento migliore per prendere Mike a pugni. Sfortunatamente gli “serviva” per entrare lì dentro, anche se lui sarebbe volentieri tornato a casa; peccato che Erwin sembrava tenerci molto, chissà per quale motivo. Era vero che non aveva movida, a differenza del suo migliore amico..?
Mike gli fece cenno di seguirlo, quella fu l’unica occasione in cui non se lo trovò appiccicato al seguito; lo vide parlare con un tizio paffuto e baffuto (…) dopodiché guardarono entrambi Levi, risero, e lasciarono entrare anche lui.
Una volta messo piede al caldo, non poté far a meno di chiedere a Mike cosa avessero avuto da ridere.
 
«Il buttafuori credeva che fossi più piccolo, per via della tua statura.»
 
«Ti spacco la faccia. E ora non c’è Erwin a proteggerti.»
 
«Andiamo, scherzavo! Rideva per il tuo taglio di capelli a scodella.»
 
Quello era persino peggio.

«Ti ammazzo e depredo il tuo cadavere.»
 
«Sì, ok, troviamo posto, dai!» Mike si incamminò nel salone centrale, e Levi capì subito il motivo per cui quel posto era tanto affollato: era tutto molto raffinato, a partire dai divanetti di pelle rossa e i quadri esposti; le cameriere si facevano davvero guardare, e più in fondo, vi era una sottospecie di palco con degli strumenti, probabilmente per le esibizioni. Forse con “buona musica” Erwin intendeva musica dal vivo. Parecchio incuriosito, seguì Mike in un tavolo in fondo a destra, piuttosto vicino al palco, un divanetto all’angolo e due sedie. Si tolse il cappotto e lo adagiò sul cuscinetto accanto a sé, lì dentro c’era parecchio caldo, quindi si sedette senza aggiungere nulla, dandosi un’occhiata in giro.
 
«Vado a prelevare Erw! Senza di me non lo faranno mai entrare! Tu aspettami qui, non osare scappar via, ok?»
 
Levi fece per obiettare, magari sputando una battuta delle sue, piuttosto saccenti, ma Mike fu più veloce di lui e sparì tra la folla.
 
«Erw.. tch. Che cazzata.»
 
Si mise a braccia conserte, aspettando che qualche cameriera lo notasse, aveva decisamente voglia di bere qualcosa di forte, anche solo per illudersi di non essere davvero lì e sperare che quella serata volgesse al termine il prima possibile. Erwin e Mike fecero capolino nella sala prima che qualcuno potesse notarlo e servirgli da bere.
 
«Tutto solo? Possiamo portarle qualcosa, signore?» Ironizzò Erwin, prendendo posto a sedere proprio accanto a lui.
 
«No, sono qui con due deficienti che mi hanno prelevato da casa con la forza e mi hanno quasi fatto ammazzare.»
 
«Interessante, possiamo sederci accanto a lei? Signore dai capelli a scodella?»
 
«…Strozzati.»
 
«Hai già ordinato qualcosa?»
 
«Non è venuto nessuno a portarmi un menu. Non sapevo cosa prendere.»
 
«Andiamo, Levi, non c’è mica bisogno di un menu! Sta a vedere. ..signorina!» chiamò dal nulla una ragazza, bionda, la quale si avvicinò subito. Erwin aveva una certa dote, quando si trattava di attirare ragazze. Notò i tacchi di almeno dieci centimetri con i quali la bionda volteggiava senza problemi. Chissà come facevano, le donne, a camminare su quei trampoli con una stabilità esorbitante.
La tipa si avvicinò, con un aggeggio nelle mani; evidentemente era un locale innovativo, per far sì che le cameriere non avessero dei semplici block notes.
 
«Sì? Cosa vi porto?» chiese, gentilmente. Perlomeno lo staff sembrava educato.
 
«Tre Black Russian
 
«Ottima scelta. Ve li porto subito!» Sprizzante di gioia, si allontanò dal loro tavolo, così poté approfittare per scoccargli uno sguardo interrogativo.
 
«Fidati di me, ti piacerà. E abbiamo bisogno di svegliarci, tra poco inizia la musica! La notte è giovane, amico mio!»
 
«..Sarà.» Levi si mise a sedere più comodamente, attendendo pazientemente che tornasse la signorina con i cocktails.
Non dovette aspettare molto, perché tornò pochi minuti dopo, giusto il tempo da permettergli altri sguardi in giro. Sembrava un posto rustico e moderno al tempo stesso, difficile da descrivere a chi non lo avesse mai visto; qualcosa lo attirava parecchio, forse la disposizione dei divanetti, forse il piccolo palco, forse la presenza del pianoforte. Quando Erwin gli aveva detto “bar notturno” aveva pensato male; si era immaginato la presenza di una decina di ballerine cubiste attorno ad un palo, con in dosso un solo perizoma tigrato, il che non gli sarebbe dispiaciuto, ma non era proprio il suo genere. Aveva altri modi di passare una bella serata: un divano, un plaid, un buon film e un bicchiere di vino rosso da sorseggiare ogni tanto. Non aveva mai apprezzato la vita movimentata, né sdegnata, semplicemente non era il suo genere, ed Erwin lo sapeva benissimo, ma ogni tanto provava a strapparlo via da quella monotonia che lo stava inghiottendo come sabbie mobili.
Niente avrebbe potuto strappargli un sorriso.
Sorseggiò il cocktail con fermezza, vi scorse del liquore al caffè, e solo quello gli bastò per scaldargli il cuore. Erwin conosceva benissimo i suoi gusti, e da bravo amante del caffè, Levi seppe apprezzare parecchio, pur non commentando ad alta voce.
Dopo l’ennesimo sorso, entrò in un attimo di trance; si sentì come in una bolla, riuscì persino ad ignorare i commenti di Mike sul sedere tondo di una delle cameriere. Sentì in sottofondo un rumore chiassoso, come se stessero trascinando un mobile pesantissimo, ma ignorò anche quello.
Solo la voce di Erwin e il suono di una voce al microfono, catturò la sua attenzione.
 
«Qualcuno sta iniziando a cantare.» Erwin batté le mani una volta sola, entusiasta. Certe volte sembrava davvero un ragazzino.
 
Sul palco entrarono un gruppo di giovani chitarristi, diedero inizio ad un motivetto da salone, la musica era decisamente quella di un saloon, ma la gente sembrava dare più importanza ai sederi al vento delle cameriere, piuttosto che alla buona musica. Ed era davvero apprezzabile, notò, tenendo in mano il bicchiere ormai mezzo vuoto.
 
«Si chiama Old Fashioned. O Tumbler basso!» Mike parlò dal nulla, lanciando uno sguardo al bicchiere che Levi teneva in mano.
 
«Non mi cambierà la vita sapere il nome di un fottutissimo bicchiere.»
 
Non appena la musica cessò, iniziò a duolergli la testa; il volume era decisamente eccessivo, anche se comprensibile, quindi fu lieto di sentire il suono del pianoforte, alcuni minuti dopo.
Sul palco, scorse una figura longilinea, una ragazza dai capelli rosso fuoco, lunghi fino alle spalle, si posizionò al centro di esso, seduta su uno sgabello alto, con il microfono in mano.
La musica partì sulle note di una canzone a lui familiare, e si stupì di vedere che qualcuno, oltre lui, la conoscesse.


On oubliera les chaînes de nos vies qui se traînent
On oublie quand même
Mais il est une chose à laquelle nous resterons fidèle…
 
 
Sorseggiò ancora il suo cocktail, lanciando un’occhiata alla donna seduta al centro del palco. Aveva un vestito nero, corto, e le movenze con cui ogni tanto accompagnava i versi, erano eleganti tanto quanto la sua voce. Si stupì del modo in cui la sua dizione fosse perfetta, il francese non era una lingua semplice. Forse lo era di origine.
Sotto la luce del palco, i capelli rifletterono un colore parecchio strano; forse si trattava di una parrucca, o forse stava davvero reggendo male l’alcool.
 
 
…J'oublierai ma défaite et le rêve qui s'arrête
J'oublierai peut-être
Mis j'y pense encore quelque fois et ça ne s'explique pas
S'explique pas…
 
«E’ proprio brava, Levi. Non trovi? E’ anche piuttosto carina!»
Sapeva cosa stesse tramando Erwin, ma stavolta, non avrebbe mosso un dito. Essendo parecchio vicino al palco, riusciva a seguire persino il movimento delle sue labbra.
Non poté far a meno di mimare qualche frase, conoscendo la canzone, e la accompagnò durante i versi seguenti, il bicchiere ormai solo pieno di ghiaccio.
Ricordò bene il momento in cui la ragazza si girò a guardare in sua direzione, a quel punto si sentì in dovere di mettersi a sedere un po’ più comodo, per non dare l’impressione di essere un barbone ubriaco – proprio come tutti gli altri lì dentro; ricordò bene di come lei proseguì le note con dolcezza, il rossetto rosso sulle sue labbra si intonava perfettamente con i capelli color fuoco, il microfono ad un filo da esse, sembrava quasi ci stesse facendo l’amore, tant’era coinvolta.
Ricordò bene anche il momento in cui i loro sguardi si incrociarono, e a quel punto, la riconobbe all’istante. Perché avrebbe potuto indossare migliaia di vestiti, mille parrucche o nascondersi dietro centinaia di maschere, ma non avrebbe mai potuto dimenticarsi di quegli occhi magnetici; gli stessi a cui aveva pensato per notti intere sin dal primo momento in cui l’aveva incontrata.
La ragazza sgranò poco gli occhi, e quella fu forse la conferma migliore che potesse ricevere.
In quel momento non pensò a nulla se non a lei; non si chiese nemmeno cosa ci facesse lì, cos’altro non sapesse di lei, dove fosse il suo apparente fidanzato, o come mai indossasse una parrucca.
In quel momento pensò solo ad ascoltare la sua voce melodiosa, senza mai interrompere il contatto visivo.
 
..Tes yeux, ta voix, tes mains sur moi, toujours ça reste là
Le jour et l'heure, ta peau, l'odeur, l'amour ça reste là
C'est fort encore, C'est mort d'accord
Mais ça ne s'oublie pas
Ne s'oublie pas, ça
Je n'oublie pas
 
«…»
Come incantato, mimò alcune frasi con le labbra, senza cantare, in modo che anche lei potesse vederlo.
I tuoi occhi, la tua voce, le tue mani su di me..”
Sembrava che quella canzone fosse perfettamente adatta a quel momento. Non pensò nemmeno a come potesse apparire ai Suoi occhi.
 
...l'amour c'est là
On n'oublie pas
Je ne t'oublierai jamais.
 
La canzone finì con quelle note, e le pronunciarono insieme; il tutto, seguito da alcuni applausi sparsi per il salone.
Lui fu l’ultimo a battere le mani, forse perché ancora si ritrovava ad ammirarla in segreto, ancora leggermente intontito da quella scoperta. Fu Erwin a svegliarlo da quello stato di trance.
 
«Un altro drink?» chiese, con un sorrisetto insolito dipinto sul volto.
 
«… No, grazie.»
 
«Sapevo che lei ti sarebbe piaciuta. Quando sono passato di qui, l’altra sera, l’ho sentita cantare e sono rimasto colpito dalla sua voce melodiosa. Ho anche avuto la sensazione di conoscerla, chissà perché.» Gli fece un altro occhiolino, stavolta più vistoso, prima di terminare il suo drink e alzarsi in piedi, sbattendo le mani sul tavolo. «..Andiamo a prendere qualche stuzzichino, Mike!»
Levi poté giurare di averlo visto sorridere ancora, e a quel punto capì quanto quel vecchio sprovveduto avesse colto nel segno. Non c’era proprio niente che gli passasse inosservato.
 
«Vecchio marrano..» disse ad alta voce, lanciando un’occhiata al palco. Ma la ragazza era già sparita.
Se quello non era stato un segnale, cos’altro poteva essere? Aveva deciso di dimenticarla, di andare avanti, di concentrarsi sul suo lavoro e sui suoi affari solitari, eppure se l’era trovata davanti, senza averla cercata. Certo, Erwin aveva dato un piccolo aiutino, ma tecnicamente non era stato lui a volerlo. Poteva comunque contare come un segno del destino..?
Ma perché stava perdendo tempo appresso ad una ragazza di cui non sapeva niente?
Una voce interiore, gli suggerì che, fino a prova contraria, non avrebbe mai saputo niente, se non lo avesse chiesto direttamente a lei. Quella fu una motivazione sufficiente per alzarsi e cercarla, senza dare troppo nell’occhio.
Il primo posto in cui le venne in mente di cercarla, fu il bar all’entrata. Magari, dopo aver cantato, aveva avuto bisogno di idratarsi. Eppure, nessuna traccia.
Uscì fuori – andando incontro al gelo e al buttafuori che si lamentò del mancato pagamento; ci mise un po’ a spiegargli che era uscito solo per una boccata d’aria. In ogni caso, di lei, nessuna traccia.
Poi gli venne un’illuminazione: il bagno.
Stava sicuramente andando a cambiarsi. Non poteva di certo proiettarsi nel bagno delle donne, e soprattutto, con che scusa? Non sapeva nemmeno cosa dirle. Eppure sapeva che si fossero guardati più volte, ininterrottamente, fino alla fine della canzone. Sapeva che anche lei lo aveva riconosciuto. Ci avrebbe pensato dopo, a cosa dirle.
Proprio nel momento in cui ci stava rimuginando su, andò a sbattere contro una figura longilinea.
 
«Mi dispiace, stavo.. Mikasa
 
La ragazza dai capelli ora corti e corvini si massaggiò la spalla, un po’ sorpresa, stringendo con più forza una borsa nera piuttosto ingombrante. Era vestita in modo molto semplice, una camicia bianca, dei jeans attillati, converse nere. Che si fosse sbagliato?
Eppure lei c’era davvero lì, non poteva essere un caso.
 
«Ciao, uhm. Ti.. ricordi di me?»
 
«..E’ una specie di stalker o cosa?» se ne uscì la giovane, tentando invano di chiudere la borsa, strabordante di chissà cosa.
 
«Vedo che ti ricordi. Bella esibizione, comunque.»
 
«Non so di cosa stia parlando. Se vuole scusarmi, ho molta fretta, adesso.» Gli diede una spallata, e senza nemmeno guardarlo negli occhi, accelerò il passo, approfittando della confusione che stava iniziando a crearsi nei bagni. “Donne..”
Che non fosse davvero lei?
Il fato, o delle semplici coincidenze, vollero che per via della confusione, qualcuno la spingesse erroneamente, facendole cadere la borsa per terra, dalla quale fuori uscì una ciocca di capelli rossi e qualche scatoletta – dove forse vi era del trucco.
Senza fare troppo il presuntuoso o il sapientone, le si avvicinò con garbo, accovacciandosi per terra, in modo da aiutarla.
 
«Le cose sono due: o hai ammazzato un pappagallo rosso e lo hai infilato nella tua borsa per nasconderne le prove, o.. sul palco eri tu, poco fa.»
 
La ragazza rimase in silenzio, scostando una ciocca di capelli dietro l’orecchio, cercando in tutti i modi di non guardarlo negli occhi. Levi non aggiunse altro, piuttosto, la aiutò a sistemare il tutto e a chiuderle la borsa.
 
«…»
 
«Ci vuole forza. Bastava mettere le scarpe in modo orizzontale, temo che tu le abbia rimesse qui dentro con molta fretta. Sei stata davvero brava.» Che si stesse forse nascondendo?
 
«… Grazie. Senta, io devo davvero andare, non posso farmi vedere qui.»
 
Se solo avesse avuto la macchina, magari l’avrebbe portata via, in un posto più isolato, per parlarle con calma. Sembrava avere dei motivi validissimi per andare, e avrebbe voluto chiederle di restare. Cosa ci fosse di tanto forte da attirarlo a lei, non riusciva mai a spiegarselo.
Lei era sempre così sfuggente.. forse era per questo che provava con tutto se stesso a cercare di avvicinarsi a lei. Perché era diversa, particolare, e avrebbe avuto piacere a conoscerla.
 
«..Aspetta.» La prese per il polso, delicatamente. Non era la prima volta, che lo faceva. La ragazza non si stupì nemmeno; sul procinto di andare via, si girò lentamente, forse catturata da una mancata irruenza che invece si aspettava di ricevere. «Non voglio essere invadente. Non voglio neanche darti impressione di essere uno stalker o roba simile. In effetti, non so neanche io perché ci tengo così tanto, ma.. permettimi di offrirti da bere. Almeno questa volta
 
«E’ davvero gentile da parte sua, ma.. Non posso stare qui.»
 
«Allora andiamo da qualche altra parte, ti va di bere qualcosa di caldo?» Provò ad insistere, senza essere maleducato. Tentare non avrebbe fatto del male a nessuno.
 
«.. Non la conosco nemmeno.» Motivazione validissima, pensò Levi, tra sé e sé. In che modo toccare il cuore di una giovane? Sembrava davvero così innocente. Le ridiede la borsa, aiutandola ad alzarsi in piedi; non era una buona idea, restare nei pressi di un bagno, troppo viavai.
 
«Vero. Ma tecnicamente.. conosci anche l’indirizzo del mio ufficio. Potresti appiccare il fuoco e uccidermi.»
 
«Vero,» sorrise, e fu il primo sorriso che gli rivolse, da quando l’aveva conosciuta. Sembrava averla finalmente convinta, e sentì un peso in meno sul cuore. Era così bella, quando sorrideva. Non si preoccupò nemmeno di avvisare Erwin. D’altronde, se il suo migliore amico l’aveva portato lì con lo scopo di fargliela rivedere, non avrebbe avuto nulla da ridire. Mikasa alzò le spalle, il tono di voce un po' più basso. «C’è un bar qui vicino.. fanno pancakes e cioccolata calda fino a tardi..»
 
«Mi sembra un’ottima idea. Beviamo qualcosa di caldo, e mi racconti un po’ perché hai sempre tutta questa fretta. Che ne pensi?»
 
«Sì.. va bene, signor stalker. Ma.. sarà complicato da spiegare..»
 
«Non temere.» Sottolineò con fermezza, facendole cenno di cominciare ad incamminarsi, riprendendole la borsa dalle mani, per evitare che si “liberasse” almeno di quel peso.
«Ho una passione, per le cose complicate.»



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CI HO MESSO UN- pomeriggio intero, quindi sarà bene che la mia Nexys, alla quale dedico la fanfic, apprezzi o appicco il fuoco a me stessa(?) Scherzi a parte, grazie a tutti per le visualizzazioni e recensioni, saluto anche la cara Liz che mi segue, e vi avviso che nel prossimo, vedremo un po' più di contatto u.u A presto <3 *crepa*

 
 

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Capitolo 6
*** Capitolo 6 ***


Capitolo 6

 
«..Non fare complimenti.» Disse semplicemente, notando la titubanza della ragazza di fronte ad un piatto pieno di pancakes e salsa al cioccolato. «Sarai affamata. Da quanto non mangi?»
 
«Da questo pomeriggio», rispose Mikasa, un po’ sorpresa di trovare già qualcosa da mangiare sul tavolo. Si scostò la solita ciocca di capelli dietro le orecchie, prima di accomodarsi a sedere.
Era appena tornata dal bagno, probabilmente per struccarsi, a giudicare dal volto molto più puro; gli rivolse uno sguardo colmo di scuse, aggiungendo persino un’alzata di spalle, un po’ come volesse dire “Scusa, se mi sto praticamente mangiando l’intero tavolo con gli occhi”. Eppure, dal suo fisico perfetto non dava affatto l’idea di essere una grande amante del cibo. Era magra, ben proporzionata nei punti giusti; al di sopra dei vestiti era difficile dirlo con esattezza, ma sicuramente era una di quelle ragazze che teneva davvero tantissimo al proprio fisico. Un’altra cosa che Levi apprezzava tantissimo, era il fatto che non si truccasse affatto, ad eccezione di quella sera, probabilmente per lo spettacolo di cui lei stessa era stata – anche se per poco – protagonista.
La osservò mentre addentava la prima forchettata, e decise per rispetto di non puntarle gli occhi addosso; lui aveva preso una semplice cioccolata calda, giusto per riscaldarsi.
Odiava soffrire così tanto il freddo.
 
«Dunque.. lei è una specie di stalker?» Inaspettatamente, era stata lei ad iniziare la conversazione. Perché si ostinava a dargli del lei? Forse lo credeva tanto vecchio?
 
«Guarda che ho ventisette anni, non centottanta.»
 
«Mh.. la credevo più vecchio. Anche per via della sua statura.»
 
«…»
 
«Sto scherzando.» Prese un pezzo di pancake, ficcandoselo in bocca con tutta la galanteria a disposizione, che al momento sfortunatamente era minima. Doveva davvero essere affamata. «E’ una questione di semplice rispetto. E se qualche volta mi è scappato, darle del tu.. mi dispiace, non era mia intenzione.»
 
Levi rimase colpito da quelle parole. A giudicare dal modo in cui si fosse appena espressa, capì di quanto fosse una ragazza per bene, educata; anche se lo aveva già capito da tempo. Portare una valigetta e fare il giro della città solo per salvare uno sconosciuto non è da tutti.
 
«Mi chiamo Levi, ma questo lo sai già. Gradirei mi dessi del tu, mi farebbe sentire più giovane.»
 
«.. Se è quello che preferisce..» addentò un altro boccone, prima di guardarlo negli occhi, e farfugliare a bocca mezza piena. «..Preferisci» aggiunse, correggendosi in tempo dopo aver ricevuto un’occhiataccia glaciale.
 
Soddisfatto, l’uomo prese un sorso della sua cioccolata calda; il posto era molto caldo, accogliente, si capiva subito che l’ambiente fosse riscaldato, il che era oro colato per un tipo come lui.
Non c’era praticamente nessuno, a parte qualche coppietta e un gruppo di amici alle prese con chissà quale discorso turbolento. Sarebbe stato bello recarsi lì con qualcuno, magari sotto il periodo natalizio, peccato che fosse già passato.
Aveva scelto un posto lontano da tutto il resto, vicino alla vetrata esterna; non che ci fosse uno spettacolo esorbitante, a parte qualche ragazzo che passava di lì ogni tanto.
 
«Allora, mi racconti un po’ di te?» Del resto erano quelli, i piani.
 
Mikasa deglutì l’ennesimo boccone, dopodiché prese il tovagliolo e si pulì la bocca da eventuali residui.
«Cosa vuol- vuoi che ti dica? Sono una ragazza qualunque. Mi chiamo Mikasa, ho terminato gli studi un anno fa, ora lavoro al pub, in cui sembri andare spesso, per mantenermi. Il mio lavoro extra mi permette di guadagnare quei soldi in più che mi permettono di arrivare a fine mese.»
 
La ascoltò con attenzione, sorseggiando la sua cioccolata di tanto in tanto. Come sospettava, sembrava parecchio responsabile.
 
«Quanti anni hai?»
 
«Diciannove, il 10 Febbraio.»
 
«Oh. E’ la settimana prossima.»
 
«Sì.. non faccio il calcolo. Non mi importa molto festeggiare. Per me un giorno vale l’altro.»
 
In quell’attimo di pausa, metabolizzò tante cose:
per prima cosa, fu inspiegabilmente sollevato, dal fatto che lei fosse maggiorenne. Non che avesse in progetto chissà cosa, ma portare fuori una minorenne lo avrebbe fatto sentire davvero vecchio.
Inoltre, realizzò quanti demoni potessero nascondersi dietro l’apparenza; sembrava una ragazza qualunque, forse un po’ tra le nuvole, ma quegli occhi gli avevano sempre comunicato qualcosa di strano, ed ebbe la sensazione di essere comunque molto vicino a scoprirlo.
Come ultima cosa, scoprì un loro punto in comune: anche lui trattava con indifferenza il giorno del suo compleanno, era un giorno come tutti gli altri, senza contare che, ricordarsi di invecchiare, non gli faceva bene.
 
«Capisco. Sei come me, anche io non amo molto il giorno del mio compleanno. Eppure tu sei molto giovane, potresti fare qualcosa.»
 
«Mi basterebbe un giorno di ferie pagate.»
 
«Ottima risposta.»
 
La giovane abbozzò un mezzo sorriso, per poi sparire con la faccia sul piatto e divorare i restanti pancakes. Una volta finiti, prese un sorso della sua cioccolata – non si era accorta che ce ne fosse una anche per lei – e la sorseggiò lentamente. Era squisita.
 
«..Vivo a casa con mio fratello, i miei sono venuti a mancare quando avevo dodici anni, per un incidente d’auto.» Iniziò a parlare, senza che lui le avesse chiesto nulla. Le venne spontaneo, tra un boccone e l’altro. Lo sguardo interessato dell’uomo la spinse a continuare. Ripose le posate sul piatto, quindi riprese a parlare, giocherellando con l’estremità della forchetta. «Da allora, ho sempre cercato di darmi da fare, e già a tredici anni ho iniziato a lavorare per pagarmi la scuola, per me lo studio è sempre stato importante. Mi sarebbe piaciuto frequentare un college, ma.. non ha nulla a che vedere con la scuola, è molto più costoso. Perciò preferisco lavorare per pagarmi le bollette. Anche mio fratello fa qualche lavoretto qua e là, ma.. in due è meglio.» Prese un attimo di pausa, come per trovare le parole giuste, poi proseguì. «..Il proprietario del pub in cui lavoro, è il padre del mio attuale.. ragazzo, ed è grazie a lui se ho quel lavoro, gli devo molto. Per quel che riguarda il secondo “lavoro”, lo faccio solo una volta a settimana, pagano bene e a me piace cantare.» Durante tutto il discorso, giocherellò un po’ con le posate, un po’ con il manico della tazza, infine prese qualche sorso di quella cioccolata ormai tiepida; nemmeno per un secondo, lo aveva guardato negli occhi.
 
Lui sì, e parecchio.
 
In un primo momento, pensò che loro due avessero più cose in comune di quel che si aspettasse. In seguito, sentì una sottospecie di vuoto, al pensiero di una povera bambina di dodici anni che si era vista privata della sua famiglia in un colpo solo, costretta a mettersi in marcia per mantenere lei e il fratello.
Sapeva che era in gamba, lo aveva sempre sospettato.
Tutti i dubbi, stavano pian piano trovando risposte. Allora il ragazzo con cui l’aveva vista litigare era il figlio del proprietario del pub? Fare supposizioni non sarebbe mai stata una saggia scelta, anche perché non era nessuno per poterselo permettere, né per infierire. Tuttavia, ancora una cosa non riusciva a comprendere.
 
«Sin dal primo momento in cui ti ho visto, ho avuto il sospetto che tu fossi.. diversa. Adesso mi spiego il perché. Non deve essere stato facile.»
 
«Non importa, è passato. Sono dell’opinione che niente è facile, ma se lo fosse non ci sarebbe gusto.» Alzò le spalle, finendo la cioccolata.
 
«Vero anche questo.» Colpito, ancora una volta, finì anche lui la sua cioccolata. «C’è una cosa che non mi torna.. perché nasconderti da questo secondo lavoro? Non è mica una vergogna cantare in pubblico.»
 
«..No. Non lo è. E’ che.. Jean – il mio ragazzo – è molto.. possessivo. Come posso metterla.. è un ragazzo.. “potente”.»
 
«Il solito figlio di papà.»
 
«…»
 
«Si vede dalla faccia.»
 
«..Ad ogni modo», proseguì, facendo finta di niente, «lui cerca di tenermi sott’occhio, e io mi sento come.. imprigionata. Gli devo tantissimo, è solo che.. certe volte mi sento oppressa, come se dipendessi da lui.»
 
«Ti senti chiusa in un vicolo cieco? Legata a lui in quanto pensi che il tuo lavoro dipenda dalla vostra relazione?» Si stupì persino di come quelle domande gli fossero venute spontanee, sembrava che le stesse facendo il terzo grado, e in ogni caso non voleva spaventarla. Si schiarì la voce e fece per bere un sorso di cioccolata, ricordandosi solo dopo qualche secondo di averla finita. Fece finta di nulla e bevve questo sorso immaginario.
 
«.. In un certo senso. Gli voglio molto bene, ma temo di aver preso determinate decisioni solo per salvarmi il cu-sedere. Mi ha offerto un lavoro e un riparo quando persino i miei parenti restanti sono spariti dalla circolazione. E adesso mi sento parecchio legata a lui. Dirgli che ho un altro lavoro, sarebbe come fargli un torto, e non mi va.»
 
Non seppe se rimanere colpito dalla sua quasi-parolaccia o dal grado di preoccupazione che la affliggeva.
 
«Non stai abbandonando il tuo lavoro principale, ne hai un altro, che c’è di male?»
 
«.. Non conosci Jean. Lui è un ragazzo molto potente, e se gli dicessi di quest’altro lavoro, probabilmente mi direbbe qualcosa del tipo “Hai bisogno di soldi in più? Te li do io!” O qualcosa del genere.. ma con questo lavoro, è diverso.» Si morse il labbro inferiore, le mani ben serrata attorno alla tazza ancora tiepida.
«Questa è la prima volta in cui mi sento veramente libera.»
 
L’uomo la guardò a lungo, pensando ad un mucchio di cose.
La capiva, pur non avendo mai vissuto nulla di simile, la capiva bene. Perché lei si era appena aperta, e la verità è che non se lo aspettava affatto. Doveva essere frustrante, avere un ragazzo così oppressivo e “potente”, e l’idea di chiederle “Perché non lo lasci?” non gli passò nemmeno per l’anticamera del cervello. Non avrebbe concluso nulla, e a quanto pare il movente era legato al lavoro e al suo guadagno.
Se una gran parte di lui la ammirava, quella restante si chiedeva come mai, una donna così forte, non avesse il coraggio di mandare quel ragazzo al diavolo.
 
«Detto così sembra che lui ti abbia in pugno. Come immagini la tua vita? Vuoi che sia per sempre così? Credi che semmai tu dovessi scegliere di allontanarti da lui.. sarebbe così stronzo da farti licenziare?»
 
«Non credo, onestamente. E’ un ragazzo buono, alla fine.. sono io, a non volergli fare un torto.»
 
«Continuo a non capirti.»
 
«Non c’è niente da capire. Le cose stanno così.»
 
«Almeno.. lo ami?»
 
Mikasa lasciò andare di colpo la tazza, rovesciandola sul tavolo. Fortuna che ormai fosse vuota. Non si aspettava una domanda così schietta da quello che in fin dei conti restava uno sconosciuto, ma la verità è che, al di fuori di suo fratello, non aveva mai provato un sentimento a cui potesse attribuire il significato di amore. Voleva bene a Jean, ma no, non lo amava. Amava la vita, suo fratello Eren, amava anche i fiori e la cioccolata calda. Ma non amava quel ragazzo nel modo in cui ci si aspetta di amare un fidanzato. Era più diventata una sorta di abitudine.
 
«Non sono tenuta a dare spiegazioni.»
 
«No, non lo sei.» Doveva aspettarsi una reazione simile. Forse si era spinto troppo oltre. C’era qualcosa che lo spingeva a volerla conoscere sempre più, e ancora non riusciva a capacitarsene, non aveva mai avuto un interesse così ovvio e spiccato per qualcuno.
Adesso, Mikasa guardò altrove, un po’ turbata. Lui era sempre molto pacato, quando rispondeva. Per un momento pensò persino di essere stata troppo irruente.
Cercò di riparare, a modo suo.
«Ti chiedo scusa. Non avrei dovuto farmi i fatti tuoi.»
 
«Non c’è problema. Ma vorrei rendere le cose eque. Io non so ancora niente di te. Perché non mi parli un po’ di quel che—Levi, non spaventarti, ma due tipi loschi sono appicciati al vetro della finestra e ti stanno fissando.»
 
Levi non si girò nemmeno. Era già pronto a raccontarle qualcosa di sé, finché l’aveva udita interrompere la sua giustissima richiesta. Sospirò, picchiettando il tavolo con l’indice, impaziente.
 
«Fammi indovinare. Uno di loro ha il monociglio e l’altro ha la faccia di cazzo.»
 
«… Non posso affermare con certezza nessuna delle due cose, il vetro è un tantino appannato.»
 
«Puoi aspettarmi un secondo?» Si alzò in piedi, sistemandosi il colletto della camicia; prese al volo il cappotto e se lo infilò sbottando.
 
«Sì, certo.» Incuriosita, rimase a sedere composta, lanciando un’occhiata un po’ sbigottita ai due tipi.
 
Uscito dall’atrio del bar, si diresse a passo spedito verso i due uomini, sicuro di non sbagliarsi affatto.
 
«Adesso. Le opzioni sono due. O restiamo qui e ridiamo per tutto il tempo, fingendo di essere amici di vecchia data che si sono incontrati casualmente dopo una ventina d’anni, oppure sviamo in un vicolo cieco e vi spacco la faccia a ripetizione.»
 
«Levi, per l’amor del cielo! Eri sparito! Hai idea di quanto ti abbiamo cercato io ed Erw?» Mike gli rivolse uno sguardo preoccupato, ma non appena si ricordò delle due opzioni di Levi, iniziò a ridere a crepapelle, fingendo persino un mancamento per il troppo divertimento. «AHAH LEVI, MI FAI MORIRE!»
 
«… Testa di cazzo, guarda che i vetri sono spessi quanto la muraglia cinese. E non c’è bisogno che fai così, riprenditi.» Prese un enorme sospiro, infilando le mani in tasca. Stavolta, si rivolse direttamente ad Erwin. «Tu non dici niente?»
 
«Ho provato a dirgli che avevi i tuoi affari da sbrigare, ma mi ha praticamente trascinato fuori dal locale! Beh, ammetto che.. non appena ti ho visto in compagnia di quella SPLENDIDA fanciulla-» e qui rivolse attraverso il vetro un sorriso smagliante alla giovane, urlando a squarciagola la parola “splendida” «non ho potuto far a meno di dare un’occhiata. Vi state divertendo?»
 
«Gesù Cristo, ma volete capirlo o no, che non vi sente!? Che cazzo urlate!?» sbottò, voltandosi verso la ragazza, facendole un cenno cortese. Tornò a voltarsi verso i due presunti amici, fulminandoli con un’occhiata delle sue. «Adesso che sapete dove sono e come sto, che ne pensate di farvi i fattacci vostri e tornare al loca- Mike?» lo rimbeccò, vedendolo intento a fissare la ragazza oltre il vetro.
 
«Però, è proprio carina! Ma dove l’hai pescata?»
 
«Dall’oceano. Ehi, che ne dici se ci torniamo, ti ci lancio, e provi a vedere se ne trovi qualcuna anche per te?»
 
«Levi..» Erwin lo ammonì con un’occhiataccia.
 
«Cosa.»
 
«Nulla, nulla. Eravamo solo preoccupati, non credevo ti saresti allontanato dal locale. Poi, ti ricordo che in ogni caso sono io che guido, stasera. Quindi.. a casa dovrai pur tornarci.»
 
Merda. Quello non lo aveva considerato. Aveva persino pensato di accompagnare Mikasa, in un’eventualità remota in cui lei avesse acconsentito di essere lasciata a casa.
 
«.. Non ci avevo pensato.»
 
«Levi-»
 
«No, è tutto a posto, adesso vedrò di trovare una soluzione.»
 
«No, Levi, è che-»
 
«Eh? Va tutto bene, devo solo pensare.»
 
«Levi?» una voce femminile da dietro le spalle interruppe i suoi pensieri. Mikasa, avvolta nel suo cappottino nero e con un delizioso berretto rosso in testa, abbinato alla sciarpa dello stesso colore, fece capolino all’improvviso, confondendolo per un minuto buono.
 
«Che ci fai.. ehi, torna dentro, stai al caldo, arrivo subito.»
 
Mike ed Erwin stettero in assoluto silenzio, gustandosi la scena come due fan sfegatati. Con dei pop corn in mano sarebbero stati perfetti.
 
«No, no, non importa. Ero venuta a dirti che devo comunque andare. Domani mattina ho parecchie commissioni da sbrigare. Comunque ti lascio in compagnia, buona…serata e grazie per tutto» concluse la frase, rivolgendo un cenno molto educato ai due uomini, i quali ricambiarono con un sorriso a trentadue denti. Prima che potesse scappare via, Levi la afferrò per il polso, cercando di non essere troppo teatrale.
 
«Aspetta.» Ci mise pochissimo tempo a giungere ad una conclusione affrettata, e non gli piacque molto. «.. non avrai mica pagato tu?»
 
Mikasa roteò gli occhi un volta sola, assumendo un’espressione indecifrabile. Dopodiché gli sorrise, divertita, stringendo piano le dita attorno la Sua mano, come ad intimargli di stare tranquillo, e di lasciarla andare.
 
«Non sia sciocco. Ovvio che no. Ho già detto alla cameriera che ci avrebbe pensato “il tappetto lì fuori” a pagare tutto.»
 
«Mossa molto saggia.» Ammise di essere rimasto colpito, e in tutto quel frangente di tempo, dimenticò persino che Erwin e Mike fossero ad un passo da loro, ad osservarli e ascoltarli. La accompagnò pochi metri più avanti, in modo che solo lei potesse sentirlo. «Possiamo accompagnarti a casa.» A dire il vero, non gli andava molto che lei tornasse a casa da sola, a quell’ora della notte; eppure avrebbe capito, se lei si fosse rifiutata. Entrare in una macchina con tre sconosciuti, non sarebbe stato da lei.
E infatti, come ci si aspettava, lei rifiutò.
 
«L’ho già fatto molte volte, con i mezzi pubblici. Non abito molto lontano, e mi creda, se le dico che in ogni caso, so come difendermi
 
Non seppe cosa intendesse, con quella frase, che fosse una ragazza esperta di arti marziali? Ma ciò in cui si focalizzò fu il modo in cui gli si rivolse.
 
«..Un giorno ti verrà spontaneo, darmi del tu.»
 
«Sì. Un giorno. Questo lascia presumere che vuoi vedermi ancora?»
 
Quella domanda lo spiazzò per un attimo. Per quanto, inutile nasconderlo, avesse davvero voglia di vederla, non si aspettava di essere posto dinnanzi a quella schiettezza, tipica forse, di chi avesse diciannove anni e poco meno. Com’era lui, otto anni fa? Lei era tutta da scoprire; a tratti misteriosa, a tratti aperta come un libro. L’aveva vista sincera, quella sera, ad un passo dal sapere quello che la riguardasse appieno; quegli occhi solitamente spenti, si erano illuminati per una semplice pila di pancakes. Quanto ancora non sapeva di lei? E’ vero, avrebbe voluto rivederla, se a lei fosse andato bene, e nulla gli avrebbe impedito di fermarsi.
 
«Mi piacerebbe, non lo nego. E poi.. devo ancora parlarti di me.»
 
«Mh, è vero.. io non so praticamente niente di lei.»
 
«…»
 
«.. di te
 
La guardò negli occhi il tempo necessario per infonderle quella rassicurazione che solitamente si cerca negli sconosciuti. Gli occhi color ghiaccio solitamente non trasmettono troppa serenità, ma lui sperò nel profondo del cuore, che lei potesse vedere al di sotto.
 
E lo fece, a giudicare dalla sua espressione convinta, la punta del naso arrossata – sicuramente per il freddo.
 
«Il giorno del tuo compleanno. Potremmo pranzare insieme.»
 
Le ci volle un attimo per riprendersi. Nessuno le aveva mai chiesto di pranzare insieme. Era un appuntamento? Perché quell’uomo aveva tanto interesse nei suoi confronti?
 
«Sei un maniaco.»
 
«Forse.»
 
«Accetto molto volentieri.»
 
«Bene.» Ammise di essere rimasto molto colpito. Non credeva che avrebbe accettato subito, però fu parecchio felice di sentirla acconsentire. «Puoi darmi un recapito? Indirizzo? Numero di telefono?»
 
«Ah- uhm, o-ok, le do il mio numero di telefono. In ogni caso, preferirei passare io dal suo ufficio, che ne pensa? Mi faccio trovare lì e andiamo.» Disse con fermezza, estraendo un foglietto di carta e una penna dalla sua borsa. Cos’altro aveva lì dentro? Non si sarebbe stupito affatto, se ci avesse uscito pure una casa a quattro piani.
Qualcosa nel suo tono di voce, sembrò improvvisamente schivo, ma Levi non le chiese altre spiegazioni, si limitò ad annuire, rinunciando a priori nel proporle un “passaggio”, e prese il fogliettino di carta piegato, conservandolo direttamente nella tasca del cappotto.
 
«Va bene. Buona serata allora, e sta’ attenta.»
 
«Sì. Buona serata anche a.. voi.»
 
Non si allontanò subito. Mimò qualcosa a bassa voce, Levi ebbe l’impressione che si fosse trattato di un “Grazie”, ma non ne fu sicuro. La lasciò andare, le staccò gli occhi di dosso solo quando, giustamente, voltò l’angolo e sparì dalla sua visuale. Non si premurò nemmeno di voltarsi verso quei due, chissà cosa stavano dicendo alle sue spalle.
La prima cose che fece, fu entrare in quel bar e rivolgersi alla cassiera, e per poco le venne voglia di inseguire Mikasa e picchiarla, nello scoprire che il conto era già stato pagato.
 
Uscì come dal bar come una furia, tanto che per poco ad Erwin non prese un colpo.
 
«Tutto bene? E’ carina, comunque! Quanti anni ha?»
 
«Già, quanti anni ha?» Incalzò Mike, con la sua solita faccia da perso nella nebbia.
 
«Non credo siano affari vostri.» E con “vostri” era chiaro si riferisse solo a Mike; sperava che Erwin in qualche modo fosse in grado di capirlo, e vista la loro complicità, sperò che lo facesse anche piuttosto in fretta.
 
«Va bene, giovani, che ne dite di tornare a casa? Si è fatto tardi!» Erwin tagliò la discussione, battendo le mani; forse, proprio perché aveva afferrato il concetto. Levi era sicuro che di lì a quella notte, avrebbe ricevuto un suo messaggio, ma in ogni caso ne avrebbero parlato in ufficio.
 
Chiudendo lì la discussione, si diressero in macchina, posteggiata non troppo lontano dalla loro attuale posizione. Erwin cercò in tutti i modi di evitare le imprecazioni di Levi, del tipo “Ma dove l’hai messa la macchina!? Facevo prima a tornare a casa a piedi” o “Sto arrivando al Polo Nord, ho scambiato Mike per l’uomo delle nevi” e con tutta la calma del mondo, accompagnò a casa prima Mike – il quale salutò calorosamente entrambi, per sfortuna di Levi – e poi il migliore amico.
 
«Dunque?» Erwin spense il motore, il parcheggio impeccabile.
 
«Dunque cosa? Dovrei essere io a chiedere “dunque” a te.»
 
«Ahah! E’ vero!» La risata sonora di Erwin era inconfondibile. «Che posso dirti, Levi. Ho visto come la guardavi al pub. Una sera, sono uscito, per mera coincidenza mi sono ritrovato in quel locale e l’ho riconosciuta subito. Perciò ho pensato sarebbe stato carino fartela ritrovare, visti i tuoi sguardi persi l’ultima volta che abbiamo ordinato dei panini. Devo dirti che non aveva una parrucca, però, perché ero così ubriaco che se avesse indossato quell’ammasso di peli rossi, l’avrei scambiata per un peperoncino formato gigante, ahah! Insomma, l’ho riconosciuta perché era senza, capisci? Ahah!»
 
«Gesù Cristo.»
 
«Sì, comunque», si tolse i guanti, sgranchendosi le mani «è davvero bella, e ha una voce molto melodiosa. E’ riuscita persino a coprire i conati di Mike, quella volta.»
 
«… Io non la guardo in nessun modo. E’ ancora quella storia, Erwin? Stai cercando di farmi mettere su famiglia? So badare a me stesso, e poi non mi piace.»
 
«A te fanno schifo i panini in genere. Specialmente quelli con la zucchina. E tu vuoi mangiare sempre in quel posto, ultimamente. Quando l’altra volta non l’hai vista, ne hai ordinati due per disperazione, aspettando che lei spuntasse. Andiamo, Levi, siamo migliori amici da un sacco di anni, sai che non mi sfugge niente!»
 
Era vero, erano migliori amici da un sacco di tempo, e non c’era nulla che ad Erwin passasse inosservato.
 
«… Apprezzo le intenzioni. So che non lo fai per male. E ti ringrazio.»
 
«Di nulla.»
 
«E non ti ho ancora perdonato per aver portato quella quaglia di Mike con noi.»
 
«E’ un amico a cui tengo molto, e.. sì, beh, so che non ti va molto a genio, ma mi piacerebbe che provaste ad andar d’accordo. Puoi provare a farlo per me?»
 
«.. No.»
 
«…»
 
«…»
 
«… La prossima cena la offro io.»
 
«Dici sempre così, vigliacco.»
 
«Tornando seri.. quanti anni ha, la fanciulla?»
 
«Diciannove la prossima settimana.»
 
«.. Diciannove?»
 
«Sì. Che c’è, hai cambiato idea, adesso? Non ci devo mettere su famiglia, siamo sempre lì.»
 
«No, no! E’ vero, per divertirsi va più che bene!»
 
«Neanche. Non sono quel tipo.»
 
«Hai almeno concluso qualcosa..?»
 
«Che cazzo stai dicendo?»
 
«Insomma, vi siete..?»
 
«Mio Dio. Sì, Erwin, abbiamo passato una notte di fuoco intensa, stuprandoci a vicenda nel bagno di quel bar, con i pancakes spalmati addosso.»
 
«E’ pur sempre un’ottima fantasia. Si vede che sei in astinenza.»
 
«Fottiti con uno scopino sturacessi.»
 
«…»
 
«..Ho il suo numero, comunque.»
 
«Ah, almeno è una buona notizia!»
 
Levi spiegò il fogliettino, estraendolo dalla tasca del cappotto. Per poco non bestemmiò in otto lingue diverse, nel leggerne il contenuto. L’espressione divenne così tetra e spettrale che Erwin si preoccupò seriamente stesse avendo un mancamento. Alla fine, ebbe la curiosità dirompente di affacciarsi e leggere assieme a lui; per poco non si strozzò dalle risate.
 
Levi ripiegò il foglio con un’espressione mista tra l’ira e la delusione; slacciò la cintura e scese dalla macchina, lasciando un Erwin alle prese con un attacco isterico di risa sonore.
 
“Quella ragazza…” pensò tra sé e sé, una volta messo piede all’interno del suo appartamento.
Posò il bigliettino sul mobile del salottino, più lo osservava, più avrebbe avuto voglia di incendiarlo con un solo sguardo.
 
Gli diede un’ultima occhiata, prima di slacciarsi la cintura e dirigersi verso il bagno, dove una doccia bollente lo avrebbe atteso, sciacquando via i pensieri di una serata fin troppo lunga.
 
 
 
 
 
“Non sono un numero di telefono.
Ah, non se la prenda per il conto. Lei mi offrirà il pranzo.”
 
- Mikasa
 
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Dedico questo capitolo alla mia Nexys, sperando che sia alla sua altezza <3
Ah, prometto che la prossima volta, ci sarà qualcosa di PORN PORN.
CIAO.

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