Mi accontento di vivere la realtà...

di Shetani Bonaparte
(/viewuser.php?uid=590917)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Introduzione ***
Capitolo 2: *** Capitolo I° ***
Capitolo 3: *** Capitolo II° ***
Capitolo 4: *** Capitolo III° ***



Capitolo 1
*** Introduzione ***


Salve ^///^
Posto ora il continuo di ‘Mi accontento di sognare…’. Avrei voluto aspettare, ma già due di voi mi avete confermato che potevo continuare e se avessi aspettato avrei di nuovo cambiato idea.
Non è personale quanto quell’altro, ‘sto racconto, ma vien dal cuore.
Ahimè, però, ho ancora 17 anni… XD
Un bacione,
Shetani
 
 
 
 
 
 
 
 
Mi accontento di vivere la realtà…
 
 
 
Introduzione
 
Realtà. Il sogno di un filosofo impazzito.
[Ambrose Bierce – ‘Dizionario del diavolo’]
 
Shetani si era lasciata tutto alle spalle.
Tutto ciò che le facesse male, anche i ricordi.
Aveva vent’anni, ormai, e il giorno dopo ne avrebbe compiuti ventuno; aveva acquistato la casa dei vicini e quindi viveva accanto ai genitori e alla sorella Shainy, con la propria famiglia ora aveva un buon rapporto, era diventata una ragazza aperta, era cambiata.
Stava bene.
Ma erano frottole, per la maggior parte: lavorava al bar della madre, non essendo riuscita a diventare neanche l’ombra di una fumettista, conosceva molta gente ma aveva pochi amici, gli stessi di quando aveva diciassette anni.
Si era lasciata tutto alle spalle, dicevo, tutto ciò che le faceva male.
Era ancora nerd, questo sì, però erano anni che non guardava una puntata si Star Trek, che evitava di comprarsi dei fumetti e che usava il computer occasionalmente.
Semplicemente, non ne sentiva più il bisogno.
O forse stava solo cercando di cambiare, di essere ciò che gli altri volevano che fosse, di essere perfetta, nonostante questa perfezione non la soddisfacesse come avrebbe dovuto.
Sua sorella aveva insistito perché restasse a dormire nella casa dei genitori, nella propria vecchia stanza, per qualche giorno, perché, nonostante la vicinanza, tra una commissione e l’altra, tra il lavoro e il secondo lavoro, tra gli studi supplementari che si impegnava a seguire, non si vedevano poi molto.
Lei aveva accettato di buon grado, tanto non aveva una fidanzata ad aspettarla a casa – non l’aveva mai avuta, a dir la verità – e ora si ritrovava, alle sei del mattino, nella stanza dove aveva vissuto fino ai diciott’anni e che era come l’aveva lasciata: con la scrivania colma di fumetti imbustati, qualche vecchio giocattolo e di libri.
Aprì l’armadio, cercando, tra le cianfrusaglie, gli abiti che vi aveva messo la sera prima per non dover andare a casa propria a vestirsi – ah, la pigrizia... o la praticità, una delle due…
Tastò un tessuto che, dannazione, avrebbe riconosciuto ovunque. Tirò fuori, infatti, l’appendiabiti con una divisa da Capitano della Flotta Stellare.
Non ricordava chi gliel’avesse veramente regalata perché quello che aveva vissuto durante il coma lo aveva da tempo etichettato come ‘sogno lucido’ ed il fatto che il sogno terminasse con Kirk ed equipaggio che le regalavano un pacco color ocra e al risveglio avesse trovato quella divisa in un pacco identico, lo considerava una casualità.
Con il magone, sfiorò i gradi da Capitano.
Chissà se mi sta bene, pensò, dubitandone – era molto dimagrita, in quegli anni, ed era un po’ più alta, quasi più femminile, sebbene indossasse indumenti maschili.
‘Saremo amici per sempre’
‘Non dimenticarti di noi, cara’
‘La realtà prima o poi va affrontata’
Si riscosse dai ricordi e mise la divisa dove l’aveva trovata, riuscendo poi a trovare i propri abiti. Indossò i pantaloncini beige maschili e la camicia nera a maniche lunghe. Per finire delle comode scarpe da ginnastica.
Poteva pensarne tutto il male che voleva, di quel ‘ridicolo costume da ossessionati’, come l’avrebbe descritta sua padre, poteva dirsi che Star Trek non era più importante, che era cresciuta, che era maturata, ma la realtà dei fatti è che non era stata in grado di privarsene del tutto, quella volta che l’aveva messa in uno scatolone assieme ad altre cianfrusaglie trovate in soffitta e l’aveva portata in una fumetteria che vendeva anche oggetti da collezione, non era riuscita a venderla, nonostante quel nerd del commesso l’avesse etichettata come ‘oggetto di scena originale’ e le avesse offerto una prelibata sommetta.
Non c’era riuscita, perché, in un certo senso, era parte di lei.
Poco dopo, assieme alla madre, diede inizio alla giornata lavorativa aprendo i cancelli del Bar Scarabocchio. Ma era distratta, rivedere quell’indumento dopo tutto quel tempo l’aveva lasciata pensosa, quasi malinconica.
Semplicemente, si era lasciata trascinare dai ricordi di un bellissimo sogno.
Riuscirò ad accontentarmi della realtà anche oggi?, si chiese, preparando un bel calice di vino bianco.
Probabilmente no.
 
“Mamma, oggi vengono qui dei miei amici, ti va se restiamo in bar anche se è chiuso?”
“Va bene, She’. Chi sono?”
“Primo: non storpiare il mio nome. Secondo: non ne ho idea, ho trovato un messaggio sul cellulare. Probabilmente Matthew ha cambiato numero, ultimamente il suo cellulare non andava bene. E poi, c’era anche il mio nome…”
“Va bene”
La donna dal bel viso giovanile e i lunghi capelli biondi sorrise alla figlia.
“Mamma, va’ a riposare, mancano solo venti minuti alla chiusura pomeridiana, posso cavarmela” disse la ragazza dai corti capelli castani, addentando una mela rossa come il sangue.
“Grazie!”
Pamela, ossia la madre della ragazza, sparì nel breve corridoio che collegava il piccolo ma popolare Bar Scarabocchio alla propria casa e Shetani guardò il locale al momento occupato solo da un vecchietto che, conoscendolo, di lì a poco sarebbe tornato a casa.
Dopo dieci minuti, come previsto, il vecchietto pagò, si salutarono cordialmente e sloggiò.
Shetani, per ben passare gli ultimi dieci minuti di quello che aveva battezzato ‘turno alfa’, aprì il Giornale di Vicenza e lesse un articolo su un esopianeta. l’ultimo che era stato rintracciato era stato scovato il ventidue maggio del 2014 e fu chiamato GU Psc b.
Sentì un rumore strano, ma lo ignorò, ignorò anche quel ‘sarà complicato farti passare per cinese, questa volta!’, detto probabilmente da un ubriaco – erano soliti bazzicare da quelle parti, gli ubriachi, proprio poco prima l’orario di chiusura, cosa che faceva esasperare Shetani.
“Ciao” disse una voce che non si diede la pena di cercar d’identificare.
“Dica pure, signore” disse lei, chiudendo il giornale.
“Un bicchiere di Bourbon, per favore” disse l’uomo poggiando un fumetto di Deadpool sul balcone del locale.
Shetani sollevò gli occhi, incontrandone un paio più azzurri dei suoi.
La mela che stava mangiando le cadde di mano.

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Capitolo I° ***


Capitolo I°
 
Andavo di fantasia, e di ricordi, è quello che ti rimane da fare, alle volte, per salvarti, non c’è più nient’altro. Un trucco da poveri, ma funziona sempre.
 [Alessandro Baricco]
 
Spiazzata, non si diede nemmeno la pena di raccogliere la mela da terra.
Facendo il giro del banco, si avvicinò all’uomo dagli occhi azzurri come il cielo e lo guardò, ancora scioccata appuntò lo sguardo sugli uomini così dannatamente uguali ai giovani Leonard Nimoy e William Shatner.
Aveva cercato, per tutto quel tempo, di scordare quel ‘sogno lucido’ per evitare di sentire la mancanza di quei personaggi, di essere una ragazza come le altre, eppure ora si ritrovava ad eseguire il saluto vulcaniano, ricordando pure che, in alcuni romanzi non-canon, si chiamasse Ta’al. Ora che finalmente aveva una vita sociale degna di questo nome, ora che finalmente non si dava della sfigata… ora tutte le menzogne che si era rifilata per essere come appariva agli altri cadevano, si sbriciolavano come un castello di sabbia.
Jim indossava dei scarponi, jeans, una canottiera nera con una camicia rossa a quadri aperta; Spock vestiva con una camicia bianca a maniche lunghe, dei pantaloni beige e scarpe nere e McCoy, invece, una t-shirt azzurra, dei jeans chiari e scarpe da ginnastica.
Se non fosse stato per il cappello, le orecchie di Spock avrebbero attirato fin troppa attenzione.
Dannazione… erano loro, di quattro anni più vecchi e con vestiti diversi ma erano loro… erano lì, dinnanzi a lei, in carne ed ossa, a dimostrarle una verità che aveva voluto seppellire in fondo al cuore, per quanto fosse bella.
Silenziosa, Shetani chiuse le porte del bar per il turno di chiusura e, sempre senza proferir verbo, si avviccinò ai tre.
Non ci rifletté molto, semplicemente, ad occhi chiusi, abbracciò il primo che riuscì ad afferrare – e gli altri due lo capirono, che era un caso, infatti non si crucciarono.
“Non comprendo il bisogno di voi umani di dimostrare così esplicitamente l’affetto tramite il contatto fisico” affermò un imbarazzato Spock, “Sono comunque lieto di rivederla, Shetani”
La oramai giovane donna mollò la presa sul vulcaniano, rossa in viso.
“Scusi… è… è che…” balbettò.
“Lascia perdere il goblin e vieni qui! Mio dio, guarda quanto sei cresciuta!” esultò Bones, stritolandola in un caloroso abbraccio.
Le sue sinapsi erano in una tale euforia… in una tale… confusione… che i suoi pensieri erano un’entropica massa, un mucchio di fili dal quale era impossibile districarne uno coerente.
Salutò calorosamente anche Jim, poi sembrò farsi indifferente.
“Che ci fate qui?”
“Beh… domani è il tuo compleanno, e volevamo vederti. Gli altri non son potuti venire ma ti salutano. Pavel ti manda un abbraccio” disse Leonard, entusiasta.
“È rischioso”
“L’ho precisato anche io. Ma l’Ammiraglio Kirk ha insistito” affermò Spock.
“Venite in casa mia. Lì nessuno ci vedrà”
Senza ulteriori cerimonie, la oramai ventunenne li scortò nella propria abitazione.
Era taciturna, il suo corpo rigido e dai movimenti scattosi tradiva il nervosismo e l’ansia che conteneva. I suoi occhi evitavano in maniera più che esplicita di incrociare quelli degli ospiti.
Non andava bene. Non andava affatto bene, dannazione.
A cosa le era servito meditare per tutti quegli anni se ora non riusciva nemmeno a darsi una parvenza di tranquillità?
Perché quegli amici che l’avevano fatta stare così bene, quattro anni prima, ora la innervosivano tanto? Perché la loro presenza la infastidiva, la opprimeva?
Voglio solo sembrare normale, solo quello, non voglio altro, pensava ossessivamente, come un mantra. Non voglio tornare dalla psicologa… non voglio considerarli degli amici veri, non voglio.
E invece eccola lì, a farli entrare in casa sua, nella sua piccola, bianca, normale casa, dove ogni cosa era pura realtà, dove non si parlava di personaggi di fantasia, dove… dove… dove poteva fingersi come gli altri e fingere bene, come un’attrice professionista.
“Quanto resterete?”
“Qualche giorno” le rispose Jim.
“Dove alloggerete?”
“Nell’hotel qua vicino”
Lei sospirò.
Una parte di lei desiderava lasciarli alloggiare là, usare la scusa del lavoro o delle commissioni… o di un esame imminente per star lontana da loro, per evitare alla propria mente sconvolta di tormentarsi ancora con la loro vista.
Ma, che diamine… erano arrivati fino a lì per lei… erano stati importanti. Erano importanti, ancora, nonostante tutto, sempre e comunque, per quanto tentasse di negarlo, per quanto se ne fosse convinta, con l’aiuto della psicologa.
Erano… erano semplicemente loro.
Guardò per un istante le tre valigie che si erano portati dietro e…
“Ma quale hotel! Restate qui!”
…e si odiò con tutta se stessa.
“Non vorremmo disturbare”
“Non ci pensare nemmeno, Lenny!”
Così, in quattro e in quattr’otto, decisero chi dormiva con chi: James e Spock avrebbero dormito nell’enorme letto di Shetani e lei e il buon dottore si sarebbero accomodati nel divano-letto ubicato nel piccolo salottino.
Poi Shetani dovette andar via. Un’emergenza, un impegno importantissimo, aveva detto.
Così aveva dato loro libero accesso alla casa tutta, era salita in macchina in fretta e furia e, facendo aprire il portone automatico, uscì in tutta fretta.
Mentre si allontanava da casa il respiro le si spezzò e iniziò a stringere convulsamente il volante tra le mani fino a sbiancarsi le nocche.
Non era sua intenzione essere inospitale o in qualche modo maleducata, ma aveva avuto il bisogno di allontanarsi da quei tre fantasmi del passato ch’erano tornati per rovinarle la vita che si era costruita, quella vita tanto normale e perfetta quanto vuota.
Era andata a far la spesa fuori città, adottando la scusa delle offerte e degli scontri, era andata a comprare una maglietta all’ultima moda per un’amica nonostante il compleanno si sarebbe tenuto dopo tre settimane, forse un mese, e nonostante non ne avesse veramente bisogno s’intrattenne più del dovuto a valutare prezzi e modelli, era andata nel bar di una sua amica con la quale, però, non parlava mai molto, anzi eran mesi che non si vedevano e cercavano.
Era stata via per delle ore e ogni scusa era buona per rimandare, anche se di poco, il ritorno a casa.
Ma poi le scuse finirono.
Tornò a casa propria e mise via la spesa, parlò con gli ospiti, rifilando loro le ottime scuse che s’era inventata, infine era dovuta andare a lavorare al Bar Scarabocchio, godendo del fatto che quel giorno, nella chiesa lì accanto, si sarebbero tenuti due matrimoni consecutivi e un funerale e che a causa di ciò il locale sarebbe stato colmo di clienti da servire e lei sarebbe stata occupata fino a sera, forse a notte fonda, se era fortunata.
 
Erano circa le tre del mattino quando la ragazza rientrò in casa propria, dopo aver messo la parola fine alla sua giornata lavorativa.
Chiuse delicatamente a chiave la porta, si tolse le scarpe e andò nel piano superiore della casa. Si fece una doccia fredda e poi indossò un leggero pigiama maschile. Si affacciò alla piccolissima veranda della finestra davanti alla porta di camera propria e, senza problemi, come se fosse la cosa più normale del mondo, si arrampicò sul tetto. Si strinse le ginocchia al petto, ignorando l’aria fresca di quella sera di metà del maggio 2018. Accolse di buon grado il proprio gatto nero che le si acciambellò accanto.
“Hey, Mozart…” bisbigliò, carezzando il morbido manto del felide, che come risposta iniziò a far le fusa.
Appuntò lo sguardo sulla luna piena che le si stagliava dinanzi e ignorò volontariamente i rumori che udiva accanto a se.
“Non dovresti dormire?” le chiese con premura James, affiancandola. “Ah, buon ventunesimo compleanno!”
“Grazie”
Era vicino. Troppo vicino.
Le loro spalle si sfioravano e le confermavano ancora una volta che era davvero lì.
Il biondo, non si sa come, aveva portato un paio di coperte così si trovarono lì, sdraiati comodamente sul tetto – per quanto si potesse star comodi lì sopra – a guardare la volta celeste, tacendo.
“Sai” disse lei, così, dal nulla, “fino a qualche anno fa adoravo star sveglia fino al mattino e guardare le stelle” Una piccola pausa, un sospiro. “Gli antichi egizi credevano che la volta celeste fosse la dea Nut, ma non mi piaceva solo per questo. Passavo nottate intere a cercare Asgard. O a riflettere su… boh, su tutto”
Tacquero ancora, lasciando che il breve discorso affogasse nel silenzio della notte.
“Come mai ci stai evitando?”
“Non vi sto evitando, Jim. Ho semplicemente avuto degli impegni non trascurabili, tutto qui”
“Ehy…” disse lui, provando a carezzarle i capelli; lei si ritrasse, quasi fosse disgustata da quel contatto. “Vuoi che ce ne andiamo?”
“Io…” Shetani sospirò pesantemente, trattenendo a stento delle lacrime estremamente bastarde che le pizzicavano gli angoli degli occhi.  “No… sì… non so. So solo che ho una tale confusione in testa… e boh… però…”
“Però?” la incalzò il biondo.
“È che… dannazione… possiamo parlarne domani?”
“Sì”
“Grazie”
“Vuoi che ti lasci sola?”
Lei annuì e James volle abbracciarla prima di tornarsene dentro casa.
“Jim”
L’Ammiraglio guardò ancora un secondo le scale immerse nel buio, poi si voltò verso Spock, che lo guardava dalla porta semi aperta della camera da letto.
“Sorride. Perché se no scoppia a piangere…” disse tra se e se l’uomo dallo sguardo dorato, accoccolandosi contro il più alto, attendendo un abbraccio che, ne era certo, non sarebbe mai arrivato, non più, sospirando su quella pelle pallida, ritrovandosi nuovamente e inutilmente a sperare che quel contatto non fosse l’ultimo.

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Capitolo II° ***


Capitolo II°
 
La loro storia si spense, rimasero al buio. Decisero silenziosamente di non guardarsi più negli occhi.
[Daniele Tartaglione]
 
Il giorno dopo era domenica.
E Shetani si ritrovò a far colazione alle sei del mattino, un’abitudine che, sinceramente, non l’aveva mai abbandonata da quattro anni a quella parte.
“Il tuo divano-letto cerca di uccidermi…”
“Eh?”
“Son cascato due volte! E ci si è messo pure il comodino!” mugugnò Bones tastandosi la testa.
Lei ridacchiò, rigidamente seduta al proprio posto.
Dopo pochi istanti, a loro si unirono anche Spock e un Kirk piuttosto spettinato.
“Ragazzi, vi devo delle scuse” iniziò allora Shetani. E parlò. Parlò a lungo.
Parlò del coma di quattro anni prima, di come le fosse risultato difficile tornare alla vita di sempre, di come si era attaccata morbosamente a Star Trek, più del solito, per alcuni mesi, di come la psicoterapeuta lo considerasse un atteggiamento anomalo, magari causato da una mente sconvolta e spaventata, dei due anni di terapia.
Parlò di come si fosse lasciata tutto alle spalle, di come ci avesse provato, a dimenticare i fumetti e le serie televisive e loro, specialmente loro, costantemente, inutilmente, di come avesse creduto d’esserci riuscita, mentendosi, di come avesse paura.
Paura di loro, dell’affetto che provava per loro, di dover nuovamente separarsi, di dover rivivere tutto daccapo e di come non credesse di poterci riuscire.
“…però non dovevo farvi sentire indesiderati perché siete… siete come parte della mia famiglia, ecco”
James le sorrise, cordiale come al suo solito, contento che l’amica si fosse con loro confidata.
La giornata passò relativamente presto, ma una pessima sensazione s’era impossessata di Shetani.
Sapeva che l’uomo che da tutto il giorno meditava sul divano era estremamente riservato, però era anche a conoscenza del rituale che avrebbe intrapreso tra la fine della missione quinquennale e l’inizio del primo film – anzi, si sorprendeva che non lo avesse già iniziato – e temeva il suo comportamento così freddo, più del solito, anche con Jim, beh… era un ottimo indizio, per lei.
E si ritrovò a confermare la propria tesi due notti dopo.
Seduta comodamente sul tetto – come aveva ripreso a fare con regolarità, nonostante le proteste di McCoy – aveva sentito la porta della propria stanza aprirsi e dei leggeri passi che si avvicinavano al balconcino della finestra. Di primo acchito aveva pensato che James volesse farle compagnia, ma poi s’era dovuta ricredere, una volta scesa dal tetto.
“Spock” bisbigliò lei; poi vide la valigia. “Oh”
Il vulcaniano la guardò e, nonostante l’espressione indifferente e annoiata ch’era solito assumere, i suoi occhi raccontavano la paura, la tristezza e la vergogna di ciò che stava facendo.
“Shetani…”
“Non serve che mi spieghi nulla. È proprio necessario?”
“Sì”
“Come lo dirò a James…?”
L’uomo tacque, poi disse: “Lo sa. Però non capirà. Non del tutto. Per quanto sia intelligente, la sua emotività lo destabilizzerà come la mia fa con me. Ti prego di prendertene cura”
“Sì. Vorrei che tu restassi. Ma non lo farai, giusto?”
“Giusto”
Shetani, atteggiandosi da perfetta vulcaniana, come avrebbe detto sua sorella, raddrizzò schiena e spalle, trattenne le lacrime – nonostante sapesse come sarebbe andata a finire – e disse, eseguendo anche il gesto adatto: “Lunga vita e prosperità, Spock di Vulcano”
“Lunga vita e prosperità”
“…e buona fortuna” aggiunse lei.
Lo vide sparire nel luccichio del teletrasporto, sospirò, gettò un’occhiata in direzione della porta chiusa della propria stanza.
Aprì la porta e trovò Jim ancora sotto le coperte. Gli si avvicinò con lentezza, non sapendo se stesse dormendo o no, sperando che fosse immerso nella beata speranza donata dal sonno.
 “Jim…” sussurrò.
“Lo so”
Gli occhi dell’uomo erano velati da lacrime che non voleva versare e, dannazione, nonostante Shetani capisse la necessità di Spock d’effettuare il Kolinahr pensò che lui, quelle lacrime, non le meritava.
Jim aveva in se la consapevolezza di quella fuga, sapeva perfettamente il perché. Sapeva. Eppure si chiedeva perché fosse necessaria. Perché proprio ora, che tutto cominciava ad essere perfetto.
La donna lo prese per mano, e lui ricambiò la stretta.
“Va tutto bene, davvero. Ero… ero preparato, vedevo come si comportava, me l’ha spiegato però…”
“Andrà tutto come deve andare. Sai che non posso dir niente, però fidati, in un modo o nell’altro starete bene”
“Già, forse è meglio che mi dimentichi, che smetta di amarmi”
“Ehy” lo rimproverò lei, “Non ho assolutamente detto questo! Ha bisogno di te, ti ama perché sei il primo uomo che non lo guarda come se fosse un fenomeno da baraccone e che lo capisce. Ma ha anche bisogno del Kolinahr, deve ritrovare un equilibrio, l’amore che prova per te lo spaventa, e deve riuscire a controllarsi, o ne verrà distrutto. Però fidati, non lo disprezza”
L’Ammiraglio la abbracciò, scompigliandole i capelli con una mano, e disse: “A volte credo proprio che tu lo capisca meglio di me”
“Beh, è solo che, a volte, vedere le cose da fuori aiuta. Pensi che nessuno, prima di me, si fosse accorto di voi due?”
“Cosa?”
“Ma sì!” ridacchiò lei, tentando, seppur goffamente, di distrarlo. “Io e Lenny facemmo pure una scommessa!”
Lui sorrise debolmente, forse più per abitudine che per davvero.
“Sai, ho mentito” ammise Kirk. “Non sono pronto. Me lo disse tempo fa. Jim, mi disse, me ne devo andare, devo effetturare il Kolinahr. E mi ha spiegato tutto. Negli ultimi tempi si era chiuso a riccio. E non ho fatto nulla per persuaderlo perché sapevo che se ne era già andato, in realtà. Ho scelto di fingere che tutto andasse bene, di illudermi e di non combattere una lotta dolorosa e inutile…”
Lei tacque. Nemmeno io ho impedito che se ne andasse, pensò.
Shetani non era intenzionata a lasciarlo solo, così si sdraiò accanto a lui, alle sue spalle, per riempire quel posto dolorosamente vuoto, e se lo strinse contro, come a impedirgli di crollare, di spezzarsi.
Lasciò che piangesse, che le sue spalle sobbalzassero per i singhiozzi, lasciò che maledicesse Spock per avergli spezzato il cuore che gli aveva affidato, che gli dichiarasse amore eterno, gli permise di rigirarsi tra le sue braccia e di nascondere il viso nell’incavo del suo collo, lasciò che la stringesse, che si aggrappasse a lei tanto da graffiarle la schiena attraverso il pigiama. Lasciò che facesse tutto questo, ma non che si spezzasse più di quanto già non fosse, che si annientasse.
Gli carezzò i biondi capelli fino all’alba, incapace di distogliere lo sguardo da quel bel viso stanco.
A volte credo proprio che tu lo capisca meglio di me, gli aveva detto.
Già, lei capiva perfettamente cosa significa sentirsi diverso da chiunque, sentirsi soli in mezzo ad un sacco di persone, capiva la gioia di trovare qualcuno che ti consideri normale. Capiva la necessità di Spock del Kolinahr, il bisogno di equilibrio interiore… capiva, e cercava di convincersi che andava bene così, che era normale, che era giusto, ci provava con tutta se stessa.
Ma era difficile.
Difficile.
E vedere quel Capitano, il suo unico Capitano così devastato non aiutava. Perché no, non riusciva a credere che deturpare quel suo tenero cuore fosse giusto, e ci provava davvero, a vedere la cosa dal punto di vista di Spock, ma pur riuscendoci non riusciva a non dargli torto.
Era una sorta di circolo vizioso.
Mentre il sole carezzava il mondo, lei si assopì, conscia che la Vita non si sarebbe di certo fermata per Jim.
“Tranquillo. Ho promesso che mi prenderò cura di te”

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Capitolo III° ***


Lo so, gente, ci ho messo secoli ad aggiornare, ma al momento ho in corso altre due long ed ho il blocco dello scrittore.
Spero che passi.
Un bacione,
Shetani






Capitolo III°
I’m not crazy. My reality is just different then yours.
[Cheshire cat – Alice in Wonderland]
 
Shetani volle alzarsi presto, quel mattino, anche se fu un’ardua impresa svincolarsi dall’abbraccio di Jim.
Era domenica e, dato che sua madre aveva insistentemente chiesto di sapere chi fossero quegli uomini in casa sua, aveva deciso di parlarne con i suoi tre… due – che delizioso lapsus – ospiti. Se Lenny e Jim avessero acconsentito, la famiglia di Shetani sarebbe stata invitata a cena quella sera stessa e li avrebbero conosciuti.
Ma aveva paura: teorizzando che riconoscendoli per coloro che erano non creavano danni, la giovane temeva che chiedessero anche di Spock.
E lei non lo avrebbe sopportato. Non avrebbe sopportato la smorfia di dolore del proprio Capitano, il sapere del suo dolore… no, non ce l’avrebbe fatta.
Jim doveva distrarsi, divertirsi. O almeno provarci. Shetani, quindi, pensò di portarlo a Vicenza, magari a fare un pic-nic, giusto per svagarsi.
Scese in cucina per preparare la colazione, aiutata da Leonard; gli spiegò brevemente ciò ch’era accaduto la notte prima e, come da copione, il medico perse le staffe, inveendo contro il ‘bastardo dalle orecchie a punta’.
“Innanzitutto, Lenny, parla piano” lo interruppe lei, “Poi, non dovresti pensare a lui come ad un ‘computer senza emozioni’: i vulcaniani le provano con più forza di noi, devono domarle per sopravvivere!”
“Tu e Jim siete uguali! Sempre pronti a giustificarlo”
“Lenny, non lo sto giustificando. Pensi che mi piaccia vedere Jim così a pezzi? Io dico solo la realtà dei fatti, una realtà odiosa, ma pur sempre realtà! Quindi vedi di chiudere quel fottuto becco!!!”
Tacquero; dopo quella sfuriata a mezza voce, Shetani abbassò lo sguardo.
“Scusa” mormorò poi la giovane, “Scusa. È che… non ce la faccio a vederlo così”, sospirò, accennando alle scale che portavano alla camera da letto.
“Non importa. So che ci stai male”
McCoy l’abbracciò per un po’, quasi cullandola, mentre lei versava quelle lacrime che per tutta la notte aveva trattenuto. Ne aveva bisogno, lei, di quello sfogo: volveva esser forte anche per Jim, però stava tralasciando se stessa.
Dopo qualche attimo, si separarono, e la calda mano di quell’uomo che considerava un padre le asciugò il viso.
“Senti, Lenny, volevo andare a fare un giro a Vicenza. Almeno ci distraiamo”
“Va bene!”
“E… la mia famiglia vuole conoscervi… se a entrambi va bene, pensavo di invitarli a cena. Ho dei dubbi, però…”
“Basta che non dicano nulla a nessuno” la rassicurò lui, “appena torniamo a casa, farò i miei famosi fagioli”
Shetani ridacchiò; prese tre brioches fatte in casa e le mise nel forno, giusto perché si riscaldassero. Dal frigo prese latte, succo di frutta e acqua, poi prese le brioches dal forno e le mise nel centro della tavola.
Fece per mettere in tavola anche il taglia-frutta, erroneamente, dato che Spock se ne era andato.
“Jim, la colazione”
“Arrivo, She’, arrivo”
Lei fece si sedette accanto a Bones, assaggiando appena il succo di frutta e continuando a tener d’occhio le scale per almeno dieci minuti, ma con scarso successo: James non sembrava intenzionato ad unirsi a loro.
“Vai da lui” le disse Leonard, fingendo di darle un ordine.
Shetani annuì, su un vassoio mise la colazione di Jim e lo raggiunse in camera.
 
Alla fine rinunciarono ad andare a Vicenza: pioveva a secchiate.
La cena con i genitori di Shetani si sarebbe tenuta alle otto di sera e Jim, fortunatamente, si era lasciato coinvolgere nei preparativi; quando gli era stato chiesto se era sicuro di voler conoscere la famiglia di Shetani, rispose di sì, che ne era lieto e che distrarsi gli avrebbe giovato e l’amica ne era contenta.
In fondo, pensò, la stava prendendo abbastanza bene. O almeno così sembrava.
Ad un certo punto, mentre i famosi ‘fagioli alla Bones’ – sia in variante vegetariana che non – erano in forno assieme al pollo, agli scampi e mentre le patatine friggevano, il dottore decise di preparare una bella torta al cioccolato – ogni tanto pure lui non se ne privava.
Mentre con un mestolo mischiava l’impasto al cacao, si sentì osservato: dinanzi a lui, infatti, sedevano Jim e Shetani che con palesemente finta indifferenza tenevano d’occhio il suo lavoro, attendendo il momento propizio per ripulire la terrina dai residui d’impasto rimasti – avevano già dei cucchiai in mano - e contendersi il mestolo.
Bones si allontanò un attimo per prendere dello zucchero quando sorprese la ragazza e il biondo affondare un dito nella pastura per assaggiarla di nascosto. Fece finta di niente solo perché Jim sembrava così tranquillo, quasi felice, e voleva che continuasse ad illudersi di esserlo.
Sentirono bussare alla porta e Shetani andò ad accogliere gli ospiti. Uscì dalla porta e, prima di farli entrare, volle spiegar loro la situazione.
“Non l’hai ancora buttata, quella maglietta?” disse Mark, il padre di Shetani, aggiustandosi gli occhiali sul naso e appuntando un azzurro sguardo di derisione sulla tenuta da Capitano.
“No, e non intendo farlo. Non che mi dispiaccia, ma è stato il Capitano a volerlo”
“Capitano?” chiese sua madre.
“Il Capitano Kirk” disse la giovane. “Ascoltate, so che può risultare strano, ma ciò che ho sognato quattro anni fa, durante il come, non era un sogno. Era tutto vero, sono davvero stata sull’Enterprise. E ora state per conoscere il Capitano Kirk e il dottor McCoy”
“Shetani…”
“Taci un momento, papà!” sbottò lei, per poi abbassare la voce, “Spock se ne è andato ieri notte. È tornato su Vulcano per effettuare il Kolinahr ed eliminare le emozioni. Gradirei che non ne parlaste, Jim ha bisogno di distrarsi e non pensarci – penso che possiate capirlo, è quasi come se si fossero ‘mollati’, si può dire”
Sua Shainy, la sorella di Shetani, sospirò: quattro anni prima avrebbe quasi potuto credere che quel sogno fosse realtà, però ora la considerava una follia. Non ne poteva più di Star Trek: Shetani era stata troppo male, a causa di quella sua mania, aveva pianto giorni interi perché le mancavano i suoi ‘amici’, aveva litigato poderosamente con la psicologa per difendere quel mondo immaginario, fino a che non aveva dovuto arrendersi, obbligarsi a smetterla di crederci. E Shainy l’aveva vista spegnersi, appassirsi, ingrigirsi, smettere di amare i suoi carissimi fandom, spaventata dall’idea di dover rivivere tutto.
Basta. Shainy non ne poteva più. Per favore, non ancora, non ancora, pregò.
Shetani e Pamela stavano discutendo, la donna proponeva di ricominciare la psicoterapia, la ragazza protestava e Mark commentava acidamente la figlia maggiore. Poi la porta si aprì e si bloccarono.
James squadrò per un attimo i parenti dell’amica con uno sguardo di rimprovero; guardò la ragazza e, vedendola lì, fredda, con la schiena dritta e le mani dietro la schiena, con gli occhi che a malapena riuscivano a celare le emozioni, non poté non pensare, con una stretta al cuore, a Spock. Lei non se ne accorse, dato che le risultava naturale comportarsi così.
Il biondo passò un braccio attorno alle esili – ma forti – spalle della ragazza, in un moto protettivo, notando l’istantaneo rilassamento dei muscoli di lei, del suo sospiro di sollievo e del suo lieve sorriso – perché lui era lì, esisteva, e quel contatto le dava sicurezza, anche se fino a qualche giorno prima aveva un effetto opposto.
“Salve” disse Jim, cordiale, “penso che Shetani vi abbia parlato di me”
Pamela, Shainy e Mark si guardarono, sentendosi colpevoli.
Visto? Non sono pazza, pensò Shetani, la mia realtà è solo diversa dalla vostra.

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=2841796