L'incontro tra i mondi

di v_vanny05
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Fotografie e strani sogni ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


 

Prologo

Ginevra Di Maria aveva ventisette anni, e si era laureata da qualche mese in Italia. Non aveva ottenuto un punteggio particolarmente elevato, la matematica e alcuni docenti troppo rigidi le avevano impedito di ottenere la media alta che sognava al momento dell’iscrizione. Tra alti e bassi, il suo voto finale fu un discreto novantasette; non era un 110 e lode, ma i voti non sono tutto.

Mentre ripensava, con una certa nostalgia, agli anni universitari, stava aspettando la sua valigia all’aeroporto. Non poté fare a meno di sorridere: si trovava a Londra, e non per una vacanza. Finalmente i bagagli cominciarono ad arrivare; iniziando a cercare la sua valigia con lo sguardo, raccolse i lunghi riccioli rossi in un elastico, formando una coda di cavallo.

Fuori da quell’aeroporto la vita la stava aspettando. Aveva passato anni a sognare Londra, quella città caotica e piena di opportunità.

L’emozione aumentò, facendola saltellare sul posto ed emettere un gridolino di gioia, quando finalmente vide arrivare la propria valigia viola. Prese al volo il bagaglio dal nastro trasportatore, facendone cadere altri due; arrossì visibilmente e corse via, biascicando qualche debole scusa, un po’ in italiano e un po’ in inglese.

Uscendo dall’aeroporto, trovò la fermata della metropolitana e ne scese le scale, iniziando a consultare la mappa con le linee per trovare il binario giusto.

«Menomale che mi sono fatta arrivare l’abbonamento via Internet» – borbottò tra sé e sé. Rischiava già di perdersi così, chissà dove si sarebbe ritrovata se avesse dovuto cercare un posto per fare i biglietti. Erano passati diversi minuti, e lei era ancora lì a fissare – senza capirci molto – le linee multicolore della cartina e il biglietto con segnato l’indirizzo.

“Forse dovrei prendere quella rossa”

Fece qualche passo indietro, per guardare la piantina da un punto di vista differente e, soprattutto, per lasciare spazio ai pendolari più esperti che sbuffavano esasperati dietro di lei. Il suo passo da gambero fu bruscamente interrotto quando andò a sbattere contro qualcosa, o meglio qualcuno. Passandosi una mano sul viso, perfettamente conscia della figuraccia, si voltò pronta a chiedere scusa in ogni modo. Alzando il viso, notò immediatamente un paio di occhi blu, all’interno di un bel viso dai tratti delicati, incorniciato da un accenno di barba. In quel momento, aveva voglia di scavare una buca nel terreno e sparire al suo interno.

«Oh… Ehm… Scusami io…»

Parlò talmente piano che il ragazzo non poté sicuramente sentirla, mentre lei udiva benissimo la sua risata.

«Stai cercando qualcosa?» – chiese lui gentilmente, indicando le linee della metropolitana.

Ginevra era un po’ riluttante a rispondere, ma poi cedette; ormai la figuraccia era stata fatta. Meglio ammettere di non avere un briciolo di senso dell’orientamento, che vagare per Londra. Mostrò al giovane il biglietto con l’indirizzo verso cui era diretta. Si torceva le dita mentre lui le mostrava il percorso che avrebbe dovuto fare.

“Mi perderò sicuramente”

Sospirò rassegnata, mentre le indicava una fermata della linea blu alla quale sarebbe dovuta scendere per cambiare linea.

«Aspetta, fammelo segnare» – tirò fuori dalla borsa il blocchetto per gli appunti e vi scrisse le indicazioni.

«Tutto chiaro?»

Il giovane lanciò un’occhiata perplessa al blocco note della rossa, ma per lei quegli scarabocchi erano chiarissimi.

«Certo, grazie mille!»

«Benvenuta a Londra, allora!»

Sorrise ancora una volta in modo educato e, tenendo strette le indicazioni per la metro si diresse finalmente verso il binario corretto.

Il treno arrivò in pochi minuti; non le sembrò neanche di aspettare essendo abituata agli autobus della sua cittadina, che avevano almeno mezz’ora tra una corsa e l’altra. Non trovò un posto a sedere, così cercò di stare almeno nelle vicinanze dell’uscita.

Prese dalla tasca il suo telefono, era spento ormai da giorni. Aveva lasciato un messaggio alla famiglia, prima di partire, dicendo che avrebbe cercato di avere una vita soddisfacente. Da quel momento in avanti, il suo desiderio più forte era tagliare ogni ponte col passato. Con un sospiro partito dal fondo dell’anima, smontò il cellulare e cambiò la scheda, mettendo il numero inglese.

«È la mia fermata!» – gridò a un certo punto, attirando l’attenzione degli altri pendolari. Sentirsi osservata non le era mai piaciuto e si ritrovò a bisbigliare delle scuse, mentre il suo viso prendeva il colore dei suoi capelli.

Senza perdersi, riuscì ad arrivare alla stazione di King’s Cross in largo anticipo. Si sedette su una panchina, appoggiando borsa e valigia in terra. Chiuse per qualche istante gli occhi, “ce l’ho fatta” pensò, e respirò profondamente. Quando si alzò decise di guardare la stazione, i negozi e ristoranti che conteneva.

Trovò un bar, dove l’insegna recitava “Caffè espresso italiano”; aveva seriamente bisogno di energie, quindi si avvicinò al bancone e chiese un caffè.

«Che è sto schifo?» – il barista la guardò male. Non voleva fare un’altra figuraccia ma quella brodaglia era davvero impossibile da bere, così guardò l’orologio che portava al polso e si affrettò a uscire, fingendo di essere in ritardo per chissà quale cosa di vitale importanza.

Si diresse verso i bagni per darsi una rinfrescata al viso e una sistemata generale, in modo da nascondere leggermente l’aria stravolta che era sicura di avere.

Non appena l’acqua fresca toccò la sua pelle, si sentì subito meglio. Rimase a guardarsi qualche istante allo specchio, indecisa se usare o no il correttore per nascondere le occhiaie che stavano crescendo indisturbate attorno ai suoi occhi verdi.

“Mi sa che è il caso di nasconderle un po’”.

Aprì la borsa che portava a tracolla, prese l’astuccio in cui metteva il necessario per il makeup e prese a passarsi il cosmetico. Decise che era il caso di usare anche un filo di trucco, giusto per non sembrare trasandata: un filo di matita e un ombretto dalla tinta naturale, mascara e un lucidalabbra trasparente ed ebbe l’impressione di essere cambiata totalmente, sentendosi più sicura di sé. Slegò i capelli e si mise a testa in giù, ravvivandoli con le mani. Quando fu nuovamente in posizione eretta sorrise al proprio riflesso, sistemando qualche ricciolo ribelle.

Fu proprio in quel momento che la vide. La sua figura non era la sola nello specchio, dietro di lei c’era una donna alta e bionda, con indosso una tunica, che la fissava con freddi occhi di ghiaccio. Non aveva sentito entrare nessuno, non aveva visto la porta aprirsi. E quella donna… era così strana. Aveva un’aria famigliare, eppure c’era qualcosa di sbagliato in quegli occhi che la scrutavano.

«Chi sei? Che cosa vuoi da me?» la sua voce uscì meno sicura di quello che si aspettava. La bionda non rispose, rimase immobile.

Ginevra si girò, per poterla guardare meglio, ma dietro di sé non c’era nessuno.

“Com’è possibile?”

Tornò a guardare nello specchio e trovò solo se stessa, con un’espressione spaventata in volto. Si sentì le gambe tremare e dovette reggersi al lavello.

“Che cosa succede? Non è possibile che mi sia immaginata tutto”.

Osservò ancora per qualche istante lo specchio, si pose più vicina, ma non c’era più niente, se mai c’era stato qualcosa.

Il rumore della porta che si apriva la fece sobbalzare, tanto che la signora che stava entrando si preoccupò sul suo stato di salute.

«Sto bene, sono solo stanca per il viaggio» - si congedò velocemente, per dirigersi all’agenzia immobiliare.

Camminare le fece bene, immersa nel traffico londinese non ebbe più modo di pensare a ciò che era successo nel bagno della stazione, era più impegnata ad attraversare guardando dal lato giusto. Da dove veniva lei poteva fare anche a meno delle strisce pedonali, a Londra, farlo, avrebbe significato suicidarsi. Fortunatamente quasi ogni incrocio era munito di semaforo e, sull’asfalto era indicata la direzione da cui arrivavano le macchine.

Dopo pochi incroci, finalmente trovò l’insegna “Home in London”. Appoggiò una mano sulla maniglia, si prese un istante per un respiro profondo ed entrò.

Il suo ingresso fu segnalato dal suono di un campanellino che richiamò l’attenzione di una delle impiegate, che si apprestò ad accoglierla.

«Buongiorno signorina, in cosa posso esserle utile?».

Ginevra frugò nella borsa in modo frenetico per alcuni secondi, quando ne riemerse aveva in mano la documentazione per il contratto d’affitto. L’impiegata prese i fogli che le porse, controllò alcuni dati al computer e sparì per pochi momenti nel retro, per tornare con un mazzo di chiavi.

 

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Capitolo 2
*** Fotografie e strani sogni ***


Capitolo 1: Fotografie e strani sogni

«Un po’ a sinistra, ecco!» - delicatamente, pose una mano sotto il mento della modella e le fece voltare il viso, in modo da avere la giusta posizione per la foto.

Continuò così, senza fermarsi, per due o tre ore; non sapeva quanto era passato quando, gli altri membri dello staff e la ragazza, chiesero mezz’ora di pausa.

La fotografia era più di un lavoro, era da sempre la sua più grande passione. Dietro all’obiettivo era in grado di vedere da nuove prospettive, ogni suo scatto trasmetteva emozioni. Si mise a scaricare sul computer le ultime foto fatte, ne cancellò parecchie: alcune non avevano la luce giusta, altre erano “piatte” o gli sembravano troppo finte. I suoi colleghi lo prendevano in giro, dicevano che sprecava molti ottimi scatti, che avrebbe potuto ritoccare digitalmente e rendere perfetti. S’infuriava ogni volta che glielo facevano notare, pensava che una foto non andasse mai ritoccata e, se non era venuta perfetta subito, tanto valeva buttarla.

«Ehi Nate, hai mandato in stampa le foto per la mostra?».

Il giovane si passò una mano tra i corti capelli corvini, spalancò gli occhi e si voltò lentamente verso il suo collega, iniziando a balbettare.

«C-Cosa hai detto?»

L’altro rise, convinto che l’amico lo stesse prendendo in giro.

«La mostra di domenica! Hai già le foto pronte, vero?»

L’espressione sul volto di Nathan la diceva lunga. I suoi occhi blu, solitamente brillanti di entusiasmo, erano vacui e la sua bocca si aprì e richiuse senza emettere alcun suono. Si alzò in piedi, iniziò a camminare avanti e indietro accarezzandosi nervosamente la barba, che iniziava a crescergli sul mento.

«Merda!» - esclamò infine.

I suoi movimenti divennero frenetici e senza logica. Andò verso il calendario appeso alla parete, puntò l’indice destro sulla domenica della mostra, e controllò più volte quanto tempo aveva. Tre giorni. Mancavano tre giorni e lui non aveva neanche scelto le fotografie da esporre. Prese a pugni il calendario.

«Merda! Merda! Merda! E ancora merda!»

L’amico lo osservava preoccupato. Aveva capito che Nathan era indietro, quindi provò a infondergli un po’ di ottimismo.

«Calmati, se le mandi adesso, saranno pronte per domani pomeriggio e potrai…» - fu interrotto bruscamente dal fotografo, che si era diretto alla propria scrivania per controllare gli appuntamenti sull’agenda.

«Calmarmi dici? Ralph, ti rendi conto che devo ancora scegliere le foto?» - mostrò all’altro il foglio di carta con le righe piene di appuntamenti. Dopo quel servizio sarebbe dovuto andare a una festa di compleanno di bambini, e poi dal commercialista e a una cena per il cinquantesimo anniversario di una coppia.

«Mi spieghi quando le faccio tutte queste cose?» - mentre gridava, scuoteva l’agenda aperta vicino agli occhi castani del collega, che lo guardava in silenzio.

Quando si alterava in quel modo, bisognava lasciarlo sfogare senza interferire per evitare di diventare oggetto della sua ira.

Era passato un quarto d’ora da quando aveva concesso la pausa, richiamò tutti con tono perentorio. Sentiva il suo staff lamentarsi, qualche insulto lo raggiunse ma non se ne preoccupò. Dopo pochi minuti i suoi collaboratori erano lì, nello studio fotografico, con espressioni pigre, scocciate e curiose. Si stavano sicuramente chiedendo come mai li avesse richiamati così presto; per quanto amasse il duro lavoro, solitamente rispettava i tempi delle pause.

Scrutò una a una le persone che aveva davanti. Chi avrebbe potuto mandare a fare i servizi fotografici della giornata e dell’indomani?

Sbuffò accorgendosi che Donna, la modella, non era ancora tornata dalla pausa.

«Mandate a chiamare la ragazza, e che si sbrighi!» - Asya, la stagista che gli aveva raccomandato il padre, squittì e corse fuori dalla stanza, con i lunghi capelli neri che le ondeggiarono sulla schiena. Era una brava ragazza, non si lamentavano mai delle tante ore di fila che lui la faceva lavorare. Non aveva mai chiesto un aumento; era sempre l’ultima a uscire, insieme con lui. Qualche volta aveva visto alcune sue fotografie, gli erano piaciute. La ragazza era giovanissima – diciotto anni ancora da compiere - ma aveva talento e passione. Prima che tornasse, Nathan, aveva deciso che avrebbe affidato i servizi fotografici di quel giorno e del seguente a lei.

Quando finalmente ebbe tutti davanti, aveva un piano d’azione pronto.

«Asya, sei l’ultima arrivata e non ti ho mai affidato incarichi che richiedessero particolari responsabilità, ti senti pronta per fare dei servizi fotografici in mia vece?» - gli occhi scuri della ragazza brillarono di luce propria, l’emozione che ci intravide gli ricordò se stesso qualche anno prima, quando gli affidarono il primo vero servizio.

«Certamente, Mr White» - il tono della ragazzina era deciso, nonostante il rossore sulle sue guance.

Nathan annuì, e mostrò all’aspirante fotografa il lavoro che avrebbe dovuto svolgere; dal suo canto, Asya, era concentratissima e si rivelò molto professionale nell’esporre dubbi e proporre consigli.

«Hai carta bianca, portati chi vuoi ad assisterti» - disse infine il moro, indicando i suoi collaboratori, i quali storsero un po’ il naso. Lavoravano per lui da anni, ed erano tutti degli ottimi fotografi professionisti, ma erano carenti di entusiasmo e passione per le emozioni che si catturano con una macchina fotografica.

Si rivolse poi al suo collega e amico Ralph, e gli diede i documenti da portare al commercialista.

«Gli altri sono liberi fino lunedì» - dichiarò infine.

La modella, con indosso solo un accappatoio bianco e un paio di pantofole, lo fissava con fare interrogativo. Non sapeva ancora cosa fare con lei: portare a termine il servizio avrebbe richiesto ancora qualche ora, ma d’altronde non poteva mandarla via; il book per la bionda doveva essere pronto nel minor tempo possibile, e gli occhi color nocciola di lei glielo stavano ricordando severamente.

«Ascolta…» - iniziò a parlare titubante. L’avrebbe mandata da un altro studio a proprie spese, era l’unica cosa sensata da fare. Puntò gli occhi in quelli della ragazza, che capì qualcosa e lo bloccò prima che potesse iniziare il discorso.

Donna si scostò i capelli dal viso, e prese la parola con fermezza.

«Ho speso parecchio per farmi fotografare da te, sei l’unico in grado di farmi un book che possa competere» - si alzò, tolse l’accappatoio mostrando le proprie nudità, e andò ad accendere i fari per illuminare la postazione fotografica. Prese la reflex di Nathan dalla scrivania e gliela porse, mentre lui la guardava sbigottito.

«Non posso, questa mostra è importante. Io… Ti manderò da un altro, uno fidato, e avrai le tue foto» - posò la macchina fotografica, e si sedette alla scrivania. Per il ragazzo l’argomento era chiuso, infatti, stava scorrendo la rubrica del telefono per chiamare qualche collega disponibile.

«Posso aspettare. Quando avrai finito con le foto, penseremo al book» - non l’aveva notata, ma lei si era appoggiata con le braccia conserte alla sua scrivania, ancora senza niente addosso. Era una bellissima ragazza, innegabile, ma con quel lavoro era abituato a vedere donne dal fisico mozzafiato e il viso grazioso.

«Non so per quanto ne avrò, potrei finire sta sera sul tardi».

«Non ho nessuno a casa che mi aspetta» - si issò sulla scrivania di Nathan, rannicchiando le gambe e avvicinando le ginocchia al petto. Il suo sguardo trasmetteva tenacia, e anche una certa dolcezza.

«E va bene, ma non mi disturbare e» - indicò il corpo nudo di lei - «vestiti».

Donna sorrise apertamente, lasciandosi sfuggire un gridolino di vittoria. Nathan si era pentito di aver ceduto, nell’istante stesso in cui lo aveva fatto.

Quella sarebbe stata una lunga notte. Mise un po’ di musica rock per concentrarsi al massimo e diede le proprie attenzioni allo schermo del PC.

Aveva ancora tutte le foto sulla memoria della reflex, solo per scaricarle sul computer ci avrebbe messo qualche minuto.

Guardò verso la modella, si era accomodata su uno dei divanetti arancioni che si trovavano nel suo studio. Tra le mani stringeva un libro, dalla copertina riconobbe Inferno, l’ultimo best seller di Dan Brown. Aveva letto tutti i libri dello scrittore americano, ed era un grande fan di Robert Langdon, il professore universitario protagonista di molti libri.

Donna si rese conto dello sguardo del fotografo addosso, alzò appena gli occhi dal libro e incrociò quelli del giovane uomo.

«Lo hai mai letto?» - chiese, riferendosi al testo che teneva tra le mani.

«L’ho finito da pochi giorni, dove sei arrivata?» - chiese, avvicinandosi alla ragazza, che gli mostrò le poche pagine rimanenti.

«Non è solo avvincente, fa anche riflettere».

«Già» - annuì lei - «credi che una cosa del genere sia possibile?».

Nathan si sedette affianco alla bionda, che gli fece spazio; si era posto questa e altre domande qualche giorno prima, quando aveva raggiunto la parte finale del libro. Ovviamente era quello lo scopo dell’autore, portare i lettori a una riflessione.

«Scientificamente, penso sia possibile una cosa del genere. Ma credo che solo un pazzo attuerebbe un piano simile»

«Sì, ma il problema della sovrappopolazione rimane. Alla fine sarebbe una selezione naturale e casuale, non sarebbe come uccidere qualcuno.»

Ci aveva pensato anche lui, e su quel punto si trovò d’accordo con Donna. Stava ancora riflettendo sull’argomento, quando un suono del suo laptop indicò che il trasferimento delle foto era terminato.

«Bene, il lavoro mi reclama» - si congedò, tornando alla propria postazione. Sorrideva tra sé e sé, quella ragazza non era la classica modella senza materia grigia, fu meno dispiaciuto di non averla mandata via.

Le foto erano tutte in una directory sul desktop del suo computer, poteva staccare il cavo USB e mettere in carica le batterie per metà scariche. Dato che avrebbe dovuto fare parecchie foto da lì a qualche ora, meglio evitare imprevisti.

Fece doppio click sul primo file, aprendo così l’immagine a schermo intero.

Una foto in bianco e nero ritraeva il muso di un cane meticcio con una palla da tennis in bocca. Gli occhi del cane trasmettevano gioia, divertimento e spensieratezza. Sì, quella foto era adatta alla mostra.

Aveva un massimo di trenta foto da scegliere, e lui ne aveva scattate almeno cinquecento. A volte lo stesso soggetto, preso da differenti punti di vista, trasmetteva cose opposte, come la signora sulla panchina che aveva ritratto qualche giorno prima. In una foto si vedeva una donna stanca, con qualche capello grigio che iniziava ad intravedersi attorno al viso, una borsa vecchia ed un paio di jeans consumati; nell’immagine immediatamente successiva c’era una donna matura, determinata e della quale si avrebbe voluto conoscere i misteriosi pensieri. Doveva usarle entrambe, le avrebbe messe lontane, magari ai lati opposti della sala per la mostra.

Mentre lavorava, di tanto in tanto si girava verso Donna, un po’ per vedere se avesse avuto bisogno di qualcosa ed un po’ perché gli piaceva. Sorrise stupidamente, scuotendo la testa. Molti suoi colleghi si portavano a letto le modelle che fotografavano, a lui era capitato qualche volta, quando era alle prime armi; ora preferiva trovarsi compagnie al di fuori dell’ambito lavorativo, soprattutto dopo quel casino con Nicole.

“Quella puttana!” – si ritrovò a pensare, rabbiosamente. Aprì un cassetto della scrivania, dove aveva un blocchetto di bollettini postali. Ancora cinque e avrebbe finito di pagare il risarcimento per quella – se così poteva definirla – donna.

Era bella. Non altissima, ma superava il metro e settanta, gli occhi blu come il mare e i capelli castani e setosi. Non era inglese, era una francesina raffinata e timida. Aveva persino timore a scoprire un pezzo di spalla per fare qualche scatto, Nathan non avrebbe mai immaginato quello che sarebbe successo una volta che fossero andati via i suoi colleghi.

Era rimasto solo in studio, stava mettendo in ordine per i servizi del giorno successivo, quando si spensero le luci. Era lei, ed era nuda. Lo capì quando se la trovò vicina. Profumava di fiori di campo. Gli prese una mano e se la mise su un seno, prese l’altra e se la porto sul fondoschiena. Dopo qualche istante in cui non sapeva se respingerla o meno, si ritrovò a baciarla con foga mentre la mora gli slacciava i pantaloni ed infilava le mani nei suoi boxer.

Passarono due settimane e ricevette una denuncia per violenza sessuale. Avrebbe potuto far avanzare il processo per diversi anni, avrebbe speso molti soldi in avvocato, quindi optò per il patteggiamento.

«Non hai fame?» - preso dai ricordi, non si era accorto della bionda alle sue spalle ed era trasalito, facendola ridere.

Lievemente imbarazzato guardò l’ora: erano le sette e mezza di sera. Si strofinò gli occhi con le mani e sbadigliò. Era stanco, e iniziava ad avere fame. Si voltò con la sedia girevole e si rivolse a Donna.

«Cinese?» - la giovane lo ignorò completamente, proponendo comunque della cucina orientale.

« Mentre venivo qui, ho notato un sushi bar interessante, che ne dici se ordiniamo qualcosa lì?»

Cercò in mezzo ai vari biglietti da visita, tenuti su una mensola vicino alla postazione computer, un volantino ricevuto da poco.

«Ecco qui, guarda!» - mostrò il pezzo di carta alla modella, che iniziò a studiare il menu da asporto.

Ordinarono la cena, che sarebbe arrivata una decina di minuti dopo. Lo sguardo della ragazza cadde su una fotografia aperta a schermo intero, sul computer di Nathan.

«Sei davvero molto bravo, quella è sicuramente perfetta per la mostra» - disse Donna, indicando lo schermo.

L’immagine raffigurava una ragazza di schiena, con uno zaino blu sulle spalle e un trolley viola nella mano sinistra. I capelli erano lunghi, rossi e riccioli, legati in una coda di cavallo un po’ disordinata.

«Oh, questa… è stato uno scatto non premeditato»

Aveva scattato d’istinto,  dopo aver dato indicazioni a quella ragazza appena approdata a Londra. Sorrise, pensando a come era impacciata la straniera. Aveva una specie di taccuino, gli era parso strano che nell’era di computer e smartphone qualcuno usasse ancora segnarsi le cose su un pezzo di carta, e poi lei era stata così confusionaria in quello che aveva scritto… Sorrise al pensiero di quegli occhi verdi: brillavano di determinazione e voglia di costruirsi un futuro. L’aveva salutato e ringraziato appena, per voltarsi subito e andarsene di fretta; fu quello il momento in cui lui scattò, senza saperne bene il motivo. A quanti stranieri aveva dato informazioni? Parecchi, eppure…

I suoi pensieri furono interrotti dal citofono che suonava: era arrivata la cena.

«Ok, scendo subito» - disse al fattorino, che gli aveva appena detto la cifra da pagare. Prese il portafoglio e imboccò le scale e raggiunse il ragazzo che lo stava aspettando vicino ad un motorino bianco.

Ovviamente, il ragazzetto non aveva il resto, così glielo lasciò come mancia. Mentre pensava a quanto fossero furbi i fattorini, per farsi lasciare le mance, notò qualcosa muoversi nella siepe di recinzione del palazzo.

“Nate, sei scemo? Sicuramente è un gatto”

Il rumore tra le foglie continuò, ma non se ne curò più. Non si accorse di essere fissato, non sentì bisbigliare, ebbe solo un brivido lungo la schiena, che attribuì all’aria fresca della sera.

Tornò in studio e trovò diversi oggetti che aveva sulla scrivania, riposti ordinatamente in terra e, al loro posto, era stata improvvisata una tavola apparecchiata.

«Ti piace?» - chiese Donna, andandogli incontro e prendendogli il sacchetto del cibo dalle mani.

«Io… sì» - era visibilmente imbarazzato. Si aspettava una cena davanti al computer, mentre lei aveva fatto qualcosa di carino per lui. Sorrise e si misero entrambi a tavola.

Era da tempo che non cenava in modo così piacevole con una ragazza, di solito portava fuori a cena la strafiga di turno solo per concludere in una qualche camera d’albergo. Con Donna fu diverso, era una ragazza intelligente e brillante, piacevole da stare ad ascoltare. Non avrebbe smesso di parlare con lei, se la mostra non fosse stata così importante per lui e l’affermazione della sua carriera: sarebbero arrivati personaggi importanti, e lui era veramente troppo indietro.

Era quasi mezzanotte quando, finalmente, riuscì a mandare in stampa le foto. Aveva messo “urgentissimo” come oggetto della mail, ora non restava che sperare nell’arrivo per tempo delle stampe. Mandò un messaggio a Ralph, avvisandolo che aveva spedito le fotografie, e alzò lo sguardo su Donna, che si era addormentata sul divano.

“E ora che faccio? Dorme così bene, non posso svegliarla”

Sbuffò, e si avviò verso un armadietto dove teneva delle coperte e un cuscino (spesso gli capitava di rimanere a dormire in studio).

“Ok Nate, ora sii delicato e non la svegliare”

Mentre le metteva la coperta addosso, la ragazza si agitò nel sonno e lui si immobilizzò qualche istante, temendo di averla svegliata. Dormiva con la bocca socchiusa, le mani strette a pugno contro il petto, le ginocchia piegate verso il busto. A Nathan scappò un sorriso, era così diversa dalla donna che poco prima si era imposta per farsi fotografare da lui, ora sembrava addirittura vulnerabile.

Uno sbadiglio lo colse di sorpresa, facendolo pensare a quando era stata l’ultima volta che aveva chiuso gli occhi per più di un’ora.

“Dovrei riposare anche io” – disse tra sé e sé mentre si accoccolava sulla poltroncina vicino alla finestra e chiudeva gli occhi, scivolando velocemente nel sonno.

Era in un bosco, sdraiato sulle foglie secche a guardare le stelle. Non faceva freddo, non tirava un filo di vento.

Si guardò intorno, non riconobbe niente. Nessun punto di riferimento, nulla gli era familiare. Le mani corsero istintivamente al collo, dove teneva sempre la sua fedele reflex, ma non la trovarono. Senza la sua macchina fotografica si sentì perso. Controllò nelle tasche dei pantaloni: niente telefono, niente chiavi della macchina o di casa. Come ci era finito lì? Cosa ci faceva in quel luogo? Era lontano o vicino a casa?

«Nathan! Sbrigati, Nathan!»

«Chi ha parlato?» - un brivido gli fece accapponare la pelle, e rizzare i peli sulla nuca. La voce non proveniva da una direzione, sembrava essere tutta intorno a lui.

La voce non rispose. La temperatura, all’improvviso, scese drasticamente, tanto che ogni suo respiro diveniva condensa.

“Ma che diavolo succede?”

Le stelle sparirono, tutto si fece buio. Una sfera di luce danzava di fronte a lui, puntando verso nord.

«Sbrigati Nathan! Non c’è molto tempo!»

La palla luminosa avanzò di qualche metro, invitandolo a seguirla. Il ragazzo era titubante, ma d’altronde quella strana cosa era anche l’unica fonte di calore, così iniziò a seguirla.

Camminò e corse per minuti interminabili, forse per ore, era impossibile definire con esattezza il tempo. Forse non aveva neanche fatto un passo, il paesaggio era sempre uguale, immutato, eppure lui sapeva di essersi mosso.

La sfera luminosa si ingrandì ed esplose, costringendolo a ripararsi gli occhi con un braccio. Quando riuscì nuovamente a vedere, ebbe la certezza di essersi spostato.

Non c’era più il bosco, niente più alberi e foglie secche. I piedi, che solo in quel momento si accorse di avere nudi, poggiavano su freddo marmo. Davanti a lui sorgeva un trono di cristallo, e tutto attorno si ergevano alte torri, del medesimo materiale brillante.

«Ben arrivato, Nathan» - finalmente poteva dare una tonalità alla voce: maschile e profonda, di quelle che ti entrano del cervello una volta e non ne escono più.

«Chi sei? Ben arrivato dove? Fatti vedere!» - il panico trapelava dalla sue parole, senza rendersene conto aveva assunto una posizione di difesa.

«Ogni cosa a suo tempo, caro ragazzo. Ora, il tempo è scaduto.»

«Che? Ma se sono appena arrivato! Parlami!»

«La prossima volta, Nathan. La prossima volta arriverai da solo, nessuno ti guiderà. Ricordati solo di fare in fretta»

«Come fai a sapere che tornerò?»

« È il tuo destino»

Un lieve bruciore alla spalla sinistra lo fece sussultare, si toccò ma la pelle era fresca.

Il marmo ed il cristallo svanirono, chiamò la voce ancora due, tre, quattro volte, ma non ottenne più risposta.

La suoneria del proprio cellulare lo svegliò. Erano le otto del mattino, e lui era accovacciato sulla poltrona in pelle del suo studio. Si alzò pigramente, imprecando contro chiunque lo avesse svegliato e, facendosi guidare dal suono, trovò il telefono e rispose.

Era Ralph, si era offerto di andare ad aiutarlo a sistemare il locale per la mostra.

Mentre parlava con l’amico, guardò verso il divano dove, la sera prima, stava dormendo Donna. Al posto della ragazza, vi erano la coperta piegata con sopra il cuscino ed un biglietto.

Grazie di tutto, dormivi così bene che non avrei mai potuto svegliarti.

Non preoccuparti per il book, lo faremo più avanti. A presto!

 

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