The world never wanted me

di were_all_dead_now
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Romance ***
Capitolo 2: *** 1.1 - Alone Together ***
Capitolo 3: *** 1.2 - Clown ***
Capitolo 4: *** 2 - Teenage Riot ***
Capitolo 5: *** 3 - Skylines ***
Capitolo 6: *** 4 - Space Oddity ***
Capitolo 7: *** 5.1 - Jersey ***
Capitolo 8: *** 5.2 - Luna ***
Capitolo 9: *** 6 - Sinking down ***
Capitolo 10: *** 7 - Believe (in Us) ***
Capitolo 11: *** 8 - Confronting my Fears ***
Capitolo 12: *** 9 - Melt your headaches ***
Capitolo 13: *** 10.1 - Quiet is Violent ***
Capitolo 14: *** 10.2 - Shoreline ***
Capitolo 15: *** 11 - The kids from Yesterday ***
Capitolo 16: *** 12.1 - Symphony Part III ***
Capitolo 17: *** 12.2 - Swimming Pool ***
Capitolo 18: *** 12.3 - Teo Torriatte ***
Capitolo 19: *** 13 - Okay, I believe you. ***
Capitolo 20: *** 14 - crown of Love ***
Capitolo 21: *** 15 - Love Song ***
Capitolo 22: *** 16 - How it's going to be ***
Capitolo 23: *** 17 - Passive aggressive ***
Capitolo 24: *** 18.1 - Last Night ***
Capitolo 25: *** 18.2 - stage 4 fear of trying ***
Capitolo 26: *** 18.3 - De brevitate vitae ***
Capitolo 27: *** 19 - Batter up ***
Capitolo 28: *** 20 - guilttripping (1) ***
Capitolo 29: *** 21 - guilttripping (2) ***



Capitolo 1
*** Romance ***


INTRODUZIONE
Salve salve! Prima long, ma bla bla... Questo capitolo è solo un'introduzione. Non vi è lo sviluppo della trama, in alcun modo. Però conto di pubblicare il primo capitolo (quello vero e proprio) a breve. Per quanto riguarda la trama, appunto, non ho molto da dire. Il genere del racconto in sé, invece, è un pò particolare, molto introspettivo, e lo noterete ampiemente man mano che i capitoli prenderanno forma. 
Le cose importantissime: il titolo della storia l'ho preso da una canzone di Frank, che è indescrivibilmente meravigliosa; il titolo dell'introduzione corrisponde con il titolo della prima canzone del primo album dei My Chemical Romance. E siccome anche loro, scegliendo il titolo, hanno fatto schifo in quanto a fantasia, io ho deciso di accodarmi.
Stronzate a parte... spero che la storia vi piaccia e che questa indroduzione un po' di passaggio non vi dissuada dal continuare a leggere. Ci si rivede. (LeRecensioniSarebberoCarinissimeDaParteVostra).  See ya.    -Claud


ROMANCE. 

And I find it kind of funny, I find it kind of sad. The dreams in which I'm dying are the best I've ever had. (Mad World)



Quando vai a scuola, nessuno ti insegna mai a vivere.

Io avrei saputo risolvere un logaritmo in pochi secondi, ma avevo paura di chiudere gli occhi e restare da solo con me stesso.
La notte stavo a letto con lo sguardo perso nel buio della mia camera e mi chiedevo cosa volesse dire avere diciassette anni, e se io lo stessi effettivamente facendo bene.
Eppure la mia vita non mi è mai sembrata un grande successo.

Sono nato la notte di Halloween di parecchi anni fa e non sono mai stato bravo a football. Il mio iPod passava solo i Misfits, e ancora oggi ricordo quant’è fastidioso l’odore all’interno degli armadietti se ci stai chiuso per ore.
Mamma, ai miei occhi, ha sempre avuto un sorriso bellissimo. Mi scorrono ancora in mente, come le scene di un film, quei lunghissimi secondi in cui la vidi piangere per la prima volta.
Quel giorno tornai a casa in condizioni pessime, perché alcuni ragazzi più grandi mi avevano picchiato più del solito, e quando mamma mi vide, si portò le mani a coprire la bocca spalancata e poi mi corse in contro, gettandosi alle mie ginocchia. Nella mia ingenuità pensai che fosse una scena un po’ buffa. Oggi, con il senno di poi, mi sale una rabbia assurda pensando a come i ragazzi più grandi rubarono a mia madre le prime lacrime che versò in mia presenza.
 
Quella notte, ma anche tutte le successive, furono doppiamente spaventose; perché mentre mia madre cercava di disinfettarmi per bene la ferita sul labbro e mi mostrava imperterrita quel sorriso materno, io per la prima volta non riuscii a crederle.
Quella sera di tanti anni fa, mentre lei mi ripeteva che le cose sarebbero andate bene e che avrei trovato il mio posto nel mondo, io serrai le labbra e mi dissi che una madre non può sempre avere ragione.
Da quel momento in poi nessun sorriso fu rassicurante più di quanto le lacrime non fossero dolorose.
 
Almeno non finché non incontrai Gerard.
Se mi fosse stato chiesto di descriverlo, l’avrei descritto come colui che restituì un valore ai sorrisi malinconici di mia madre. E non è da poco.
Oggi, ovviamente, darei una definizione diversa. Ma ho scoperto che la vita non possono insegnarti a viverla perché le cose raramente rimangono invariate.
Se potessi, tornerei indietro a quelle notti insonni di tanti anni fa e scuoterei un po’ il me adolescente per dirgli che in realtà avere diciassette anni non significa un cazzo, se non quello che tu vuoi che significhi.
 
Io, oggi come oggi, sento di non avere più nulla. Cammino lentamente sull’asfalto bagnato, attorno a me solo la desolazione di un quartiere poco affollato nei minuti immediatamente successivi alla fine di un brutto temporale, e le mie ginocchia sembrano non volermi sorreggere.
Sono le undici di sera, ma per quanto mi riguarda potrebbero essere anche quelle di mattina.
Ho paura di tornare a casa e sapere che non ho la minima idea di ciò che ne sarà di me.
Perché ho perso tutto e mi sento ancora come chi è bravo in matematica ma non a vivere.
 
Non credo che la mia storia sia particolarmente importante, ma per me ha comunque significato tutto. Penso sia giusto così: nel mio piccolo mondo è stata speciale.
Ai miei occhi Gerard è più di ciò che potrà mai essere per altri.
E questa semplice costatazione rende i miei ricordi inestimabili e la mia storia particolarmente importante. Almeno per me.
 
Mi chiamo Frank. Questa è la mia storia.

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Capitolo 2
*** 1.1 - Alone Together ***


-  -   - 
Sono stata velocissima, grazie, lo so! No, comunque... ecco il primo capitolo. Lo so che è molto descrittivo e (forse) ai limiti del noioso, però che dire, mi serviva un capitolo d'entrata. Eccolo. Anche lunghissimo, per giunta (perdonatemi).
Per essere coerente, ho messo da parte l'originalità e, guardaguarda, si parla anche di Gerard.
Ora, parlando più seriamente, vorrei chiedervi di farmi sapere cosa non vi piace del capitolo, ed intendo letteralmente. Se vi è piaciuto tutto e volete recensire lo stesso, mi va più che bene, però mi sarebbe molto utile del feedback negativo, nel caso in cui ci fosse. Questo è tuttissimo. Un saluto, Claud.



CAPITOLO PRIMO - PARTE PRIMA 


 
I don't know where you're going, but do you got room for one more troubled soul?  (Alone together)



Quando conobbi Gerard avevo appena varcato la soglia dei miei 17 anni. Lui, invece, era uno di quelli che un’età non l’hanno mai avuta.
Lo capivi da come la sua fronte non si piegava in rughe ma i suoi occhi avevano già vissuto una vita intera. Da come le mani erano di un bianco candido, e morbide, ma quando sfioravano o maneggiavano un oggetto lo facevano con una precisione che puoi ottenere solo dall’esperienza. Se la vita non mi avesse ben piantato i piedi per terra, avrei creduto che Gerard fosse una specie di vampiro nel suo millesimo anno di età. Ma per fortuna (dicono) crescendo accumuli concretezza e oggettività. Io mi rifiuto di credere che possedere la consapevolezza che la nostra realtà sia l’unica esistente, e che le cose non vanno mai oltre ciò che sembrano, sia una fortuna.
 

In realtà io e Gerard ci incontrammo per pura coincidenza.
Quella mattina avrei dovuto essere seduto all'ultimo banco sulla sinistra della terza fila, ma certe mattine non hai proprio voglia di stare seduto in terza fila.
O in qualsiasi altra.
A Newark era tutto a grandezza d'uomo, e in 7 minuti a piedi arrivai con facilità al parchetto a metà strada tra scuola e casa, tenendo conto del poco tempo che avevo per fumare una sigaretta sulla mia panchina preferita.
Il parco non era particolarmente grande, però poteva dare l'impressione di esserlo perché si snodava soprattutto in lunghezza, e su tutto il perimetro del marciapiedi avevano deciso di piantare degli alberi alti parecchi metri.
Questa disposizione faceva sì che il vialetto in ciottoli che tagliava verticalmente il prato fosse separato dai parchi che invece stavano ai lati di esso.
 
La mia panchina era in una zona totalmente in disuso. Per gli altri era un posto di merda, ma ogni mattina quel pezzettino di paradiso ombreggiato mi appariva come una visione. Mi sedevo sul metallo arrugginito e di un verde scrostato e fumavo la prima sigaretta della giornata. A quell’ora generalmente non passava quasi nessuno di lì, ma in ogni caso e io e la mia posizione strategica facevamo in modo di non doverci imbattere in nessuno scocciatore.
 
A dire la verità ho mentito quando ho detto che il mio iPod passava solo i Misfits. Ascoltavo il rock e i suoi sottogeneri, andando anche oltre i piccoli confini del Jersey.
Quindi la mattina aspiravo il fumo su una panchina che si trovava in tutto un altro universo, mentre le cuffiette vibravano per il volume troppo alto del suono, e mi sentivo bene.
Mi sentivo come se quei dieci minuti fossero tutto ciò che di valore avessi.
Mi sentivo come se quella fosse la mia piccola rivincita nei confronti della vita.
 
Una mattina ci fu qualcosa di diverso.

Non so esattamente da cosa scaturisse, quali meccanismi del mondo fossero andati in altro modo rispetto alla quotidianità di praticamente sempre. Non so se un autobus avesse investito un cane e deviato la sua rotta; non so se quella mattina il negozio di caffè all’angolo fosse rimasto chiuso e avesse ceduto tutti i suoi clienti al bar che si trovava dall’altro lato del parco. Il motivo del cambiamento mi è ancora oggi sconosciuto, ma non gli effetti che quel cambiamento portò.
 

Arrivai al parco esattamente sei minuti dopo essere partito da casa, e nemmeno un minuto dopo potevo già vedere la spalliera della mia panchina che mi dava il buongiorno attraverso un cespuglio quasi del tutto appassito.
Quando mi sedetti e incrociai le gambe sul metallo umido, avevo già il pacchetto di sigarette e l’accendino in mano. Sapevo di non avere molto tempo, ma probabilmente influirono in buona parte anche l’abitudine e l’assuefazione da nicotina.
Non facevo mai molto, mentre stavo lì. A volte mi ritrovavo a fissare il vuoto, con la testa che si muoveva leggermente a ritmo di musica, ma di solito stavo in silenzio e aspiravo.
Passai buona parte della mia adolescenza ad aspirare. Ad assorbire.
Attivamente il fumo, passivamente tutta la merda che mi propinava la società, la scuola, chi credeva di potermi convincere che non sarei andato molto avanti, nella maniera in cui ero fatto.
Non smisi mai di essere in quella maniera.
 
In ogni caso quella mattina fu decisamente più movimentata del solito.
Dopo nemmeno due minuti sentii dei passi che scricchiolavano sulle foglie autunnali e non ebbi nemmeno il tempo di riprendermi dallo shock che qualcuno fosse al parco - ma soprattutto che qualcuno fosse proprio in quella zona del parco - che un ragazzo si sedette accanto a me, gettandosi quasi di peso.
Non potete capire quanto questa cosa mi turbò l’animo.
Legalmente non potevo reclamare alcun diritto sulla panchina, sarebbe stato da matti anche solo pensarlo; ma con gli anni inizi a maturare un certo senso di appartenenza ai luoghi, alle cose, e di rimando pretendi che quelle cose ti appartengano. Oggi so bene che nella vita non funziona così, che raramente puoi possedere ciò da cui sei posseduto. Che tu lo sia volontariamente o meno.
Però al tempo provai uno sconcerto inspiegabile.
Mi voltai verso quel ragazzo con l’espressione di chi ha appena ricevuto l’affronto più grande: era la mia panchina, in quella zona del parco che era per tutti la peggiore, e che la rendeva automaticamente ancora più “mia”, e soprattutto erano le 7:43 di mattina. Nessuno poteva sedersi accanto a me, sulla scrostatura arrugginita del verde, nei minuti della mia rivincita sulla vita, e pensare che io avrei semplicemente lasciato che accadesse.
 
“Ehi senti, me lo presti l’accendino?”
 
Lo fissai con la bocca leggermente aperta, osservandolo per la prima volta dopo svariati secondi in cui lo guardai solamente. La cosa che risaltava maggiormente era il contrasto tra bianco e nero, che sembravano gli unici colori di tutta la sua persona. Bianca, per meglio dire pallida, era la pelle del viso e quella delle mani, le sole parti visibili. Nero era praticamente tutto il resto.
Gli scarponcini con la punta consumata (che a rigor del vero si consumavano diventando marroncini), i jeans scuri che sembravano effettivamente dipinti a trama sulla sua pelle per quanto attillati, la maglia e la giacca di vestito che, invece, erano proprio nere. Nessun blu notte, cobalto, marrone scuro, verde petrolio profondo.
Nero.
Ma la parte migliore erano senza dubbio i capelli. L’unica certezza è che fossero lunghi. Il resto era lasciato al caso. Non avevano un taglio, una forma, una direzione; era evidente l’assenza di ogni tentativo nel sistemarli o acconciarli. Io pensai subito che, nella sfortuna, se avessi mai dovuto scegliere un compagno di panchina, mi sarebbe piaciuto averne uno con i capelli che non avevano nessun senso.
 
Lo guardai negli occhi, mi persi nel loro colore, e, come se destato da uno schiocco di dita, non mi importava più che la panchina si scrostasse per colpa del culo di qualcun altro.
Il ragazzo mi fissò per tutta la durata delle mie osservazioni e delle conseguenti riflessioni. Però non fiatò, e gliene fui grato. Non sembrò nemmeno assumere un’altra espressione rispetto a quella iniziale. Era come se la sua domanda fosse in realtà retorica, come se sapesse che io, l’accendino, alla fine gliel’avrei passato comunque.
Lo sfilai dalla tasca e lo poggiai sul palmo aperto della sua mano.
 
 
Fumammo insieme nel totale silenzio. Non era il silenzio di un appartamento sul traffico, e nemmeno quello di una classe durante un test. Era un silenzio vuoto. Nessun rumore di sottofondo, né in lontananza né nelle vicinanze. A volte si sentiva come soffiavamo via il fumo che ci scivolava via dalle labbra, ma quello, per me, era compreso nel silenzio. Perché nessuno dei due sembrava prestare attenzione ad altro se non alla persona al proprio fianco.
Per questo motivo mi resi conto che fino ad allora non avevo mai vissuto dei minuti che fossero durati così a lungo quanto quelli che avevo condiviso con quello sconosciuto. Fu come leggere un capitolo di storia senza farci realmente caso e poi trovarsi a sottolineare una riga che ti sembra invece la più importante del mondo.
Non so, è un po’ una similitudine del cazzo.
Mi sentii come uno che ascolta una canzone per la prima volta e lo capisce già dai primi quindici secondi che è destinata a diventare la sua preferita.
Io ebbi bisogno di diciassette anni per capire che non avevo ancora realmente iniziato a vivere la mia vita.
E lo capii proprio in quei secondi di silenzio.
 
“Non dovresti essere a scuola?”
“Sì.”
“E quando?”
 
Mi voltai a prendere il telefono dallo zaino e diedi un’occhiata all’orario.
 
“Dieci minuti fa.”
Lui rise, sbuffando dell’aria dal naso e alzando leggermente gli angoli della bocca.
Poi divenne gradualmente serio e si voltò verso di me. Io mi voltai immediatamente verso lui.
Fece un piccolo cenno col capo e si alzò dalla panchina. Mosse alcuni passi, ma io non dubitai nemmeno per una frazione di secondo che se ne sarebbe andato. Non so il perché, semplicemente ne ero certo. Fu come per la domanda retorica sull’accendino.
Poi tornò a guardarmi e mi sorrise, scostando leggermente le braccia dai fianchi e girando i palmi delle mani. Alzò anche le spalle con l’espressione di chi ha appena constatato un’ovvietà.
 
“Che fai? Non vieni?”
 
Ancorai lo zaino a una spalla e mi alzai di scatto.
Quella era decisamente una mattina in cui l’ultimo posto sulla sinistra della terza fila poteva passare in secondo piano. Perché io avevo smesso di attuare la mia rivincita sulla vita, e avevo iniziato a viverla.
 
 ~
 
Camminammo un po’ come avevamo fumato: in silenzio e con il peso della presenza dell’altro che gravava su ognuno dei nostri passi. Eppure era una sensazione tutt’altro che sgradevole.
C’era, nell’aria, quella totale assenza di imbarazzo che può esistere solo tra amici di vecchia data.
Più o meno era così che il mio corpo percepiva quel ragazzo. Era il più familiare tra gli sconosciuti.
 
Lui mi propose un caffè da Eder’s.
 
Il bar era di proprietà di un signore tedesco, conoscente di mia madre, che si era trasferito in America durante il periodo della guerra.
Spesso mi era capitato di essere con lei quando i due indugiavano a parlare un po’ più del solito, e in questo modo mi ero potuto fare un’idea più o meno vaga della sua storia e di quella della sua famiglia. Il nome di battesimo era Ernst, ma io ero così abituato a chiamarlo Signor Eder che nelle mie fantasie di bambino mi convinsi che anche la madre non lo chiamò mai con altro nome.
Mi convinsi anche che, un nome con così tante consonanti, non era di certo fatto per essere pronunciato.
Mr. Eder, però, la madre dovette abbandonarla quando decise di spostare la propria vita nei grandi e liberi Stati Uniti d’America. O almeno, dovevano essere decisamente grandi e liberi nella sua immaginazione, perché affittò un piccolo appartamento su un altrettanto piccolo locale e vi si trasferì trascinando con sé l’intera famiglia.
Quando da bambino ripensavo alla sua vita, mi rendeva felice sapere che la caffetteria fu un’attività che andò sempre discretamente bene, almeno tanto da poter compensare la delusione che doveva aver provato quando, per la prima volta, realizzò che l’America non era poi molto simile allo stato grandioso che aveva sempre immaginato nelle sue fantasie da immigrato.
 
Ma ognuno di noi ha delle fantasie.
Io, al tempo, mi limitavo a quelle bambinesche in cui la mamma di Mr. Eder si rifiutava di chiamarlo per nome di battesimo. Mr. Eder, a sua volta, si illudeva di poter raggiungere quell’ideale di vita perfettamente equilibrata che inseguiva da sempre.
Non so chi, tra noi due, rimase più deluso nel sapere che la realtà era ben lontana dai nostri sogni.
 
 
Accettai il caffè da Eder’s, ma solo a condizione di prendere il tavolo all’angolo che rimaneva nascosto dalla scala che portava al soppalco con i tavoli da pranzo.
 
“Il proprietario è un amico di famiglia. Non voglio che mi veda quando marino scuola.”
 
Il ragazzo rise soffiando arietta dal naso, come notai era solito fare praticamente ogni volta che aprivo bocca. Non penso che la cosa mi infastidisse più di tanto. Devo ammettere che mi incuriosiva dannatamente.
 
Ci sedemmo nel tavolo che poteva essere considerato un po’ la mia panchina nascosta all’interno di Eder’s. Lui ordinò un caffèlatte, e poi si voltò verso di me quando fu il mio turno di prenotare, e mi fissò mentre chiedevo alla cameriera di poter gentilmente avere una cioccolata calda fondente.
Quando la ragazza si allontanò dal tavolo, lui aveva ancora gli occhi puntati sul mio viso e io decisi che avrei giocato al suo gioco, e lo fissai a mia volta.
La scena, vista dall’esterno, doveva sembrare estremamente intrigante. Ma d’altra parte nessuno avrebbe potuto vederci alle otto di mattina, nel tavolo più remoto di una caffetteria non frequentatissima di Newark, mentre il resto della città era a lavoro.
E anche se avessimo avuto un pubblico di spettatori, né io né lui l’avremmo mai notato, visto il modo in cui sembravamo intenti a contare ogni pagliuzza e sfumatura che contrastasse con il colore dei nostri occhi.
I suoi erano di un verde caldo, che sembrava un po’ anche un marroncino con piccole zone color miele. In effetti non erano facili da definire. Sarà che ci affogavi dentro quando li osservavi per più di due secondi e risultava difficile concentrarsi sul loro colore.
Ma io mi presi il mio tempo, perché lui sembrava determinato a prendersi il suo.
E alla fine riuscii a risalirne a galla.
 
 
All’improvviso il ragazzo di fronte a me spostò i gomiti dal tavolo e raddrizzò la schiena, poggiandosi contro lo schienale della poltroncina a muro su cui eravamo seduti.
Qualche minuto dopo arrivò la cameriera con le nostre ordinazioni, e a quel punto non ne potevo più del silenzio. Volevo parargli, fargli mille domande. Sapere come mai conoscesse Eder’s anche se prima di allora non l’avessi mai visto a Newark; sapere come fosse arrivato in quello squallore che era il parchetto a Est e, soprattutto, come cazzo avesse scoperto la mia panchina; sapere anche il suo nome, magari.
Ma c’era una sola domanda che nessuno mi avrebbe dissuaso dal porgli. Perché bloccava tutte le altre e anche il flusso dei miei pensieri. Era un dubbio fastidioso come una spina, e dovevo liberarmene.
 
“Come mai hai voluto che ti prestassi l’accendino se ne avevi uno nel pacchetto di sigarette?”



~

(Feedback, vi prego. Siete bellissimi, ciao.)

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Capitolo 3
*** 1.2 - Clown ***


- - - - 
Il ritorno! Buon pomeriggio, raggi di sole. Immagino con quale trepidazione voi abbiate aspettato questo capitolo. Immagino...
In ogni caso, eccolo. La storia sta prendendo una forma propria, e non so se questo mi piaccia o meno. Ma niente, le cose vanno così e a volte non ho proprio la forza di oppormi al fato. Oltrettutto evito spesso di rileggere ciò che scrivo, per motivi personali. Spero che il capitolo vi piaccia comunque (o anche di più, perchè no). 
Ah, ovviamente, essendo una pippa, ho dimenticato il Disclaimer non per una, ma per ben due volte! Yey. Quindi lo inserirò in questo capitolo, che sarà il mio personale "meglio tardi che mai".
Questa volta nome (lì su) e frase (qui giù) li ho presi da una canzone dei Placebo. 
Ringrazio gli animi gentili che hanno dedicato alcuni minuti della loro vita alle recensioni dei precedenti capitoli. VVTB. 
Ci vediamo alla fine, -Claud.

 !  Disclaimer: I personaggi non mi appartengono, i fatti non sono realmente accaduti. Questa imponente e magnifica opera (anche no) è stata scritta senza alcuno scopo di lucro.  !



CAPITOLO PRIMO - PARTE SECONDA 


When I dream, I dream of your lips. 
When I dream, I dream of your kiss.              
When I dream, I dream of your fists.      (Pierrot the Clown)




... “Come mai hai voluto che ti prestassi l’accendino se ne avevi uno nel pacchetto di sigarette?”
 
 Sembrò quasi che la mia domanda fosse riuscita a spiazzarlo.
 
“Bhe, non è esattamente che ho voluto. Ti ho chiesto se potessi prestarmelo.”
“Non hai usato il verbo potere, tu hai –”
Sorrise ancora.
“Non puoi sul serio impuntarti sui verbi!”
“Tu hai detto, e cito testualmente: ‘Me lo passi l’accendino?’ E comunque non sono io quello che s’impunta sulle sottigliezze, quando sei stato tu a sviare la mia domanda concentrandoti sul verbo che hai usato.”
 
Questa volta non sorrise, piegò leggermente la testa da un lato e strizzò appena gli occhi.
Io notai subito come gli si illuminò lo sguardo, come se fosse stato attraversato da una scossa.
 
“Mi chiamo Gerard.”
 
Si sbilanciò di nuovo in avanti, arrivandomi molto vicino, e mi tese la mano. Gliela strinsi debolmente, a pochi centimetri dal tavolino di Eder’s, che quel giorno assistette al suggellarsi della nostra conoscenza.
 
Affannavo internamente mentre cercavo di sostenere il suo sguardo perforante…
 
“Frank.”
 
Bevemmo in tranquillità, sapendo che quella mattina il tempo non avrebbe applicato le sue regole ferree sulle nostre vite. Oziammo come se la terra aspettasse solo noi per ricominciare a ruotare.
E in un certo senso fu così.
Il ragazzo – Gerard – si alzò per primo e pagò per entrambi; io in ogni caso non mi sentii a disagio.
Dentro di me provavo, contemporaneamente, una sensazione di fiducia inalterabile, ma anche un certo senso di diffidenza.
Avrei seguito quello sconosciuto in capo al mondo, se me l’avesse chiesto, pur non smettendo mai di dubitare delle sue intenzioni.
 
Dopo la prima ora passata con lui, se avessi dovuto, gli avrei assegnato con determinazione un solo aggettivo: carismatico.
 
----------
 
Percorremmo a piedi praticamente tutte le vie più periferiche della città.
Non so se perché lui fosse abbastanza sveglio da capire che sarebbe stato rischioso, per me, farmi vedere al centro, oppure perché, supposi, provasse un vero e proprio fascino per le zone meno agiate.
La seconda ipotesi avrebbe spiegato come mai poche ore prima si trovasse nei pressi della mia panchina.
Ma anche come mai si trovasse bene in mia compagnia, che ero la persona dall’animo più indigente che avessi mai conosciuto.
 
 
Non so bene come, ma in qualche modo riuscimmo a prendere discorso e discutemmo del più e del meno. L’argomento comunque non m’importava poi molto.
A volte è più importante il modo in cui una persona decide di parlare di qualcosa che la cosa in sé.
 
Fu un dialogo tranquillo, nulla di trascendente o ai limiti del comprensibile. Era come se parlassimo unicamente spinti dal desiderio di riempire l’aria con qualcosa che non fosse il silenzio, dal piacere che provavamo udendo i suoni delle nostre stesse voci.
Io posi molte domande, alle quale lui rispose. Spesso senza rispondere veramente.
Aveva questa strana abilità di modellare il discorso a proprio piacimento, come se nella vita non facesse altro che fuggire da ciò che di spiacevole gli si presentasse davanti.
Però non rideva più poi così spesso: notai che smise persino di sbuffare dal naso.
I suoi occhi non erano più verdi e neppure marroncino al miele, e Gerard mi guardava attraverso una coltre di nuvole nere che gli aveva invaso lo sguardo.
Allora capii come mai non fossi mai riuscito a fidarmi del tutto, come mai avessi avuto delle remore quando si era trattato di abbandonarmi ai suoi modi sicuri.
 
Gerard era così insicuro da fare paura.
 
Non erano sorrisi sornioni, sbuffi di superiorità, o il saperci fare. Non era di certo carisma.
Forse lo era stato. A primo impatto, o per mia inesperienza. Ma adesso gli occhi verdi erano neri, e lo erano di paura. E improvvisamente non me ne fregava più nulla delle domande che lui scansava.
Avrei solo voluto abbraccialo. Ma sapevo che lui non avrebbe mai voluto lo stesso.
 
Ci fermammo di fronte a un piccolo negozio di libri, poi lui iniziò a parlare, fissando la vetrina.
 
"Quando ero piccolo ci venivo sempre. Portavano tipo, tutti quei libri che non avresti mai trovato in un posto normale. Se mi girava bene riuscivo anche a dissotterrare un fumetto o due da tutta la catasta di roba che non avevo mai sentito nominare prima. Il proprietario secondo me li leggeva tutti- intendo i libri. Erano quelli con le copertine un po’ rovinate… però non erano di seconda mano. Erano solo consumati, come se avessero viaggiato per tutto il mondo prima di arrivare qui.
E questa cosa mi ha sempre affascinato più dei libri stessi. A volte m’immaginavo anche la loro storia.”
Si voltò verso di me, e piegò le labbra in una specie di sorriso malinconico.
 
“Avrebbe potuto esserci l’edizione originale dell’Amleto e nessuno ci avrebbe mai fatto caso in mezzo a tutto quel casino.”
 
Ero convinto che avrebbe spinto la porticina in vetro e sarebbe entrato dentro.
Rivivere i bei vecchi tempi, pensai. Invece, detto questo, continuò a camminare nella direzione in cui eravamo diretti. Non un ulteriore sguardo alla vetrina, né un congedo.
Non credo si trattasse di superficialità. Credo, al contrario, che facesse decisamente troppo male tornare in certi luoghi del proprio passato.
 
“Poi cos’è successo?”
“Cosa?”
“Il negozio. Perché non ci sei più tornato?”
 
Lui corrugò la fronte e tirò le labbra verso sinistra.
 
“Si cresce.”
“E quindi?”
“Quindi arriva un momento in cui smetti di fare alcune cose e inizi a farne altre.”
“E tu cosa hai fatto dopo?”
“Sono andato al college. Mi sono lasciato la città alle spalle perché credevo di fare la cosa migliore. Non è sempre facile trovare il posto giusto, quando ti allontani dai posti in cui sei stato meglio. A volte devi provare e fallire.”
“Però ce l’hai fatta a tornare indietro.”
 
Gerard si voltò verso di me e fece spallucce.
 
“Non è necessariamente una cosa positiva.” – Disse.
E riprese il passo.
 
 
Camminammo per altri dieci minuti massimo. Lui fumò di nuovo, ma questa volta usò il suo accendino. Lo osservai di sottecchi mentre allontanava la sigaretta dalla bocca per buttare fuori il fumo e notai come il palmo della mano restasse completamente aperto mentre stringeva il filtro tra l’indice e il medio. Era un modo un po’ insolito di fumare, e le sue dita sembravano ancora più lunghe di quanto lo fossero in realtà, arrivando a coprire buona parte del viso.
Sfioravano impercettibilmente la piccola punta del naso e sembrava che non applicassero nessuna pressione sulla sigaretta, come se fosse semplicemente poggiata nell’incavo tra le dita.
Ogni suo gesto possedeva la stessa dose di calma e delicatezza e forse poteva apparire femmineo, un po’ come per il suo viso.
Gerard aveva dei lineamenti netti ma delicati, la pelle sembrava levigata ma appena sotto la mascella c’era qualche accenno di peluria.
Se non fossi stato consapevole della mia bisessualità, mi sarei sicuramente posto alcuni dubbi sul tipo di attrazione che provavo per il suo aspetto e per la sua persona.
Ma era un problema che non avrei dovuto affrontare: Gerard possedeva una bellezza singolare e io me ne beavo senza limiti.
 
Finì la sigaretta e sembrò improvvisamente a corto di tempo. Mi disse che doveva andarsene, ma non provò nemmeno a darmi un motivo. In fondo era ancora uno sconosciuto, non c’era motivo di giustificarsi con chi non sapeva nulla della sua vita.
A dire la verità, un po’ mi dispiacque vederlo allontanarsi e lasciarmi lì, in mezzo a un vicolo, da solo. Ma mi dissi che forse era meglio così; io dovevo comunque tornare a casa, e affrontare mia madre una volta confessatole che avevo mancato scuola.
 
Osservai mentre si allontanava con passi lunghi e fluidi. Poi mi diressi verso casa, chiedendomi se l’avrei mai visto di nuovo.
 
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L’ultima ora pomeridiana di lezione era quella di trigonometria e non finiva mai prima delle quattro. Poi calcolai che Mr. Harris si dilungava sempre quando iniziava a parlare di angoli e periodi, e me la presi comoda. Comprai della pizza ai funghi in una specie di bottega squallidissima e mi sedetti a mangiarla nei pressi della stazione. Sentivo il rumore altalenante dei treni che si avvicinavano e allontanavano, fumai anche una sigaretta ripensando automaticamente al modo in cui Gerard la portava alla bocca. Mi sentii un totale cretino quando provai a imitarlo e per poco non mi perforai un occhio con il polpastrello. Alla terza volta ci riuscii quasi a fare mio quel movimento, poi però mi resi conto che era inutile, perché nessuno sarebbe mai riuscito a eguagliare la spontaneità che ci metteva Gerard.
Pensai che ne sarebbe valsa la pena vederlo di nuovo, anche solo per farmi insegnare il metodo giusto.
 
 
Passai dal negozio di CD di Bob; non comprai nulla, come di regola, e poi mi preparai mentalmente per il ritorno a casa. Sapevo che mia madre non mi avrebbe rimproverato più di tanto, e soprattutto mai punito. Si fidava del mio buonsenso e io ero anche abbastanza diligente.
Però c’era sempre quel grande ‘e se…’. E cercai di farmi trovare pronto per quell’eventualità disastrosa:
E se mi avesse chiesto cosa avevo fatto per tutta la mattina e buona parte del pomeriggio?
 
Poi nulla. Tornai a casa. Le confessai di aver bucato scuola, di aver preso qualcosa da Eder’s e mangiato un panino all’incrocio sulla Commerce Street e di essere passato da Bob.
Dissi che ero stanco, ma che più tardi avrei dovuto fare un saggio per Scrittura Creativa, e prima di cena sarei andato con Mark a vedere le prove della band di un suo amico.
Avrei mangiato qualcosa con lui se si fosse fatto troppo tardi.
Un bacio veloce sulla guancia ed ero già nel letto a fantasticare un po’.
 

Non ebbi nemmeno il tempo di chiudere le palpebre, che la mia mente si riempì di occhi verdi e pallidissime dita lunghe.
Poi due labbra sottili che lasciavano scivolare fuori del fumo denso. E alla fine, nei secondi in cui sei in bilico tra la realtà e il mondo dei sogni, mi risuonò in mente una sola frase.
“Si cresce… e smetti di fare alcune cose.”
 
Mi chiesi quale evento avesse mai potuto far crescere in maniera così spaventosa un ragazzo poco più grande di me; poi ricordai il modo in cui gli si erano offuscati gli occhi, e dovetti ricredermi.
 
Il mio animo non era il più disastrato in cui mi fossi mai imbattuto.
Gerard, il suo, sembrava non sapere nemmeno da dove iniziare a rattopparlo.


- - - 

Solita supplica per un feedback negativo, in caso ce ne fosse.   Fatemi sapere cosa fa schifo.
Un sorriso, Claud.
-

 

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Capitolo 4
*** 2 - Teenage Riot ***


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Salve Salve. Nuovo capitolo. Un grazie speciale alle persone che hanno recensito fino ad ora.
Prevedo un ritardo epico nella pubblicazione del terzo capitolo, quindi leggete il secondo a rate o comunque fatevelo bastare per qualche giorno in più. Cazzate a parte: rileggendo velocemente, ho potuto appurare che la prima parte di quello che ho scritto è un poco lentuccia (e vi chiedo di sopportarla), mentre la seconda parte mi piace molto (ed è raro). Il mio stile varia in base alle situazioni e ai casini che ho intesta, ma soprattutto in base a ciò che leggo. Quindi suppongo di aver scritto in due riprese, al tempo.   Non ho molto da dire, se non che la storia inizia a prendere forma proprio da questo secondo capitolo, che è quindi abbastanza importante. 
La canzone è dei Sonic Youth. Il resto, come sempre, lo lascio a voi. Un saluto -Claud.

 

CAPITOLO SECONDO

Everybody's talking 'bout the stormy weather.  (Teenage Riot)

 

Quel pomeriggio fu uno di quei tipici pomeriggi durante i quali fai tutto ma non fai niente. Iniziai più o meno mille attività e non ne terminai nemmeno una. Il saggio per Scrittura Creativa era venuto fuori in maniera discretamente buona. Lo leggevi, e il testo sembrava scorrere bene; la lingua sembrava sbattere sul palato al momento giusto quando lo recitavi ad alta voce. Pensai che il contenuto non valesse nemmeno la metà di quanto valeva la forma. Un po’ come per l’Amleto di Shakespeare.
E sorrisi tra me.
 
Mark passò a prendermi decisamente non all’orario che mi aveva annunciato per telefono. Ma comunque a quell’ora io non ero nemmeno in procinto di prepararmi per uscire.
Quando il tuo migliore amico è un super ritardatario, ti conviene munirti d’ingegno e conformarti alla realtà.
 
La sua macchina era la cosa più ridicola del mondo.
Ford Granada, di un verde melma indescrivibile, fuori produzione da praticamente sempre.
La quarta o quinta volta che Mark uscì con la sua macchina appena rimessa in piedi, ci avventurammo per una specie di mini viaggio verso Nord. La nostra meta, implicitamente, avrebbe dovuto essere New York. Ma per fortuna nessuno dei due pronunciò mai questo pensiero ad alta voce, perché dopo 4 ore di strada fortuita arrivammo nella cittadina più sperduta di tutto il nord Jersey. E quello ci sembrò abbastanza, e anche un motivo sufficiente per tornare indietro.
Quindi la sera ci trovammo di nuovo a Newark, a ridere fino alla morte mentre riportavamo a galla i dettagli più assurdi del viaggio.
Quando hai 16 anni ti puoi permettere di arrivare chilometri più lontano di dove saresti voluto arrivare e comunque non perdere mai la speranza di raggiungere quel posto. Valeva per New York, ma anche un po’ per i nostri sogni.
 
Comunque la Ford color melma faceva un rumore diabolico che sentivi a così tanti isolati di distanza che avresti potuto iniziare a vestirti solo in quel momento, ed essere comunque pronto quando la macchina avrebbe parcheggiato di fronte casa tua.
Ma quello mi sembrava un po’ giocare sporco, infondo avrei potuto essere meno pigro di così. Almeno per il mio migliore amico.
 
Ovviamente si fece troppo tardi per poter arrivare a casa all’ora di cena.
Avevamo assistito alle prove della band, quel pomeriggio, e le mani quasi mi tremavano dalla voglia di fare parte di qualcosa di così speciale. Avrei voluto correre a casa, prendere la mia chitarra e dimostrare che anch’io possedevo quel qualcosa in più, che anch’io sentivo lo stesso ronzio in testa quando le mie dita si perdevano su quelle sei corde.
Il problema è che quei ragazzi mi erano quasi estranei. Li avevo incontrati due o tre volte in alcuni locali quando c’era qualche band che suonava, ma non avevo mai avuto modo di stare con loro in situazioni diverse.
Quella sera l’ambiente era decisamente più selettivo. Le mie capacità di socializzare non erano coadiuvate dalla birra, e sicuramente era molto più difficile prendere argomento o rientrare in un discorso, quando ero l’unico a non conoscere nessuno.
Passai la prima buona mezz’ora seduto compostamente su una poltrona a bere birra, mentre invece gli altri sembravano aver perso ogni forma di civilizzazione.
Almeno la metà di loro erano seduti sul divano con la testa in posti che non sono sicuramente fatti per poggiare la testa. Mentre l’altra metà era ammassata sul pavimento a giocare alla Play e strattonarsi.
E tutta quella situazione non mi metteva a disagio, tutto il contrario. Era un ambiente che sapeva di amicizia, di spontaneità, di sincerità. Loro non dovevano pensare due volte prima di dire una cazzata, oppure prendere un sorso di birra dalla lattina di qualcun altro. Io avrei solo voluto sentirmi a casa tanto quanto loro dimostravano di sentirsi.
 
Mentre eravamo seduti sul divano e dividevamo alcune pizze, mi accorsi di come Mark mi guardasse ogni tanto di sottecchi con un’espressione divertita. Probabilmente lo percepiva anche lui come ogni centimetro della mia pelle urlasse il mio bisogno di sentirmi integrato tra loro.
Poi finalmente lo capii: nessuno mi stava fermando.
Non so come mai non me ne fossi accorto prima.
Così smisi di pensare.
Il fatto è che a volte le cose sono così semplici da farci sentire in dovere di complicarle.
Mi sedetti accanto a Mikey che era rimasto da solo sulla moquette sporca a giocare e presi il joystick nero che era stato gettato alla rinfusa qualche centimetro più in là.
Lui mise in pausa il gioco.
Era seduto con la schiena curva e le gambe incrociate, strizzava un po’ gli occhi da dietro le lenti, perché evidentemente 3 ore di Call Of Duty dovevano stancare enormemente la vista, e dai buchi sulle ginocchia dei jeans uscivano due gambe ossutissime. Mi sembrò un po’ buffo.
Allora mise in pausa il gioco, si voltò verso di me con un’espressione così seria che pensai mi avrebbe preso a pugni da un momento all’altro. Invece mi sorrise. Nient’altro.
Si voltò, mi sorrise, riprese il gioco. Anzi, riprendemmo.
Durante i primi minuti mi dessi mentalmente del cretino perché, sul serio, bastava così poco. A diciassette anni non facevo altro che reclamare libertà, pensando a essa solo nelle sue forme più ovvie; ma mi facevo cieco quando avevo veramente la possibilità di cambiare le cose.
Vogliamo tutti una vita migliore e poi abbiamo paura dei cambiamenti.
 
 
Quella sera Mikey mi spacco il culo alla Play, Ray offrì la pizza per tutti, i suoni mi rimbombavano un po’ in testa per la birra che avevo bevuto.
Il viaggio di ritorno mi fece sentire come la nostra avventura verso il Nord, e quando tornai a casa crollai sul letto, distrutto.
Per la prima volta dopo mesi mi sentii bene.
L’unica immagine che ricordo, prima di cadere in uno tra i sonni più profondi di sempre, fu il viso di Gerard.
 
 ______________________________________________________
 
D’inverno la mattina fa un freddo fottuto in Jersey.
Newark non è mai un’eccezione. Quando uscivi da casa tre minuti più tardi del solito, pregavi solo di non aver perso l’autobus. Altrimenti era stare in guerra.
Se ti andava bene non beccavi la neve, allora potevi stringere i denti e tirare avanti. Ma con la neve era tutta un’altra storia. Dovevi stare attento a quella fresca, a quella ghiacciata, a quella tipo fanghiglia, e a quella sporca di terra e gas di scarico. Già al primo anno di liceo avrei potuto condurre uno studio approfondito sulle condizioni climatiche del New Jersey, capitolo Newark, sottoparagrafo “la neve del cazzo delle sette di mattina”.
Le altre opzioni ero agghiaccianti (letteralmente): neve e pioggia, neve e nevicata.
Erano praticamente le tipiche mattine nelle quali noi liceali ambientavamo tutte le leggende metropolitane che riguardavano i peggiori incidenti della storia.
Ma quelle erano solo fantasie.
Io la mattina dovevo sul serio camminare con temperature sotto lo zero e i piedi intorpiditi dal freddo.
 
Però era ancora Ottobre non inoltrato; la scuola era iniziata da poco e aveva ancora quella parvenza di luogo piacevole. Settembre era quasi volato. Dico ‘quasi’ perché, al tempo, era difficile che un mese passasse inosservato: trovavi sempre qualcosa da fare in autunno.
Io, oltretutto, iniziai a passare sempre più tempo con la band e Mark. Quest’ultimo iniziò anche a lasciarmi solo con loro, per stare un po’ con la propria ragazza, cosa che prima non accadeva mai, perché io non vi avrei mai acconsentito.
Legai moltissimo con Ray, subendo un po’ il fascino che i ragazzi più grandi emanavano, e poi perché era uno fortissimo. Ma non nel senso canonico del termine. Era forte perché non lo era.
Cioè, non agli occhi degli altri. Passavamo le ore a parlare di musica, di come suo fratello più grande, la sera prima, gli avesse fatto scoprire questa band che dovevo per forza ascoltare, di come i Black Flag avessero usato la sua stessa chitarra in un brano del loro ultimo album, ma soprattutto – e lo ricordo come uno tra i momenti più belli di sempre – di come anch’io sapessi suonare un po’, e di come avrei per forza dovuto fargli sentire qualcosa, la prossima volta che eravamo a casa sua.
Dal suo sorriso capii che a volte le cose belle non ti arrivano addosso con impeto, non ti stravolgono la vita, però sanno farsi ricordare, e, a modo loro, durano per sempre.
 
 
Quindi Settembre passò più o meno così.
La macchina di Mark non mi sembrava più poi così disastrata, Ray mi costrinse a suonare la sua canzone preferita dei Ramones  (e quasi mi abbracciò quando finii), casa di Bob divenne anche un po’ casa mia, oltre che casa di tutti gli altri, e poi c’era Mikey.
Era Ottobre e di Mikey non sapevo quasi nulla. Nel mese precedente aveva pronunciato sì e no sei parole e un paio di suoni. Giocavamo spessissimo alla play, anche se io ero una mega-pippa, abitavamo addirittura quasi attaccati - probabilmente, tra il gruppo, eravamo quelli con le case più vicine – eppure del nostro primo mese non ricordo nulla di eclatante.
Poi, una mattina, arrivai a scuola e mi dissero che c’era il nuovo supplente di Inglese e che la classe di Chimica di Mrs. Smith era stata unita alla nostra perché i fondi della scuola facevano schifo, e dissero che era inutile avere due classi di chimica da 15 alunni, entrambe allo stesso anno.
Quindi da quel giorno io e Mikey fummo più che amici. Eravamo compagni di classe.
 
Sapevo bene che lui aveva avuto la mia stessa sfiga quando si era trattato di farsi una buona reputazione tra i corridoi. Prima di conoscerlo attraverso il mio migliore amico, avevo incrociato Mikey un paio di volte fuori in cortile, oppure nei bagni. Di solito non era uno di quelli che venivano conciati peggio, era un po’ al mio livello. Poi c’erano giorni in cui le scorte di quelli più deboli, dei bersagli più quotati, non bastavano, e allora potevi tornare a casa con un occhio marroncino o un labbro spaccato. D’altronde non può andarti sempre bene, né continuamente male.
Quindi io e Way eravamo super amiconi di botte, anche prima di essere veri e propri amici. C’era tipo questo gruppo di ragazzi e ragazze che ogni tanto si incrociavano per i bagni con la faccia tumefatta, oppure per i corridoi mentre l’aria si riempiva di battutine sussurrate, o a mensa quando il latte non arrivava mai fino al loro turno di vassoi - e allora ci si scambiava uno sguardo. Per dirsi silenziosamente che tra di noi ci si capiva. Era come mettersi coraggio telepaticamente.
Ecco, io e Mikey stavamo nello stesso gruppo.
 
Comunque, crescendo, le cose si erano sistemate. Restavamo quelli diversi che ascoltano il metal e non parlano molto, ma non eravamo più quelli da prendere pesantemente a botte.
Il resto non era importante.
 
Inglese II non era quasi mai il pomeriggio. Non so per quale volere divino, ma questo fece sì che quell’anno dovessi impiegare tutte le mie energie prima della pausa pranzo, e non dopo, quando la stanchezza si faceva sentire sul serio. Quindi io e Mikey ci incontrammo per la prima volta nella classe di Mr. White alle prime ore della mattinata, e per noi fu quasi spontaneo prendere il penultimo banco sulla destra. Insieme.
Lui volle il posto al muro e io lo lasciai fare, perché tanto davanti a me c’era Ben Harris che mi copriva praticamente per intero, con il suo metro e ottanta.
In verità la letteratura inglese mi piaceva tantissimo ed erano poche le volte in cui non seguissi o prendessi appunti, però a volte mi capitava di perdermi in qualche pensiero e arrivare su altri mondi, e in quei casi odiavo essere richiamato. Avrei sicuramente perso il filo del discorso, e tutti si sarebbero voltati a guardarmi. Avrei chiesto scusa, magari rosso in volto, e sarebbero stati dieci secondi di merda. Quindi il posto al muro era l’ideale, ma Harris mi andava bene comunque.
 
 
Mikey era il prototipo del compagno di banco perfetto. Non fiatava in momenti poco opportuni e mi lasciava copiare i suoi appunti. Quando non aveva proprio voglia di seguire la lezione, metteva su le cuffiette e io potevo seguire Inglese con un leggerissimo sottofondo di canzoni che adoravo.
Mi sembrava tutto perfetto. Ma erano altri tempi.
 
Quella stessa mattina, la nostra prima, ci sedemmo a mensa insieme. La maggior parte dei ragazzi con cui mi frequentavo a scuola, tra cui Mark, seguivano lezioni diverse, e di conseguenza pranzavano ad altri orari. Io non mi lamentai mai.
Poi arrivò Mikey, che a mensa sembrava più eloquente. E all’improvviso notai quanto fossi stato realmente solo in precedenza. Mi sembrò bellissimo non esserlo più.
 
“… Allora ha preso il quaderno del tizio che gli stava dietro e l’ha letteralmente scagliato contro il professore. Mi hanno detto che andava così veloce da fare quella specie di fischio quando attraversava l’aria. Ma questa mi sa molto di una cazzata. Comunque, ha preso questo quaderno e l’ha quasi colpito in faccia, poi lui si alza… Era Mr. Miller. Si alza e ovviamente il quaderno era di quello in terza fila, e adesso lui deve stare per almeno due settimane in detenzione dopo scuola, ma uno del primo anno mi ha detto che sua madre è una specie di avvocato, o non so. Certo che è stato proprio da stronzi.”
 
Io rimasi a fissarlo con un gomito poggiato sul tavolo e un sandwich in mano sospeso a mezz’aria. Poi lui mi fece un cenno con la testa.
 
“Ti sta cadendo un pezzo di pomodoro.”
“Oh caz-”
Feci appena in tempo per risparmiare i miei jeans da una macchia clamorosa, e poi mi ricomposi, mentre lui continuava a parlare. Questa cosa era sorprendente.
 
“Che poi non capisco come mai mangi quei cazzo di pomodori senza nient’altro di reale.”
Risi. “Non sapevo che la lattuga fossa una cosa immaginaria.”
Lui prese un fazzoletto dal suo lato del tavolo e me lo tirò contro, sogghignando, mentre io lo presi perché mi era utile per ripulire il disastro dei pomodori.
“Stronzo! Le cose verdi sono pura fantasia. Si vede che non guardi mai i film sugli alieni.”
 
Poi si fece serio.
“Ci vieni a casa mia a vedere un film, questo venerdì?”
 
Io smisi immediatamente di pulirmi i pantaloni, preso alla sprovvista. Alzai automaticamente il volto verso Mikey e notai come la sua espressione fosse un misto tra paura e tensione, poi mi ripresi un po’ dalla sorpresa.
“Certo. Il film lo porto io?”
 
Lui sembrò mancare un battito, si prese un secondo durante il quale il suo viso sembrò sciogliersi in un sorriso reale, poi rispose.
“No. Ne ho tantissimi a casa.” – Si alzò e io lo seguii – “Tu pensa solo a portare quel tuo culo da vegetariano”
 
Sorrisi di un sorriso ampissimo, mentre Mikey si allontanò per raggiungere la sua prossima classe.
 

Iniziai quasi a dimenticare come ci si sente a non saper più sorridere in quel modo. 

- - - - - - - - - 


Come sempre, le recensioni sono ben accette. Grazie per essere arrivati fin qui. 
.
 
 

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Capitolo 5
*** 3 - Skylines ***


- - 
Non ho nulla da dire. Ringrazio chiunque abbia recensito o messo tra i preferiti/seguito/ecc... . Grazie per il supporto.
Per foodforlawrence. Non piangere.

 
CAPITOLO TERZO

And in this moment we can't close the lids on burning eyes.  (Skylines and Turnstiles)

 

Il weekend arrivò quasi immediatamente.
Mamma mi inseguì per casa e insistette tantissimo affinché indossassi i jeans che mi aveva comprato la settimana prima, perché “quelli che indossi di solito sono solo buchi con della stoffa attorno”. Poi dalle labbra le scappò un sorriso. Proprio non riusciva a rimproverarmi per queste cazzate: non era fatta per mettere limiti a ciò che avrei voluto essere.
E io quella sera indossai i miei jeans nuovi e mi sentii complice di un accordo grandioso.
 
Comunque non scherzavo quando ho detto che casa di Mikey era praticamente attaccata alla mia.
Quel venerdì sera mi bastò attraversare la strada a doppia corsia sotto la luce fioca dei vecchi lampioni e poi passare davanti ad altre tre case che stavano di fronte alla mia.
Da quando avevamo iniziato ad avere Inglese e Chimica assieme, a me e Mikey capitava spesso di prendere entrambi il bus alla fermata che c’era pochi metri più avanti, subito dopo l’incrocio.
A volte la raggiungevamo insieme, quando uscivamo di casa allo stesso momento.
Quindi quella sera non vagai per niente a vuoto. Sapevo benissimo quale delle tante fosse casa sua, e in meno di 5 minuti mi trovai ad attraversare il vialetto che dava sul giardino e che mi condusse sul portico.
 
Il suono del suo campanello era uno di quelli che poi non ti togli più dalla testa, però non lo era in modo piacevole.
Sentii dei passi pesantissimi dall’altro lato della porta e mi immaginai le ginocchia curve di Mikey che sfrecciavano per casa nel tentativo disperato di arrivare all’entrata senza spaccarsi la faccia su qualche muro.
Quando da dentro casa sbucò la sua faccia completamente rossa per la corsa, non potei evitare di ridere come un coglione.
 
Se qualcuno avesse visto l’interno delle nostre case non avrebbe scommesso un centesimo sul fatto che io e Mikey abitassimo nello stesso quartiere. Forse nemmeno nello stesso stato.
La luce sembrava spingere con forza attraverso le tapparelle e le finestre, ma ne riuscivano a entrare solo pochissimi raggi attraverso fessure sottili. I miei occhi si dovettero addirittura abituare a quello sbalzo di luminosità, e pensai subito al fatto che Mikey portasse costantemente gli occhiali perché mi aveva rivelato di non vedere quasi nulla senza. Il motivo adesso mi era chiaro.
 
La cosa più rocambolesca era il modo in cui il salotto fosse stracolmo di roba.
C’erano oggetti comuni, quelli che trovi in tutti i salotti: un divano in pelle bordeaux abbastanza consumato, più in là un poltroncina nera in tessuto, e di fronte a entrambi c’era un mobiletto con la tv sopra. Il resto occupava metà dello spazio ed erano tutte cose che qualcuno avrebbe dovuto - ma non aveva comunque - sistemato.
Poi c’erano gli oggetti per i quali ponevi a te stesso alcune domande. Tipo quale mai potesse essere l’utilità di un due grossi pennelli da pittura legati tra di loro con dello scotch.  
 
“Vieni, da questa parte.”
 
Cercai di non perdere mai di vista la sua schiena mentre mi guidava tra i labirinti della casa.
Poi arrivammo di fronte a una porta in legno scuro; capii che era la sua camera perché la aprì con decisione, senza bussare, e appena entrato gettò lo zaino accanto alla scrivania. Io mi trattenni ancora un attimo nel corridoio, perché qualcos’altro aveva attirato la mia attenzione.
Appena superato il salotto, subito prima di andare a destra verso la camera di Mikey, c’erano delle piccole scale quasi all’angolo della casa, che portavano a un piano inferiore.
 
Sentii di nuovo il rumore dei passi dell’altro ragazzo che si era alzato dal letto e mi stava raggiungendo sulla porta. Si affacciò un attimo e guardò nella mia stessa direzione, curioso di sapere a cosa stessi pensando.
 
“Giuro che non è una di quelle case con il seminterrato da film horror.” Si voltò verso di me con un ghigno accennato. “Se proprio dovessi ucciderti, lo farei in questa camera”.
 
Non riuscì più a essere serio e si aprì nella risata che stava trattenendo, mentre io gettavo lo zaino accanto al suo e mi chiudevo la porta alle spalle.
Prese uno dei CD che erano impilati su una mensola, lo aprì e lasciò che Bowie risuonasse nella penombra della camera. Fu uno di quei momenti in cui la vita sembra rimanere sospesa per una frazione di secondo. Le note di Space Oddity mi rimbombavano in modo ovattato in testa, osservai Mikey che si sedeva accanto a me sul letto e pensai che a volte basta così poco per sentirsi nel posto giusto e che a volte non si tratta nemmeno del posto giusto, ma delle persone giuste, e di una canzone che smette improvvisamente di essere solamente una canzone e diventa il sottofondo di momenti perfetti.
 
“È la camera di mio fratello.”
 
Gli lanciai un’occhiata interrogativa. Mikey si raddrizzò un poco, ma io rimasi sdraiato per metà a fissarlo dal basso.
 
“Nel seminterrato- il seminterrato è la camera di mio fratello.”
 
Il mio sguardo si perse nel vuoto del soffitto bianco, e intanto io meditavo su quell’informazione.
 
Un fratello. Mikey aveva un fratello ma non l’aveva mai nominato in mia presenza. Un fratello che a quanto pare aveva un seminterrato tutto per sé. Mi chiesi come mai.
Avrei avuto così tante domande da fare, eppure nel momento stesso in cui mi voltai verso Mikey, lui teneva lo sguardo basso, incollato al materasso, e sembrava improvvisamente meno disposto a parlare.
Lo osservai per un secondo e non capii. Era diverso. Era triste.
Oggi so e capisco. Lo capisco, e mi dispiace infinitamente.
 
 
Ordinammo due pizze e io ebbi l’onore di scegliere il film.
Però non riuscivo a pensare ad altro che a quel seminterrato.
 
~
 
Aprimmo al ragazzo delle consegne e aiutai Mikey a portare il cibo in cucina. Poggiammo tutto sul tavolo.
 
“Vado a vedere se mio fratello ne vuole un po’. Tu puoi iniziare a mangiare se vuoi.”
 
Uscì dalla cucina ma immediatamente si affacciò di nuovo alla porta.
 
“Ah, ovviamente non mangiamo qui, mangiamo sul divano. È un problema?”
“Assolutamente no, però ti aspetto.”
 
Fece spallucce.
 
“Come vuoi.”
 
Portai i due cartoni della pizza in salotto e cercai di fare spazio sul tavolino da caffè che si intravedeva di fronte ai divani, sotterrato da piatti, pacchetti di patatine, e riviste.
Mikey aveva già inserito il film nel lettore e sarebbe bastato semplicemente farlo partire, le pizze erano lì e già tagliate. Sembrava tutto in ordine.
 
“Okay, possiamo iniziare.”
 
Mi voltai di scatto, preso dalla paura, mentre Mikey saltando si gettò accanto a me sul divano.
“Tuo fratello non viene?”
 
Lui si sporse per prendere un pezzo di pizza e premere il play del telecomando che c’era sul tavolo.
 
“No, ha detto che non ha fame.”
 
Rispose, ma non mi guardò nemmeno. Io sorvolai.
 
Restammo per circa mezz’ora circondati da un buio sempre più fitto, con le facce illuminate a intermittenza dalle scene della televisione.
Poi sentimmo dei rumori alle nostre spalle e Mikey mise subito pausa, in modo quasi agitato. Ci voltammo a guardare e notammo che la luce del seminterrato si era spenta, smettendo di illuminare l’angolo delle scale dalle quali emerse un ragazzo.
Tra il buio della casa e quello naturale della sera, l’unica cosa che si distingueva era una sagoma che si avvicinava a noi, e poi i capelli.
I capelli erano lunghi, disordinati, senza senso, e mancai un battito. Sentii il cuore pulsarmi e rimbombarmi nelle orecchie, mentre il fratello di Mikey si faceva sempre più vicino, sempre più riconoscibile.
E quei capelli erano così confusi da esserlo nella loro totale unicità. Li avrei riconosciuti tra mille, anche prima che fossero illuminati dalla luce biancastra della TV.
Mi mancava l’aria perché non riuscivo a capire, non mi sembrava giusto che la vita avesse deciso di togliermi così presto l’unica cosa bella che mi avesse concesso negli ultimi anni.
Gerard avrebbe potuto essere tutto, dallo sconosciuto del parco al misterioso ragazzo di Eder’s; avere una vita della quale io non sapevo nulla e non avrei mai saputo nulla. Non avrei mai voluto sapere nulla.
Non questo, soprattutto.
 
“Hey Gee, lui è Frank. Seguiamo inglese insieme.”
 
Lui mi guardò. Io lo guardai.
I suoi occhi erano spalancati e traboccavano di orrore.
I miei continuarono a fissarlo come avevano fatto qualche giorno prima alla caffetteria, però adesso era tutto diverso. Non ebbi bisogno di sprofondare nel suo sguardo più di quanto non avessi già fatto. Tesi il braccio verso di lui e gli porsi la mano.
 
“Piacere, Frank”  - Stentai un sorriso.
 
I suoi occhi si fecero di colpo limpidi, vi riuscii quasi a vedere il mio riflesso.
Mi strinse la mano.
 
“Gerard.”
 
Se quella sera il suo sguardo avesse avuto voce, l’avrebbe usata per urlare.
Ma non era necessario, perché lo sentii lo stesso. Un urlo sordo di aiuto, il verde dei suoi occhi che mi perforava l’anima, l’aria che diventava pesante, poi asfissiante, Mikey che sembrava così lontano, il buio freddo della notte, e quella parola sussurrata così piano da non essere mai pronunciata.
Scusami.
 
E io lo scusai. L’avrei perdonato in qualsiasi situazione.
Perché era Gerard, ma anche perché io mi imposi di essere egoista.
Volevo le risposte a tutte le domande che mi affollavano la mente quando chiudevo gli occhi.
Volevo sentire che suono avrebbero emesso mentre scivolavano sulla sua lingua, mentre fuggivano via da quelle labbra sottili.
E poi volevo stringerlo a me in quell’abbraccio che non mi era mai stato concesso, perché ormai non ci dormivo più la notte.
Perché Gerard continuava a essere presente anche quando pensavo che ormai non lo fosse più.
 
 
 “Guardi il film con noi?”
 
Slegammo le nostre mani, poi i nostri sguardi. Fu doloroso ma necessario, e ci sedemmo sul divano, Mikey al centro tra di noi.
 
Non avevamo bisogno di farci ancora del male. 

- - 

Un abbraccio.    -Claud

 
 
 

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Capitolo 6
*** 4 - Space Oddity ***


Solo perché siete voi, vi do il permesso di tirare oggetti anche più taglienti dei banali pomodori. 
Chiedo scusa per la lentezza, ma credo dovrete abituarvi ai miei nuovi tempi da persona con un blocco totale nella scrittura. Spero sia un periodo di passaggio. E spero anche sia un passaggio breve ed indolore. Ringrazio moltissimo tutte-tutte le persone che hanno recensito in questi ultimi giorni, chi ha messo la storia tra le preferite/bla/bla, ma anche solo chi mi ha voluto dare una possibilità, leggendo ciò che ho scritto. 
Non mi aspettavo nulla del genere. Grazie.
(P.S. Vorrei invitarvi ad ascoltare la canzone, ma soprattutto leggere il testo che, se potessi, riporterei per intero qui sotto. Ma credo abbia bisogno di una maggiore attenzione.)
-Claud.

 

CAPITOLO QUARTO

Can you hear me, Major Tom?   (Space Oddity)

 


Due labbra che si scontravano con violenza, le palpebre che cadevano leggere sugli occhi, le mani che sfioravano insicure il viso dell’altro.
I titoli di coda.
 
La stanza si fece ancora più scura, mentre sullo sfondo nero si susseguivano piccole scritte rosso sangue. Seguimmo la legge non scritta che impone un paio di secondi di silenzio subito dopo la fine di un film, poi Mikey si alzò bruscamente.
 
“Cazzo, me la sto per fare addosso.”
 
Gettò la lattina vuota di Coca sul tavolino, che però rotolò su un fianco e finì per terra con un rumore metallico.
Io e Gerard restammo immobili.
Si tende a pensare che a situazioni del genere debbano appartenere quegli istanti in cui ci si guarda in viso, ci si riconosce, e tutto sembra tornare al proprio posto; gli istanti in cui le parole non servono.
Invece non fu così.
Lui si stringeva forte le cosce con quelle sue dita lunghe, io mi cingevo i fianchi con le braccia conserte. Ci sentivamo così distanti su quel divano piccolissimo.
 
Ricordo ancora l’espressione sul suo viso, quando si voltò a guardarmi: il modo in cui sembrava schiacciato dal peso della vita, il modo in cui i suoi occhi bruciavano dentro i miei e soprattutto il modo in cui li chiuse, piano, senza fretta, serrando le labbra e prendendo un forte respiro, una rincorsa. Finché:
 
“Frank…”
 
“Lo so.”
 
Mi persi di nuovo in quel marroncino-miele.
 
“Mi dispiace, non volevo che mentissi a M-”
“Lo so. Ho detto che lo so, non c’è b-”
“No, aspetta. Fammi parlare. È.. è difficile anche per me far finta di niente. Ma ti giuro che c’è un motivo, ed è meglio agire in questo modo. Se potessi- lo sai che se potessi eviterei di mentire a Mikey…” Si prese una piccola pausa. “Frank, Mikey è una tra le persone a cui voglio più bene al mondo. Non ho motivo di dirti cazzate. Gran parte di ciò che mi rimane è lì, dietro la porta di quel bagno, probabilmente sta facendo la pipì mentre canta la colonna sonora di Star Wars, e non è una cosa a cui sono pronto a rinunciare… Ascolta, c’è un equilibrio, per adesso, e io-”
 
Poi Mikey strillò qualcosa dal bagno.
 
“Frank! Domani pomeriggio ho Geografia, ti ricordi di portare i tuoi appunti a scuola? ”
“Va bene! Vuoi anche quelli di matematica? ”
“No. Quella poi la faccio nella pausa pranzo.”
“Torno a casa! Ci vediamo domani a meno 20 alla fermata.”
“Gee! Accompagna Frank alla porta!”
 
Ci guardammo di nuovo, io cercai di fargli capire che non ce n’era bisogno.
Lui ovviamente si alzò dal divano e aspettò che io facessi lo stesso, mi scortò fino all’entrata, ma quando misi una mano sul pomello, Gerard mi sfiorò un braccio con la sua mano pallida.
Si avvicinò ulteriormente, facendo quasi toccare i nostri corpi, e mi parlò in un sussurro.
 
“Frank… Mikey non invitava qualcuno a casa da tantissimo tempo. Lo so che è difficile, ma devi fidarti di me.”
“Okay.”
“E’ meglio che lui non sappia.”
“Okay.”
“Frank…”
“Buona notte Gerard.”
 
Il suono del suo nome sembrò colpirlo in pieno petto; prese un altro respiro profondo, mi guardò, e io mi chiusi la porta dietro.
Le voce di Bowie attraversava i vetri delle finestre e riecheggiava quasi in modo impercettibile per la strada.
Io quella sera desiderai con tutto me stesso di poter tornare indietro nel tempo, a quando Space Oddity riempiva l’aria della cameretta di Mikey, mentre tutto sembrava più concreto, e poi mettere in pausa. Lì, in quel momento in cui tutte le cose brutte e dolorose erano rimaste sospese per aria,
e io avrei ancora potuto salvarmi.
 
~
 
 
Le mattine continuarono a rincorrersi, lentamente. Tra me e Mikey non successe nulla di eclatante, nessuna discussione, nessun litigio, però il nostro rapporto si era incrinato.
Si sentiva la presenza costante di una di quelle crepette sul vetro che tendono inevitabilmente ad allargarsi, a diramarsi su tutta la superficie fino a farla crollare su se stessa.
Quella crepetta era Gerard.
 
In quelle settimane provai una tale rabbia nei suoi confronti da temerla io stesso. Non avevo mai portato un rancore così grande nei confronti di nessuno, ma le volte in cui mi capitava di ripensare a quelle sera, alla sue parole, sentivo le mani stringersi fitte in un pugni, perché non capivo che senso avesse darmi tutto e poi togliermi tutto. Non capivo perché Gerard avesse dovuto essere per forza il fratello di Mikey. Mi sarei accontentato di ricordarlo come un incontro casuale e non vederlo mai più.
Ma al tempo era tutto diverso.
 
La stagione si inoltrava sempre più, prendendo forma, e io ogni mattina aspettavo che la porta di casa Way si aprisse e che una testa biondina sbucasse all’orizzonte, prima di uscire io stesso.
Non ci bastavano più le poche volte in cui, per coincidenza, riuscivamo a farci compagnia per strada o sul bus; avevamo modellato le nostre vite sulle nostre esigenze, e per la prima volta sembrava funzionare. Sembrava fossimo i padroni di ciò che ci rendeva felici.
Ma i miei occhi restavano puntati su quella piccola crepa, con la consapevolezza pesantissima che Mikey non avrebbe mai dovuto notarla.
“… lo so che è difficile, ma devi fidarti di me.”
Trasalii per la realizzazione che non avevo bisogno di sforzarmi: mi ero fidato di Gerard dal primo secondo, da quando la mia mano aveva appena sfiorato la sua nel passargli l’accendino.
Nonostante sapessi che c’era qualcosa che non avrei potuto conoscere, un segreto che non avrei potuto sapere.
Un brivido, e l’immagine di un accendino nel suo pacchetto di sigarette.
 
~
 
“Studiamo da me oggi?”
 
Mikey alzò le spalle, continuando a camminare verso casa.
 
“No, Gee mi ha invitato a casa sua per cena. Passo il pomeriggio lì.”
“Casa sua?”
“Sì, ha usato un termine tipo ‘fratellanza’ , o qualcosa del genere. Non ci capisco mai un cazzo quando cerca di spiegarmi i suoi ragionamenti.”
 
-Non sei il solo-
 
“Credevo vivesse con voi, nel seminterrato.”
“Sì, era la sua camera. Quando è tornato dal college ha preso un altro appartamento, credo preferisse stare solo, avere i suoi spazi… te l’ho detto, è molto intricato nelle sue logiche.”
 
Abbassò lo sguardo verso la strada, come se stesse pensando a qualcosa, poi lo alzò verso di me.
 
“Come mai ti interessa?”
Merda.
 
“Um? Ah, no… curiosità.”
 
Mi rivolse un’ultima occhiata, poi preferimmo entrambi guardare dritto di fronte a noi.
Non dicemmo nient'altro e arrivammo a casa.
 
~
 
Passai tutto il pomeriggio chiuso in camera. Iniziai i compiti subito dopo scuola perché avevo bisogno di incanalare la mia concentrazione verso altro; suonai anche un po’ la chitarra, dopo tanto tempo. Appena la portai sotto il braccio mi sentii a casa, come se il mio corpo fosse stato modellato attorno a essa e non il contrario. Così riuscii ad ammazzare un paio di ore, ma non bastava.
I pomeriggi potevano essere mortali in Jersey, se non avevi nulla da fare.
E io avevo i pensieri tutti attorcigliati attorno a una sola persona, e se non mi fossi aggrappato saldamente a qualcosa, sarei stato risucchiato verso di lui.
Poi mia madre entrò in camera.
 
“Amore… posso?”
 
Feci cenno di sì con il capo, e lei entrò, poggiando la schiena sulla porta chiusa.
 
“Cos’è successo?”
“Pensieri…” – e mi chiesi come fanno, alcune madri, a sapere su di noi più di quanto noi stessi sappiamo.
“Pensieri che non mi dirai, giusto?”
“È tutto okay.”
 
Si sedette accanto a me, passandomi la mano sui capelli, e io mi allungai verso quella carezza, chiudendo gli occhi.
 
“Mi piace sentirti suonare. Non lo facevi da tanto…” – “Non da quando…”
“Mamma, no.”
 
Sentii la sua mano scendere sul mio viso e sollevarmi il mento.
 
“Frank, lo capisco, è difficile parlarne ma-”
“No mà, non si tratta di questo, non- non si tratta di papà. Pensavo ad altro.”
 
Lei mi sorrise debolmente e si alzò da letto; si avviò alla porta senza rispondere, finché non la aprì, e si voltò di nuovo verso di me.
 
“Ricordati che se prendi un bel respiro, ce la fai a galleggiare. Sempre.”
 
Passò un secondo, ci pensai su, annuii.
Un altro sorriso ed ero di nuovo da solo nella mia camera. Da solo con i miei pensieri.
 
 
Come spesso accade, quando c’è qualcosa che blocca tutto il resto, capii che avrei potuto rimanere inerte e aspettare il momento in cui la situazione si sbrogliasse, oppure farlo con le mie mani.
 
Mi misi all’opera.
 
~
 
Erano quasi le sette del pomeriggio. Sapevo che Mikey quel giorno avrebbe studiato a casa di Gerard e sfruttai l’informazione a mio vantaggio.
All’inizio ebbi qualche remore, perché il mio filo di azioni avrebbe previsto un’ennesima bugia, e infondo la bugia iniziale era ciò che in primo luogo mi aveva creato tutti quei problemi. Poi pensai a come avessi solo due alternative: agire o non farlo. E mi ricordai di come mi fossi sentito bene, al parco, quando avevo iniziato a non fuggire via dalla mia vita… come mi fossi sentito bene con Gerard.
Decisi che una seconda bugia fosse un effetto collaterale piuttosto accettabile e afferrai il telefono dal comodino.
 
“Ehi Mikes”
“Frank?”
“Uh, sì, ascolta… stavo per iniziare geografia, ma mi sono ricordato di averti prestato il quaderno e- se ti serve puoi tenerlo, però se non lo stai usando…”
“Sono a casa di mio fratello, Frank.”
“Sì. Sì, lo so. Potrei passare a prenderlo lì, se non è un problema.”
“Io- uh… Okay, va bene.”
“Indirizzo?”
“Scusa?”
“L’indirizzo. Di casa di Gerard. Non so dove abiti.”
“Ah, sì. Giusto, allora… arrivi sulla 24esima. Ci sai arrivare sulla 24esima, no?”
“Sì.”
“Okay, arrivi sulla 24esima e poi svolti a destra, dove c’è il negozio di Collins. Dritto per un paio di blocchi. Saranno tre- no, no, sono due isolati. Giù per due isolati e c’è un palazzo grigio. Se ti perdi controlla i citofoni.”
“Perfetto, dammi trenta minuti massimo.”
“Ci vediamo.”
“A dopo Mikey.”
 
Feci uno scatto improponibile, inciampando quasi tra i miei stessi piedi. Tolsi il pigiama e misi il paio di jeans che tenevo sulla spalliera della sedia, presi le chiavi di casa, salutai mia madre e iniziai la mia missione. 


- - - - - 

Grazie a chiunque deciderà di lasciare una recensione. Se mai ci sarà questo qualcuno.

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Capitolo 7
*** 5.1 - Jersey ***


'Sera. Mi scuso per il ritardo, come state? Mi sono presa un po' più di tempo per pubblicare questo capitolo a causa di alcuni problemi, ma anche perché ho notato che il precedente non ha riscosso molto successo (ringrazio chi ha recensito, come sempre). Spero che il ritmo lento non vi abbia dissuasi dal continuare a leggere la storia. In ogni caso ogni scelta è legittima, e io pubblico perché, ora come ora, mi fa abbastanza bene. 
Gradirei qualche commento, se vi va. Grazie in ogni caso, e grazie per esserci. -Claud

 


CAPITOLO QUINTO - PARTE PRIMA

Now I'm hoping just a little bit stronger. Hold me up just a little bit longer.  (Jersey)


 

Dicono che ci accorgiamo di essere stati felici quando non lo siamo più.
Cazzate.
 
Io avevo diciassette anni e mi sentivo bene.
L’avrei messo per iscritto, urlato dai tetti, inciso sulla spalliera del letto:
per la prima volta, dopo un’infinità, avevo qualcosa a cui tenermi aggrappato.
E mi faceva sentire fottutamente vivo.
 
~
 
Camminavo con la testa pesante, i pensieri fitti, ma il passo leggero. I miei piedi scivolavano sull’asfalto come accade solo a chi ha un posto in cui desidera arrivare o a chi non ha completamente una meta.
Quel pomeriggio un po’ buio, io volevo arrivare da Gerard.
 
Non sapevo cosa avrei trovato e sinceramente non sapevo nemmeno cosa avrei voluto trovare.
Ma non era importante. Slittavo - quasi correvo - tra quelle strade in cui ero nato, tra posti che avevo visto migliaia di volte e che però non mi erano mai sembrati così diversi.
 
Arrivai velocemente sulla 24esima, con i battiti del cuore che mi rimbombavano in testa.
Non credo fosse per la fatica.
 
Seguii il consiglio di Mikey e mi aiutai con i citofoni, trovando facilmente il palazzo.
Sembrava uno tra gli edifici più nuovi di tutta la strada, nonostante non avesse un esterno molto sofisticato.
Il mio dito fece pressione sul bottoncino di metallo.
 
“Sì?”
“Sono Frank.”
“Terzo piano”
 
Mikey staccò e in una frazione di secondo sentii lo scatto del portone che si apriva.
E così sia: terzo piano.
 
- - -
 
Ci sono quei momenti in cui riesci a rimanere sospeso dalla vita per alcuni istanti.
Gerard aprì la porta.
 
Inutile dire che non avevo nemmeno minimamente calcolato la possibilità che potesse accadere, perché fino a quel momento Mikey era stato l’unico a parlarmi e darmi indicazioni.
La mia mente aveva immaginato che Gerard stesse cercando una qualsiasi scusa per non dover avere a che fare con me, che fosse uscito, che avesse chiesto al fratello di tenerlo nascosto.
Invece mi aprì la porta.
 
Ci guardammo per quello che mi sembrò un tempo infinito.
E poi me ne accorsi, forse addirittura per la prima volta.
Gerard era bellissimo.
 
Era come se ogni particolare del suo viso, ogni sfumatura dei suoi gesti, mi fossero stati scaraventati addosso all’improvviso.
La sua bocca si schiuse, le labbra si piegarono leggermente verso destra mentre sussurrò il mio nome.
Io mi spinsi avanti ed entrai in casa, cercando in ogni modo di evitare quella discussione, con la certezza che sarebbe diventata solamente un ennesimo segreto da tenere lontano da Mikey e con la paura di cosa Gerard avrebbe potuto dirmi, lì, sulla porta del suo appartamento, mentre io gli fissavo le labbra e tornavo indietro a quel giorno in cui avevamo fumato insieme, circondati dal silenzio della mattina.
Con la paura delle parole che io non sarei riuscito a dire.
 
“Hey Frankie.”
 
Sentii Gerard ridere, dietro di me, e ripetere il soprannome tra sé e sé.
Io roteai gli occhi ma non persi tempo a voltarmi.
 
“Hey Mikes! Scusa se ti perseguito ogni volta”
“Figurati, so che è difficile starmi lontano per più di un’ora.”
 
Mi fece l’occhiolino e si sporse verso il tavolo del salotto, prendendo il mio quaderno.
Me lo porse e lo ringraziai immediatamente, ma il mio cervello stava solo cercando qualcosa da dire per poter rimanere qualche altro minuto con loro. O magari da solo, con Gerard, per potergli parlare.
 
“Resti per una tazza di caffè?”
 
Coincidenze, dicono.
Io sentii quella voce parlare alle mie spalle e mi convinsi, invece, che Gerard sapesse leggermi come un libro aperto.
 
“Certo.”
 
 
Ci sedemmo in cucina. L’appartamento era chiaramente per una sola persona.
Ci sono quei piccoli dettagli che a volte sfuggono ma che, se colti, sanno raccontare una storia meglio di qualsiasi parola.
Nel lavello c’erano solo un piatto e parecchi bicchieri e tazze, sul frigorifero erano appese decine di post-it giallini e, da quello che riuscivo a leggere, erano tutti riferiti agli impegni di una sola persona. La casa non era il massimo della pulizia, nonostante apparisse stranamente ordinata.
Sorrisi.
Era il riflesso di Gerard.
 
“Come lo prendi?”
“Poco zucchero, niente latte.”
 
Mikey guardò il fratello con gli occhi divertiti - “Vi somigliate.”
 
Gerard fece spallucce e mi porse la tazza.
 
“Coincidenze.”
 
Coincidenze. Pensai.
 
“Ci vieni alla festa di Tom questo venerdì, giusto?”
“Hm. Devo chiedere al capo.”
“Dai Frank, non fare lo stronzo. Lo sappiamo entrambi che tua madre ti manderebbe in capo al mondo se glielo chiedessi con il tuo sguardo micidiale.”
Risi appena.
“Nessuno sa resistermi.”
 
Ci fu un secondo di silenzio. Mentre Mikey rideva e scuoteva la testa per ciò che avevo appena detto, io mi alzai per poggiare la tazza accanto al lavello.
 
“Forse viene anche Gee. È amico del fratello di Tom.”
 
Rimasi immobile, e probabilmente lo notarono anche gli altri. Mi riscossi un attimo e mi avvicinai a Gerard, fermandomi a pochi centimetri da lui, deciso a provocarlo.
 
“Gee…” – Sorrisi.
 
Lui strizzò gli occhi, come per intimidirmi. Poi sorrise.
E io sorrisi di nuovo. Questa volta per un motivo totalmente diverso e in modo totalmente diverso.
Era così bello.
 
~
 
Guardai l’orologio – “Cazzo Mikes, sono le otto!”
Lui rimase totalmente indifferente e mise in pausa il film.
Mentre io e Mikey eravamo passati in salotto per guardare un po’ di tv, Gerard era rimasto in cucina con la scusa di dover sistemare i piatti e le tazze sporche.
Sapevo che non era vero. Lo percepivo dall’odore di sigaretta che aveva attraversato la porta di servizio ed era arrivato fino al divano.
Immaginavo il moro affacciato alla piccola finestra della cucina, con i gomiti sul telaio e i capelli mossi dalla leggera brezza della sera.
 
“Passo un attimo di là, ho dimenticato le chiavi.”
“Okay. Dici per favore a Gerard di chiamare il ristorante Tailandese se stasera vuole mangiare a un orario decente”
 
Feci un verso di consenso e mi catapultai nell’altra stanza.
Le mie fantasie presero forma quando mi si presentò davanti l’immagine di un Gerard con la schiena poggiata al muro accanto alla finestra e un gomito sul fianco a sostenere la mano che teneva salda la sigaretta per mandare il fumo all’esterno.
Teneva le gambe incrociate e un piede poggiava sulla punta.
Era una posa così inusuale, nella vita di tutti i giorni, da sembrare quasi studiata. Eppure appariva perfetta. Fu come se nessun muscolo del suo corpo stesse svolgendo un eccessivo lavoro, come se quello fosse il modo più naturale per fumare.
 
Gerard, ovviamente, notò subito la mia presenza, ma rimase a guardarmi senza scomporsi. Così ci fissammo per qualche secondo, finché lui non mi fece un cenno con il capo.
Mi avvicinai lentamente e notai che teneva in mano qualcosa; mi porse un pezzetto di carta che io misi subito in tasca, mentre lui portò la sigaretta alla bocca e aspirò profondamente.
Poi mi diede le spalle e gettò il fumo fuori dalla finestra, e io capii che la nostra discussione era finita lì.
Lì, dove non era mai iniziata.
 
~
 
Nella strada del ritorno mi sentii come se quel foglietto che custodivo in tasca fosse l’unico bene che mi era rimasto e che dovevo necessariamente tenere al sicuro.
Non lo lessi. Né in cucina, né fuori dall’appartamento, e neppure mentre tornavo a casa.
Mi dissi che avrei potuto aspettare.
Me lo imposi, perché sapevo che quel pezzetto di carta avrebbe potuto cambiare tante cose.
Ed è quello che successe.

 
 
Cenai con quel peso di piombo in tasca.
Ogni discorso di mia madre mi sembrava lontano, del suono di ogni parola potevo sentire solo l’eco. L’unica presenza abbastanza vicina era il pensiero di ciò che io e Gerard stavamo facendo.
Di quel rapporto che, inconsapevolmente, avevamo iniziato a stringere sin dal primo secondo in cui respirammo la stessa aria intrisa di fumo.
 
Arrivato in camera mi chiusi la porta dietro e vi poggiai sopra la schiena.
Misi una mano in tasca e chiusi gli occhi appena sfiorai il pezzetto di carta, facendo un respiro profondo subito prima di estrarlo.
I miei occhi vi passarono sopra con velocità.
 
 
« Qui. Domani a mezzanotte. Non dirlo a Mikey.
 Sogni d’oro Frankie. - xo  Gerard.»
 
E il mio letto non mi sembrò mai così scomodo.
 
~
 
Quando mi alzai, quella mattina, avevo sì e no due ore di sonno alle spalle.
Non so se fosse maggiore la curiosità di ciò che sarebbe successo quella sera o la paura della vita che mi avrebbe aspettato in seguito. 
Ma non importa in quale direzione andasse ogni mio pensiero, perché erano tutti legati a uno stesso punto, e, per quanto ci provassi, non riuscivo a farli allontanare di molto.
Continuavano, inevitabilmente, a tornare indietro su Gerard, a sbatterci sopra.
 
E questo via vai di paure, la dinamicità con cui la mia mente riusciva a saltare da un’idea all’altra, l’energia cinetica di tutti i pensieri che urtavano tra loro, che si attorcigliavano sull’immagine di quella pelle chiara e quelle labbra esili e finivano con l’opprimere tutto il resto, furono i motivi per cui dovetti imparare presto a convivere con le mie inquietudini.
Furono il motivo per cui, quel giorno, dovetti fare i conti con un lacerante mal di testa.
 
~
 
Trovai Mikey ad aspettarmi sulla panchina della fermata dell’autobus.
Qualcuno decise che quella mattina avrebbe dovuto piovere.
Le gocce si infrangevano contro la superficie in plastica della tettoia ed erano così fitte da non riuscire a vedere a pochi metri di distanza.
Il tempo sembrava scorrere lentamente, come se quei minuti fossero destinati a durare per sempre.
La vita mi sembrava la scena di chiusura di un film senza lieto fine.
Tutto troppo offuscato.
 
“Hey…”
 
Mikey alzò lo sguardo e mi fece un cenno. Capii che non doveva essere la sua mattina migliore.
 
“Tutto bene?”
“Hm?”
“Dico…” – mi schiarii la voce – “Va tutto bene?”
 
Lui annuì, e per un attimo pensai che non avrebbe risposto. Poi iniziò a parlare.
 
“Sì. Sono solo un po’ stanco. Ho dormito da Gee e sono venuto fin qui a piedi.”
“Oh. Avresti potuto prendere l’autobus a una fermata più vicina, no?”
“Sì, solo--  mi andava di più arrivare fin qui e farti compagnia”
 
Nell’istante in cui le sue labbra si piegarono in un sorriso appena abbozzato, sentii alle mie spalle il rumore del bus che faceva sosta.
Mikey si alzò e, passandomi davanti, salì in fretta a prendere un posto.
Io rimasi per un secondo a fissare il vuoto.
 
Presi il posto accanto al finestrino e con gli alberi che si inseguivano velocemente e la pioggia che bagnava il vetro, mi chiesi come fosse possibile che un sorriso potesse nascondere tanta tristezza.
Chiusi gli occhi.
 
~ ~
 
“… quindi è importante ricordare il periodo storico in cui il movimento si sviluppò, poiché è proprio partendo da qui che possiamo capire la profonda inquietudine che caratt-…”
 
Pensavo a come, a volte, basta così poco affinché le cose vadano in altro modo.
Cerchiamo sicurezza per poterci sentire artefici di qualcosa. Almeno per una volta.
Pretendiamo che una relazione duri a lungo, che un prodotto sia di qualità, che la vita non ci porti via le cose che siamo sicuri di aver fatto nostre.
L’uomo tenta di farsi padrone del mondo e trascura il fatto che nulla gli apparterrà mai.
Nulla se non se stesso.
Né gli eventi né il loro sopraggiungere.
 
 
Storia Americana non la seguivo con Mikey. Quella mattina non ebbi nessun corso con lui.
Mi convinsi che fosse meglio così.
 
La giornata passò lentamente. Nonostante non prestassi attenzione a praticamente nessuna materia, potevo percepire quanto l’orologio scandisse i minuti in maniera tediosa, con il mal di testa che continuava a divorarmi dall’interno.
E appena tornai a casa decisi di riposarmi. Dormii per buona parte del pomeriggio.
 
Mi svegliai al suono del cellulare che squillava sul pavimento, con il nome di Mikey che si illuminava a intermittenza sul display.
La sveglia faceva le sei del pomeriggio e io rotolai letteralmente fuori dal letto e gattonai per quei pochi metri che mi separavano dal cellulare.
 
“Hm… pronto?”
“Frank?”
“Hey Miks.”
“Tutto okay? Hai la voce strana”
“Sì, io… sì.”
“Uhm. Va bene.” Ci fu un momento di silenzio – “Ho chiamato per sapere se venerdì ci sei”
“Può essere? Hm… questo venerdì?”
“La festa di Tom, coglione. Quella di cui ti ho parlato ieri.”
“Oh! Giusto. Sì, sì… ci sono.”
“Okay, perché Gee mi ha appena chiamato e si è proposto per passarmi a prendere. Passiamo a prendere anche te, okay?”
Merda.
“Sì, perfetto.”
“L’orario te lo dico domani a scuola.”
“Va bene.”
“Ci vediamo Frank”
“Ciao Mikey, grazie.”
 
Rimasi con il telefono incollato all’orecchio, mentre un fastidioso rumore mi comunicava che la chiamata era finita. Che Mikey non aveva più nulla da dirmi. Che da quel momento ogni responsabilità era solo mia. Ogni colpa gravava solo sulle mie spalle.
 
Uscii a prendere aria.
Desiderai solo che fosse mezzanotte.
 
~
 
“Amore…”
 
Mia madre mi sorrise, dall’altro lato del tavolo, e tese la mano verso di me.
Io la presi e la strinsi forte per uno o due secondi, poi allentai la presa.
 
“Cosa c’è che non va?”
 
Mi sentii sporco e ritrassi la mano.
 
“Ho un amico e – so di sbagliare nei suoi confronti. Ma non posso farne a meno. E ho paura che la verità possa peggiorare la situazione, ma ho anche paura ogni volta che continuo a mentirgli.
E ho saputo di essere uno tra gli unici amici che ha mai avuto, cioè… uno tra i migliori amici.
Non so in che modo poter-- Hm.”
 
“Ti assicuro che troverai il modo per riuscire a essere l’amico che vorresti essere.”
“Come lo sai?”
 
Lei mi sorrise come solo una madre sa fare.
 
“Perché ti conosco, Frank.”
 
Io abbassai lo sguardo sul mio piatto.
 
“Vedrai che Mikey saprà perdonarti.”
 
Lanciai un’occhiata a mia madre e mi alzai dal tavolo, lasciandole un bacio sulla tempia.
 
Mezzanotte era sempre più vicina.
 
~
 
Decisi di non dormire quella sera.
Quando entrai in camera erano già le undici. Mi tolsi i vestiti che avevo indossato per scuola, sostituendoli con un paio di jeans scuri che mi andavano leggermente stretti e la felpa più pesante che possedevo. Non sarei di certo morto di freddo per Gerard.
 
Le mie mani si muovevano in automatico, mentre le dita afferravano i lembi della maglietta e la sollevavano, lasciandola scivolare sul mio petto e gettandola sulla sedia. Quando fu il turno dei pantaloni, la mia mente iniziò ad attorcigliarsi su se stessa per colpa degli eccessivi pensieri, e sentivo lo stomaco chiudersi sempre più, ogni volta che provavo anche solo a immaginare per quale motivo Gerard mi avesse chiesto di vederci.
Osservavo le mie mani mentre faticavano a fare presa sui tessuti e sapevo fosse colpa dell’agitazione.
Come puoi pretendere di sgattaiolare fuori di casa a mezzanotte e, nonostante tutto, rimanere calmo?
Basterebbe anche solo l’adrenalina dovuta a un’azione del genere per mandarti in fusione.
Uscire di casa per incontrarti segretamente con il fratello più grande del tuo migliore amico – poi – era su tutto un altro livello.
 
Dentro di me provavano ad articolarsi quei ragionamenti che avrebbero dovuto trovare una spiegazione logica a ciò che stava accadendo.
Ma non ne erano capaci.
Perché come puoi spiegare a qualcuno ciò che si prova quando inizi a non capirci più un cazzo della tua vita?  E soprattutto, come puoi spiegarlo a qualcun altro, quando non sai nemmeno come ammetterlo a te stesso?
 
Mi ritrovai in boxer, accovacciato sul letto, con le braccia fredde che venivano accarezzate da una leggera brezza autunnale. E il cuore che batteva fortissimo.
 
Mi resi conto che era quasi mezzanotte. 


- - - - - - - - - - - - 

Fatemi sapere se c'è qualcosa che non va. Buona settimana.



 

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Capitolo 8
*** 5.2 - Luna ***


E' passato parecchio tempo, ma non ho ancora ceduto. Ringrazio (specialmente) tutte le persone che hanno recensito il capitolo precedente, ma anche tutti gli altri. Siete stati davvero fantastici, e non so cosa dire.
Stasera non ho voglia di introduzioni, ma ci tengo ad esprimere tutta la mia ammirazione per una persona che ha affrontato molto, e che ancora oggi continua a rimanere eccezionale. A Mikey Way, che, stasera, ha saputo insegnarmi molto, con poche parole. Grazie.
 


CAPITOLO QUINTO - PARTE SECONDA

I'll sing for you, if you want me to.   (Luna)


 


Riuscii a passare dalla finestra.
 
Mi sentii così forte, mentre correvo in silenzio attraverso il giardino e scappavo via da casa mia.
Mi sentii così forte mentre riprendevo in mano la mia vita, mentre chiedevo indietro tutte quelle cose che mi erano state tolte. O che nessuno mi aveva mai dato.
Avrei voluto sapere anche allora che gran parte delle cose che non abbiamo, non spetta agli altri darcele. Che spesso è difficile realizzare il fatto che quello che ci manca, ci manca per colpa nostra.
E di nessun altro.
 
Ma quella notte mi sentii forte soprattutto quando realizzai che non avrei corso per sempre, perché c’era un posto nel quale andare, e c’era qualcuno che mi aspettava.
E le certezze, per quanto lontane siano, ti fanno sentire sempre un po’ più forte.
Un po’ più vero.
 
E io quella notte corsi fino a farmi mancare il fiato, finché la vista non divenne disturbata, perché il pensiero di Gerard che mi aspettava a casa sua, divenne la certezza che, nonostante tutto, sarei arrivato dove volevo arrivare.
Non m’importava nemmeno cosa sarebbe successo in seguito.
 
~
Arrivai sulla ventiquattresima in una manciata di minuti. Un po’ per la fretta di incontrare l’altro ragazzo, un po’ per la paura di essere scoperto e di camminare solo a quell’ora della notte.
Il Jersey –quella zona del Jersey- era conosciuto soprattutto per quanto poco raccomandabile fosse.
E per quanto io lo sapessi bene, non me ne feci mai un problema.
 
 
Il polpastrello si poggiò sul metallo freddo del campanello, e rabbrividii nell’aria tagliente della notte.
Mentre aspettavo una risposta dall’altro lato del citofono, portai le mani sulla bocca e provai a riscaldarle respirandoci sopra e sfregandole tra loro. Potevo sentire i guanti a mezze dita che assorbivano ogni piccolo sbalzo di calore, e i palmi delle mani che sembravano sciogliersi sotto quello strato di tessuto tiepido, svegliandomi dal torpore.
Non feci nemmeno caso ai secondi che passarono, fin quando non sentii una voce metallica che mi esortava ad entrare, e, subito dopo, quel piccolo scatto della serratura del portone che stava ormai diventando un suono familiare.
 
Sorrisi, pensando a come avrei potuto facilmente abituarmi a quella parvenza di quotidianità, e fui preso di nuovo da una sensazione di calore.
Questa volta, però, fu del tutto diverso. Come se qualcuno si fosse preso cura di riscaldarmi dall’interno. Sentii caldo, ma lo sentii dentro.
Forse, mi dissi, avrei davvero potuto salvarmi dal freddo.
 
 
Ebbi la stessa sensazione di familiarità mentre salivo ogni rampa di scale, e appena arrivai di fronte al portone in legno. A destarmi dal sogno, però, fu il fatto che quella porta fosse leggermente aperta, e io avrei potuto semplicemente irrompere in casa e affrontarne le conseguenze.
A quel punto fui colpito da una chiara consapevolezza.
Ero davvero lì.
E riconsiderai ogni mia azione, ogni mia scelta, con il dubbio che ciò stavo facendo non fosse effettivamente così corretto.
 
Poi quel piccolo spiraglio tra l’incerto e il certo si fece sempre più ampio, e la figura di Gerard mi si presentò davanti quasi all’improvviso.
Capii che il tempo per poter cambiare idea mi era ormai volato alle spalle da tanto tempo, e feci quel passo che avrebbe potuto gettarmi nel baratro, o salvarmi una volta per tutte dal freddo.
 
~
 
Casa di Gerard sembrava fatta per accoglierti dopo una di quelle solite giornate di merda.
Sembrava fatta per farti sentire meglio.
 
Era tutto molto semplice, eppure dalla scelta dell’arredamento traspariva il gusto del moro per il moderno. O forse, a risaltare, era semplicemente il fatto che quello fosse l’appartamento di un ragazzo appena venticinquenne.
 
Allora mi fermai.
Io non avrei potuto dirlo.
 
Non sapevo con certezza quale fosse la sua età. E -se è per questo- non sapevo con certezza nulla che riguardasse la sua vita, o chi fosse.
Realizzai che c’era qualcosa, in lui, che emanava una tale decisione, una tale fermezza, da non farti mettere in dubbio nulla di quello che dicesse o facesse. E di conseguenza ti ritrovavi a fidarti delle sue scelte, ma anche un po’ delle tue, di scelte.
Col senno di poi potrei dire che forse fu proprio questo a farmi avvicinare indissolubilmente a lui: il fatto che, per una volta, c’era qualcuno nella mia vita che mi desse sicurezza; ma, soprattutto, qualcuno che mi facesse sentire sicuro di ciò che ero e di ciò che volevo.
 
E quello fu il momento in cui smisi di avere paura.
Perché gli occhi di Gerard luccicarono in modo troppo chiaro per poter essere fraintesi, e io realizzai che non c’era altro posto in cui avrei voluto essere.
Realizzai che, se c’era qualcosa che desideravo davvero, era essere lì in quel momento.
 
Il sorriso impacciato di Gerard fu solo una seconda conferma.
 
 
“Ciao.”
“Hey..”
“Non ci speravo molto”
“Mh?”
“Io non- insomma… non credevo saresti venuto sul serio.”
“Bhe, mi sono quasi rotto una gamba per venire fin qui, quindi ti consiglio di abituarti all’idea che ci sono davvero”
 
Lui annuì piano. - “Mi fa piacere”
 
Uno sguardo, e ci spostammo in salotto.
 
~
 
Il divano sembrava tre volte più grande del normale, con Gerard che rimaneva in piedi mentre io cercavo di stringermi su me stesso e farmi piccolo su quei cuscini scuri.
Nessuno dei due riuscì a parlare per i primi secondi. Probabilmente perché c’era così tanto da dire, che le parole riempivano l’aria attorno a noi, ma noi non riuscivamo proprio a pronunciarle.
Non so bene cosa mi spinse ad aprir bocca per primo.
Forse il bisogno disperato di poter prendere respiro in quella stanza asfissiante.
 
“Quindi Mikey è tuo fratello…”
 
Lui sembrò affogarsi con la sua stessa lingua.
 
“Mi sembrerebbe abbastanza ovvio, a questo punto”
“Lo sai cosa intendo.”
“Noi- sì. E’ mio fratello.”
 
Io smisi di guardarlo negli occhi, e abbassai lo sguardo sulle mie gambe quasi rannicchiate.
Poi lui fece una cosa che, se in quel momento avessi potuto scommettere su qualcosa, avrei scommesso tutto proprio contro essa.
 
Si sedette accanto a me.
 
Non so quale meccanismo scattò nelle sua testa.
Forse era solo stanco, o forse gli dispiacque per me, perché capì che era anche un po’ colpa sua se la mia amicizia con Mikey era stata intaccata prima ancora di poter nascere.
Ma la sua voce si fece sentire di nuovo, e questa volta era così flebile, così dolce, che proprio non ce la feci a portare avanti il rancore nei suoi confronti.
 
“Scusa Frank”
“Non c’è bisogno di dirlo sempre”
 
Lui si portò la testa tra le mani. Mi sembrò piccolissimo.
 
“Sono un coglione. Non capisco come mai qualsiasi cosa io faccia non vada mai bene. Che poi, non è solo questo… io non posso evitare il fatto che le mie azioni si ripercuotano sulla vita degli altri”
Mi guardò.
“A volte vorrei poter non avere nessuno. Forse sarebbe più facile così.”
 
Per un secondo ebbi l’impressione che non si trattasse solo di Mikey; che Gerard portasse con sé una colpa molto più grande che un’amicizia rovinata.
E mi vennero in mente la parole di mia madre.
 
“Vedrai che Mikey saprà perdonarti”
 
Lui non rispose, ma mi guardò a fondo. Poi fece scivolare una mano nella tasca dei jeans e ne uscì fuori un pacchetto di sigarette.
Me ne offrì una. Io l’accettai.
 
 
Iniziammo a fumare in silenzio.
A volte provavo a guardare Gerard di sottecchi, giusto per il piacere di osservarlo mentre fumava in quel modo tutto suo.
Un paio di volte mi accorsi che anche lui provava a fare lo stesso con me.
 
“Mikey mi ha detto che domani passi a prenderci tu”
“Non è che abbia molta scelta”
 
Risi e gettai fuori il fumo.
 
“Fanculo”
 
Gerard spense la sigaretta nel posacenere che c’era sul tavolino, e quando tornò a sedersi sul divano, lo fece in modo da poter essere rivolto verso di me, con una gamba che sembrava soffocare sotto il peso del resto del corpo.
 
“Dimmi di te. Ti fermi a fumare e saltare scuola con tutti gli sconosciuti che incontri, oppure sono solo io quello a cui non sai dire di no?”
 
Spensi la sigaretta e tornai anch’io sul divano, incrociando le gambe su di esso in modo da poter guardare meglio Gerard.
 
“Dipende… solo se lo sconosciuto ha buone sigarette e mi offre un caffè. Oppure solo se è bello.”
“E io ero quale tra i due casi?”
 
Feci spallucce – “Un po’ entrambi”
 
Il suo labbro venne afferrato da piccoli denti bianchi che iniziarono a mordicchiarlo.
 
“E tu cerchi sempre di abbordare liceali con scuse del cazzo? O non mi hai saputo resistere?”
“Veramente io stavo conducendo una normalissima giornata, finché non ho visto un ragazzino che ascoltava i Joy Division così forte da farli passare attraverso le cuffiette… allora mi sono detto che l’avrei corrotto con questa mia aria da bel ragazzo ”
“Ragazzino un cazzo. E non montarti la testa…”
 
Iniziammo a ridere senza un vero motivo, poi lui sembrò guardarmi con interesse.
 
“Mikey mi ha parlato un po’ di te. Dice che sei forte, che si sente davvero bene quando state insieme. Sai…lui non-- era da tanto che non lo vedevo così tranquillo. Abbiamo passato un brutto periodo qualche anno fa, e gli ci è voluto molto tempo per riprendersi, e adesso mi dispiace mentirgli, ma più lo guardo, più mi dico che non ho il diritto di cambiare le cose. Non voglio più interferire, Frank.”
 
Il suo sguardo tremava.
 
“Posso abbracciarti?”
 
A quel punto ci fissammo con un’intensità assurda. Lui iniziò a mordicchiarsi di nuovo il labbro.
Poi annuì in modo deciso, e io mi spinsi in avanti, circondandogli il collo con le braccia e provando a mandare via quel senso di vuoto che si era impossessato di Gerard.
 
Pensai che un abbraccio del genere sarebbe valsa la pena di aspettarlo anche il doppio di quanto io l’avessi aspettato.
E probabilmente anche molto di più.
 
Mi piacque pensare che fu lo stesso per Gerard.
 
~
 
La notte passò tra poche parole scandite in modo corretto, e silenzi che sapevano di contentezza.
E’ strano come il tempo importi davvero poco, quando incontri la persona giusta.
Io e Gerard sapemmo rendere quei minuti giorni, le ore mesi, e sembrò come se non fosse importante non sapere alcune cose, almeno finché avessimo afferrato l’essenziale l’uno dell’altro.
Non so se ogni rapporto speciale inizi con questa stessa sensazione, ma io me lo sentii sin da subito che noi saremo stati molto.
Che insieme, avremo potuto essere molto.
 
 
Parlammo di noi, nonostante Gerard evitasse abilmente di dilungarsi troppo su di sé.
Ma a me andava bene così. Realizzai quanto mi fosse profondamente mancato il potersi sfogare, il poter parlare senza il vincolo di quel secondo in cui ripensi a ciò che stai per dire, e che poi alla fine decidi di non dire. Perché credi che non possa importare, perché credi che tu non sia importante.
Realizzai quanto avessi bisogno di qualcuno che si sedesse per ascoltarmi, e realizzai quanto avessi un disperato bisogno di qualcuno a cui importassi, e di sentirmi io stesso importante.
Non credo sia stata una coincidenza che Gerard fosse lì con me in quel momento.
 
“Ancora non capisco come fai a permetterti un appartamento del genere…”
-Mi guardai velocemente attorno, finché non vidi di nuovo Gerard-
“Anzi, ancora non capisco come fai a poterti permettere un qualsiasi appartamento”
 
Lui aggrottò le sopracciglia, confuso.
 
“Scusa, cosa pensi che faccia ogni giorno della mia vita?”
“Ah, perché? Adesso fai anche qualcos’altro oltre che stare chiuso qui dentro in pigiama a guardare i cartoni?”
“Sì Frank… Alcuni di noi sono abbastanza grandi da poter lavorare”
 
Le mie labbra si piegarono in un piccolo ghigno.
“Mi dispiace per loro”
 
“Poi però non sono costretti a vivere con i loro genitori, e possono guardare i cartoni alle due di notte. E in pigiama”
“Si vede che non conosci mia madre”
 
Lui si incupì tutto d’un tratto.
 
“Uh.. Scusa, io-io non volevo.” Portò una mano dietro la nuca, facendola scorrere tra le ciocche scure. “Mikey mi ha detto di tuo padre”
 
Io tirai su con il naso, alzando le spalle.
 
“E’ okay. Non preoccuparti”
“Se mai volessi parlarne un po’, o prendere a pugni qualcuno, sai in quale appartamento trovarmi”
 
Stentai un sorriso e annuii piano, sentendo delle parole che mi erano già state dette altre centinaia di volte, ma mai in quello stesso modo. Mai con la stessa sincerità.
 
Gerard si sporse verso il tavolino e strappò un pezzettino della copertina di una rivista che vi era sopra. Rimase piegato su di sé mentre scriveva qualcosa, e poi me lo porse.
Lo lessi, ed era il suo numero.
Nessuno dei due ebbe bisogno di parole per dire quello a cui stavamo pensando.
 
Alzando lo sguardo mi persi nei lineamenti del suo viso, e solo allora notai quanto fosse pallido, e il modo in cui i suoi occhi fossero marcati da sfumature scure. Mi sembrò stanco, debole.
Ebbi quasi l’istinto di tendere una mano verso di lui e vedere se fosse davvero tanto fragile quanto sembrasse, se solo sfiorandolo sarebbe caduto in pezzi, di fronte ai miei occhi.
 
Non mi resi conto che probabilmente Gerard si stesse sgretolando anche in quell’esatto secondo, sotto il mio sguardo.
E io non riuscivo nemmeno a vederlo.
 
~
 
Ci ritrovammo all’entrata.
 
Lui aveva sollevato gli occhi sull’orologio a muro, e mi aveva fatto notare che era troppo tardi per trattenermi ancora. Io non avevo smesso di fissare il suo viso, le sue mani, e le figure astratte che tracciavano nell’aria quando Gerard parlava delle sue passioni.
Non credo ci fosse un momento in cui apparisse più bello, se non quando mi parlava di ciò in cui metteva l’anima.
 
Così ci ritrovammo all’entrata.
Ero intento ad uscire quando un braccio mi sfiorò velocemente, ed una mano mi precedette sul pomello della porta.
Rimasi incastrato tra Gerard, e quella che avrebbe dovuto essere la mia unica via d’uscita.
Ma questa volta non avevo voglia di andar via.
 
Riuscivo a sentire il suo calore, mentre le mie spalle rimanevano a pochi centimetri dal suo petto, ma non potevo vedere la sua espressione. La immaginai seria, ma dolce; in un contrasto che non smetteva mai di abbandonare il suo volto.
Non credo passò molto tempo.
La sua mano era ancora sulla maniglia, ma sembrava non volerla abbassare, il suo braccio mi era ancora vicinissimo, ma noi ci sfioravamo soltanto, nonostante il suo respiro si poggiasse piano sui miei capelli. Poi lui fu costretto a spostarsi  -o almeno mi piace pensarla così- quando la porta si aprì verso l’interno e io dovetti fare un passo indietro per poter uscire.
 
Quando mi voltai, sperando di poter trovare le parole giuste da dire, lui era decisamente troppo lontano, e il suo respiro aveva smesso di riscaldarmi.
Feci un cenno con il capo, e il suo labbro tornò sotto la morsa di quella fila di denti bianchi.
Poi scesi velocemente le scale.
 
E per la seconda volta, un piccolo pezzetto di carta mi sembrò il più grande traguardo della mia vita. 

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Godetevi i Pumpkins, che fanno sempre bene. E un grazie in anticipo a chiunque vorrà recensire. 
 
 

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Capitolo 9
*** 6 - Sinking down ***


'Sera. Rieccomi con novità. Vorrei, come sempre, ringraziare chi ha recensito, o chi, comunque, ha apprezzato la storia. Questo capitolo, come noterete, è quello in cui le cose iniziano a prendere forma. Oltre questo, stasera ho poco da dire, però vorrei farvi una domanda. Ovviamente nessuno di voi è obbligato a rispondere (ciò significa che potete semplicemente recensire e ignorare la domanda, oppure semplicemente rispondere alla domanda e ignorare la recensione). 
Se poteste dire a qualcuno una cosa che non avete mai avuto la possibilità di dire, cosa direste?
Non mi aspetto risposte, è semplicemente un momento di pazzia. 
Grazie di tutto. -Claud. 

 


CAPITOLO SESTO 

Now most nights I'm just sinking down and down  (I've Given Up On You)


 


A volte vorrei poter tornare indietro a quei giorni in cui credevo di non avere nulla, nonostante avessi così tanto.
Perché la verità è che ero solito avere così fottutamente tanto.
 
Adesso ho iniziato a scomparire.
 
 ~
 
Avevo sempre immaginato una vita diversa.
Alla fine non so cosa uno debba farsene di tutte le fantasie che accumuli negli anni. Puoi piegarle e metterle da parte, se proprio non riesci a separartene, oppure gettarle così lontano da dimenticarti di averle mai anche solo immaginate.
La verità però la sappiamo tutti. Perché noi non riusciamo affatto a far finta di non saper sognare, né tantomeno a liberarci di ciò che abbiamo sognato. E allora ci appendiamo davanti agli occhi tutte quelle cose che non abbiamo mai potuto avere. Tappezziamo i muri con una vita intera che non siamo riusciti a vivere.
 
Sarei un ipocrita se dicessi di aver desiderato qualcosa di migliore rispetto a ciò che ho avuto.
Non sono bravo a mentire e soprattutto ho deciso di non voler mentire a me stesso.
La mia vita ha di gran lunga superato ogni sogno con cui avrei potuto tappezzare la realtà.
 
~
 
“… Mikes, lo sai che ti voglio bene… Però no.”
“Ma perché no?”
“Perché sembrerei un idiota anche solo indos-”
 
“Frank ha ragione, Mikey. Non potete indossare le cravatte abbinate, devi aspettare la festa di fine anno per farlo. Sempre che il piccolo Frankie voglia essere il tuo appuntamento…”
 
Gerard irruppe nella stanza con un ghigno sul volto, poggiandosi sullo stipite della porta.
Nonostante lo conoscessi appena, sapevo che non avrebbe mai messo troppa cura in ciò che indossava. Che si trattasse di una festa o semplicemente di una giornata come tutte le altre.
Eppure c’era qualcosa di diverso nel suo aspetto. In quei jeans un po’ larghi e consumati, nel modo in cui Gerard sembrava sempre alla ricerca di qualcosa che nemmeno lui sapeva bene cosa fosse.
C’era una luce diversa nei suoi occhi, come se brillassero forti con la realizzazione che forse avrebbe potuto smettere di cercare, di guardare così lontano, perché guardare lontano e guardare oltre non sono sempre il modo giusto di vivere la propria vita.
Perché a volte puoi andare via ma altre devi rimanere.
Perché a volte puoi cercare cambiamenti ma spesso sei tu a dover cambiare le cose.
 
E quella sera glielo leggevo nello sguardo che lui aveva deciso di rimanere, e lo aveva fatto senza timore; che per una volta gli sorridevano gli occhi al solo pensiero di aver smesso di correre.
E a me sorrideva il cuore dalla fierezza, perché quella luce scintillava solo in presenza mia e di Mikey. E mi sentii un eroe.
 
“Senza offesa per Frank, ma per il ballo di fine anno punterei più in alto. ”
 
Io gli lanciai un occhiolino.  “Non sai quanto sbagli, MikeyWay.”
 
Gerard scosse piano la testa, ridendo appena.
 
“Smettetela di fare i cazzoni e sbrigatevi. Mikey, mettiti la cravatta. Frank, tu- non lo so… tu fai qualcosa di produttivo”
“Ma non c’è nulla da fare”
“Okay, allora resta lì a non fare nulla di produttivo, però fallo in maniera veloce”
 
Gerard uscì velocemente dalla stanza.
Arrivato a metà corridoio ci urlò che in dieci minuti avremmo dovuto essere pronti ed avere il culo sui sedili della macchina, se non volevamo andare a piedi.
Io e Mikey ci fissammo per un paio di secondi, poi lui fece spallucce e gettò la cravatta in un angolo del letto, stanco di aver anche solo provato ad indossarla.
 
“Ha raggiunto il penultimo livello di fratello-rompi palle”
 
Io cercai di mantenere un passo adeguato, mentre le gambe lunghe di Mikey continuavano a superarmi in velocità.
 
“Perché, c’è anche un ultimo livello?”
 
Lui portò il telefono alla bocca, bloccandolo tra le labbra, mentre in modo impacciato tentava di far entrare le chiavi di casa in tasca, usando entrambe le mani.
Quando riuscì di nuovo a parlare eravamo arrivati alla fine del vialetto, e stavamo per entrare in macchina.
Il biondino si voltò verso di me e sussurrò piano.
 
“Se fosse stato all’ultimo livello avrei davvero preferito andare a piedi”
 
Poi aprì la portiera posteriore, e si lanciò sui sedili dietro, sdraiandocisi sopra; mentre io mi presi un secondo per realizzare appieno la situazione.
Mi dissi che avrei potuto farcela.
 
Entrai in macchina e, prima di mettere in moto, Gerard si voltò verso di me e mi sorrise timidamente, mentre nel suo sguardo notai una sfumatura che non aveva niente a che vedere con la timidezza del sorriso.
 
E quando lui riportò lo sguardo sulla strada, io non riuscii a fare a meno di notare il modo in cui si passò lentamente la lingua sul labbro inferiore per umettarlo e per poi stringerlo tra i denti.
E non potei fare a meno di guardarlo di nuovo negli occhi e capire che, effettivamente, ero proprio fottuto.
Perché l’unica cosa che riuscii a leggervi dentro fu desiderio.
 
Mi dissi che non avrei potuto farcela.
 
~
 
Quando sei ad una festa, arriva inevitabilmente un momento in cui ti chiedi come mai tu abbia accettato di andarci.
Non so se sia una specie di regola fisica o sociale. So solo che una festa non è una festa, se ad un certo punto non ti penti di esserci andato o se ad un certo punto non desideri fortemente di poter scappare via.
Per quanto mi riguarda, la maggior parte delle volte era un desiderio che ritornava così spesso in una sola sera, da farmi convincere del fatto che io e le feste non avremmo mai, mai dovuto essere nella stessa stanza un’altra volta.
E poi, puntualmente, ci ricadevo. Forse sempre per gli stessi motivi. Forse perché non ho mai saputo essere deciso nelle mie scelte, grandi o piccole che fossero.
 
Quella volta, però, non ebbi bisogno di cercare poi così a fondo. Avevo un motivo così chiaro da vergognarmi quasi di me stesso, un motivo che mi aveva spinto a ripetere lo stesso errore per l’ennesima volta.
La cosa peggiore, probabilmente, è che sarei stato pronto a ripeterlo altrettanto spesso.
 
E non so fino a che punto questo potesse essere un errore.
 
~
 
Scesi dalla macchina e il mio sguardo si fece pesante sulla figura del ragazzo che camminava di fianco a me, tanto pesante che pensai lui avrebbe potuto percepirlo.
Trovavo il suo viso così bello da non riuscire nemmeno a capirlo per bene. Ogni linea sembrava perdersi e poi ritrovarsi, rincorrersi con ogni altro lineamento e creare un’armonia dolce ma netta.
Non riuscii nemmeno a convincere me stesso del fatto che non fossi veramente geloso se ognuno alla festa avrebbe potuto godere di quella vista.
Perché, in fondo, lo ero così tanto da esserne consapevole.
 
Eccolo – mi dissi- è per quegli occhi che stai cadendo.
Eccolo, pensai. Un motivo così bello da metterti voglia di ripetere sempre le stesse cazzate.
Eccolo.
E lo guardai.
 
Mi chiesi se avrei potuto farcela.
 
~
 
Mikey mi stava guardando con quel suo sguardo che mi supplicava di non abbandonarlo lì da solo, di non allontanarmi senza lui. Perché la verità è che non basta mai una stanza piena di gente per non sentirti soli. Anzi, spesso la presenza di altre persone ti fa realizzare pienamente quanto tu lo sia.
E io avrei desiderato stringergli la mano. Farlo forte. Trasmettergli la consapevolezza che ero lì con lui, con i piedi fissi su quel pavimento sporco ed appiccicoso, e non avevo intenzione di andare via.
Non senza di lui.
 
Gerard aveva incrociato l’unico ragazzo che avesse potuto avere più o meno la sua età e che, caso volle, era un suo amico. Si erano allontanati con la scusa di non poter parlare bene per colpa della musica troppo alta. E io e Mikey eravamo rimasti lì, in mezzo al salone stracolmo, senza alcuna idea di ciò che avremmo dovuto fare.
Fu in quel momento che capii.
 
Capii che avevo passato gran parte della mia vita trascinandomi dietro quella stessa identica sensazione, senza nemmeno accorgermene.
Mi sentii come chi non ha un luogo al quale appartenere.
 
“Ti prego, andiamo a bere, usciamo a fumare, sediamoci su quel divano insieme alla sporcizia che sta per prendere vita, però facciamo qualcosa. Perché se sto per altri due secondi fisso in questo punto, mi butto a terra e ti giuro- ti giuro che non mi rialzo mai più”
“No infatti. Oltretutto mi sento un coglione se rimango in mezzo alla sala a fissare gli altri”
 
Iniziammo a camminare verso la cucina, anche se fu una scelta inconsapevole.
 
“Oh, com’è che mio fratello si dilegua sempre quando c’è bisogno di lui?”
“Mentre tu parlavi con un tuo amico, mi ha detto che doveva allontanarsi un attimo”
“Mh? Da solo?”
“No lui- uhm.. Credo abbia incontrato un ragazzo che conosce. Non lo so.”
“Alto, biondino, di quelli che lo capisci subito che potrebbero essere amici di Gee?”
“Decisamente”
“Okay. E’ il fratello di Tom.”
 
Io alzai le spalle e presi una delle lattine di birra che non erano ancora state aperte, porgendone una anche a Mikey.
 
“Ho sempre sospettato che stessero insieme.”
 
Sgranai gli occhi, e cercai di dissimulare il fatto che mi ero bellamente affogato con il sorso di birra. Passandomi la manica della felpa sulla bocca bagnata.
 
“Come, scusa?”
 
Osservai il suo pomo d’Adamo che scese e risalì velocemente, mentre la lattina si allontanava dalle sue labbra.
 
“Gee e l’altro ragazzo. Erano tipo migliori amici, al liceo… ti parlo di secoli fa. E- non lo so, hanno sempre avuto questa specie di feeling…”
 
“Mikey?”
“Sì?”
“Quanti anni ha Gerard?”
 
 
 
 
~
 
Mi presi una di quelle sbronze colossali.
Anche oggi, ripensandoci, fu una mossa così cliché da poterci solo ridere un po’ su.
 
Gerard era stato assente per buona parte della serata, mentre Mikey aveva trovato compagnia sullo stesso divano su cui lui stesso si era rifiutato di sedersi qualche ora prima.
Probabilmente avevamo in corpo la stessa quantità di birra, ma non le stesse necessità; e mentre lui si accontentava di ridere fino a lacrimare, io sentivo solo questo gigantesco e incombente bisogno di pisciare. Non mi importava nemmeno molto dove.
 
Salii di fretta le scale alla ricerca di un bagno libero. Magari uno che non facesse puzza di vomito e fumo, perché anche da ubriaco riuscivo ad avere delle priorità.
Le prime porte che tentai di aprire erano tutte chiuse a chiave, e dubitai vivamente fossero dei bagni. Per un attimo, poco prima di trovare una stanza libera, m’immaginai Gerard nel buio di una di quelle camere da letto, mentre qualche ragazzo passava le sue mani pesanti e veloci sulla pelle pallida. E non so se quell’improvviso senso di nausea fu dovuto unicamente alla birra.
 
Tentai di rimanere in equilibrio mentre facevo la pipì con lo stomaco che si rivoltava al mio interno, e la bocca che produceva sempre più saliva. Credevo di dover vomitare, e caddi velocemente sulle ginocchia, portando un braccio attorno alla ceramica del gabinetto.
Passarono pochi minuti, almeno nella mia concezione da ubriaco, fin quando non sentii una mano poggiarsi piano sulla mia fronte, scostando tutti quei ciuffi che continuavano a ricadere in avanti in una lotta continua. Fu una cosa del tutto improvvisa, ma ricordo benissimo il modo in cui quella mano sembrò davvero fredda, forse troppo rispetto al calore che veniva sprigionato dal mio corpo.
E fu proprio quel contrasto così netto a farmi rinvenire, a ricordarmi dov’ero, e, sinceramente, non fui affatto sorpreso quando, voltandomi, l’unica cosa che mi accolse fu un sorriso timido e, subito dopo, il buio.
 
 
Delle dita continuavano a stringere con veemenza alcune ciocche di capelli, non volutamente, ma per fare meglio presa su di me. Altre dita scorrevano leggere sul mio viso, mi accarezzavano la tempia che sembrava pulsare così forte da provare un dolore fisico.
Io avrei solo voluto aprire gli occhi, e sussurrare un grazie, anche se stentato. Ammettere che stavo male da far schifo, ma che in verità non mi ero mai sentito meglio in vita mia.
Perché in quell’intreccio di corpi, su un pavimento sconosciuto che stava assistendo al peggio di me, l’unica sensazione che riuscivo ancora a percepire, era quella di essere al sicuro.
Oltre la confusione, la nausea, il dolore, e quella vocina interiore che ti convince di quanto disperato tu sia, c’era solo la consapevolezza che forse, adesso, avrei potuto smettere di essere solo in un mare di folla.
 
Aprii gli occhi, solo per perdermi in due specchi verdi.
E non ci fu bisogno di parole per ringraziare Gerard.
 
~
 
Fui portato in una camera vuota.
Di quella parte della sera ho solo alcuni ricordi brevi che mi riempiono la mente nei pochi istanti in cui tutto smette di essere nero. Come piccoli bagliori di luce nella notte, che ti ricordano che sei vivo. E a volte vorrei poter semplicemente smettere di ricordare, proprio come si smette di vedere.
Vorrei poter chiudere gli occhi sul passato.
 
Nonostante le mie condizioni, non dubitai mai di quelle braccia che mi sorreggevano forti.
Non dubitai mai delle intenzioni di Gerard, né del modo in cui si prese cura di me, eppure c’erano fiumi di parole che mi rimbombavano in testa e facevano da eco ad ogni altro suono.
Tutte quelle frasi che avevamo gettato distrattamente fuori negli ultimi giorni, ma che erano rimaste sospese in aria; le discussioni con Gerard nel suo appartamento e il modo in cui mi strinse contro la porta senza nemmeno toccarmi. Quel calore che riusciva man mano a salvarmi dall’oblio gelato in cui avevo iniziato a cadere. E, inevitabilmente, tutti i segreti che rimanevano rumorosi a colmare ogni silenzio, ingombranti a riempire ogni vuoto, per ricordarmi che puoi scappare da tutto, ma non da quello che ti porti dentro, e, soprattutto, non da te stesso.
 
“Gee…”
“Ehi Frank”
 
Lui si premurò di liberarmi ancora una volta dal fastidio dei capelli, e io capii che avrebbe desiderato non farmi sforzare troppo.
Così rimanemmo immobili sul letto: io sdraiato e senza forze, Gerard seduto accanto a me e preoccupato.
La trovai una cosa bellissima.
 
“Gee, ferma il rumore”
“…Io non- ”
 
Le parole gli si fermarono in gola, e ci guardammo con lo stesso sguardo privo di speranze.
Io stesso mi sentii senza speranza.
 
Mi dissi che, se ero davvero destinato a perdere il poco che ancora mi rimaneva, allora l’avrei fatto in modo grandioso, e avvicinai il mio viso al suo.
Una mano premette prontamente sul mio petto e la mia schiena sembrò schiantarsi contro il materasso, mentre osservavo Gerard allontanarsi e scendere dal letto. Presi un respiro profondo.
 
Nessuno dei due riuscii a parlare.
 
In situazioni del genere c’è davvero poco da dire; di solito le parole non servono a nulla quando tutto è chiarissimo, e io mi chiesi se per Gerard fosse davvero così. Se per lui fosse tutto così chiaro da essere lampante. E mi chiesi cosa ci fosse di tanto sbagliato in me, se nessun pezzo sembrava combaciare con l’altro, se tutto ciò che provavo era una fortissima voglia di piangere.
Ma non riuscì nemmeno a farlo.
 
E allora mi voltai di scatto, guardai fuori dalla finestra, ed era tutto così fottutamente buio da far paura. Avrei voluto vedere delle forme, un paesaggio, qualsiasi cosa avrebbe potuto convincermi del fatto che, nonostante avessi fallito ed avessi perso tutto, c’era comunque un mondo, là fuori, che non era crollato insieme a me.
Ed invece tutto sembrava risucchiato dalla notte, e io portai le ginocchia al petto e mi rannicchiai sulle coperte sfatte di uno sconosciuto, sperando di potermi dissolvere proprio come il mondo fuori dalla finestra.
 
Invece sentì Gerard parlare.
 
“Frank io- cazzo, mi dispiace averti dato un’idea sbagliata. Magari se le cose fossero state diverse io-”
“Ma non lo sono.”
 
Rimase interdetto.
 
“No…” -  “No, non lo sono”
“Allora, per favore, riportami a casa”
 
.
 
E il mio corpo tremò come un bagaglio trasportato sul treno, mentre Gerard sembrava rimettere in atto la scena di poche ore prima, con quel suo sguardo rigido puntato fermamente sulla strada di fronte a lui; ed io che continuavo a guardare il suo profilo, adesso troppo ubriaco per potermene anche solo curare, e mi dissi che non era vero un cazzo.
Che le cose che sembrano sempre rimanere le stesse, sono quelle che invece non lo rimangono mai.
 
Nel letto di casa mia, cullato dalle inquietudini, realizzai una tra le lezioni più importanti della mia adolescenza.
 
Quando si tratta di afferrare le cose che ci sfuggono via, non abbiamo mai i riflessi pronti.
 


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Ogni recensione è ben accetta. Grazie a tutti. Alla prossima.
 

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Capitolo 10
*** 7 - Believe (in Us) ***


Dopo... un mese? Non ne ho davvero idea. In ogni caso sono ancora qui, con un nuovo capitolo, e delle scuse dovute. E' stato un periodo terribile per nuove idee riguardanti questa storia. In compenso ne ho iniziata -e finita- una che con questa non ha nulla a che fare ( la trovate qui ) e che vorrei leggeste, perché ne vado abbastanza fiera. Detto questo, spero che il capitolo vi piaccia, anche perché è un capitolo chiave (leggere per scoprire). Mi scuso ancora per il ritardo (e per eventuali errori, dato che non l'ho riletto), e mi auguro di poter leggere le vostre opinioni e recensioni anche questa volta. Le critiche sono sempre benaccette.
Ringrazio chiunque abbia contribuito a farmi arrivare fin qui. Grazie davvero a tutti. Buon 31 Dicembre. 

 


CAPITOLO SETTIMO

I just wanna believe. I just wanna believe.
I just wanna believe in us. 
(Okay I Believe You, but my  Tommy Gun Don't)

 


Provavo a correre velocemente, ma l’acqua sembrava sempre più profonda. Ogni passo doveva essere la mia salvezza, e invece era solo un ulteriore tentativo invano. Sembrava tutto così confuso e rapido da non poter nemmeno prestare attenzione a ciò che facevo. A volte capitava che un piede inceppasse in qualcosa, o che la corrente sembrasse opporsi con più impeto, e allora deglutivo a vuoto e sapevo che non ce l’avrei mai fatta.
Passarono minuti, forse ore. E poi capii.
Correvo in direzione sbagliata.
 
~
 
Mi svegliai di soprassalto con la maglietta madida di sudore ed il corpo intorpidito.
Non so come mai non lo notai subito -forse ero stato troppo preso dal sogno nel quale mi sembrava ancora di essere, o forse era colpa di quel peso continuo alla gola, quella sensazione estremamente reale dell’acqua che non ha intenzione di lasciarti vivere- eppure non ero in camera mia.
Trovai Mikey seduto ai piedi del suo divano che mi fissava incredulo, mentre teneva saldamente in mano uno dei tanti Joystick che c’erano in casa.
Capii che il mio sonno non doveva essere stato molto tranquillo visto dall’esterno.
 
“Amico… questa cosa è stata fottutamente strana”
 
Io scesi le gambe dal bracciolo del divano, e mi misi seduto.
 
“Miks- non puoi capire, ho fatto una specie di incubo in cui c’era tutta quest’acqua e io provavo a scappare verso riva, e alla fine ho scop-”
“Aspetta!”
 
Lo vidi alzarsi improvvisamente e uscire dal salone.
 
“Dove cazzo vai?”
“Lo senti questo odore?”
“Uhm… sì?”
“Mia madre ha fatto i biscotti al cioccolato”
 
Ed effettivamente gli diedi ragione. Il sogno avrebbe potuto aspettare.
 
~
 
La signora Way ci accolse in cucina, con due presine in entrambe le mani che sostenevano una teglia di biscotti scuri.
Per un attimo convinsi me stesso del fatto che tutto quel correre mi avesse messo una fame immensa, poi capii che ci avrei messo un bel po’ per abituarmi all’idea che il mio era stato solo un sogno altamente realistico.
 
“Ciao Frank”
“Salve Mrs Way”
“Tutto bene a casa tesoro? Mikey mi ha detto ch-- Mikey! Non leccare l’impasto!”
 
Lui allontanò il cucchiaio dalla bocca, deglutendo l’ultimo boccone e alzando le mani in segno di resa.
 
“A volte mi chiedo come mai il destino non mi abbia dato due figlie femmine, al posto di questa coppia di primitivi”
 
Questa volta fui io a deglutire. Ma mandai giù un sapore decisamente più amaro.
 
“A proposito, Michael mi ha detto che hai conosciuto Gerard l’altra sera”
 
Lo disse con uno di quei sorrisi che metti su come una facciata, ma che non riescono mai a nascondere del tutto le paure che ci sono dietro.
E io lo vidi subito come il suo era sull’orlo del crollo, come Gerard riuscisse ad essere una crepa costante nelle vite di ognuno di noi.
Mi chiesi cosa si portasse dietro.
 
Quando mi tornò alla mente la sua scelta di parole -“l’altra sera”- avrei solo voluto poter essere libero di dire tutta la verità, di svuotare quel sacco che sembrava diventare sempre più pesante, sempre più ingombrante; con l’ironia che, alla fine, a riempirlo, ero solo io.
 
E allora pensai che non avrei  potuto biasimarla, perché ognuno di noi ha qualcosa di pesante da nascondere.
Che sia dentro un sacco, o dietro un sorriso.
 
 
“Mamma! Ti ho detto di non chiamarmi Michael…”
“E io è da diciassette anni che ti dico di non mangiare l’impasto! ma evidentemente essere recidivi è di famiglia”
“Comunque… uhm, sì. L’ho conosciuto qualche giorno fa, a dire il vero. Sono dovuto andare a casa sua per prendere un quaderno da Mikey e… sì.”
“Bene, allora avrai notato che questi due sono molto simili… Stai attento”
 
Mrs Way mi porse il piatto con i biscotti e mi fece un occhiolino.
 
Oh, l’avessi saputo prima, sarei stato molto più che attento.
 
~
 
C’erano quelle volte in cui ero sdraiato sul mio letto, con una canzone nelle orecchie, e mi sentivo come se per un minuto non ci fosse più la necessità di inseguire qualsiasi cosa io stessi inseguendo nella mia vita.
Era la mia pausa dal mondo.
 
Dallo stesso mondo che tornò forte a reclamare la sua presenza, anche se in modo apparentemente innocente, attraverso un messaggio di Mikey.
E io avrei anche sorriso, se non si fosse trattato di quello. Tutto, tranne quello – pensai.
 
“Stasera film a casa di Ger. Ha insistito affinché ci fossi anche tu. (la risposta non darmela, è automaticamente sì.) 8:30 a casa tua. XO, M.”
 
Il mio sguardo scattò veloce verso la sveglia che tenevo sul comodino. Erano già le otto.
Mi diedi del coglione perché non c’era volta in cui riuscissi a rimanere con i piedi per terra, anche solo un minimo, e poi finivo sempre con l’incasinarmi da solo.
Non ebbi nemmeno il tempo di pensare, che stavo già girando in modo isterico per la camera, alla ricerca di una felpa pulita e di un paio di jeans da sostituire al pigiama.
Arrivati a quel punto, anche il semplice ipotizzare una doccia sarebbe stato pura follia; così mi sciacquai il viso nel modo più accurato possibile, abbozzai una mezza acconciatura ai capelli, e mi guardai allo specchio. Tentai di salvare il salvabile. In extremis.
 
Mikey sapeva essere dannatamente puntuale, quando c’era di mezzo Gerard e quel suo “livello estremo di stress-pressante” che, sinceramente, nessuno di noi due aveva voglia di mettere alla prova.  Specialmente dopo la sera della festa.
Cinque minuti dopo l’appuntamento il campanello di casa mia suonò appena in tempo per dire a mia madre che quella sera avrei mangiato una pizza fuori con degli amici.
 
All’inizio fui tentato di nominare Gerard.
Di solito non c’era quasi mai qualcosa di cui non mi andasse di parlare con mia madre. Lei era probabilmente l’unica persona che sapevo potesse capirmi appieno, che era stata al mio fianco mentre combattevo ogni mia battaglia. E il più delle volte lo aveva fatto silenziosamente, senza farsi notare, ma dandomi una forza immensa; e io le fui sempre grato.
 
Eppure quella sera percepii una sensazione diversa, che mi attanagliò lo stomaco appena provai ad emettere quel suono, a pronunciare quel nome. La sensazione che, forse, per una volta, sarebbe stato meglio tenere per me tutti quei dubbi e tutte quelle incertezze che ruotavano attorno alla sua figura.
Pensai che è inutile provare a spiegare a qualcun altro qualcosa che nemmeno tu hai ben capito.
 
Perché, effettivamente, Gerard, era un segreto che avrei anche potuto provare a custodire, ma che non sarei mai riuscito a capire.
 
.
 
“Cavolo Frank, sei pronto!”
“L’appuntamento era alle otto e mezza, no?”
“Sì, ma lo sappiamo tutti che stavi dormendo e hai letto il messaggio solo mezz’ora fa”
 
Sentii mia madre ridacchiare dalla cucina.
 
“Magari ero nella doccia… oppure stavo studiando. Che ne sai.”
“Ti deve fare proprio male la doccia, se quando esci hai sempre questa faccia da chi si è svegliato dieci minuti fa”
“Sono le otto e mezza, io sono pronto, tu sei qui. Mi sembra che le cose essenziali ci siano tutte”
“Mh, questa volta te ne esci così… ma solo perché conosco mio fratello e so che non si farebbe problemi a mangiare le nostre pizze se non arriviamo prima del ragazzo delle consegne”
 
Sperai con tutto me stesso che mia madre non avesse ascoltato l’ultima parte della discussione.
 
~
 
“Giuro che se il professore di economia continua ad assegnare questi compiti impossibili io abbandono il corso”
“Te l’avevo detto di non seguire troppe materie extra. Poi alla fine si arriva sempre alla pazzia”
“Sì, ma lo sai che i crediti ci servono”
Feci spallucce.
“Comunque…” Mikey si voltò verso di me “La festa di venerdì è stata fantastica. Ho incontrato una ragazza carina” Il suo tono di voce si fece più sommesso “Mi ha dato il suo numero… dici che dovrei mandarle un messaggio?”
“Sei coglione? Certo”
“Ma magari me l’ha dato presa dall’atmosfera, e se poi – cioè tipo, probabilmente adesso le mando un messaggio e lei ha cambiato idea e nemmeno risponde”
“E quindi? Se non risponde ci hai perso un messaggio. Sai che importa-”
“Importa che se non risponde vuol dire che non ha risposto, scemo!”
 
Lui non mi diede nemmeno il tempo di rispondere.
 
“A te com’è andata?”
Merda.
“Dici alla festa?”
Mikey annuì.
“Beh, per quello che ricordo è andata in modo normale. Ho bevuto un po’, poi credo di aver girato per casa. Ho vomitato… solite cose”
“Eri con Gee?”
I miei occhi divennero enormi.
“L’ho incontrato in bagno. Mi ha-- diciamo che mi ha dato una mano”
“Mh. Okay”
 
Mikey non era arrabbiato.
Quella volta credetti davvero che avesse scoperto tutto, che mi avesse portato a fare un giro solo per sputarmi in faccia tutta la verità, e invece non era arrabbiato.
Non aveva nemmeno capito niente, almeno suppongo.
 
E quando arrivammo a casa di Gerard e lui ci aprì la porta, sembrò tutto normale.
Non soltanto tra lui e suo fratello, ma anche tra noi tre.
Fu come se Gerard avesse deciso di mettere una pietra sopra il passato e ricominciare tutto da capo; e per quanto odiassi quel peso sullo stomaco, mi venne difficile accettare l’idea che per lui fosse stato davvero così semplice dimenticare tutto ciò che era successo tra di noi.
Mi sentii un po’ stupido.
 
~
 
Non dissi nulla per buona parte della serata.
Probabilmente ognuno di noi tre si era accorto che c’era qualcosa che non andava come sarebbe dovuta andare, una nota stonata che si percepiva appena ma che rovinava inevitabilmente tutto il resto.
 
Ci ritrovammo a spaziare tra mille discorsi, cercandone uno che riuscisse a tirarci fuori da quella situazione tesa. Poi a Mikey venne un’idea geniale.
 
“Hey Frank, ti va di vedere i disegni di Gee?”
“Mikey!”
 
Gerard richiamò la sua attenzione, come a dire che sarebbe stato carino consultarlo, prima di proporre una cosa del genere. Mikey non si scompose e rispose in modo calmo.
 
“Cosa? I tuoi disegni sono una figata, Gee.”
“Sì ma-- non so se mi va di mostrarli al mondo…”
“Non è ‘il mondo’, è solo Frank” 
 
Concluse Mikey, disegnando in aria delle virgolette con quelle sue dita ossute, e discutendo con Gerard come se io non fossi in quella stessa stanza.
In quel momento avrei preferito essere risucchiato tra i cuscini del divano.
 
Il più grande puntò il suo sguardo verso di me, poi di nuovo brevemente su Mikey, e alla fine tornò a guardarmi mentre si mordicchiava il labbro in un’espressione dubbiosa, come se stesse riflettendo sul da farsi.
Come se Mikey non si fosse già alzato per andare a prendere il blocco da disegno che c’era sul ripiano in cucina.
 
In quei pochi secondi in cui mancò, riuscii a ricambiare lo sguardo di Gerard, e mi sembrò come se quella fosse la prima volta, in tutta la serata, in cui lo stessi davvero guardando.
Non osservando il suo profilo di nascosto, non lanciando un’occhiata casuale mentre lui era impegnato in altro. In quei secondi stavo reggendo tutto il peso di quegli occhi verdi, e fu come se Gerard si stesse lasciando leggere dentro. Mi accorsi che non era riuscito affatto a mettere da parte il passato, che i suoi fantasmi continuavano a perseguitarlo la notte e che forse lui non desiderava nemmeno andare oltre.
Era piacevolmente schiacciato dal peso delle cose scomode.
Proprio come me.
 
Mikey arrivò di corsa dall’altra stanza.
 
“Fatemi spazio sul divano!”
“Io sto in centro”
“Ma-”
“Io sto in centro. Sfoglio io”
 
Gerard finì di parlare e si alzò dalla poltrona, gettandosi pesantemente sul divano e rischiando quasi di seppellirmi.
Mikey, invece, slittò svogliatamente dal lato opposto, rimanendo schiacciato tra il corpo di suo fratello e il bracciolo rigido.
 
Per i primi schizzi il mio sguardo si perse sulle mani di Gerard e il modo in cui riuscivano a sfogliare abilmente le pagine, soffermandosi ogni tanto su qualche linea, sfiorandola, come ad ammirare il proprio lavoro.
In seguito mi concentrai unicamente sui disegni. Sull’arte.
Perché fu l’unica cosa che riuscii ad ammettere a me stesso: Gerard creava arte.
La maggior parte dei fogli era annerita da linee veloci e ripetute, spesso poco precise, e da figure abbozzate. C’era sempre comunque qualcosa di speciale dietro: un dettaglio che non riuscivi a cogliere ma che dava l’essenza a tutto il disegno.
 
E poi c’erano pagine che ti toglievano il fiato, perché la matita era lì ma non riuscivi nemmeno a farci caso. Erano paesaggi, o qualcosa di inventato, ma erano dannatamente belli.
A volte, appena un disegno ne seguiva un altro, il respiro mi si bloccava in gola e trasalivo leggermente, e allora Gerard mi scrutava da sotto le sue ciglia lunghe e gli scappava via un piccolo sorriso.
Poi accadde l’inevitabile.
 
Lui voltò pagina e mi bastò solo una frazione di secondo per rendermene conto.
Il disegno era lì, davanti a me.
Era nero su bianco, ombre contro riflessi di luce, e per altri avrebbe potuto essere qualsiasi cosa, ma non per me.
 
Notai il modo in cui la mano che aveva appena sfogliato quello schizzo si fece rigida sul foglio e il modo in cui Gerard deglutì pesantemente.
Io invece presi un respiro profondo, perché mi sentii cedere.
 
Era il disegno di un ragazzo visto di spalle, seduto su una panchina con una nube di fumo attorno.
La figura non era chiarissima, perché veniva un po’ sgranata dalla controluce e dal chiaroscuro, ma io avrei riconosciuto quella panchina e quell’angolo di parco anche ad occhi chiusi.
E avrei riconosciuto me stesso anche senza aver notato il panico nello sguardo di Gerard.
 
“…È bellissimo”
 
La sua mano fece per girare nervosamente pagina, ma io la bloccai velocemente, ancorando le mie dita. Passai l’altra mano sopra il disegno e sfiorai alcune linee, mentre percepivo il battito di Gerard che martellava nel suo polso.
 
“Posso tenerlo?”
 
Allentai la presa e ci fu un istante in cui sia io che Mikey fissammo profondamente Gerard, pendendo entrambi dalle sue labbra, in attesa di una risposta.
Lui però non rispose.
 
Strappò il foglio in modo netto, lo ripiegò su se stesso, e me lo porse.
 
“Adesso è tuo”
 
Ma con gli occhi mi disse che era una bugia. Mi disse che era sempre stato mio.
 
~
 
“Frank!”
 
Mikey urlò dall’altro lato del salotto, telefono in mano e sorriso stupido stampato in faccia.
 
“Cazzo Mikes, ch-”
 
Senza nemmeno poter avere il tempo di accorgermene, avevo lo schermo del suo telefono appiccicato ai miei occhi. Lessi il messaggio.
 
“Ha risposto, Frank!”
 
Io mi voltai verso Gerard, influenzato dalla risata di Mikey.
 
“Gerard, ha risposto!”
“Ma ch- -”
 
“E tu cosa le hai detto?”
“Nulla, devo ancora rispondere. Che scrivo?”
 
Mi alzai anch’io dal divano, lasciando da solo Gerard che ci guardava perplesso.
 
“Qualcuno può spiegarmi chi ha risposto a cosa?”
“Aspetta, stiamo pensando”
“Chiedile di vedervi”
“E’ una ragazza?”
 
Ci voltammo entrambi verso Gerard, poi Mikey portò una mano dietro la nuca e rispose con un tono imbarazzato.
 
“Sì, l’ho- uhm, l’ho incontrata venerdì. Alla festa.”
“Chiamala.”
 
I nostri occhi si illuminarono all’unisono, perché, sinceramente, era un’idea geniale.
Così nessuno aggiunse nulla e l’unico suono fu quello del numero che veniva composto sullo schermo del telefono, poi una voce metallica che rispondeva alla chiamata.
 
E io non sapevo ancora il suo nome ma le dovevo già un favore, perché fece allontanare Mikey.
E io rimasi solo con Gerard.
 
…..
 
Lui iniziò a picchiettare piano le dita sul ginocchio, guardando dritto di fronte e sé.
 
“Sai, adesso che ho scoperto questo disegno, mi sento un po’ spiato…”
Sorrisi, attirando l’attenzione di Gerard.
“Sì, insomma… la scusa dell’accendino era accettabile, ma questo-” sollevai il disegno “- è tutta un’altra storia”
“Frank- - ”
“Perché non c’è modo che quel ragazzo non sia io. Penso che la situazione sia abbastanza chiara”
 
Lui prese un respiro profondo-
 
“Frank…” e gettò via il fiato, insieme alle parole.
 
Poi io sussurrai il suo nome, in risposta, e ci fu un attimo in cui qualcosa scattò tra di noi.
Non so bene se attorno a noi o dentro di noi; so solo che ci ritrovammo a corto di parole, o forse solo a corto di quelle giuste e qualcosa ci fece avvicinare.
 
Può sembrare banale, ma io percepii che Gerard mi fosse più vicino non solo a livello fisico.
Sentii le nostre anime avvicinarsi e sfiorarsi appena entrambi chiudemmo gli occhi, e fu bello sentirsi così a contatto con qualcuno.
Era come se per la prima volta, nella mia vita, ci fosse una persona che capisse esattamente le mie sensazioni e le condividesse con me.
E io sarei stato disposto a condividere anche tutto il resto dei miei giorni, se era quello in modo in cui ci si sentiva.
 
 
Il fiato mi si incagliò in gola quando il respiro di Gerard arrivò come una folata di scirocco sulle mie labbra.
Mi dissi che c’ero, che quello era il momento.
E non riuscii a pensare ad altro, perché non c’era nient’altro.
Solo una bocca che sfiorava la mia. 

- - - - - 

Grazie ancora a tutti. Una recensione mi farebbe davvero tanto piacere. Speriamo di non sentirci di nuovo tra un mese. -Claud.


 

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Capitolo 11
*** 8 - Confronting my Fears ***


*piante secche che rotolano per il vento* Questa volta è uno di quei ritardi epici. Oltretutto ero completamente convinta che avrei aggiornato molto prima del solito, e invece... Ma comunque, dovrò abituarmi a questa nuova routine mortale. E mi sa che voi dovrete abituarvi a questi aggiornamenti un po' rari. Vi chiedo davvero scusa, vorrei tanto poterlo evitare. Spero ci sia ancora qualcuno che segua la storia, e ringrazio chiunque abbia recensito sia The World che Non-existent (continua la pubblicità implicita per le mie stesse storie yeh). Grazie a tutti.
Ci sentiamo nelle recensioni, magari? 



 
CAPITOLO OTTAVO 

I think you saw me confronting my fear.
It went up with a bottle, and went down with the beer.
(Such Small Hands)



 
[…Solo una bocca che sfiorava la mia.]
 
E in quel bacio fummo insicuri, incerti, ingenui.
 
Per certi versi fu proprio come tornare bambini.
Sporcarsi le mani di fango quando invece non avremmo dovuto.
Saper pensare un poco meno e arrendersi un poco dopo.
Non aver paura delle conseguenze, perché alcune cose sono più importanti delle loro conseguenze.
 
Eravamo io e Gerard che provavamo con tutte le nostre forze a tornare bambini, premendoci forte addosso a vicenda. Perché ci serviva coraggio e perché sapevamo che quel bacio non erano delle mani nel fango. Perché non saremo tornati a casa e nulla sarebbe passato.
Perché chiedere scusa a nostra madre non sarebbe stato abbastanza.
Perché avevamo paura di ammettere che era una colpa che solo noi avremmo potuto perdonare a noi stessi. E che sarebbe stato difficile farlo.
 
Gerard si ritrasse.
 
“No. Frank. Scusa…”
Ma le sue labbra erano ancora vicine, ancora sfiorabili.
 
“Shh, Gerard- -” Questa volta mi zittii da solo, attutendo ogni suono sul labbro inferiore del moro.
Lui cedette per una manciata di secondi, poi si staccò con più fermezza.
 
“Basta-” Mi sembrò a corto di fiato “- ti prego, io non- - basta, Frank”
 
Cercai di rimettere insieme tutti i pezzi dell’ultima settimana. Cercai di comporre qualcosa di logico, perché era di logica che avevo bisogno: avevo bisogno di sapere che se le cose vanno in un modo è per un motivo ben preciso.
 
“Io non capisco”
 
Il suo sguardo si riempì di preoccupazione appena il mio tono di voce si fece più alto, e lo vidi voltarsi verso la porta della stanza in cui Mikey parlava al telefono.
 
“Frank-”
 
Chiusi gli occhi e serrai le labbra, provando a immaginare di non essere lì. Perché in quel momento anche il silenzio era troppo pesante da sopportare.
 
Mi alzai velocemente dal divano e raccolsi il giubbotto che avevo lasciato sul tavolo, mentre Gerard seguiva i miei movimenti con quei suoi occhi ghiacciati. E io avrei voluto implorarlo di alzarsi da quel divano del cazzo e venirmi a salvare mentre cadevo. Di fare qualcosa, di dirmi qualcosa, di smettere di guardarmi. Perché le sue paure diventavano le mie e mi facevano venire la nausea.
Quando lui sembrò capirmi, mi bloccò contro la porta.
All’improvviso tutto sembrò di nuovo familiare: il modo in cui i nostri sguardi facevano a pugni, quella sensazione di calore che ti fa tremare, persino quei pochi millimetri che c’erano tra di noi e che non riuscivamo mai a riempire.
Quel giorno capii che quella era la distanza infinitesimale tra me e la mia vita.
 
“Lasciami uscire Gerard”
“Smettila di fare il bambino”
“E tu smettila di dirmi cazzate”
“Cos’è che non va? ”
“Ho detto di lasciarmi uscire”
“Frank-” La sua mano fece pressione sul mio mento per farmi voltare “Parlami…”
“Sì? Dimmi di cosa. Del modo in cui mi guardi con quel tuo sguardo di merda, come se volessi mangiarmi vivo? O del modo in cui mi sfiori? Perché me ne sono accorto. Io- io l’ho notato come la tua pelle brucia mentre mi stai accanto…”
“Tu non ne hai idea”
“Giusto. Allora dimmi che non è vero”
 
Questa volta fu lui a fuggire dal conflitto tra i nostri sguardi, facendo cadere il suo sul pavimento.
 
“Gerard. Dimmi che non è vero e apri questa porta.”
 
Quando alzò il viso, i suoi occhi mi investirono in pieno. Luccicavano sotto la luce fioca che penetrava dalla finestra ed erano di nuovo scuri. Il verde oceano era stato interamente risucchiato da un temporale.
 
Smorzai il respiro quando la sua mano si mosse all’improvviso verso di me.
Ma non sentii nessun contatto, nessun calore. Solo lo scatto metallico della serratura e la porta che si apriva alle mie spalle, sotto la pressione di quella stessa mano che mi aveva sfiorato pochi secondi prima e che adesso mi stava davvero lasciando andare via.
 
Mi chiesi cosa volesse dire il freddo che sbatteva contro la mia schiena. Mi chiesi se quella porta fosse aperta perché avevo torto ed erano state tutte cazzate, oppure perché Gerard aveva paura di ammettere a se stesso che avevo ragione, che avevo colpito in pieno.
Che ero riuscito a dire a voce alta tutto ciò che lui aveva provato a non sentire.
 
~
 
A letto continuavo a provare quella fitta nella gabbia toracica.
Mi dissi che doveva essere il cuore.
 
~
 
La mattina seguente mi svegliai decisamente troppo presto e uscii sul portico a fumare una sigaretta, immerso nell’azzurro chiaro della notte che cede il posto al giorno.
Faceva freddo, però non uno di uno di quei freddi che ti sfiorano fastidiosamente la pelle sotto mille strati di vestiti. L’aria quella mattina sembrava entrarti nelle ossa con decisione, sembrava farti mancare il fiato ogni volta che provavi a prendere un respiro.
E io ci provai con tutto me stesso a smettere di pensare, ma poi, alla fine, dietro il sapore di tabacco continuavo a sentire quello di Gerard, e tra quelle strade vedevo ovunque Mikey, e mia madre era in casa che dormiva, ignara del fatto che suo figlio era fuori sul portico e aveva appena realizzato di aver fallito di nuovo.
E tutto sembrò scorrere nel verso opposto a quello in cui io provavo ad andare.
 
Spensi la cicca sul gradino sotto di me e la gettai lontana, spingendola con l’indice. Aspettai che rimbalzasse una o due volte sull’asfalto umido e mi soffermai a osservarla pensieroso appena si stabilizzò per terra. Il mio sguardo si fece appannato, probabilmente per la stanchezza o perché non riuscivo a concentrarmi su nulla, a causa del troppo che avevo in testa. Quando mi alzai tenni saldamente la coperta sulle spalle e tentai di fare poco rumore mentre salivo in camera e mi preparavo per la scuola. Ebbi anche il tempo di mettere qualcosa sul fuoco per la colazione ed aspettare che mia madre si svegliasse e mi raggiungesse in cucina, subito prima di uscire.
Desiderai che quella fosse davvero la mia vita, vissuta come si vive in una cucina che odora di dolce e di famiglia, con una tazza di caffèlatte in mano e una persona che ami di fronte.
Per un attimo, tutto sembrò reale.
 
 
Presi la borsa che avevo gettato distrattamente all’entrata, appena Mikey mi mandò un messaggio dicendomi che si stava avviando verso la fermata, e anche quella mattina uscii di casa quando invece tutto ciò che desideravo era restare a letto in un fortino di coperte con un CD nello stereo.
 
~
 
“Frank, scusa se te lo dico… ma stamattina stai proprio di merda”
Annuii impercettibilmente – “Grazie Mikes, non aspettavo di sentire altro”
“No… però sul serio. Hai dormito?”
“Non moltissimo, ma comunque sono solo un poco stan--”
“Ah! Basta, ho deciso. Stasera andiamo al pub dove suona la band, ci facciamo un paio di birre e poi vediamo di rimediare un passaggio per tornare a casa”
“No rallenta, intanto come mai tu non suoni? E poi spiegami come facciamo a convincere i nostri genitori visto che domani c’è scuola e non abbiamo nemmeno un passaggio sicuro.”
“Qualcuno ha deciso di mettere un test di trigonometria questo martedì e stroncare la mia carriera da bassista. Secondo punto: diciamo di andare con mio fratello. Così abbiamo la soluzione a due problemi”
“Uhm… non lo so. E se poi va tutto a farsi fottere?”
“Devo solo corrompere Gerard con qualche fumetto e farci tenere il gioco”
“Beh-”
“Eh dai, lo faccio per te”
 
Con la coda dell’occhio lo vidi esercitarsi nella sua espressione da convincimento-assicurato, e tra me e me mi convinsi del fatto che forse avevo bisogno di qualcosa del genere per distaccarmi un po’ dalla mia vita. O per ritrovarla.
 
“Okay, io-- va bene”
 
Gli sfuggì un sorriso compiaciuto – “Preparati per due ore di Morrissey”
 
“Aspetta… abbiamo Inglese insieme stamattina!”
 
Mikey mi arruffò pesantemente i capelli con una mano.
 
“Ohhh, il piccolo Frankie si risveglia dal letargo”
 
Feci giusto in tempo ad alzare il dito medio che mi ritrovai schiacciato nella fila per scendere dall’autobus.
 
 
~
 
L’unica cosa a cui riuscivo a pensare era il fatto che di sicuro mi sarebbe rimasta la fronte arrossata e marchiata dalla trama della felpa. Mi succedeva ogni volta che decidevo di collassare nel bel mezzo della spiegazione di Mr. White, e puntualmente mi ripromettevo di non farlo più.
È solo che capitava.
Nel senso che capitava che Mikey mettesse gli Smiths proprio in quella mattinata in cui avevo un sonno del diavolo e che poi il cosmo stabilisse che la lezione più noiosa sulle figure retoriche nelle liriche del 600 dovesse essere fatta quello stesso giorno. E io odiavo imprimermi le cuciture sulla faccia, lo odiavo davvero, ma la mia testa andava sempre a finire in quello stesso punto.
Era una questione di gravità. Era fisica, non si discuteva.
 
“Pss”
 
Sentii un ronzio fastidioso all’orecchio e mi chiesi come mai Mikey non riuscisse ad avere la mia stessa quantità di sonno, visto che la notte prima l’avevamo passata insieme da Gerard.
Merda… la sera prima ero stato da Gerard.
 
Mugugnai qualcosa in risposta.
 
“Frank non fare il cazzone”
“Eh dai Way, lasciami perdere”
“Mark mi ha mandato un messaggio, passa a prenderci lui stasera…”
Io continuai a mugugnare.
“Potresti smetterla di dormire quando prendiamo gli appuntamenti?”
 
 
“Signor Way, la prego di comunicarci appena avrà finito di importunare il suo compagno. E lei, Iero, alzi la fronte dal banco. Il rossore non le dona”
 
Ecco. L’aveva notato anche lui.
 
“Ci scusi”
 
Ma il resto della giornata procedette proprio come quelle prime due ore di inglese.
 
~
 
Mark come al solito non fu puntuale.
Erano le nove di sera e io avevo finito di cenare già da un bel pezzo. A dirla tutta, mi ero anche già vestito e preparato definitivamente per uscire. Però ero ancora a casa.
Mark aveva questa strana abilità di non saper proprio arrivare all’orario prestabilito. Era come se per presa di posizione, avesse deciso di vivere la sua vita con un sfasatura di un quarto d’ora rispetto al resto del mondo.
Eppure quella sera quei quindici minuti mi furono letali come mai prima di allora.
 
Fluttuavo avanti e indietro sulla moquette consumata della mia camera, pensando che fosse il modo migliore per ammazzare il tempo già altamente morto. Ogni tanto mi capitava di ricordare qualche scena della sera precedente e potevo quasi percepirne di nuovo gli odori, provare ancora le stesse sensazioni, tenere a mente ogni piega della pelle di Gerard attorno alle sue labbra, ogni volta che si chiudeva nella sua espressione di distacco. Ed è inutile dire che, tra tutte le cose che non andavano via, probabilmente quella morsa nel petto era al primo posto.
 
Poggiai le spalle al muro e mi lasciai scivolare giù di qualche centimetro, serrando gli occhi e continuando a sentire l’eco della mia voce mentre prendevo posizione e provavo a farmi forte.
Quando tutto intorno a me divenne nero, l’unica cosa che rimase fu il mio tono severo e poi quello di Gerard, che invece traballava e faceva acqua. Gerard, che nemmeno ci provava a farsi più grande o farsi più forte, che aveva paura ma non aveva paura di mostrarmelo.
E io mi sentii solo più debole perché, ripensandoci, avevo messo su una facciata di bugie impilate in modo precario l’una su l’altra, mentre il suo sguardo era sincero e diceva più di ciò che la sua bocca aveva avuto il coraggio di ammettere.
Che poi, tra noi due, l’unico che non chiedeva conferme era proprio lui che invece era disposto a darne.
 
E forse fu un caso, forse fu uno di quei processi che si mettono in moto silenziosamente nella nostra psiche, o forse fu solo ciò che doveva essere, ma l’unica cosa che vidi, appena spalancai gli occhi e provai a riprendere fiato, fu un pezzetto di giornale sotterrato sotto mille cose inutili.
E quando arrivai alla scrivania e lo strinsi tra le dita, capii che a volte spetta a noi stessi darci un’altra possibilità.
 
“Ho bisogno di sentirti dire la verità e ho bisogno di essere sincero. Se stasera ci sei, mi trovi al Wave con Mikey. Pensaci su. –Frank”
 
Premetti invio.
 
Perché anche se a volte è colpa nostra, non vuol dire che non possa mai essere merito nostro.
 
~
 
Arrivammo al locale quando la band stava già suonando il secondo o terzo pezzo, e la piccola folla sotto il palco improvvisato sembrava presa dalla musica.
Con la coda dell’occhio vidi un ghigno dipingersi sul volto di Mikey e le sue dita che si muovevamo ritmicamente, picchiettando sulla gamba, mosse da quel senso di fierezza che sembrava avvolgere il ragazzo accanto a me mentre per la prima volta aveva la possibilità di ammirare dall’esterno ciò che lui stesso aveva contribuito a creare.
Improvvisamente mi ricordai di quella prima sera passata con la band e Mark, di come tutto sembrò andare per il meglio dopo molto tempo, di quella sensazione un po’ nascosta ma costante che mi faceva sentire bene. Che mi faceva sentire parte di qualcosa che non era un disastro, per la prima volta. Ma soprattutto ripensai a Mikey, a quell’espressione indecifrabile sul suo viso quando mi sedetti accanto a lui per sfidarlo alla Play, e al sorriso che ne seguì subito dopo. E strinsi forte la manica della felpa in un pugno, perché Gerard aveva ragione. Riuscii a capire esattamente cosa stesse provando, mentre tentava di dirmi che per nulla al mondo avrebbe rovinato la vita di Mikey.
Che non avrebbe mai lasciato che Mikey pagasse il prezzo delle sue cazzate.
E capii che deludere chi ami è un senso di colpa che raramente riesci a sostenere.
 
“Ehy MikeyWay! Mi avevi promesso una birra…”  Curvai le labbra in modo debole.
“Certo”
“E non c’è nessuna speranza che stasera sia tu ad offrire, vero?”
“Mh… no. Questo non era negli accordi”
 
Lasciai una gomitata leggera sul suo fianco, vedendolo ridere e scuotere la testa.
 
“La prossima volta allora devi essere più chiaro. Non puoi trascinarmi in certi luoghi e solo dopo rivelarmi che devo pagare tutte le mie birre”
 
Mikey tentennò un istante, poi alzò gli occhi al cielo.
 
“E va bene! La prima della serata la pago io, ma--”
“Ahh! Sapevo che avresti ceduto”
“Ma! Ma soltanto la prima”
Quando risi leggermente, lui mi fulminò con lo sguardo – “Sei uno stronzo manipolatore”
Io feci spallucce “Non è la prima volta che me lo dicono”
 
Ci avviammo verso il bancone del pub, mentre i ragazzi accordavano gli strumenti e si preparavano per la canzone successiva. Noi, con i gomiti sul piano, ordinammo la birra più economica di tutte e restammo in silenzio per svariati minuti.
E comunque c’era qualcosa, nell’atmosfera, che si insinuava a riempire ogni vuoto. Non so bene se fosse il sottofondo di discussioni che si sovrapponevano e si fondevano, oppure quei secondi in cui scarichi e riprendi tensione tra un brano e l’altro, eppure avresti potuto stare in silenzio ma non sentirne il peso, reggere uno sguardo senza rimanerne schiacciato, riuscire a sopportare tutte quelle situazioni in cui di solito senti il mondo crollarti addosso, ma che quella sera accadevano e si concludevano in modo spontaneo.
Mi dissi che è ciò che succede quando si smette di prendere sul serio la vita.
 

 
 
I piedi non collaboravano.
E mi venne una fortissima voglia di piangere, perché non ero stato nemmeno capace di accorgermi di ciò che la mia vita era diventata. Di ciò che io ero diventato.
E perché non seppi nemmeno individuare il punto preciso in cui tutto era andato a puttane.
 
Con immagini confuse davanti agli occhi e la testa che lasciava echeggiare ogni suono come un oggetto che cade rovinosamente in una stanza troppo vuota, maledissi il modo in cui il sole aveva brillato quella mattina di parecchi giorni prima, quando incontrai Gerard, perché mi dissi che nessun sole può avere il coraggio di brillare in giorni come quelli. Forse un po’ troppo preso dall’alcool che mi bruciava ancora in gola, mi arrabbiai con il mondo che faceva finta di andare avanti come se non si fosse accorto che io facevo fatica a stargli dietro.
E io continuavo a correre con quelle gambe che mi tradivano sempre più spesso, con i piedi che non sapevano più mantenermi in equilibrio, con la testa che girava e le mani che sudavano e non riuscivano a fare presa su nulla. Ché troppo tardi mi accorsi di non stare nemmeno correndo realmente, che ero solo ubriaco fradicio e imbottito di rancore.
Che avevo lividi anche dentro e quelli nessuno sa come guarirli.
 
Ero così ammaccato da farmi anche un po’ tristezza da solo.
Finché non mi balenò per la mente che se ero ancora in piedi forse avrei potuto farcela, perché persino le mie mani sudaticce erano riuscite ad aggrapparsi a qualcosa.
A qualcuno.
 
Strizzai una felpa tra le dita e poggiai la mia testa su una spalla, chiudendo gli occhi e sperando di potermi fermare un attimo per riprendere fiato.
 
“Frank…”
 
E quasi caddi di nuovo, se non fosse stato per quelle mani che tenevano ancora insieme tutti i miei pezzi.
 
“Frank… perché cazzo-- Frank, tieniti.”  -E io lo feci-   “Perché dobbiamo sempre incontrarci così?”
 
Mi ci volle parecchio impegno per capire di cosa stesse parlando. E sinceramente, non ebbi nessuna risposta.
 
“Dai, tieniti su. Ti riporto a casa”
 
Io lo guardai supplichevole.
 
“Gee…”
“Sì?”
“Io non lo so più cosa sia casa…”
 
Passò una frazione di secondo e Gerard finalmente realizzò ciò che avevo provato a dirgli.  
In quel momento avrei potuto giurare di aver intravisto qualcosa, dentro di lui, frantumarsi inesorabilmente.
 
“Io-” poi però le parole gli morirono in gola e si bloccò “Non ti preoccupare, hai ancora tempo per capirlo”
 
Poi sorrise-
 
“Intanto andiamo a casa mia”


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Grazie ancora per l'attenzione. A presto (speriamo eh). -Claud.
 
 


 

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Capitolo 12
*** 9 - Melt your headaches ***


Non ci credo, ce l'ho fatta! Sono davvero incasinata con i capitoli, e magari starò facendo un'enorme cazzata a postarne già uno nuovo. Ma non mi importa.
Ringrazio tutte quelle bellissime persone che hanno recensito o apprezzato ogni singolo capitolo precedente. Siete davvero tantissimi. Grazie, davvero.
Oggi ho solo da dire che questo è uno tra i miei capitoli preferiti. Spero piaccia anche a voi.
La canzone la conoscete tutti, lo so. 
Buona lettura, piccoli cieli.   -C.



 
 CAPITOLO NONO

I know the world's a broken bone, but melt your headaches, call it home. 
(Northern Downpour)





 
In macchina, con i Pumpkins di sottofondo, mi venne quasi da sorridere riflettendo sul fatto che i momenti in cui mi sentivo di nuovo vicino a me stesso erano sempre quelli passati in compagnia di un Way, con della musica che riempiva l’aria in modo così fitto da non riuscire a percepire il resto del mondo. E forse era proprio questo il segreto.
Non sentire nient’altro.
 
Gerard mi accarezzò con uno sguardo.
Avevo abbandonato la testa sul finestrino freddo, nonostante vibrasse un po’, e nonostante continuassi a sbatterci sempre contro. A volte avevo abbastanza forze per poter aprire le palpebre in un piccolo spiraglio, ed in quella fessura vedevo solo Gerard.
Gerard intento a guidare, Gerard che si mordicchiava le unghie, Gerard che sembrava vivere in automatico, mentre pensava a qualcos’altro. E poi Gerard che si voltava brevemente ad osservarmi, con quei suoi occhi che non avevano niente a che vedere con i miei. Erano ampi, limpidi, dello stesso colore dei laghi. E volendo ci potevi anche annegare dentro.
 
Che se avessi avuto le forze avrei aperto gli occhi, li avrei spalancati, e avrei chiesto a Gerard di non guardarmi con quello sguardo, perché tra noi due ero io quello spaventato, e lui non aveva il diritto di aver paura.
 
“Smettila…”
 
Lui non capì, eppure tornò a guardare la strada davanti a sé.
 
“Di fare cosa?”
“Di fissarmi. Smettila… sto bene”
 
Tentò una leggera risata, sbuffando dal naso - “Non mi era sembrato esattamente così, un paio di minuti fa”
 
Decisi di chiudere gli occhi, pensando fosse più facile.
 
“Forse dovresti riportarmi a casa…”
“Affatto. Non ti riporterò mai a casa in queste condizioni sapendo che tua madre ti aveva affidato a me”
“Dio, Gerard. Non sei mio padre”
 
E potei sentire il modo in cui, quel respiro che stava prendendo, venne interrotto all’improvviso, e poi rilasciato di colpo.
Allora smettemmo di parlare. Non un’altra parola per il resto del viaggio.
Gerard che faceva scivolare le mani sulla plastica ruvida del volante, io che mi lasciavo sbattere contro il vetro.
 
~
 
“Siamo arrivati.”

“Frank?”
“Eh…”
“Siamo arrivati”
“Sì, ti ho sentito anche la prima volta”
 
Avevamo parcheggiato a pochi metri da casa, e Gerard era sceso dalla macchina e si era preso cura di venirmi ad aprire lo sportello.
All’inizio si era piegato su di sé per arrivare al mio livello, mentre io avevo spostato la testa sullo schienale del sedile e non avevo affatto intenzione di muovermi da lì. Lui sembrò capirlo, perché dopo un po’ alzò gli occhi al cielo e raddrizzò la schiena, guardandomi per qualche secondo.
 
“Decidi: o scendi tu, o ti scendo io”
“Non riuscirei a crederti nemmeno se ti vedes--”
 
Sentii due braccia insinuarsi tra me e il sedile, e poi provare a sollevarmi. I suoi muscoli tremarono per lo sforzo eccessivo, ma in un movimento agile mi ritrovai fuori dalla macchina, colpito improvvisamente dall’aria fredda della notte.
 
“Gerard… che caz-”
 
Chiuse lo sportello con un piede, e iniziò a camminare verso casa.
I suoi passi erano così veloci e ben scanditi da costringermi ad aggrapparmi al suo collo con un braccio.
Ci fu un momento in cui il mio naso arrivò quasi a sfiorare la sua guancia, ma mi ritrassi velocemente e tentai di mantenermi il più lontano possibile.
Lui probabilmente se ne accorse, ma preferì così.
 
Facevo su e giù in sincrono con le sue gambe slanciate, convincendomi sempre più del fatto che avrei potuto vomitare da un momento all’altro. Proprio lì, sulle scale. O magari avrei aspettato di essere precisamente sopra il tappeto centrale del salotto, per vendicarmi di Gerard che in vita sua sembrava non aver mai fatto attività fisica, ma che mi aveva letteralmente trascinato giù a forza dalla macchina.
 
Intanto mi accorgevo della sbronza che sfumava, e dei suoi primi sintomi che la rimpiazzavano senza nemmeno lasciarmi un secondo per riprendere fiato.
Mi sentii surreale.
 
“Ti sto mettendo giù, reggiti in piedi”
“Sono abbastanza sicuro di saperlo ancora fare, grazie”
 
Gerard mi osservò in modo scettico, mentre notai con stupore che dovetti davvero impegnarmi per assumere una posizione stabile.
Intanto lui ne approfittò per sfilare le chiavi di casa dalla tasca posteriore dei jeans ed aprire il portone, fermandolo con una mano, mentre lasciava che io entrassi per primo.
 
E all’improvviso mi sentii di nuovo in equilibrio. Come se avessi trovato un punto fisso in cui lasciar defluire tutte le mie insicurezze.
In quel momento non mi importava che i miei piedi non sapessero tenermi fermo, perché non era il tipo di stabilità che cercavo.
D’altro canto c’era qualcuno che mi stava tenendo la porta, che mi aveva sollevato quando le gambe avevano smesso di funzionare, che mi aveva riportato a letto quando l’unica cosa che avrei voluto fare era piangere.
Qualcuno che era lì per mandar via quella nebbia di solitudine in cui continuavo a perdermi.
E oltre tutte le volte in cui avevo deglutito a vuoto, trovai la possibilità di stare bene.
 
Non ci avrei messo la mano sul fuoco, ma mi dissi che quello che stavo provando in quel momento doveva somigliare molto al sentirsi a casa.
 
~
 
In poche ore stetti meglio.
 
Bevvi un caffè leggermente amaro, corsi in bagno mille volte con la nausea in gola e fu sempre un falso allarme, poggiai la testa sui cuscini del divano ma non riuscii mai a trovare la posizione giusta.
 
Improvvisamente mi trovai per terra, con la schiena che premeva contro il tappeto non troppo morbido del salotto, e Gerard sdraiato accanto a me.
Chiusi gli occhi, e presi un lungo respiro.
 
“Una volta quando ero piccolo mio padre mi ha portato a vedere le stelle…”
Un altro respiro. Stavolta non il mio.
“… diceva che la luce le faceva soffrire, perché erano abituate a vivere al buio, e che allora loro provavano a scappare lontano. Così lui mi portò lontano” - la mia voce tremò sull’ultima parola –
“noi-- mio padre guidò  per qualche chilometro. Non so esattamente per quanto, so solo che quando mi ha fatto scendere non c’era assolutamente nulla, e io mi sentii un po’ deluso. Allora lui prese un lenzuolo vecchio e lo mise sull’erba, mentre io mi arrabbiavo perché m’ero immaginato qualcosa di speciale, no? Lui mi guardò e notò che tenevo le labbra serrate in modo così stretto da far male, poi mi sorrise e mi chiese di sdraiarmi per terra. Io…”
 
Mi chiesi quando gli occhi avessero iniziato a bruciare, e come fosse possibile che stessi davvero raccontando quelle cose a Gerard.
Poi lasciai che la voce si facesse più insicura su alcune lettere, e che la luce di fuori facesse brillare quello strato di lacrime che si stava formando. Lasciai che le cose andassero nel modo in cui sarebbero sempre dovute andare, perché ero stanco di ostacolare me stesso.
 
“Io mi distesi sul lenzuolo vecchio del letto matrimoniale dei miei genitori, e vidi le stelle.
Mi accorsi che non le avevo mai viste realmente. Erano così tante da non lasciare trasparire quasi nemmeno il cielo, e sembrava che qualcuno avesse dato delle pennellate distratte di universo sul nero della notte. Poi dissi a mio padre che gli volevo bene.”
 
Smisi di parlare, e mi tornò alla mente il modo in cui l’erba umida aveva bagnato quasi subito il lenzuolo e anche la mia felpa, e come papà  avrebbe probabilmente voluto parlarmi di quella sua passione per l’astronomia, ed insegnarmi i nomi delle costellazioni, eppure aveva deciso di non farlo, non quella sera, perché quella sera c’eravamo solo noi due, le stelle, ed il silenzio.
 
E mi risuonò in mente il modo esatto in cui io dissi di volergli bene. Il tono della mia voce un po’ più acuto a causa dell’emozione, la pronuncia deformata da quel sorriso che non riuscivo a spegnere, e come tutto provocava sensazioni diverse. Anche le cose che avevo sempre continuato a fare.
Quelle che una volta sapevano di speciale, finché non erano improvvisamente diventate banali.
E mi resi conto che forse non era stata una cosa tanto improvvisa.
Che avevo smesso di emozionarmi e sorprendermi a poco a poco, che le cose continuavano a sbiadire sempre più.
Che essere sdraiati per terra faceva ancora male alla schiena, ma aveva smesso di significare altro.
Era solo quello. Era solo male alla schiena, e non più stelle, non più odore di erba, non più sorrisi.
 
Almeno finché Gerard non allungò la sua mano sulla mia, e la strinse in modo delicato.
 
Allora mi dissi che avrei potuto dare altri significati a tutte le cose che ne avevano perso uno.
E che un tappeto sul pavimento non è decisamente un lenzuolo sull’erba, perché da lì puoi solo vederci un soffitto e non le stelle.
Ma che può comunque essere speciale.
 
Mi dissi che forse la cosa più importante è avere qualcuno al tuo fianco che sappia sorridere mentre sussurri di volergli bene.
 
“Gerard…”
“Sì?”
“Grazie”
 
Qualcuno che abbia il coraggio di stringerti la mano un po’ più forte.
 
~
 
Ci addormentammo sul pavimento. Mi svegliai in un letto.
 
La stanza era semplicissima, molto bianca, pochi oggetti.
Gli unici spruzzi di colore erano i vestiti sparsi qui e lì, e delle tele e dei disegni incompleti che erano stati abbandonati alla loro decadenza.
Tranne uno.
Uno era ben aperto sulla scrivania, ma aveva le tipiche pieghette dei fogli che sono stati piegati per troppo tempo, ed ogni pieghetta era anche un po’ consumata, segno che qualcuno aveva aperto e richiuso il foglio più volte, in modo quasi nervoso.
E non era nemmeno un disegno qualsiasi. Perché in quella casa niente era una cosa qualsiasi.
Era il mio disegno.
 
Capii che fosse davvero molto presto, perché la poca luce che attraversava la finestra non era decisa, ma piuttosto soffusa.
Era quella luce gentile che ti sfiora e non sa metterti caldo. Quella luce che dava ragione alla sveglia, e mi diceva che erano le sette e dodici del mattino.
 
Mi alzai silenziosamente dal letto, e il primo piede che misi per terra mi fece raggelare.
Cercai con lo sguardo il telefono, ricordando di aver piantato in asso Mikey, e di non aver detto a mia madre che avrei passato la notte fuori.
Una volta trovato lo presi velocemente tra le mani, rimanendo sorpreso dal fatto che non ci fosse nemmeno una chiamata persa o un messaggio non letto. Formulai le ipotesi peggiori, e mi preparai mentalmente a dover passare il resto della mia adolescenza per le strade del Jersey.
Poi notai un messaggio che, personalmente, non ricordavo di aver inoltrato.
Era per mia madre, per comunicarle che avrei dormito da Mikey.
E sorrisi tra me e me, pensando che avrei dovuto ringraziare Gerard per avermi salvato dal freddo di una vita da vagabondo.
 
Rinunciai a trovare le mie calze, optando semplicemente per quel  piumone di un bordeaux scuro sotto il quale avevo dormito, e che misi sulle spalle in modo da potermici stringere dentro.
Avvicinandomi alla scrivania, mi assicurai che in casa ci fosse un silenzio totale, e mi convinsi che Gerard stesse probabilmente ancora dormendo.
 
Osservai il disegno per un attimo, e mi tornò alla mente la prima volta in cui l’avevo visto.
Lo presi tra le mani e provai la stessa eccitazione, lo stesso orgoglio. Notai particolari che non avevo ancora notato, come la trasparenza e la morbidezza del fumo che si disperdeva nell’aria, e le ombre degli alberi che si allungavano sul pavimento coperto di foglie.
Dovetti ammettere a me stesso che Gerard era davvero abile.
 
Passai in rassegna praticamente ogni tela che era presente nella stanza, e troppo concentrato su alcune sfumature di tempera, non mi accorsi dei passi che echeggiavano per casa.
 
“Buongiorno”
 
Mi voltai di scatto verso la porta, e la prima cosa che notai fu il modo buffo in cui quei capelli corvini si erano attorcigliati tra loro durante la notte.
Poi guardai il suo viso.
Sembrava ancora più chiaro del solito, forse era colpa del modo in cui la luce lo illuminava, o del contrasto più evidente con quello strato violaceo che si espandeva appena sotto le ciglia.
E le pupille erano piccolissime, perché colpite dai raggi del sole, e lasciavano spazio ad un verde che sembrava infinito. Quella mattina mi sembrò come se i suoi occhi fossero fatti di diamanti fusi.
 
“ ’Giorno…”
“Ho preparato la colazione, se ti va puoi-- sì insomma. Possiamo mangiare qualcosa insieme”
 
La pelle pallida di una mano fu risucchiata dal buio dei suoi capelli.
 
“Certo. Dammi cinque minuti e sono sotto”
“Sì…”
 
Le palpebre si chiusero e si riaprirono velocemente sopra il suo sguardo distratto, e avrei potuto giurare di aver notato il momento esatto in cui il suo cuore perse un battito.
La sua spalla si scostò dallo stipite della porta, e mi ritrovai in mezzo ad una camera bianca con un sorriso che mi scivolava sulle labbra, perché realizzai all’improvviso di poter far perdere battiti.
 
Piegai il foglio con delicatezza, seguendo quelle linee già ben solcate, e lo riposi nella tasca dei jeans che Gerard mi aveva probabilmente aiutato a togliere la sera prima, sostituendoli con un pigiama di flanella a quadri che mi andava di qualche taglia più grande.
La maglia, invece, era sempre la mia, nonostante non avessi più il cardigan rosso che avevo indossato al pub, e che qualcuno di noi due aveva gettato distrattamente sul comodino.
 
Infilai velocemente le scarpe, senza perdere tempo con i lacci, e usai il bagno comunicante con la camera da letto per sciacquare velocemente via quell’aria assonnata che avevo.
Mi controllai allo specchio e sorrisi al mio stesso riflesso.
Mi sentii come un bambino in una mattina di Natale.
 
~
 
Gerard mi dava le spalle mentre, con i gomiti poggiati sul davanzale, fumava lentamente una sigaretta.
Bussai piano sulla porta in legno, nonostante fosse aperta,  per fargli notare la mia presenza, e lui si voltò con un’espressione divertita, tirando su le labbra che tenevano in bilico il filtrino, per poi stringere il mozzicone tra le dita esperte e gettarlo fuori, in un volo di qualche piano.
 
E mi convinsi che quello doveva essere un giorno davvero speciale, perché per la prima volta vidi sorridere Gerard di un sorriso per niente contaminato.
Lo vidi calmo, e i suoi occhi erano così limpidi da trasmettermi sicurezza.
Pensai che a diciassette anni non ne puoi capire niente di cosa va male e cosa no, di quand’è il momento adatto per aver paura, e quando invece puoi dire al tuo cuore di smetterla di battere tanto forte da uscirti quasi dal petto. Pensai che sarebbe stato meglio farsi rigidi, in ogni caso, nell’evenienza in cui le cose stessero andando a puttane sotto i miei occhi, ma io fossi stato troppo lento per accorgermene.
E invece quel verde era di nuovo primaverile. Niente tempeste scure, o nebbie invernali.
Ed il suo sorriso sapeva parlarmi di nuovo di cose che avrei voluto sentire.
 
Lasciai che la tensione scorresse via dal mio corpo, e abbassai le spalle. Sgonfiai il petto, abbandonai quella posizione di difesa che avevo provato a fingere.
Sorrisi anch’io, di rimando, e rubai una sigaretta da quel pacchetto che Gerard aveva lasciato aperto sul tavolo con poca cura.
Forse per fretta, forse per distrazione.
Forse perché, quando le cose vanno bene, non ti curi affatto dei dettagli.
E prendi una sigaretta dal pacchetto senza richiuderlo, o cucini la colazione al migliore amico di tuo fratello senza rimettere a posto la cucina.
Ti brilla anche lo sguardo mentre ti avvicini a lui, e gli sfiori la guancia con le labbra, senza timore.
 
E io rimasi interdetto, con quella sigaretta in bocca che rischiava di schiantarsi al suolo, mentre il viso bruciava a contatto con un respiro bollente, che si allontanava piano.
Mi dissi che, quando le cose vanno bene, lo capisci da come un bacio non riesce a spegnere un sorriso, ma solo ad alimentarlo.
 
E mi fidai di Gerard, ricordando la risposta di Mikey alla mia domanda.
 
Perché forse a diciassette anni non ne capisci niente di momenti adatti, ma a ventisei devi sapere
proprio bene quando dare un bacio, senza doverne avere paura.
 
“Dovrei dirti che fumare ti fa male”
“Ma…?”
“Ma sarebbe una mossa ipocrita, considerando che la sigaretta che hai in bocca è tecnicamente mia”
“La rivuoi indietro?”
 
Lui scrollò le spalle.
 
“Nah, è compresa nel pacchetto ospitalità”
Risi in modo rumoroso – “Il pacchetto ospitalità?”
 
Gerard prese uno strofinaccio dal bancone e se lo poggiò sul braccio, con le labbra aperte in un piccolo ghigno.
 
“B&B Way. Offriamo servizi per ubriachi e posti letto fino ad esaurimento. Colazione e sigarette rubate sono inclusi nel prezzo”
 
Con un movimento fluido della mano fui invitato a sedermi su una delle due sedie, mentre lui gettò di nuovo la pezza in un angolo lontano della cucina e prese gli ultimi piatti che non erano ancora stati portati in tavola, sedendosi proprio di fronte a me.
 
Il suo viso fu oscurato dal sole che gli batteva spalle, ma notai che quella piccola smorfia persisteva ancora sulle sue labbra, anche se leggermente affievolita.
 
“Quindi… cosa offre oggi la casa?”
“Hm- vediamo. Fonti certe mi hanno comunicato che il mio cliente è vegetariano, quindi il menù comprende biscotti, latte, pane e marmellata, ed un eventuale cucina da imbrattare nel caso in cui fosse richiesto un dolce non presente” – “Ah, dimenticavo. I minorenni non hanno accesso ai fornelli”
“Da bravo ospit—cliente, lascerò fare tutto a te”
 
Gerard alzò gli occhi al cielo, e iniziò a servirmi, prendendosi ogni tanto la libertà di osservarmi in modo veloce.
 
 
La luce filtrava obliqua dalla finestra.
E noi sapevamo prenderci cura l’uno dell’altro.
 
~
 
“Dimmi cos’è cambiato”
“Cosa intendi?”
 
Gerard giocava distrattamente con i miei capelli, reggendo la mia testa sulle sue gambe, mentre io riposavo sul divano con le gambe che penzolavano giù dal bracciolo.
 
“Tra di noi. Cos’è cambiato tra di noi?”
“Io-- non lo so. Nulla” …  “Credi sia cambiato qualcosa?”
 
Chiusi gli occhi.
 
“Ieri sera, quando mi hai preso per mano- quando mi hai guardato, non avevi più paura. Perché?”
“Non lo so. Io… io credo di aver capito che voglio esserci, quando mi cerchi al tuo fianco”
 
Fermò la mano e la mosse via dai miei capelli
 
“Che forse non si tratta di Mikey, perché non vedo come questo possa fargli del male…”
Poi prese un respiro incerto – “Noi non gli faremo del male, vero?”
 
“Noi- no, far stare bene qualcuno non può voler dire far stare male qualcun altro. Altrimenti c’è qualcosa di sbagliato, non credi?”
 
Alzai la schiena e mi sedetti accanto a Gerard, che nel frattempo aveva iniziato a giocare col suo labbro, prendendolo tra i denti e poi lasciandolo andare in modo frenetico.
 
“Io so solo che tutto ciò che tocco finisce sempre col cadere a pezzi“
“Non credo… In camera hai dei disegni che dimostrano tutto il contrario”
“No… Con l’arte è diverso. Dipingo ciò che penso, ciò che provo. Dipingo ciò che sono, capisci?
Mi riverso su una tela in modo da non farmi a pezzi da solo. In modo da avere sempre qualcosa che mi ricordi chi sono. O chi ero solito essere”
“E il mio disegno cosa ti ricorda?”
“…Mi ricorda come mi sono sentito la prima volta che ti ho visto”
 
Presi il suo polso tra le dita, senza stringere troppo.
 
“Descrivimelo”
“Uhm… mi sono sentito vecchio. Cioè, all’inizio. All’inizio mi sono sentito vecchio, perché ho ripensato ai tempi del liceo. Mi hai fatto ricordare di tutte le volte in cui lasciavo scorrere i minuti per non dover entrare a scuola. Ero proprio identico a te, mentre stavi accovacciato su quella panchina con le cuffiette alle orecchie. E poi mi sono sentito felice, anche se forse felice non è il termine adatto… Sai quando noti qualcosa che ti mette speranza? Qualcosa che ti fa capire che forse la vita non è poi così male come pensavi? Non so… io mi sono sentito così. Come se avessi ritrovato qualcosa che credevo di aver perso per sempre”
 
“Allora ricordami così…”
 
Lui mi guardò dubbioso, in attesa di una spiegazione.
 
“… se mai anch’io dovessi cadere a pezzi, ricordami semplicemente com’ero nel tuo disegno”
 
E qualcosa scattò tra di noi.
Lo capii da come entrambi trattenemmo il fiato, provando a far durare quel momento qualche istante in più. Come se potessimo fermare il tempo ed il mondo semplicemente guardandoci.
Come se fuori da quell’appartamento tutto avesse cessato di esistere.
 
Con la voglia di scoppiare in uno di quei pianti liberatori che ti trascinano via dalle macerie del tuo passato.
Perché sapevamo che buttare via quel respiro che era imprigionato nei nostri polmoni avrebbe determinato un nuovo inizio.
E, per quanto lo puoi desiderare, alla fine tentenni sempre, prima di lasciarti qualcosa alle spalle…
 
.Tre.
 
E Gerard non mi era mai sembrato così reale, nella concretezza delle sue paure e nel modo in cui tremava dentro.
 
.Due.
 
E infondo io non avevo mai realmente imparato a vivere. Cosa avrei fatto una volta che mi fosse venuto a mancare il terreno sotto i piedi?
 
.Uno.
 
E c’è sempre un suono che continua ad echeggiare nel silenzio, anche quando non c’è più nulla da dire.
 
.vuoto.
 
E gettammo via i nostri sospiri, lasciandoli soffocare in un bacio. 



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Probabilmente uno tra i più lunghi. Vi chiedo anche un po' scusa. 
Grazie per essere arrivati fin qui. 
(Le recensioni sono sempre apprezzate) -Claud.

 

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Capitolo 13
*** 10.1 - Quiet is Violent ***


E' passato quasi un mese. Scrivere è stato davvero molto difficile. Il capitolo è un pò di passaggio, ma comunque molto importante. Spero che le vostre vite vadano bene, non vedo l'ora di sentirvi di nuovo. Mi manca pubblicare per voi. Un saluto, spero vi possa piacere ciò che ho scritto.
(Canzone dei Twenty One Pilots. E' sempre come ascoltare un'emozione.)  -C.

 



CAPITOLO DECIMO - PARTE PRIMA       

'cause somebody stole my car radio, and now I just sit in silence.  Sometimes quiet is violent.
(Car Radio)   
                   




 
Tornai a casa a piedi.
 
Lungo il tragitto i raggi della mattina sembravano illuminare tutto in modo diverso.
Ho sempre pensato che la luce delle mattine in cui si è felici sia del tutto diversa rispetto a quella di tutte le altre mattine.
Probabilmente però la luce non c’entra un cazzo.
Probabilmente siamo noi ad avere occhi diversi.
 
 
E, nonostante tutto, avevo dentro una strana sensazione. Come quando sei consapevole di star trascurando qualcosa, ma non riesci a focalizzare cosa.
Cercai disperatamente di tenere occupato il cervello, e decisi di impegnare la mani in qualcosa, iniziando a frugare tra le tasche dei jeans e del cappotto.
Le labbra si curvarono a tradimento, quando i miei polpastrelli sfiorarono i lembi rovinati delle pieghe di un foglio di carta.
I ricordi mi sommersero in modo altrettanto rapido, e la lingua sfuggì al mio controllo, andando a sfiorare la bocca, e provando a consumare fino alla fine ciò che del sapore di Gerard rimaneva su di me.
 
Finché non mi colpì in pieno volto. Anche se non letteralmente.
Mi sembrò di aver raggiunto, a polmoni vuoti, quell’enorme vuoto che inseguivo da quando avevo iniziato a camminare.
E questa volta fui io stesso a colpirmi a palmo aperto.
Perché non puoi semplicemente abbandonare un MikeyWay in un pub, e poi dimenticarti di lui.
 
Ripresi velocemente il telefono, e mi sembrò ridicolo come la scena si ripetesse ancora.
Io che diventavo impacciato per la fretta, mentre andavo alla ricerca di un segno che mi dicesse che non avevo perso per sempre il mio migliore amico.
Poi io, che immaginavo universi paralleli vividi, in cui Mikey smetteva di occupare il posto accanto al mio, e ne sceglieva uno 3 o 4 file più avanti, magari anche dall’altro lato del corridoio del bus, mentre io gli lanciavo occhiate colpevoli che avrebbero potuto perforargli la nuca.
 
Scossi la testa con forza, mandando via ogni immagine di una vita senza Mikey.
Perché mi resi conto che ogni peso sembrava più grave da sostenere.
E mi resi conto che era esattamente ciò di cui Gerard aveva più paura.
 
 
Con il telefono tra le mani, notai un altro messaggio che non ricordavo di aver inviato.
Era per Mikey.
Lo lessi in fretta, ma rimasi a fissarlo per qualche altro secondo.
Diceva che non stavo bene, che avevo bisogno di allontanarmi. Diceva che avrei dormito fuori casa.
Eppure non era scritto in prima persona, e l’unica cosa a cui riuscivo a pensare, l’unica cosa che davvero riuscivo a leggere, era quella firma alla fine del messaggio.
 
“Gerard.”
 
E seppi che avevamo smesso di sotterrarci sotto le bugie.
 
~
 
“Hey mà… sono a casa”
“Ciao tesoro!” – Provò a farsi sentire dal piano superiore- “Tutto bene?”
“Sì. Scusa per averti avvertita all’ultimo minuto…”
“Oh, non importa, e- Frank?...Non credere che io mi sia dimenticata del fatto che devi andare a scuola”
Sbuffai.
“Affatto. Senti… se faccio veloce riesco a seguire la lezione della prossima ora. Ci vediamo più tardi, ok?”
“Ah, Frank!”
“Sì?”
“Chiama Mikey. E’ passato da casa stamattina chiedendo di te, ma gli ho detto che non eri ancora rientrato”
“Uhm, va bene. Grazie”
“A dopo piccolo”
“A dopo”
 
Con un buon 90% di possibilità, Mikey mi aveva aspettato per entrare a scuola, quella mattina.
~
 
-Dove sei?-
-Alla vecchia stazione. Ti aspettavo-
-Lo so. Aspettami lì, ci vediamo tra dieci minuti-
 
Inviai l’ultimo messaggio e posai il telefono in tasca, prendendo la mia strada.
 
Pensai a come avrei dovuto comportarmi di fronte a Mikey, a cosa avrei dovuto dirgli. Provai ad entrare nella mente di Gerard ed immaginare cosa avrebbe fatto lui, al mio posto.
Poi capii che io non ero Gerard. Non lo ero, e avrei potuto agire come meglio credevo, con l’unico limite di non rovinare la situazione e non fare del male a nessuno dei due.
Fu come salire di un gradino più in alto e prendere maggiore consapevolezza di me stesso, e del fatto che adesso non si trattava unicamente di Gerard o del modo in cui lui mi aveva chiesto di agire, ma ci andavo di mezzo anche io, e quindi avevo altrettanta voce in capitolo.
Per me, fu come essere liberato da una parte del peso che mi portavo dietro. Era, fondamentalmente, sapere che sarei potuto essere davvero un amico migliore, da quel momento in poi.
Ripensando alla firma di Gerard, fui pervaso da una sensazione di sicurezza.
Sentii una parte del nodo che andava sbrogliandosi.
 
In una manciata di minuti arrivai alla vecchia stazione, che era un posto così freddo da metterti un poco i brividi.
Mikey aveva tutte queste idee ed un diverso modo di vedere, ed era probabilmente l’unico individuo al mondo a cui andava di stare in un luogo del genere. Diceva che le cose abbandonate gli mettevano concentrazione e lo rendevano sereno. Io nella vecchia stazione vedevo solo ferro arrugginito ed edifici in decadenza, e le ombre che queste due cose creavano.
Ed era sufficientemente angosciante da non volerci mai passare vicino, nemmeno per caso.
 
Così mi sorpresi un po’ di me stesso quando accesi una sigaretta, poggiandomi ad una catasta di rovine, e chiacchierando con Mikey come non fossi realmente alla vecchia stazione.
A dirla tutta iniziai anche a vederci del fascino in tutte quelle cose che marcivano sotto gli occhi di nessuno. Era come osservare un lato del mondo che era stato abbandonato al proprio destino, e mi ci ritrovai dentro. Nel senso che riuscii proprio ad identificarmi in quel decadimento silenzioso.
Con lo sguardo del tutto perso in un punto vago mi convinsi del fatto che, se avevo qualcosa dentro, allora era necessariamente una vecchia stazione abbandonata.
 
“Non so come faccia a metterti più inquietudine questo posto che casa di Gerard, cioè, insomma, ti sei mai guardato attorno? Quel posto è un cimitero di cose senza origine”
“Non so… E’ un posto familiare”
“Già…” -Abbassò il capo- “Peccato che per Gerard è solo lo specchio della sua solitudine”
 
Io tirai su con il naso.
 
“Dovremmo- dovremmo andare a scuola”
 
Mikey prese velocemente lo zaino da terra, come se non aspettasse che una frase come quella.
 
“Sì, noi- dovremmo decisamente andare a scuola”
Non era vero un cazzo.
Non era vero un cazzo che dovevamo andare a scuola, e nemmeno che stavamo bene.
Lo continuavamo a ripetere a noi stessi come una di quelle cose di cui non sei affatto convinto ma che fai finta di sapere.
Avrei voluto saperlo davvero quanto le cose sarebbero andate male.
 
“Poi com’è andata con quella ragazza?”
“Abbiamo un appunto nel weekend”
“Aspetta… ti ha chiesto lei di uscire, vero?”
“Sì, tu come-- oddio… sono un prevedibile. Sono uno di quelli che lo vedi 200 metri prima che non farebbero mai il primo passo. Sono così evidente? Frank, aspetta. E se mi avesse chiesto di uscire solo per pena? Oh Cristo… e se mi vede come una specie di dodicenne a cui deve fare da baby-sitter?”
“Tu sei un dodicenne, Mikey…”
“Bhe, detto da una bocca che sta a 30 centimetri dal pavimento…”
“La mia altezza non ha niente a che fare con-- Mikey! Non allontaniamoci dal punto”
“E qual è il punto?”
“Il punto è che c’è una ragazza fortissima che vuole conoscerti ed essere tua amica, e tu ti sei totalmente allontanato dal punto”
“E se il punto fosse che c’è una ragazza che vuole essermi amica perché le faccio pena?”
“No. Non è decisamente questo.”
“Che ne sai?”
“Shh. Io di punti me ne intendo”
“Ma-”
“Ho detto ‘shh’ “
 
Gli bloccai le labbra con l’indice, e quando le allontanai lo sentii borbottare tra sé e sé che avrei fatto meglio a riconsiderare tutta la storia del dodicenne.
A me venne da ridere.
Fu un’ottima preparazione psicologica alla lezione che avremo dovuto affrontare.
 
~
 
La spiegazione andava avanti da troppo tempo, e io avevo provato più volte a concentrarmi sul serio, ma alla fine finivo sempre con il distrarmi, per un motivo o per l’altro.
Pensavo a Gerard così tanto da aver paura che Mikey potesse leggermelo nello sguardo. Ma soprattutto, mi chiedevo cosa gli avesse fatto cambiare idea così improvvisamente.
Pensavo alla sensazione della sua pelle sulla mia, al modo in cui ci muovevamo in maniera perfettamente coordinata quando ci baciavamo, a come lui a volte sembrasse non esserci per niente. Perché c’erano delle volte in cui dai suoi occhi verdi non traspariva assolutamente nessun pensiero.
E io avevo paura.
Avevo una paura enorme di tutto ciò che stava accadendo, fondamentalmente perché non avevo idea di cosa stesse realmente accadendo.
 
Mi voltai verso Mikey. Fu una cosa istintiva: sentii il bisogno di vederlo realmente seduto accanto a me, mentre la mia mente mi convinceva che avrei dovuto avere paura.
Lui teneva il mento poggiato su un pugno, e a volte buttava giù qualche parola della spiegazione, disegnandoci qualche schizzo attorno.
Guardando il suo quaderno mi venne da sorridere, perché pensai immediatamente al modo in cui entrambi i fratelli condividessero questi piccoli dettagli della loro personalità.
Mikey probabilmente si sentì osservato, e per un istante mi guardò in modo interrogativo. Poi si voltò e scrisse qualcosa nell’angolo del foglio, rendendomi chiaro che avrei dovuto leggerlo.
Io mi sporsi silenziosamente verso di lui, sorreggendomi con il suo banco.
 
“Maneggia Gerard con cura”
 
Solo quelle quattro parole. Con lo sguardo cercai in modo ansioso una continuazione a quella frase, una spiegazione, anche un piccolo disegnino che avesse potuto distogliermi da quelle quattro parole.
Perché è terribilmente vero che poche parole dicono moltissimo. Ci sono parole che nascondono proprio tutt’un altro universo.
 
Io Gerard avrei davvero voluto saperlo maneggiare con cura.
 
~
 
Poi quella mattina mi venne a prendere a scuola.
Ricordo ancora il modo in cui gli occhiali da sole riflettevano la luce e si perdevano nello stesso nero dei suoi capelli scompigliati. Ricordo il modo in cui mi sentii, come lui provò a mascherare quel piccolo sorriso impacciato, appena io aprii la portiera della macchina.
E ricordo che i secondi dopo sembrarono lunghissimi, come se si stessero dilatando nel tempo.
 
Entrai in macchina e mi sedetti silenziosamente di fianco al posto guida. Nonostante il mio sguardo che si perdeva nel paesaggio oltre il parabrezza, con la coda dell’occhio notai come il sorriso di Gerard si affievolì piano sulle sue labbra, per poi sciogliersi nella linearità di un’espressione preoccupata.
 
Improvvisamente avevamo paura di parlare.
Io deglutii senza farci caso.
 
Chiesi a me stesso come avrei avuto intenzione di prendermi cura di Gerard.
Di quello stesso Gerard che a volte perdeva ogni emozione nello sguardo, in una frazione di secondo. Del Gerard che mi stringeva forte e che tremava mentre lo faceva.
Del Gerard che non riuscivo a capire.
Perché nascosto dietro quella fortissima voglia di baciarlo, di sentirlo vicino, in realtà c’era un desiderio ancora più forte di riuscirlo a capire.
Di riuscire a capirmi.
 
Ero completamente arrabbiato con me stesso mentre mi chiedevo cosa ne avrei fatto di tutto ciò che avevo chiesto ed ottenuto.
Lì, in macchina con Gerard, per la prima volta mi sembrò tutto tangibile. Tutto fottutamente reale.
 
Le nostre differenze, le nostre età, le nostre vite, i nostri vizi, il modo in cui sapevamo o meno affrontare i problemi, e anche tutti i nostri problemi. Le paure che ci tenevano svegli la notte, quelle da cui provavamo ad allontanarci. Il modo in cui nessuno dei due riusciva a farlo.
 
E capii ciò che Gerard aveva provato a dirmi. Lo capii con immenso ritardo.
Da due vite a metà non ne esce una intera.
 
Allora ci fu un secondo in cui poggiai la mano sulla maniglia dello sportello e mi dissi che sarei corso via. Che forse ero ancora in tempo per correre via senza rovinare le nostre vite.
E poi subito dopo sentii l’altra mano che veniva coperta da quella di Gerard, in modo leggero e insicuro. Sentii le sue dita poggiarsi sulle mie e poi scorrere piano sul dorso della mia mano, sfiorandolo in modo appena percepibile.
In quel momento mi sembrò un gesto davvero commovente. E mi sentii uno schifo.
 
Stretti nei sedili anteriori di una macchina, in un silenzio opprimente, mentre io aveva appena provato a scappare, e Gerard mi aveva supplicato di non farlo.
Tenevamo le mani salde sulle nostre vie di fuga. Per me era lo sportello di una macchina. Ma per Gerard ero io.
Gerard che aveva sempre avuto paura di fare un passo avanti, con il timore che fosse un passo di troppo. Gerard che ci aveva provato con tutte le sue forze a tenermi a distanza. Gerard che era stanco di avere paura.
Perché Gerard era davvero stanco. Lo sentivo da come la sua mano sembrava un peso morto sulla mia. E io avrei dovuto sostenerlo, ma avevo bisogno di essere sostenuto.
Io ero la sua via di fuga, ma in quel momento avrei solo voluto fuggire.
 
Lui sembrò capirmi.
 
“Resta…”
 
La sua voce era appena un sussurro.
 
“Non posso”
“Perché?”
“Perché non so come farlo…”
“Nemmeno io, ma non importa”
 
Lasciai la presa sulla maniglia e mi voltai completamente verso Gerard, provando a farmi spazio sul sedile.
 
“E allora dimmi come fai a non aver paura di rimanere qui e- e di affrontare tutto. Dimmi come fai a non voler andare via. Gerard- Gerard…”
“Frank--”
 
Lui si sporse per stringermi ma io lo bloccai con una mano sul petto.
“Frank, qual è il problema?”
“Io. Io sono tutto un casino Gerard. Mi dispiace, io-- io avrei voluto dirtelo prima. Avrei voluto essere meno egoista e capirlo da subito che non sono fatto per stare accanto ad un’altra persona.
Che adesso ho paura perché ti guardo e… e lo so che anche tu hai tutto un casino dentro, e non sono pronto per… Ger-”
“No Frank. Shh… è tutto okay. E’ tutto okay…”
“Gerard, io non posso essere la tua via di fuga…”
 
Il suo sguardo si fece limpido e pieno di compassione.
 
“No, io-- Dio Frank… io non ti chiederei mai una cosa del genere” – “Frank… Frank ascoltami. Non sei una via di fuga, non sei un appiglio, tu non sei assolutamente nulla se non Frank.
E’ tutto ciò che voglio. Voglio che tu sia Frank e…e voglio restare qui. Però voglio farlo con te. Voglio imparare a restare qui perché non ce la faccio più a scappare via dalla mia vita. A chiudere gli occhi sulle mie paure…”
 
Io annuii piano.
 
“Se resto… anche se non so come farlo… però promettimi che se resto, ce la facciamo insieme”
“Ti prometto che qualsiasi sia il problema, quando sarai pronto a parlarmene, io proverò ad esserti vicino come meglio posso.”
 
Eppure c’era sempre quel pezzo che mancava. Quello che non ti faceva mai tornare i conti e chiarire del tutto la situazione. Quello che Gerard provava a nascondermi, ma che invece era quello di cui notavo maggiormente l’assenza. Ed era un’assenza spaventosamente grande.
 
Sapevo che c’era un elemento che mi sfuggiva e che Gerard non mi avrebbe mai confessato.
Almeno non per il momento.
Era ciò da cui lui era sempre corso via, e ciò per cui adesso aveva deciso di rimanere.
Ciò contro cui -se è corretto parlare di lotta- lui aveva deciso di combattere.
 
“Vale lo stesso per me. Per tutte le cose che non ti fanno dormire la notte- non pretendo di farti prendere di nuovo sonno… ma ti prometto che farò di tutto per restare sveglio al tuo fianco”
 
E probabilmente io e Gerard in quella macchina, o su un letto immerso nel buio della notte, era esattamente la vita dalla quale avrei voluto imparare a smettere di correre via.
 
~
 
“Ti va ancora di fare un giro…? Posso anche riportarti a casa”
“No… va bene. Mi va di fare un giro”
 
Il suo sguardo indugiò ancora un poco su di me, poi Gerard mise semplicemente in moto, dandomi una vista perfetta del suo profilo tagliato dai raggi del sole.
 
Dopo un paio di secondi le sue labbra si curvarono leggermente in una piccola smorfia divertita.
 
“E’ un po’ inquietante se stai a guardarmi per il tutto il viaggio”
Scossi la testa – “Sì, scusa”
“Figurati… Oltretutto non so cosa ci sia di interessante da guardare nel mio profilo”
“In realtà stavo cercando di guardare il paesaggio fuori dal tuo finestrino, ma la tua faccia mi veniva in mezzo”
 
Gerard rise in modo sarcastico - “Quanto sei spiritoso! Potrei anche lasciarti a piedi. Tanto te la caveresti di sicuro con questo tuo grande senso dell’umorismo”
“Nah. Pensa che noia stare da solo in macchina con la tua musica triste e nessuno che ti tiene compagnia”
“Okay, numero uno: la mia musica non è per niente triste. Numero due: chi ti ha detto che non rimedierei qualcun altro che mi tiene compagnia? Mh? Guarda che sono uno interessantissimo”
“Ah! E poi sono io quello con il senso dell’umorismo”
 
La sua espressione si fece immediatamente seria e sentii la macchina frenarsi di colpo sotto i miei piedi.
 
“Scendi.”
“Ger-”
“Frank. Scendi.”
“Gerard… io-- stavo scherzando. Non vol-”
 
Ci fu una frazione di secondo in cui ci guardammo profondamente negli occhi.
Il mio cuore aveva preso a battere in maniera troppo intensa.
Gerard era bravissimo a non far trapelare alcun sentimento da quei suoi due occhi ampi.
 
Poi si aprì in una risata sonora.
 
“Cazzo Frank, dovresti vedere la tua faccia in questo preciso istante”
 
Lo disse portando la sua mano ad accarezzarmi una guancia, mentre io rimasi pietrificato sul sedile scuro. Leggermente infastidito da quello scherzo idiota, ma del tutto concentrato sul modo in cui i suoi polpastrelli tracciavano segni leggeri sulla mia pelle fresca.
 
“Comunque devi scendere sul serio. Siamo arrivati…”
 
Il suo tono si era fatto improvvisamente più basso e dolce.
 
Mi guardai intorno, cercando di capire in che parte del Jersey ci trovassimo, ma non riconobbi quasi nulla. Così cercai conferme da Gerard, che mi stava osservando con ciò che rimaneva di quel suo sorriso furbo di pochi istanti prima.
 
“Un isolato più avanti c’è un piccolo locale che… quando ero bambino mia nonna mi ci portava sempre. La prima volta avevo nemmeno sei anni, e da quel momento le ho chiesto di andarci ogni weekend. E’ andata avanti così per un po’, poi –”
 
Gerard si schiarì la voce, ma il suono di quel “poi” si disperse nell’ambiente ristretto del veicolo e fu l’ultima parola che venne detta. Riprese per un attimo fiato, poi si distaccò completamente da me e scese dalla macchina.
Io feci lo stesso.  Ci avviammo verso nord.
 
Pensai che ci sono parole, frasi, che preferiamo lasciar svanire nel silenzio. Perché abbiamo paura di quanto farebbe male pronunciarle. O sentirne il suono. 


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Eccovi la prima parte. Come ben saprete, ogni commento e\o critica sono sempre molto graditi. Grazie di tutto. -Claud.

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Capitolo 14
*** 10.2 - Shoreline ***


Hola! Come previsto è passato quasi un altro mese. Vi preannuncio un capitolo più breve rispetto al solito, cosa che probabilmente andrà avanti per altri 2 o 3 capitoli.
Che dire... la scrittura sta andando così. In ogni caso spero vivamente che possa continuare ad interessarvi.

Ringraziamenti doppi (dato che ho dimenticato di inserirli la volta precedente), per chiunque abbia seguito/preferito la storia, e specialmente per tutte le persone che continuano a commentare con assiduità i capitoli. Come ho probabilmente già detto ad ognuno di voi, non ho parole per esprimere la mia gratitudine.
Detto ciò, buona lettura.
Ci si vede (presto, si spera) . -C.


 
CAPITOLO DECIMO - PARTE SECONDA

And I can barely tell the sky from the shoreline. and I can see myself reflected in your eyes.
( Plane VS tank VS submarine )




 
Gerard teneva le ginocchia un po’ troppo vicine al petto per colpa del piccolo sgabello color pastello su cui era seduto. E intanto sorrideva.
Sorrideva ed era bellissimo.
 
Per me non fu una scoperta nuova, però a volte mi capitava di guardarlo e perdere comunque un battito. C’erano dei momenti in cui i miei occhi non riuscivano ad osservare altro che la pelle che si accartocciava in piccole rughe ogni volta che Gerard assottigliava le palpebre, preso da un sorriso spontaneo. O il modo in cui le sue labbra ed il suo sguardo diventavano espressivi quando si perdeva nei piccoli dettagli della descrizione di qualcosa che amava.
 
E allora era sempre come vederlo per la prima volta. Era ignorare qualsiasi cosa non fosse il Gerard che mi stava di fronte. Era anche dimenticare le sue frasi a metà, i suoi “poi” senza seguito. Tutto un universo infinito di cose che lo privavano di quella scintilla di vita che ogni tanto luccicava folgorante dietro lo smeraldo dei suoi occhi.
Era lasciar scivolare via il fatto che anch’io in passato avevo avuto paura. Il fatto che probabilmente avevo continuato a cadere a pezzi fino ad un secondo prima.
 
Gerard era bellissimo, e a volte mi capitava di non pensarci troppo su.
 
Il resto delle volte, quando ci facevo davvero caso, mi sembrava di non essere mai stato così pieno.
Di non aver mai sperato in modo così concreto.
 
 
“Devo ammettere che queste sedie sembravano un poco più comode quando ero piccolo”
 
Rise.
Io, invece, sentii qualcosa che mi si spegneva dentro.
 
Pensiamo sempre di avere abbastanza tempo. Non è così.
Pensai che non è vero che abbiamo tutto il tempo che crediamo di avere.
 
“Gerard?”
“Sì?”
“Voglio parlarti di mio padre…”
 
Lui si fece serio, mi scrutò con gli occhi leggermente socchiusi, poi annuì.
Lo fece in modo solenne, scandendo per bene ogni movimento. Rilassando poi l’espressione del viso.
 
“Va bene, però-- però non qui. Voglio portarti in un posto speciale”
 
Improvvisamente allungò la mano sulla piccola superficie del tavolo e strinse le sue dita tra le mie, sfiorandomi appena il polso con il pollice.
 
Provai ad evitare il suo sguardo, tenendo gli occhi piantati sul cartone del bicchiere del mio caffè, mentre un piatto con dei dolci divideva le nostre ordinazioni.
 
Poi spinsi ancora più a fondo le dita, lasciando che stringessero con maggior forza quelle di Gerard.
Era il mio essere coraggioso.
Sollevai lo sguardo.
 
 
“Voglio parlarti di me. Voglio che tu mi parli di te. Voglio sentirti concreto proprio come ti sto sentendo in questo momento. Voglio-- io voglio che anche quando la mia mano lascerà andare la tua, o al contrario… voglio che mi rimanga qualcosa di te.”
 
“E non hai paura?”
 
“Di cosa?”
 
“Insomma... Non hai paura del fatto che potrebbe arrivare un giorno in cui l’unica cosa che ti rimarrà di me sarà un mucchio di ricordi?”
 
“No, è inevitabile. E’ tutto temporaneo.”
 
“Allora qual è il punto?”
 
“Il punto è che una cosa non smette semplicemente di esistere del tutto. Smette solo di esistere nella stessa forma in cui esisteva prima. Aristotele lo chiamava ‘Panta rei’, ma questo in ogni caso non importa nulla. Importa che probabilmente un giorno questa stanza sarà tutto tranne che un piccolo bar in cui preparano i pancake ai frutti di bosco, ma questo non vuol dire che non sarà più una stanza. E importa che probabilmente un giorno noi non saremo più seduti su questi minuscoli sgabelli, che probabilmente non ti basterà allungare la mano per stringere le mie dita, eppure saremo ancora.
Saremo ricordi, o saremo due adulti con troppe responsabilità e alcuna idea di come affrontarle… mi basta sapere che siamo stati qualcosa, Gerard. Mi basta sapere che oggi è accaduto sul serio. Che questo è reale. Che tu sei qui. Che forse un giorno potrò ancora sorriderci su, al pensiero di te che non riesci a fare entrare le gambe sotto il tavolo. Allora oggi ti chiedo di esserci, di essere reale.
Voglio realmente ricordarmi di te.”
 
“Adesso tocca a te”
 
“Cosa?”
 
“Tocca a te ricordarmi così. Se mai un giorno sarò solo un ricordo… tra tutti quelli che abbiamo creato finora, ho deciso di essere questo. Oggi. Così. Con le mie dita tra le tue. Ché forse riesce a salvarsi qualcosa di me se mi ricordi con le mie dita tra le tue. Forse in questo modo sono decisamente migliore che da solo. No?” …
 
[…]
 
Gerard mi portò in riva all’oceano.
 
E’ solo che non era un posto qualsiasi. Erano pochi metri di spiaggia, una baia completamente nascosta e raggiungibile unicamente attraverso un sentiero sterrato che scavalcava una specie di collinetta.
Quando per un secondo mi fermai e rimasi a fissare la vastità delle sfumature del blu, Gerard tornò indietro sui suoi passi e strinse saldamente la mia mano.
 
“Su… siamo quasi arrivati”
“E’-- è…”  -  “…grazie”
 
Gerard sorrise prima con gli occhi. Era una cosa che faceva sempre. Aveva lo sguardo che si illuminava a sua insaputa. Che tradiva ogni tentativo di non far trasparire qualsiasi cosa provasse in quell’esatto momento. Gerard aveva gli occhi più reali che avessi mai visto nella mia vita.
 
E vivevano e si alimentavano delle sue speranze con la stessa concretezza con cui morivano insieme a lui.
E a volte la loro schiettezza era impossibile da sostenere. Quel verde che prendeva fuoco o si incupiva alla stessa velocità con cui Gerard sapeva cadere a pezzi. O anche più velocemente.
In modo più sincero. In modo più doloroso.
 
Però quella volta era di sicuro un sorriso. Uno di quelli che scintillavano nelle pagliuzze dell’iride e poi colavano via in quella piccola curva delle sue labbra. La stessa che non era mai decisa, sempre accennata, sempre un poco piena di timore, ma mai capace di mentire.
Ché anche se Gerard al tempo lo conoscevo ben poco, non c’era bugia detta in modo peggiore che i suoi sorrisi di dolore. E questo imparai a capirlo subito.
 
“Non ringraziarmi- seguimi”
“Se lo dici così però mi metti paura”
“Cavolo, hai svelato il mio piano segreto per ucciderti!”
“Sapevo che mi avresti fatto fuori! Hai provato a farmi mangiare troppi dolci per poter avere buone intenzioni…”
“Sai che a Zio Gerard i bambini piacciono grassottelli …”
 
Ci fu una frazione di silenzio, poi inevitabilmente scoppiammo entrambi in una risata.
 
Lui mi fece un cenno con il capo e percorremmo gli ultimi metri di sterrato che ci separavano dalla sabbia.
Gerard mi teneva la mano.
 
[…]
 
L’odore della salsedine era pungente e ti si attaccava addosso insieme all’umidità.
Le dita di Gerard scorrevano in modo naturale tra i miei capelli mentre tenevo la guancia poggiata sulla sua spalla, e la mia testa sembrava fatta per riempire in modo dannatamente preciso l’incavo del suo collo.
 
Pensai che io e Gerard sapevamo completarci in modo così perfetto da essere del tutto sbagliato.
Che se da un lato sapevamo far combaciare i nostri corpi con maniacale esattezza, dall’altro sapevamo solo aggiungere nuovi tipi di vuoto e di dolore a quelli che già ognuno di noi portava dentro.
 
E io potevo saperlo con certezza perché anche se gli ero così vicino, così profondamente fuso in tutto ciò che era la sua essenza, percepivo il suo cuore battere ad una velocità esagerata sotto mille strati di vestiti e ossa e muscoli e vene nelle quali a volte avevo paura potesse smettere di scorrere sangue.
 
Ma con un cuore che martella a quella potenza è assolutamente impossibile essere morti.
E’ assolutamente impossibile pretendere che tutto andrà bene.
 
“Gerard…”
 
Il suo corpo fu percorso da un’ondata di brividi mentre la mia voce si schiantava in modo dolce sul suo viso, con un sussurro che non perdeva tempo a disperdersi nell’aria salata e scivolava nel suo orecchio fino a fermare quell’ultimo palpito di cuore.
 
Portai le labbra su quell’angolino in cui la mascella incontra il lobo, e iniziai a tracciare una linea disordinata di baci in una scia fatta solo di un contatto quasi inesistente tra la mia bocca e la sua pelle. A volte lasciando che l’unica cosa che la sfiorasse fosse il mio respiro tremante.
 
Lui rispose con un piccolo gemito seguito da un sospiro leggero. Inclinò il viso dalla parte opposta e si abbandonò ai miei baci, chiudendo del tutto gli occhi.
 
Dopo qualche secondo lasciai che la mia scia mi riportasse in alto e le misi fine, poggiando il naso contro la guancia fredda e arrossata di Gerard, amando il modo in cui il suo pallore si era fatto leggermente roseo a causa della temperatura.
 
“Cristo…”
“Uhm-- puoi semplicemente chiamarmi Frank se vuoi”
 
Gerard sbuffò leggermente dal naso, mentre la mia risata si ruppe contro il suo viso.
 
“Quanta modest--”
 
Accorciai quegli ultimi centimetri di distanza e mossi le mie labbra sulle sue, sentendole reagire sotto di me, mentre si curvavano in una specie di piccolo ghigno.
 
Non andammo molto oltre, ma quella frazione di secondo mi fece sentire come se non baciassi Gerard da anni.
Come se fosse effettivamente possibile sentire la mancanza di qualcosa che in realtà non avevo mai perso. O la mancanza di qualcosa che forse non era mai stato mio.
Per un tempo infinitamente breve mi chiesi se Gerard sarebbe mai stato per me ciò che io desideravo che fosse.
Mi chiesi se le cose sarebbero mai sembrate più reali e concrete di quanto non sembrassero in quel momento, se un giorno io e Gerard –il concetto di ‘noi’ che c’era dietro quell’ ‘io e Gerard’- avremmo smesso di essere un pensiero che desideravo soffocare.
 
Mi chiesi quando un bacio come quello avrebbe smesso di essere una paura dalla quale poi avrei provato ad allontanarmi, e quando invece sarebbe diventato ciò che le allontanava tutte.
 
“Frank” … “Frank?”
“Sì?”
“Dimmi chi sei…”
 
Gli lanciai un’occhiata divertita.
 
“Sono… okay. Mi chiamo Frank. Sono uno di quelli che non sanno come comportarsi quando tutto nella vita sembra andare bene. E… mi piace far finta di avere ancora dieci anni per provare a non sentire il peso del mondo su di me. Sono un poco un casinista, sono anche molto riservato. Sono il migliore amico di Mikey Way, il figlio di una madre bellissima, sono--”  deglutii  “—sono il figlio di un padre di cui non ricordo nulla, e … a volte mi sento così in colpa… sono uno che si sente in colpa per aver dimenticato del tutto che suono aveva la voce di una persona che ha amato. E sono così spaventato. Gerard-”
 
Lui mi carezzò piano la guancia. Poi serrò le labbra, irrigidì la mascella, i suoi occhi furono inondati da un mare di comprensione, la sua bocca si sbilanciò in modo impercettibile dal lato sinistro.
E quello era Gerard. Gerard era tutto quell’insieme di dettagli che esplodevano all’improvviso sul suo viso e parlavano da sé, e che probabilmente mi dicevano più di quanto io avessi mai potuto chiedere.
Desiderai che anche i miei occhi potessero essere decifrati facilmente dalle persone che mi conoscevano meglio. Desiderai che il tempo e le esperienze non mi avessero insegnato duramente ad essere del tutto inaccessibile, che anch’io riuscissi a buttar via inconsapevolmente tutte le cose che avevo da dire, ma che non sapevo come. Desiderai che i miei occhi avessero una voce, proprio come quelli di Gerard.
 
“Frank- vieni qui… Sh, vieni qui”
 
Ci stringemmo in un abbraccio impacciato ma semplice.
Io gli sussurrai all’orecchio.
 
“Gee…”
“hey”
 
“Secondo te sono un coglione se ti dico che credo che-- che credo di essere anche uno che è incredibilmente attratto da un ragazzo dall’aria distratta e dal profumo di inchiostro e nicotina?”
 
“Credo che se tu sei un coglione allora lo sono anch’io. Lo sono davvero irrimediabilmente tanto…” si fermò per un attimo. I pochi istanti necessari per un sorriso. Poi riprese “… però credo che sia okay. Non sono un grande esperto. Ma credo che a queste condizioni mi vada bene essere qualsiasi cosa…”
 
[…]
 
Quel pomeriggio lo passammo su una spiaggia umida, circondati dalle luci dell’oceano in inverno.
Parlai a Gerard di mio padre. Lui mi parlò di sé.
 
Ci si sente leggeri ad essere se stessi.
 
Fu uno tra i giorni più reali che avessi mai vissuto prima di allora. Forse uno tra i più reali di tutta la mia vita.
 
E respirando forte sentii l’aria salata che riempiva ogni millimetro libero del mio corpo, e mi dissi che mai più avrei voluto essere tanto freddo quanto le sfumature blu del mare d’inverno.
 
Mai più un oceano di vuoti.

 

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Fatemi sapere cosa ne pensate? Grazie a tutti. -C.

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Capitolo 15
*** 11 - The kids from Yesterday ***


Un altro piccolo capitolo, un altro mese. Giuro che ci provo con tutte le mie forze a scrivere di più, e più spesso. Ma non è mai abbastanza.
Rileggendolo, ho notato che probabilmente questo che sto per pubblicare è uno tra i miei capitolo preferiti, finora.
Non succede assolutamente nulla, Frank pensa assolutamente troppo, e credo che la mia vita, in questo momento, vada avanti allo stesso modo. 
Data l'importanza del capitolo ho scelto una canzone per me davvero importante. E quindi ritornano i My Chem, che nonostante tutto, non vanno mai via.

Ringrazio ogni singolo atomo dei vostri corpi, e l'impegno e la costanza che (a differenza mia) mettete nel seguire questa storia. Siete stupendi. - Claud.


 


CAPITOLO UNDICESIMO

You only hear the music when your heart begins to break   ( The Kids From Yesterday )

 


“Gee…”
“Mhhh”
“Gee, toglimi il piede dalla faccia”
“Uh”
“Gee toglimi il cazzo di piede dalla faccia oppure te lo amputo”
 
Gerard rotolò su un lato, finendo con il naso schiacciato contro il pavimento freddo.
Mikey si passò una mano sul viso, sfregando con un poco di pressione, come a voler eliminare quella sensazione di peso sulla guancia.
Io invece ero in un angolo. Ero in un angolo tutto mio, e li osservavo e ridevo. E probabilmente non ci capivo un cazzo, perché ero tutto preso dalla birra e dal fatto che fosse notte fonda e io fossi sveglio da troppe ore. Che avevo gli occhi che bruciavano e non erano più umidi. Nemmeno un pochino. Che quando chiudevo le palpebre era come chiuderle sulla cartavetrata.
 
Eppure erano passati parecchi giorni dalla nostra giornata sull’oceano, e tutto sembrava aver trovato una sorta di bilanciamento. Una sorta di stabilità fisica, o di perfetto allineamento.
 
O forse quell’inevitabile secondo in cui un corpo trova una posizione di equilibrio, proprio prima di perderla definitivamente.
 
E probabilmente avevo così tanto - un’ottima percentuale di tutte quelle cose che avevo sempre desiderato avere - che magari mi andava bene anche quel’infinitesimale frazione di tempo prima dell’oblio.
 
 
Gerard tornò sulla schiena come una tartaruga. E io nella mia ubriachezza riuscii anche a trovare delle somiglianze tra i due.
Distese la faccia in quello che, secondo la sua coordinazione mente-corpo, avrebbe dovuto essere una specie di sorriso, o di ghigno. O forse voleva soltanto rassicurarmi del fatto che fosse ancora vivo.
Io ghignai di rimando. O comunque feci un cenno con il capo.
Mikey roteò gli occhi in modo decisamente troppo drammatico.
 
“Eww. Smettetela”
 
Poi fu il suo turno di rotolare un paio di volte sul pavimento in tonfi sordi, ogni qualvolta la schiena sbatteva pesantemente contro i listelli del parquet. Anche se non fossi proprio sicuro che ci fosse un parquet a casa di Gerard.
 
Però sicuramente a casa di Gerard c’era Mikey. E c’era Gerard. E c’ero anche io.
E quella sera sorridevamo un po’ tutti, qualcuno rotolandosi più di qualcun altro.
 
[…]
 
“Hey Gerard…”
“Mh..”
 
Fu un mugugnare distratto, mentre le sue palpebre vibrano impercettibilmente sotto il suono della sua voce. Il busto gettato a casaccio sul letto, le gambe penzoloni.
 
Sembrava di nuovo un po’ come guardare le stelle.
 
“Gerard, tu ti senti mai solo?”
 
Mikey era nella sua camera e c’era un’alta possibilità che fosse già crollato nel sonno sotto il peso della sbornia. La mia mano era ancora un poco più calda dell’altra dopo che Gerard si era preso cura di stringerla nella sua, per condurmi in camera da letto.
Era un ubriaco che si ostinava a guidarne un altro.
Pensai che doveva essere il gesto più stupido del mondo, oppure il più ingenuamente premuroso.
 
“Come?”
“Dico, ti senti mai solo?”
 
E poi pensai che ci si sente davvero soli sotto un cielo di stelle.
Ci si sente anche tanto piccoli. E vuoti e pieni allo stesso tempo.
Io morivo dal desiderio di sapere se Gerard si sentisse allo stesso modo.
 
“Sempre”
“Anche adesso?”
“Siamo sempre soli nell’affrontare noi stessi”
“Non capisco”
“Appunto”
“Gerard…” – uscì fuori come una supplica.
“Se ci provassi- se provassi a spiegarti ogni dettaglio di ogni pensiero, di ogni paura-- se potessi in qualche modo renderti partecipe di tutti i secondi della mia vita fino a questo momento… credi sarebbe abbastanza per capirmi? Credi si possa conoscere fino in fondo una persona?”
“No. Non del tutto.”
“E allora sarò sempre solo… Quando arriverà il momento di fare i conti con me stesso, sarò l’unico in grado di poterlo fare.”
 
E capii che Gerard era pieno di stelle.
Era fatto di costellazioni.
E galassie.
E continuava a perdersi nell’infinità di ciò che aveva dentro.
 
E capii che forse per lui era diverso.
Che certe persone non si sentono sole nella vastità dell’universo, perché sono loro stesse un universo.
Gerard non era troppo piccolo per il mondo.
Era così fottutamente troppo grande da non riuscire a starci dentro.
 
 
….  “E tu?”
 
Io mi voltai. Nuotai nel nulla dei suoi occhi.
 
“Io mi sento proprio come un satellite…”
 
Poi presi posto accanto a lui. Mi rannicchiai al suo fianco, nascondendo il viso tra il suo collo e i quei capelli quasi troppo lunghi e neri. Respirai a fondo, in modo pienamente regolare.
E ogni respiro era per me un ricordo. Come quando ti dicono che, prima di morire, ti scorre tutta la vita davanti agli occhi.
Io avrei voluto piangere perché in quel momento non mi era possibile morire.
Ogni respiro era così concreto e pieno. E io non avrei voluto morire.
Avrei solo voluto vivere.
Avrei voluto trovare la mia strada, e il mio posto, e il mio universo.
E magari alla fine di tutto trovare anche me stesso.
 
L’ultimo respiro non era un ricordo, perché era reale quanto un pugno nel petto che ti fa mancare il fiato.
E scivolando nel sonno, credetti per un secondo di aver intravisto una stella luccicare nel buio pesto dei capelli di Gerard.
Poi mi accorsi che stavo piangendo.
[…]
 
Io e Mikey camminavano in silenzio verso scuola.
Dopo essere usciti da casa di Gerard nessuno dei due era riuscito ad intraprendere il discorso.
Perché sapevamo entrambi che un discorso da intraprendere c’era.
Ed era lì, sulla punta delle nostre lingue, pronto solo a riversarsi sulle nostre vite.
 
Forse era proprio questo a renderlo così terribilmente difficile.
 
“Quindi tu e Gerard…” – si aggiustò meglio gli occhiali sul naso, sollevando lo sguardo da terra e puntandolo su di me.
 
Io provai a voltarmi nel modo più naturale possibile, tradendomi da solo quando deglutii pesantemente, buttando giù una buona dose di coraggio.
Aprii bocca, boccheggiando impercettibilmente mentre nessuna parola riusciva a prendere suono.
Stavo davvero rovinando tutto?
Ed era davvero la fine?
 
Bloccai il passo, mentre la strada sterrata si alzava in una nuvoletta di polvere e fango.
 
“Mikey, se tu non vuoi possiamo –”
“Cosa? No Frank, non hai capito… non vedevo Gerard--  non lo vedevo vivere da così tanto tempo che avevo iniziato a credere non l’avrebbe mai più fatto. Cazzo, non sai quanto è stato difficile per me-”
 
Si fermò un attimo. Un movimento veloce allontanò gli occhiali dal viso e li sostituì con la manica della sua felpa. La mia bocca si aprì appena, mentre osservavo immobile il mio migliore amico che si sfregava gli occhi lucidi contro il braccio.
 
Per una manciata di secondi non riuscii a fare nulla se non stare lì sui miei piedi con estrema difficoltà, non capendo bene cosa mi stesse accadendo attorno.
Poi in uno slancio circondai le spalle strette di Mikey e lo strinsi a me, lasciando che la sua testa china premesse contro il mio petto.
E capii che c’era qualcosa di estremamente sbagliato e che forse non ce la facevo più a far finta di niente.
Mikey intanto continuava a sussurrare che gli dispiaceva, e si interrompeva in singhiozzi continui.
Non mi sembrava più nemmeno la stessa persona che qualche minuto prima aveva preso in mano le redini del discorso. Non mi sembrava il Mikey che credevo di conoscere fino in fondo.
E con probabilità non avevo nemmeno raschiato la superficie.
E c’erano strati di dolori e paure che fanno male alla testa anche solo ad essere immaginati.
 
“Frank?”
 
La sua voce sbatteva contro il mio giubbotto ed era appena udibile.
 
“Sì Mikes…”
“Devi parlare con Gerard”
“io… io l’ho fatto” – la mia sembrò quasi una domanda.
Lui si scostò dal mio petto, portò di nuovo gli occhiali sul naso, e mi annuii.
Io gridai internamente perché non aveva senso.
Tutta la situazione non aveva alcun senso.
E nemmeno io.
 
[…]
 
Quando la sera tornai a casa mi resi conto di aver passato tutta la giornata isolato dalla mia famiglia e dal resto dei miei amici. Ed onestamente mi andava benissimo così. Avevo bisogno di rielaborare tutte le informazioni che- che in realtà non avevo.
Mi gettai forte sul letto e mi dissi che non sapevo ancora niente. Avevo ancora Mikey, e Gerard, e la vita di prima. Forse le cose stavano davvero andando meglio.
Mi chiesi di cosa avrei dovuto parlare con Gerard.
E dentro di me sapevo che non importava, perché Gerard sembrava così distante quando parlava di sé. Sembrava parlare di tutta un’altra vita, e altra gente. E di qualcun altro.
Mi resi conto che Gerard parlava di sé come si parla di un amico: in modo freddo, e distaccato, e disilluso, eppure con quell’accenno di compassione e dolore che a volte scivola via quando ci riferiamo a problemi altrui.
Ma Gerard le sue paure le affrontava come se non fossero realmente sue.
E c’è qualcosa di paurosamente desolante nel modo in cui alcune persone riescono ad essere razionali nel dolore. C’è freddezza, e fermezza, e c’è abitudine.
 
Quella notte avrei voluto rimanere sveglio ad ascoltare il suono della voce di Gerard che mi spiegava il motivo per cui lui avesse alla fine imparato a convivere con tutti i suoi terrori.
E tenere la testa sul suo petto e sentire il suo cuore aumentare in modo eccessivo i battiti, per dirmi in silenzio che anche lui riusciva ancora a provare paura.
Che non aveva rinunciato a vivere.
Che era davvero lì.
 
Gerard non era mai davvero presente, se non pochissime volte.
 

 
Presi un pezzo di carta e vi disegnai sopra un piccolo universo, e una piccola navicella in lontananza.
E quello ero io. Un satellite perso a vagare fra galassie e vuoti.
 
<< Buona notte piccolo satellite. Spero che tu possa ritornare alla base. –Gerard>>
 
E comunque a volte ci sono cose che vanno anche oltre i dubbi e le paure.
Ed io non riuscivo più ad immaginare come sarebbe stato tutto senza Gerard.
Non avevo intenzione di andare via.
 
<< Buona notte Gee>>
 
Forse non avevo mai avuto così tanta voglia di restare.
 
Mi dissi che magari ritornare alla base era solo un finale. Che in realtà sta tutto nel vagare tra le stelle. E scoprire i nostri universi. 


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Come sempre mi farebbe un infinito piacere sentirvi nelle recensioni. In ogni caso grazie ad ognuno di voi per essere presente. 

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Capitolo 16
*** 12.1 - Symphony Part III ***


Questa cosa sorprende anche me, ma ecco l'ultimo capitolo che mi rimaneva da pubblicare. 
Avevo quasi giurato che non sarei mai rimasta senza alcun capitolo di riserva, ma ho imparato che la vita prende strane direzioni.
E questa storia ne è la prova.

Quindi eccolo, il Dodicesimo Capitolo - parte prima. Accompagnato da una bellissima canzone dei Muse.
Credo che sentirete la mia mancanza per un po', a causa di impegni che per troppo tempo ho provato a lasciare alle spalle, e a causa della fine della scuola, e l'inizio di una serie di cose che per me sono paurosamente nuove. E questo è tutto, mi farebbe tantissimo piacere sentirvi, dopo questo (questi?) mese. Vorrei di nuovo ringraziare chiunque si sia fermato ad osservare me, ma anche voi. Chiunque abbia lasciato una parte di sé in questa storia, per poi ritrovarne altre che credeva perdute.
E ringraziare le quasi mille persone che in questi lunghissimi mesi mi hanno vista cambiare, forse crescere. 

Giurare sarebbe una cazzata troppo grande, ma vi assicuro che farò di tutto per finire questa storia, sperando di riuscirci. 
Tra qualche settimana sarà tutto finito, e avrò (spero) più tempo tra le mani. 
 
Intanto vi lascio con questo capitolo, che non è nemmeno conclusivo o troppo soddisfacente, ma è quello che ho.

Grazie ancora, fatevi sentire se potete.



 
CAPITOLO DODICESIMO - PARTE PRIMA

Let's start over again.
Why can't we start it over again? 
( E
xogenesis - Symphony Part III )

 



“Frank…” – Il mio nome che era appena un sospiro, un di quelli di cui ti liberi.
 
Gerard continuava a ripeterlo saltuariamente, la sua voce sempre più bassa e sempre più simile ad una supplica. Io gli rispondevo pronunciando a mia volta il suo nome, in un gioco senza senso, fatto di respiri pesanti e sospiri dalle poche pretese e una voglia matta di bruciare forti come i fuochi d’estate.
Le sue gambe piegate ai miei lati, e il suo bacino sul mio che sembrava un peso inesistente.
Perché non esisteva nulla oltre il modo in cui le sue labbra si arrossavano a vista d’occhio, e i suoi occhi sembravano dipinti di calore, e Gerard continuava a porgermi il collo che faceva trasparire ogni sottilissima vena blu o verde. Intanto la testa sembrava girare al ritmo con cui lui si spingeva ritmicamente contro di me, cercando disperatamente una qualsiasi pressione.
Quei “Frank…” che si dissolvevano immediatamente nell’aria, sempre più sussurrati, con maggiore frequenza.
Io che non riuscivo più a pensare a nulla. Nemmeno a cosa avrei dovuto dire o fare.
La mia bocca che sembrava prendere decisioni da sé, mentre scorreva ad accarezzare i capelli neri, e poi giù fino alla clavicola.
 
“Dio-- Gerard…”
 
Improvvisamente ci fu una mano a tirare la mia cintura in modo sbrigativo.
Non riuscendo ad ottenere grandi risultati, provai ad aiutare Gerard, che intanto teneva l’altro palmo premuto pochi centimetri più in là della mia testa, contro la spalliera del divano, provando a mantenere una posizione stabile sul mio bacino e continuando ostinatamente a muoversi contro di me.
In quegli istanti sembrò davvero una questione di vita o di morte far scorrere quel pezzo di cuoio fuori dai passanti dei miei pantaloni.
 
Ci riuscimmo dopo un paio di tentativi, accompagnati da un gemito di Gerard.
 
“Cazzo Frank…”
 
Mi venne quasi da ridere, pensando a come nell’ultima mezz’ora non fossimo riusciti a mettere insieme neppure una frase sensata. Nemmeno una in due.
Solo lamenti, e suoni e parole senza destinatario. Tutte a riempire l’aria densa della piccola camera di Gerard, che iniziava a trasudare di un miscuglio dei nostri odori e del nostro calore.
 
Ci fu un istante in cui sollevai lo sguardo e incontrai quello di Gerard, rimanendo incastrato nei suoi occhi.
Potevo percepire ogni suo pensiero dalle sole sfumature del verde e dal modo in cui quest’ultimo luccicava in modo vacillante e tremolante sotto il peso della paura.
Perché Gerard aveva paura.
 
Capii che fino a quel momento era tutto sembrato più etereo, meno reale. E adesso eravamo invece costretti ad affrontare lo stacco che era persistito fino ad allora nelle nostre vite.
E lo sguardo di Gerard brillava di paure, perché le sue mani avevano già visto, e toccato, e vissuto, e dentro quei suoi occhi enormi leggevo la consapevolezza che per me non era lo stesso.
La realizzazione del reale peso del suo corpo sul mio. Della sua presenza nella mia vita.
 
Sembrò tutto dolorosamente intimo quando sfiorai una sua guancia bollente con la mia mano fredda, indugiandovi sopra per qualche secondo, per poi avvicinare le mie labbra sulle sue.
 
“Va tutto bene. Sei qui-- siamo qui, Gerard…”
“Mi dispiace –”
“No… non oggi…”
 
Gerard semplicemente annuì con un piccolo movimento della testa, continuando ciò che aveva iniziato. Le sue mani rallentarono sui miei jeans, i suoi movimenti erano decisamente più pacati e sinceri. E nel suo sguardo c’era di nuovo ordine. La piena certezza di ciò che stava accadendo.
 
Sentii la cerniera aprirsi, e mi sollevai di qualche centimetro dal divano per poter far scivolare giù i pantaloni. Chiusi gli occhi quando Gerard premette il suo palmo contro la stoffa bianca dei miei boxer.
Per qualche minuto continuò a passarvi sopra le sue dita da artista, quasi a voler modellare un modello immaginario, o a tracciarvi sopra delle linee invisibili. Io riuscivo unicamente a percepire la mia temperatura che aumentava con ogni mossa decisa, ed il modo in cui il mio corpo continuava a reagire istintivamente.
 
“Così bello Frank…”
 
La mia bocca si schiuse in un sospiro spezzato da un gemito.
 
“Così fottutamente bello--”
“Di più”
 
Le sue labbra si distesero in un ghigno, contro il mio collo.

“Dimmi cosa vuoi, dai –”
“A-ancora. Voglio di più”
 
Improvvisamente non c’era più nessuno strato tra noi. Non i jeans, né il cotone, né l’incertezza.
E quel pomeriggio, per la prima volta, mi sciolsi sotto il tocco sincero di Gerard, mentre la sua bocca soffocava parole a caso contro ogni centimetro della mia pelle.
 

 
Ci addormentammo sul divano.
I battiti del cuore di Gerard martellavano contro la mia schiena, una sua gamba sovrastava il mio corpo, stringendomi ancora di più al suo.
Quando sentii che il suo respiro si era regolarizzato, strinsi la sua mano nella mia, premendole contro il mio petto.
 
Per svariati minuti aspettai che l’adrenalina scivolasse via dal mio corpo, lasciandomi cadere nel sonno, convinto del fatto che Gerard stesse già dormendo.
Poi ci fu un movimento agitato, e sentii delle dita afferrarmi con forza.
 
“Non voglio andare via—Frank, Frank…”  “… non lasciarmi andare via”
 
Quello che era un respiro regolare si trasformò in una specie di rantolo spezzato.
Io soffocai, mentre il cuore si stringeva in una morsa di dolore.
 
Riuscii solo a scuotere leggermente il capo, serrando le labbra per trattenere qualsiasi emozione avessi paura potesse scivolare via.
 
E poi provai a dirgli che l’avrei tenuto il più possibile vicino a me. Lo feci nell’unico modo che conoscevo:
strinsi ancora più forte la sua mano.
 
[…]
 
“Frank?”
“Mamma?”
 
Lei si sedette accanto a me, sul divano.
 
“Frank… stai vedendo qualcuno?”
 
Mi schiarii la gola.
 
“Come?”
“Sì insomma… ti vedi con una ragazza?”  Tentennò per un istante . “… Un ragazzo?”
“Io non --- hm..” – “Non è esattamente ciò che credi che sia. Però sì: mi vedo con qualcuno”
“Okay… e questo qualcuno è di mia conoscenza, oppure..”
 
Scossi velocemente la testa, senza nemmeno lasciare che terminasse la frase.
 
“Hm, va bene”  Mia madre si sporse verso di me, circondandomi in un abbraccio sicuro – “Sai Frank… non so cosa sia cambiato tra noi, ma mi manca tanto sentirti parlare della tua vita. Vorrei—io vorrei che non ci fossero delle cose da tenere segrete tra di noi”
 
E io mi resi conto, per la prima volta, che parlarle di Gerard mi metteva una paura incredibile.
Che il timore del suo giudizio abitava dentro me come un peso scomodissimo, che tormentava le mie labbra, ricordandomi che sarebbe stato meglio non schiuderle.
E poi controbattei.
 
“Non è vero. Lo sai cos’è cambiato tra noi…”
 
La morsa delle sue braccia attorno alle mie spalle si fece gradualmente più debole, fino a sentirle scivolare via da me.
 
Guardandomi di nuovo negli occhi, con un’espressione solenne, scosse piano il viso stanco.
 
“No… non è così. Sono cambiate molte cose nelle nostre vite, e adesso tu sei così grande e-- ”
 
La mano che aveva portato ad accarezzare il mio viso si fermò a mezz’aria, incerta.
Poi fu ritratta.
 
“Ed è così difficile osservare le persone che amiamo soffrire, e lottare per crescere… e distaccarsi piano da noi. E sapere che ci sono dei momenti in cui l’unica cosa giusta da fare è vederli combattere per essere liberi, sotto il nostro sguardo… senza poter tendere una mano, perché sarebbe una mano tesa al vuoto”
 
“Anche se ti porgessi la mia, servirebbe a cambiare le cose?”
 
La sua risposta tardò un secondo. Poi arrivò, diretta.
 
“Servirebbe a far tornare indietro papà? Servirebbe a spazzar via il suo ricordo? La sua mancanza? E’ questo che vuoi sapere, Frank?”
 
“Voglio sapere quando questo peso smetterà di schiacciare ogni mio respiro”
 
“Io-- ”
 
“Quando?”
 
“Mai. Mai…”  -  “Ma arriverà un giorno in cui saprai prendere respiri più profondi, e ti accorgerai che ci sono infiniti modi per sentire la mancanza di qualcuno, e che respirare il doppio è solo un modo come un altro per portare con sé il ricordo di chi ci manca”
 
“.. E’-- è un ragazzo. Il qualcuno con cui mi sento, è un ragazzo. Ed a volte ho paura che smetta di respirare, mentre lo stringo. E io non posso farlo per tutti e tre. Mamma… io non so essere così forte”
 
Questa volta il suo palmo sfiorò il mio viso.
 
“Frank… si tratta solo di te adesso. Solo di te, e del tuo qualcuno. Chiunque esso sia. Puoi liberarti di ogni altro peso, amore. E’ arrivato il momento anche per te…”
 
E il secondo abbraccio sembrò come il finale perfetto alle sue parole. Il suggellamento di un ultimo patto.
Una conclusione.
 
E capii che, per quanto lontano possiamo correre, l’unico modo per lasciarsi alle spalle il passato è chiudere con esso ogni conto lasciato in sospeso.
[…]
 
Il locale nel quale avevamo scelto di cenare era decisamente troppo affollato per un mercoledì sera.
 
Io e Mikey chiedemmo un passaggio a Gerard, decidendo alla fine che sarebbe rimasto a mangiare con noi.
In lontananza il passo penzolante di Mark si accompagnava a quello decisamente più aggraziato della sua ragazza. Mikey dovette pensare esattamente la stessa cosa, perché senza scambiarci nemmeno uno sguardo ci ritrovammo a sogghignare nello stesso istante.
Aspettammo per strada gli altri ragazzi, che arrivarono una decina di minuti dopo, cercando di scaricarsi a vicenda la colpa del ritardo.
 
Gerard si era allontanato dal resto del gruppo con la scusa di dover fumare una sigaretta, prima di entrare nel locale.
 
Ogni tanto il mio sguardo scivolava via sul suo viso delineato dal chiaroscuro della sigaretta nel buio della notte. Osservavo le sue gambe, che sembravano slanciate nonostante la sua altezza nella media ed il fatto che non fosse particolarmente magro. Osservavo la maniera in cui il giubbotto di jeans era estremamente sgualcito e consumato, soprattutto all’altezza del gomito o delle spalle.
Mi ricordò che ignoravo quasi del tutto le esperienze passate di Gerard. Mi chiesi in quale occasione i jeans neri che indossava quella sera di fossero strappati nella parte in basso della tasca posteriore, o quale fosse la storia dietro le piccole spillette che teneva attaccate accanto al colletto della giacca.
Improvvisamente avrei voluto essere sommerso da fiumi di frasi e storie, trasportato dal tono dolce dei sussurri di Gerard. Gli stessi che sembravano ubriacarmi nei momenti più intimi, quando le sue parole non osavano sovrastare il silenzio che ci circondava, e preferivano vibrare al suo stesso ritmo, e sovrapporsi lievemente ad esso.
Ricordai la sensazione estasiante delle sue mani tra i miei capelli.
Lo osservai ancora.
Lui stava già osservando me.
 
Mi chiesi che sapore avesse il fumo sulle sue labbra.
 

 
“Una volta io e Frank abbiamo marinato scuola e nel tragitto verso il parco abbiamo intravisto mia zia e --  ti ricordi Frank? ”
 
Io semplicemente annuii sorridendo, in risposta.
 
“.. e allora abbiamo cambiato immediatamente direzione e abbiamo girato per tantissimo tempo attraverso delle strade di merda di periferia, quelle dove incontri sempre la gente più strana. Mi ricordo che un signore ha provato a venderci del bicarbonato spacciandolo per cocaina, non rendendosi conto che era ancora dentro lo scatolo del supermercato. Cazzo, abbiamo riso per almeno 20 minuti di fila. E comunque ad un certo punto ci siamo ritrovati in un punto mai visto prima della città, a piedi, da soli, senza poter nemmeno chiamare i nostri genitori perché a quell’ora avremmo dovuto essere a scuola… quanti ricordi”
 
Kate sorrideva a Mark, osservandolo con gli occhi che quasi luccicavano sotto le luci del locale. Lui finì il racconto, si voltò verso lei, e strinse piano la sua mano sul tavolo.
 
Ognuno di noi notò con attenzione ogni movimento, ma nessuno riuscì a trovare delle parole che non avrebbero rovinato l’atmosfera.
 
Mikey sistemò meglio gli occhiali sul naso, rompendo il silenzio.
 
“Ricordo che una delle prime volte in cui io e Gerard siamo usciti in macchina – lui aveva la patente da tipo poco più di una settimana… comunque siamo usciti in macchina e lui aveva promesso di portarmi in quel negozio di fumetti che c’è fuori dal centro. Sapete, quello oltre il ponte? E dopo venti minuti buoni ho guardato fuori dal finestrino e c’era tipo, una specie di campagna sperduta attorno a noi… e allora guardo Gerard e gli chiedo se per caso avesse sbagliato strada”
 
Gerard arrossì visibilmente, ridendo di sé e abbassando lo sguardo vergognato sul tavolo.
 
“Non ridere! Praticamente sono passati altri venti o trenta minuti e lui continuava a dirmi che aveva solo perso del tempo perché aveva mancato la strada principale all’incrocio, e che comunque ci si poteva arrivare lo stesso da vie secondarie. Ad un certo punto non ho osato chiedere più nulla perché Gerard era completamente impanicato, e allora gli ho proposto di fermarci a chiedere indicazioni. E alla fine abbiamo scoperto che eravamo praticamente a dieci minuti dal confine con la Pennsylvania e che probabilmente c’erano già degli aerei a sorvolare il Jersey per cercarci.”
 
“Non è colpa mia se la mamma era così apprensiva con noi…”
“Gerard ci abbiamo messo tipo 6 ore per comprare dei fumetti!”
 
La discussione sfumò tra risate e alcuni commenti, mentre la mia mano scivolava sulla coscia di Gerard, fino a stringere la sua sotto il tavolo.
 
Quando Sam osservò Gerard incuriosito, e iniziò a dire qualcosa, sentii una scossa percorrermi il braccio e i battiti incrementare di colpo.
Non ero ancora pronto per uscire allo scoperto con i miei amici.
 
“Quindi sei molto più grande di Mikey?”
 
A sua volta anche Gerard aveva inconsapevolmente rafforzato la presa sulla mia mano. Per poi allentarla dopo aver buttato via un sospiro di sollievo.
 
“Hum.. sì. Solo un paio di anni veramente..”
“Studi qualcosa oppure hai già un lavoro?”
“Già?” – Gerard sorrise, mentre il suo tono era altamente sorpreso – “Cioè, in realtà io—io ho 26 anni”
 
Sam sembrò trattenere a stento una risata.
“Cazzo. Sembri decisamente più piccolo”
 
Poi Mikey lo strattono divertito – “Quello che in realtà Sam vuole dire è:  ‘Cazzo! Ma che razza di ventiseienne disagiato sta a cena con un gruppo di adolescenti’ ”
 
In ogni caso l’affermazione non era assolutamente diretta a me, o alla mia amicizia con Gerard.
Lo capii subito dallo sguardo preoccupato che Mikey mi rivolse dopo aver realizzato le implicazioni di ciò che aveva appena detto.
Con un’espressione tranquilla scossi impercettibilmente la testa, facendogli capire che era okay.
Anche Gerard sorrise sommessamente per la battuta, ma sotto il tavolo sentii le sue dita accarezzare piano il dorso della mia mano.
 
Mi dissi che riuscivo di nuovo a percepirla, dietro il suo tocco.
Insicurezza.
 

 
Nonostante la compagnia un poco improvvisata, e l’ambiente decisamente sovraffollato e non del tutto piacevole, la serata fu con probabilità anche migliore di quanto non avessi sperato.
 
Nella confusione delle luci soffuse e della pessima musica ognuno di noi era impegnato in qualcosa di diverso. Uno o due membri della band avevano lasciato il tavolo per seguire la fila dei drink, al bancone.
Mikey discuteva animatamente con Mark e Kate riguardo il miglior cheeseburger che si potesse trovare a New York, sostenendo una delle sue strane teorie sulla carne macinata.
 
“Sei proprio stupendo sotto questa luce..”
 
Senza accorgermene, Gerard aveva avvicinato discretamente le proprie labbra al mio viso, sussurrando piano sulla mia guancia.
 
“E’ un modo carino per dirmi che mi preferisci al buio?”
 
Il suo volto fu così vicino da riuscire a sentire il leggero sbuffo del suo sorriso contro la mia pelle.
 
“E’ un modo carino per dirti che dovremmo incontrarci in un luogo più appartato…”
 
Non ebbi nemmeno il tempo di assimilare del tutto le sue parole, che Gerard gettò di nascosto le sue sigarette accanto alla mia mano, e si alzò di scatto dal tavolo.
 
“Hey, sto andando al bagno. Credo di aver bevuto troppa birra”
 
Nessuno dei tre sembrò minimamente interessato a quel dettaglio, ma quando presi il pacchetto di sigarette e mi allontanai con la scusa di volerne fumare una, fui incontrato dallo sguardo attento di Mikey, che sorrise appena tra sé e sé. 



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Grazie ancora, aspetto solo le vostre impressioni e recensioni.


 

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Capitolo 17
*** 12.2 - Swimming Pool ***


Questa volta spero con più costanza, ma eccomi. 
Ho finito questo capitolo e iniziato il prossimo. Avevo pensato di inglobarli, ma credo che mi sembri più spontaneo e naturale far terminare questo "12 - parte seconda"
in questo modo. Il resto (spero) andrà da sé.

Oggi un grazie specialissimo va a tutti voi. Che ci siete stati finora, e, mi auguro, continuerete a esserci ancora per un po'. 
Per sopportarmi / supportarmi.  Ogni recensione è un tuffo graditissimo ed eccezionale al cuore. 

Grazie ancora. Questo capitolo mi piace molto. Spero anche a voi. Buona lettura. -C.


 



CAPITOLO DODICESIMO - PARTE SECONDA 

I've been around long enough now to know that the good things never last.
( Swimming Pool )



 

Mi facevo spazio tra la folla, infiltrandomi in ogni fessura e usando la mia spalla come leva.
 
L’aria era davvero pesante e umida, carica dell’odore dell’alcool che bruciava un po’ nel naso.
E in quel momento pensai a mio padre.
 
Pensai a tutti quei mondi che crollano non appena qualcuno muore. Quelli in cui quella persona c’è e respira ancora. Pensai a tutti i momenti in cui mio padre non c’era stato, nella mia vita.
E mi chiesi come sarebbe stato il mio presente se quel giorno di qualche anno prima non fosse mai accaduto.
Se la vita avesse continuato a fluire nel suo quasi-statico flusso di cose.
Mi chiesi se è davvero meglio che le cose vadano come vanno.
Se non è solo una cosa che ripetiamo a noi stessi per auto-rassicurarci, per scacciare via quell’opprimente senso di impotenza di fronte agli eventi che vanno sempre in modo sbagliato.
 
Improvvisamente mi dissi che giusto e sbagliato sono due concetti tanto relativi quanto la destra e la sinistra.
Perennemente e necessariamente vincolati dal punto di vista.
 
E la porta di fronte a me, quella che mi divideva dal bagno, era altrettanto soggettiva.
Per nessuno, in quel bar, avrebbe mai potuto significare quello che significava per me, nessuno l’avrebbe mai vista con i miei occhi.
E io vi stavo dietro allo stesso modo in cui vi stava dietro Gerard.
E i nostri pensieri, le nostre voglie, i nostri corpi che quasi si sfioravano attraverso metri di cemento e legno e aria densa e altri corpi che a loro volta pulsavano di passioni.
Noi che rendevamo relativa anche la distanza e soggettivi i centimetri.
 
Ma anche Gerard.
Gerard madido di sudore quando aprii la porta.
Madido di qualsiasi straordinaria rivoluzione gli si scatenasse dentro, fino a vibrare su ogni millimetro di pelle.
 
E forse fu quello più che il mio tocco ma sentii dei brividi diramarsi sulle sue braccia quando le sfiorai con le mie mani.
Gli stessi brividi che sembravano inseguire ogni mio movimento e arrivarono sul collo e sul viso, assalendo Gerard come ombre del mio respiro sul suo corpo.
Come se non ci fosse una reale distinzione tra di noi.
Come se le nostre anime potessero essere due o mille o una, e cambiare forma attraverso i punti di vista.
 
E allora era tutto così soggettivo e labile.
Eppure le notti bruciano via come se cosparse di benzina.
 
Fu ciò che pensai baciando Gerard e spingendolo in uno dei bagni.
 
“Solo per stanotte…”
 
Lui sembrò senza fiato:
 
“Cosa?”
 
“Solo per stanotte non c’è nient’altro. E questo bagno è una stanza sulla luna”
 
Gerard aprì le sue labbra sulle mie, corrugando le sopracciglia in un arco delicato, come se stesse riponendo tutta la propria concentrazione in quel gesto.
Poi sorrise:
 
“Una stanza con vista universo?”
 
Sorrisi anch’io.
 
“Con vista Gerard”
 
Lui passò il palmo della sua mano lungo tutto il mio braccio, stringendomi piano la spalla.
 
“Hai davvero sprecato i tuoi soldi… Frankie”
 
E a un certo punto ci fu anche un sorriso amaro che scomparse sotto il mio tocco, lasciando il posto a due labbra brillanti e schiuse.
 
“Già, mi era stato promesso del sesso”
 
Un ghigno.
 
“Per quello siamo ancora in tempo”
 
“…Siamo?”
 

 
La mia fronte era appoggiata sul muro, arrossata dal modo in cui le spinte di Gerard continuavano a premermi ritmicamente contro di esso.
I pochi gemiti e sospiri che non riuscivo a trattenere venivano in qualche modo attutiti dalle piastrelle viola pallido del bagno, sopra le quali le mie mani sudate continuavano a scivolare.
 
Sentii delle dita incastrarsi tra le mie per bloccare i miei palmi contro il muro.
Poi una mano lasciò la sua presa, scivolando prima tra i miei capelli e poi sul mio viso, accompagnata da flebili lamenti e rumori di pelle contro pelle.
 
“Davvero perfetto..”
 
Non so come Gerard riuscisse a formulare pensieri, anche i più banali.
Io risposi con un verso strozzato.
 
“Da- ah.. davvero così bello”
 
E in realtà avrei voluto controbattere, esalando in un sussurro tutte le mie ultime forze.
Dire che no, non ero io a essere bello. Che non avevo mai visto nulla di così meraviglioso quanto gli angoli di luce all’interno di ogni pagliuzza color grano dei suoi occhi, o la curva morbida delle fossette che gli solcava piano il volto per ciascuno dei suoi sorrisi più genuini.
 
E se quella notte le mani non avessero tremato tanto quanto tremava il cuore, se la voce fosse stata tanto audace quanto i miei pensieri e se i secondi avessero potuto dilatarsi anch’essi sotto il calore dei nostri corpi, e trasudare anch’essi di infiniti ulteriori secondi che avrebbero reso ancora più madide le nostre pelli - allora avrei detto, forse anche urlato, che no.
Che alle volte per essere belli bisogna esserlo in due, ed essere in due per notarlo.
 
Che di me, in quei minuti, era bella la pelle d’oca causata dalle carezze leggere di Gerard e ogni centimetro del mio viso contro cui si schiantava il suo respiro, forse anche gli odori peggiori e i gemiti più ridicoli, i dettagli del tutto lontani dall’essere belli.
Quelli che più onestamente ci rappresentavano.
 
Improvvisamente un gemito più forte degli altri e subito dopo un altro.
E forse non saprò mai su quali note muove i suoi passi l’amore, ma mi piace pensare che i sussurri di Gerard seguissero quello stesso ritmo torturato.
 
Come vento caldo tra i miei capelli.
 
“Hm… Frank- Frank.. amore mio..”
 
Una mano avvolse la mia vita, l’altra si aggrovigliò sotto il mio braccio, stringendo la spalla e serrandomi contro il corpo di Gerard.
 
“Gee..”
 
“Frank, devo dirti una cosa…”
 
Ci fu una pausa vuota, gocciolante di un silenzio spaventoso. Pensai ad alcune cose del tutto inutili.
Pensai alla bici che mio padre mi aveva regalato quando ero piccolo e di cui ricordavo ancora la carta regalo; pensai all’odore dell’estate che sta per arrivare, ma anche un po’ a quello dell’estate che va via; ci pensai tanto alle cose che vanno via.
Alle persone che non tornano più.
E fu come se me lo sentii sin da subito, come un fil di ferro a legare dolorosamente quelli che di lì a poco sarebbero stati gli infiniti pezzi del mio cuore.
 
Pensai anche al cuore, ma non più tanto al mio. Pensai al cuore che mi batteva contro, che sembrava accelerare in modo folle il flusso del sangue tra le vene di Gerard. Quello che martellava con ordine e decisione, e fremeva.
Pensai che un cuore che freme porta con sé troppi cambiamenti.
E per chi si è appena poggiato in semi-equilibrio non è bene abbandonarsi a certe palpitazioni.
 
Mi dissi anche che forse avrei voluto capirlo prima e non dare retta nemmeno al mio, di cuore.
 
Ma fu solo una pausa vuota e un istante troppo lento in un silenzio già spaventoso.
 
“Va bene, ma ne parliamo domani mattina…”
 
Percepii un ‘sì’ , appena distinguibile tra gli ansimi.
 
E ci allontanammo in silenzio.
Dal bagno, dal bar, da noi, dai nostri problemi.
 
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Certe sere sanno di casa.
 
Io quella sera la passai con Gerard.
Nella totale confusione di braccia e respiri e nemmeno il minimo tentativo di capire chi stringesse chi. Non che avesse importanza.
 
Le lenzuola erano leggere. L’aria pensante.
Il letto bianco. Tutto il resto nero.
 
Inghiottito dal buio della notte che rende tutto una non-presenza. Inevitabilmente pensai a Gerard.
Non perché ce l’avessi accanto e non perché, nonostante ciò, lo sentissi decisamente troppo distante.
Pensai a Gerard perché ironicamente lui era come una notte per se stesso.
E lasciava che il buio dei suoi demoni inghiottisse tutto il resto.
 
Ma quella sera non riuscii a concentrarmi più di tanto, perché il suo corpo era bellissimo.
Tanto bianco quanto le coperte che ci coprivano in modo illusorio.
Quasi a confondersi con quel sottilissimo strato di tessuto che avvolgeva ogni sua curva e lo ricopriva di chiaroscuri appena percepibili, sotto la luce pallida della luna piena che sembrava trascurare il resto del mondo, troppo presa ad ammirare il viso di Gerard, attraverso il suo bagliore.
 
Quando lui schiuse gli occhi seppi che avrei dovuto sentirmi in colpa per averlo svegliato, ma in realtà non pensai a nulla se non a come il verde del suo sguardo diventasse leggermente più scuro durante la notte.
 
“Vieni qui…” – mi sussurrò piano.
 
E io lo feci.
Poggiai il mio viso sul suo petto, lasciando che il suo mento si posasse piano sui miei capelli.
Poi lo notai.
 
Stava tutto nel modo il cui le sue braccia cingevano le mie spalle. Nei frammenti di carezze che le sue mani tracciavano sulla mia pelle.
Stava anche in altro. Come per esempio nella brezza stranamente piacevole che sfiorava il nostro abbraccio, passando attraverso le fessure delle tapparelle; negli oggetti che Gerard aveva gettato per terra con noncuranza, per far spazio sul letto; forse anche nel letto stesso, fatto di mille pieghe, e grovigli di vestiti, e lenzuola lattee.
 
Tutto così trascurato da far tenerezza.
 
Mi accorsi che Gerard e quella sua non-esistenza si diramavano in modo cauto su ogni millimetro di stanza, e inevitabilmente anche su di me.
Lo percepii dal modo tremendo in cui tutto sembrava lasciato al caso.
Mi chiesi cosa Gerard stesse realmente lasciando al caso.
 
Forse quello fu il primo vero momento in cui temetti per la sua vita.
 
Ci baciammo profondamente.
Non forte, forse nemmeno a lungo.
Ma profondamente.
 
Quasi come se la mia lingua avesse mancato di una frazione di centimetro la sua anima, come se le mie labbra sostassero sulle sue paure. E le sue, di labbra, tremassero sulle mie.
 
Fu intimamente profondo. Le sue dita partirono per un viaggio senza meta sul mio corpo.
Erano in ogni modo dita da artista. Lo si capiva da come non smettevano nemmeno per un istante di creare, modellare, disegnare linee astratte e costellazioni sulla mia schiena.
Mi sentii crescere sempre più eccitato e qualcosa iniziava a pulsare in modo timido sotto di me.
 
Ma quella sera avevamo già silenziosamente deciso di ignorarlo.
 
Quella notte le lenzuola di Gerard erano un universo in cui il tempo non scorreva nelle misure di fretta e lussuria.
Fu come tornare alle prime esperienze da bambini, quando un bacio non era punto di inizio ma di arrivo.
La realizzazione che per Gerard fosse passato decisamente più tempo da allora fu per me difficilmente trascurabile. Ma vi misi fine.
Ripensai alle mie parole. 
‘Solo per questa notte’ – mi dissi – ‘solo per stanotte non c’è nient’altro’.
 
E poi le parole di Gerard mi piombarono sul cuore come la lama di una ghigliottina.
 
‘Frank amore mio’ – tra gemiti – ‘Frank, devo dirti una cosa’.
 
E al pallore delle lenzuola contro il buio della notte, alla loro leggerezza contro l’aria pesante si aggiunse l’insopportabile rumore dei miei pensieri contro il silenzio intorno a noi.
 
Uno solo, tra tutti, scivolò via tra le mie corde vocali.
 
“Gee…”
“Hey…”
“Gee.. in nessun modo, distruggendo noi stessi, possiamo smettere di essere bellissimi ”



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Come sempre, ogni recensione è davvero ben gradita, e anche la vostra presenza lo è. Mi piacerebbe sentirvi. Preparatevi al prossimo capitolo (vi avverto).
Un saluto, -C.

 



 

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Capitolo 18
*** 12.3 - Teo Torriatte ***


Come accennato, ecco l'ultima parte del 12esimo capitolo. E' forse una tre le più importanti della storia, ma ci tengo ad evidenziare che é solo il completamento dei precedenti due aggiornamenti, e, per questo motivo, non è molto estesa. 
Ringrazio profondamente ognuno di voi, lettori-recensori o lettori-fantasma. Grazie per aver fatto crescere la storia.
Questo aggiornamento è ciò che tutti aspettavate. Quindi, senza ulteriori blatere, eccovi il capitolo dodicesimo - parte terza. 

(Il titolo viene da una bellissima canzone dei Queen, che consiglio davvero davvero tanto). 




 
CAPITOLO DODICESIMO - PARTE TERZA

When i'm gone no need to wonder if i ever think of you.
The same moon shines, the same wind blows for both of us,
and time is but a paper moon.
Be not gone.

( Teo Torriatte )




 
Io credo che alcune cose sia impossibile prevederle.
 
Però a questa cosa ci pensi dopo. Dopo che vieni travolto da tutta una serie di avvenimenti, fin quando il tuo corpo risale stanco, a malapena ancora vivo, a galla di una corrente di vita che non ti saresti mai aspettato.
 
L’indomani mattina era di nuovo tutto bianco. Le lenzuola, e la luce, e i mobili, e gli spazi vuoti, e Gerard.
Gerard era ancora al mio fianco, tra le coperte sfatte.
 
E io non ho mai creduto in Dio. Però la sera prima avevo pregato.
Non Dio- la sera prima avevo pregato il buio, e avevo pregato che portasse via con sé non solo la notte, e non solo il nulla, ma anche quei diecimila chili che mi schiacciavano le costole e il cuore e l’anima.
 
E invece l’indomani mi chiesi a cosa servisse pregare, se poi ci sono cose che semplicemente camminano su un tragitto che tu non puoi immaginare.
Io ebbi l’impressione che quella mattina Gerard piangesse piano tra le lenzuola intatte.
 
Così lo abbracciai da dietro, intrecciai le mie gambe alle sue, e il mio braccio lo spinse a me.
Lui rimase in silenzio.
 
Sovrastò la mia mano con la sua, e le portò entrambe alla bocca, sfiorandole piano con le labbra.
Quelle labbra che potevo vedere chiaramente nella mia mente, e che immaginavo pallide. Prive del rossore che i miei baci avevano lasciato su di lui.
Le immaginavo pallide e mordicchiate da denti bianchi. Lo specchio di paure notturne.
 
 
Ed è vero che certe cose non puoi prevederle.
Che mai in anni, e secoli, avrei immaginato di stare lì, quella mattina. Tra corpi e lenzuola bianche.
Il bianco, pensai.
Ma non riuscii a sorridere.
 
Io il bianco me lo immaginavo vuoto.
Il bianco non è come il nero.
Il nero è non essere, ma allo stesso tempo è anche essere. Nel nero può esistere tutto un universo di cose nascoste. Tutto un mondo che c’è.
Non si vede, ma c’è.
 
Invece il bianco è chiaro. Pallido. Trasparente.
Non c’è modo di trascendere il bianco.
Non c’è modo di andare oltre.
Nel bianco ci rimani incagliato, e non te ne liberi più.
Il bianco è assenza. Ed è vuoto.
 
Io sono bianco.
‘Io sono bianco’ – mi dissi.
 
E Gerard era nero. Nero profondo. Non di quelli che vanno via, o si scoloriscono, o si perdono, o si illuminano, o si colorano.
Gerard era perfettamente, totalmente, nero. Ed era pieno di così tante cose. Gerard era tante, troppe cose.
 
Eccolo – mi dissi. Eccolo il contrasto che cercavo.
Che alla fine nella vita si corre così tanto.
Io non l’ho mai capito perché corriamo così tanto.
 
Gerard era sempre stato sotto e accanto a me. Vicino, fottutamente lontano.
E dentro. Gerard mi era stato dentro.
Gerard mi era dentro.
 
L’ultima cosa che pensai, prima di aprire bocca – e me lo immaginai che quella volta sarebbe stata una volta importante – fu che c’è davvero un’enorme infinità di nero nel bianco.
 
“Ger.. Hey – hey Gee.”
 
Lui si schiarì un attimo la voce, come a ricacciare dentro ogni singola lacrima. Anche quelle che erano già piombate pesanti sul cuscino, ed erano state risucchiate via dal tessuto leggero.
Bianco.
 
Come a mandare via tutta una vita di dolori, e stenti, e cose così assolutamente monumentali da schiacciare e incrinare ogni pensiero, ed ogni vocale. Ogni passo. Ogni respiro.
 
E Gerard si voltò verso di me. Lo pensai ancora che non c’è affatto modo di prevedere certe cose.
 
Gli occhi umidi a riflettere una minuscola particella del mio sguardo, quella che non riusciva a penetrare fino in fondo. E il suo, di sguardo, che mi si chiudeva contro, come una cassaforte a combinazione. E non fui capace di leggervi più nulla dentro.
 
Il naso arrossato e la bocca sbiancata.
Il respiro così vacillante da poter venir meno da un momento all’altro.
 
Poi un’altra lacrima.
 
E io avrei voluto dirglielo che non è di lacrime che si vive.
Ma i suoi singhiozzi erano così forti che potevo sentire due mani stringermi la gola e soffocarmi l’anima.
E poi alla fine realizzai che le cose tra di noi andavano sempre a finire così.
Che uno dei due si faceva così tanto male da farne anche all’altro, e che non si dovrebbe mai oltrepassare il confine tra il tendere una mano ed il cadere insieme.
Che l’equilibrio è equilibrio proprio perché è precario.
E io avevo nello stomaco quella sensazione infallibile che mi preannunciava una caduta.
 
“Frank, io-- ”
 
E poi capii.
 
“Frank…” - un respiro - “ Sono malato”
 
Stavo già precipitando.
 
[…]
 
Ci sono alcuni istanti, nelle nostre vite, che non fanno parte della vita stessa.
 
Nella fisica moderna esiste un elemento che viene denominato “Linea di universo”. 
Le linee di universo sono sostanzialmente delle traiettorie - infinite traiettorie di un corpo che si muove attraverso lo spazio e il tempo.
 
Così questo spaziotempo viene suddiviso in tre parti : passato, futuro, altrove.
E l’incontro - il punto d’urto - di tutte queste linee, e questi piani, e questi tempi, è l’adesso.
Il presente non è altro che un punto di collisione.
 
E io questa collisione me la sentivo proprio addosso. In quel preciso istante mi sentii esattamente in mezzo a tutto questo scontro di piani, e linee, e universi.
Mi sentivo come se il mondo si fosse ristretto su di me, e mi fosse imploso sopra.
 
Poi però c’era l’altrove.
 
Sai cos’è che divide il passato e il futuro dall’altrove?
La velocità della luce.
 
2,99792458 per 10 all’ottava metri al secondo.
Eccola, la velocità della luce.
Però detto così non sembra proprio un cazzo.
 
E invece la velocità della luce è assolutamente tutto.
E’ anche la velocità più veloce dell’intero universo.
 
E divide il possibile dall’impossibile.
 
Quello che non avevo ancora capito, però, e quello che non ti insegnano a scuola, è che tu a volte questo altrove lo raggiungi.
Non è vero un cazzo che oltre quella linea della velocità della luce non ci si può arrivare.
 
La verità è ci sono vite e pensieri e situazioni, che viaggiano decisamente più veloce della luce.
E la verità è che ci sono momenti, nella vita, che non fanno parte della vita, perché non appartengono a nessun tempo.
 
Che non sono né  passati né futuri. Ma nemmeno presenti.
Ci sono urti e collisioni che ti scaraventano lontano da qualsiasi realtà possibile o anche probabile.
 
E quel preciso istante, quella millesimale e infinitesima frazione di spazio e tempo, era per me un altrove.
 
E Gerard - Gerard era per me l’universo di quell’altrove.
 
Gerard era malato.
 
Mi chiesi cosa accade agli universi malati.
Se rallentano la loro disarmante espansione fino ad affievolirsi sempre più.
Se semplicemente cessano d’essere, un giorno. Un secondo. Un istante. E si spengono.
 
Ma un universo che si spegne continua a brillare ancora nei giorni.
Almeno a distanza.
 
Perché certi eventi viaggiano con la luce, e vengono percepiti solo in seguito.
 
E il corpo che io stringevo forte tra le braccia, l’odore tenue che respiravo, anche quegli occhi arrossati, le stesse labbra che avevo baciato - mi colpii solo dopo la realizzazione che potessero già essere morti, e che io dovessi ancora percepirlo.
 
Un universo, pensai.
Un universo ed una malattia.
 
Come può una malattia appartenere a tutto un universo?
E come possono delle vite andare più veloce della luce?
E degli occhi brillare di buio e paure?
 
E come può il bianco essere nero, ed il nero bianco?
 
E un universo - mi chiesi - come può un universo risplendere pallido tra lenzuola chiare?
 
[..]
 
Io Gerard lo baciai a lungo. Profondamente a lungo.
Perché mi dissi che, se si cerca davvero un modo per sentire qualcun altro vivo, allora è necessario baciarlo.
 
E le sue labbra erano pallide, ma erano vive contro le mie.
Gerard, nel nostro piccolo altrove, era vivo.
 
E io lo sentii vivo.
Mi sentii vivo.

 
 
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Critiche, apprezzamenti, opinioni, giudizi, recensioni, sono sempre ben graditi. 
Grazie ancora a tutti. 

Un abbraccio. -C.


 
 



 

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Capitolo 19
*** 13 - Okay, I believe you. ***


Spero che la vostra estate sia davvero straordinaria. Un poco in ritardo, ma ho avuto qualche problema di motivazione/ispirazione. 
Eccovi il 13esimo capitolo. Mi piacerebbe tanto sentire la vostra opinione, dal momento che il precedente aggiornamento sembra avervi un poco ammutoliti. 
Grazie ancora a tutti coloro che seguono questa storia. Questo capitolo è per voi.

 



CAPITOLO TREDICESIMO 


Oh, it hurts to always have to be honest with the one that you love.
( Okay I Believe You, but my Tommy gun don't )


 
“Tu avresti - cazzo -- cazzo, tu avresti dovuto dirmelo! Mikey… avresti dovuto dirmelo”
 
Quando tutto va una merda, nei film, il regista piazza qua e là delle scene in slow-motion, inserisce una canzone di sottofondo, possibilmente un climax drammatico, e lascia che tutto sfumi in dissolvenza nel nero.
 
E improvvisamente quello strazio, quella sofferenza insopportabile, si sublimano in qualcosa di artisticamente perfetto.
 
Ma non c’è nulla di artisticamente perfetto nel dolore.
 
La trama di un film viene giù come un tessuto pregiato, quando una mano crudele ne tira via un filo fragile ed insignificante.
 
E le nostre vite - le nostre vite ci crollano tra le mani, mentre siamo ancora intenti a trovarvi un baricentro apparentemente valido.
 
E quello che rimane, tra le macerie che diventiamo, è la realizzazione di quanto fosse effimero ciò che credevamo eterno.
 
E noi siamo le derive dei nostri stessi naufragi.
 
 
“Frank mi dispiace - ma come facevo? Come facevo a dirtelo? Gerard mi ha chiesto di non dirti nulla, mi ha chiesto -- mi ha detto che doveva essere lui a farlo, e che ci sono dei momenti adatti e dei luoghi adatti”
 
Ma nessun suono usciva dalla mia bocca. E io la tenevo serrata. Lo sguardo basso e la vista alterata dalle lacrime. Il corpo preso da leggeri spasmi spontanei.
 
Poi la voce di Mikey si fece più leggera, come ad abbandonare la sua difensiva, e lui si lasciò cadere su un gradino, coprendosi il viso con le mani.
 
C’era nell’aria un odore acre di disperazione.
 
“I momenti adatti, mi ha detto. I momenti adatti… Frank, tu lo sai quali potrebbero essere questi momenti adatti? Perché da quando Gerard si è ammalato non mi è sembrato di viverne nemmeno uno. Non mi è sembrato di - di potermi liberare di tutto questo schifo che mi sento dentro e addosso, e non mi è sembrato che lui stia meglio o che lo sia mai stato. E poi mi chiede di non dire nulla, mi chiede di far finta di niente come se fosse possibile far finta di niente e come se lui non stesse vivendo la vita di merda che vive, e come se tutti questi anni li avessimo attraversati con i piedi per aria e la testa tra le nuvole -”
 
Il suo tono si fece più rigido, le parole ben scandite.
 
“Questi ultimi anni, Frank, mi hanno fatto capire che la morte non è dopo. Non è davanti a noi, non è una destinazione, e non è fuori dalla vita. Questo-- tutto questo è una cazzo di morte.
E Gerard è proprio un coglione. Cazzo- cazzo quanto lo sto odiando, io --”
 
 
Mi misi in ginocchio di fronte a lui. I pantaloni neri si riempirono di terra e polvere chiara, ma a volte non si ha affatto tempo per i dettagli.
Tentai un abbraccio impacciato, desiderando solo di stringere Mikey e lasciarlo sfogare.
 
“Shhh. E’ okay. Lo so che è insopportabile, però è tutto ciò che abbiamo. E lo so che non odi Gerard, perché altrimenti non farebbe così tanto male. Io lo so che non lo odi-- lo so… a volte vorrei tanto odiarlo anch’io…”
 
Credo che il problema di fondo, spesso, sia che ci è stato insegnato che l’odio e l’amore sono due sentimenti opposti. Che si inseguono e si alternano al ritmo del giorno e della notte. Due sentimenti incapaci di convivere e coesistere, e che si escludono rispettivamente.
 
Ma in quel momento non mi sembrò così.
 
Mi sembrò, più che altro, che l’amore e l’odio fossero non tanto due sentimenti, quanto due atteggiamenti. Due modi di porsi alla vita.
Che fossero il fulcro di come decidiamo di fronteggiarla e viverla.
Mi sembrò che non vi fosse nulla di positivo o negativo in loro.
Ma, soprattutto, mi sembrò davvero una cazzata quella di credere che la presenza dell’amore corrispondesse ad un’assenza dell’odio.
 
Capii che solo da amori eccezionali è possibile derivare dolori ed odi altrettanto imponenti.
 
“Da quanto tempo?”
“Anni.”
“Quanto gli resta?”
“Non lo so.. non lo sappiamo.”
“Mikey.. Gerard rischia di morire?”
“Io non-- forse…”
“E- e c’è anche una sola remotissima possibilità che guarisca?”
 

 
[…]
 
Mikey era andato ad aprire la porta, e mi aveva chiesto di rimanere in camera.
La casa era vuota, e per qualche istante udii solo il rumore di scarpe che avanzano sulla moquette, immerso in un silenzio statico.
 
Questo finché la porta non fu aperta.
 
“Dov’è?”
“Cosa cerchi?”
 
“Lo sai chi cerco. Dov’è?”
 
“Lui lo sa”
 
“Lo so che lo sa cazzo! Credi che sia venuto fin qui per una visita domenicale alla famiglia?”
 
“Sei davvero un coglione… Frank è venuto da me urlando e piangendo, ed era pieno di domande alle quali tu evidentemente non hai saputo o voluto rispondere, e adesso pretendi di vederlo!”
 
“Frank non mi ha fatto proprio alcuna domanda, e tu smettila di parlare come se fossi il paladino della giustizia in questa situazione perché non lo sei”
 
“E tu sei un fidanzato del cazzo”
 
“Lo so. E voglio vedere Frank-- voglio che sia lui a dirmelo”
 
Feci un ulteriore passo in avanti.
Avevo deciso che per nessun motivo al mondo sarei rimasto in camera di Mikey ad ascoltare il mio migliore amico e Gerard che litigavano per me.
Rimasi in silenzio ad ascoltare delle parole e delle accuse così cariche di rabbie represse da uscire fuori falsate.
Ero consapevole del fatto che nessuno dei due sapesse realmente come affrontare quella discussione, probabilmente perché a volte c’è davvero così poco da fare o da dire per migliorare una realtà che affonda.
 
Così misi fine a tutto.
 
“Non è vero che sei un fidanzato del cazzo. Forse noi non siamo nemmeno fidanzati però se lo fossimo ti direi che non sei un fidanzato del cazzo… E comunque a prescindere da questo non hai mai fatto schifo con me e-- e sei stato sempre una persona fantastica e vorrei che ci fosse un modo per poterti aiutare, ma non… non ne conosco uno. Mi dispiace.”
 
“Frankie..”
 
Gerard si spinse in avanti e mi strinse a sé.
Quell’abbraccio mi sembrava così sbagliato.
 
“Non voglio che tu e Mikey litighiate per colpa mia”
 
“Non è colpa tua.” - Iniziò a lasciare dei baci leggeri sui miei capelli - “-- non è colpa tua..”
 
E io però avrei voluto che lo fosse.
Desiderai con ogni particella della mia anima che la colpa fosse mia.
Perché è nettamente più facile sostenere un rancore, anche se verso noi stessi, piuttosto che un senso di impotenza.
 
Forse non era nemmeno tanto questo. Forse desideravo solo poter dare la colpa a qualcuno, che fossi io, Gerard, un estraneo, la malattia stessa, poco importava.
Desideravo avere un viso contro cui puntare il dito, un bersaglio su cui mirare, e riversare tutto ciò che provavo in maniera più forte.
 
Soprattutto, volevo scrollarmi via di dosso la consapevolezza che, per quanto forte si possa desiderare qualcosa, a volte non c’è semplicemente modo di ottenerla.
 
 
[…]
 
Gerard dipingeva i silenzi.
 
Lo faceva a tocchi impercettibili.
 
Fu essenziale, perché i giorni successivi furono prevalentemente fatti di silenzi.
 
Passavo spesso lunghe ore a casa sua. Stavamo semplicemente seduti su divani opposti, impegnati in attività vuote, immersi per contrasto nella pienezza asfissiante del silenzio.
L’equilibrio tra vuoto e pieno, tutto e nulla, iniziò ad insinuarsi sempre più profondamente nella nostra quotidianità.
 
 
Mi schiarii la voce per attirare l’attenzione di Gerard.
Lui sollevò lo sguardo da alcuni fogli su cui stava lavorando; in tutte quelle settimane non avevo raccolto altro che minuscoli indizi sul tipo di lavoro che svolgeva.
 
“Che c’è?”
 
“Devo chiederti una cosa..”
 
“Vai..”
 
“A cosa pensi quando sei triste?”
 
Il suo sguardo si perse in alto, verso il soffitto, come nel tentativo di ricordare qualcosa.
Poi ritornò su di me -dentro di me- accompagnato da un sorriso.
 
“A cose tristi.”
 
Rimasi a guardare un punto indefinito alle sue spalle, riflettendo su quella risposta.
E’ strano come tendiamo a trovare conforto nella tristezza.
 
“… ti va di sederti qui?”  Gerard batté la mano sul grosso cuscino del divano “ - accanto a me?”
 
Mi alzai un poco svogliatamente, prevedendo una lunga lezione sul significato del tempo, accompagnata da qualche metafora assurda sul valore della tristezza e della gioia.
Non fu niente di pretenzioso.
Gettandomi pesantemente al fianco di Gerard, non ebbi quasi nemmeno il tempo di aprire bocca, che una mano si mosse a sostenere il mio viso, circondandomi la mascella.
 
Il primo scatto fu veloce e deciso. I suoi occhi chiusi, i nasi vicini, a sfiorarsi, toccarsi; un nuovo respiro che aleggiava sulle mie labbra e sapeva di cose candide.
Come l’aria delle sei di mattina. Quella che respiri forte, in modo avido. Perché non ne hai mai abbastanza. Come a fondersi con le prime luci dell’alba e con il silenzio che ti circonda e ti entra dentro.
 
Il suo respiro mi entrava dentro in modo perforante. Insieme al rumore sordo e ritmico dei battiti del suo cuore.
Fece tutto il resto in modo dolorosamente lento.
Schiuse leggermente gli occhi, fissandoli nei miei.
Sussurrò il mio nome esattamente sulle mie labbra.
 
Mi baciò piano, in tutti i sensi. Mi baciò delicatamente e senza fretta. Senza nemmeno muovere quelle sue labbra sottili. Solo facendo appena su e giù con il viso, come se volesse accarezzarmi con quei suoi movimenti accurati.
In ogni caso durò giusto una manciata di secondi. Poi Gerard aprì la bocca in modo esagerato, tenendola sempre ben stretta alla mia; rimasi ad aspettare un gemito o un sussurro, ma tutto ciò che ottenni fu quella forma ovale, aperta. Come una grossa O sulle mie labbra che, al contrario, erano sommessamente aperte in uno spiraglio che mi permetteva a malapena di respirarvi attraverso.
 
Non credo che quel momento durò davvero a lungo, ma mi sembrò un tempo sufficiente per riflettere su ogni singola sfumatura di emozione che prendeva piede sul suo viso.
 
Estasi, rabbia, dolore, timore, fretta.  Tutte dipinte di colori diversi.
L’ultima, che mi investì prepotentemente, era fatta di rosso. Un rosso caldo, liquido.
Lussuria.
 
Lussuria sotto forma di labbra che tormentano ogni curva più o meno decisa del mio viso, e la pelle candida e ipersensibile del collo.
Le mani esili di Gerard che destavano dal sonno tutte le più piccole diramazioni del mio sistema nervoso, e riportavano in vita quelle che erano morte da tempo.
 
Quel bacio, però, rimase in superficie. Un involucro che galleggiava sul fiume scarlatto del piacere.
Oltre gli impulsi della libidine, sul fondale delle nostre menti, riposava la consapevolezza che non avevamo bisogno di nient’altro.
 
Scopare non avrebbe sfamato la voglia che avevamo l’uno dell’altro. 
 
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Mi piacerebbe tanto sentirvi, quindi se ne avete la possibilità, fatemi sapere cosa ne pensate degli ultimi avvenimenti. 
Grazie ancora. -C.
 

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Capitolo 20
*** 14 - crown of Love ***


Ritardo sempre maggiore, capitoli sempre più corti.
La vita che va via come pioggia. 

A sotto.

 


CAPITOLO QUATTORDICESIMO

They say it fades,  if you let it.
( Crown of love )


 



Una mattina nuvolosa mi svegliai nel mio letto, rigirandomi più e più volte nel tentativo di prendere di nuovo sonno.
Ma un solo pensiero si attorcigliava su di me, insieme alle lenzuola così leggere da farmi tremare.
Lo decisi così, all’improvviso, quella mattina. In modo quasi inconscio. Non pensandoci nemmeno un ulteriore secondo.
 
Avrei detto la verità a mia madre.
 
[…]
 
È un peccato dover aspettare così tanto per qualcosa di così importante.
È solo che ci sono discorsi che calzerebbero troppo stretti in quei pochi minuti che si hanno a disposizione alle sette di mattina, in una giornata di scuola.
Ci sono discorsi che necessitano di un’atmosfera fatta di dettagli, tanto tempo per le mani, un cuore leggero e trasparente.
 
La nitidezza della quale avevo deciso di vestirmi mi metteva quasi paura.
Quanto siamo disposti a renderci vulnerabili in nome della verità?
E quanto confidiamo nell’onestà e nella tolleranza di chi ci sta di fronte?
 
 
Era insostenibile l’idea dello sguardo di mia madre che mi frugava dentro. Ma d’altronde era ciò che desideravo, ciò che credevo necessario per poter trovare di nuovo il posto esatto di tutti i pezzi in  cui mi ero frantumato durante i mesi. E mi resi anche conto del fatto che ero io a consentirglielo.
Ero io a darle il via libera.
 
Pensai che a volte un suicidio differisce da un trionfo solo grazie al suo esito.
La spinta iniziale e il folle volo sono invece propri di entrambi.
 
[…]
 
Ebbi difficoltà a capire il motivo per cui, nei giorni successivi, Mikey provò con tutte le sue forze a ignorarmi.
Lo percepii sfuggente a scuola, assente nei momenti di bisogno.
Smisi persino di incrociarlo per casa di Gerard, anche se quest’ultimo aspetto non mi sorprese molto, dato che Gerard mi aveva precedentemente confessato di non averlo sentito così spesso dopo il litigio.
 
Mi ci volle un po’ per realizzarlo.
Tutti i motivi per cui non avremmo voluto portare avanti il nostro rapporto, le paure che ci avevano spinti a nasconderci nelle prime settimane, quelle che Gerard mi aveva rivelato, le stesse che io avevo condiviso, erano adesso reali.
 
Avevamo perso l’equilibrio tra la nostra vita da un lato e la relazione tra me e Gerard dall’altro.
Avevamo allentato i nodi che ci tenevano stretti a coloro ai quali volevamo bene.
Mia madre, per me. Mikey, per entrambi. E i genitori di Gerard, come avrei in seguito scoperto.
Ma l’idea che non riuscii per niente a mandare giù, la realizzazione più immediata e dolorosa di tutte, fu che Gerard aveva continuato a respingermi e allontanarmi perché, a differenza mia, lui aveva sempre saputo di essere malato.
 
Fu capire che Gerard non aveva paura di noi ma di sé.
 
E, per quanto volessi farlo, non riuscii nemmeno ad ammettere a me stesso che Gerard aveva avuto ragione per tutto quel tempo.
 

 
L’unica abitudine che non perdemmo mai fu quella di percorrere insieme il tragitto casa-scuola o casa-fermata del bus.
Cambiò drasticamente l’aria che si respirava durante quei pochi minuti, ma seppi accontentarmi.
 
Uno dei tanti giorni, che però non era uno tra tanti, Mikey sembrò decisamente più incline a discutere un po’. Fu una cosa che gli lessi in faccia sin dal primo secondo in cui il suo sguardo incrociò il mio, uscendo da casa. C’era qualcosa di più limpido, affabile, quasi dalle sembianze di un pizzico di pentimento.
Ma quella mattina mi morsi la lingua più volte, perché non potevo nemmeno permettermi di pensare che fosse Mikey a dovermi chiedere scusa.
Non dopo il modo in cui avevo disastrosamente rovinato non solo il nostro legame e la nostra quotidianità, ma soprattutto la sua vita privata, quella in cui non avrei dovuto muovere neppure un passo. Nemmeno di nascosto. Né in silenzio.
 
“Quindi… come va con mio fratello?”
 
Mi voltai verso di lui ma il mio sguardo rimase solitario, a vagare sul suo profilo.
Mi presi un istante. Cercai il modo adatto - la parola esatta.
 
“.. piano. Va piano.”
 
E nemmeno per un secondo il suo viso sembrò smarrirsi nel dubbio.
Mi capì subito, Mikey. Con quella sua testa che annuì appena. I capelli scossi in cento direzioni diverse dal vento, dal ritmo dei passi, dall’aver annuito.
 
Solo in seguito, lunghissimi minuti dopo, dall’essersi voltato verso di me.
 
Io non ricambiai. Imperterrito fissai dritto davanti a me.
 
“… Mikey?”
 
Il silenzio.
 
“Mikes, tu lo sai quanto viaggia veloce la luce?”
 
[…]
 
In camera mia un foglio di carta vibrava impercettibilmente - miliardi di oscillazioni in un pugno di secondi - sospinto da un vento che, in realtà, non era nemmeno un vento.
Forse solo in divenire.
In quel momento, però, era una brezza.
Una di quelle che arrivano e vanno via nello stesso identico istante; quelle che sono lì solo per annunciarti qualcosa.
 
Per sussurrare che la pioggia giunge, la stagione scappa, le cose cambiano.
 
Quella sera era lì per me.
Per dirmi che anche le nostre vite vibrano costantemente, in modo più o meno visibile, per poi volare via.
 
E quel foglio, che ricadeva al di fuori degli avvenimenti casuali, sembrava osservarmi da lontano. Dall’alto della sua superbia. Con tutto quel fiume di ricordi e significati e segreti che custodiva. Una serie di numeri, lì sopra, calcati per bene da una penna nera.
La stessa che si era inceppata all’improvviso su quell’8.
Lo si notava proprio chiaramente.
 
Così pensai che a tenere quella penna c’era una mano. O, perlomeno, c’era stata una mano.
E ironicamente a tenere quella mano c’era, a sua volta, un’altra mano. Che le apparteneva.
E sempre più ironicamente, quasi tragicamente, ad appartenere a quella mano c’era un corpo, che era il mio;
ma poi, infondo, ce n’era anche un altro, che era quello di Gerard.
 
Che apparteneva alla mia mano in un modo che non aveva nulla a che vedere con il possesso.
 
Era come se le nostre pelli, sfiorandosi, creassero un posto nel mondo solo per noi due.
Come se, in qualche modo, ci riportassero a casa.
 
[…]
 
Era un sabato mattina quando, per la prima volta, guardai mia madre negli occhi e le parlai di suo figlio.
Con una fiamma dentro di me che bruciava della speranza che lei potesse capire.
Non necessariamente i miei come, tutti i perché che sentivo reggersi a malapena in equilibrio sulla sua lingua, tra le sue labbra. Pensai che arriva un momento in cui una madre non condivide più i nostri perché.
Ciò che sperai fu che lei capisse che a reggerle le mani, in quell’istante, ero davvero io.
Il bambino che aveva già visto cadere e piangere almeno altre cento volte.
Ma quella volta in particolare la supplicai di capire che non si smette mai di cadere, nemmeno da grandi, nemmeno quando non sappiamo più piangere. Si smette solo di farlo in modo visibile.
 
Era un sabato mattina e io le dissi che: “Mamma, mamma… non smettiamo mai di provare dolore.”
 
E in quella cucina, proprio su una sedia identica alla mia, anche lei pianse tutte le lacrime che non le avevo mai permesso di piangere fino ad allora.
Due per ogni mia caduta che le avevo nascosto. Come se dentro lei ci fosse, agonizzante, anche l’anima di mio padre.
 
E quando le parlai di Gerard i suoi occhi si fecero enormi. Come universi.
Provai a raccontarle tutto, proprio tutto.
Come una nave che affonda e tenta di liberarsi dei carichi più pesanti.
Mia madre fu il mio mare.
Io credo che ci sia un mare dentro ogni madre.
 
E noi non smettiamo mai di immergerci dentro le sue acque e risalire a galla puliti. Splendenti.
 
Quando la abbracciai le confessai di non aver mai provato nulla del genere per una persona.
 
Lei mi guardò come qualcuno che ti guarda e non dice nulla ma capisce il tuo dolore.
Esattamente come una madre che raccoglie il figlio da terra dopo una caduta.
 
Stessi occhi. Stessa espressione.
 
Ed esattamente allo stesso modo mi disse:
 
“Andrà tutto bene. Nessun dolore smette di appartenerci, ma alcuni smettono di farci male.”
 
Io, quell’ultima frase, la capii solo dopo.
 

 
Era un venerdì pomeriggio quando Gerard mi disse che avrebbe desiderato portarmi in un posto speciale.
Me lo disse con quei suoi occhi verdi che risucchiavano via qualsiasi cosa ci circondasse.
 
Ed era sempre un venerdì, ma questa volta di mattina, quando Mikey mi strinse a sé.
Le sue braccia magre attorno al mio collo.
I suoi occhi bagnati sopra la mia spalla e viceversa.
 
E non si smette mai di cadere. Non si smette mai di piangere.
E c’è sempre qualcuno che capisce il tuo dolore, ti stringe a sé e ti dice che andrà tutto bene.



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Mi scuso per un capitolo che non ho assolutamente riletto nè corretto. Un grazie a tutti voi che siete qui per me. Un grazie speciale ad una lettrice con cui ho scambiato parole e opinioni in privato qui su efp, nelle ultime settimane. 
Chiedo scusa per la poca costanza e lo scarso impegno che ho ultimamente riposto in questa storia. Le cose non sono state esattamente rilassanti.
Mi piacerebbe sentirvi in molti, sapere se ci siete ancora. Sapere anche come state. 
Io spero bene.

A presto, magari. Un abbraccio anche a voi. -C.

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Capitolo 21
*** 15 - Love Song ***


Casualmente, questo capitolo è incentrato sull'attesa. 
Io vi ringrazio per la vostra, che è stata paziente e sincera. 

Gradirei sentirvi in molti, visto che non mi scrivete da un po' (totalmente per colpa mia).
Un saluto e un grazie speciale a chi ha recensito il precedente capitolo.

P.S: Ho notato che è passato esattamente un anno da quando ho scritto/postato "Non-existent existence", che, per me, rimane probabilmente il miglior lavoro che io abbia mai pubblicato su questo sito (e forse uno tra i miei preferiti in assoluto). Mi piacerebbe se lo leggeste. 
-C.


 

CAPITOLO QUINDICESIMO

Whenever I'm alone with you, you make me feel like I am whole again.
(Love Song)


 
 

Mi ritrovai con la sua mano nella la mia e iniziai a giocarci un po’. Passai le dita sulla sua pelle, inseguendo le centinaia di trame sparse per tutto il dorso.
Gerard abbassò piano le palpebre. Io mi fermai unicamente per osservare quel brevissimo istante in cui le sue ciglia si poggiarono sugli zigomi.
Non riuscii a trattenermi dal lasciare un bacio sulla pelle pallidissima e segnata da minuscole vene verdi che gli coprivano gli occhi. Poi, istintivamente, scesi poco più giù, sfiorandogli appena le guancie con le labbra.
Sentii i muscoli tirare leggermente sotto il mio tocco, mentre gli angoli del suo sorriso si curvavano appena all’insù, in un ghigno solo accennato.
 
La camera di Gerard era piena dell’odore di caffè dimenticati e un poco bruciati, e al sole non era mai permesso entrare del tutto.
I raggi che attraversavano le tapparelle dipingevano i muri di sottili strisce di luce e ombra che si rincorrevano all’infinito.
Esattamente come me e Gerard.
Opposti, complementari, destinati a stare insieme senza unirci mai. A inseguirci con lo stesso zelo.
 
Poi, improvvisamente, ripensai al nostro primo incontro.
Ci fu un particolare, però, che mi tornò in mente in modo più deciso.
Ricordai Gerard che osservava la porta del suo negozio di libri preferito, in una stretta via di periferia, quella stessa mattina in cui lo conobbi.
E anche le sue parole, d’un tratto, risalirono a galla tra i miei ricordi.
 
 
“Il negozio. Perché non ci sei più tornato?”
 
“Si cresce.”
 
“E quindi?”
 
“Quindi arriva un momento in cui smetti di fare alcune cose, e inizi a farne altre.”
 
“E tu cosa hai fatto dopo?” …
 
Lì, sdraiati su un letto mai rifatto, con un pomeriggio freddo che ci attendeva fuori dalla porta, misi insieme alcuni pezzi della storia che quella mattina di inizio settembre non avrei mai potuto afferrare.
 
Alcune domande, però, facevano ancora troppo rumore per essere ignorate.
 
Fu così che Gerard iniziò a raccontarmi del suo passato.
 
[…]
 
“-- e per un periodo mi sono sentito come se appartenessi ad un luogo inesistente. Riuscivo a trovare vita solo quando ero in movimento. Così smisi di restare fermo.
Passavo gran parte delle mie giornate sui sedili di un treno ed erano gli unici momenti in cui mi sentivo felice… Guardavo fuori dal finestrino e non c’erano più contorni. Il mondo era come-- diventava una serie di linee confuse e macchie di colore.. e io riprendevo a respirare.”
 
Alzai il viso e incrociai lo sguardo di Gerard a pochi centimetri dal mio.
Restammo stretti nel nostro abbraccio.
 
“E poi?”
 
“ …poi ho realizzato che quella che credevo fosse vita in realtà era soltanto un modo per non vivere realmente. Ho realizzato che continuavo a scappare via… e ho capito che scappavo via dal tempo. Avevo paura dello scorrere del tempo. Quindi credevo che stare su un treno potesse mantenermi in una realtà parallela in cui tutto era statico. Nulla cambiava realmente.
Anche-- non so… anche il paesaggio fuori dal finestrino, no? Era confuso, sfocato, ma si ripeteva sempre con precisione.”
 
Gerard prese una pausa e un respiro, per poi andare avanti:
 
“Comunque prima o poi il treno si fermava.. spesso arrivava al capolinea. E allora io scendevo giù e non riconoscevo più nulla. Non era più mattina e gli alberi non erano più delle pennellate veloci. Io avevo paura. Tutti intorno a me sembravano avere un posto in cui andare. Per me tornare a casa voleva dire essere sopra quel treno. Capii che quello che per loro era un viaggio, per me era una destinazione. Mi accorsi anche di non avere più una casa in cui tornare…”
 
L’unica cosa che riuscii a fare fu annuire impercettibilmente, serrando le labbra. Come ad assorbire a poco a poco il suo discorso, lasciando che crescesse piano dentro di me.
 
A volte è semplicemente strano realizzare che le persone a cui vogliamo più bene abbiano vissuto tutta una vita prima di incontrarci.
 
Fui grato quando Gerard cambiò da sé argomento. Notai che anche il tono della sua voce si fece più leggero e limpido.
 
“In ogni caso… in una delle mie tante avventure ho scoperto un posto fantastico e ci sono sempre andato da solo, ma mi piacerebbe tantissimo se acconsentissi a venirci con me, la prossima volta.
E lo so che è fuori città, ma possiamo prendere un treno e giuro- giuro, che ci vogliono solo pochi minuti e ovviamente andremo alla stazione con la mia macchina e una volta arrivati in città farei tutto io. Non dovresti assolutamente far nulla se non camminare per un po’ e-- sì insomma. Ovviamente sempre se a tua madre va bene… io-- scusa. Non ci ho pensato.. Probabilmente non ti manderebbe mai fuori città con uno sconosciuto..”
 
Rimasi un attimo interdetto dall’improvviso cambio di direzione del suo discorso.
Quando ricordai di non avergli mai parlato di mia madre, mi sentii decisamente spaesato.
In tutta onestà, temetti per un attimo la sua reazione.
 
Non gli avevo mai confessato di voler dire la verità sulla nostra relazione, soprattutto non a mia madre. Ebbi paura di ciò che mi avrebbe detto ed ebbi paura di non avere il suo consenso.
L’unica cosa che sentivo di dover fare, però, era parlargliene.
 
“In realtà io..”  -osservai il suo viso per un attimo, puro come l’aria delle sei di mattina. - “.. in realtà l’ho già detto a mia madre-- di noi, intendo. Le ho detto di te.”
 
Gerard non disse nulla. Emise solo un suono simile ad un ‘uhm’, come per dirmi che il suo cervello ci stava ancora lavorando su.
Poi si mise a sedere sul letto. Accanto a me.
 
“Le hai detto di me, o le hai detto di noi?”
 
“Un po’ entrambi..”
 
“Okay.”
 
Esattamente così, il discorso morì nel silenzio.
Il mio sguardo perso a vagare sulle pieghe delle lenzuola; quello di Gerard fisso davanti a sé.
 
“Gerard?”
 
“Mh..?” - sembrò destarsi un attimo ma continuò a guardare il vuoto.
 
“Te la sei presa?”
 
Aspettai per qualche secondo la risposta, finché decisi di voler ottenere la sua attenzione in qualche altro modo.
Mi misi a sedere più vicino, in modo che bastasse anche un solo sussurro per poter essere sentito, e iniziai a passare leggermente il dito sul bordo di un orecchio di Gerard.
Non misi fine al silenzio, ma lo osservai chiudere gli occhi e sporgersi impercettibilmente verso me, contro il mio tocco.
 
“Quindi? Te la sei presa?”
 
Lui sussurrò piano un ‘no’.
 
“Allora cosa c’è?”
 
“Ho un po’ paura..”
 
Dischiuse di colpo gli occhi - il suo sguardo a investire il mio.
Mi osservava come se dalla mia risposta dipendesse tutto l’equilibrio del suo mondo.
 
“Sì.. sì, anch’io.”
 
….
 
Restammo seduti sul letto ancora per un po’. Le dita intrecciate, le gambe sfiorate dalle lenzuola, fuori la luce del sole si faceva sempre più debole, fino a sfumare via del tutto.
 
Mi resi improvvisamente conto che, per la prima volta, avevo davvero assistito allo scorrere del tempo.
Al giorno che muore fuori dalla finestra, mentre tu, dentro casa - dentro un letto - , stai accanto ad una persona a cui vuoi decisamente troppo bene.
 
E con l’orecchio contro il petto di Gerard sorrisi percependo i battiti del suo cuore.
Lenti, sicuri, calmi.
Mi chiesi se, finalmente, non avesse più bisogno di fuggire dal tempo per sentirsi a casa.
 
[…]
 
Io non so in che modo si possa imparare dal dolore. Non so se è vero che ciò che non ci uccide ci rende più forti. Non so quale possa essere questa grande lezione di vita che un giorno siamo tutti destinati ad accogliere. E non so se sia effettivamente proprio la vita stessa a darcela.
 
Quello che so per certo, però, è che esistono dolori, fallimenti, rimpianti, che prima o poi dobbiamo lasciar scivolare via da noi.
 
Che ci soffocano come nodi alla gola solo nella misura in cui permettiamo loro di farlo.
 
 
Quando Gerard passò a prendermi in macchina, un sabato mattina, il sole brillava freddo tra nuvole grigie.
La mia mente sembrò distaccarsi dal mio corpo mentre uscivo velocemente di casa, chiudendomi la porta alle spalle.
 
Si attende tanto, nella vita.
Non solo eventi o persone che sappiamo per certo arriveranno.
Si vivono attese senza fine, giorni senza tempo, soli che non riscaldano e freddi che non ci sfiorano.
 
Si attende senza punti di arrivo, a volte senza nemmeno attendere sul serio.
 
Io, di stare così bene, l’avevo atteso per anni.
 
E mentre sei immerso nel tuo aspettare ti sembra che non finisca mai; ti chiedi dove sia iniziato, dubiti che il tempo scorra sul serio.
 
Le settimane scivolano facilmente nei mesi e questi ultimi si accumulano di nascosto, mentre sei voltato dall’altro lato, nei millesimi di secondo in cui sbatti le palpebre.
 
E io mi ero quasi convinto che esistessero attese destinate a combaciare con una vita intera.
 
Gerard, quel sabato pomeriggio, mi guardò come se volesse dirmi che “no, Frank, esistono tante fini quanti sono gli inizi”; e chiesi al mio cuore cosa provasse a comunicarmi, con quei battiti improvvisamente accelerati.
Ed eccola: la realizzazione, il contenuto latente di cui parlava Freud. E il tutto ti crolla addosso.
Come se al mondo non importasse nulla del fatto che hai appena ripreso il posto che avevi perso.
 
E, soffermandomi su quell’idea, quell’immagine, potevo quasi sentire il mio subconscio battere i piedi e urlare e scalciare, proprio come un bimbo che viene allontanato a forza dal suo divertimento.
 
Io, d’altra parte, preso per i capelli dalle mani della realtà, venivo trasportato via da sogni effimeri.
 
La mia attesa era all’improvviso imponente di fronte al mio sguardo, dentro il mio sguardo.
Ma mi chiesi - così, su due piedi - se fosse possibile attendere la morte.
Se quella di Gerard (e, di conseguenza, anche la mia) potesse essere chiamata tale.
 
Io ci pensai tanto alla morte, in quel preciso istante.
Chi afferma che un istante sia brevissimo probabilmente non si è mai fermato a riflettere.
 
Un moto perpetuo di pensieri che si mettevano in movimento da soli, uno dopo l’altro, uno grazie all’altro.
 
E lo immaginai, Gerard.
Senza più un respiro, senza più un battito.
Con le palpebre a rubargli il verde sporco dei suoi occhi.
 
E quella, per me, in quell’istante, non era una realtà. E la mia non era un’attesa.
La vita non poteva essere un’attesa.
 
Improvvisamente mi resi conto che quelle mani che mi avevano trascinato così lontano, mi avevano riportato a riva.
E io respiravo male, decisamente male. Ma a pieni polmoni.
 
Lo sentivo tutto quell’ossigeno che si impossessava di me.
 
Restituire il tempo a un attesa è ridare vita a ciò che è statico.
 
A Gerard lo dissi chiaramente (anche se sussurrando), che io non stavo aspettando la sua morte, né tantomeno avevo intenzione di farlo. Volevo solo celebrare la sua vita e la sua presenza nella mia.
Indipendentemente da calcoli basati su minuti e secondi, attese e riprese, ciò che sembra concreto ma non lo è.
 
~
 
Lo presi per mano, quando, con la linea gialla sotto i piedi e una porta aperta ad aspettarci, Gerard mi confessò che non saliva su un treno da troppo tempo.
 
«Ho avuto paura, da quando-- da quando ho scoperto di essere malato. Sentivo di non potercela fare»
 
«Io sono qui per te, però non voglio costringerti. Se non ti va possiamo tornare indietro»
«No. Te l’ho promesso»
 
«Le promesse sono solo sequenze di parole, Gerard. Non devi fare niente che non ti va di fare.»
 
Lui mi guardò dritto negli occhi.
 
«Lo so.»
 
Sentii la mia mano cadermi sul fianco come un peso morto, abbandonata alla forza di gravità.
Alzando lo sguardo vidi il suo viso pallido sorridermi da parecchi centimetri più su; i suoi piedi piantati sul pavimento in metallo dell’entrata del treno.
 
Mi tese la mano.

- - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - 


Non ho riletto ciò che ho scritto, e chiedo scusa per eventuali errori di battitura e/o di scrittura. Questo capitolo è abbastanza più lungo del precedente, ma comunque poco denso (di eventi) (a mio giudizio). Come ho già detto, mi farebbe tanto piacere leggere cosa avete da dirmi, dopo quasi 3 mesi. 
Un grazie a tutti voi.



 

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Capitolo 22
*** 16 - How it's going to be ***


Inizio con la fine: la storia non è finita, questo non è l'ultimo capitolo.
Vi chiedo scusa per l'attesa infinita. È stato terrificante scrivere o provare a farlo, in queste ultime settimane.
Spero che il capitolo vi piaccia.
Ringrazio singolarmente ognuno di voi. Alcune persone che mi sono state accanto in questi ultimi giorni, attraverso messaggi privati.
Tutte spaventate dall'idea che possiate in qualche modo disturbarmi. Assolutamente no.
Forse il pensiero di avere un pubblico è l'unico motivo per cui non ho ancora abbandonato questa storia.
Vi ringrazio davvero molto, spero di sentirvi presto.

L'ultima parte di questo capitolo è abbastanza speciale per me. La dedico ad un mio amico.
Mi dispiace che la tua morte mi abbia dato l'ispirazione per scrivere.
Sono felice che tu sia ancora qui.

 




CAPITOLO SEDICESIMO

And I wouldn't lie.
I never really wanted more than what I ever really needed after all:
someone that hates to see me go.
(How it's going to be)



 

Vorrei poter dire che, dopo un punto di svolta, c’è sempre, solo, ciò che ci aspettavamo ci fosse.
Ma non è così.
 
La vita si articola in una serie di angoli continui, dietro e oltre i quali non puoi vedere.
Complessa come quei quartieri di periferia in cui ogni centimetro sembra identico al precedente.
E non c’è modo di non perdersi.
 
Io mi sono perso spesso, nella mia vita.
 
-
 
La mia giornata con Gerard fu straordinaria.
Passeggiammo e osservammo a lungo.
Notai con preoccupazione il modo in cui lui insisteva nel controllare l’orario decisamente troppo spesso.
Un paio di volte, casualmente, provai a gettare tra il discorso un “Ti stai annoiando”, oppure a chiedere se avesse fretta di tornare a casa.
 
Lui mi rispose solo che aveva fretta, ma non di tornare a casa.
 
Improvvisamente, mentre stavamo riposando su una panchina, entrambi con una sigaretta tra le mani, sentii delle dita prendermi per il braccio e in pochi secondi mi ritrovai in piedi, con il sorrisetto di Gerard schiaffato contro.
 
«Sbrigati Frank! O lo perdiamo»
 
«Perdiamo cosa, esattamente?»
 
«L’autobus!» - mi disse. Come se fosse la cosa più ovvia di sempre.
 
«Ma quale-»
 
«Vieni, su. In fretta»
 
Preso dalla situazione iniziai a correre verso un bus verde che stava facendo salire alcuni passeggeri dall’altro lato della strada.
Non mi curai nemmeno di controllare l’assenza di macchine, prima di attraversare.
 
Gerard, a qualche metro da me, continuava a ridere tra sé e sé.
 
-
 
Di quel giorno ricordo il fiatone, i sedili scomodissimi, Gerard che mi stringe la mano e poggia la sua testa sulla mia spalla.
 
Il suo sorriso che si dissolve via dalle labbra, sotto il mio sguardo.
E il mio sguardo che si sofferma su quelle labbra sottili, come se proprio lì fosse in bilico tutto il mondo.
 
Per me, in quel secondo, tutta la vita era condensata esattamente lì.
 
E la baciai, la mia vita. Prima che lei potesse baciare me.
Fu come correre verso mia madre all’uscita da scuola, come scappare via quando si giocava a nascondino.
 
E sapevo di sentirmi al sicuro, dietro quel bacio.
Convinto che nessuno avrebbe più potuto trovarmi.
E io non avrei voluto essere trovato. Non più.
 
-
 
Ricordo l’esatto secondo in cui osservai sul serio la struttura che mi stava davanti, dopo che Gerard mi disse: “siamo arrivati”.
 
E io ero davvero arrivato.
 
Come se tutti i miei anni di vita non fossero stati che un preludio a quel preciso istante.
 
La ricordo ancora quella scritta. Stampatello bianco su sfondo blu.
Mi sembrò il carattere più bello del mondo.
 
E Gerard, Gerard mi sembrò possedere l’anima più bella di tutte.
 
«Possiamo visitare prima il museo e dopo andare al planetario» - sussurrò piano, a pochi centimetri di distanza - « va bene? »
 
«Va benissimo» - risposi. Forse più a me stesso che a lui - « va tutto benissimo »
e questa volta riuscii a sentirmi solo io.
 
-
 
Ma più di ogni altra cosa, di quel giorno ricordo il planetario.
 
Una stanza buia e gli occhi fissi al soffitto come se, ad essere proiettata, fosse la storia della mia intera vita.
E tra le stelle c’erano le comparse del mio spettacolo.
Nessuna di esse era fatta di luce.
Ma tutte brillavano.
 
E lì vidi mia madre, tutti i miei amici, vi ritrovai mio padre, osservai Gerard.
 
Gerard lo osservai anche accanto a me.
E sapevo che lui se n’era accorto. Ma non disse niente.
 
Mento in su. Sguardo rigido.
 
Mentre lo osservavo pensavo.
 
Mi passarono per la mente tante cose; ne scelsi una. Ed era Gerard che cela il suo dolore dietro sorrisi, solo per non destare il mio. Tutto ciò era un gioco di una follia assurda.
Mai avrei chiesto a Gerard di mentirmi per rendere tutto più semplice, di nascondersi quando aveva invece bisogno di mostrarsi.
 
Dicono che nessuno riesca a capire i sacrifici che ci sono dietro un successo.
Io mi soffermai a pensare che ci sono sacrifici anche dietro cose molto più semplici.
C’è tanta sofferenza dietro e dentro ogni gesto che mettiamo in scena di fronte a qualcuno.
 
E si tende a pensare che bisogna fuggir via da ciò che ci rende tristi.
Ma io in quel momento non la pensavo così.
 
No.
Mi dissi che era necessario stringere, abbracciare, baciare, e poi soffocare tutto ciò che ci metteva paura.
 
E poi fu un istante. Come se ogni parola articolata dalla mia mente fosse stata gettata su quel cazzo di soffitto luminoso.
 
E piano. Gerard mi baciò piano.
La sua mano destra sul lato sinistro del mio viso.
Il suo labbro superiore che mi sfiorava quello inferiore.
I suoi occhi chiusi dentro i miei aperti.
 
E io lo osservai; mi venne quasi da piangere.
 
Non riuscii a immaginare nient’altro che si incastrasse in modo così bello.
 
-
 
Poi solo la scintilla di un accendino che si trasforma in fiamma.
Nasce tutto così: senza rendercene conto.
 
Anche gli edifici più grandi scricchiolano prima di crollare del tutto.
 
Lo fanno anche quando non ce ne accorgiamo.
 
Ma qual è il segnale di preavviso per una vita che sta per deteriorarsi?
 
Io avrei voluto saperlo, quella sera, in casa di Gerard.
Però improvvisamente mi ritrovai sommerso dal flusso di una discussione troppo più potente di me.
 
«- ma tu non vedi quello che vedo io..»
«Non sono stupido, Frank. Non so cosa pensi di me, ma non sono stupido»
 
«Non è ciò che intendevo»
 
«E allora cosa intendevi?»
 
«Che tu stai male, e io ti voglio così tanto bene, e se le cose fossero--»
 
«Frank..»
 
«- se fosse al contrario.. se fossi io a stare male e se tu dovessi vedermi soffrire giorno dopo giorno, allora forse--»
 
«Non voglio sentirlo. Non voglio assolutamente sentire ciò che stai per dire. Le cose stanno così Frank: io sto male e tu no. Io morirò a breve, mentre tu hai tutta una vita davanti.»
 
«Stai zitto Gee»
 
«.. e io non vorrei che fosse diversamente. Frank, amore mio… Non vorrei altro, se non questo »
 
«E allora pensaci bene Gerard. Pensaci. Perché invece io dovrei volerlo?»
 
Lui mi rivolse un sorriso così dolce da essere doloroso.
 
«Perché Frank… anche se tu non lo volessi, cosa cambierebbe?»
 
Ed eccolo, il mio crollo.
 
«Io non sono pronto per vederti andare via »
 
«Ma non si tratta di questo. Sei così bello Frank-- ma non si tratta di questo. Non si tratta di vedermi andar via, ma di vivere con me tutto ciò che mi resta ancora da vivere.»
 
E non ce la feci a sostenerlo. Gerard era così luminoso.
 
«Smettila…»
 
«Ma -- »
 
«Smettila!»
 
«Perché fai così Frank? »
 
«Perché stai morendo-- cazzo, non ti rendi conto che stai morendo? »
 
Quello era il suo momento. Si prese un attimo di pausa. Respirò forte.
Mi guardò stanco.
 
«Moriamo tutti Frank.. Chi prima, chi dopo.»
- Si avvicinò lento a me-
«Alcuni più spesso di altri…»
 
Poi mi abbracciò.
 
«Io non mi sono mai sentito così vivo.»
 
E a me bastò quest’ultima frase, sussurrata contro il mio collo.
 
 
Perché la verità è che la morte ti fa perdere la presa sulla vita.
E che la vita va via leggermente, ma con un forte impatto.
Come un palazzo. Un accendino. L’istante prima di una fine.
 
E la verità è che, per chi resta, gli istanti immediatamente successivi a una morte non fanno parte della vita.



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Spero non siate scappati tutti via, terrorizzati dai miei infiniti tempi di pubblicazione.
Ma se sì, vi capisco.

Per chiunque userà parte del suo tempo per leggere: grazie.
Per chiunque voglia recensire: questo capitolo è online per e grazie a te.

Un saluto. -C.

 

 



 

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Capitolo 23
*** 17 - Passive aggressive ***


Buonasera e buon martedì. 
Non so veramente come o come mai, ma in meno di un mese sono riuscita a scrivere un nuovo capitolo. Quindi adesso ve lo mostro.
Mi piace abbastanza, devo dire la verità. E mi è piaciuto anche scriverlo (soprattutto la parte con Mikey).
Vorrei ringraziare le tante persone che hanno recensito in queste ultime settimane. Ho avuto modo di parlare con qualcuno che ha appena iniziato a leggere e con altri che hanno seguito la storia sin da subito. Ma, indipendentemente da ciò, è sempre bellissimo leggere i vostri pareri, critiche, opinioni, correzioni, parole. 
Quindi, come sempre, questo capitolo è per tutti voi.

Vorrei solo precisare che, al contrario di questo, il prossimo aggiornamento dovrebbe contenere più "azione" e forse meno dialoghi.
Ma non so ancora. 

La canzone è dei Placebo ed è bellissima. Quindi, se vi va...


 
CAPITOLO DICIASSETTESIMO 

Every time I rise I see you falling.
Can you find me space inside your bleeding heart?
( Passive Aggressive )



 
Tiravamo i sassi nel fiume.
Ecco cosa facevamo io e Mikey, quel pomeriggio.
 
E la sera prima, invece, io avevo pianto.
E l’avevo fatto mentre tremavo e provavo a parlare.
 
Ma capii che è davvero difficile parlare mentre tutto ciò che desideri fare è piangere.
Piangere così forte da strapparti di dosso tutti i pezzettini di dolore.
A uno a uno, con foga.
 
Mentre Gerard mi stringeva, io piangevo.
Lui no.
Era così dannatamente fatto di cristallo.
 
Così, mentre lui non poteva vedermi, scrissi velocemente su un pezzettino di carta.
Lo lasciai sul mobile all’ingresso in casa sua. Quello in legno scuro.
A destra delle chiavi ma a sinistra del pacchetto di sigarette.
 
E corsi via, senza darmi il tempo di provare a immaginare la sua espressione mentre avrebbe letto le mie parole.
 
Perché quando corri non pensi a piangere. 
Pensi solo a correre.
Sempre più veloce.
 
-
 
Quel pomeriggio, tra le pieghe dell’acqua, c’era un colore indefinibile.
E pensai che un tramonto non si può limitare al cielo, che riguarda tutto ciò che viene investito dalla sua luce.
A una certa ora del giorno, tutto è tramonto.
Anche noi stessi.
 
Quando Mikey iniziò a parlare, un sasso scivolava ancora a intermittenza sul fiume.
 
«Sai Frank… io non sono mai stato troppo bravo con le parole. Quando ero piccolo-- quando eravamo piccoli, Gerard era in grado di portare avanti un discorso sensato senza alcuna difficoltà. E ricordo che la gente lo guardava, lo ascoltava, ed era come se per qualche minuto al mondo non esistesse nient’altro. Spesso lo guardavo anch’io e pensavo. Ci si ritrova a pensare molto quando si smette di parlare… e più lo guardavo, più mi convincevo del fatto che un giorno sarebbe diventato una grande persona. Non necessariamente qualcuno di famoso o uno di quelli che fanno tanti soldi. Semplicemente una grande persona.» - poi mi guardò - «E lo sai perché? Perché in quel secondo, mentre parlava, lui non era realmente lì. E lo si percepiva. Gerard non è mai stato realmente presente, in qualsiasi luogo si trovasse. E questa cosa traspariva da ogni sua parola, ogni sguardo.»
 
Una pausa.
 
«Poi, quando si è ammalato- è lì che ho iniziato a temere sul serio per la sua vita. Perché sapevo quanto dolore si portasse dentro, e quindi mi chiedevo, guardandolo, in quali luoghi si trovasse e dove potesse portarlo la sua mente. E avevo paura della risposta.»
 
Mikey sospirò pesantemente. Poi, però, ripartì leggero.
 
«Ho passato ore su ore a controllarlo. Lui non lo sapeva. Anche se credo che, col tempo, abbia iniziato a capirlo da sé. Stavo con lui per intere giornate e lo osservavo. Però era diverso rispetto a quando eravamo più piccoli. Non lo facevo più per ammirazione ma per terrore.
Aspettavo solo di vederlo crollare sotto il mio sguardo, da un momento all’altro. E invece, al contrario, era come se lui si desse un contegno - si trattenesse - a causa della mia presenza.
Quello è stato il periodo in cui la mia famiglia iniziò di nuovo a sembrare una vera famiglia.
Ma di questo non voglio parlartene perché non mi sembra giusto. Deve essere Gerard a farlo…»
 
Durante la sua seconda pausa capii che stava per dirmi qualcosa di inaspettato.
 
«E ora arrivo al motivo per cui ti ho detto tutto ciò: tu.»
 
Rimasi senza fiato.
 
«Quando ho capito che tipo di.. rapporto c’è tra te e Gee, ho tirato un sospiro di sollievo. Lo so che tu-- voi avevate paura di dirmelo. Ma va bene. Anzi, va più che bene, Frank. A volte vorrei poterti trascinare con me, indietro nel tempo, e farti conoscere il Gerard di qualche anno fa» - scosse piano la testa - «cazzo.. anche solo di qualche mese fa.»
 
Prese una mia mano tra le sue.
 
«Frank, la verità è che di te mi fido. Non so nemmeno perché, però mi sono fidato sin dal primo secondo in cui ho incrociato il tuo sguardo. Quindi oggi ti sto parlando da fratello. Non da amico, non da Mikey… solo da fratello. Non ti chiedo di essere impeccabile, né tantomeno di andare contro te stesso.. ti chiedo solo di prenderti cura di Gerard. Finché potrai, finché vorrai, per favore, prenditi cura di lui. Non farlo soffrire più del necessario e soprattutto… osservalo. Guardalo, di tanto in tanto, e accertati che si ricordi ancora di respirare e di essere vivo.
Io non sto andando via, però mi sto facendo da parte. Perché credo sia arrivato il momento, per tutti noi, di tornare ad aspirare a qualcosa di migliore.»
 
E io- io avrei avuto così tanto da dire che non dissi nulla.
Semplicemente lo abbracciai.
 
- -
 
E corsi anche tornando a casa.
Con l’aria contro la faccia, tra i capelli, nei polmoni.
Tantissima aria nei polmoni.
 
Con la bici che slittava sulle strade di città come sul ghiaccio.
Forse, realizzai, a volte non si ha proprio tempo per andare piano, per non correre.
E chiusi anche gli occhi, per un brevissimo istante. Feci finta che tutto il resto fosse un film e scelsi la mia colonna sonora.
Iniziai dall’inizio della mia storia.
 
I Misfits, la panchina;
Gerard.
 
E Ray, con la sua chitarra e i Ramones. Ripensai a Mark.
 
Poi Mikey. Oh, Mikey.
Mikey e Bowie.
I primi accordi di chittara di Space Oddity.
Mi sentii tanto perso nello spazio quanto Major Tom.
 
E Gerard era anche in quel ricordo.
Era in tutti i cazzo di ricordi.
Anche in quelli in cui non doveva esserci.
 
E pensai a me stesso. Per una volta.
A come mi sarei aggrappato a tutte quelle immagini, un giorno.
A come le avrei viste sbiadire davanti ai miei occhi.
 
E ripensai al biglietto per Gerard.
 
Poi arrivai a casa.
 
-
 
C’era mia madre ad aspettarmi e, più mi avvicinavo, più vedevo scemare dal suo sguardo la densità della sua preoccupazione.
Poi, all’improvviso, mi corse in contro e mi strinse forte a sé.
 
«Frank… Frank… ma dove sei stato? Dio mio, Frank..» - disse, tra un bacio sui capelli e un altro.
 
«Mamma» - mi allontanai da lei di qualche centimetro - «Mamma, credi che papà ce l’avesse con me?»
 
-
 
E lo immaginai, Gerard. In quello stesso momento, in casa sua.
Mi chiesi se gli tremassero le mani mentre quel pezzo di carta stava semplicemente adagiato sul suo palmo.
Mi chiesi se gli tremasse anche lo sguardo, con le lacrime a bagnare l’orlo dei suoi occhi.
Il colore incredibile delle sue iridi sommerso da onde che si muovevano al ritmo delle mie righe.
Delle mie parole.
 
E mi chiesi se quelle parole gli avrebbero fatto male.
Perché poi, alla fine, io non lo sapevo affatto come ci si prende cura di qualcuno.
Sapevo solo costruire per distruggere, amare per poi lasciare andare.
 
La mia vita gocciolava via dal mio corpo. Ed era rumorosa. Rumorosissima.
Come quando il troppo silenzio inizia a sibilare.
 
E io ero irrimediabilmente ubriaco di dolore. Ce n’era così tanto, quella sera, da sentire il mio cuore e il mio petto trapassati da decine e decine di minuscoli aghi.
Come se dentro di me tutto continuasse a correre, mentre io affondavo come piombo sui cuscini del divano.
 
Come se ogni organo e grammo di sangue e tessuto che mi appartenesse stesse provando a fuggire via da me. Perché nessuno - niente avrebbe desiderato starmi accanto in quel momento.
Nemmeno io stesso.
 

 
«Amore, no! Lui-- come avrebbe potuto avercela con te? Eri la cosa più bella che gli fosse mai capitata, ti stringeva come se fossi di un valore incalcolabile»
 
«E allora perché, mamma? Perché…»
 
Mi accorsi di stare piangendo per la seconda volta in così poco tempo.
 
«Io non lo so perché, Frankie..»
 
«Cazzate»
 
«Io non--» - e capii che aveva bisogno di raccogliere tutte le sue forze, per quella frase - «Non mi ha dato tempo per chiederglielo… non ho avuto modo di chiederglielo.»
 
Poi riprese.
 
«E mi faccio questa stessa domanda ogni giorno della mia vita. Credi che io non pensi, non ricordi? Non è così, Frank. Ma lui ci amava, e credo che questa sia l’unica risposta che valga davvero qualcosa. Tutto il resto… le storie e le teorie che potremmo continuare a costruire, sono basate su stronzate. Perché la verità, quella che conta, è ciò che papà ci ha dimostrato fino all’ultimo secondo in cui ha respirato. Ed è l’amore che ci muove, nel bene o nel male. È l’amore che l’ha mosso.»
 
Ritrovammo la sua macchina due giorni dopo la sua scomparsa.
Ma non fu un incidente.
E questo lo sapevamo io, mia madre, e credo anche tutti gli altri.
 
Anche se mi rendo conto che a volte è più semplice dare a noi stessi delle risposte che facciano meno male.
 
Però il perché te lo chiedi.
Ti guardi dentro e non puoi fare a meno di pensare che possa essere colpa tua. Anche colpa tua.
Ma comunque colpa tua.
 
“Buona giornata oggi a scuola, tesoro.”
 
Questo è l’ultimo ricordo che ho della sua voce.
Quella fu l’ultima buona giornata di scuola che vissi per un po’ ti tempo.
 
Quando tornai a casa lui non c’era più. Lo cercammo per ore interminabili.
Credo che mamma sospettasse. Sapesse.
 
Ma, comunque, piangemmo tutti; indistintamente.
 
Un incidente è una cosa che accade per sbaglio. Ecco perché quello non fu un incidente.
E mi piace pensare che non fu nemmeno uno sbaglio.
 
Dopo il suicidio di papà le cose andarono a rilento, ma andarono meglio.
Ricevemmo degli aiuti finanziari; ma la notte, nel buio e nel silenzio, non si riusciva più a vivere.
Non si riusciva a non pensare a cosa fosse stato necessario sacrificare per poter star bene.
E comunque non si stava bene.
 
Si stava solo con del cibo in più e una sedia in meno.
Un paio di scarpe nuovo contro il lato destro del letto di mamma vuoto.
 
E tutto, tutto, faceva dannatamente male.
 
-
 
Erano le 4 e 18 del mattino quando ricevetti quel messaggio.
Ma io non stavo dormendo, pensavo solo al mio biglietto per Gerard.
E lui, evidentemente, pensava a me.
 
“Se hai intenzione di andare via, mi piacerebbe almeno poterti dire addio. Vorrei vederti, Frank. E vorrei stringerti e tenere i tuoi capelli tra le mie dita mentre ti bacio, ma non so se questo tu lo vuoi ancora. Però permettimi almeno di parlarti. Decidi tu quando e dove. Ti voglio bene.”
 
-
 
In una casa, dell’inchiostro stava su carta.
In un’altra, un’anima stava troppo stretta in un corpo solo. In un letto semivuoto.
 
E Gerard. Chissà dove fosse, chissà come stesse.
 
-
 
Ore 3.37.
Notte ma mattina.
Un cuore trema, sussulta, si ferma.
E il dolore… il dolore aveva una misura perfetta per poter star bene tra un mazzo di chiavi e un pacchetto di sigarette.
Ma non tra le dita di una mano.
 

 
 Mi dispiace.
Gee, mi dispiace per prima.
È solo che a volte mi fa paura immaginare che un giorno passerò da casa tua senza trovarti.
Che osserverò il tuo palazzo e le mie dita tremeranno al pensiero di premere quel pulsantino di metallo. E poi a colpirmi ci sarà la consapevolezza di non poter sentire la tua voce provenire dall’altro lato del citofono.
Allora, forse, lo sfiorerò soltanto; e sarà tutta un’illusione.
Un’enorme presa per il culo.
 
E ho anche paura di essere assalito e sommerso dai ricordi.
A volte mi chiedo dove mi troverò tra qualche mese.
Cosa farò il sabato pomeriggio e come passerò il giorno del tuo compleanno quando non potrò più festeggiarlo con te.
 
Ma in realtà, più di tutto ciò, temo il momento in cui inizierò a dimenticarti.
Già lo immagino.
 
Sarà prima il tuo tocco, poi la tua voce, il colore del tuo maglione preferito e i dettagli da cui capisco che, da un momento all’altro, sorriderai.
 
E io ho una buona memoria fotografica, ma le tue mani… mi chiedo se dimenticherò anche quelle.
Le tue mani e i tuoi occhi.
Le mille parole dentro il tuo sguardo.
 
Perché se dimentico allora è tutto finito.
Perché tu non ci sarai più a ricordarmi ognuna di queste cose.
 
Quindi, se scivoli via da me, io non potrò più salvarti.
Non potrò farci più nulla.
 
È così che si perdono le persone, Gerard.
E io l’ho già vissuto una volta.
 
Ho solo tanta paura che tu vada via.
 
P.S. : Scusami se oggi sono stato io a farlo, ma sento ancora i tuoi polpastrelli sulla mia pelle ed è così che voglio allontanarmi da te. Ogni giorno, per il resto dei giorni.
 
- Con dolore e affetto.
Frank.
 
 
..........................................................................................................................................................

Spero che la lettura sia stata gradevole e spero di poter sentire i vostri commenti ancora una volta.
Un abbraccio. 

-C.




 

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Capitolo 24
*** 18.1 - Last Night ***


Canzone triste degli Smiths e nulla da dire. 
Mi scuso per i mesi che sono passati. Non so se ci sia ancora qualcuno di voi, lì fuori. Se sì, e se vorrete recensire, grazie. 
Buona lettura a tutti. 

 
CAPITOLO DICIOTTESIMO 

This story is old, I know. But it goes on.
(
Last Night I Dreamt That Somebody Loved Me)
 


Quella notte decisi di non rispondere al messaggio di Gerard.
Non so bene perché. Nei giorni seguenti vissi molti momenti che, per me, non avevano alcun senso; nonostante non facessi nulla di particolare.
Mi ritrovai più volte sul balcone della mia camera, di notte, a fumare e pensare.
Anche se poi in realtà non pensavo a nulla.
 
Perché se accadde qualcosa, in quei giorni, fu l’improvvisa fuga di ogni mio pensiero.
Come tutti i castelli di carte che avevo provato a costruire da bambino e che cadevano giù proprio quando mancava solo l’ultima.
 
Era come se a esistere potesse essere solo una forma di pre-pensiero. O di pensiero del pensiero stesso. Che, però, cadeva con un tonfo nel vuoto. Sempre.
 
E mi chiesi se forse non avessi davvero più nulla a cui pensare. Mi chiesi se quell’assenza stava lì per dirmi che era tutto risolto o semplicemente tutto finito.
 
E se così non fosse stato, mi chiesi, le cose si sarebbero davvero risolte, prima della fine?
Perché io avevo paura dell’incompletezza.
Avevo paura di tutto ciò che non avesse un suo posto nel mondo. Di tutte le cose sospese e in attesa.
E anche delle attese.
Io avevo paura delle attese perché non sapevo come viverle.
 
Forse era questa la radice dell’assenza dei miei pensieri: io non sapevo pensare a qualcosa che fosse un nulla, che non avesse un posto, una forma, una vita.
E nella mia, di vita, io non sapevo calcolare gli spazi e nemmeno i tempi.
 
E quindi a quel messaggio di Gerard non risposi mai.
A dire al verità, Gerard non lo vidi per tanto tempo.
 
Per giorni senza fine nessuno di noi parlò di lui.
Mia madre smise di conoscerlo. Mikey smise di avere un fratello.
E io smisi di pensare. Di sentire.
 
Realizzai che non c’era niente da sentire quando non ero con Gerard.
Non percepivo nemmeno il sapore del fumo a causa delle troppe sigarette.
 
--
 
Quel pomeriggio c’era un sole un po’ timido.
L’aria era fresca e ti scivolava addosso.
 
Quel pomeriggio andai al supermercato.
Perché mia madre mi aveva chiesto di farlo.
 
E quel pomeriggio, al reparto cibo, corridoio 3, tra i cereali e la pasta, io incontrai Gerard.
 
--
Quando la tua macchina si scontra con un’altra, tutto ciò a cui pensi sono le persone a casa. Quelle che ti vogliono bene.
 
E io pensai che ogni storia finisce. Anche quelle di cui non riusciamo a vedere la fine.
L’unica differenza è che alcune finiscono in un silenzio sordo. Altre hanno un’eco che va da sé.
Poi pensai che forse dipende da quanto forte sia stato il rumore della vita.
E quanto quello della morte.
 
Gerard è stato il mio incidente. Ma anche le mie persone a casa.
E io gli ho voluto bene.
 
Si è schiantato su di me all’improvviso.
Col senno di poi non so se, potendo scegliere, rimarrei comunque in quel punto, in attesa della collisione.
Perché la verità è che l’eco è insostenibile. Ed è impercettibile, inevitabile e inevitabilmente presente.
 
E i sospiri stanno lì a riempire l’aria non di tensione ma di sconfitta.
Di morbido e ineluttabile abbandono.
 
Quindi quando lo vidi, di pomeriggio, sospirai.
E sospirò anche lui, a qualche pacco di cibo di distanza.
 
Mi ci volle mezzo secondo per assorbire tutti i cambiamenti che Gerard si trascinava dietro senza troppa cura.
Fece male tutto. Lentamente.
I vestiti troppo larghi che però erano quelli di sempre.
I capelli sfatti e spenti, tagliati forse un po’ troppo.
Lo sguardo senza parole, senza punti di sospensione, senza più una voce. Non lo attraversava nemmeno un’esile vibrazione delle corde sonore dei suoi pensieri.
Anche il suo sospiro era troppo pesante da sostenere. Come se l’avesse trattenuto troppo a lungo, per troppe settimane. Come se non appartenesse più a un corpo che era fragile. Troppo.
 
Era tutto troppo. E troppo di più rispetto all’ultima volta che l’avevo visto.
 
E anche il supermercato, che poi alla fine era sempre lo stesso, sembrava come restringersi sui suoi metri quadri.
E mi si schiantava addosso. Come una macchina, come un incidente, come una cosa capitata per caso, che però non era affatto casuale.
Come il messaggio a cui non avevo mai risposto e le conversazioni che non avevo mai intrapreso in tutto quel tempo.
Come una vita da cui fuggi perché pensi sia alle tue spalle, e poi però ti investe in pieno volto.
 
Schiacciata contro i miei occhi era quella figura davanti a me.
E io trasalii, perché non la riconobbi. E non la riconobbi perché non combaciava più con nessun ricordo.
 
Perché la malattia intacca gli organi, il sangue, gli sguardi, ma soprattutto le certezze che credevi di avere.
 
A Gerard mi avvicinai con passi lenti, come a un animale di cui temi la fuga. E mentre mi avvicinavo non pensavo a nulla, avevo la mente completamente annebbiata.
E quando lo abbracciai fu piano: lo circondai della mia presenza come a voler dargliene un po’.
 
Fu in quel momento che ricominciai a pensare. Non ricordo bene a cosa, però pensai.
Dopo tantissimo tempo ebbi di nuovo dei pensieri e non volevo far altro che condividerli con lui.
Metterli a disposizioni di tutti, affinché tutti potessero sentirmi e vedermi e realizzare che ci si può sentire bene e provare dolore allo stesso tempo.
Perché la vita sta tutta in un’equazione e le incognite le trovi in abbracci come il nostro.
Le trovi in posti squallidi come un supermercato, perché inseguire soluzioni perfette non ha senso.
 
E perché in matematica ci sono dei numeri periodici che dopo la virgola continuano in cifre infinite e tu non hai modo di pensarli o capirli, però sai che esistono.
 
Un pomeriggio, al corridoio 3, realizzai che io e Gerard avevamo appena oltrepassato la nostra virgola.
 
--
 
«Scusa».
Tentai, con la bocca premuta contro la sua spalla.
 
«Mi sei mancato».
Lui, invece, teneva il viso poggiato sui miei capelli a causa della differenza di altezza.
 
«Come stai?»
Ed era come se nessuno di noi ascoltasse ciò che l’altro diceva.
 
«Sei scomparso Frank…» - non mi diede nemmeno il tempo di sentire una fitta dentro - « Però non ce l’ho con te. Mi sei mancato». Ribadì.
 
Io, intanto, mi ero allontanato un po’, staccandomi da lui.
E ripetei anch’io:
«Scusa.»
 
Gerard mi guardò a lungo, senza dire nulla.
Poi sbuffò un poco dal naso e questa cosa mi riportò immediatamente con la mente al nostro primo incontro. Sbuffò mentre accennava una quasi impercettibile sfumatura di sorriso triste.
E poi andò via.
Semplicemente così; mi guardò, sorrise, andò via.
 
Io lo fermai.
«Gerard!» Dissi, a voce più alta, per farmi sentire.
 
Lui si voltò con tutto il corpo, come se fosse pronto a morire per quell’ultima pallottola che stava per ricevere.
 
«Ti va di vederci al parco, stasera?»
 
Mi guardò ancora. E io mi chiesi cosa cazzo avesse da guardare con quel suo sguardo che era troppo debole, che tremava troppo, che non sopportava nemmeno la luce dei neon.
Annuì. E io sentii qualcosa partirmi da dentro.
Si voltò. Fece un passo.
 
«Gerard…» - supplicai, in modo sommesso.
 
Ma questa volta non si girò. Semplicemente si fermò lì, a qualche passo da me.
 
«Mi sei mancato anche tu».
 
Mi privò di tutto, Gerard, quel pomeriggio.
Non ricevetti risposta, non vidi l’espressione sul suo volto e non seppi mai se lui, dopo quelle poche parole, sorrise ancora o sbuffò ancora, o provò qualcosa.
 
E mi privò della vista dei suoi occhi, perché forse erano troppo più eloquenti di quanto lui non desiderasse.
 
Ciò che avevo, tornando a casa, era una busta di plastica mezza piena in una mano e l’involucro vuoto di una persona nell’altra.
E morivo dalla voglia che arrivasse sera, per poterlo riempire con qualcosa che fosse presente e non ricordo.
Difficile da sostenere, ma reale e amaro.
 
--
 
Il resto del pomeriggio procedette da sé, mentre io me ne stavo passivo in un angolo della mia camera.
Non volli uscire, non andai in cucina, non parlai con nessuno.
Per me era tutta un’attesa. Tutto un preludio. Un momento che assumeva significato solo in relazione a un dopo.
E io stesso, in quel secondo, giacevo incompleto. In potenza.
 
Provai a dormire per far passare più velocemente il tempo, ma ovviamente non riuscii a farlo. Viaggiava tutto troppo veloce: i ricordi, le immagini, i pensieri, le paure, le supposizioni.
Viaggiava, il tempo, troppo lento.
Come il caffè che non viene mai fuori dalla caffettiera se stai a fissarla. 
 
E poi esplode tutto all’improvviso. Nell’attimo in cui ti volti o ti distrai o sbatti le palpebre.
Sta tutto lì il significato delle cose.
Io pensai questo, quel pomeriggio, mentre il cielo diventava scuro.
Però poi fu un secondo. O meno.
E mi addormentai.
 

 
Ricordo che era ormai sera.
Il telefono segnava le nove e sette, e un messaggio non letto.
“Gerard”, diceva.
 
E non so se mi fece più effetto quel nome illuminato al centro dello schermo oppure la realizzazione che, una volta, vederlo scritto lì sarebbe stato del tutto normale.
 
“Sono libero, stasera.” - E nient’altro.
 
Risposi, provando a negoziare un posto e un orario che andassero bene a entrambi.
Ma Gerard non sembrava curarsene. Fu come se tutto gli scivolasse addosso, senza alcuna differenza.
 
Erano quasi le dieci di sera quando uscii di casa.
A mia madre dissi semplicemente che stavo uscendo per una passeggiata. Lei mi guardò e mi fece un cenno. Io seppi che mi capì.
 
Camminavo sul marciapiede e mi sentivo distrutto e valoroso allo stesso tempo.
 
Pensai tanto durante il tragitto. Ricordai un pomeriggio di qualche tempo prima.
Era il tramonto e io e Gerard eravamo a casa sua. Lui stava seduto coi piedi sul tavolo, un album da disegno o un taccuino poggiato sulle gambe e la schiena curva, mentre buttava giù schizzi e frasi.
Il suo viso, di fronte alla finestra con le persiane leggermente inclinate, era illuminato da una luce arancione con riflessi viola.
E io lo osservavo. Non ricordo nemmeno cosa stessi facendo, prima di quello. Ricordo però che sollevai per caso lo sguardo e vidi Gerard immerso nel silenzio e nel candore dei raggi deboli del sole, e allora si bloccò tutto.
 
Perché non c’era più niente.
Niente oltre il suo profilo. Il naso leggermente all’insù, le sopracciglia corrugate, gli occhi un poco chiusi come per concentrarsi meglio.
Non c’era altro, perché Gerard era tutto lì, in quel momento.
Sgorgava e scorreva impetuoso in ognuno dei suoi più piccoli dettagli, perché lui era le cose che amava, le passioni più pure che potesse avere, e la concentrazione e la dedizione che vi riponeva.
 
E provai come un dolore dentro, camminando. Perché di quel pomeriggio mi mancava tutto e perché Gerard non mi sembrava più lo stesso.
 
Quando arrivai al parco e lo vidi seduto su una panchina, chiusi gli occhi.
Lo capii subito che stavamo giungendo a una fine.
Però, nonostante tutto, lui mi sembrò bellissimo.
 
Rannicchiato sullo stesso verde scrostato e un po’ arrugginito su cui ci eravamo visti, guardati e parlati per la prima volta, Gerard fissava il vuoto.
I gomiti poggiati sulle ginocchia. Una giacca troppo pesante per la temperatura che faceva. Tra le dita una sigaretta fumata per tre quarti, con la cenere che correva verso il filtro, sospinta dal vento.
E i capelli troppo corti, la pelle spenta, gli occhi in fiamme, le mani che tremano, le braccia magre, le guancie vuote.
E io ero felice che lui non potesse vedermi, perché in quel momento non era necessario.
 
Quando, aprendo gli occhi, ebbi modo di osservarlo, capii che Gerard era sempre rimasto lì.
Sempre in casa sua, nel suo salotto, coi piedi sul tavolo e la penna in una mano.
Il tramonto sul viso, dentro le iridi.
 
E si girò, Gerard. Ma lo fece solo nel mio ricordo.
Si voltò e si accorse che lo stavo osservando.
Mi osservò di rimando, ma solo per una frazione di secondo. Poi gli sfuggì dalle labbra l’accenno di un sorriso. Durò pochissimo, ma io lo afferrai prima che lui potesse riprenderselo.
 
Ed è così che restammo, io e lui.
Cristallizzati.
 
Sapevo che non era giusto vivere di ricordi, ma sapevo anche che Gerard non avrebbe voluto essere ricordato come mi si presentava davanti quella sera.
 
E quindi io decisi che quel pomeriggio in casa sua sarebbe stato infinito. E che noi, nella nostra finitudine, saremmo rimasti per sempre lì.
 
Mi piacque pensare che c’erano ancora il tramonto e anche tutte le altre cose attorno a noi.
Gerard che si volta. Gerard che sorride.
Io che sono felice.
Il resto che smette di esistere, perché non è importante.
 
Gerard che si alza. Gerard che mi sfiora.
Io che lo sfioro.
Col naso, le labbra, la punta delle dita. Lo sguardo.
 
Fare l’amore nella penombra e su un letto mai rifatto. Sudati e senza ossigeno.
 
E mentre io e Gerard cavalcavamo il tramonto di un pomeriggio lontano, i nostri ‘noi’ futuri incrociavano ancora i loro sguardi. Per l’ennesima volta.
 
Ma era ormai sera. Faceva più freddo ed eravamo vestiti.
 
Io mi avvicinai piano alla panchina e pensai a quando Gerard mi aveva preso la mano, seduto a un piccolo tavolino, e mi aveva chiesto di essere ricordato in quel modo, in quell’esatto momento.
 
Quindi mi sedetti ancora accanto a lui, ma non strinsi la sua mano perché non ne ebbi il coraggio.
Solo mi sedetti, mi voltai e lo guardai a lungo, fluttuando nella profondità e sincerità delle sue pupille come fa un satellite nello spazio.
Perché infondo era ciò che ero.
 
E lì, per la prima volta, pensai di amarlo.
Però non glielo dissi.
 
Gli chiesi soltanto: «Senti, ce l’hai un accendino?».
Poi mi scappò un sorriso. 

 
 
 

 

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Capitolo 25
*** 18.2 - stage 4 fear of trying ***


Vi lascio un nuovo capitolo (stralungo). Credo sia importante. Ringrazio le tre persone che hanno recensito il precedente aggiornamento. 
Mi dispiace se in questi ultimi mesi sono stata assente e mi dispiace se questo vi abbia spinto ad abbandonare la storia. 
Nonostante ciò, credo che la porterò a termine. È un impegno importante ed è una scommessa su me stessa. 
In queste settimane ho riflettuto parecchio, mi sono chiesta se fosse giusto continuare a scrivere, nonostante molte cose siano cambiate. Ma ho scoperto di non avere risposte. Non so se continuerò a pubblicare su EFP, dopo aver concluso The World, ma credo di dovervi una fine. 
Sta tutto nella fine. 
Per questo motivo mi piacerebbe se mi scriveste, che sia in privato o in una recensione poco importa. Vorrei sapere se per voi la storia ha ancora importanza o meno. Se vi piace o meno. Se siete ancora accanto a me. 

Adesso vi lascio alla lettura. Non scriverò a fine capitolo, quindi vorrei chiarire che la poesia che viene recitata è una poesia di Bertolt Brecht. In lingua originale si chiama "An M." e la traduzione italiana ho provato a riscostruirla io, tramite una versione in inglese, l'originale e quella italiana. Mi scuso se non è perfetta, ma credo renda bene il senso. La canzone è Stage 4, che immagino conosciate. Non è una scelta casuale, perché è un testo al quale mi sento particolarmente vicina. 

Buona lettura. -C.

 
CAPITOLO DICIOTTESIMO - PARTE SECONDA 

I’ve always held my doubts so close to my heart that these frames have trapped all my better days
( .stage 4 fear of trying. )

 
[ ... Gli chiesi soltanto: «Senti, ce l’hai un accendino?».
Poi mi scappò un sorriso. ]

Gerard abbassò il viso, mise una mano in tasca e ne tirò fuori un Clipper rosso scuro.
Me lo porse, sorridendo.
 
Fumammo insieme, in silenzio, guardando gli alberi di fronte a noi, con la mia testa poggiata contro la sua spalla.
 
«Credevo che avessi deciso di smettere di fumare» - dissi, continuando a guardare dritto davanti a me.
 
«Ormai non fa più molta differenza, no?».
 
Gerard rispose con calma, ma le sue parole mi buttarono terribilmente giù.
Mi chiesi cos’altro avesse iniziato o continuato a fare, sapendo di dover morire a breve.
Perché la verità era questa e noi non avevamo più tempo per girarle attorno.
Non ne avevamo più voglia.
 
 «Per te niente ha mai fatto molta differenza»
 
«E io per te, Frank? Io per te ho mai fatto differenza? Sono mai importato qualcosa?»
 
«Forse importi troppo. Forse è questo il problema»
 
Lui rimase in silenzio per qualche secondo, come a rifletterci su.
Poi si mosse in modo quasi brusco, costringendomi a spostare la testa dalla sua spalla.
Mi fissò. Ma non c’era espressività nel suo sguardo.
Parlò in modo quasi meccanico.
 
«Mi piacerebbe leggerti una poesia…» esitò, per un attimo.
Gerard aveva paura di rivolgermi quella domanda.
«Ti va di venire a casa mia?»
 
Io mi chiesi se non fosse troppo tardi. Non solo come orario ma proprio come tempo.
Come occasioni sprecate.
Poi però dissi che andava bene.
 

 
Il tragitto verso casa sua lo percorremmo in silenzio. Uno di fianco all’altro ma lontani.
Quando arrivò il momento di girare la chiave nella toppa del portone, Gerard sussurrò qualcosa che suonò come un chiedere scusa.
 
«Non dobbiamo fare nulla che tu non voglia fare. Ti ho portato qui solo per quella poesia- solo per leggertela. Non ti chiedo niente, Frank.» -disse- «sul serio».
 
Io mi sentii quasi tradito. Quasi come se Gerard non mi conoscesse più, non mi ricordasse più.
«Lo so.», risposi.
 
C’era disordine in casa sua, ma lui non provò a giustificarsi o comunque farne accenno.
Più che altro, non sembrò curarsene affatto.
Mi disse soltanto di sedermi sul divano o dove preferivo. Mi disse che non aveva importanza.
 
E di nuovo, su quei cuscini, mi sentii piccolissimo. Come le case viste dagli aerei in volo.
 
 
Quando Gerard tornò in salotto teneva in mano un libro ma io non riuscii a vederne la copertina.
Per un momento temetti che sarebbe rimasto lì, in piedi davanti a me, a recitare quei versi.
Come un attore davanti al suo pubblico. Come se non avessimo più nulla da condividere, nemmeno uno spazio da vivere insieme.
 
Poi, per fortuna, si avvicinò un poco, sedendosi cautamente sul tavolino di fronte al divano.
Il suono della sua voce risaltò in contrasto col silenzio assoluto della notte e della semioscurità.
 
«È una poesia di Brecht ̽ » - tentò.
 
Io avrei voluto dirgli che non lo conoscevo.
Ma non lo feci e lui andò avanti col suo spettacolo che sembrava sempre più un monologo.
 
 
« Quella notte che tu non venisti
io non mi addormentai ma andai
più volte sulla porta
e pioveva, e di nuovo rientrai.
 
Non lo sapevo allora, ma ora invece lo so:
quella notte era già come quelle altre notti
che tu non venisti più e io non riuscivo a dormire
e già quasi non aspettavo più
ma andavo spesso sulla porta
perché lì pioveva ed era freddo. »
 
 
E io lo osservavo. Il mio sguardo pieno di angoscia e amore che si scioglieva sul suo viso, sempre di più, a ogni parola.
Fu come il tramonto in quel giorno di qualche mese prima, però era già più tardi.
L’orizzonte era più scuro.
 
Qualcosa si riempiva di crepe e il cielo stava per sgretolarsi.
Ma Gerard non ci faceva caso; lui non mi guardava.
La sua voce rotolava giù veloce durante le strofe più concitate e poi si rasserenava su altre.
A lui non importava un cazzo del cielo, del tramonto, di me, perché quello era il suo momento.
Gerard aveva una voce e tante cose da dire.
 
Io mi resi conto che per troppo tempo lui era stato in silenzio ad ascoltarmi.
Quando ne presi coscienza, i versi giungevano a una fine.
 
 
 
«… Ora molti anni sono trascorsi e
anche se
ancora gocciola la pioggia e c’è vento
se tu venissi ora nella notte, lo so
io non ti riconoscerei più, non la tua voce
e non il tuo viso, perché le cose sono cambiate»
 
 
E fu allora che alzò gli occhi e mi guardò.
Mi guardò sul serio.
E anch’io lo guardai sul serio. Perché era il gesto d’amore più grande che potessi concedergli.
 
E fu lì che mi accorsi che stava piangendo.
Piano, sommessamente, ma in modo sincero.
 
Mi chiesi se lui non avesse mai pianto prima oppure se io non l’avessi mai ascoltato abbastanza e osservato abbastanza per accorgermene. 
 
Gli ultimi versi li recitò a memoria, con i suoi occhi puntati nei miei e le lacrime che venivano giù fitte.
Quasi come se fosse il suo modo per dirmi “Ti odio. Ti odio perché sei andato via, ma non ti biasimo per averlo fatto. Ti odio perché non riesco a odiarti.”
 
 « ... Eppure odo ancora dei passi nel vento
e un pianto nella pioggia e che qualcuno
vuole entrare.
E penso di andare alla porta
e aprirla e vedere se qualcuno è venuto -
Ma non mi alzo e non vado fuori
Non vedo
e neppure viene qualcuno. »
 
 
Gerard posò in fretta il libro affianco a sé, senza nemmeno richiuderlo, e portò una mano a coprire gli occhi, mentre il suo corpo era scosso dalle convulsioni del pianto.
E io stavo lì, paralizzato, e lo osservavo.
Non sapevo cosa fare.
Quel corpo a nemmeno un metro dal mio tremava energicamente e io spostavo lo sguardo di continuo. Prima sul libro ancora aperto, poi su Gerard e sulla sua mano sinistra che stringeva forte l’estremità del tavolo, e dopo ancora sulla mano destra, poggiata sui suoi occhi.
Il palmo bagnato dalle lacrime che gocciolava sui pantaloni.
 
Credo che rimanemmo in quella posizione per un paio di minuti che a me parvero infiniti.
Mi sembrò come se delle nuove stelle avessero avuto il tempo di nascere e le stagioni avessero cessato di esistere.
Come se potessi veramente percepire su di me la rotazione della terra attorno al sole e della luna attorno alla terra.
 
Poi, improvvisamente, Gerard tirò su col naso, come a darsi un contegno, e passò la manica del cardigan ad asciugarsi le lacrime.
Strofinò per bene gli occhi e senza nemmeno guardarmi si alzò e si allontanò.
 
E nonostante ciò io non riuscii a muovermi. Fu come se la forza di gravità fosse tale da non potermi più staccare dai cuscini del divano.
Sentii i suoi passi sempre più lontani e subito dopo il rumore fastidioso di una bottiglia di plastica che veniva leggermente schiacciata.
 
Immaginai una scena in cui io raccoglievo tutto il mio coraggio e facevo la cosa giusta. Veramente, l’unica cosa che avrei dovuto fare.
Mi immaginai mentre mi alzavo dal divano e, con passi sicuri, raggiungevo Gerard in cucina.
Da persona matura che sa assumersi le responsabilità delle proprie stronzate.
E sempre in modo sicuro gli avrei detto qualcosa. Qualcosa di breve, però. Solo poche parole.
Ma parole giuste.
 
Perché vorremmo tutti che la vita fosse solo un paio di parole perfette. Quelle dette al momento esatto, mai alla persona sbagliata. Vorremmo tutti non fare del male.
O, almeno, io l’avrei voluto.
 
Avrei voluto pensare a me stesso come uno che, almeno una volta nella vita, è stato forte.
Che ha voluto bene alle persone che gliene volevano, senza avere paura.
Perché credo che la verità fosse che io avevo paura di provare qualcosa che non fosse dolore.
E quindi avevo bisogno di alternarlo a ogni altro sentimento.
Di avere amore e sofferenza, gioia e tristezza, vita e morte.
Pensavo che fosse l’unico modo possibile per sopravvivere.
 
Almeno finché non arrivò Gerard.
 
E vederlo piangere così spontaneamente, vederlo soffrire e sbiadire giorno dopo giorno, sapere che la sua morte sarebbe potuta essere dietro ogni angolo, dietro ogni porta, sono queste le cose che mi hanno distrutto.
Realizzare che il dolore non era più qualcosa con cui diluire la felicità per renderla meno forte, ma era invece la base di tutto. Il nucleo più infimo di ogni sguardo, tocco, istante di quotidianità.
Non potevi decidere dove metterlo perché risiedeva in tutto. Risiedeva ovunque.
C’era una base di consapevolezza che faceva così male da non poterla ignorare.
E c’erano lacrime di cui io sapevo ma che avevo deciso di non vedere o di dimenticare.
 
Ricordai una volta - una notte - in camera di Gerard.
Eravamo a letto e io circondavo il suo corpo da dietro.
Era una posizione un po’ inconsueta, perché solitamente era lui a farlo. Era lui a stringermi. Ed erano le sue braccia attorno a me.
Ma quella notte avevo percepito che qualcosa era diverso, perché Gerard aveva lo sguardo pieno di preoccupazione.
Io gli chiesi se andasse tutto bene. Lui annuì. Quando gli accarezzai una guancia capì che non ero ancora convinto.
Ricordo bene il suo sussurro debole: “sono solo un po’ stanco” - disse.
Io aspettai finché i suoi respiri non divennero regolari e ben scanditi e il suo corpo sereno sotto le mie braccia.
Passò mezz’ora, forse meno, e poi lo sentii mancare, il suo fiato. Fu davvero solo un secondo, ma è proprio quel secondo che mette fine a un ritmo ormai stabilito. È quel piccolo dettaglio che fa la differenza.
Fu quel respiro mancato a iniziare tutto.
Gerard cominciò a tremare piano sotto di me, poi fece uno scatto, come se morso dal dolore.
Io iniziai a scuoterlo quando mi accorsi che il suo cuscino diventava umido per delle lacrime involontarie.
Mi sporsi quasi abbastanza da sovrastare Gerard col mio corpo, e intanto sussurravo il suo nome.
Si svegliò di soprassalto, quella notte, e mi guardò con due occhi che non gli appartenevano.
Uno sguardo fitto, denso, pullulante.
E io mi resi conto che non avevo mai visto la paura così da vicino. Almeno non una paura così pura.
Con probabilità se ne accorse anche lui. Credo che si vide riflesso nei miei occhi. E nascose il viso contro il mio collo, lo sfiorò con le labbra e ci riportò in una posizione simile a quella iniziale.
Solo che nessuno dei due stringeva più l’altro, perché entrambi avevamo bisogno di quell’abbraccio.
Ci tenemmo forte a vicenda.
Io non seppi mai cosa accadde realmente quella notte. E lui non me parlò mai.
 

 
Non so per quanto tempo rimasi perso nei miei ricordi.
La voce di Gerard arrivò da lontano ma arrivò vicina.
Fu chiarissima, trasparente.
 
«Avrei voluto dirti che era colpa tua, sai? Ti avrei portato qui, letto quella poesia, e poi forse ti avrei chiesto di andare via da casa mia, dalla mia vita. Ma non credo di avere ancora voglia di farlo.
Prima stavo cercando un fazzoletto, in cucina, e spostando la macchinetta del caffè ho ritrovato questa Polaroid. Te la ricordi? L’hai scatta tu un paio di mesi fa»
 
La guardai brevemente perché non avevo nemmeno bisogno di ricordarla.
Era una foto che avevo scattato a Gerard mentre dormiva, con le prime luci dell’alba che accarezzavano le lenzuola bianche e azzurre e i muri della stanza.
Lui era poggiato su un fianco e io lo fotografai dai piedi del letto. Mi sembrò assurdamente bello.
Ricordo anche che rimasi per qualche minuto a osservarlo, poi mi rivestii e tornai a casa prima che fosse mattina.
 
«Sì, la ricordo.»
 
«Per caso l’ho girata, prima, e ho letto quello che mi avevi scritto. Ricordi anche quello?»
 
«'Mi è impossibile rimanere. Mi è impossibile andare via. Ché io sia sempre ai piedi del tuo letto- '»
 
«'- ché tu possa sempre risvegliarti tra queste nostre lenzuola'» - terminò Gerard - «Quando ho letto la tua lettera ho pensato che fosse colpa mia, che la tua sofferenza fosse colpa mia. Che le tue colpe fossero in realtà le mie. Ho pensato tanto in queste settimane, credo sia inevitabile. Si deve pur trovare un modo per processare ciò che non si può esteriorizzare.
E fino a qualche minuto fa avrei voluto gettarti addosso tutto il mio disprezzo. Avrei voluto essere capace di disprezzarti, forse. Ma in realtà non ce l’ho con te, perché non ci sono colpe a dividerci.
C’è solo- c’è solo vita a tenerci lontani. E la vita a volte è troppo più grande di me o di te o di un letto. Non può iniziare e finire tra delle lenzuola, Frank. Ci sono pericoli da correre, parole da urlarsi contro, dolori da affrontare, e se tu non vuoi affrontarli con me allora va bene. Ma non posso assumermene le responsabilità. Non posso portare da solo il peso di tutti i rimorsi e dei pentimenti.
E non voglio pentirmi. Non ho più tempo per farlo, capisci?
E lo so che provi rabbia anche tu. Lo capisco dal modo in cui mi guardi. Ti fa rabbia vedermi così, ma credo te ne faccia ancora di più il fatto che non eri qui, con me, mentre diventavo la persona che adesso hai davanti.
Fa tanta rabbia l’essere assenti dalla vita delle persone che amiamo, vero? Io ci penso sempre; mi sento così ogni giorno. E ti chiedo scusa se prima ho pianto davanti a te, non cerco la tua compassione, avevo solo bisogno di farlo.
E ho anche bisogno di te. L’ho realizzato quando ho letto la lettera e ho capito che non saresti più tornato. Forse l’ho realizzato troppo tardi, forse non ho fatto nulla per dimostrartelo.
Ma la verità è che non so più risvegliarmi in un letto che non profumi anche di te. Non so sfiorare una mano che non sia la tua. Non ho nemmeno avuto il coraggio di buttare il tuo spazzolino.»
 
Ridemmo entrambi.
Entrambi con le lacrime agli occhi.
 
«Ma se questi ultimi mesi con me non sono quello che vuoi, se pensi di non poter sopportare il loro peso, allora va via. Mi va bene, ti capisco. Però ti prego, per favore, se esci da quella porta non tornare più indietro, perché io non ho più la forza per sopportarlo.»
 
Io avevo iniziato a tremare, senza accorgermene. In quel momento pensai a tante cose. Provai a immaginare un futuro con una persona malata, provai anche a immaginarne uno senza, perché sapevo che sarebbe arrivato quel momento.
Pensai alla mia camera e a quanto fossero scuri i suoi muri. Non so bene perché. Però ci pensai.
Poi mi guardai attorno e feci un calcolo veloce.
Undici. C’erano almeno undici cose, in quella stanza, che mi ricordavano di noi. E che inevitabilmente ricordavano a Gerard di me. Erano tutte lì, e mi sembrarono tutti buoni motivi.
Senza rendermene conto, smisi di tremare e iniziai a parlare.
 
«Nei mesi in cui siamo stati insieme tu hai provato a tenermi lontano da qualsiasi cosa non andasse bene nella tua vita. Ma io non ti ho mai chiesto di farlo. Quando ti ho conosciuto, quella mattina, c’era qualcosa nelle tue parole, nei tuoi gesti, che emanava tristezza, e io lo sapevo. Io l’ho capito. Ma non sono andato via. Non puoi pretendere di escludermi da una parte della tua vita perché io non pretendo di vivere con te solo la parte facile. Voglio dirti che va bene, che puoi lasciarti andare adesso. Puoi soffrire, Gerard. Puoi arrabbiarti, se ti va. Puoi piangere quando ne hai voglia senza scappare via da me. Puoi svegliarmi nella notte quando stai male o quando hai paura. E soprattutto puoi provare paura. E quando sarai pronto a condividere tutte queste cose con me, non dovrai chiedermi scusa, perché provare dolore non è una colpa. E tu non sei colpevole.»
 
«Sei un ragazzino Frank. Non fraintendermi, non voglio dire che tu non sia grande abbastanza o maturo abbastanza… dico solo che sei giovane. Hai un futuro davanti e dei piani da fare, delle persone da incontrare. Queste potrebbero essere le notti di cui un giorno parlerai ai tuoi figli, se ne avrai, o che ricorderai insieme ai tuoi amici. È questo il momento in cui dovresti iniziare a vivere, Frank. Dovresti essere felice o fare di tutto per diventarlo. E io non voglio portarti via dalla tua vita.»
 
«Ma è te che voglio ricordare Gerard. È di te che vorrò parlare ai miei figli, se ne avrò. Sei tu la persona con cui vivere queste notti. Non voglio diventare grande e pensare ai miei diciassette anni come all’età in cui non avevo nulla di concreto. E non voglio ricordare quella notte in cui sono uscito dalla porta di casa tua lasciandoti da solo, perché non voglio portarti dentro come un rimpianto. Voglio stare bene quando penserò a ciò che sei stato per me.»
 
«Ne sei sicuro Frank?»
 
«Mi sono guardato attorno, prima, e in questa stanza ci sono almeno undici cose, undici posti, undici ricordi che abbiamo condiviso. Ti sembra un numero abbastanza alto l’undici?»
 
Lui abbassò il viso, improvvisamente timido.
Le sue labbra ci curvarono dolcemente in un sorriso che io vidi solo per metà.
Quando alzò di nuovo lo sguardo su di me aveva un’espressione seria, solenne, come se il nostro fosse un giuramento.
 
«Mi sembra un buon inizio» - mi disse, con gli occhi che brillavano.
 
Mi mossi lentamente e lo abbracciai, ancorando le mie mani alle sue spalle e stringendo forte il tessuto del suo cardigan. Non ci staccammo mai del tutto.
Io poggiai la fronte sulla sua, provando a sfiorargli le labbra, ma Gerard fu più veloce e passò il naso sul mio collo, seguendo la linea della mia mascella fino all’orecchio.
Il suo fu solo un sussurro, ma io sentii il sangue pulsare e lo stomaco esplodere.
Gerard aveva qualcosa che lo rendeva sensuale in ogni gesto.
 
«Voglio sentirti più vicino»
 
«Anch’io, mi sei mancato» - E lo intendevo sul serio.
 
Di Gerard mi era mancato ogni aspetto. Non solo il sorriso, non solo i miei occhi riflessi nei suoi, ma anche il solletico del suo respiro sul collo, la sensazione del suo corpo premuto contro il mio.
Mi mancava sentirmi disarmato, lasciarmi andare e pensare con le mani. Capire solo quel tocco, ragionare solo su quei centimetri di pelle su cui poggiavo le labbra.
 
Quando sentii la bocca di Gerard schiudersi e la sua lingua sulla mia, non mi sembrò un inizio.
Era troppo familiare. Sapeva troppo di casa per poter essere un inizio.
Fu come rivivere un ricordo nel presente: era il numero dodici.
Non era un inizio ma una creazione.
Stavamo costruendo una storia da raccontare che non sarebbe più stata solo mia ma nostra.
Sarebbe stato ciò che di Gerard avrei portato con me.
 
E realizzai che non era quel tramonto in casa sua e nemmeno una Polaroid.
Non puoi racchiudere una storia in qualcosa che è così breve, così piccolo.
Per me Gerard fu un istante.
Fu il secondo in cui i suoi occhi si aprirono sui miei e io vi scivolai dentro.
E ancora oggi non credo di credo di essere mai risalito a galla. 

 
 

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Capitolo 26
*** 18.3 - De brevitate vitae ***


Questo capitolo è stato lento. E' stato improvviso. E' stato strano. Ed è stato difficile scriverlo. 
Son passati dei mesi, lo so. Però me ne sono resa conto soltanto adesso. 
Ho pensato parecchie volte a questa storia. Mi ritrovavo a scrivere frasi su frasi, discorsi scollegati da tutto il resto. Ma dopo tutto questo tempo ho messo insieme il capitolo che state per leggere. Non credo di avere ancora il pubblico di una volta, ma va bene così. Non ho la pretesa di avere la vostra totale attenzione dopo un'attesa del genere. E per questo vi chiedo scusa, e chiedo scusa alla storia, che meritava forse un'autrice migliore. 
Ma siamo ciò che siamo. 
Questa volta non ci sarà nessuna canzone da ascoltare. Nessun testo da leggere.
La citazione che introduce il capitolo è presa dal De Brevitate Vitae di Seneca. L'autore latino che sento forse più vicino. 
La traduzione non è probabilmente accurata, ma purtroppo è il meglio che sono riuscita a trovare. 
Ringrazio molto molto sinceramente tutti coloro che hanno recensito il precedente capitolo e che hanno scambiato qualche parola con me in privato.
Mi scuso anche con loro per le mie risposte altalentanti, ma ho avuto davvero parecchio da fare in queste ultime settimane.

Questo capitolo non l'ho riletto, ma so che ha un po' il sapore di una fine. Sento che sta per arrivare. Preparate le cinture.
Si viaggia.

 



CAPITOLO DICIOTTESIMO - PARTE TERZA 

Ci vuole tutta una vita per imparare a vivere, e, ciò che forse ti stupirà di più, ci vuole tutta una vita per imparare a morire.

( Seneca - De brevitate vitae )


 
 
 


Il suo tocco di quella notte lo sento ancora su di me. A volte penso di essere impazzito.
Ci muovemmo come se fossimo fuori dal tempo.
 
E non c’è tempo. Non ce n’è mai.
Gerard una volta mi disse che siamo noi a crearlo.
Io invece mi sentivo solo in grado di distruggerlo. Di distruggere.
 
Ma la base di ogni creazione sta lì. E’ il crollo di tutto ciò che è esistito in precedenza.
Come un punto a fine frase, azzerare un cronometro, fermare una corsa.
Non possiamo iniziare senza una fine. Non siamo nessuno, se non abbiamo fine.
 
Ma non è facile avere la morte negli occhi. Non si è mai pronti a raggiungere un punto limite.
 
E le dita di Gerard erano così delicate, così piene d’amore. Faceva quasi male.
Io non avevo davvero il coraggio di guardarlo.
Era troppo vicino, era troppo presente, troppo vivo e reale per poter capire.
 
La sua mano scorreva leggera sulla mia schiena e arrivava decisamente più in basso, per poi spingermi contro il suo bacino. Aprii la bocca sulla sua, e vi gettai dentro un gemito strozzato.
Troppo concreto, troppo vicino.
 
Col viso gettato all’indietro e il collo esposto ai miei baci, Gerard sussurrava contro il soffitto quanto fossi bello. Come se non mi avesse davanti, addosso.
Io sentivo la sua pelle sulle labbra; liscia, bianca.
E i miei capelli neri tra le sue dita, che si aggrappavano fitte come a non voler mai più lasciare andare.
 
E io non avrei mai voluto lasciar andare. Esistono momenti che non siamo pronti a smettere di vivere. Esistono persone che non sappiamo lasciarci alle spalle.
 
Quella notte mi urlava all’orecchio che non può esistere futuro più importante del presente.
E non importa chi saremo, chi ameremo, chi diventeremo. Non importa nemmeno di chi sentiremo la mancanza. Ci sono attimi presenti che vale la pena di vivere, a costo di dover morire subito dopo.
 
E saremmo morti in ogni caso, io e Gerard. Metaforicamente e non.
Sarebbe morto il suo tocco su di me, e l’avrebbe fatto con l’arrivo del sole.
Sarebbe morta quella notte, a breve, e io non avrei dovuto avere paura.
Perché la morte è inevitabile, e l’inevitabile non c’appartiene. Perché cade al di fuori di noi stessi e di ciò che siamo.
E le energie che abbiamo moriranno con noi, e dovremmo usarle per plasmare il possibile.
Per arrabbiarci, sporcarci le mani, far curvare una schiena, alimentare la voglia di conoscere e sentire addosso il fascino di ciò che non sappiamo.
E quando arriverà una fine stringeremo niente e tutto. Perché è questo l’equilibrio su cui muove i passi la vita.
 
A me bastò semplicemente inclinare appena il viso per sentire il sapore di ciò che è destinato a durare solo un istante. Per avere le narici piene di un odore che ti ricorda qualcosa, anche se non sai bene cosa.
 
Joyce parlava di epifania in riferimento a quegli attimi, visi, gesti che ti spingono alla realizzazione del vero significato di tutto. Dell’essenza della vita.
Quella notte la mia epifania arrivò quando mi staccai dalle labbra di Gerard e lo guardai negli occhi.
E io seppi che nello stesso secondo, uno dentro lo sguardo dell’altro, pensammo entrambi alla stessa cosa.
Ma solo uno di noi ebbe il coraggio di darle voce.
 
Me lo sussurrò all’orecchio.
Fu caldo, lento, doloroso, troppo importante.
Era il suo ultimo desiderio. Lui, che aveva fretta di vivere perché non poteva più farlo, e io che avrei voluto diluire il tempo per renderlo più lungo. E nessuno di noi era più lo stesso.
 
Restammo immobili e schiacciati l’uno contro l’altro. Quel ‘ti amo, Frank.’ ancora sospeso per aria. Riempiva tutta la stanza, faceva da eco a tutti i respiri. E io lo sentivo crescere dentro di me, sempre più, fino a essere forse troppo. Un concetto incontenibile, ecco cos’era.
Non sapevo dove riporlo, non sapevo cosa farmene.
E non lo sussurrai, a mia volta.
 
Forse eravamo troppo deboli per una consapevolezza così pesante.
 
Arrivati sul suo letto, Gerard fece scivolare le mani sotto il mio maglione, e io riuscivo quasi a percepire la sua pelle attraverso il cotone della maglietta.
Alzai le braccia quando sentii due mani stringere il lembo di entrambi gli strati e lasciai che lui mi spogliasse. Però lo fece lentamente. E nel farlo mi accarezzò i fianchi, la schiena, poi le spalle.
Ricordo le sue mani fredde contro la mia pelle riscaldata dai vestiti, l’atroce gentilezza del suo sguardo che quasi tremava. Quasi non sorreggeva la vista del mio petto nudo.
 
« Voglio che questo significhi qualcosa, » - disse - « voglio che tu sappia che per me significhi qualcosa »
 
Io dissi solo ‘lo so’. Lo feci una, poi dieci volte. Una catena di suoni sempre più fievole, che si rompeva come onde sulle labbra di Gerard.
E io avrei voluto che lui sapesse, avrei voluto renderlo partecipe di tutte le frasi che non riuscivo a gettar fuori, di tutte le cose che provavo ma erano troppo più grandi dei millimetri tra le mie corde vocali.
 
Anch’io avrei voluto dirgli che lo amavo, e che la sua vita aveva un significato per me.
Che la nostra storia sarebbe sempre importata qualcosa, anche oltre la sua fine.
 
Ma non riuscii a farlo.
E potevo già sentire il sapore del pentimento sulle mie labbra. Si nascondeva bene tra l’umidità delle nostre salive, rimaneva celato dietro ogni sussurro, dentro i miei gemiti.
Solo noi stessi possiamo darci altro tempo. E non arriverà nessuno a salvarci.
 
Sbottonai lentamente la camicia di Gerard. Dopo il primo paio di bottoni gli dissi che quell’aria elegante gli donava molto. Lui abbassò lo sguardo, timido, ma poi mi chiese se mi piacesse.
Io annuii sorridendo e lasciai un bacio veloce sulla sua guancia.
E per un momento mi sembrò tutto così tranquillo. Così fuori dal tempo. Come se quelli fossero gesti abituali, una routine che andava avanti da sempre, senza mai diventare banale.
C’era calma nei nostri sguardi, nei nostri movimenti, dentro di noi.
 
Non mi sembrò affatto una tra le ultime volte; piuttosto una delle prime. Forse la prima.
La prima volta in cui sapemmo apprezzare veramente ogni sfaccettatura e angolo nascosto di quegli istanti. La prima volta in cui eravamo davvero consapevoli di noi non come due persone distinte, ma come unica entità.
 
Quando anche l’ultimo bottone scivolò via dall’asola mi presi un secondo per osservare davvero Gerard.
Era decisamente più magro rispetto all’ultima volta in cui l’avevo visto a petto nudo. Le clavicole erano evidenti e la pelle che copriva ogni osso era tesa, quasi troppo sottile.
Pensavo che mi si sarebbe frantumata addosso; quasi la sentivo sfaldarsi sotto le mie dita.
 
«Se non mi avessi più rivisto, dopo quel giorno al parco - dopo il nostro primo incontro - cosa avresti fatto?»
 
Mi mancava il fiato. Gerard mi consumava il fiato.
Ma non gli diedi il tempo di rispondere.
 
«Mi avresti cercato?» La mia fronte era poggiata sulla sua spalla. «E per quanto tempo avresti continuato a pensarmi?»
 
«Perché ti importa, Frank?»
 
«Perché mi aiuta a capire. Aiutami a capire.»
 
«Temo di non poterlo fare.»
 
«Ci sono tutte queste possibilità che ci aleggiano attorno. E come facciamo a sceglierne una? Soltanto una, e viverla? Accontentarci solo di una parte su mille, trascurando tutte le altre. Lasciando fuori ciò che avremmo potuto essere.»
 
«Perché non è ciò che siamo. Perché per ogni possibilità c’è una scelta, e non sono le scelte che non abbiamo mai fatto a definirci. Siamo qui per l’unica decisione che abbiamo preso. L’unica, tra mille. Ed è quell’unica che conta qualcosa. Perché il resto non è, e  non si può vivere di ciò che non è.»
 
«Dimmi solo se saresti venuto a cercarmi»
 
«No. Non l’avrei fatto. Con che coraggio avrei potuto? Entrare nella tua vita sul finire della mia, per cosa? Forzare la mia presenza su di te - forzare la mia morte su di te. Ci pensi, Frank, a quanto egoismo ci vuole per ritenere il proprio piacere più importante del dolore di qualcun altro?»
 
«E allora perché sei- perché siamo qui?»
 
«Perché tu sei tornato da me. Sei tornato per me, offrendomi l’opportunità di renderti felice e chiedendomi di accoglierla. E nella misura in cui sarò in grado di farlo, lo farò. Giuro che lo farò al meglio delle mie capacità e possibilità. E’ l’unico modo per controbilanciare il dolore. E’ l’unico modo in cui posso e voglio starti accanto. E’ tutto ciò che ho, Frank. La tua felicità è l’unico lusso che concedo a me stesso.»
 
«Voglio fare l’amore»
 
«Non posso… Io-- lo sai che non posso. Non possiamo»
 
«Farò tutto io-»
 
« Frank…»
 
Lo guardai in modo sincero, e sussurrai un per favore.
Lui inclinò il viso a destra, per evitare di incrociare il mio sguardo.
 
«Gerard, potrebbe essere l’ultima volta. Questa potrebbe essere la nostra ultima volta »
 
Lo osservai chiudere gli occhi.
Prese un respiro profondo.
 
«Va bene. Ma devi essere tu a- devi farlo tu, okay? E’ più sicuro in questo modo. E ci serve un preservativo. Dovrebbe-- dovrebbe essercene uno da qualche parte nel primo cassetto della scrivania.»
 
Esitai per un secondo; le sue parole poggiate delicatamente sul cuscino. I suoi occhi che si rifiutavano di rispecchiarsi nei miei.
 
Presi il viso di Gerard tra le mani e riportai il suo sguardo sul mio.
 
«Andrà tutto bene, davvero»
 
«Non è soltanto quello» - Sentii una mano scorrere dolcemente sul mio petto - «… mi mancherà vederti così. Sentire il peso del tuo corpo sul mio, e il tuo cuore battere così forte da immaginarlo dentro di me.» - quella stessa mano che salì fino al mio collo, annodando le sue dita tra i miei capelli - « e guardarti negli occhi. Guardarti mentre vieni. Saperti sincero. Sei così trasparente quando facciamo l’amore Frank. Non ho mai visto niente di così vero.»
 
E non è la quantità di parole. Non è il numero di lettere di cui esse sono composte. Non è la loro difficoltà, non è il loro suono.
E’ un peso. Un filo. Uno specchio. E’ quella frazione di secondo in cui le parole rimangono sospese, e non sono più tue, ma nemmeno di qualcun altro. Non ancora.
 
Un istante dopo averle dette. Un istante prima di sentirle.
Non c’è niente di più pesante, sottile, fragile.
 
Non c’è niente di più devastante delle parole mai dette. Di quell’istante mai vissuto.
 
Baciai Gerard brevemente, per poi alzarmi dal letto e prendere tutto ciò che ci serviva.
 
C’era disordine sulla scrivania, disordine nei cassetti. E mi chiesi cosa ne sarebbe stato di quel disordine, nel giro di un paio di mesi.
Di chi sarebbero state le mani che avrebbero sistemato tutto, e rimosso quegli oggetti, uno per volta.
Mi immaginai la madre di Gerard mentre sorreggeva tutti gli album da disegno, e i pennelli, e le tazze da caffè piene di acqua sporca di colore. Potevo vederla, davanti ai miei occhi, riporli in anonimi scatoloni di cartone.
Come se si potesse mettere via una vita intera.
Mi chiesi anche se si sarebbe presa il tempo per osservare i ricordi di Gerard, prima di metterli da parte.
 
«Sto iniziando a sentire freddo, Frank»
Rise, Gerard, dietro di me.
Fu una risata insicura, leggera.
 
Pochi secondi dopo, il letto si curvava sotto il peso delle mie ginocchia.
Poggiai le labbra su una gamba di Gerard, lasciandovi sopra un bacio.
Le sue mani strinsero impercettibilmente le lenzuola non appena il primo dito fu dentro di lui.
Era lento. Agonizzante.
 
Era stupendo, Gerard. Ed era stupendo viverlo senza barriere. Senza alcun millimetro a separarci.
C’è qualcosa di tremendamente intimo nell’annullare del tutto le distanze.
Dopo qualche minuto la sua schiena si sollevò improvvisamente dal letto, inarcandosi verso il vuoto.
Un gemito scivolò via dalle sue labbra e riempì l’aria. A quel punto smisi di prepararlo, pulii le dita con le lenzuola, e lo osservai per un secondo, immaginando ciò che sarebbe venuto dopo.
 
I primi istanti sono sempre i più difficili. Potevo vedere il dolore che si diffondeva sul viso di Gerard, evidente nelle piccole rughe tra le sue sopracciglia e nel modo in cui chiuse istintivamente gli occhi tutto d’un tratto.
 
Dopo le prime spinte mi accasciai sul suo petto e iniziai ad accarezzargli delicatamente il viso, premendo le labbra su una tempia. Gli sussurrai all’orecchio quanto fosse bello, come mi facesse sentire bene. Lui non rispose, però mi strinse i capelli, avvicinandomi ancora di più al suo corpo.
 
Il ritmo non era perfetto, ma c’era qualcosa di estremamente puro in quei momenti che stavamo vivendo. Un piacere più che fisico, una completezza che forse non avevo mai sperimentato prima.
 
C’era anche tanta malinconia, tanta consapevolezza, tanto dolore.
 
Gerard venne per primo, con un urlo strozzato e dei respiri profondi. Aveva gli occhi serrati ma la bocca rossa e spalancata. Io venni poco dopo, e la prima cosa che feci fu premere le mie labbra contro le sue.
 
Per parecchi minuti restammo l’uno sull’altro. Ansimanti, sudati, sporchi.
E guardammo l’uno negli occhi dell’altro, alla ricerca di un motivo per mettere fine a quel momento. Alla ricerca del nostro riflesso.
 
Poi improvvisamente due occhi si chiusero davanti ai miei.
Come una porta che è destinata a non essere mai più aperta.
 
Fu lì che, per la prima volta, dopo una tra le cariche emozionali più intense della mia vita, sentii di aver perso Gerard.
Me lo sentii scivolare via di dosso, lo sentii cadere piano, dissolversi nel nulla.
 
Fu lì - realizzai - che demmo inizio al nostro finale.
 
Insieme.   

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Vorrei ringraziarvi per essere arrivati fin qui. Come sempre, mi farebbe tanto piacere sentire le vostre opinioni sul capitolo. 
Vi auguro una buona serata. 
-me.

 


 

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Capitolo 27
*** 19 - Batter up ***


 

Ho spesso pensato a questa storia negli ultimi anni. Mentre tutto intorno a me cambiava, mentre io cambiavo, sono spesso tornata a rileggere quello che avevo scritto, i commenti di chi mi leggeva. C'è una parte di me in questa storia che adesso non esiste più. Una parte di chi ero che resta nero su bianco e che a volte osservo attraverso uno schermo. C'è il mio passato e quindi inevitabilmente c'è anche chi sono adesso. Ho sempre detto (e ho sempre pensato) che questa storia meritasse un finale. Perché forse in fondo volevo davvero chiudere questo capitolo della mia vita, o perché volevo riviverlo. Non ascolto più i MCR da anni ormai, ma una decina di giorni fa li ho visti dal vivo, per la prima volta in vita mia e contro ogni pronostico. E lì, in quel momento, c'ero io ma c'era anche la me di tanti anni fa, la ragazzina che provava a capire il mondo attorno a sé senza successo, la ragazzina che non apparteneva alla sua realtà, che si sentiva sola, che in qualche modo è stata cresciuta da questa band come se fosse una famiglia, che viveva due vite e ne immaginava mille altre e ci scriveva sopra delle storie. Devo moltissimo ai My Chemical Romance ed è una parte del mio passato di cui andrò per sempre fiera. Ma devo molto anche a quella ragazzina che mi ha permesso di essere chi sono adesso, e vado fiera anche di questo. Questo capitolo è per me, per lei, per voi, per Frank, Gerard, Mikey, Ray, tutte le persone che sono stata e tutte le persone che sono entrate e uscite dalla mia vita in questi ultimi dieci anni.

Grazie.


CAPITOLO DICIANNOVESIMO 

 

You were all I see, you were everything.
(Batter up)



È una sera d’estate e l’asfalto è ricoperto da un sottile strato di pioggia. È una sera d’estate, fa fresco. 

Cammino per le vie di una città che per me non significa più nulla. L’attaccamento alle origini, l’attaccamento al passato, quel senso perenne di nostalgia che trasla la tua vita in una dimensione fatta solo di ricordi. Tutte cose in cui ho creduto per tanto tempo.

Sono passati sei anni da quando Gerard è morto, ma quasi nessuno intorno a me usa questa parola. All’inizio per paura di ferirmi e poi semplicemente per dimenticanza, per disinteresse, per distanza. Adesso quasi nessuno parla più di Gerard. Mentre io, a differenza loro, non l’ho mai fatto. 

Gerard è stato per me un segreto che hai paura di rivelare e uno che custodisci con gelosia. Gioia e dolore, vita e morte. Gerard e Frank. 
 

Si nasconde un grande senso di colpa dietro la morte di qualcuno a cui vuoi bene: un dolore che cambia forma e si traveste da mille pensieri diversi, centinaia di sensazioni. La paura di non aver fatto abbastanza, il rimpianto di tutto ciò che ci si è lasciati sfuggire e il rimorso di ciò che invece non si è stati capaci di lasciar andare. 

C’è anche tanta rabbia. O perlomeno, io ho provato tanta rabbia. È terribile provare rancore verso qualcuno che non c’è più. Come acqua stagnante che non riesce a defluire, che resta immobile e marcisce. Del cibo che non ti piace e che non verrà mai mangiato da nessuno. È un odio terribile perché ti inganna e ti fa credere di odiare qualcun altro mentre in realtà odi soltanto te stesso. Io odiavo la versione di me senza Gerard, la mia vita dopo la sua morte. Odiavo il fatto che io avessi una vita e lui no. Che io non fossi bravo a fare tutte le cose che lui sapeva fare e che erano irrimediabilmente andate via insieme a lui. 

Sono passati sei anni da quel giorno, tanti quelli in cui ho creduto di non poterlo perdonare. Ma poi alla fine cosa avrei dovuto perdonargli? E come si fa? E cosa me ne sarei fatto della consapevolezza di non averlo perdonato? 

In questi ultimi sei anni ho imparato che puoi portarti dentro il dolore più grande del mondo e comunque niente attorno a te sarà diverso. Non cambierà la fila al supermercato, il sole non sarà meno luminoso, i bar saranno comunque pieni di gente che ride, pieni di gente che soffre, e le macchine sfrecceranno sotto casa tua con i finestrini abbassati e il volume della musica eccessivamente alto. E anche le persone che ti stanno accanto non saranno diverse. Anzi, saranno diverse soltanto accanto a te. Non c’è modo di chiedere al mondo di fermarsi, di rallentare almeno per un attimo. Per farti riprendere fiato, per farti guarire. 

Ho pensato a lungo al distacco, alla distanza che si crea tra noi e gli altri. Tra dentro e fuori. E ho realizzato che è una sensazione che Gerard ha probabilmente provato in tutti i suoi ultimi mesi di vita. Se non per anni. E mi sono a lungo chiesto dove potessi posizionarmi io in questo spazio infinito tra lui e il mondo. O, per meglio dire, dove Gerard mi posizionasse. 

Ci sono tante cose di lui che non ho mai saputo e che credo non saprò mai. Ma non c’è niente che non avrei voluto sapere. 

“Cosa pensi che farai quando qualcuno verrà da te a dirti che sono morto?”

“Gerard… non lo so, non voglio pensarci adesso”

“Però dovresti”

“No. Perché dovrei?”

“Prima o poi dovrai affrontarlo”

“Sì? E allora dimmi cosa faresti tu”
 

È una sera d’estate e fa fresco. Fino a qualche ora fa la pioggia batteva testarda sulle strade vuote di questa città.  

Pioveva anche il giorno in cui Gerard è morto. Ma per me era una pioggia diversa. Era tutto diverso. Il mondo si era ristretto attorno a un unico punto e quel punto ero io. Un’intera galassia deformata per stringersi attorno a me, come una videocamera che taglia fuori tutto e fa zoom su un unico soggetto. Il protagonista del film alla sua scena finale. Il centro del mondo, il punto in cui converge tutto. Ogni dolore, ogni respiro, ogni lacrima, ogni speranza. Sei anni fa credevo che la mia storia - la nostra storia - fosse tutto. Credevo che la vita si sarebbe fermata dopo quel momento. Lo credevo perché non mi ero mai domandato cosa venisse dopo. L’avevo immaginato come si immagina un finale alternativo. Con la certezza che non arriverà mai. 
 

“Tratterrei il respiro per qualche secondo. Credo che all’inizio non lo realizzerei davvero. Poi diventerei triste. Triste e arrabbiato. Vuoto e spaesato. Però non piangerei subito. Almeno credo. Credo che aspetterei. Poi mi ritroverei da solo in una stanza e desidererei soltanto che tu entrassi da quella porta e quello è il momento in cui inizierei a piangere. Di notte mi girerei sul fianco sinistro e tu non saresti accanto a me, a riempire una metà vuota del letto. Inizierei a cercarti ovunque. Passerei una vita a cercarti. E poi realizzerei- spero che realizzerei che la morte non cancella una persona, mette soltanto fine a una vita. E forse smetterei di cercarti. E di sentirmi così vuoto.”


Tutti questi pensieri, tutto quello che non gli ho mai detto, il mio odio, il senso di vuoto che mi porto dietro da anni, la paura di dimenticare il suo volto, il respiro che mi manca quando realizzo di non ricordare poi così bene la sua voce, la consapevolezza che niente di tutto ciò occuperà mai meno spazio di quello che occupa adesso, anzi probabilmente sempre di più. Se potessi puntare il dito contro Gerard lo farei. Gli direi che è stato uno stronzo, un egoista, che non ha idea di cosa voglia dire vivere una morte. Che non è affrontarla, è accettarla. Non è il momento in cui qualcuno viene da te a darti la notizia peggiore della tua vita, è quello che viene dopo. 

Sei anni fa le stanze avevano porte che avevo paura di aprire. Su ogni superficie vuota di un appartamento vuoto c’era il mio riflesso ma c’era anche il suo. Lo vedevo mentre raccoglievo tutto ciò che restava di quello che Gerard era stato, ma non mi soffermavo mai. 

Sei anni fa Gerard era per me la mano che mi afferrava pochi centimetri prima di schiantarmi al suolo. E già nei metri precedenti, in caduta libera, lo osservavo sopra di me e potevo già sentire la sua stretta. 

Sei anni fa Gerard ha scelto per me. O forse ha scelto solo per sé, non lasciandomi essere per lui quella mano che ti salva da uno schianto. Non so cosa farmene di questo risentimento inutile. Di questo odio stagnante. Della consapevolezza che non avrei potuto salvarlo nemmeno avendone la possibilità. 

Cammino per le strade di una città che per me non significa più nulla e mi strazia l’idea che Gerard alla fine ha salvato se stesso. Mi ci sono voluti così tanti anni per capirlo, così tanto dolore per accettarlo. E io ero così piccolo quando lui è entrato nella mia vita, il mondo era un posto così diverso. La mia vita e quella di Gerard erano troppo lontane per scontrarsi, eppure è accaduto. Mi fa molto strano pensare che adesso io ho più o meno la sua età. L’età che aveva quando abbiamo parlato per la prima volta e l’età che avrà per sempre. Mi chiedo se questo è il modo in cui lui percepiva le cose attorno a sé: se adesso i nostri punti di vista finalmente combacino. 
 

Mi chiedo se ci volessero sei anni per arrivare a questo punto oppure la sua morte. 
 

So che io non sarò mai lui. Non sarebbe giusto e non sarebbe possibile. Quando Gerard mi confessò per la prima volta di avere una malattia, quando per la prima volta gli sentii pronunciare la parola ‘AIDS’, mi chiesi se saremmo morti insieme. Se avremmo mai condiviso un destino che sembrava cucito alla perfezione sul nostro presente. Due giovani che vivono e muoiono per amore. Non avevo idea, allora, che amare volesse dire l’esatto contrario. Che l’amore non è romantico, non è un finale perfetto. Che per amore Gerard avrebbe rinunciato al mio corpo, alla sua felicità e infine alla sua vita. 

Sei anni fa trattenevo il respiro per qualche secondo, chiudevo gli occhi, lasciavo che il dolore, la rabbia, il vuoto si impossessassero di me. Camminavo lentamente sull’asfalto bagnato. Io contro tutti. La mia storia contro il mondo. Avevo paura di tornare a casa perché chiusa quella porta sarebbe iniziato il mio futuro. Un futuro che non volevo per un presente che odiavo. 

Erano le undici di sera e per me ciò che restava della vita, l’ultima traccia del mio passato, era quella lettera che tenevo tra le mani. 
 

Sono passati sei anni, Gee, e adesso sorrido quando ti penso. Non devo nemmeno ricordarti perché ci sei sempre, sei ovunque. Intorno a me, su di me. C’erano troppe cose che non avevo capito, troppe cose che ho trascurato pensando di avere ancora del tempo, ancora una possibilità. So che tutto quello che mi hai preso l’hai preso per darmi qualcosa di più grande. Che stasera mi hai portato su questa strada per guardare il tuo balcone e non essere più triste. Che mi hai portato ovunque in questi sei anni, che dietro ogni scelta c’eri tu. Dietro ogni nuovo amore c’era la tua mano sulla mia spalla. 

Lo so che lo sapevi, che è inutile pensarci così spesso. Lo so che tra noi due eri quello che chiedeva meno e quello che sapeva di più. Lo so che sei stato tu l’unico a dirlo. È il peso più grande che mi porto dietro e il vuoto più grande con cui convivo. Mi sarebbe bastato un secondo in più. Ti ho odiato per così tanti anni pensando che non me lo avessi concesso. Pensando che fossi morto senza sentire mai quelle parole uscire dalla mia bocca. Magari se avessi ripensato al suono del mio ‘ti amo’ non l’avresti fatto. Magari saresti stato meno triste, morendo. Che cosa strana. Ti ho odiato per non avermi dato la possibilità di farti morire felice e non realizzavo che in realtà stavo odiando me stesso per non aver sfruttato tutto il tempo che abbiamo avuto, per non essermi dato la possibilità di essere meno triste dopo la tua morte. 
 

Avevi ragione: dopo quel giorno ti ho cercato a lungo e a lungo ho cercato di capire perché. Mi ci è voluto tanto tempo per scoprire che a volte l’amore è anche questo e che tu l’hai sempre saputo. Che anche se non mi hai dato la possibilità di esserci, il tempo per dirtelo, nei tuoi ultimi minuti io ero lì con tutto il mio amore: tu non eri solo. E non eri triste. 

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I prossimi due capitoli, che spero arriveranno presto, sono stati scritti da me tanti anni fa. Sono sempre stati il finale naturale di questa storia. Ci è voluto soltanto più del previsto. 

C. 


 

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Capitolo 28
*** 20 - guilttripping (1) ***


Questo capitolo è stato scritto da me anni fa, quando ancora lavoravo in maniera costante a questa storia. 
Non ho molto da aggiungere. La fine è arrivata.
A questo capitolo ne seguirà un altro, l'ultimo, anche lui rimasto a fare la polvere tra le note del mio telefono per tanti, forse troppi anni. 

Ringrazio chi ha letto e commentato il precedente capitolo, e chi mi ha raggiunta in chat privata. Ringrazio anche chi arriverà alla fine di questo capitolo.

Grazie. Buona lettura. 


CAPITOLO VENTESIMO 

 

Save room for me in memories
(.Guilt Tripping.)



[...] Erano le undici di sera e per me ciò che restava della vita, l’ultima traccia del mio passato, era quella lettera che tenevo tra le mani. 

...

Ci sono milioni di modi per morire, Frank. Forse infiniti. Ma dopo ognuno di questi modi c’è solo un istante in cui il cuore smette di battere e i polmoni si fermano, ed è come se dentro di te ci fosse una piccola città che va in blackout circondata dal silenzio. C’è il silenzio puro, Frank: perché dopo ogni modo di morire c’è solo la morte. 
E quella non te la scegli. 

Quando mi hanno diagnosticato questa malattia, una delle prime cose che ho pensato è che non l’avrei combattuta. E quando mi osservavi, nelle ultime settimane, io lo sapevo che te n’eri accorto anche tu. Lo sapevo che avevi capito che io non sarei stato un guerriero, che non avrei reagito. 

Se c’è una decisione che voglio prendere per me stesso, oggi, è questa. Ti chiedo scusa. So che avresti preferito altro. Forse tutto, ma non questo. 

Il fatto è, Frank, che prima di morire lo si percepisce che si sta morendo. Io voglio solo scegliere come.  Solo questo. 
Solo un modo — tra mille o infiniti che siano — per smettere di essere. 

E mentre scrivo questa lettera so di stare per morire della morte che ho scelto per me stesso. Ma voglio che questa lettera non rappresenti anche per te la fine di tutto. Voglio lasciarti la libertà di vivere e, quando sarai pronto a farlo, di scegliere per te una morte. Che non sia la mia, che non sia questa lettera, che non sia io. 
 

Sai cosa pensavo prima? Che la stessa mano che adesso tiene la penna è quella che ti ha sfiorato centinaia di volte.  
Mentre sorridevi, mentre piangevi. Mentre mi odiavi e amavi. 
Mentre soffrivi con me, per me. Mentre facevamo l’amore. 

E ognuna di queste centinaia di volte, io ti stavo uccidendo. 
Me ne rendo conto soltanto adesso. 

Una mano per tenere una penna, per scegliere una morte, per togliere vita a qualcuno. 

Una mano per scriverti queste ultime parole.

 

Quindi, Frank: 

Che gli anni che io non vedrò mai, quelli che mai vivrò con te, siano migliori di questo istante in cui ti dico addio. 

Che ci siano altre mani a sfiorarti e restituirti ciò che io ti ho tolto. 

Che io possa essere per te come un quadro che appendi al muro e a cui fai l’abitudine. 

Che io possa essere sempre lì, in modo silenzioso. Che tu possa soffertarti a osservarmi solo quando ogni tanto ti ricorderai di me. 

 

Non tappezzare la tua esistenza del mio ricordo. 

Non lasciarmi essere un ricordo ma una vita. 

 

E infine (perché è la fine il luogo adatto per le cose più importanti): che io possa chiederti scusa. 

E che tu possa perdonarmi. 


Per sempre, 
Gerard

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Capitolo 29
*** 21 - guilttripping (2) ***


Siamo arrivati alla fine di questa storia che per me è stata un'amica, un confidente, uno specchio, un cuscino su cui riposare, l'unico modo - per tanti anni - di portare fuori da me quello che sentivo. Quasi sette anni fa scrivevo tra le note del telefono 'non c'è modo di tornare a essere chi eravamo'. Non sapevo ancora quanto queste parole sarebbero risultate vere. 
Non sono più chi ero ma mi basta leggere queste pagine per ricordarlo. Mi basta ascoltare le canzoni che ho scelto per ogni capitolo per tornare alla mia adolescenza. 

Questo capitolo l'ho scritto nell'estate del 2016, e già allora sapevo che avrebbe rappresentato una fine. Non sapevo soltanto che mi ci sarebbero voluti anni per raggiungere questo momento. 

Ringrazio tutti. Ringrazio le duemila persone che hanno letto questa storia dal 2014 a oggi, chi ha lasciato una recensione, chi mi ha scritto in privato, chi ha letto in silenzio. Ringrazio anche chi verrà, chi leggerà le mie parole riportandomi in vita. 

Ringrazio i personaggi di questa storia per avermi permesso di parlare, di raccontare, di piangere, di sentirmi migliore, più piena. 
Ho fatto tanti errori nella vita, ma sono fiera di aver portato a termine questa long. Di essermi concessa una possibilità. 

Il capitolo che segue è la risposta di Frank a Gerard, una lettera scritta poco dopo la sua morte. 
Dedico questo finale a me stessa. 

 


CAPITOLO VENTUNESIMO 

 

 So many stars in the sky and I don't know why they always have to fall on me.
Maybe I'm blind to all of the signs that the world never wanted me.

(.Guilt Tripping.)



Infiniti modi, hai detto. Ma l'infinito non è reale. 
E tu dovresti saperlo bene. 

Quindi in queste settimane ho provato a calcolare, quantificare, anche se non so bene cosa.

Ho sottratto e moltiplicato attimi e ricordi per provare a raggiungere un risultato, ma quando ero a un passo dal farlo veniva sempre a galla un numero che non avrebbe dovuto essere lì. Un numero che rovinava tanto lavoro, tanto dolore, tanto impegno. Tutto. 

Avevi ragione quando hai detto che tu non hai scelto di morire, hai solo scelto come. E avevi ragione quando hai realizzato di avermi ucciso nei mesi. L'hai fatto lentamente, con discrezione. Ma oggi sono vuoto. Perché avevi ragione anche quando hai scritto che che non importa quale modo scegliamo per morire, da uno a infinito: si arriva sempre allo stesso risultato.

Ma c'è una cosa che mi tormenta. Forse anche più di una, ma una in particolare. Ed è sempre quel numero. Il mio numero. 
Lo stesso che non mi lascia dormire, mangiare, uscire con i miei amici, smettere di ignorare mia madre, rispondere alle chiamate di Mikey. Un numero che vedo e che sento ovunque, anche dentro di me, tra una costola e l'altra. 

È il numero più vicino a infinito che possa esistere in questo modo irreale. 

Zero. 

C'è uno zero non solo nei i miei calcoli ma ovunque. 
Uno zero tra i fogli della tua scrivania, sulla tua sedia, dentro la tua dispensa, nella tua cucina. Più dolorosamente anche tra le lenzuola, sul tuo cuscino, nella doccia, nel mio letto e sulla mia pelle: tutti posti che una volta era nostri. Non solo tuoi. Nostri. 

Sai cosa succede quando aggiungi uno zero in un'addizione? Niente. 
E quando lo sottrai? Niente. 
Ma quando lo moltiplichi fa tutto zero. Tutto, Gerard. 

E non sai quanto fa male. Quanto sia doloroso sapere che nei posti in cui esistevi adesso c'è il nulla. Nelle tue canzoni preferite che non ascolterai più, nei cibi che non compro più da quando sei morto, nelle parole che non ho più detto a nessuno, nei suoni che nessuno ha più tirato via dalla mia gola e in quei centimetri di pelle che nemmeno io ho più il coraggio di sfiorare. 

I modi per morire possono anche essere mille, ma diventano zero quando muori. 

E tu hai chiesto di essere per me un quadro. Mai. 
Di passarti davanti ogni giorno della mia vita senza notarti. Mai, Gerard, mai. 
Come puoi pretendere di essere un quadro quando tu sei invece tutta l'arte? 

Se moltiplichi zero per infinito la matematica cade. Crolla su sè stessa. E lo sai perché? 

Perché non esistono. Non sono veri. 

Tu eri invece una delle persone più vere che io abbia mai incontrato e che probabilmente mai incontrerò in questi anni senza di te. E il tuo essere così reale ha fatto sentire un po' più reale anche me. 

Tu sei stato per me un viaggio, ma anche una casa in cui tornare. Un luogo a cui appartenevo e mi sentivo di appartenere. 

Anche un quadro, se ti rende felice, ma anche tutti gli altri. E le statue, e gli affreschi, e l'alba alle 5 e 40 di mattina, i segreti che hai provato a tenere lontano da me. 
Perché lo so che hai provato a non farmi del male. E io non voglio perdonarti, perché non mi devi scuse come non mi devi addii. 

Tu sei stato per me tanto, forse tutto. Ma non eri per sempre. 
E non avresti potuto esserlo. 

Se oggi potessi darti un valore, trovato tra le parentesi quadre di questi mesi passati insieme, tu saresti per me un infinito meno uno. 

Ed è il numero più lontano dallo zero che io riesca a immaginare. 

-

Mi chiamo Frank. Questa è stata la mia storia. 

 

 


 

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