A Secret Door in the Cellar

di LimoneMenta
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Uno sconosciuto in cantina ***
Capitolo 2: *** Cacciatori Stregoni ***
Capitolo 3: *** Scoperte Agghiaccianti ***



Capitolo 1
*** Uno sconosciuto in cantina ***


1. Uno sconosciuto in cantina

«Va’ a prendermi una bottiglia d’olio» mi ordina mia nonna, mescolando l’impasto della frittata con la forchetta.                                                                                                                                                    
«Una di quelle in cantina?»                                                                                                                                           
«Sì, vicino al freezer».                                                                                                                 
Saltello giù dalle scale fino al pian terreno, dritto verso la cantina. È una stanza molto ampia, dove solitamente depositiamo tutto ciò che non ci serve, come un magazzino. È rettangolare, con le pareti bianche e il pavimento di cotto. Ringraziando il cielo alzo lo sguardo solo dopo aver sceso anche gli ultimi sei gradini, o mi sarei sicuramente messa ad urlare come una pazza per poi ruzzolare giù. Be’, non capita tutti i giorni di scendere in cantina e ritrovarsi un perfetto sconosciuto accovacciato sul pavimento, no? Da panico, appunto. Okay, Rebecca, stai calma. «Okay, hai meno di tre secondi per dirmi chi sei e andartene da qui». Oh, e questa da dove mi è uscita? Maledetta la mia stupida boccaccia, questo tizio potrebbe farmi fuori da un momento all’altro per quanto ne so! In effetti, solo a guardarlo… Non tutti se ne vanno in giro con anfibi cinghiati alti fino al ginocchio, pantaloni di pelle (o più probabilmente cuoio) e una giacca piena di fibbie. Ah, e naturalmente tutto rigorosamente nero. E ricoperto di armi da testa a piedi. In qualsiasi punto lo guardi ci sono delle armi. Una spada corta ancorata ad ogni stivale, una lunga appesa in vita, due o tre pugnali agganciati alle braccia, un arco fissato alla spalla destra coordinato ad una faretra legata alla coscia sinistra; e per finire un bastoncino trasparente di circa 15 centimetri in mano. Be’, sì, quello non fa tanto paura… però emette fumo come una sigaretta, è preoccupante? Solo il fatto che ci sia uno sconosciuto in cantina è già abbastanza, direi.                                                                                                                              
A primo impatto sembra un drogato (e già mi chiedo come abbia fatto un tizio del genere ad entrare nella cantina di una casa di campagna con cancello di ferro battuto incluso), ma sono sicura che uno così non andrebbe in giro con degli stupefacenti in corpo. Avrei preferito un drogato, a questo punto. Anche perché ha un’aria un po’ omicida, ma giusto un filino.                                                                                                          
Lentamente, molto lentamente, troppo lentamente si solleva dalla posizione accucciata che aveva assunto in precedenza e mi squadra, dal basso verso l’alto, sorpreso e con un pizzico di disprezzo.  «E tu non ne hai neppure uno per dirmi perché riesci a vedermi».                                                                
Oh mio Dio, adesso mi uccide. Questo qui è pazzo, è pazzo e sta per farmi fuori. E poi che domande fa? Fossi anche una talpa, uno totalmente vestito di nero e ricoperto di armi lo vedo anche al buio. No, magari al buio no, ma il concetto è quello.                                                                         
«Quando sono nata sono stata dotata di un’ottima vista, se questo può aiutarti». No, no, no, non fare l’impertinente come tuo solito, non adesso se non vuoi che ti ritrovino in un sacco di plastica nascosto dietro un tavolo fra chissà quanto!                                                                                            
Lui mi squadra con aria di sufficienza, deve aver capito che posso danneggiarlo tanto quanto un gattino impaurito. Che è esattamente ciò che devo sembrare adesso.                                           
«No, non mi aiuta. Ma forse sai spiegarmi cosa diavolo è quello». Usa un tono ironico, come se fosse sicuro che io sappia cosa diavolo è quell’enorme rientranza nel muro che fino a ieri non c’era. Credo. Direi di no, a meno che per diciassette anni io non abbia avuto le allucinazioni e visto sempre la parete completamente liscia, cosa che non credo affatto. Fatto sta che, proprio dove solitamente si trova un tavolo da biliardo ormai inutilizzato, ora c’è una gigantesca rientranza che si intona perfettamente al resto della stanza, come se rientrasse nel progetto della casa.                                                                                                                    
«Allora?» chiede il tizio, battendo innervosito un piede sul pavimento. Oh, e adesso cosa gli dico? Non che abbia l’obbligo di rispondergli, in realtà, ma non ho tutti i neuroni connessi, ora come ora. Ok, vada per l’indifferenza, tanto che ne sa questo di casa di mia nonna?                                                                                                              
«Allora che? Quella è una parete, non ti sembra? Hai presente, un insieme di cemento e mattoni…? Ecco, esattamente quello. Nulla di strano, no?» concludo la mia piccola recita con un’alzata di spalle, sperando che regga. Fa’ che la beva, per favore fa’ che la beva…                                                      
«Smettila. Non ho tempo per stare dietro alle tue penose scenette e lo percepisco anche da solo che quella cosa non è normale» ribatte sollevando un sopracciglio. Non se l’è bevuta. Perfetto. C’è anche da dire che nelle recite scolastiche facevo sempre l’albero, compreso a quattordici anni. E incredibile come ogni volta ci sia bisogno di un albero, vero? Ma sicuramente è ancora più incredibile che la scuola imponga le recite fino in terza media. È per questo che amo il liceo… Comunque, basta con queste distrazioni, ho un intruso in cantina da cacciare via prima che mia nonna se ne accorga. E mi chiedo perché quella vecchia acida non si sia ancora affacciata dalle scale a urlare di darmi una mossa. Mai che ci sia quando serve…                                                                      

«Ok, adesso finiscila. Non so chi tu sia né cosa tu ci faccia qui, ma se non te ne vai in fretta giuro che mi metto ad urlare più forte che posso». Wow, che minaccia da vera tosta. Per tutta risposta lo sconosciuto, che comunque è un gran pezzo di figo, ma questi sono dettagli, si avvicina con passo felpato e con un ghigno fintamente serafico stampato in faccia.                                                                                                                                  
«No, non lo farai. Primo, perché tua nonna non ti sentirebbe neanche se le urlassi in un orecchio e, secondo, perché non ti converrebbe». Allunga il bastoncino di cristallo che ha in mano (e di cui mi ero momentaneamente scordata) e me lo poggia sulla punta del naso. È caldo, ma ben presto diventa rovente.                                                                                                                                            
«Ahi, brucia! – esclamo spostandomi in fretta – Che diavolo è quell’affare?» domando tenendomi ben a distanza.                                                                                                                                              
Lui lo ripone con nonchalance in una tasca lunga e stretta sotto il braccio. «Uno stilo. Nulla di tua possibile conoscenza, per fartela breve. Alec Lightwood, comunque». Mi tende una mano con noncuranza, come se non mi dovesse alcuna spiegazione e lo scocciasse già parecchio. Mano che lascio sospesa in aria senza afferrarla.                                                                                                                                      
«Rebecca» e non aggiungo altro.                                                                                                                  
Lui sorride, credo che abbia capito di aver trovato pane per i suoi denti. «Bene, Rebecca. Per l’ennesima volta… cos’è quello?»                                                                                                                
Mi mordo il labbro inferiore, preoccupata. Non credo che vogli uccidermi, immagino che tutte quelle armi le sappia anche usare se le porta con sé con tranquillità. E va bene, sarà la più grande cretinata della mia vita, ma voglio fidarmi. Devo essere io quella impazzita ora.                                                                                                    
«Non lo so» confesso.                                                                                                                                  
Lui mi guarda confuso. «Che vuol dire che non lo sai?»                                                                                 
«Esattamente quello che ho detto, che non so cosa sia».                                                                             
La sorpresa sul suo volto aumenta sempre di più. «Stai dicendo che non sei stata tu a farlo?»   
Adesso tocca a me guardarlo sbalordita. «E perché mai avrei dovuto? E, soprattutto, come avrei fatto, scusa? Con la magia, forse?» chiedo. Be’, la sua risposta se possibile mi spiazza ancora di più.                                                                                                                                                    
«Pesavo di sì, l’odore si sente da metri di distanza».

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Capitolo 2
*** Cacciatori Stregoni ***


2. Cacciatori e Stregoni

Oh cazzo. Oh grandissimo cazzo. Facciamo un breve riepilogo: sono scesa in cantina e ho trovato un perfetto sconosciuto accovacciato sul pavimento. E che sconosciuto: alto, muscoloso come il David di Michelangelo, capelli corvini leggermente lunghi, labbra sensuali e due occhi blu come l’oceano. O il cielo di notte, quello che preferite. Resta il fatto che sia sexy, dannatamente sexy. Unica pecca: è ricoperto dalla testa ai piedi di armi e questo mi mette un pochino di ansia, se devo essere sincera. Oltre al fatto che parla di magia come se fosse la cosa più naturale di questo mondo. Ma con tutti i malati mentali che ci sono in giro, proprio un invasato di magia doveva intrufolarsi senza permesso in casa di mia nonna? Oh Dio, mia nonna! Perché quella vecchiaccia non mi hai ancora urlato dietro per chiedermi dove sono finita? Dove diavolo sparisce quelle rare volte in cui serve? Avrebbe giusto una cosuccia piccola piccola da spiegarmi, ad esempio che accidenti è quella rientranza nella parete che certamente fino ad un’ora fa non c’era. Almeno credo.                                                                                                                     
Alec, il ninja intruso, mi fissa come se ciò che ha appena detto fosse una cosa ovvia.                                  
«Ma  sei scemo? O ti sei fumato qualcosa di illegale in qualche pub di scellerati prima di piombare qui?» Ecco, brava cretina. Un applauso a quell’unico neurone che abita nel mio cranio e che ha appena firmato la mia condanna a morte. Lui invece ghigna come se la mia battuta l’avesse illuminato su un qualcosa di particolarmente piacevole (e sollevante?) per lui.                                               
«Una mondana, eh?»                                                                                                                                      
«Scusa? Una che cosa?» Che fa questo, mi insulta? Lui mi ignora bellamente (sai che novità) e mi afferra per il braccio destro, trascinandomi davanti alla cavità.                                                                                                                             
«Ehi!» esclamo sfuggendo via dalla sua presa. Spalanco la bocca davanti all’evidenza: nel muro c’è un buco. Un grosso buco. Abbastanza da riuscire a stare entrambi in piedi senza sbattere la testa. Ok, anche lui da solo, il suo metro e novanta batte il mio e settantacinque uno a zero senza fatica. Le pareti saranno alte poco meno di due metri, perché i suoi capelli sfiorano il soffitto impregnandosi di una leggera polverina bianca. Sul lato destro ci sono vari ripiani, che più che scaffali assomigliano a delle assi di legno a malapena levigate. Anzi, no: sono esattamente delle assi, e per nulla levigate, ora che guardo meglio. Alcune sono piene di libri vecchi che sembrano sul punto di cadere in briciole da un momento all’altro, su altre invece ci sono solo pochi fogli e papiri vari. Su tutte c’è almeno un centimetro di polvere. Oh be’, sempre meglio di due. L’altra facciata però sembra più interessante: è tappezzata di mensole ed è piena di polvere come la prima, ma al posti di tutta quella carta ci sono decine e decine di bottiglie e bottiglie di ogni forma e colore. Avvicino il viso per guardarne una grossa e trasparente dalla forma panciuta e per capire cosa c’è dentro. Sembrano delle piccole palline bianche, come…                                                                                                           «Aaaahh!» Prima che possa finire di urlare, Alec mi circonda la bocca con un braccio e sibila per dirmi di fare silenzio. Il mio respiro accelera all’impazzata e mi aggrappo alla prima cosa che trovo. Il suo braccio, quindi, che cerca di tenermi ferma.                                                                                                                                        
«Adesso ti lascio andare ma tu devi smetterla di urlare, ok? Promesso?» mi chiede. Annuisco in fretta, con gli occhi sbarrati. Lo sento stringermi la vita, per paura che io possa svenire. Cosa che potrei fare, visto che il contenuto di quella bottiglia sono…                                                                                
«Occhi! Quei cosi sono dei disgustosissimi occhi viscidi! E si muovono!» esclamo disgustata, senza staccare lo sguardo da una di quelle piccole schifezze che adesso si è girata, rivelando una piccola pupilla gialla a fessura.                                                                                                                                            
Lui li fissa con indifferenza, per poi riprodursi in una leggera smorfia infastidita. «È meglio se non sai di cosa» dice macabro, tirandomi via da lì. Da quello che ho visto in quel nanosecondo prima che mi salissero i conati di vomito sembravano occhi di un qualche rettile, ma non ne sono del tutto certa. Non che ci tenga particolarmente a dare una seconda occhiata, una mi basta e mi avanza per il resto della vita, grazie. Anche perché non credo che Alec sia così propenso a lasciarmelo fare. A proposito… invece che alle bottiglie, la sbirciata la rivolgo verso di lui, che naturalmente mi becca con le mani nel sacco. È di nuovo in posizione completamente eretta e tiene lo sguardo fisso su di me, non del tutto sicuro che io non possa ancora svenire o ricominciare ad strillare.                                                                                                                                                     
«Tutto bene?» chiedo. Al massimo dovrebbe essere lui a chiedermelo. E infatti…                                                 
«Sì. Tu, tutto bene?»                                                                                                                                        
Annuisco, passandomi una mano sulla faccia e prendendo un bel respiro. «Sì, credo. Dammi ancora un attimo, per favore».                                                                                                                 
Fa un cenno con la testa, mentre io mi chino sulle ginocchia, e si avvicina alla parete incriminata. Con la coda dell’occhio lo vede estrarre la bacchetta di vetro che teneva in mano anche prima e disegnare uno svolazzo colorato, agitandola proprio come un mago.                                                        
«Puoi girarti adesso» mi chiama, sfiorandomi il gomito e fissando gli occhi nei miei. Ci potrei annegare, dentro tutto quel blu; altro che quelle pupille gialle malefiche. Brrr, solo al pensiero mi vengono i brividi. Lentamente, resistendo alla tentazione di fuggire via, mi volto verso il fondo della cavità e resto a bocca aperta. Davanti a tutte quelle boccette adesso c’è una specie di patina che si muove a rilento, all’apparenza come se fosse fatta d’acqua, che sfoca tutto quello che c’è dietro pur lasciandolo intravedere. Come una barriera per impedire di vomitare per il voltastomaco.                                                                                                
«Ma che cosa sei tu? Un mago?» chiedo sorpresa, allungando un braccio e guardandolo sfocarsi dietro quella patina. Lo ritraggo, rivolgendomi verso di lui.                                                                    
«Uno Stregone, al massimo - un sorriso gli illumina il volto come un breve lampo, forse per un ricordo felice che deve collegare a quella parola – Ma comunque no, neanche quello. Sono uno Shadowhunter, un… »                                                                                                                                             
«Un cacciatore d’ombre. O di mostri, se la parola è usata in senso figurato».                                                
Mi guarda con un sopracciglio sollevato, cercando comunque di nascondere la sorpresa. Ti ho colpito, eh? Sarà anche inglese, ma frequento un liceo linguistico e, modestamente, è la lingua in cui vado meglio. Forse anche l’unica in cui vado bene.                                                                                      
«Demoni, se vogliamo essere precisi. Ma sì, ci hai azzeccato, brava».                                                             
«Cos’è quello?» domando, indicando il bastoncino trasparente con un cenno del capo. Per tutta risposta me lo agita davanti al naso, producendo una scia luminosa, che però non compie nessun incantesimo o strana magia.                                                                                                                        
«Uno stilo. Serve per concentrare i poteri delle rune» lo muove verso la barriera della parete e subito un disegno di linee contorte ed intrecciate si illumina per pochi secondi. Wow, e io che pensavo scherzasse, questo fa sul serio. «Perché hai sorriso prima?» gli chiedo sorridendo anch’io. E così tenero quando lo fa, sembra molto più… rilassato, meno teso. Di colpo arrossisce. Ecco, ho parlato troppo presto.                                                                                                                              
«S-stavo pensando ad una persona, Magnus. Magnus Bane». Come se si dovesse nascondere dopo aver rivelato un segreto di stato si accovaccia di nuovo al suolo, nella stessa posizione in cui l’ho trovato poco fa. Cielo, sembrano passate delle ore, chissà cosa starà pensando mia nonna. È molto strano che non mi abbia ancora chiamato, ma di certo non sarò io a preoccuparmi di tornare in cucina. E soprattutto non lascerò Alec qui in cantina. Si avvicina alla terza parete, quella di sinistra, che è completamente vuota.                                                                                                           
«C’è qualcosa che non quadra» sussurra, camminandoci davanti in su e in giù e tenendoci lo sguardo fisso sopra.                   
A me sembra un normale muro bianco, per quanto possa essere normale un muro sbucato dal nulla» minimizzo con un gesto della mano. In pochi secondi, però, Alec tira fuori lo stilo con uno scatto e disegna rapido una runa  sulla vernice. Come se stesse riemergendo da una nuvola di fumo, in mezzo a tutto quel bianco compare una piccola porticina quadrata tutta arrugginita. Si alza con un sorriso trionfante. «Ah! Te l’avevo detto che mancava qualcosa».                                          
Approfittando del momento di distrazione, tiro fuori la domanda che mi ronza da un po’ nel mio piccolo cervellino: «Chi è Magnus?»                                                                                                              
Il suo sorriso scompare, cedendo il posto ad una maschera di puro terrore. «Il Sommo Stregone di Brooklyn» risponde in fretta. Troppo in fretta, per i miei gusti. Di certo il ragazzo non sa mentire.                                                                                  
«E… » lo spingo a continuare con un ghigno sornione. La sua faccia cambia colore dal pallido stile cadavere al verde della nausea fino al rosso. Oh-oh, rosso. Dopo dieci secondi buoni trascorsi a boccheggiare risponde: «Il mio compagno». Poverino, sta per mancargli il fiato. Meglio approfittarne allora.                                                                                                                                            
«Il tuo compagno… d’armi?» chiedo con aria innocente. Se possibile, pass dal rosso al viola. Questo vuol dire che esiste davvero un compagno d’armi, e che deve avere un ruolo bello grosso in tutta questa storia.                                                                     
«N-no, no. Il mio compagno d’armi è Jace!»                                                                                                   
«Quindi hai anche un compagno d’armi» ripeto, giusto per rilassarlo un po’. Che è quello che succede. Povero caro, pensa di avermi depistato. Oh, ma quanto si sbaglia.                                                   
«Si chiama Parabatai» spiega, già più a suo agio.                                                                                         
«Parabatai. E mi stavi dicendo che questo Magnus è il tuo compagno di…?» Boom, sganciata la bomba. Accidenti, sembra che voglia scoppiare. Prima di domani mattina forse ce la faremo.                          
«Il mio compagno, il… il mio fidanzato». Tira un lungo sospiro, come se avesse lasciato cadere un macigno di due tonnellate dalle spalle. Ah-ah! Lo sapevo io, lo sapevo che era qualcuno di importante!                                                                             
«Tu sei gay?!» esclamò sorpresa. La sua faccia ritorna prima rossa, poi si fa improvvisamente seria. 
«E allora? È forse un problema?» chiede con tono di sfida.                                                                          
«Assolutamente no, ma non me lo aspettavo. Non ne hai la faccia». Lui sbuffa, spostando una ciocca di capelli neri dagli occhi. Gli rivolgo il migliore dei miei sorrisi, anche per nascondere un pizzico di delusione, lo ammetto.                                                                                                                   
«Perché stavi pensando proprio a lui, scusa?»                                                                                                 
Alec si passa una mano tra i capelli. Ha proprio l’aria di un innamorato, in effetti.                                   
«Vedi, gli Stregoni si differenziano dai Mondani, ovvero gli umani come te, e dagli Shadowhunters per alcune caratteristiche fisiche, che variano per ognuno di loro. Magnus… be’ vedi, lui ha gli occhi da gatto. Dorati e verdi» aggiunge con aria sognante.                                                                               
Mi fermo un momento a pensare come sarebbe avere gli occhi da gatto e poi…                                                
«Ma che figo! Ma proprio da gatto? E quando ha paura gli si allargano le pupille?» chiedo eccitata.                                         
Mi fissa un po’ confuso. «Ehm, no, quello no. Sono delle semplici fessure».                                              
Meno male, perché in tal caso mi avrebbero fatto un po’ effetto, ad essere sincera. Ma questo me lo tengo per me.                                                                                                                                            
«Be’… un giorno dovrai presentarmelo, sappilo. Ma per adesso, occupiamoci di quella porta».                   
Mi guarda con la bocca spalancata, poi, come ricordandosi quali siano i suoi compiti, porta di nuovo tutta la sua attenzione al passaggio ossidato. Prova ad afferrare la maniglia, ma come prevedibile quella non si apre. Perciò, afferrato lo stilo, disegna una piccola runa nell’angolo in alto a sinistra.                                                                                                                                     
«Runa del Silenzio» spiega concentrato senza staccare gli occhi. Poi passa al centro del pannello, dove ne disegna una molto più grossa. Appena l’ha finita, si alza di scatto.                                           
«Giù!» urla e mi si getta addosso, schiacciandomi contro il pavimento. In meno di tre secondi un pezzo quadrato di ferro arrugginito ci vola sopra le teste, andando a sbattere contro la parete di fronte e buttando giù un paio di libri. Tutto senza il minimo rumore.                                                             
«Fammi indovinare – sbuffo da sotto il suo petto – Runa dell’Esplosione?»                                                                  
Lui sorride con aria complice. «Già». Si alza con un unico movimento felino e mi porge una mano per aiutarmi, che accetto con una smorfia. Diciamo che tutti quei muscoli non sono leggerissimi.   «Non è che potresti insegnarmi la prima? Sai, sarebbe perfetta per tornare a casa la notte all’ora che mi pare senza svegliare nessuno» domando controllando di avere ancora tutte le ossa della schiena intere.                                                                                                                                          
Sorride divertito. «No, non credo».                                                                                                               
Alzo le spalle in risposta. «Peccato, sarà per un’altra volta».                                                                            
La porta saltata per aria giace a terra, ancora incredibilmente intera. Dal buco che ha lasciato adesso si intravedono delle altre pareti bianche e la rampa di una scala. Arrugginita, ovvio. Alec si accovaccia e attraversa senza esitare, guardandomi poi per invitarmi a fare lo stesso.                                   
«Allora, vieni o resti lì?»                                                                                                                                
Ok, non è che abbia tutto questo grande coraggio, ma non riesco a resistere. «Certo che vengo» rispondo infilandomi a mia volta nel passaggio.                                                                                          
Il soffitto è altissimo e, secondo i miei primitivi calcoli, ciò è una cosa alquanto anormale. Per il semplice fatto che, in linea d’aria, non solo dovrebbe uscire fuori dalla cantina, ma anche superare la soffitta. E questo è semplicemente impossibile, mi rifiuto di credere a una cosa come questa. Tutto ma non questo. Nello spazio sotto la scala c’è un sacco di sporco e una macchia scura, come di un liquido ormai seccato e ce ne sono dei piccoli schizzi anche sui muri. Faccio un paio di passi per guardare meglio, quando…                                                                                                                   
«No – mi ferma Alec, trattenendomi per un braccio – Non ti avvinare». Ha uno sguardo serio e questo non mi piace per nulla.                                                                                                                         
«Perché?» chiedo con un vago sospetto. All’improvviso non sono sicura di voler sentire la risposta.                                     
«Vuoi davvero saperlo?» Appunto, dicevamo.                                                                                                
«È quello che penso io, vero?» Sento la nausea salirmi dallo stomaco, oh Dio che schifo….                            
«Sì, se credi che quello sia…»                                                                                                               «Sangue».                                                                                                                                                   
«Già».                                                                                                                                                           
«È di animale?» Ti prego di’ di sì, di’ di sì…                                                                                                    
Si china per controllare, ma noto lo stesso che ha in faccia l’espressione di chi sa già la risposta. E non è positiva.                    
«No». Mi guarda preoccupato, in attesa della mia reazione. Quindi quel sangue non è di un animale… Bene, questo vuol dire che è di… che è di… Oh cazzo, adesso svengo, me lo sento. Forza Rebecca, resisti, non fare la figura della mollacciona. Oh no, oh no, perché gira tutto? Fissa un punto, qualcosa di stabile… Alec, fissa Alec, i suoi occhi…                                                                         
«Rebecca! Ehi!» Lo vedo correre verso di me e avvolgermi la vita con un braccio per sostenermi, mentre tutto si fa buio.

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Capitolo 3
*** Scoperte Agghiaccianti ***


Ultimo capitolo genteee!! Per quelli che hanno seguito questa storia (grazie mille!) avrei una piccola richiesta: sì, esatto, una recensioncina piccina piccina, ma oltre il capitolo, riguardante più che altro la storia in generale, per sapere giusto cosa è piaciuto e cosa no. Grazie mille a chi lo farà e a chiunque abbia letto/ricordato/preferito/seguito anche solo un capitolo di questa storia! Grazie <3

 

3. Scoperte agghiaccianti

Sono morta. Sono morta e quest’angelo meraviglioso che mi sta sopra deve essere venuto per aprirmi le porte del Paradiso. Allora ce l’ho fatta, non sono stata così cattiva in vita. Assurdo. Accidenti che begli occhi che ha questo angioletto, così blu, così profondi… non ho ancora ben capito se ne ha due o tre, girano un po’ troppo per i miei gusti. Aspetta un attimo… io questi occhi li conosco… anche quei capelli neri così morbidi e leggermente lunghi… Ha un viso così dolce e preoccupato… e un’espressione un po’ isterica che lo rende incredibilmente femminile… Femminile? Perché è così femminile? Non faccio in tempo ad arrivare alle conclusioni che un altro paio di occhi si affaccia nel mio campo visivo. E non mi piace per niente, assomiglia ad un altro paio che ho già visto, ma non ricordo esattamente dove. Sono due occhi grandi e dorati, come quelli di un gatto… in effetti sono anche stretti a fessura. Mmm, fessura… ma dov’è che ho già visto degli occhi così? Aspetta, aspetta… in una bottiglia! Sì, in una bottiglia verde! All’improvviso la loro immagine mi colpisce come uno schiaffo e…                                                                                                 «Aaaahh!» Urlo. Come al solito. Urlo con tutto il fiato che ho nei polmoni e magari già che ci sono vado a chiederne ancora un po’ al vicino.                                                                                                       
«Almeno sappiamo che è viva» dice una voce non ancora ben identificata alla mia sinistra con un tono divertito.                                                                                                                                      
«Magnus!» sento esclamare la voce di Alec.                                                                                                   
«Alec!» grido io. Non appena lo individuo alla mia destra, mi getto fra le sue braccia e tremo come una foglia. Avverto le sue dita sfiorarmi la schiena, indecise, e poi stringermi forte. Una terza mano mi accarezza i capelli e una confortante sensazione di tranquillità mi pervade in pochi istanti.                                                                                                                                
«Tutto bene?» mi domanda lo sconosciuto. Annuisco automaticamente, prima di passare ad esaminarlo. Ha i capelli neri come quelli di Alec, ma invece di allungarli indietro come ha fatto lui, li ha tirati verso l’alto con il gel. I suoi tratti hanno un accenno asiatico, come indicano gli occhi a mandorla ricoperti di glitter bronzo. Oh Dio, i suoi occhi. Sono quelli di un gatto, sono proprio come quelli di un gatto! D’istinto mi allontano, arretrando verso Alec, fino a saltargli in braccio.                                                                                                                                         
«Alec? Alec? Chi diavolo è lui? Anzi, cosa diavolo è lui?» chiedo terrorizzata. L’immagine degli occhi nella bottiglia mi riempie la mente e non sembra volersene andare. Lo sconosciuto sembra offendersi, poi però ci ripensa e comincia a ridacchiare.                                                                                   
«Ehm, Rebecca, ti ricordi quando ti parlato di… del… del mio fidanzato? - diventa tutto rosso e impiega circa una decina di minuti per mettere insieme una frase coerente – Be’, è proprio lui». Magnus mi saluta facendo ciao ciao con la mano. «Magnus Bane, Sommo Stregone di Brooklyn ai tuoi servizi. O almeno a quelli di Alec» aggiunge lanciandogli un’occhiata maliziosa. L’altro inizia a balbettare e si tira in piedi, per poi offrire una mano entrambi e sollevare anche noi.                                                    
«Piacere, credo - rispondo io titubante – Giusto per sapere, per quanto tempo sono rimasta sdraiata su questo pavimento gelato?»                                                                                                       
Lui scoppia a ridere. «Mezz’ora circa. Fiorellino, questa ragazza già mi piace. La adottiamo?» chiede con un’aria da cucciolo sul punto di scoppiare a piangere. Il Cacciatore sbarra gli occhi e lo fissa come se fosse uscito di senno. Cosa che in effetti…                                                                                                            
«Chi è fiorellino?» li interrompo io.                                                                                                                                       
«Nessuno!» risponde Alec in fretta. Anche troppo.                                                                                        
«È il soprannome con cui lo chiamo nei nostri momenti… privati» ribatte Magnus con un’espressione complice. Prima di scoppiare a ridere provo a immaginarmi la scena: il forte Shadowhunter torna a casa da una lunga giornata passata ad uccidere mostri a destra e a sinistra e il Sommo Stregone, che è intento a tirare fuori dal forno una crostata alle pesche, lo saluta chiamandolo fiorellino. Ora posso ridere.                                                                                            
«Non ci credo! “Fiorellino, il potente Shadowhunter” presto al cinema! Oh, non ho mai riso così tanto!» La scena dev’essere comica, perché anche Magnus ricomincia a ridere, fino a lasciar scendere delle lacrime. Alec invece non sembra prenderla sul comico, proprio per niente.                            «Avanti amore, stiamo scherzando» lo consola lo Stregone, attirandolo a sé per la vita e baciandolo a tradimento. Prima che l’altro possa protestare, cosa che sembrava del tutto intenzionato a fare, lo lascia andare, tornando a rivolgersi verso di me.                                                                                       
«Ti piacerebbe se ti adottassimo?»                                                                                                          
Adesso tocca a me spalancare la bocca dalla sorpresa. Prima che io possa rispondere qualcosa, però, Alec interviene, dando a me il tempo di riprendermi e tirando via Magnus dalle sue fantasie.                                                                                                                                 
«Credo che abbia già un paio di genitori, non trovi?»                                                                                       
La mia risposta li lascia entrambi spiazzati. «In realtà sono orfana. I miei genitori sono morti undici anni fa e da allora vivo con mia nonna. Che non è di certo una bella vita» aggiungo seccata. Nessuno dei due sa bene cosa dire, finché il più alto (ovvero Magnus, e di parecchio, anche se Alec fa già la sua bella figura) non batte le mani eccitato ed esclama rivolto al fidanzato: «Vedi, è perfetta!»                                                                                                                                          
L’altro lo guarda sconvolto. «Ma sei senza cuore! – gli grida – Mi dispiace» dice poi. Io alzo le spalle, in un gesto di noncuranza. «A me dispiace solo che mi abbiano abbandonato con quella vecchiaccia, per il resto non me li ricordo affatto».                                                                                          
«Be’, d’ora in avanti saremo noi la tua famiglia, se per te va bene – afferma sicuro Magnus prendendomi per mano – E tu non ribattere, tanto so che l’adori anche tu» dice ad Alec con il tono di chi sa già di aver vinto la sfida.                                                                                                                   
Alec lo guarda disperato: «Sai che non è così facile».                                                                                     
All’improvviso mi appare la realtà davanti agli occhi: mi stanno offrendo una via di fuga. Mi stanno proponendo di andarmene con loro e lasciare questo posto e quella pazza di mia nonna per non tornare più. Potrei gettarmi tutto alle spalle e ricominciare.                                                                          
«Ti prego, Alec! Ti supplico, non ne posso più di vivere qui, con quella donna orribile che passa il tempo a dirmi cosa fare e a urlarmi dietro. Per favore, farò qualsiasi cosa, ma portatemi via da qua, se potete». La mia supplica lo sciocca, lo vedo titubare e potrei quasi dire di sentire il suo cervello sfrigolare. «Se davvero è quello che vuoi, farò tutto ciò che è in mio potere. E con l’aiuto di Magnus non dovrebbe essere difficile, ma non garantisco nulla».                                                                           
Sto per andarmene, sto davvero per andarmene da qui. Accidenti, stanno succedendo tante di quelle cose in così poco tempo che non riesco ancora a rendermene conto. Poco più di due ore fa ho trovato uno sconosciuto in cantina che trafficava con un buco nel muro e adesso lui e il suo fidanzato mi stanno chiedendo se voglio lasciare tutto e andare via con loro. Non so con quale coraggio io stia facendo questo, ma non posso assolutamente tirarmi indietro, anche se quasi non li conosco. Il solo pensiero mi stordisce e Magnus se ne accorge subito.                                                           
«Ehi, tutto bene? Ti sembra di nuovo svenire per caso?» chiede allarmato. Io nego con la testa e gli occhi pieni di lacrime.                                                                                                                               
«Ah, ho capito. Sei emozionata per quello che ti abbiamo chiesto, vero?» intuisce in un secondo. Non finisco neppure di annuire che subito mi lancio addosso ad entrambi, avvolgendoli in un abbraccio pari a quello di una piovra e scoppiando a piangere. Vedo Alec strofinarsi un occhio di nascosto e tirare un paio di colpi di tosse.                                                                                                   «Non ti sarà facile inserirti nel nostro ambiente, ma adesso non pensiamoci. Vediamo di chiudere questa storia, piuttosto» con il pollice indica il buco nel muro.                                                                   
«Te la caverai alla grande – mi sussurra Magnus in un orecchio – E ci sono tante persone che ti aiuteranno per riuscirci al meglio. Noi compresi».

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