Il paziente ostile

di ELE106
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 9 ***
Capitolo 10: *** Capitolo 10 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


Disclaimer: I personaggi descritti non mi appartengono, questa è una storia di fantasia, l’autrice scrive senza alcuno scopo di lucro e non intende violare alcun copyright.
 
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IL PAZIENTE OSTILE




Capitolo 1.


Gennaio 1999, Baltimore – Maryland




Il dottor William Holmes era un uomo onesto e preciso. Un professionista serio, stimato, uno di quelli che amano il proprio lavoro e lo onorano svolgendolo con la giusta combinazione di cuore e mente, buon senso e competenza.
Era sempre stato un ottimo osservatore, con straordinarie doti deduttive e l’indole buona di chi desidera davvero aiutare le persone, senza alcun secondo fine.
Aveva indirizzato correttamente le proprie capacità, scegliendo la psicoanalisi come ramo di studio e specializzandosi poi in terapie per il recupero di giovani problematici.
Pubblicava regolarmente studi approfonditi e rapporti di settore sulle più importanti riviste del paese, collaborava con scuole, riformatori e carceri, strutture psichiatriche e i servizi sociali.

Il fascicolo di Dean Winchester gli era stato passato da questi ultimi.

Diciannove anni (a breve venti), detenuto da due giorni presso il Baltimore City Correctional Center, per aver aggredito una coppia di assistenti sociali durante le regolari operazioni di prelievo del fratello minore, Sam Winchester, di anni quindici, attualmente residente presso la Baltimore’s Home for childrens.
Soggetto recidivo: due giorni di riformatorio per aggressione nel 1994 e due mesi per furto in una struttura per recupero minori a Hurleyville, New York, l’anno successivo; diverse espulsioni, diverse scuole, diversi stati. Diplomato e sparito; ad oggi, nessun impiego registrato.
Necessitava di attenta valutazione psichiatrica per eventuale rilascio sulla parola.

Il padre, John Winchester, irreperibile, era accusato di abbandono di minore (tra le altre cose) e sarebbe stato sottoposto anch’egli a valutazione psichiatrica per accertarsi che fosse in grado di occuparsi dei figli, non appena le forze dell’ordine fossero riuscite a rintracciarlo.



Il dottor Holmes aveva studiato con attenzione il fascicolo, prendendosi la libertà, come sempre, di colmare le ormai croniche lacune di informazioni in mano agli uffici pubblici, evidentemente incapaci di comunicare tra loro, aggiungendo alle carte in loro possesso ulteriori documentazioni, che aveva provveduto a raccogliere facendo qualche telefonata alle persone giuste.
Si sentiva pronto ad affrontare il paziente. Incuriosito da lui, addirittura.
L’osservazione diretta era il suo punto di forza.
Il corpo parlava più di quanto si credesse comunemente, bastava saperlo leggere, bastava non farsi sfuggire i dettagli. E quello di Dean Winchester era particolarmente loquace.


La stanza riservata agli incontri nel penitenziario era spoglia e scarsamente illuminata. Le pareti bianche erano forse l’unica cosa a dare un po’ di luce all’ambiente. Una piccola finestra in alto, due scrivanie, due sedie, un telefono e una stampante; tutto grigio, persino il pavimento.
Il dottore aveva più volte lamentato alla direzione che, essendo il suo lavoro strettamente dipendente dal mettere le persone a proprio agio, quella particolare stanza non fosse minimamente idonea allo scopo.
I fondi insufficienti (di Governo e privati) erano sempre stata la risposta migliore, se si voleva zittire ulteriori e dispendiose richieste.


Nervoso e seduto sgraziatamente sulla sedia, Dean Winchester tamburellava le dita sulla scrivania, ostinatamente muto da quasi quindici minuti.
Ad un primo esame superficiale il ragazzo sembrava in buona salute fisica: il colorito della pelle era sano, la corporatura nella norma, i capelli ben tagliati, nessun segno evidente di denutrizione e/o percosse e/o altre tipologie di maltrattamenti; abiti pratici e anonimi, jeans e felpa non particolarmente alla moda, sgualciti (probabilmente molto sfruttati), sicuramente non appariscenti.
L’abbigliamento del dottor Holmes era informale, come sempre quando trattava con giovani detenuti. Era importante non intimidire i ragazzi indossando abiti costosi ed eleganti, ma creare invece con loro una sorta di collegamento, mostrandosi in qualche modo simili, accessibili.

Dean fissava truce di fronte a sé, evitando di incrociare lo sguardo dell’uomo, con l’aria di uno che chiaramente avrebbe voluto essere ovunque, tranne che lì.
Dedurre che non sarebbe stato affatto semplice spingerlo ad interagire era fin troppo elementare. Altrettanto elementare, data la violenza con cui, secondo il rapporto, si era scagliato contro gli assistenti sociali, era individuare il cosiddetto ‘punto di pressione’ del ragazzo: suo fratello Sam.

“Dean?”

Il dottore richiamò la sua attenzione con tono pacato e affabile.
La ottenne: il giovane ora lo scrutava attento; la figura rigida, palesemente sulla difensiva, un ghigno da spaccone e l’atteggiamento da sbruffone tipico della sua età, ovvero di chi se la fa sotto ma avrebbe comunque il coraggio di sopportare torture fisiche, piuttosto che darlo a vedere.

“Non si usa più dare del Lei, tra sconosciuti?”

La provocazione era l’arma preferita di due tipi di persona: gli insicuri e i vigliacchi; Dean lo stava guardando dritto negli occhi, non era certo tra i secondi. Il dottor Holmes scavalcò l’ostacolo, assecondandolo.

Signor Winchester, mi è chiaro che questa valutazione psichiatrica non sia consensuale. Non starò qui a fare bei discorsi su quanto le gioverebbe sfogare i suoi problemi e via dicendo.”

“Sono impressionato!”

E lo era anche il dottore.

“Vorrei solo che lei capisse una cosa: non rivedrà suo fratello minore, finché non sarò io a decidere che potrà farlo. Mi comprende?”

Dean si raddrizzò immediatamente, irrigidendo ogni muscolo, serio e senza più traccia della spavalderia di poc’anzi.
Aveva colpito nel segno.

“Figlio di...”

“Le suggerirei di moderare il linguaggio e collaborare. Il mio lavoro non è rovinarle la vita, né immischiarmi in cose che non mi competono. Il mio lavoro è accertarmi che lei non sia un pericolo per se stesso o per gli altri.”

Dean aveva serrato la mascella e si era zittito, ma a costo di un enorme sforzo di autocontrollo. Sbuffando, tornò ad appoggiarsi scomposto allo schienale della sedia.
Continuando ad osservare il ragazzo, sempre maggiori dettagli arricchivano il quadro, peraltro già abbastanza preciso, tracciato dal dottor Holmes: era orgoglioso, irascibile, svogliato ma ben istruito, come aveva potuto appurare dal suo rendimento scolastico.

Holmes scarabocchiava appunti sulla sua agenda, quando Dean riprese a parlare.

“Senta! Mi dica solo cosa accidenti devo fare per uscire da questa fogna e riportare a casa mio fratello... e io lo farò!”

“Quale casa... signor Winchester?”

Era un colpo basso e Holmes lo sapeva. Ma non serviva una laurea per capire che il nodo del problema, se così si poteva definire, era da ricercarsi in un rapporto famigliare a dir poco disfunzionale, per non usare il termine ambiguo, che al momento sembrava suonare eccessivamente drastico.

Il fascicolo di Dean Winchester comprendeva anche, purtroppo, agghiaccianti rapporti di polizia sulla terribile morte della madre, Mary Winchester, avvenuta nel tremendo incendio della loro casa di Lawrence (Kansas), nel 1983, le cui cause non erano mai state accertate.
Il padre, John, ex militare in congedo, figura evidentemente assente per la quale Dean nutriva comunque profonda ammirazione e rispetto (forse anche timore), dopo la morte della moglie si era spostato con i figli da uno stato all’altro, senza fermarsi in un posto fisso per periodi che superassero i sei mesi (quando era tanto); cosa quantomeno anomala, considerando il fatto che non c’erano tracce di lavori dipendenti che durassero più di qualche mese.

“La sua casa è dove ci sono io!”

E il fratello... Samuel. Evidentemente molto protettivo nei confronti del minore, l’aggressività di Dean era logico dedurre fosse da associarsi a lui e ad un legame fortemente atipico creatosi tra loro; probabilmente passavano molto tempo da soli, cosa che faceva sospettare l’instaurarsi di una sorta di simbiosi.
I legami di questo tipo erano spesso nocivi per entrambe le parti, difficili da ‘normalizzare’, poiché era difficile convincere i soggetti che si trattasse di qualcosa da curare, da modificare.
Il tono e il modo in cui Dean gli aveva appena risposto, così come le parole che aveva usato, lasciavano trasparire con estrema chiarezza l’intensità dei sentimenti che nutriva per suo fratello. Holmes fissò il giovane con maggiore attenzione, avvertendo il forte sentore che l’argomento fosse a dir poco contorto, per non dire un terreno pericolosamente scivoloso.

‘Possibile comparsa di impulsi sessuali per il fratello minore. Li reprime. Frustrazione e aggressività derivate. Indagare.’

Si ritrovò a scriverlo senza quasi rendersene conto. Ma rabbrividì istintivamente, perché raramente le sue deduzioni erano errate. E, se avesse puntato in quella direzione, era consapevole di andare incontro ad anni di terapia psicologica intensiva e continuata, senza garanzie di successo.
Ma le difficoltà non lo avevano mai fermato. Piuttosto spinto ad un impiego maggiore di energie e conoscenze in materia.

La casa è dove c’è lei?”

Ripeté, addolcendo lo sguardo e i toni in risposta alla tensione sempre maggiore che sentiva provenire da Dean, cercando di distendere il clima della conversazione, ma ben lontano dall’abbandonare il discorso.
Si dava il via al primo ‘botta e risposta’ tra medico e paziente; trattandosi di paziente ostile, il Dottor Holmes avrebbe dovuto iniziare ad attaccare dove faceva più male. Si parlava di terapia d’urto.

“Non è così che la pensano i servizi sociali. Lei e suo fratello, secondo la denuncia dell’insegnante di Sam, la Signora Sherry Watson, vivevate da soli in quella stanza di motel da oltre due settimane. Lei, signor Winchester, è stato trovato dagli assistenti sociali con due coltelli da caccia addosso e un'arma da fuoco illegale, recuperata durante una veloce perquisizione dei locali. È questo il concetto di casa che intende dare a Sam?”

“Fanculo, che Diavolo ne sa?”

Reazione al primo attacco: rabbia.

“Me lo spieghi lei. Io non giudico mai, signor Winchester. Io ascolto e cerco di capire. Mi aiuti lei a prendere una decisione: perché dovrei ricongiungerla a suo fratello? Alla luce dei fatti qui riportati, cosa può dirmi per convincermi che non sia più saggio per voi, se Sam venisse dato in affido mentre lei viene assistito da uno psichiatra, ovvero me, fino alla completa riabilitazione?”

“NO!”

Reazione al secondo attacco: paura.

“Sa dove si trova suo padre? Sa che, se mai lo trovassero, dovrebbe rispondere di accuse molto gravi? Si rende conto che potrebbero togliergli la custodia di suo fratello? Che potreste non rivedervi per anni?”

“La smetta!”

Reazione al terzo attacco: negazione.

Poteva bastare, Dean era disperato. Pur rimanendo molto aggressivo, la voce si era incrinata a fatta ansiosa, gli occhi erano lucidi e si era alzato in piedi di scatto. Se avesse continuato, sarebbe arrivato velocemente al suo cedimento.
Era il momento di mostrare chi aveva in mano la situazione. Il ragazzo avrebbe potuto allontanarlo del tutto o affidarsi a lui.
Il dottor Holmes era una persona misurata e mite, ma aveva capito subito una cosa: con Dean Winchester servivano le maniere forti. Avrebbe dovuto iniziare a tirare fuori le palle se voleva davvero convincerlo di essere degno del suo rispetto.

L’uomo allungò una mano e fece segno al paziente, con la massima cortesia, di riaccomodarsi sulla sedia e calmarsi. Malvolentieri, il ragazzo obbedì.

“Sono l’unica persona che può aiutarla, signor Winchester...”

“Dean.”

“Prego?”

“Mi chiami Dean, per favore. Se devo spiattellare a lei tutta la mia fottuta vita, sarà il caso che entriamo in confidenza, Doc.”

Risultato sommario prima seduta: in condizioni di proseguire.

Fortunatamente, questo particolare paziente sembrava avere molto più buon senso della maggior parte dei ragazzi problematici della sua età.
E sull’ostilità, beh... ci si poteva lavorare.






Continua...




Nda: Sono vivaaaaaaaaaaaaaaaaaaa!!! Che gli Dei mi assistano... che cosa ho fatto??!?!? Non so perché faccio questa cosa, non so come andrà a finire, non so nemmeno se nel casino assurdo della mia vita riuscirò mai a portarla a termine, ma prendo coraggio e comincio l’avventura, perché raccontare una storia è sempre bello.
Detto questo, due righe ancora, solo per chiarire che:
n.1) si, bevo roba forte;
n.2) si, il nome del dottore è barbaramente preso dal nostro amatissimo detective di Londra, del quale mi sono perdutamente e inopportunamente innamorata;
n.3) si, ci saranno parecchi riferimenti in altri nomi, perché si... vi rimando al punto 1.
ADDIO, grazie a tutti :)

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


Capitolo 2.
 


 
Gennaio 1999, Baltimore City Correctional Center - Maryland
 


Non erano tanto le sbarre ad urtare Dean. Per niente. Nemmeno la compagnia decisamente chiassosa e sboccata (persino per lui). Non erano le guardie un po’ stronze o il cibo merdoso della mensa. Si era abituato a cose peggiori.
A Dean proprio non piaceva l’odore.

Nel penitenziario c’era quel costante tanfo di chiuso, misto a qualcosa di simile al disinfettante per ambienti, ma usato con stracci sporchi. Dean era sempre stato sensibile agli odori, era normale, tutta la sua dannata vita era un continuo registrarne di nuovi, ma ce n’erano alcuni che riconosceva ovunque: la polvere da sparo, il cuoio dei borsoni, il dopobarba di suo padre e lo shampoo per bambini di Sammy (perché usava quello alla camomilla, non c’erano storie, nonostante lo negasse di continuo).
Tutte cose che viaggiavano con loro e lo facevano a sentire a casa, che lo aiutavano a sentirsi a proprio agio, persino nella peggiore delle bettole.

In carcere, la federa del suo cuscino puzzava di scarpa vecchia.
Che si fottessero i suoi compagni di cella e il loro continuo ed osceno blaterare di fica, a Dean nauseava il tanfo delle sue dannate lenzuola e avrebbe pagato oro per arrotolarle e ficcarle in gola al primo di loro che avesse ripetuto quella parola ancora una volta.
Dopo oltre un’ora passata in fila per una telefonata, con decine di ragazzoni che sputavano, urlavano, bestemmiavano e si prendevano a calci in culo, persino Dio avrebbe perso la pazienza.
Dean era al limite della sopportazione, quando finalmente toccò a lui.
 
“Dean?”

“Sammy!”

Teneva la voce bassa, bisbigliava piano per non farsi sentire. Ma l’emozione non è qualcosa che sfugge, anche se la sussurri, anche se la trattieni. Dean tremava leggermente con la cornetta nascosta nella mano e le labbra appiccicate all’apparecchio, pregando tutti i Santi in cui non credeva, che nessuno di quegli animali stesse ascoltando la sua stramaledetta telefonata.

“Sammy...”

“Dean stai bene? Dimmi che non ti sei fatto pestare da nessuno!”

Il maggiore rise col il cuore che gli martellava nel petto, felice di sentire di nuovo la voce di suo fratello, dopo giorni di suppliche continue alla direzione, che attendeva l’approvazione dei servizi sociali, che attendevano l’approvazione dello psichiatra, che attendeva... oh al diavolo! Gli mancava suo fratello minore, che cazzo c’era da approvare? Che accidenti di problema avevano tutti?

“Ma smettila, guarda che qui dentro sono io quello pericoloso!”

“Smettila tu! Non fare l’idiota Dean, ti conosco. Io sto bene! Tu pensa ad uscire presto, hai capito?”

“Sammy, io... io devo parlare con un tizio, prima di essere rilasciato.”

“Lo psicologo del carcere? Si, lo so Dean!”

“È solo che...”

Il maggiore si passò la mano libera tra i capelli corti e sospirò. Non era mai stato bravo a parole, ancora meno se si trattava di problemi che lo riguardavano in prima persona; e ora si ritrovava nelle le mani di questo dottore che non voleva altro che farlo parlare. Certo che era preoccupato!

“Sembra uno in gamba e io ho... ho questo presentimento che...”

“Dean!”

“Capirà tutto, Sammy! Ti porteranno via e non mi lasceranno più vederti!”

“Dean, smettila!”

“Devi andare via di lì! Trova papà e fatemi uscire da questo posto!”

“Basta, calmati!”

“No, tu non capisci! Quel tipo sa tutto, lo sospetta già! Lo vedo da come mi guarda, alla prossima seduta vorrà che io gli parli di te, me lo sento! Sam, che succederebbe se capisse che...”

“Cosa? Non c’è niente da capire, Dean! Tu e io sappiamo quello che siamo, giusto?”

“Devo uscire di qui! Trova papà, ok? Ho bisogno... ho bisogno di rivederti, di capire se...”

“Per l’amor di Dio, Dean, non mi hai mica stuprato!”

“Shhhh…”

Dean allontanò la cornetta coprendola con la mano e occhieggiando intorno a sé, per assicurarsi che nessuno stesse ascoltando.

“Ma sei pazzo, Sam?!”

“Sono da solo Dean, tranquillo.”

“Trova papà!”

“Credi che non ci abbia già provato? Non risponde a nessuno dei numeri d’emergenza.”

“Vorrà dire che uscirò di qui da solo e scapperemo.”

“Dean...”

“Sammy, tu... tu lo sai che...”

“Lo so, non devi dirmelo.”
 


“Winchester! Per la fica di tua madre, possiamo fare la nostra fottutissima telefonata? O devi tirarti l’uccello al telefono con la tua puttana ancora per molto??”

“Tappati quel bidone di immondizia, Parker! D-devo andare ora Sammy... a presto.”
 
Un clic. Semplice e assoluto, per mettere fine ad una telefonata che invece di semplice non aveva proprio un bel niente e i cui contenuti erano bel lontani dall’essere risolti.
Dean si ricucì addosso la tipica espressione da stronzo, per assicurarsi di riuscire ad attraversare il corridoio stracolmo di teste di cazzo sbraitanti ed arrapate, senza correre il rischio di inciampare in nessuno che volesse disgraziatamente farsi gli affari suoi.

“Parker, tua madre lo sa che succhi i cazzi qui dentro? Vuoi che glielo dica io?”

Urlò in direzione di quel particolare stronzo, Parker, che tentava di intimidirlo e comandarlo dal primo giorno che era arrivato lì.

“Vaffanculo, culo bianco!”

Dean sorrise, intimamente fiero del timore che sembrava suscitare negli altri detenuti, con ancora quel clic nelle orecchie, che aveva chiuso anche un sacco di prime volte. Era la prima volta che sentiva suo fratello da quando era stato arrestato. Era la prima volta che parlavano di quello che succedeva tra loro. Era la prima volta che si disturbava a ragionare sul perché, il quando e soprattutto il come diamine era successo tutto quel casino e come avrebbe fatto ad uscirne illeso.
 
Arrivato nella sua cella, Dean aveva cacciato a cuscinate e bestemmie il tizio con cui, malauguratamente, la divideva, interrompendo crudelmente la sega che quest’ultimo si stava facendo nella propria branda.

“Fuori dai coglioni! Sparisci per almeno un’ora che oggi non è proprio aria!”

Gli urlò stravaccandosi di schiena sulla propria branda puzzolente, incurante delle minacce di morte ringhiate dal suo compagno di detenzione, mentre obbediva e lo lasciava solo.
Shezza: spacciatore e assaggiatore professionista di cocaina. Era persino un tipo divertente, quando non gli prendevano certi patetici attacchi di astinenza.
Dean chiuse gli occhi sospirando.

La prima volta...

No, non si era mai fermato a rifletterci e probabilmente nemmeno Sammy, o non avrebbero oltrepassato quel confine. Non avrebbero mai nemmeno sbirciato oltre la linea. Eppure lo avevano fatto ed era stato così bello e così semplice che non poteva, non doveva essere sbagliato!
Cosa ne sapeva la gente comune di cosa volesse dire difendersi ogni giorno da fantasmi e demoni assassini? Cosa volesse dire proteggere un fratellino di dieci anni da creature disumane che a malapena si era in grado di affrontare? Strapparlo dal suo letto nel cuore della notte per portarlo al sicuro? Cullarlo per ore perché non poteva, non riusciva più a calmarsi e riaddormentarsi?
Cosa ne sapevano tutti di cosa volesse dire crescere e diventare uomo, con l’unico scopo di tenersi il proprio fratello attaccato alla chiappe, sempre, ovunque, perché era il bene più prezioso al mondo e mai nella vita avrebbe permesso a nessuna lurida creatura, che strisciasse sopra o sotto terra, di separarlo da lui?

Nessuno poteva giudicarli, nessuno poteva capirli. Nemmeno loro padre.

A diciannove e quindici anni non erano che ragazzini infreddoliti, stretti in un letto solo, sotto coperte troppo leggere, in una stanza di motel buia e fredda che avevano occupato senza pagare, forzando la serratura e pregando che nessuno li scoprisse e li cacciasse via, di nuovo al gelo. Tanta, troppa paura di cosa c’era fuori dalla porta e di essere fuggiti senza aver dato le giuste coordinate al padre, per ritrovarsi.

“Io non ho paura, Dean. Ci sei tu con me...”

A diciannove e quindici anni erano bastate quelle parole sussurrate con coraggio e gli occhi di entrambi così vicini, per capire che i confini non erano stati ideati per quelli come loro. Erano bastati respiri e brividi sulla pelle, mani che scivolavano sotto i vestiti, carezze di conforto reciproco che diventavano (con spaventosa velocità e naturalezza) un toccarsi troppo intimo; labbra buone e famigliari, baci umidi e gambe intrecciate.

Era successo.

Era un bisogno, un esigenza: quella di essere uniti, perché da soli non potevano farcela. Era una necessità: quella di fondersi, perché solo così avrebbero potuto stare sempre insieme. Era tutto a posto, era tutto giusto. Quando baciava Sam, si sentiva bene come in nessun altro modo.
E non c’era altro da raccontare.
 

Dean aveva appena cominciato a farlo e già sapeva che rimuginare sulle cose non gli piaceva. Per niente. Come cavolo faceva a spiegare a se stesso che si, quello che faceva con Sam, per gli tutti gli altri aveva un nome? Ed era incesto.
 

 
 
Febbraio 1999, Studio privato del dottor William Holmes, Baltimore – Maryland
 

John Winchester si era presentato presso il Baltimore City Correctional Center, accompagnato da un alto funzionario governativo, esattamente una settimana dopo la prima seduta psichiatrica di Dean.
Venti minuti dopo il loro ingresso nell’ufficio del direttore, suo figlio era stato rilasciato e affidato di nuovo alla sua custodia, sotto la supervisione del funzionario sopra citato.
Unico vincolo per il rilascio: proseguire con la valutazione psichiatrica in corso.
Sam era tornato in famiglia il giorno successivo.

Al dottor Holmes non era stata fornita alcuna spiegazione, né gli era stato richiesto alcun consulto sulla decisione di rilasciare il ragazzo e farlo tornare sotto la responsabilità del padre.
Consulente governativo, in operazioni finanziarie strettamente riservate.
Ecco quanto gli era stato concesso di sapere sulla professione dell’uomo.

Aveva poi ricevuto diverse telefonate, da più di un ufficio statale, che lo invitavano caldamente a seguire le istruzioni del signor Winchester e collaborare con lui affinché tutto si risolvesse con la piena riabilitazione del figlio maggiore.
Le minacce non erano mai state cose in grado di spaventare il dottore. Era più preoccupato dall’idea di non avere la certezza che quei due ragazzi fossero al sicuro con il loro stesso padre.

Che tipo d’uomo era John Winchester?

Aveva appreso, con sempre maggiore disappunto, di non dover più preoccuparsi della sua valutazione, visto che l’uomo aveva provveduto metodicamente a fornire le dovute spiegazioni e rassicurazioni sulla propria salute mentale ed assoluta idoneità genitoriale.
Non gli era stato concesso nemmeno di visionare la documentazione prodotta, e questo innervosiva non poco il dottor Holmes, professionista abituato a trovare sempre la risposta ad ogni questione sottopostagli.
Avrebbe di certo continuato le sedute con il ragazzo, senza farsi minimante influenzare dalle spinte ricevute dall’alto.

Se John Winchester intendeva ridicolizzare e vanificare lo scopo del suo lavoro, aveva trovato contro chi scontrarsi.
 


Nel suo studio regnava il silenzio più assoluto, come sempre dopo che usciva un paziente e il successivo si preparava al proprio turno.
Il dottore necessitava di quel breve ma importante lasso di tempo per concentrarsi sulla seduta appena svoltasi e appuntare sulla scheda del paziente tutto ciò che ne aveva tratto o dedotto. Rifletteva e scriveva senza filtro tra un passaggio e l’altro, lasciando che le sue impressioni, anche le più vaghe, finissero nero su bianco; nulla doveva andare perso, nulla era trascurabile nella sua professione.

Terminata la trascrizione, Holmes si accomodò contro le schienale della poltrona, massaggiandosi gli occhi per qualche istante.
Inspirò ed espirò piano. L’appuntamento successivo era con Dean Winchester.
Rimessa ogni altra carta al proprio posto nei cassetti, il fascicolo del ragazzo troneggiava al centro della scrivania.

La poltrona del suo studio privato era senza dubbio più comoda della sedia del penitenziario, si ritrovò a pensare. Sarebbe stato istruttivo osservarlo al di fuori della struttura detentiva, ora che si era ricongiunto al padre a al fratello. Non era assolutamente felice della situazione, né la approvava minimamente, ma era un’ottima occasione per poterlo studiare in condizioni ‘normali’.
 
“Fai entrare il ragazzo, Clarisse.”

Avvisò la sua assistente al telefono e attese; le mani congiunte sotto il mento e i gomiti appoggiati alla scrivania.
Il sorriso gentile che spontaneamente rivolgeva a tutti i ragazzi di cui si occupava, si tramutò in sincero stupore quando ad entrare non fu Dean, ma la figura imponente di un uomo dai capelli scuri e gli occhi penetranti, scarponi militari e un logoro cappotto di pelle.

“Buonasera, dottor Holmes.”

Educatamente si alzò, girando intorno alla scrivania per andare incontro all’uomo e stringergli la mano che aveva porto in saluto.

“Buonasera... signor Winchester.”
 
 
 


Continua...
 
 
 
 
 
Nda: E bo, niente, non so che dire XD Comincio col ringraziare nuovamente TUTTI dell’accoglienza e l’interesse per la storia; sono sempre lusingata che qualcuno apprezzi i parti della mia immaginazione deviata. Volevo solo aggiungere che non durerà molto e che il prossimo capitolo lo pubblicherò la settimana prossima, senza intoppi. Spero di mantenere un ritmo regolare fino al termine e spero soprattutto di non deludere le aspettative di nessuno. Per concludere, DOMANDONE (poi sparisco): Qualcuno di voi ha capito chi era l’alto funzionario governativo che ha accompagnato John in carcere?? Eheheheh poteva essere solo lui! ;)
Un bacione e alla prossima!
 

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


Capitolo 3.
 

 

Febbraio 1999, Studio privato del Dottor William Holmes, Baltimore – Maryland



 

“A cosa devo la sua visita, signor Winchester?”
 

Dopo averlo fatto accomodare sulla poltrona di fronte alla sua e averlo osservato attentamente, il dottor Holmes aveva già avuto modo di appurare che John non fosse per nulla leggibile quanto il figlio maggiore.

Di certo la formazione militare era palese: di fronte a lui, in quel momento, sedeva un soldato, non un padre.
L’aspetto esteriore era poco curato, anche se non sgradevole o eccessivamente trasandato. Al dottore diede l’impressione di avere un ché di affaticato. Un uomo rigido, poco espansivo, non sorrideva, né gesticolava in maniera particolare. Difficile dedurre altro, ma il colloquio era appena iniziato.

“Mio figlio è qui fuori, volevo solo avere l’occasione di ringraziarla.”

“Per cosa?”

Seduto alla propria scrivania, col fascicolo di Dean di fronte, Holmes mantenne quanto più possibile il tono della sua voce neutro e fermo, ma non tentò nemmeno di nascondere la propria curiosità in merito al loro caso.
 
“Dean mi ha riferito che lei è in gamba e che lo ha trattato bene.”

“Non farei il mio lavoro, altrimenti.”

“Confido che continuerà su questa linea e che la situazione possa risolversi al più presto, nel migliore dei modi. Per tutti.”
 

Un brav’uomo. Certo, aveva un aria piuttosto dura che in qualche modo intimoriva anche lui, ma Holmes non si sbagliava quasi mai e John Winchester non era un cattivo padre. Cosa lo avesse spinto a lasciare i figli armati in una stanza di motel, non era informazione in suo possesso e sembrava proprio non lo sarebbe mai stata, ma una motivazione c’era ed era qualcosa di ‘grosso’, di importante.
Sapeva che non era la prima volta, lo aveva intuito. Dean e Sam erano abituati a stare da soli, a cavarsela, probabilmente proprio il padre li aveva istruiti per affrontare situazioni del genere, perché era certo si sarebbero presentate.
Dean si fidava di suo padre, gli aveva raccontato di lui e di quanto si erano detti.
John era chiaramente venuto a parlargli per invogliarlo a chiudere velocemente con la valutazione e lasciare la città coi figli, continuando a fare quello che avevano sempre fatto.

Che fosse la cosa giusta, però, il dottore non avrebbe saputo dirlo.



Dean aveva chiari problemi di aggressività e, quale che fosse il motivo, aveva accesso ad un certo numero di armi da fuoco e da taglio. Non era accettabile, né si poteva descriverlo un dettaglio trascurabile.
 
“Per quanto insistenti siano state le pressioni in suo favore, Signor Winchester, ho il dovere di informarla che non sono il genere di medico che chiude un fascicolo come quello di suo figlio, senza aver svolto il suo lavoro come si deve.”

“Non le chiedo questo. Dean collaborerà e si presenterà ad ogni seduta lei riterrà necessaria.”

“Perché è venuto qui, allora?”

Non rispose.

John Winchester sorrise dopo averlo guardato negli occhi per pochi secondi, prima di alzarsi con lentezza dalla poltrona e porgergli nuovamente la mano. Pochi secondi in cui, per la prima volta nella sua vita, il dottor William Holmes ebbe la sensazione di essere catapultato nei panni di uno dei suoi pazienti.

“Perché volevo parlarle di persona, dottore.”

Quell’uomo era venuto lì solo per osservarlo. Ed evidentemente aveva visto quanto gli serviva vedere, proprio come faceva lui coi soggetti in cura. Holmes non poteva che ammettere di essere inquietato e allo stesso tempo affascinato dall’acume che dimostrava questa persona. Ammirato, a dirla proprio tutta.

Si strinsero la mano energicamente e si salutarono, studiandosi ancora entrambi con estrema attenzione e interesse.
 
Aperta la porta, Dean era pronto sulla soglia e il dottore lo vide scambiarsi uno sguardo e una parola con il padre, prima di darsi il cambio ed entrare nel suo ufficio.


 

“Giorno Doc!”

Un sorriso felice tirava le labbra del ragazzo, mentre Holmes appariva ancora vagamente nervoso, per essere appena stato esaminato dal padre di uno dei suoi pazienti. La situazione avrebbe anche potuto sembrare buffa ad un occhio esterno, ma estremamente affascinante da un punto di vista professionale.
 
John Winchester: padre assente, figura certamente intimidatoria, severa ma decisamente affascinante, che suscitava rispetto, amava i propri figli, teneva alla loro istruzione e sicurezza, partecipava attivamente alla loro educazione; eppure li lasciava regolarmente da soli in stanze di motel per settimane, armati fino ai denti.

Come conciliare i due aspetti? C’era materiale su cui indagare.

L’unica cosa che avrebbe potuto spiegare, anche se non giustificare, una cosa del genere, sarebbe stato conoscere i dettagli del suo lavoro ed era, a quanto aveva capito, l’unica informazione alla quale non aveva accesso.
 
“Accomodati pure, Dean. Mi ha fatto piacere conoscere tuo padre.”
 
“Eravate già pronti ad ingabbiarlo, eh?”
 
“Non è mio compito giudicarlo, io sono qui per...”
 
“Strizzarmi il cervello, lo so!”

Il ragazzo era decisamente più rilassato della precedente seduta. Il ritorno del padre e il ricongiungersi al fratello, gli avevano chiaramente dato sicurezza. Il dottore sperava solo che questo non avesse richiuso la breccia che si era scavato durante il loro primo incontro, guadagnandosi la sua fiducia.

Si alzò dalla poltrona e si sporse verso Dean per una stretta di mano cordiale.

“Preferisco definire i nostri dei... ‘colloqui introspettivi’, cosa ne dici?”

“Strizzacervelli era più divertente!”

Il dottore sorrise in risposta all’allegria di Dean. Era un ragazzo simpatico.
 


Si sedettero all’unisono ai rispettivi posti, uno di fronte all’altro. Holmes rimase qualche secondo in silenzio, intento a compilare i primi dati sulla scheda del paziente.

“Sembra quasi uno serio con quel vestito cucito addosso.”

Il dottore rise divertito, rialzando gli occhi su di lui per un secondo.

“Mera necessità di professione, temo. Ma lo prendo per un complimento, grazie.”

Dean portava i soliti jeans sgualciti e una camicia a quadri pesante, sopra ad una t-shirt nera. Holmes, invece, in studio indossava sempre abiti formali, così come era costume nel suo ambiente; il completo scuro di sartoria che indossava quel tardo pomeriggio, così come la camicia bianca senza cravatta, mettevano in evidenza la figura sottile, il pallore della pelle e l’azzurro chiaro degli occhi. L’unico dettaglio che poteva definirsi ‘non curato’, erano i capelli; folte onde more che ricadevano disordinate dietro le orecchie.
 
Finito di compilare le prime note, l’uomo si accomodò sulla sua poltrona e riportò la sua attenzione sul paziente.

“Di cosa ti piacerebbe parlare, Dean? Non dobbiamo per forza iniziare con cose spiacevoli, non voglio importi una confidenza che ancora non hai con me.”

Il ragazzo tornò immediatamente serio e lo fissò più intensamente.

“Oh, andiamo, non faccia l’ingenuo! Io voglio che questa cosa finisca, lei vuole capire se sono un potenziale pericolo per la società, giusto? Mi faccia le sue domande e io risponderò!”

E tanti saluti al raccontargli la sua ‘fottuta vita’, pensò il dottore. Certo, lo immaginava. L’arma piuttosto bieca che aveva usato, ricordandogli che non avrebbe potuto vedere suo fratello finché non lo avesse concesso lui, se l’era giocata grazie a misteriosi interventi dall’alto, la cui legalità era tutt’ora in dubbio.


Restava da fare una cosa sola: andare al sodo.
 
“Parlami di tuo fratello, allora.”

Il cambiamento di Dean fu immediato. A dispetto della scorsa seduta, fu in grado di mantenere meglio la calma e mascherò il disagio continuando a sorridergli, ma il suo corpo, come detto, parlava. E parlava estremamente chiaro.
Irrigidimento, dilatazione delle pupille, mascella serrata, pugni chiusi.
Quel ‘frustrazione sessuale’ che aveva appuntato la volta precedente, ritornò con prepotenza tra l’elenco dei nodi da districare.

“Come mai le interessa tanto Sam, potrei saperlo? Pensavo di essere io quello fuori di testa.”

Chiese, visibilmente teso.

“Non ti mentirò, Dean. Sospetto che tu sia aggressivo specialmente quando c’è di mezzo lui. Ti ripeto che non sono qui per giudicare, ma capirne il motivo aiuterebbe me a valutare quanto questo possa essere un pericolo per la società, e aiuterebbe te a non metterti nei casini per le stesse ragioni.”

Il ragazzo sorrise, pareva essersi rilassato sensibilmente.

“Lei parla sempre chiaro, Doc. Mi piace.”

“Anche tu mi piaci! Sono propenso a credere che la mia valutazione sarà in tuo favore, senza girarci intorno. A dirla tutta, quello che più mi preoccupa è il fatto che tu abbia accesso all’uso di armi da fuoco e che le sappia usare. Non avendo potuto indagare sui motivi, quello che vorrei appurare dai nostri colloqui, è se sia opportuno che le cose vadano avanti come sono sempre andate, o se io debba in qualche modo intervenire per cambiarle. Mi capisci?”

“So usare le armi, si. Anche Sam le sa usare, ce lo ha insegnato nostro padre. Ci lascia spesso soli per ragioni che non posso spiegarle, ma crede che lo farebbe se non si fidasse di me? Le abbiamo per difenderci.”

“Difendervi da chi? Non trovi che sia poco come spiegazione? Mettiti nei miei panni, Dean.”

“Non ci aveva mai lasciati così a lungo, prima. C’era sempre qualcuno incaricato di tenerci d’occhio. Persone di fiducia, mi creda! Ho appena compiuto vent’anni, Doc, sono più che affidabile e posso occuparmi di Sammy da solo. Non farei mai del male a lui o a me stesso o a nessuno altro. A meno che non se lo meritino, ovvio!”

“Fermo un secondo, Dean! Tu chi saresti per giudicare chi se lo merita o meno?”

“Intendo dire che se mai io fossi davvero un pericolo, lo sarei solo per i mal’intenzionati. Se può credere questo, allora la valutazione è terminata.”



Iperprotettività.

Il dottor Holmes era di fronte ad uno degli esempi più lampanti che avesse mai avuto l’onere di diagnosticare. E non si trattava solo del fratello minore, ma dell’intero nucleo famigliare, dell’intera struttura psico-emotiva che costituiva la loro esistenza.
Dean proteggeva uno stile di vita. E Holmes non aveva idea di che genere di vita si trattasse, di che genere di vita fosse quella che richiedeva un tale livello di attenzione, protezione e segretezza.

Sospirò, stropicciandosi gli occhi con le dita. Era come girare in tondo senza mai centrare il punto.

Riportò lo sguardo sul ragazzo: Dean lo fissava negli occhi, sempre, e con una certa insistenza. Il dottore ne percepiva il crescente nervosismo, in completo contrasto con la scioltezza mostrata poco prima; era bastato nominare suo fratello. Poteva chiaramente leggere l’ansia e il bisogno urgente di arrivare da qualche parte. Voleva dirgli qualcosa eppure non sapeva da dove iniziare.

Capì all’istante che il suo compito era di fare le domande giuste.

Si appoggiò allo schienale della poltrona, le mani congiunte di fronte a sé, appoggiate alla scrivania. Sostenne il suo sguardo, era fondamentale mantenere il contatto visivo.

“Francamente, Dean, sono bastate queste poche parole per mettermi ancora più in allarme. Non potendo conoscere certi dettagli della vostra famiglia, mi trovo in serie difficoltà con lo svolgersi della nostra terapia. Tutto quello che ho, siete tu e tuo fratello. Tu e un qualcosa di estremo che ti spinge alla violenza, pur di non separarti da lui. Sono costretto a procedere su questa strada, consapevole del fatto che sei sempre tu a scegliere se raccontarmi la verità oppure no.”

Francamente, Doc, io penso che lei sappia tutto quel che c’è da sapere. Non mi chieda come, ma più la ascolto, più sono convinto di non avere tutta questa libertà di scelta, di fronte a qualcuno che la verità l’ha già capita.”

Sgranò gli occhi, non poté evitarlo.

Alla soglia dei suoi quarant’anni, ben poche cose, oramai, erano in grado di stupire il dottor Holmes. Dean Winchester non aveva mai smesso di sbalordirlo da quando lo aveva conosciuto.
Tutto si sarebbe aspettato, fuorché un’ammissione tanto veloce, semplice, pulita e assoluta.
L’espressione del suo viso tradì la sorpresa, seppure per pochi istanti. Dean invece era una statua, tenuta insieme per chissà quale miracolo, da un miscuglio informe di sentimenti aggrovigliati: paura, tensione, colpa e... speranza?
Il dottore si accorse di aver trattenuto il fiato, così come il suo paziente, sempre più rigido sulla poltrona comoda di fronte alla sua.

Incesto, quindi.

Nessuna repressione, consapevole, volontario e consumato ripetutamente, avrebbe osato aggiungere.

Non giudicare, William. Non giudicare. Ascolta, capisci.

Si concentrò sul suo pensiero, focalizzando lo scopo della seduta e riportando ordine nel caos di domande e deduzioni che stavano affollando la sua mente.

Fai le domande giuste.



 
“Sembra turbato, Doc.”

Il ragazzo parlò per primo, spezzando l’opprimente silenzio che era calato da qualche minuto. Un errore imperdonabile, si rimproverò il dottore; non era accettabile mettere a disagio il paziente, mostrandosi colpito in qualche modo dalle sue confidenze.

Dean continuava a guardarlo preoccupato, come attendendo la sua reazione, mettendolo alla prova. Holmes non ricordava di aver mai avuto pazienti, nell’arco della sua carriera, in grado di farlo sentire costantemente sotto esame, come questo ragazzo.

Si schiarì la voce, restando comodamente appoggiato allo schienale.

“Tralasciando per un secondo tutto quello che è il discorso morale sull’incesto, Dean, sei cosciente del fatto che tuo fratello Sam sia minorenne?”

“Si.”

“Da quanto tempo?”

“Le cose sono cambiate... molto cambiate, da quando siamo qui a Baltimore. Ma non.. n-non abbiamo mai… insomma, ha capito.”

Evento scatenante: recente, forse traumatico. Approfondire.

Prese ad appuntare velocemente ogni dettaglio, senza nemmeno guardare i fogli, per non rischiare interrompere il flusso di informazioni alle quali stava avendo accesso.

“Suppongo Sam sia consenziente.”

“Ma certo che si! Non farei mai del male a mio fratello!”

“Vostro padre sa?”

“NO!”

Vergogna? No, c’è dell’altro.

“Chiariamo subito una cosa, Doc. L’unico motivo per cui non ho alcun interesse a mentirle su questo, è la certezza che lei non lo rivelerà a nessuno!”

Paura di deludere suo padre.

“In realtà io non sono un prete, Dean, ma si: posso garantirti completa riservatezza sulle nostre sedute. Tu però devi essere sincero fino in fondo. Perché hai voluto che io lo sapessi?”

“Perché…”



Per la prima volta da quando si era accomodato di fronte a lui, Dean smise di fissarlo abbassando lo sguardo sulle mani del dottore, ancora congiunte e appoggiate alla scrivania. Sotto di esse, il suo fascicolo aperto. Holmes attese, paziente.

Pochi secondi, prima rialzare la testa e tornare a fissarlo negli occhi.

“Perché voglio che lei mi faccia smettere.”

L’uomo vide una scintilla tra il verde disperato delle sue iridi, un bagliore di speranza, forse, o forse solo il riflesso dorato del tramonto che filtrava dalla grande finestra alle sue spalle e illuminava perfettamente il viso del ragazzo di fronte a lui, lasciando intravedere l’innocenza di un sentimento che era vero, quanto sbagliato.

“Mi faccia smettere, Doc. Mi aiuti.”
 


Risultato sommario seconda seduta: problemi di aggressività associati ad estrema iperprotettività nei confronti del fratello minore, col quale intrattiene relazione incestuosa recente e consensuale; paziente pienamente consapevole delle problematiche relative.
 


“Sono qui per questo, Dean.”
 
 
 
 
 
Continua...
 
 
 
 
 
 
Nda: Salve a tutti! Eccoci qui, le cose iniziano a farsi complicate... per me, eh! Non per voi! X’D Sarò molto probabilmente incapace di venirne fuori con decenza, sappiatelo! Comunque... che ne pensate fin qui? Mi farebbe piacere saperlo e sarò felice di rispondere ad ogni vostro dubbio, se per caso ho omesso di spiegare qualcosa. Il capitolo quattro è a buon punto, sono speranzosa che non mi sfugga tutto di mano, visto e considerato il fatto che i fratellini Winchester tendono a farlo... *amori loro che voglio solo stare vicini vicini e sbaciucchiarsi e toc...----------------* OK! Vi saluto e alla prossima ;) Spero di essere puntuale!  Baciiiiiiiiiiiii
Ele

 

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Capitolo 4
*** Capitolo 4 ***


Capitolo 4.
 
 

 
 
Febbraio 1999,  Periferia di Baltimore - Maryland
 


Gli piaceva l’odore dell’erba umida, la mattina presto.
L’aria fredda che pizzicava le guance, lo sbuffo bianco del fiato caldo. Forse cadeva anche qualche fiocco di neve, troppo fine per distinguerlo dalla pioggia sottile.

C’era un piccolo parco giochi, dietro il trilocale che avevano affittato, Dean sedeva su una delle altalene e si dondolava lentamente con una gamba; si era acceso una sigaretta.

Niente motel, almeno per qualche tempo; non sapevano quanto ancora avrebbero dovuto restare a Baltimore e non era il caso di destare ulteriori sospetti sulle loro precarie condizioni abitative.

Mentre qualche debole raggio di sole riusciva a stento ad oltrepassare le coltri di nuvole bianche, cariche di umidità, Dean non pensava proprio a niente. Si sentiva svuotato, ma non come quando ci si libera la coscienza; non era un senso di pace, piuttosto l’impossibilità di sopportare altre ondate di sentimenti e verità esistenziali schiaccianti.

John era uscito prima di lui, doveva recarsi con Bobby in chissà quale ufficio statale per firmare chissà quali carte per il rilascio. Le carte sembravano non essere mai abbastanza.
Sam dormiva, si sarebbe svegliato di lì a poco per andare a scuola.
Dean non aveva dormito affatto.
Si era alzato prima dell’alba, si era infilato gli scarponi, un berretto e il cappotto più pesante che possedeva, ed era uscito a fare due passi nel parco, al gelo.

Gli sembrava di non esistere più, di essere inutile. Era come un fantasma che galleggiava appena al di fuori del suo corpo, con l’unico scopo di osservare impassibile quell’idiota di se stesso, mentre si congelava le chiappe su un’altalena per bambini.

Quando sarebbe finita? Come? Quando avrebbe potuto riprendere a fare l’unica cosa che sapeva fare? Cacciare con suo padre e proteggere suo fratello.
Quando avrebbe potuto dimenticare tutto?
Mai. Perché Dean, seduto davanti a quell’uomo dagli occhi impenetrabili, aveva fatto una scelta diversa: aveva scelto di esporsi, di fidarsi di lui. E non era mai successo prima con qualcuno che non fosse John, Bobby o Sam.
Aveva scelto di far uscire allo scoperto il mostro che sentiva crescergli dentro. E di ucciderlo per sempre.
Ma quel ‘mostro’ aveva gli occhi, la voce e il cuore di Sammy e Dean lo amava con tutto se stesso. Quello che sentiva di dover fare, ovvero fermarsi e rimettere i paletti là dove era giusto che stessero, equivaleva ad estirparsi a morsi i sentimenti sinceri che provava per lui.
 


“Se papà ti becca, ti rispedisce in carcere...”
 
E stava fumando, si. Perché dannazione ci stava, ci stava eccome. Era nervoso, forse stava tradendo la fiducia di suo fratello, lo avrebbe perso per sempre e ne aveva una paura fottuta. Una sigaretta non lo avrebbe di certo ammazzato.
Si voltò e alzò lo sguardo su Sam, in piedi in parte all’altalena con quattro strati di maglioni addosso, che non riuscivano comunque a farlo sembrare meno magrolino e indifeso.
Le guance arrossate dal freddo, ciuffi di capelli bruni che uscivano scomposti dal berretto e sbuffi di aria calda dalle labbra screpolate. Un paio d’occhi dolci e brillanti, che lo guardavano come fosse tutto il suo mondo.

“Sono le sue... se smette lui, smetto anche io.”

“Papà non fuma!”

Rispose il minore, sedendosi sull’altalena in parte alla sua.

“Oh si! Credimi, ci sono parecchie cose che ancora non sai, Sammy!”

Gli sorrise, ma era stanco e teso, il fratello non poté non accorgersene e si fece immediatamente serio.
Lo fissò negli occhi con insistenza.

“E cos’altro non so, Dean?”

Il maggiore distolse immediatamente lo sguardo. Si sentiva profondamente a disagio in quel momento, eppure la sua doveva essere la scelta giusta, per quanto difficile e dolorosa, doveva farlo, doveva per entrambi.

Non sapeva se davvero il dottore sarebbe stato in grado di aiutarlo a smettere di amare suo fratello, come non era giusto amare un fratello. Non sapeva se Holmes avrebbe potuto capirlo veramente, considerando il fatto che non avrebbe mai potuto raccontargli l’agghiacciante verità.
Quello che sapeva, era che Sam aveva quindici anni e un trauma bello grosso alle spalle (forse più di uno), che non aveva mai avuto una ragazza e che un giorno l’avrebbe avuta.
Allora, proprio allora, Sam avrebbe compreso e sarebbe inorridito di fronte a quello che avevano fatto.

Nulla oramai avrebbe cambiato quello che era già successo: sarebbe rimasto per sempre il primo ad averlo baciato, ad averlo toccato in quel modo. Ma poteva ancora fermare tutto, per Sam, perché lo amava. Doveva fermarsi, prima di non controllarsi più, prima di prendersi egoisticamente quello che desiderava quasi con violenza, ed impedire a suo fratello di vivere la sua vita, come invece era giusto che facesse.

Gettò a terra il mozzicone e lo spense con un piede.
Iniziò a nevicare.

“Credi che non mi accorga che c’è qualcosa che non va?”

Continuò il minore, con quel suo tono calmo e comprensivo; mentre lo ascoltava, Dean inspirò il buon odore dell’inverno. Sapeva che sarebbe successo, a Sam non sfuggiva mai niente.

“Dean, a malapena mi parli da quando...”

“Ho detto al dottor Holmes di noi due.”

Lo confessò senza rifletterci e quello sì che gli sembrò un bieco tentativo di liberarsi la coscienza.
Sam si mise in piedi di scatto per pararsi di fronte a lui, la calma completamente svanita, il respiro accelerato e gli occhi spalancati.

“Tu cosa?”

Dean si alzò lentamente e si avvicinò al fratello; finalmente lo guardò, ad un respiro uno dall’altro; allungò la mano e la poggiò sulla sua guancia fredda.

“Mi dispiace... so che probabilmente non mi perdonerai mai, Sammy.”

Quest’ultimo scostò il viso e si sottrasse con violenza a quella carezza. Era terrorizzato.

“Deve essere così... e lo sai anche tu!”

“NO!”

Il minore lo spinse lontano, facendo pressione con le mani contro il suo petto.

“Hai idea di cosa succederà ora? Non... non puoi averlo fatto sul serio!”

Sam si piegò in avanti e si sostenne poggiando le mani sulle ginocchia, il respiro spezzato, la voce rotta.
 
“Holmes mi ha promesso che non farà nulla di drastico, siamo fratelli Sam! Non mi proibirà di continuare ad esserlo. Solo...”

“Smettila! Sta zitto, zitto! T-tu sai cosa...sai cosa mi stai facendo?”

Dean tentò di avvicinarsi di nuovo per calmare quello che si rese conto essere un principio di attacco di panico; Sam ne aveva già avuti alcuni da quando erano a Baltimore, Dean aveva imparato a riconoscerli. Fece per poggiare la mano sulla sua spalla, ma suo fratello la scacciò via di nuovo in malo modo.
Si rialzò e lo trapassò con gli occhi, ancora in piedi uno di fronte all’altro, la neve che iniziava a cadere sempre più fitta sopra le loro teste.

“Gli hai detto... gli hai detto cosa è successo quella notte? Quando siamo scappati?”

“No, Sam. Sai che non potrei!”

“Allora non capirà... come vuoi che capisca cosa siamo, chi siamo uno per l’altro?”

“Sam, tu sai che non durerà per sempre! Che se non smettiamo con questa cosa...”

“Quale cosa? Dagli un nome, dannazione! Non c’è niente da smettere!”

Il maggiore, ormai al limite, scattò verso di lui e lo afferrò per le spalle.

“Quanto tempo passerà ancora, prima che entrambi commettiamo l’errore più grosso della nostra vita? Quanto?”

Chiese alzando la voce, intrisa di paura e frustrazione.
Sam indietreggiò di poco, sorpreso più che impaurito dall’improvvisa reazione di Dean.

“Non farmelo dire, Sam! Non... non farmi dire che non so più quanto ancora riuscirò a trattenermi, quando noi... quando noi...”

Il maggiore abbassò la testa incapace di continuare, la sua voce si spense prima di riuscire a terminare la frase.
Tremando appena, Sam posò una mano sotto al suo mento e lo costrinse ad alzare il viso e guardarlo.

“Spero tu smetta di trattenerti prima possibile!”

Dean arrossì e gli lasciò andare le braccia; distolse immediatamente lo sguardo sopraffatto dal candore e l’innocenza con cui Sam gli si stava offrendo.

“Non sai quello che dici!” Rispose, indietreggiando. “Lo sto facendo anche per questo. Tu non capisci... sei solo un ragazzino. Spingi perché succeda una cosa dalla quale non c’è ritorno, dalla quale dovresti solo fuggire! Dovresti allontanarti da me e volere che accada con la persona giusta.”

“Sei tu la persona giusta!”

Gridò Sam, disperato.

“Smettila... ti prego smettila.”

Dean non si era nemmeno accorto del momento in cui le prime lacrime avevano iniziato a rigare le guance di suo fratello, ma ora che lo guardava, ora che aveva di fronte la sua disperazione in tutta la sua drammatica verità, si sentì spezzato, terribilmente fragile e pronto a cedere al loro bisogno di stare assieme. Ma non poteva… non poteva!

“Continueremo ad essere fratelli, Sam... com’è giusto che sia.”

Si costrinse a pronunciare quelle parole, mentre dentro urlava e infuriava una guerra, mentre ogni fibra del suo essere avrebbe voluto stringerlo forte e rimangiarsi tutto, mentre ogni sua cellula sembrava spingere il suo corpo verso quello di Sam e opporsi alla forza di quegli impulsi diventava ogni minuto più difficile.
Doveva farlo, doveva farlo prima che fosse troppo tardi.

“Sam...”

Quest’ultimo aveva semplicemente smesso di parlare e di guardarlo, puntando gli occhi lontano, in punto imprecisato del parco, oltre il velo di nebbia che ancora galleggiava sopra le loro teste.
Dean tentò di nuovo un contatto, gli sfiorò le dita di una mano con le sue, la teneva abbandonata lungo i fianchi.
Cercò di stringergliela delicatamente.

“Sammy...”

“Devo andare a scuola. La professoressa Watson mi tiene d’occhio.”

Ritrasse la mano e si incamminò veloce verso casa, senza degnarlo di uno sguardo.
 


Che non sarebbe stato affatto facile, Dean ne era consapevole fin dall’inizio, esattamente come aveva sempre saputo qual era la cosa giusta da fare.
 
‘Lo stai abbandonando. Lo stai lasciando solo.’ Si ribellava e gridava forte il suo cuore.
‘Non è tuo... non deve esserlo. Lascialo andare...’ Rimbombava l’eco della sua mente.
 
Sarebbe impazzito sul serio, Dean se lo sentiva.
Si strinse nel cappotto pesante, avvertendo ogni muscolo irrigidirsi e non certo per il freddo.
Era come domandare a se stessi di scegliere tra il farsi asportare il cuore oppure il cervello. Si sentiva dilaniato, perso in un vortice di sentimenti così potenti da stordirlo e lasciarlo inerme a terra, schiacciato.
 

Dean aveva vent’anni, dormiva con un pugnale sotto il cuscino e il fratello accoccolato addosso (quando e se il padre non era nei paraggi). Aveva ucciso un numero imprecisato di mostri terrificanti e conosceva ogni tecnica esistente per ammazzare un essere umano nei modi più dolorosi e violenti.
 
Eppure non aveva la più pallida idea di come sarebbe sopravvissuto a tutto questo.
 
Quello che provava per Sam, non solo era ricambiato, ma suo fratello sembrava averne un insano ed estremo bisogno, per superare quello che era successo quella dannata notte di dicembre in cui tutto tra loro era cambiato.
 
‘È colpa mia... e spetta a me rimediare.’
 
Pensò, mentre si incamminava, lento e a testa bassa, verso casa, dietro Sam.
 
‘Lascialo andare...’
 
 

***
 
Quella stessa sera, John e Bobby avevano avvertito i ragazzi che sarebbero rientrati l’indomani pomeriggio; era tempo di attivarsi e procurarsi nuove identità false, per quando avrebbero potuto lasciare Baltimore.
 
Dean si era coricato nella sua stanza, era esausto ma gli occhi non volevano saperne di chiudersi, si sentiva svuotato. Sam non gli aveva più rivolto la parola dopo quello che si erano detti al parco quella mattina.

Era quasi in procinto di provare a sperimentare gli effetti collaterali della privazione del sonno, si sarebbe acceso volentieri un’altra sigaretta per cercare di calmare i nervi, quando sentì la porta aprirsi lentamente e vide un paio di piedi magri e nudi varcare la soglia.
Capelli sconvolti e occhi arrossati, Sam si avvicinò piano a lui, senza dire nulla.

Dean avrebbe dovuto fermarlo, avrebbe dovuto mandarlo via, invece rimase immobile quando poggiò un ginocchio sul materasso, salì sul letto e si accoccolò contro di lui poggiandogli la testa sul petto.

Il maggiore sentì qualcosa incrinarsi dentro e fare un male d’inferno, così come sentì le lacrime pungergli violente dietro le palpebre, che finalmente aveva chiuso.
Sospirò e si lasciò calmare dal profumo di pulito dei capelli di Sammy. Vi fece scorrere le dita come piaceva a lui, erano morbidi e sottili e gli solleticavano la pelle, finché lo sentì rilassarsi e riconobbe il respirare ritmico del sonno. 
 
‘Come faccio? Come faccio a lasciarlo andare? Lui è tutto quello che ho.Cuore.
‘Non è mio... non lo sarà mai.’ Mente.
 
Si addormentò pochi attimi dopo, stringendo Sam tra le braccia e ascoltando il suono del suo cuore battere contro il proprio corpo.
 
 
 
 
 




 
Continua...
 
 
 
 
 
Nda: Si, lo so che sono in ritardo e che il capitolo fa schifo. E’ pure cortissimo, me ne rendo conto! Solo che debbo partire con la narrazione di eventi precedenti, quindi... Ho troncato qui, spero mi perdonerete. X’D
La maledetta notte di dicembre... sarà giunta l’ora di scoprire cosa è successo? Penso proprio di si. Il dottor Holmes vi saluta, che probabilmente non sarà presente nemmeno nel prossimo capitolo. Io sono in crisi quando non scrivo di lui... voi no? XDDD *aiutatela*
Un bacio a tutti voi che state leggendo questo aborto e alla prossima ;)))
Ele

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Capitolo 5
*** Capitolo 5 ***


Capitolo 5.
 

 
C’era stato un tempo in cui parole come obbedienza e rigore, per John Winchester significavano vivere o morire.
Non era più un Marines eppure era ancora in guerra e si sorprendeva a riflettere, di tanto in tanto, su quanti anni fossero passati e quanto poco fossero cambiate le cose.
 
Ogni cacciatore seguiva le proprie regole e sapeva che rispettarle equivaleva a sopravvivere, a mantenere ben marcati i confini tra un cacciatore letale e un cacciatore morto.
 
Pianificare.
 
Era la regola numero uno di John Winchester; pianificare gli consentiva di mantenere il controllo e portare il culo a casa al termine di ogni caccia; il suo e quello dei suoi figli.
 
La loro permanenza a Chicago era pianificata in quattro giorni esatti di caccia al vampiro: individuare, rintracciare, stanare, abbattere.

Arrivarono in città preparati, dopo una settimana di indagini preventive a distanza, durante le quali lui si era mantenuto aggiornato e in contatto telefonico con le autorità locali.
Quella di Chicago si presentava come una caccia semplice e senza intoppi, proprio come piaceva a John.
Pianificare garantiva precisione, tempistiche brevi e zero problemi.
Pianificare, non teneva conto degli imprevisti.
 
Quasi tre settimane dopo aver lasciato i suoi figli a Chicago, durante la folle corsa in auto per raggiungerli a Baltimore, nel Maryland, dopo aver trovato 84 messaggi da parte di Dean e 53 da parte di Sam, sul cellulare appena riacceso, John Winchester ebbe la conferma che erano proprio gli imprevisti a fare la differenza tra un cacciatore infallibile e un padre inaffidabile.
 
 
 
 
 
Dicembre 1998, Chicago - Illinois
 
“Posso propormi come responsabile della scelta dei motel, da oggi in poi?”
 
Sam varcò la soglia della loro stanza e venne letteralmente investito da un odore nauseabondo di chiuso e qualcosa che somigliava a del pessimo fast food avariato; probabilmente un pezzo di carne abbandonato da qualche parte.
Gli bastò una rapidissima occhiata per arricciare il naso, disgustato: la stanza era piccolissima, oltre che sporca e in stato di semi abbandono.

“Questo finisce dritto nel libro nero. È assolutamente, completamente, irrimediabilmente, lo schifo più schifoso mai visto!”
 
Gettò a terra il suo borsone rimanendo in piedi all’ingresso, mentre Dean si era già buttato pancia in su sull’unico letto presente nella stanza; il maggiore ridacchiava in maniera fastidiosa, astenendosi però dal fare commenti sul fatto che Sam fosse un tantino schizzinoso.
John stava estraendo il ‘materiale’ da lavoro dal bagaglio, silenzioso e concentratissimo.

“Sdraiati qui, Sammy! Il lettone è morbido.”

“Ridi, ridi! Ti toglierai da solo i pidocchi, quando te li beccherai!”

Il minore si chiuse in bagno, probabilmente a lavarsi le mani, e Dean si alzò per affiancarsi a suo padre e cominciare con l’aggiornarsi sul caso che li aveva portati in città.

“Vampiro maschio, giovane, quasi certamente inesperto. Attualmente siamo a sei vittime. Non copre le sue tracce, le scene del crimine sono tutte nella stessa zona, non cambia nemmeno raggio d’azione; sui corpi ci sono segni fin troppo evidenti, persino le autorità sarebbero in grado di trovarlo ed arrestarlo.”
 
Mentre gli illustrava quanto raccolto fin’ora, John si curò di non trascurare nulla e di informare Dean su ogni dettaglio.
 
“Non staremo qui molto, Dean. A breve concluderemo il solito giro di identità false e toccherà che i Winchester ricompaiano nella società per qualche tempo.”

Dean annuì, sfogliando fotografie delle vittime e rapporti di polizia.

“È un caso semplice, ci metteremo pochi giorni.” Disse, concordando immediatamente con suo padre.

“La polizia ha un paio di nomi che ritengo validi. Inizieremo dal signor Moran: trasferito da un paio di settimane, frequentatore assiduo di locali notturni, casualmente tutti vicini a dove sono state trovate le sei vittime.”
 
“È un idiota!”

“È certamente giovane, trasformato da poco; probabilmente il suo Maestro... beh, non gli ha fatto molto da maestro.”

“Ok, come procediamo?”

“Faremo partecipare anche Sam. Ti aiuterà facendo ricerche da qui, starete in collegamento con la polizia e mi aggiornerete sulle novità. Tu mi affiancherai solo e soltanto quando lo rintracceremo, per stanarlo. Tutto chiaro?”
 
“Sissignore.”
 
Quando Sam uscì dal bagno, ebbe inizio la loro routine di caccia.
 


 
Giorno uno: individuare.
 

Il signor Moran era un giovane benestante ed eccentrico che viveva in un attico particolarmente costoso nel centro di Chicago. Considerato che non aveva lavoro, i sospetti su di lui si intensificarono e partì l’immediato pedinamento notturno.
Bastarono poche ore di sorveglianza per identificarlo senza margine di errore: vampiro, maschio, giovane e inesperto.

Tutto liscio.



 
Giorno due: rintracciare.
 

Nel giro di una notte Moran aveva fallito quattro attacchi e terrorizzato altrettante ragazze e ragazzi, nel tentativo di nutrirsi.

John pensò che avrebbe anche potuto ucciderlo subito e farla finita.
Ma doveva prima accertarsi che fosse solo, che il Maestro non fosse nei paraggi o, peggio, che non appartenesse a qualche clan. Un cacciatore che si rispetti sapeva bene che nessuno, per quanto abile, era in grado di affrontare un intero clan di vampiri da solo.

Avrebbe seguito il piano.



 
Giorno tre: stanare.
 

Nulla collegava Moran ad altri. Era solo e vulnerabile, farlo uscire allo scoperto e ucciderlo sarebbe stato semplice.
 
I maledetti imprevisti non facevano parte dei piani e John li odiava con tutto se stesso.
Abbandonare una caccia non era concepito, a meno che non fosse per cause di forza maggiore.
Quando ricevette un messaggio da parte di Bobby e il Suo demone ebbe nome ed identità, John prese la sua decisione e mandò il piano originale a farsi benedire.
 
 
“Che significa che devi partire? E il vampiro?”

“Significa quello che ho appena detto. Tornerò tra qualche giorno, tu finisci il lavoro!”

Dean era confuso e nervoso, non poteva capire e John non poteva rivelargli il motivo dell’abbandono improvviso di una caccia in corso. Così fece quello che faceva sempre: ordinò a Dean di terminare da solo ed attendere il suo ritorno. E gli ordini non si discutevano. Mai.

Sam li osservò, uno di fronte all’altro che si affrontavano tesi, occhi negli occhi, dopo che John interruppe bruscamente la sistemazione del suo bagaglio. Per un istante, si aspettò quasi che, per una volta, Dean si rifiutasse di obbedire e chiedesse al padre le spiegazioni che sarebbe stato giusto ricevessero.
Ma Dean obbediva agli ordini, sempre, e obbedì anche quella volta.
 
Moran sarebbe stato un ‘caso chiuso’ allo scadere del quarto giorno, come da programma.



 
Giorno quattro: abbattere.
 
Quando aveva trafitto e ucciso Moran, da solo, Dean si era sentito un uomo. Un cacciatore. Il degno erede di John Winchester.
 
Quando era rientrato al motel, all’alba, si era sentito morire e mancare la terra sotto i piedi, inghiottito in un buco di paura e confusione.

La porta era scardinata e Sam era in piedi di fronte al loro letto con un coltello puntato alla gola e la figura imponente di un uomo corpulento e immobile, alle sue spalle.
Tremava. Suo fratello tremava da capo a piedi e lo guardava terrorizzato negli occhi, senza dire una parola, senza quasi respirare. Un rivolo di sangue sporcava la pelle esposta del collo, appena sotto la lama dell’intruso.

“Morirete entrambi, cacciatore. È il Diacono che lo ordina. Hai ucciso un suo Figlio ed è per mano sua che, attraverso me, ora morirai.”

L’uomo parlò con voce profonda e asettica, priva di alcuna emozione.

“Dean...”

Solo un sussurro. A Dean era bastato sentire il suo nome pronunciato dalla voce tremolante di Sam, prima di reagire; estrasse la pistola e mirò alla testa dell’aggressore facendo fuoco. Fu un colpo a vuoto però, perché Dean si ritrovò spalle a terra, un secondo dopo aver sparato, con quell’energumeno a cavalcioni su di lui e le sue dita strette intorno al collo.

Troppo lento.
Pensò, la gola che esplodeva nella stretta di quel bastardo.

Aveva agito d’istinto e, estraendo la pistola per tentare di sparargli, lo aveva allontanato da Sam, che era caduto in terra ai piedi del letto.

Ci erano voluti solo pochi secondi, al suo Sammy, per riprendere il controllo.
Recuperò la pistola di Dean, che era caduta a terra quando l’uomo si era avventato su di lui, si rimise in piedi barcollando, spostandosi alle spalle della figura che incombeva sul corpo di suo fratello maggiore, e gli sparò dietro la nuca.
L’uomo si accasciò di colpo su Dean che rilasciò un rantolo strozzato non appena la sua gola ritornò libera. Il proiettile aveva attraversato la testa del bestione e si era conficcato nel pavimento a pochi centimetri dal volto sconvolto del maggiore, ancora a terra, schiacciato sotto di lui.

Sam, pietrificato e in piedi ad un passo da loro con la pistola ancora puntata di fronte a sé, fissava il morto ad occhi sgranati.
Dean si rialzò piano, scostandosi di dosso il corpo pesantissimo di quell’uomo, e lentamente recuperò l’arma dalle mani tremanti di suo fratello.

“Chi era? Cos’era?”

Balbettò Sam, spostando finalmente lo sguardo terrorizzato su suo fratello.
Dean si inginocchiò accanto al cadavere. Sapeva... sapeva cosa fosse ed era un fottuto disastro.

‘Dio ti prego fa che non ce l’abbia, fa che non ci sia.’

Pregò, mentre esaminava il corpo.
Preghiere vane, come tutte, perché se Dio c’era, non stava certo ad ascoltare quelle di un Winchester.
Il tatuaggio era alla base della nuca, come era usanza tra gruppi di vampiri organizzati in clan.

‘Diacono Frost’


 
Sam barcollò indietro nel riconoscere il marchio di un Mastro.

“No... no.”

“Era un discepolo.” (*)

“No...”

Ripeté disorientato, indietreggiando fino ad impattare la sponda del letto coi piedi e finendoci seduto sopra.

“Sam...”

Dean gli si avvicinò cauto, ma sconvolto quanto lui.

“No!”

“Sam... stava per ucciderti! Stava per uccidermi, lo hai fatto p-”

“Era un uomo! Era una persona!”

Il minore iniziò a respirare con fatica, si prese la testa tra le mani e se la portò alle ginocchia, mormorando frasi sconnesse.

“Sammy...”

Dean gli si inginocchiò di fronte e cercò di calmarlo; posò una mano sulla sua gamba, poi sulla schiena, infine la adagiò sulla sua nuca, tra i capelli; non ne aveva mai visti prima, ma quello gli sembrò proprio un attacco di panico in piena regola.
Suo fratello non aveva mai ucciso. Non era pronto, suo padre lo diceva sempre e ora aveva ammazzato per la prima volta e aveva ammazzato un essere umano. Per quanto fosse semplice, a mente lucida, capire che si era trattato di decidere della loro vita, Sam crollò di fronte alla quella semplice verità: aveva ucciso un uomo.

“Sam, calmati.”

Dean prese a ragionare velocemente. La pistola in una mano e l’altra ancora sulla nuca di Sammy, che singhiozzava stringendosi i capelli tra le dita quasi volesse strapparseli; il maggiore si guardò intorno spaventato, insicuro sul da farsi.
Doveva calmare Sam. Doveva far sparire il corpo, coprire le tracce. Dovevano andarsene immediatamente di lì.


Il discepolo apparteneva ad un Diacono, i Diaconi erano vampiri Mastri a capo di un clan, e se li volevano morti, li avrebbe inseguiti ovunque, trovati e uccisi, pur di vendicare la morte di uno dei ‘Figli’: Moran non era solo. E loro erano spacciati.
Aveva imparato da suo padre che i clan di vampiri erano impenetrabili e che i membri si proteggevano l’un l’altro. Dovevano sparire. Subito.
 



Alzò il fratello strattonandolo, stringendolo per la camicia e premendoselo addosso, per evitare che cadesse; sembrava non riuscire a reggersi in piedi.

“No...”

Sam si divincolò tra le sue braccia, lo sentì scivolare a terra, gli cedettero le ginocchia.

“Dean... Dean...”

Ripeteva disperato, gli occhi inondati di lacrime e la voce rotta.

“Ascoltami bene, Sammy!”

Dean gli prese il volto tra le mani e lo avvicinò al suo fino a sentirne il respiro sulle guance, fino ad avere il suo naso incollato al proprio.
Sam si bloccò, occhi spalancati e labbra socchiuse, torturate dai suo stessi denti.

“Lo hai fatto per me! Sono stato chiaro?”

Sam non rispose, impietrito.

“Lo hai fatto per me. Mi hai salvato Sam! Io avrei fatto lo stesso, lo avrei sventrato quel fottuto bastardo, se ti avesse toccato.”

Sam prese ad annuire con la testa, come ipnotizzato, tremava ancora da capo a piedi ma almeno ora si reggeva sulle sue gambe.

“Farei tutto, tutto per te! Tu lo hai fatto per me, Sammy! Tutto per me!”

“Tutto... tutto per te... per te...”

Il minore riprese a respirare con regolarità, non smise mai di guardarlo negli occhi, smise invece di singhiozzare e si raddrizzò tra le braccia del fratello.
Posò le mani sopra le sue e le strinse tra le proprie, erano ancora intorno al suo viso. Poggiò la fronte a quella di Dean e cercò di controllare il panico.

Ci riuscì.

“Per te...”

Ripeté.

“Per me.”

Gli face eco, Dean.



“Dobbiamo andarcene Sammy.”

Si separarono, dopo essersi guardati negli occhi ancora pochi istanti.
E fecero quanto gli era stato sempre insegnato: dopo aver fatto sparire il corpo, ripulito la stanza, fatto i bagagli e saldato il conto del motel, Dean e Sam lasciarono Chicago a bordo di un autobus diretto nel Maryland, pagato con gli ultimi contanti che avevano a disposizione.
 




Quasi dodici ore di viaggio dopo, durante le quali Sammy aveva dormito praticamente sempre, con la testa poggiata sulle sue gambe, scesero a Baltimore quando ormai si era fatto buio, stanchi e senza un soldo in tasca.
Quella prima notte, raggiunsero il motel più vicino alla stazione ed entrarono nella prima stanza libera, forzando la serratura e supplicando che nessuno li scoprisse.
Fuori si congelava, Dean era esausto e suo fratello non parlava da quando avevano lasciato Chicago.
 
Dovevano dormire, dovevano riposare, l’indomani avrebbe pensato a tutto.

Mandò un numero imprecisato messaggi e provò più volte a telefonare a John, per avvertirlo dei problemi incontrati e dei loro spostamenti.
Nessuna risposta in quasi quindici ore di tentativi a vuoto.

Faceva un freddo atroce e la stanza non era pronta per ospitare nessuno.
Dean trovò una coperta troppo leggera dentro al piccolo armadio in parte al bagno, agguantò suo fratello che era ancora in piedi immobile sulla soglia, con gli occhi vuoti e persi, e lo fece distendere sul letto.

“Vieni Sammy... coraggio.”

Lo coprì e si infilò sotto quella copertina striminzita con lui.

“Fa freddo...”

‘Ah, meno male, allora parli ancora.’
Pensò, tirando un sospiro di sollievo.

“Lo so.”

Gli rispose stringendolo un po’ tra le braccia, cercando di ricevere e infondere un po’ di calore.

“Io non ho paura Dean.”

Sussurrò suo fratello, ad un respiro dalle sue labbra. Gli si era abbarbicato addosso e al maggiore sembrò di sentirlo rilassarsi sul proprio corpo.
E non seppe dire come, la tensione si sciolse anche nel suo.

Si rese conto poco dopo di quanto fossero vicini,  uno tra le braccia dell’altro, così stretti e spaventati sotto quella copertina; Sam lo guardava negli occhi ed era calmo, così calmo e muto, così suo...
E al buio, nel liquido brillare delle sue iridi, Dean vide un qualcosa che mai prima aveva visto: fiducia incondizionata.

Sentì un nodo, che neppure sapeva di avere, proprio vicino al cuore, sciogliersi dentro di sé, irradiando un calore insopportabilmente famigliare e confortante, qualcosa di morbido e terrificante e bello.
Sentiva il cuore di Sam battere contro il proprio petto e quel calore esplose senza controllo, gli sembrò si fosse creata una bolla intorno al loro letto, che li proteggeva da tutto.
E non seppe dire quando, avevano iniziato a baciarsi.
 
“Mi dispiace... mi dispiace... Sammy, mi dispiace...”

Dean mormorava tra un bacio e l’altro; un primo timido e insicuro, un secondo più profondo e languido, poi altri, tanti altri ancora, quasi affamati e veloci e umidi, e il click del suo cervello che si era spento a tradimento. Non c’era più niente, nessuno, non c’erano colori, suoni, errori, c’erano i sospiri trattenuti di Sam e il suo disperato aggrapparsi e sfregarsi contro al suo corpo.

“Mi dispiace, è colpa mia.”

Glielo confessò sulle labbra, ed era vero, oh era vero, a Dean dispiaceva per tutto.

Mentre il sangue scorreva frenetico e pompava nei lombi, che Dio avesse pietà di loro, Dean sentiva duro anche Sam; si muoveva insicuro, strofinandosi e cercando un sollievo e un piacere che erano sbagliati, indecenti ed erotici da impazzire, in quell’intimo accorgersi dell’inesperienza dei suoi gesti.

“Io non ho paura, Dean. Ci sei tu con me...”

Sam glielo bisbigliò sul viso, sulle guance, guardandolo, aspettandolo, stringendolo poi al collo con le braccia e respirandogli addosso con affanno, il viso nascosto nell’incavo della sua spalla.
E non seppe dire perché, quella notte la passarono avvinghiati uno all’altro, a gemersi sulla pelle, senza più guardarsi, ma toccandosi dappertutto.

Se le mani di Dean scavavano sotto i vestiti, quelle di Sam, timide, sbottonavano e aprivano pantaloni.
Se le mani di Dean sfioravano incerte, quelle di Sam supplicavano carne contro carne e pelle contro pelle.
 
E non seppe dire per quanto tempo continuarono a bruciare tra le fiamme altissime di un peccato tanto folle quanto stupendo, ma quando si svegliò, la mattina successiva, Dean aveva ancora i pantaloni aperti, suo fratello addosso che lo abbracciava, i suoi capelli quasi nel naso e il peso del suo testone addormentato sul petto.
 



Il cervello si riaccese, eppure non successe nulla. Per un solo secondo gli sembrò di aver bisogno di vomitare, eppure non successe nulla.
Stava bene. Sam stava bene. Non era niente, non c’era bisogno di pensare a niente.
Il suo corpo era rilassato sotto quello di suo fratello che respirava ritmico e tranquillo, Dean rimase immobile a fissare il soffitto finché il sole non fu abbastanza alto da rendersi conto che era ora di schiodare, prima che qualcuno li scoprisse e li buttasse fuori a calci. O, peggio, li facesse arrestare.
 

Lo svegliò scuotendolo delicatamente, Sam si stropicciò contro di lui e lo guardò per qualche istante, le guance arrossate e ancora quel qualcosa, quella luce negli occhi, che oramai era marchiata a fuoco dentro il cuore di Dean e lo stringeva in una morsa.
 
Si sorrisero.
 
Senza dire una parola si alzarono, si ripulirono, si rivestirono e lasciarono quel motel per sempre.
 
In assenza di John e ricordando le sue ultime direttive, Dean affittò una camera vicino alla Baltimore High School e iscrisse Sam alle lezioni, falsificando la firma del padre. Lui si sarebbe trovato qualche lavoretto per pagare le spese giornaliere.
 
John, Dean e Sam Winchester ricomparirono a Baltimore, Maryland, il 29 Dicembre del 1998.




Sarebbe andato tutto bene. John sarebbe arrivato di lì a pochi giorni e avrebbero continuato a fare quello che avevano sempre fatto.

Sarebbe andato tutto bene. Sam dormiva con lui tutte le notti e quasi sempre un orgasmo o due interrompevano il silenzioso strusciarsi e baciarsi e toccarsi sotto le coperte.

Sarebbe andato tutto bene. Amava suo fratello e suo fratello lo amava, che si fottesse l’universo intero. L’universo li voleva morti, loro erano vivi e si erano salvati il culo a vicenda.
 
L’universo, uno straccio di tregua avrebbe proprio dovuto dargliela.
E Dean lo aveva creduto possibile... almeno finché un paio di assistenti sociali non avevano bussato alla loro porta e fatto crollare ogni dannata, stupida speranza, strappandogli Sammy dalle braccia e squarciando quella bolla calda e protettiva in cui si erano rifugiati entrambi.
 
 
 




Continua...
 
 
 
 

(*) Nel film Blade (dal quale ho barbaramente tratto il nome del Diacono e l’intreccio), un discepolo è un essere umano ‘normale’ che aspira a trasformarsi in un vampiro e si mette al servizio di un Mastro per ottenerne il ‘morso’ e diventare uno di loro.
 
Nda quelle sceme: oh santissimoiddio qualcuno mi aiuti. IL PARTO. Ci siamo eh, io scappo prima che mi mandiate maledizioni pesanti. X’D Chiedo perdonooooooooooooooooooooooooooooo... *soffoca urlando*
Nda quelle serie: Dunque, mi sono resa conto di non averlo ancora fatto, quindi lo faccio adesso! Voglio ringraziare, sempre e fino alla fine dei miei giorni, la mia beta Thinias, perché sappiate che con me ha una pazienza infinita e fa tantissimo per ogni mia storia! Amatela!!
Baci a tutti e grazie ;)
Ele
 

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Capitolo 6
*** Capitolo 6 ***


Capitolo 6.






 
Febbraio 1999, Studio privato del Dottor William Holmes, Baltimore – Maryland



Il dottor Holmes poteva ritenersi un professionista ormai navigato, con una certa esperienza sulle spalle e un numero considerevole di pazienti ostili trattati durante la sua carriera, sufficiente ad avergli conferito quello che può definirsi un infallibile sesto senso nel riconoscere il momento esatto in cui, per un terapista, si interrompe la mera analisi del paziente e si inizia invece ad ascoltarlo, a considerarlo una persona.

Con Dean Winchester, quel significativo momento era arrivato un tardo pomeriggio di febbraio, particolarmente freddo e nuvoloso, che aveva riportato a galla ricordi ormai lontani, ma ancora vivi e forti nella mente del dottore.





“Perché siamo sul dannato tetto a congelarci il culo, Doc?”

Dean si stringeva goffamente nel cappotto pesante e sbuffava fiato caldo sulle mani intirizzite. Nervoso, infreddolito e agitato, si dondolava sulle ginocchia per combattere il freddo pungente e l’aria gelida che sferzava impietosa sul dannato tetto del dannato edificio, che ospitava lo studio del dannato dottore.
Holmes, qualche passo davanti a lui, scrutava il grigio panorama di fronte a sé, serio, impassibile ed elegante come sempre, le mani appoggiate alla robusta ringhiera posta a perimetrare l’enorme terrazzo.

“Dimmelo tu!”

Gli rispose, voltandosi per osservarlo attentamente. Dean non gli rispose, ma evitò con ostinazione il suo sguardo per osservarsi attentamente le scarpe. Slacciate, tra l’altro.
Gli fece quindi cenno con la testa di avvicinarsi e, una volta che Dean fu al suo fianco, si accese distrattamente una sigaretta, accorgendosi subito dello stupore del ragazzo. Si era evidentemente fatto una certa immagine di lui e quel gesto lo aveva messo di fronte alla fastidiosa certezza di essersi sbagliato.

A Dean piaceva avere la situazione sotto controllo, Holmes lo aveva capito; era tranquillo solo quando inquadrava le persone, quando tutto era schematizzato e chiaro. Non si sarebbe mai ritrovato su quel tetto, visibilmente agitato, se gli eventi in corso non lo avessero definitivamente fatto uscire da quel preciso schema mentale.
Prima la relazione col fratello, poi gli assistenti sociali, poi questo impiccione di dottore tutto ‘perfettino’ (che, guarda un po’, almeno qualche vizio lo possedeva), che conosceva tutti i suoi segreti e voleva conoscerne altri.
Era andato tutto a rotoli in così poco tempo che Dean cadeva letteralmente a pezzi, non serviva uno psicologo per dedurlo.

Prese un profondo respiro, prima di rivolgersi a lui con la consueta pazienza.

“Per quanto mi riguarda, i motivi per cui siamo sul tetto sono più di uno.”

Si prese ancora qualche attimo per osservarlo di profilo, mentre questo strano e complicato ragazzo tirava su rumorosamente col naso arrossato e nascosto sotto il suo giaccone, guardando il nulla in mezzo a nuvole grigie sempre più minacciose; si riscoprì quasi intenerito da tanta fragilità, mascherata da altrettanta goffa ostilità.

“Prima di tutto, hai terrorizzato la povera Clarisse irrompendo nel mio ufficio oltre mezz’ora prima dell’orario fissato per il nostro incontro. Ti ho portato qua su per salvarti dalla sua furia. Poi, hai iniziato a sbraitare frasi allarmati, tra le quali (se ben ricordo) ‘non se ne fa più niente, Doc’ e ‘si dimentichi tutto’ e anche ‘non so più che fare, che devo fare?’; al termine di tale sfogo ho sentito l’improvviso ed estremo bisogno di fumare. Siamo usciti anche per salvare me da Clarisse, che mi avrebbe sottoposto ad inquisizioni peggiori delle mie, se mi avesse scoperto ad accendermi una sigaretta.”

Dean lo ascoltava con attenzione, quasi confortato dalla particolare intonazione che il dottore dava alla sua voce, anche quando era chiaramente ironico nello spiegare cose all’apparenza poco importanti.

Mentre lo sguardo di Holmes alternava veloci occhiate al suo paziente, a lunghe e pacifiche osservazioni del sempre più grigio panorama, Dean sembrava faticare a non ingoiarsi la lingua nel tentativo di trattenersi dall’urlare la sua frustrazione e morire nel violento scontro a fuoco in corso tra il suo cuore e la sua mente.

“Infine, ho come la sensazione che avresti gradito accendertene una insieme a me. La dipendenza da nicotina è una delle cose più semplici da individuare, basta sapere dove guardare...”

Quando gli sorrise divertito, accennando col mento a guardarsi le mani, Dean non poté evitare di rispondere a quel sorriso di rimando, osservando le macchie giallognole ben visibili sui polpastrelli delle dita che usava tenere le sigarette.

“Me l’accenderei volentieri, ma ho promesso a Sam di non fumare più. Se ne accorgerebbe immediatamente e non la passerei liscia.”

Rise, ma fu solo per pochi secondi, finché forse si rese conto di quante cose Holmes stesse facilmente deducendo da quelle semplici parole.

“È un osso duro, eh? Tuo fratello, intendo...”

Dean sbuffò, le labbra ancora distese in un sorriso triste.

“Sa, con le ragazze è facile. Loro non mi conoscono, non mi conosceranno mai. Con Sammy... è come avere una moglie, cazzo! Lui sa tutto di me, ha idea di come ci si sente?”

Chiese, passandosi una mano tra i capelli.

“È la cosa più... bella e insieme la più terrificante al mondo. Avere qualcuno così dentro, così in profondità nella testa, nel sangue, nel cuore, nell’anima, sempre, ovunque vai. È così con Sam, capisce?”

Concluse, guardando finalmente Holmes negli occhi.
Il dottore, al suo fianco ma ancor a qualche passo distante da lui, lasciò passare qualche istante in silenzio. Gli sembrò saggio che Dean ragionasse da solo su quanto aveva appena detto, prima di avvicinarsi e proseguire con la conversazione.

“Ora, saresti così gentile da spiegare tu a me il perché ho dovuto salvare i nostri culi da Clarisse, portandoli a congelarsi sul tetto del mio dannato studio?”

E ancora una volta, con quegli occhi di ghiaccio addosso, affilati e attenti, eppure così espressivi e interessati, Dean srotolò la lingua.
Si appoggiò alla ringhiera coi gomiti e sospirò stanco.

“Secondo lei perché sto così? Sul serio, me lo dica. Quello che dice sembra avere sempre un senso per me, lei ha questo dono. Mi dica come devo fare con Sam.”

Il dottore si accomodò nella medesima posizione del ragazzo e congiunse le mani sotto il mento.

“Posso facilmente dedurre che hai provato a parlare con tuo fratello; lo hai affrontato e probabilmente lui non l’ha presa bene.”

Bastò l’occhiataccia torva di Dean in risposta, a confermargli che aveva capito perfettamente.

“Questo ci pone di fronte ad un problema serio, Dean.”

“Un’altro?” chiese lui, e non era ironico, ma terrorizzato. “Dio, quand’è che è diventato tutto così incasinato?!”

Holmes gli mise una mano sulla spalla e lo fece voltare per affrontare il suo sguardo e tranquillizzarlo, quanto possibile.

“Da quanto so fin’ora posso affermare con una certa sicurezza che, senza coinvolgere anche tuo fratello Sam nella tua terapia, non c’è modo in cui io possa aiutarti a controllare questi impulsi.”

Dean scattò all’indietro, infastidito.

“No! No, Sam deve restarne fuori. Non posso metterlo in mezzo, non ce la farebbe.”

Evento traumatico scatenante.

Ascoltandolo, Holmes ripassava mentalmente i suoi stessi appunti, memorizzati durante la seduta precedente, aggiungendo ulteriori dati a sostegno dei suoi sospetti.

“Ma lui ti cerca, non è così? Chiede le tue attenzioni in quel senso?”

“Non ci provi, Doc!” Dean lo interruppe alzando la voce e allontanandosi con un gesto secco e oltraggiato. “Non si azzardi nemmeno a sospettare che possa essere stata colpa di Sammy se abbiamo fatto quello che abbiamo fatto! È stata colpa mia, io...-”

Il dottore mantenne il distacco imposto da Dean e gli lasciò lo spazio di cui necessitava per calmarsi per conto proprio. Rimase appoggiato alla ringhiera e continuò invece a guardarlo tranquillo mentre lui si spostava verso il portone che dava accesso al terrazzo, in attesa che riprendesse il controllo.

Iperprotettività.

“Non intendevo questo, Dean. Ma come puoi sperare di smettere di desiderarlo così, se anche lui vuole te allo stesso modo?”

Lui distolse immediatamente lo sguardo, visibilmente imbarazzato.

“Devo riuscirci e basta! Lei deve aiutarmi. Non posso più avere di queste crisi, devo... devo resistere, non possiamo continuare così, capisce?”

Dean si voltò verso di lui e poggiò la schiena alla parete accanto alla porta, una mano nervosa che si tormentava i capelli e la nuca, senza sosta.

“Questa cosa tra noi non ha futuro. Può solo andare male, un giorno se ne accorgerà e mi odierà e io... “

“Va bene, Dean, ho capito.”

Holmes gli si avvicinò cauto e si mise al suo fianco, spalla contro spalla, entrambi appoggiati la parete.

“Quello che non ti è chiaro, mentre è sin troppo evidente dal mio punto di vista, è che questa ‘cosa’, come la chiami tu, non è una malattia mentale. Non è un impulso sessuale fine a se stesso che io possa insegnarti a reprimere. Ed è reciproca.”

Dean si voltò a guardarlo, confusione e un qualcosa di molto simile alla disperata e stanca rassegnazione, marcava i lineamenti del suo giovane volto tirato. Presto, comprese di cosa il dottore stava parlando.

Amore, sentimenti, emozioni.

Holmes addolcì ulteriormente il tono e continuò riflessivo.

“La sfera sentimentale non si domina con la psicologia applicata. I sentimenti sono intimi, sono personali. Le emozioni sono... indipendenti dalla volontà di un essere umano.”

“Lo so anche io questo. Mi accontento che lei faccia sparire l’impulso sessuale fine a se stesso.”

“E che mi dici degli impulsi di Sam?”

Chiese secco, occhi nei suoi, dritto al punto.
Dean pareva essere stato colpito da un meteorite infuocato, tanto le sue iridi si spalancarono per la sorpresa.



Gli impulsi di Sam...

Holmes non poteva sapere della notte che Dean e Sam avevano passato insieme solo qualche giorno prima, dopo essersi parlati nel parco. E non poteva sapere della mattina successiva, quando avevano quasi fatto l’amore, appena svegli, interrotti per puro e semplice caso, da John e Bobby che avevano deciso di rientrare proprio quel giorno.
Non poteva sapere come si era sentito Dean, quando aveva avuto Sam tra le braccia, nudo e a cavalcioni del suo bacino, pronto a darsi a lui, a dargli ogni cosa volesse; illuminati dal biancore pallido della neve che penetrava da fuori le ampie finestre.
Non poteva in nessun modo immaginare il dolore fisico che aveva provato dentro di sé, ed insieme il sollievo per non aver commesso quell’ultimo, folle errore, quando aveva guardato Sam correre via per tornare a chiudersi nella sua stanza.

Holmes non poteva sapere tutto questo, eppure osservando Dean e lo stupore manifestato a quel semplice quesito, capì perfettamente che qualcosa tra loro era accaduto di nuovo, che Dean aveva ceduto ancora una volta ai suoi desideri e che era arrivato nel suo studio sconvolto, quella sera, poiché consapevole che trattenersi da soli era un conto, ma farlo di fronte all’iniziativa del fratello, erano tutto un altro paio di maniche.

Dopo lunghi attimi d’attesa, Dean sembrò riprendersi e le sue mani smisero di tremare quando le strinse forte a pugno.

“Io... io non lo so. Cristo, non so un cazzo, pensavo solo che lei... che se c’era qualcuno che poteva tirarmene fuori, quello era lei. Sono un fottuto idiota!”

Colpì il muro con il tallone e si raddrizzò, allontanandosi e facendo qualche passo in giro, per calmarsi.
Holmes lo seguiva con lo sguardo e si stringeva nel suo cappotto elegante. Iniziava a sentire freddo anche lui, solitamente indifferente alle basse temperature.




Devo capire. Agire.

“La tua valutazione per la libertà sulla parola è quasi terminata, Dean.”

Quest’ultimo sgranò gli occhi, in risposta. Il panico che gli allargava velocemente le pupille.

“Cosa?”

Sibilò, incredulo.

“I dubbi sulla tua aggressività sono ormai chiariti e posso affermare con assoluta certezza che tu non sia un pericolo gli altri. Sono meno certo che tu non sia pericoloso per te stesso, ma non ho motivo di continuare con la tua valutazione. Il nostro prossimo incontro sarà probabilmente l’ultimo.”

Dean gli arrivò di fronte, sgomento, arrabbiato, spaventato.

“No! Doc se lei firma quei documenti noi ce ne andremo il giorno stesso! Mio padre non...”

“Toccherà di nuovo a te decidere: continuare a venire da me e affrontare il problema con tuo fratello, o andartene e affrontarlo da solo.”

Dean si prese la testa tra le mani e si addossò al muro con tutto il corpo.

“Cazzo... Cazzo!”

Paura di deludere il padre.



“Dean...” Holmes lo chiamò con voce ferma, per indurlo ad ascoltarlo con attenzione. “Durante il nostro precedente colloquio mi hai confidato che le cose, tra te e tuo fratello, sono cambiate da quando siete a Baltimore. Posso presumere con facilità che sia stato un episodio in qualche modo traumatico a spingervi oltre i confini fraterni. Mi sbaglio?”
Nessuna risposta.

Occhi sgranati, fiato trattenuto, di nuovo tremore alle mani; deduzione corretta.

“A cosa le serve saperlo? Tanto mi sta mollando, giusto?”

Chiese infine, esitante, sostenuto.

“Non è esatto; capire quello che vi è successo è fondamentale se vuoi che io ti aiuti. Diamo un senso a questi pochi incontri, se me lo permetti. Mi è chiaro che non puoi evidentemente parlamene nei dettagli, ma puoi confermare o negare i miei sospetti. Vuoi farlo?”

Dean annuì debolmente, ancora visibilmente scosso dalla notizia dell’imminente fine della sua valutazione.

“Credo di si.”

“Cerca di seguire il mio ragionamento: è provato che in particolari situazioni di pericolo e di forte stress, per prolungati periodi di tempo, possano indurre un’estremizzazione di sentimenti ed impulsi latenti; è questo che è successo?

“Si.”

“Va bene. Questo non toglie che essi fossero già presenti, mi capisci? L’attrazione sessuale tra te e Sam non è spuntata dal nulla, Dean. Riesci a dirmi a quando risale? Riesci a collocarla nel tempo?”

Il dottore sperò di non essersi spinto troppo oltre, di non aver infilato le dita in una intimità ancora acerba e confusa, potenzialmente catastrofica per l’equilibrio emotivo di un ragazzo così giovane alle prese con esperienze sessuali così estreme e complesse; sperò che Dean fosse pronto ad affrontare la verità, che fosse pronto ad ammettere a sé stesso un qualcosa che avrebbe potuto benissimo sconvolgerlo più del previsto.

“C’è sempre stata, Doc...”

In risposta ai suoi dubbi, Dean lo sorprese per l’ennesima volta.




Si ritrovarono a guardarsi negli occhi, e il dottore riconobbe il momento: su quel terrazzo non erano più medico e paziente, erano solo due persone unite nella condivisione della dolorosa ascesa di ricordi ed emozioni che per lungo tempo erano state spinte e zittite in un angolo con la forza.
E anche i ricordi di Holmes, come spesso accadeva in presenza di Dean, trovarono di nuovo la strada per raggiungerlo, sulla scia dei brividi di quel gelido febbraio, tanto simile ad un inverno lontano molti anni, che si era portato via qualcosa di importante.

Dean riprese a parlare con voce malferma, mentre gli occhi del dottore si allargavano di sorpresa ed emozione, nel riconoscersi profondamente coinvolto dalla storia di questo ragazzo.

“Forse né io né Sam lo abbiamo mai capito o abbiamo mai voluto vederlo, fino a quando è successo quello che è successo. Ma quella tensione, quel ‘qualcosa’ era lì da qualche parte; nel modo in cui mi accorgevo che non era più un bambino; nel modo in cui non sopportavo come questo lo avrebbe allontanato da me; nel modo in cui sentivo di volerlo per me in tutti i modi in cui potevo averlo; nel modo in cui mi guardava quando capiva che ero stato con una ragazza; nel modo in cui avevo paura e insieme mi eccitava la sua gelosia; nel modo in cui... lo guardavo io, quando non credevo mi vedesse.”

Dean si lasciò andare, subendo la forza dei sentimenti che quei ricordi suscitavano in lui, curvò le spalle e, scivolando piano a terra, si sedette portandosi le ginocchia al petto e prendendosi la testa tra le mani, forse per proteggersi e allo stesso tempo nascondersi da quanto stava rivelando al dottore.
Holmes lo imitò sedendosi a sua volta e poggiò la mano gelida sulla sua spalla, gli occhi su di lui, il dispiacere ben visibile nel suo sguardo preoccupato.

Se Dean a stento tratteneva le lacrime, Holmes era ben oltre la soglia del normale coinvolgimento emotivo per un paziente. Per lui provava empatia; pura, semplice e pericolosa. Lo sapeva, ne era consapevole forse dal primo giorno. Ma doveva aiutarlo e se per farlo avesse dovuto esporsi, allora si sarebbe esposto.

Rimase accanto a lui, osservando il graduale ma inesorabile sgretolamento delle sue speranze di sistemare la situazione, le spalle rigide, le labbra contratte in una smorfia dolorosa, gli occhi coperti dai pugni in cui aveva stretto le mani. E prese la sua decisione: si lasciò travolgere dai propri ricordi e scelse di condividerli.




“Avevo un fratello anche io, sai?”

Ottenne quantomeno l’immediata attenzione di Dean, che si riscosse e lo guardò confuso, imbarazzato eppure curioso.

“Ovvio che non lo sai.” Gli sorrise e continuò, prima che lui potesse soffermarsi su quel ‘avevo’ che già diceva tutto. Spostò lo sguardo di fronte a sé; si stava facendo buio, il cielo era sempre più scuro e l’orizzonte ormai invisibile, inghiottito da grossi ammassi di nuvoloni bianchi. “Un fratello maggiore, come te. Una vera spina nel culo!”

Risero entrambi, senza guardarsi.

“Non abbiamo mai avuto un gran rapporto, siamo sempre stati piuttosto freddi. Ma lui aveva questa ossessione che doveva proteggermi, tenermi d’occhio.”
Holmes si voltò verso di lui prima di continuare.

“Tu me lo ricordi molto in questo… gli somigli, Dean.”

Disse piano, ora con la piena attenzione del suo paziente.

“Comunque, io non lo sopportavo! Perché interpretavo la cosa come una fastidiosa e costante manifestazione della sua sfiducia nei miei confronti e nelle mie capacità. Odiavo il suo trattarmi come fossi un bambino incapace e fragile. E posso dire in tutta onestà di aver passato gran parte della mia giovinezza a scappare da lui, a tenerlo lontano...”

“E poi che è successo?”

Chiese Dean, sinceramente interessato al racconto così personale che il dottore aveva deciso di condividere.
Holmes lo guardò serafico, ancora quel sorriso che addolciva i suoi lineamenti altrimenti duri, prima di spostare nuovamente lo sguardo altrove.

“Si è ammalato gravemente e qualche anno fa è venuto a mancare.”

“Oh ca- mi dispiace, i-io...”

“Buon Dio, non ti starai per scusare? Di cosa dovresti sentirti in colpa, Dean? Ho scelto io di parlartene.”

“Ma lei, cioè voi due... vi siete visti prima che lui...”

“Si. Quando mio fratello si ammalò, volle che io e solo io mi occupassi della sua salute. Oh, ero arrabbiato, ero furioso con lui e con me stesso. E mi detestavo, mi sentivo un mostro perché stava morendo e io non riuscivo comunque a smettere di avercela a morte con lui. Ero così giovane... non fui per niente una presenza confortante nei suoi ultimi mesi di vita. Non capivo, dopo gli anni di indifferenza e silenzio, perché volesse me al suo fianco. Ma lui non sentì ragioni, non voleva nessun altro. E io rimasi fino alla fine. Solo allora capii, ma non c’era più tempo... capisci cosa voglio dirti?”

“Io non... non ne sono sicuro, Doc.”

“Era il suo modo di amarmi, Dean. Tenermi sotto controllo era una cosa che mi faceva stare male, ma era l’unico modo che lui aveva per dimostrare il suo interesse. Era una persona schiva, poco incline al contatto fisico, ai gesti d’affetto. L’ossessivo proteggermi era il suo modo di dirmi che mi voleva bene e io lo capii quando era tardi. Sarebbe bastato affrontarlo, parlare con lui apertamente, io invece non compresi, finché non mi costrinse a rimanere con lui, solo allora avemmo la possibilità di confrontarci ed essere sinceri l’uno con l’altro.”

“Mi dispiace...”

“Il senso di colpa va superato, Dean. E allora ti si aprirà un mondo davanti. Prima che morisse, ricordo di avergli dato un bacio sulla fronte. Il solo e unico contatto che mai abbiamo avuto; pensai mi rifiutasse invece si strinse a me e tenne la mia mano tra le sue. E io sentii... che era tutto a posto, che era tutto passato. Provai un ondata di benessere e conforto tali da sconvolgermi.”

“B-benessere?”

“Si. Perché ho passato anni a fuggire da mio fratello e lui a cercare di prendermi e alla fine cosa c’era rimasto? Alla fine, tutto quello che restava eravamo noi due insieme. Alla fine era solo una questione di dialogo e di perdono.”
Holmes sospirò e tornò a guardarlo con coraggio negli occhi.

“Non importa quanti errori commetterai con Sam, o quanti ne hai già commessi, lo capisci? Non avranno importanza finché ti ricorderai che è tuo fratello e che tutto ciò che vuoi è il suo bene, come sono certo che lui voglia il tuo.”

Per voi non è tardi, Dean.

“Come può non avere importanza quello che ho fatto? Doc, io non capisco... dovremmo continuare a fare quello che facciamo? Cosa vuole dirmi?”

“No. Voglio che tu capisca che non è lo stare assieme il problema, che non devi allontanare Sam da te per risolvere la vostra situazione. Anzi, devi affrontarlo e fargli capire quello che per te è già chiaro: non potete continuare con questo tipo di relazione, semplicemente perché farà del male ad entrambi.”

Fece una lunga pausa, mentre osservava Dean comprendere lentamente le sue parole, e incurvarsi sotto il peso del loro significato.

“Per questo, poco prima, ti dicevo che senza di lui, senza il suo coinvolgimento, tutto questo è inutile.”

Per voi non è tardi.

Un'altra pausa e il dottor Holmes seppe di aver spinto oltre la sopportazione di un ragazzo tanto giovane e confuso, ma il tempo (nel loro caso specifico) non aiutava ed erano arrivati ad un punto centrale per la comprensione di quanto sarebbe avvenuto di lì all’immediato futuro.

“Tu sei molto simile a mio fratello, è vero, ma io non sono Sam! Io l’ho allontanato per paura di confrontarmi con lui e con le mie stesse insicurezze, delle quali lo colpevolizzavo; Sam, al contrario, cerca in te quelle sicurezze che probabilmente gli mancano; sei tutto ciò che conta per lui. Entrambi estremizzate la vostra codipendenza fino al desiderio sessuale, tramite il quale avvertite un forte senso di appartenenza e unione indissolubile. Come il nostro era forse un modo distorto di amarsi tenendosi a distanza, così anche quello che c'è tra te e Sam è semplicemente un modo distorto di amarvi, tenendovi legati in ogni forma possibile.”

Lo sguardo di nuovo basso e gli occhi lucidi, l’intera figura di Dean aveva preso a tremare nello sforzo di controllarsi e non scoppiare a piangere per la violenza con cui aveva compreso quale fosse la verità, cruda e assoluta.

“Non esiste una soluzione indolore, Dean, non per questo genere di sentimenti. Esiste la possibilità di scegliere il male minore: tu e Sam dovrete trovare un equilibrio vostro e dar fondo a quanta più forza di volontà possediate, per riportare il vostro rapporto nei confini fraterni, senza distruggerlo completamente. Ma restando assieme, decidendo assieme! Solo così sarà possibile ricostruire qualcosa di solido e duraturo, dalle macerie di ciò che avete adesso.”

A un passo dal crollo, il ragazzo singhiozzò un “Non ci riuscirò mai” in cui era contenuto un dolore tanto feroce e bruciante, che persino la voce solitamente ferma di Holmes, si incrinò nel comprendere il carico di sofferenza cui si accompagnavano quelle parole.

“Non può finire la mia valutazione, Doc. Non adesso..:”

“Abbi fiducia in Sam! Non aver paura di ferirlo, di perderlo, perché tuo fratello è probabilmente più forte di quanto tu pensi. Perché alla fine di tutto, restate voi due, vi resta quell’amore. Dovete solo capire che non serve sconfinare oltre certi limiti per legarsi l’un l’altro, perché siete già legati, lo sarete sempre.”





Dean pianse. La testa abbandonata alla sua spalla e la mano di Holmes ferma e rassicurante, tra i corti capelli biondo scuro; un pianto silenzioso, un fiume di parole mute liberate dentro lacrime salate.

Fu la prima e l’unica volta che lo fece in sua presenza, e il dottor Holmes si ritenne in qualche modo privilegiato per aver avuto l’opportunità di assisterlo e confortarlo durante la dolorosa e lenta apertura di una ferità che avrebbe sanguinato per sempre.






Valutazione sommaria terza seduta: comportamenti normo-aggressivi controllabili autonomamente dal paziente, indotti principalmente da una situazione di forte stress emotivo; non necessita ulteriori interventi di riabilitazione. Relazione incestuosa e problematiche relative in corso di analisi.







Quando, ormai in tarda serata e con buona parte delle articolazioni congelate, Holmes salutò Dean dopo aver fissato l’incontro della settimana successiva (l’ultimo), si ritrovò a sprofondare nella sua poltrona, estremamente stanco e spossato, ma soddisfatto per la piega che sembravano aver preso gli eventi, ormai avviati nella giusta direzione: quella del dialogo sincero e costruttivo.

Nonostante le autorità gli avessero reso impossibile proseguire il suo lavoro con Dean più a lungo, come avrebbe voluto e sarebbe forse stato necessario, era fiducioso che il ragazzo avrebbe attinto al coraggio necessario per affrontare la situazione senza scappare dalla città con suo padre, appena riottenuta la facoltà di farlo.

Ma come per John Winchester, anche per William Holmes esistevano cose che non si potevano in nessun modo controllare: gli imprevisti. E la straordinaria capacità degli eventi di cambiare direzione ad una velocità tale da schiantare tutti al suolo, seppelliti sotto un cumulo di confusione e paura, principali artefici e responsabili di quelle che un uomo, nel tempo, avrebbe potuto identificare come le peggiori decisioni di una vita intera.


 




Febbraio 1999, Abitazione del Dottor William Holmes, Zona Residenziale est di Baltimore – Maryland
Una settimana dopo



Era forse l’una di notte, quando il telefono di Holmes prese a squillare con insistenza. La testa del dottore sbucò a fatica fuori dalla coltre di coperte di lana sotto cui dormiva beatamente; non aveva mai sentito tanto freddo in vita sua come quell’anno, da ché aveva memoria.
Il fastidioso squillo del telefono continuò incessante e lo costrinse infine ad imprecare e scivolare fuori dal letto per andare a rispondere al dannato apparecchio, trascinandosi addosso una delle coperte.

“Pronto?”

Rispose con voce arrochita da un sonno che faticava a scrollarsi di dosso.

“Il dottor William Holmes?”

Al suono di una voce sconosciuta e incerta, che riconobbe immediatamente appartenere ad un ragazzo molto giovane e al momento particolarmente scosso, sentì un brivido famigliare correre lungo la spina dorsale, non appena la sua mente iniziò formulare mille ipotesi su chi potesse essere.

“Si, sono io... chi parla?”

“Mi chiamo Sam Winchester.”

Un istante solo, e il sonno sparì in un boato di assordante preoccupazione, il brivido divenne rigida consapevolezza e le varie ipotesi formulate, un’unica, gigantesca ed estremamente problematica certezza.

“Cos’è successo, Sam?”

“Siamo in Centrale, signore. Dean è stato arrestato.”





Continua...
 












Nda: SCUSATEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEE

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Capitolo 7
*** Capitolo 7 ***


ATTENZIONE!!! Penso sia importante, essendo passato del tempo tra una pubblicazione e l’altra, specificare che gli eventi narrati in questo capitolo coprono le due settimane che sono trascorse tra la mattina in cui Sam e Dean discutono nel parco, e l’arresto del maggiore dei Winchester. Prestate attenzione alla collocazione temporale, che troverete sempre indicata in corsivo e allineata a destra. Grazie ;)
 
 
 
Capitolo 7.
 


 

Febbraio 1999, Baltimore Police Department, 601 East Fayette Street, Baltimore - Maryland

 
 
 
Il taxi lasciò Holmes alla stazione di polizia intorno alle tre del mattino, e quando il dottore scese dall’auto trovò un infreddolito e alquanto agitato Sam Winchester ad attenderlo all’ingresso.
Lo raggiunse a passo spedito; erano entrambi quasi completamente avvolti da cappotti, berretti, guanti e quant’altro servisse a ripararli da un freddo penetrante e affilato come lame di ghiaccio.

“Vieni dentro, prenderai un accidenti!”

Fu l’unica cosa che riuscì a dirgli, perché, seriamente, a quell’ora del mattino non aveva la lucidità né la forza di iniziare immediatamente ad indagare su cosa potesse essere accaduto perché Dean finisse in stato d’arresto, esattamente una settimana dopo che aveva firmato e consegnato la valutazione psichiatrica per lo scioglimento della sua libertà vigilata.
Era un fottuto disastro, al diavolo le buone maniere e il lessico accurato.
Era un professionista e mai, prima di allora, un suo paziente era così sfacciatamente e disastrosamente sfuggito al suo controllo.

Si era sbagliato. Si era dannatamente sbagliato e lui non sbagliava mai, mai!

Sam aprì la bocca per rispondergli, ma Holmes lo interruppe e lo invitò tacitamente a seguirlo all’interno, posandogli la mano sulla schiena e sospingendolo gentilmente verso il portone d’ingresso. 
Si tolsero i cappotti e sedettero in silenzio nell’asettica saletta d’attesa della centrale, fortunatamente sgombra, sulle fredde sedie di plastica disposte tutt’intorno alla stanza.
C’erano solo loro due.

Holmes, in tuta e scarpe da ginnastica, appoggiò i gomiti sulle ginocchia e si strofinò stancamente le mani sugli occhi, nel tentativo di sciogliere la tensione.
Tutto inutile, era al limite del furioso e non aveva neppure diritto d’esserlo. Si rendeva conto di aver preso la faccenda pericolosamente sul personale, ma al punto in cui erano arrivati, gli era difficoltoso (se non impossibile) controllare le proprie reazioni emotive.

Eppure devo riuscirci!
 
“Io non posso credere che si sia fatto arrestare... di nuovo.”

Holmes non aveva ancora avuto modo di guardare Sam, non ci riusciva ad essere del tutto onesti, sentiva di doversi prima tranquillizzare.

“Io...”

Al suono della voce incerta e spaventata del ragazzo, inspirò profondamente e finalmente si voltò verso di lui.

Osservalo, William. Calmati, ascoltalo attentamente.

Sam era visibilmente nel panico. Disperato. Gli occhi gonfi e arrossati, aveva pianto e lo aveva fatto poco prima che si incontrassero.

“Dimmi solo cosa è successo, Sam. Tieni presente che sono al corrente di tutto, non mentirmi. Posso aiutarvi, ma devi dirmi la verità.”
Duro, inflessibile, serafico.

Holmes riprese il controllo di sé e osservò Sam perderlo definitivamente, mentre spalancava gli occhi e probabilmente cercava di rimettere ordine nel caos di ricordi delle ultime settimane.
Seduto al suo fianco, il ragazzo abbassò lo sguardo e prese a tormentarsi le mani che teneva abbandonate in grembo; i capelli scuri e disordinati gli scivolarono davanti al volto accentuandone il pallore, ma lui non si disturbò a spostarli; collo e dita lunghissime, spuntavano fuori da un enorme maglione verde, dentro il quale navigava comodo il corpo magro e sottile tipico di una pubertà appena accennata, che si fa attendere.

“Cosa è successo?”
Chiese nuovamente, cercando di non caricare la domanda di eccessiva insistenza.
 

Fuori, un cumulo di neve piombò al suolo con un tonfo e Sam si voltò distrattamente a guardare la grossa pianta spoglia da cui era caduto, fuori dall’unica finestra che illuminava la sala d’attesa.

“Nevica sempre, da che siamo qui... nevica così tanto...”
Sussurrò prima di tornare a guardare il dottore.

“Sono stanco, Signor Holmes... stanco di cadere senza che nessuno senta il tonfo che fa il mio cuore quando si schianta a terra.”
 
Sam chiuse gli occhi e ricordò.
 
 


 

 
Periferia di Baltimore – Maryland
Due settimane prima
 

Nevica ancora...
 
Quando un cumulo di neve era caduto al suolo con un tonfo, rovinando giù dal ramo appesantito della vecchia quercia che occupava il panorama all’esterno dalla loro finestra, Sam si era voltato a guardare fuori per un secondo.

Nevica sempre.
Pensava.
 
Quella mattina non aveva aperto subito gli occhi, ma il chiarore del giorno gli aveva attraversato le palpebre chiuse quasi con ferocia e lo aveva svegliato.
Il calore di Dean era stata la prima cosa che aveva percepito; si era accoccolato contro il suo fianco, infilando la testa sotto le coperte soffici, e aveva inspirato profondamente il suo profumo.
Si era sentito avvolgere dalle sue braccia ed era stato quasi automatico distendersi sopra di lui e ricambiare il suo abbraccio, in un pigro e assonnato coccolarsi, appena svegli.
Dimentichi di quanto si erano detti la mattina precedente.
Trasportati da quel qualcosa che li aveva guidati e accompagnati durante le settimane che avevano trascorso da soli a Baltimore.

Protetti dal tepore liquido della loro bolla, che li isolava da tutto e tutti.

Con il naso nascosto nell’incavo del suo collo, Sam mormorava il suo nome, Dean, quasi volesse accertarsi che anche il maggiore fosse sveglio, nonostante l’erezione di entrambi suggerisse che si, erano svegli e si, il desiderio era reciproco. Come sempre.

Sam tremava, mentre si spogliava del pigiama.

Nudo e seduto a cavalcioni sopra di lui, quella pigra e bianca mattina di neve che cadeva senza sosta ormai da un giorno intero, Sam non la smetteva di tremare sotto lo scorrere leggero del palmo di Dean sulla sua pelle.
Lui aveva aperto gli occhi. Dean li teneva chiusi.

Lo sterno di Sam era piccolo; la pelle morbida e pallida, quasi completamente glabra, acerba come tutto il suo corpo.
La mano di Dean era già adulta; allargata e posata sul petto del fratello sembrava ancora più grande e più scura.
Sam poteva distinguere il ruvido dei calli dovuti all’impugnatura della pistola, lo sentiva, e ascoltava il suono dei loro respiri, così veloci e forti nel silenzio ovattato della camera da letto.
Si sosteneva sulle braccia, le mani appoggiate alle spalle di Dean, la testa reclinata di lato e le labbra socchiuse, mentre le carezze diventavano intime e il ruotare dei suoi fianchi osceno.

Sam tremava, mentre alzava la maglietta di Dean fino sotto il suo mento.

Scorreva le dita sulla pelle di lui, cosparsa di brividi lungo la scia invisibile dei suoi tocchi insicuri.
Tremava mentre si muoveva impacciato per trovare la giusta posizione, e aveva sussultato quando Dean aveva alzato il bacino, sollevandolo di peso per abbassarsi i pantaloni del pigiama fin sotto il sedere.

Pelle contro pelle, tremavano entrambi.
 
Era così bello, così bello...
Erano perfetti, proprio in quel momento, stavano così bene, perché dovevano fermarsi, perché non poteva essere giusto?
 
Le labbra piene strette tra i denti bianchi, Dean continuava a tenere gli occhi chiusi, ostinato, mentre gli accarezzava il collo, le spalle, la schiena e fianchi.
Perché non mi guardi?
Pensava Sam.
E tremava.
 

Quando il cumulo di neve era caduto dal ramo della vecchia quercia, Sam si era voltato a guardarlo un secondo.
Poi era tornato ad osservare il volto di Dean steso sotto di lui; coi lombi in fiamme, nudo e pronto come non lo sarebbe mai stato in vita sua, si era accorto che finalmente anche lui aveva aperto gli occhi e lo stava guardando.
Era bastato un secondo ed era stato come se il tempo si fosse dilatato.
Un secondo solo per vedere, per capire la portata di ciò che stava accadendo; di ciò che stavano facendo.

Sei mio fratello.
Un secondo in cui i loro sguardi si erano incontrati e incatenati.
Sei la mia famiglia.
Un secondo in cui aveva sentito contorcersi le viscere; e non era eccitazione.
Sei tutto. Tutto per te. Tutto per me...
Un secondo in cui aveva visto un qualcosa di distorto e percepito la paura e la colpa negli occhi di Dean.
Voglio essere tuo.
Non possiamo...
Un secondo. E sulla superficie della loro bolla si era aperto un altro squarcio.
Voglio che tu sia mio...

Non possiamo.
 

Poi lo scatto improvviso della serratura d’ingresso che si apriva secca, il rumore dei passi pesanti di John e Bobby e del loro discutere animato, e il tempo aveva ricominciato a scorrere.
Il fracasso della realtà aveva coperto il tenue suono della neve che cadeva fuori e dei languidi lamenti di un peccato d’amore, dentro.
Sam era scappato via ad una tale velocità da far dubitare a Dean che si trovasse davvero a cavalcioni su di lui, solo un attimo prima di sparire dalla sua camera avvolto nel lenzuolo.
 




 
Baltimore High School – Maryland
Una settimana dopo
 
 


Appoggiato con la schiena al suo armadietto, i libri sotto il braccio, Sam picchiettava col tallone contro l’anta di metallo e si tormentava nervosamente le unghie tra i denti.
Pensava e ripensava.
 
Da quando erano arrivati in quella città, per lui e Dean gli eventi avevano iniziato letteralmente a precipitare ad una velocità spaventosa.
Era inevitabile: lo schianto sarebbe stato catastrofico.
 
 
Dopo essersi parlati nel parco, Sam era rimasto sconvolto. La sola idea di interrompere così brutalmente quella che era diventata una intimità così rassicurante e totalizzante, gli faceva contorcere lo stomaco in spasmi dolorosissimi.
La mattina seguente quello scontro, abbracciati nello stesso letto, Sam voleva Dean così tanto che si sentiva come preda di una febbre altissima e delirante, si sentiva sciogliere in un languore umido fatto di braccia e gambe strette in un intricato ricamo.
Dean si era lasciato andare, e tutto quello che Sam voleva era essere preso, tutto quello che capiva era che andava bene così, che poteva insistere, che doveva insistere, che i sentimenti di Dean erano più forti che mai.

Non possiamo...

Aveva scacciato all’istante quell’attimo solo di debolezza e timore, e si era convinto che se fosse stato abbastanza forte e sicuro per entrambi, Dean avrebbe abbandonato l’assurda idea di allontanarsi.
Ma erano stati interrotti e dopo quell’episodio, Dean si era richiuso in se stesso, evitandolo in tutti i modi possibili.
La costante presenza di John e di Bobby, unita alla tensione e la preoccupazione per la valutazione di Dean che non accennava a giungere al termine, non aiutava per nulla un ipotetico confronto tra loro.
 
E un’altra settimana era trascorsa.
 
Sam pensava e ripensava.
 
È colpa di quello psicologo. Deve essere colpa sua.
 
Non conosceva il dottor William Holmes. Non sapeva chi fosse, non aveva la benché minima fiducia in lui.
Vedeva solo come suo fratello fosse cambiato sin dalla prima volta che ci aveva parlato. Sapeva solo che poteva perdere quello che avevano. Sapeva solo che non voleva.
Aveva paura.
Dean non era semplicemente suo fratello. Dean era tutto per Sam, e Sam non credeva possibile che l’ultimo degli psicologi potesse anche solo avere la sfacciata arroganza di credere di capire cosa volesse dire amarsi, come si amavano loro.
Ed era arrabbiato anche con Dean, si. Perché gli aveva creduto.

Sam e la sua ostentata sicurezza, le sue perentorie decisioni, la sua un po’ sconsiderata giovinezza, proprio Sam, era il muro contro cui gli eventi si sarebbero schiantati.
Ma non ne era consapevole.
 
 
Appoggiato all’armadietto, pensava e ripensava.
Aveva riposto i libri all’interno ed era tornato ad appoggiarsi all’anta.
Aspettava.
 
Era iniziato come un capriccio, un gesto intenzionalmente provocatorio, un modo abbastanza infantile per indurre Dean a capire che non poteva davvero desiderare che tra loro finisse in quel modo.
 
 
 
Micheal Hooper era un ragazzo dell’ultimo anno, che in più occasioni aveva sorpreso a guardarlo con quell’interesse che Sam ormai pensava di saper riconoscere; lo notava da quando lui e Dean si toccavano in quel modo.
Poco più di un sospetto a dire il vero, ma avrebbe giurato di non sbagliarsi.

Nonostante tra loro la situazione fosse estremamente tesa, Dean andava a prenderlo tutti i pomeriggi all’uscita da scuola.
Sam lo sapeva come era consapevole di non essersi mai rifiutato prima di tornare a casa con lui. Mai.
 

Quel pomeriggio, al termine delle lezioni, aspettava Micheal Hooper per uscire insieme a lui e farsi accompagnare a casa.
Dean sarebbe andato a prenderlo, come ogni giorno, e lo avrebbe visto in compagnia di un altro.
Sam sapeva... e voleva che accadesse.
 

Gli eventi erano precipitati.
 
Quando, all’uscita, Dean era sceso dall’auto e lo aveva raggiunto all’ingresso, Sam aveva visto i suoi occhi sgranarsi e ne aveva gioito.
 
“Sammy... andiamo a casa?”

Torno con Micheal, Dean. Grazie!”
 
E si era allontanato assieme al compagno, che li aveva guardati con distratto disinteresse. Ma lo aveva visto, oh se lo aveva visto con che occhi Dean li aveva fulminati, lo aveva visto che aveva serrato la mascella e stretto i pugni, lo aveva visto e Sam ne era fiero.
 
 
Come il nastro di un video che scatta e si riavvolge, la stessa scena si era ripetuta il giorno successivo. E quello dopo ancora. E ancora.
Ogni volta, Dean si faceva trovare puntuale all’uscita per accompagnarlo a casa e Sam rifiutava il passaggio per rimanere in compagnia di Micheal.
Il minore perseverava nei suoi intenti, convinto di essere ad un passo dall’ottenere ciò che entrambi volevano.
 
Micheal era buffo; aveva sviluppato una sorta di strano senso competitivo in presenza di Dean.
Sam lo aveva osservato: si gonfiava e irrigidiva, lo fissava con ostilità e si scioglieva solo quando suo fratello girava i tacchi e ripartiva a bordo dell’Impala di John.
 
 
Il quarto giorno, una settimana dopo il devastante appuntamento con il dottor Holmes (durante il quale aveva appreso della fine della sua valutazione) e prossimo al suo ultimo incontro con lo psicologo, l’autocontrollo di Dean era ormai al limite.
Era solo.
E avrebbe fatto ciò che doveva per porre fine al disastro che aveva combinato con suo fratello minore.
 
Ma Sam non sapeva.
Non sapeva che Dean aveva già calcolato tutto.
Non sapeva di averlo portato allo stremo delle forze.
Non lo sapeva, o forse si, ma aveva scelto di dimenticarsi cosa Dean fosse capace di fare in situazioni di ‘pericolo’.

 
Il quarto giorno, Micheal aveva sfidato Dean. E aveva perso.

Come di consueto, il maggiore li aveva raggiunti nel cortile della scuola e aveva chiesto a Sam di rientrare con lui; in risposta, il liceale aveva afferrato la mano di Sam e l’aveva tirato a sé con fare possessivo, nel chiaro intento di irritare il maggiore. Cosa che gli era riuscita perfettamente.

“Solo per oggi, Sam... per favore. Devo parlarti.”
Aveva detto Dean, gli occhi nei suoi; una supplica silenziosa, seppure penetrante e forte.
Sam aveva esitato un istante, premuto contro il fianco di Micheal, che di fronte al suo tentennare lo aveva trascinato lontano con un gesto aggressivo.
 
“Ma chi sei, il suo cane da guardia? Sparisci, coso!”
 
Dean, rimasto immobile come una statua, lo aveva fissato negli occhi come fosse meno di un insetto, e Sam aveva sentito Micheal tremare contro il suo fianco, allontanandosi poi svelti e ancora mano nella mano.
 
Non avevano fatto che pochi passi, prima che il minore si voltasse a guardare Dean, ancora fermo dietro di loro nella medesima posizione.
Sam aveva visto qualcosa negli occhi del fratello, un attimo prima. E aveva riconosciuto la scintilla che li animava, ma aveva preferito non dargli importanza, aveva preferito non farci caso.
Eppure era la stessa che aveva visto il giorno in cui aggredì gli assistenti sociali, venuti a separarli.
 

Con Micheal, quella sera, non erano andati subito a casa, avevano fatto un lungo giro a piedi e si erano fermati a mangiare ad una tavola calda.
Lui parlava e parlava e Sam si chiedeva quanto ancora avrebbe resistito Dean prima di irrompere lì dentro e portalo via con la forza.
Non aspettava altro.
Sapeva che era vicino, sapeva che non li avrebbe persi d’occhio.

Era ormai tarda serata, Micheal e Sam si erano allungati ancora e fermati a bere e a riscaldarsi in un altro paio di posti.
Intorno alle dieci, Sam si era stancato e aveva salutato il compagno sul vialetto di casa sua.

“C’è mio fratello, guarda.”
Gli aveva detto, indicato l’Impala parcheggiata in fondo alla strada.
“Sarà meglio che vada a casa con lui.”
Aveva aggiunto.

Micheal aveva risposto con un ghigno per niente rassicurate e, nell’istante in cui aveva visto Dean scendere dall’auto per appoggiarsi alla portiera ed attendere che si congedassero, il ragazzo aveva tirato Sam contro di sé afferrandogli una mano, e si era sporto per baciarlo.

Non ci era riuscito.

Dean li aveva raggiunti e lo aveva riempito di botte.
Micheal era a terra prima ancora di rendersi conto di cosa fosse successo e probabilmente aveva perso conoscenza impattando la testa al suolo.
Dean lo aveva colpito al volto ancora un paio di volte, sotto gli occhi spalancati di Sam e le urla impaurite di un paio di passanti.

In pochissimi minuti era arrivata la polizia; Dean aveva opposto un minimo di resistenza (giusto per assicurarsi che lo arrestassero senza farsi male) e poco dopo veniva ammanettato e scortato in centrale.
Sam aveva atteso l’ambulanza che si era occupata di Micheal, poi aveva raggiunto suo fratello al distretto e supplicato ogni agente che incrociava di lasciarglielo vedere e parlare con lui.

Dean non aveva spiccicato parola e non aveva fatto nessuna telefonata.

Sam era disperato e sull’orlo di una crisi di panico e l’unico motivo per cui non era crollato, era stato il pensiero, fulmineo, di avvertire il dottor Holmes.
Aveva già chiamato John e gli aveva raccontato che suo fratello era con una ragazza e lui a dormire da un compagno di scuola.
John non ci aveva creduto, ne era certo, ma probabilmente aveva deciso di lasciare che i figli si togliessero da soli dai casini in cui, con tutta probabilità, si erano andati a cacciare.

E alla fine gli era venuto in mente il dottore.
Forse Holmes li avrebbe aiutati.
Dean era recidivo, la polizia avrebbe ritirato fuori il suo fascicolo e stavolta lo avrebbero chiuso in cella e basta, senza possibilità di sconti.
Ed era tutta colpa sua.

Fino a che punto... fino a che punto amava suo fratello? Fino a che punto lui lo ricambiava?

Tutto per me... tutto per te.

La verità colpì Sam come un pugno in pieno volto.
 
Non possiamo... siamo fratelli.
 
Si sentì mancare, tremare le ginocchia, si sentì inondare gli occhi di lacrime e prima di pensare anche solo a controllarsi, si era rinchiuso nel bagno della centrale e aveva iniziato a piangere disperato, il respiro mozzato da singhiozzi convulsi, seduto a terra con le ginocchia strette tra le braccia.
 
Non posso...
Pensava.
Non posso lasciare che si faccia questo!
 
 
Mezz’ora dopo, uscito tremolante e sfiancato dal bagno, aveva raggiunto la cabina telefonica pubblica appena fuori dal distretto e aveva chiamato l’unica persona che poteva tirarli fuori da quel disastro, recuperando il suo numero dagli effetti personali di Dean, che gli avevano consegnato gli agenti.
 
“Il dottor William Holmes?”
“Si, sono io... chi parla?”
“Mi chiamo Sam Winchester.”
 
 
 

 

Baltimore Police Department, 601 East Fayette Street, Baltimore – Maryland
Oggi

 
 

“Gesù... Gesù Cristo, lo ha fatto di proposito!”

Holmes lo sussurò sgomento, al termine del racconto di Sam, ancora chino ad osservarsi le mani tremanti e seduto al suo fianco scomposto e stanco.
Il ragazzo, confuso, si voltò prestandogli la massima attenzione.

“C-come? Perché?”

Il dottore si alzò e prese a camminare nervosamente per la sala d’attesa strofinandosi le mani a coprirsi la bocca, teso e sempre più arrabbiato.

Non è possibile!

“Lo ha fatto di proposito, perché domani sarebbe stata la nostra ultima seduta... ma certo! Una volta firmato il mio assenso al suo rilascio, avreste potuto lasciare la città e lui non sapeva come fare con te, Sam, capisci?”

In risposta, un sempre più confuso Sam scosse il capo in segno negativo.

“Non sapeva come fare! E tu... lo hai mandato nel pallone più totale comportandoti a quel modo. Vi sareste rovinati la vita entrambi! E così ha pensato bene di rovinare solo la sua...”

E la comprensione arrivò.
Sam capì.

Fino a che punto... fino a che punto ci facciamo del male pur di stare insieme?
 
Il sussurro di quegli attimi di dubbio, la paura, i ‘non possiamo’ e quello sguardo al limite della follia che aveva visto negli occhi di Dean, prima che aggredisse Micheal, tornarono ad assalire i suoi ricordi.
Sam capì ogni cosa e forse era troppo tardi.
Il senso di colpa lo divorò con la ferocia di una fiera affamata e lui crollò, di fronte alla rabbia di Holmes, che in quel momento lo guardava duro e impietoso.

“Che avete fatto? Mio Dio... che diamine avete fatto?”

Sam si raggomitolò sulla sedia e si prese la testa tra le mani.

“Mi dispiace...”

Mormorava, la voce distorta dal pianto e quasi incomprensibile.

“Mi dispiace.”
 
 
Holmes lo guardava impietrito, già conscio di cosa gli sarebbe costato aiutare i fratelli Winchester ad uscire da quella situazione.
Prese forma nella sua mente la strada da prendere e cosa fare.
Si raddrizzò, in piedi di fronte a ciò che restava di un giovane Sam Winchester con un carico di vita sulle spalle che avrebbe piegato un reduce di guerra; schiena dritta, inspirò a fondo e appoggiò una mano sulla testa del ragazzo.
La lasciò semplicemente lì, mentre Sam singhiozzava e chiedeva perdono al nulla e per nulla, per un mostro che era cresciuto senza colpevoli mietendo vittime al suo ingrossarsi.
 
Non seppe per quanto rimasero fermi in quella posizione.
Quando infine Sam si calmò e rialzò con lentezza la nuca mentre Holmes ritraeva la sua mano, lo guardò negli occhi, lucido e stravolto.
 
“Mi dica cosa devo fare per aiutarlo... farò tutto, la prego.”

Sospirò, rassegnato.
Era il secondo Winchester che gli faceva la medesima richiesta.
Peccato che, sin’ora, nessuno dei due si fosse minimamente disturbato a prestargli ascolto.
 
“Farò in modo di mettere tutto a tacere. Ma tu e tuo fratello vi presenterete entrambi nel mio studio domani, alle diciassette in punto e mi ascolterete con attenzione. Chiaro?”

Sam annuì tirando su col naso e ripulendosi alla buona con la manica del suo enorme maglione verde.

“G-grazie...”
Mormorò, alzandosi in piedi di fronte a lui.

“Oh, ti prego! Aspettami qui. E se devi ringraziarmi, fallo domani, dopo aver ascoltato quanto ho da dirvi.”
 
Sam abbassò la testa, imbarazzato, colpevole, eppure profondamente confortato dalla sicurezza che sprigionava la figura imponente e tranquilla di quell’uomo.

Dean aveva riposto fiducia nella persona giusta?
 
Al momento non gli importava esserne certo. Al momento il cuore di Sam era gonfio di colpa e rimorsi; avvertiva solo il bisogno disperato di rivedere Dean e scusarsi con lui, promettergli che sarebbe andato tutto bene, che avrebbe fatto ogni cosa, ogni cosa in suo potere pur di salvarlo e stare con lui.
Si sarebbe strappato il cuore dal petto e avrebbe smesso di amarlo nel modo sbagliato.
Ci avrebbe provato...

Tornò a sedersi e osservò il dottore dirigersi verso un paio di agenti al centralino telefonico.
Domandò loro qualcosa, ma erano troppo lontani e Sam non riuscì a sentirli.
 


 
“Possiamo aiutarla, signore?”
Chiese l’agente Donovan; Holmes lesse il nome sul tesserino che portava appuntato al petto.

“Sarete così gentili da avvisare il Capitano John Watson che William Holmes avrebbe urgenza di parlare con lui?”

Dopo averlo osservato per qualche istante con misurato stupore, uno dei due agenti afferrò il telefono e compose l’interno per annunciarlo al capitano.
 
“Dice di attenderlo qualche minuto, signor Holmes... si accomodi.”
 

 
 
William Holmes era sempre stato contrario ai favori. I favori erano un'arma a doppio taglio. Una scappatoia semplice e veloce, le cui ripercussioni perduravano sin troppo nel tempo.
I favori erano debiti contratti per necessità. E la necessità era uno dei peggiori svantaggi in termini di rapporti interpersonali tra due o più persone.
 
Sam e Dean Winchester sarebbero rimasti per sempre il suo più grande fallimento, Holmes lo sapeva, si infuriava per questo e non si capacitava di quanti sbagli di valutazione avesse commesso da quando li aveva incontrati.
 
Ma avrebbe chiesto mille favori pur di salvarli da loro stessi.
 
 
 



Continua...
 
 
 
 
 
 
 
 
Nda: chiedo immensamente scusa se il tutto dovesse risultarvi incomprensibile e sono a disposizione per qualunque domanda! La narrazione in questo capitolo è complicata, me ne rendo conto e ho sentito per questo l’esigenza di mettervi quelle avvertenze all’inizio; non ho davvero le capacità per fare meglio, quindi se non c’avete capito una mazza, è tutto normale!!! *è una pippa* Ringrazio tutti per tutto e forse il prossimo è l’ultimo capitolo. Mi metto qui e aspetto il lancio di ortaggi marci.
ADDIOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOO
 
Nda2: IL CAPITANO JOHN WATSOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOON!!! *fangirlmode:on* qualcuno mi impedisca di finire il tutto con una johnlock ficcata dentro a forza. FERMATEMI.

 

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Capitolo 8
*** Capitolo 8 ***


Capitolo 8.






 

Febbraio 1999, Baltimore Police Department, 601 East Fayette Street - Maryland

 

 

Lo fecero accomodare nella sala interrogatori 4.

Al buio, attraverso lo specchio unidirezionale, Holmes riusciva a vedere Dean, seduto scomposto ad una scrivania, sistemata al centro di una piccola stanza vuota e male illuminata, mentre picchiettava ossessivamente il piede a terra.
Lo osservò a lungo in silenzio, in piedi di fronte al vetro, le mani giunte dietro la schiena, ripercorrendo con la mente le ultime settimane trascorse da che si erano incontrati e parlati la prima volta. L’ostilità e il vigore che aveva percepito in lui si erano come spenti; Dean era curvo, sconfitto, abbattuto.

Holmes si sentiva allo stesso modo.

Avevano perso contro quel mostro chiamato amore? O poteva ancora aiutarli?

Il dottore non era in grado di darsi una risposta. E detestava la sensazione.

Lentamente, si voltò dando le spalle a Dean, e si accomodò su una delle sedie poste lungo la parete opposta al vetro; accavallò le gambe, appoggiando il piede sul bordo del basso tavolino di fronte.
Ad illuminare la sala, solo la poca luce che proveniva dalla stanza in cui si trovava Dean.

Rifletté su quanto stava per fare e sulle conseguenze delle sue decisioni.

Era consapevole di ogni possibile ripercussione personale e professionale, perfettamente conscio di star per infrangere le regole su cui si fondava il suo lavoro, i valori in cui lui stesso credeva e rispettava da sempre; Holmes sapeva che dopo i Winchester nulla sarebbe mai stato come prima, ma sentiva che era la cosa giusta da fare.

Non si sarebbe tirato indietro.
E se c’era qualcuno di cui si fidava, qualcuno a cui poteva chiedere di condividere un tale fardello, quel qualcuno era John Watson.



Lo attese in silenzio.


 

*

 

Conosceva John da oltre vent’anni.
Holmes ricordava ancora con divertimento e affetto, anche se in maniera assai appannata e vaga, la saletta del pronto-soccorso asettica e verdognola dove un confuso e malandato se stesso, in stato semi confusionale alcolico, sedeva scomposto su una barella col naso rivolto all’insù, nel vano intento di arginare la copiosa emorragia in corso, dopo essersi scontrato con... no, questo non era mai riuscito a ricordarselo.

Era giovane, l’università offriva fin troppi svaghi, lui si annoiava spesso ed era stato più o meno per questo che si era lasciato trascinare ad una di quelle feste assurde tra confraternite del Campus; aveva bevuto e probabilmente irritato qualcuno, le aveva prese (e anche date, dal poco che era riuscito a capire) ed era finito in manette prima di riprendere conoscenza in ospedale.

John Watson era fresco di addestramento e aspettava che il medico di turno visitasse il ragazzino ubriaco e lo dimettesse, per riportarlo in centrale e fargli smaltire la sbornia durante le canoniche ventiquattro ore al fresco per ubriachezza molesta e resistenza a pubblico ufficiale.

Si erano conosciuti così.

L’agente Watson non aveva fatto altro che rimproverarlo e bacchettarlo come si faceva coi bambini, mentre il giovane William malediceva i superalcolici, i compagni universitari e il gigantesco mal di testa che sentiva spingere dietro gli occhi, mentre sperimentava l’alienazione mentale auto-indotta, pur di non ascoltare il blaterare sin troppo confidenziale e fraterno del giovane agente di polizia che aveva quasi aggredito un’ora prima.

Aveva passato il giorno successivo dietro le sbarre, come da copione, ma non da solo. John aveva finito il turno, si era tolto la divisa ed era sceso al piano di sotto in jeans e maglietta per rimanere con lui a fargli compagnia. E continuare a rimproverarlo.
Gli aveva portato un’aspirina e un bicchiere d’acqua.

Avevano parlato tutto il tempo e, solo dopo articolate ed assidue rassicurazioni, William era riuscito a convincere John di non essere un adolescente ai margini della depressione e l’alcolismo.

Se ben ricordava, l’agente era persino riuscito a strappargli la promessa di un esame delle urine per accertarsi che non facesse uso di droghe.

Era quasi divertito da tanta apprensione da parte di questo poliziotto, che poteva avere solo qualche anno più di lui; lo incuriosiva e affascinava questa sorta di ‘candore’, di passione fresca e genuina per il lavoro che si era scelto.

John amava aiutare le persone. William si era scoperto ad ascoltarlo con estremo interesse.

Quando gli avevano aperto la cella e riconsegnato i pochi effetti personali con cui era stato arrestato, l’agente Watson era rimasto al suo fianco per accompagnarlo fuori dalla centrale.
Si erano stretti la mano e scambiati il numero di telefono.

John Watson era rimasto il suo più grande amico (forse l’unico vero), a distanza di vent’anni.

 

*

 
Il capitano entrò qualche minuto dopo di lui, con un paio di caffè caldi in mano, un fascicolo enorme sotto il braccio e un sorriso stanco ma sincero, in sua direzione.

“John!”

Holmes lo salutò andandogli incontro e aiutandolo a posare tutto sul tavolino.

“Will!”

Si strinsero la mano amichevolmente e si accomodarono assieme sulle sedie, uno di fianco all’altro; di fronte a loro, attraverso il vetro, Dean Winchester sempre intento a rimanere immobile seduto a quella scrivania.

“Mi dispiace averti disturbato, so che sei alquanto preso nell’ultimo periodo.”

John gli lanciò un’occhiata quasi divertita, prima di appoggiarsi allo schienale e incrociare le braccia al petto, pronto ad affrontare il problema, qualsiasi esso fosse.

“Non ci provare, ti conosco.”

Holmes, un sopracciglio leggermente arcuato, gambe di nuovo accavallate, mani congiunte in grembo, dritto e composto sulla propria sedia, gli sorrise con affetto e tentò di proseguire.

“John...”

“Non ti farò la predica perché sono più di due mesi che non ti fai vedere né sentire.”

Lo interruppe.

Il dottore sbuffò, vagamente seccato per quella che sapeva sarebbe diventata l’ennesima predica da parte dell’amico; peccato non fosse proprio il momento per questo genere di cose.

“Te la meriteresti... voglio dire, due mesi? Sul serio? Potevano averti ucciso e seppellito da qualche parte, per quanto ne sapevo.”

Holmes roteò gli occhi in risposta.

Il solito esagerato.

“John...”

“Taci, fammi finire. Non ti farò la predica, anche se mia moglie è molto arrabbiata con te e dovrai fare il padrino modello a nostro figlio, se vorrai che un giorno ti perdoni e smetta di tormentarti. Non lo farò. Sono troppo curioso di sapere come mai, esattamente un secondo prima di firmare il trasferimento di questo ragazzo al penitenziario cittadino, proprio tu mi mandi a chiamare con urgenza per parlarmi.”

“Ti stai occupando tu del caso?”

“No. Ma lo tengo d’occhio su richiesta di mia sorella.”

Holmes annuì, come aspettandosi quella esatta risposta.

“Ho parlato con Sherry, qualche settimana fa, te lo ha detto?  Quando mi hanno passato il fascicolo di Dean Winchester e ho visto il suo nome sulla denuncia, ho pensato di sentire direttamente da lei quel che c’era da sapere.”

“Si, mi ha detto che era contenta che ti occupassi tu del ragazzo... il fratello minore è un suo alunno. È ancora qui?”

“È fuori, si.”

John sbuffò e si appoggiò coi gomiti sulle ginocchia, strofinandosi il viso tra le mani. Afferrò il suo caffè e porse l’altro al dottore.


“Perché ho come la sensazione che tutto questo mi causerà forti mal di stomaco da stress?”

Holmes sorseggiò la bevanda e la riposò sul tavolino. Era il momento.

“John... se non fosse l’unica strada possibile, credimi, non mi permetterei mai di fare una cosa simile. Ma mi serve il tuo aiuto, ho bisogno di un favore.”

“Basterebbe già questo a spaventarmi, infatti. William Holmes che chiede favori… moriremo tutti.”

Ridacchiarono assieme, un po’ per distendere la tensione che, soprattutto il capitano, percepiva crescere nel suo amico.

“Forza, levati il pensiero: che tipo di favore?”

“Libera il ragazzo.”

Watson si raddrizzò di scatto e si voltò verso di lui per piantargli addosso due occhi pericolosamente vicini allo sconvolto e l’intenzione di non levarsi quell’espressione dalla faccia per un bel po’.

Holmes, se possibile, irrigidì ulteriormente la propria postura.


“Stai scherzando? Will... è pericolo-”

“No, non lo è. Ti spiegherò tutto ma... mi serve che cancelli quest’ultimo arresto dagli schedari. Fai sparire la denuncia, fai tacere i testimoni. So che puoi farlo, non te lo chiederei altrimenti.”

Guardarono entrambi in direzione di Dean, che non si era mosso di un millimetro e continuava il suo ritmico picchiettare del piede sul pavimento, in aggiunta ad un nevrotico ticchettio delle dita sulla scrivania.

“Vuoi... che insabbi tutto? Hai idea di quanti favori costerà a me, questo? Senza contare che dovrei far ritirare la denuncia ai genitori del ragazzo in ospedale, Will. Lo hai visto come è combinato? Ha la faccia ridotta una poltiglia... quel ragazzo è...”

“Lo so. Ti chiedo di fidarti di me.”

John inclinò leggermente la testa di lato, era combattuto, ma l’argomento fiducia reciproca era ferreo; Holmes lo sapeva, sapeva che si sarebbero sempre fidati l’uno del l’altro, sperava solo che questo non gli avesse procurato altri guai in futuro.

“Ma...”

“Fidati, John. Sai che puoi farlo.”

Nonostante la stanza fosse quasi completamente buia, seduti vicini, il dottor Holmes e il capitano Watson riuscivano perfettamente a vedere l’uno il volto dell’altro.
Esitante, John si riaccomodò contro lo schienale della sedia, mantenendo però il contatto visivo.

“Will, siamo amici da quasi vent’anni, ne abbiamo passate tante, so che sei affidabile. Ma quello che mi chiedi... è da folli! Stento a riconoscerti in un gesto del genere.”

“Me ne rendo conto. E mi assumo ogni responsabilità in merito al suo rilascio. Lascerà la città, te lo garantisco: non sentirai più parlare di lui. Ho fatto degli errori, John... e questi errori hanno portato al suo ultimo arresto.”

“Non dire stupidaggini, sai che non funziona così! Sei il suo psicologo, non la sua coscienza! È responsabile per primo delle sue azioni.”

“Lo sa perfettamente anche lui. È per questo che è qui, lo ha fatto di proposito.”

“Perché?”

“Voleva continuare con i nostri incontri. Appena riottenuta la libertà di andarsene, credeva che non avrebbe più potuto contare sul mio aiuto e non voleva essere lasciato solo contro i problemi che sta tentando di risolvere.”

“Non ha senso. È recidivo, non ci saranno ulteriori valutazioni per il suo rilascio, solo la carcerazione.”

“Lo so! John... solo, dimmi se accetti. Lo puoi fare? Ti fidi di me?”


Gli occhi chiari di William erano limpidi e sicuri, era deciso come non mai; preoccupato, certo; teso, senza alcun dubbio; ma padrone di sé e lucidamente convinto della sua decisione.

Il capitano si grattò la nuca sospirando rumorosamente e bevve il resto del suo caffè d’un sorso, prima di alzarsi velocemente, afferrare il pesante fascicolo e infilarselo sotto il braccio.

“Quando mai sono riuscito a dirti di no, maledizione.”

Holmes gli sorrise rassicurato, rilassandosi all’istante e alzandosi a sua volta.

“E non guardarmi con quegli occhi, Cristo! Quarant’anni e mi sembri ancora quell’irritante moccioso saputello col naso gonfio!”

Il dottore gli porse la mano, sorridendogli ancora con infinita gratitudine.

“Grazie, John.”

Il capitano la strinse energicamente, rivolgendogli un’ultima occhiata esasperata.

“Mi dovrai un mucchio di cene della domenica con mia moglie! E farai da babysitter gratis al tuo figlioccio per almeno un anno!”

“Parola mia.”

“Aspettami in sala d’attesa. Ci vorrà un po’ per mettere a tacere questo casino.”

Il dottore intensificò la stretta e cercò di nuovo il suo sguardo.

“Grazie, John. Davvero... sei un amico.”

“Si, si... sparisci, ora.”


Il capitano Watson si avviò verso la porta ridacchiando, ma si voltò prima di uscire dalla stanza, con la mano ancora ferma sulla maniglia. Sembrò esitare per qualche istante, prima di parlare.

“Will... ha chiamato il padre del ragazzo, circa un’ora fa. Sta arrivando in centrale.”

Gli disse con tono preoccupato. Holmes sgranò gli occhi.

“Non sembrava particolarmente alterato, ma ti confesso che la sua voce mi ha messo i brividi...” Aggiunse.

Il dottore si strofinò nervosamente la mano sulle labbra; mille possibili complicazioni già affollavano la sua mente.

“Cristo...”

“Te la sbrighi tu con lui?”

“Si, certo.”


Quando John uscì dalla stanza, Holmes guardò un’ultima volta in direzione di Dean e sospirò; si sentiva più stanco che dopo intere giornate ad esaminare casi e casi uno più complesso dell’altro. E aveva la preoccupante sensazione che il peggio dovesse ancora venire.


Uscì dalla sala interrogatori 4 e raggiungere Sam per rassicurarlo e aggiornarlo sul prossimo rilascio di suo fratello maggiore.

Lo trovò in piedi di fronte alla grande finestra, gli occhi gonfi e il naso rosso, mentre fissava l’incessante nevicare di un febbraio gelido, illuminato dalla tenue luce dell’alba ormai alta di un’altra fredda mattina a Baltimore.

 

*

 

Quando gli tolsero le manette, il primo pensiero di Dean fu che era finita.

Il cuore stretto in una morsa che sembrava soffocarlo lentamente e dolorosamente.

Pensò che suo padre avesse pagato la cauzione.
Pensò di averlo profondamente deluso e pensò che sarebbe stato punito severamente.
Pensò che Sam era di sicuro fuori ad aspettarlo, e che avrebbe dato di stomaco non appena lo avesse guardato negli occhi e ingoiato a forza qualsiasi cosa avesse provato per lui fino a quel momento.
Pensò anche che non gli importava più.

Era tutto finito.

Il cuore gli faceva un male d’inferno, come se la morsa si facesse sempre più stretta.


Niente più psicologi e valutazioni, glielo avevano spiegato; niente più cazzate, Dean avrebbe dovuto rigare dritto e seppellire il suo orgoglio da qualche parte nel suo cervello bacato, assieme a quel mostro da cui lui e Sam si erano lasciati divorare.

Aveva solo pensato che...
Non aveva affatto pensato, ad essere onesti.

Aveva bisogno di Holmes. Aveva bisogno di qualcuno che lo aiutasse a mantenere il controllo, perché arrivati al punto in cui lui e Sam erano giunti, Dean si sentiva abbandonato a se stesso, preda di una confusione e frustrazione sempre più soffocanti; impotente e sul punto di esplodere da un momento all’altro.

Non voleva fare del male a Sam, a suo padre, non voleva deludere nessuno.
Non voleva, eppure aveva finito per distruggere tutto al suo passaggio, come un uragano ingrossato di piogge, venti e detriti.

Poi era arrivato Micheal.

Aveva picchiato quel ragazzo perché impazziva dalla voglia di farlo dal primo istante in cui lo aveva visto sfiorare Sam.
Aveva picchiato quel ragazzo perché era convinto che farlo lo avrebbe rimesso nelle mani di Holmes, senza dover spiegare a suo padre come mai aveva bisogno di continuare a vedere il dottore.
Aveva picchiato quel ragazzo perché il mostro era lui.

E adesso era tutto finito.

Il cuore gli agonizzava nel torace, intrappolato e soffrente tra le spire del suo amore sbagliato, ramificate e strette attorno al suo nucleo.

 

*

 
Il poliziotto che lo scortò fuori si chiamava John Watson.

Gli parlò, gli spiegò cosa stava succedendo e cosa sarebbe successo da lì all’indomani, quando avrebbero lasciato la città per sempre.
Parlò di accordi, del dottor Holmes, di fiducia.

Dean sentì ma non ascoltò una parola.

Mentre camminava di fianco al capitano e attraversava i corridoi a testa bassa e spalle curve, Dean sentiva il panico montargli nelle viscere.

Era finita.

Sam...

Doveva essere finita.

Sam!


Era in piedi al centro della sala d’attesa, quando lui e Watson li raggiunsero. Al suo fianco c’era il dottor Holmes.

Il suo Sam tremava.

Dean alzò gli occhi su di lui e si sentì mancare la terra sotto i piedi.

Fragile e minuto e piccolo, il minore lo guardava con gli occhi gonfi di lacrime. E fu un attimo, prima che lo raggiungesse correndo e si gettasse su di lui stringendogli le braccia al collo con tutta la forza che aveva in corpo.

“Mi dispiace, Dean... scusami, scusami...”

Singhiozzava, mormorava, implorava.

Dean chiuse gli occhi e ingoiò a vuoto.

Non poteva cedere.

Non finirà mai...


“Non è colpa tua, Sam. Non è mai stata colpa tua.”

Appoggiò la guancia tra i suoi capelli, lo strinse forte a sé e tentò di regolarizzare il respiro impazzito; doveva essere forte.


Si abbracciarono e basta, in silenzio, sotto lo sguardo confuso del capitano e quasi commosso del dottore.

 

 


*

 

 

John Winchester attendeva composto i suoi due figli all’esterno della centrale, fermo in macchina con il motore acceso e le mani strette al volante, rigide fin quasi a bloccarne la circolazione.

Quando li vide uscire, in compagnia del dottor William Holmes e quello che riconobbe subito essere un agente di polizia in borghese, non scese dall’auto né andò loro in contro; aspettò semplicemente che si dicessero quanto avevano da dirsi e salissero in macchina per riportarli a casa.

 

 

 

 

Periferia di Baltimore – Maryland

 


Nessuno dei tre disse una parola durante tutto il tragitto.

Non parlarono quando arrivarono a casa e non parlarono quando entrarono dalla porta e se la richiusero alle spalle.
Dean e Sam camminavano uno dietro l’altro, testa infossata nelle spalle e una stanchezza infinita addosso che sapevano non avrebbe trovato presto riposo.

Lo avevano capito entrambi appena saliti in macchina.

John sapeva.

Non avevano idea di come, né di quando, ma sapeva. Ed era più doloroso, umiliante e terrificante di quanto avessero mai temuto.

Sapeva di loro.


Regnò il più assoluto e agghiacciante silenzio per tutto il giorno, ciascuno chiuso nella propria stanza, impegnato a riordinare le proprie cose e rimetterle nei borsoni, pronti a lasciare la città.

I fratelli dovevano incontrarsi nello studio di Holmes il giorno successivo, poi sarebbero partiti, non servivano altre spiegazioni.

Cenarono da soli. Non parlarono tra loro, non si guardarono, non si sfiorarono neppure per sbaglio.


John li chiamò infine di sotto, poco prima che si coricassero per andare a dormire.

 

Quando scesero e furono entrambi sulla soglia del soggiorno, in piedi di fronte a lui, li guardò negli occhi e comunicò loro quanto c’era da sapere.


“Tralasciando il fatto che voi due siate ancora così stupidi da credere di potermi nascondere qualcosa, voglio che sappiate che finisce tutto qui, oggi.”

Tono fermo, voce imperiosa e sicura, Dean abbassò immediatamente lo sguardo, pietrificato, mentre Sam lo mantenne, ma sembrò cercare la spalla del fratello per sostenersi.

“Sono stato chiaro?”

Il minore si tese fin quasi a spezzarsi di fianco Dean e non disse una parola.

“Sissignore...”

Rispose invece il maggiore, senza permettersi di rialzare la testa e sperando che il debole sussurro della sua risposta fosse sufficiente per entrambi.

“Sam?”

A quanto pareva, non lo era stato.


John si avvicinò lentamente al più giovane e si fermò di fronte a lui.

“Sam?”

Ripeté gelido.

“S-sissignore...”

Bisbigliò infine ques’ultimo, senza staccargli occhi di dosso; sembrava tremare nel tentativo di controllare la rabbia, era rosso in volto e rigido come una statua.

 

“Bene...”

Commentò John, passando in mezzo a loro per uscire dalla stanza e imboccare le scale che portavano al piano di sopra.

Si fermò al terzo scalino e si voltò un’altra volta verso i propri figli.

“Al termine della vostra chiacchierata di domani con il dottor Holmes, lasceremo la città. Fatevi trovare pronti.”

I ragazzi annuirono insieme.

“Bobby ha bisogno di una mano alla rimessa, Dean. Starai da lui per un po’. Sono certo che farà bene anche a te.”

“Ma...”

Il maggiore alzò la testa di scatto, Sam lo guardò come terrorizzato, implorante.


No...

“Sam verrà con me a caccia, nel frattempo. È ora che anche lui impari il mestiere e tu mi sei d’intralcio; gli copri troppo le spalle.”

Continuò il padre.

No... no, no!


Sapevano cosa stava facendo John, sapevano che sarebbe successo, che li avrebbe separati.

Sam sembrò esplodere di rabbia e John se ne accorse, ma non era necessario insistere oltre, avrebbero fatto quanto gli aveva ordinato.


“Questo è quanto. Potete andare a dormire.”

Voltò loro le spalle e fece per riprendere a salire le scale ma la voce malferma e rotta di Sam lo fermò al quarto scalino.

“Era lui?”

Chiese solo.

“Come?”

Rispose John, gelido, sempre di spalle.

“A Chicago... era lui il demone per cui te ne sei andato? Era quello che ha ucciso la mamma?”

“Sam...”

Dean cercò di fermarlo; era impietrito, vide John girarsi di scatto e la collera di suo padre montare veloce; temette che se non fosse stato zitto, lo avrebbe raggiunto e schiaffeggiato.

Il minore scacciò la mano di Dean che aveva raggiunto e afferrato il suo braccio.

“Voglio sapere se ne è valsa la pena, papà...”

“Ti consiglio di tacere, Sam. Non un’altra parola!”

Dura, irremovibile e severa, arrivò la risposta di John, che sibilò con voce inumanamente piatta, mentre inchiodava Sam al pavimento, semplicemente puntando gli occhi in quelli disperati del figlio minore.

“Andate a dormire.”

Salì al piano di sopra, sparendo dietro la parete buia del corridoio, troncando sul nascere ogni discussione.



*


Ne era valsa la pena?

Non passava giorno in cui John non si facesse la stessa identica domanda.

Seduto sul letto, nel silenzio della sua camera, al buio, stringeva in mano la sua pistola mentre passava distrattamente il panno sulla canna per pulirla; non poteva permettersi il lusso di perdere il controllo, doveva fare in modo che la sua famiglia rimanesse in piedi, era disposto a sacrificare ogni cosa, era disposto a farsi odiare. Ma doveva dividerli, doveva porre fine alla follia che i suoi figli avevano generato.

In tutta onestà, era un miracolo che non li avesse uccisi con le sue stesse mani, al primo segno di ciò che aveva capito sin troppo bene facessero.

No... separarli e passare per il padre crudele, era quasi misericordioso.

 

Cosa valeva l’amore di sua moglie e i suoi figli?

Nulla.

Tutto, se in ballo c’era la loro vita.

 

Era colpa sua?

Un’altra domanda, un’altra responsabilità, un’altra croce da caricarsi sulle spalle, assieme a mille altre colpe di cui si era macchiato nella sua vita.

Ma John aveva le spalle larghe e la testa dura di ogni buon soldato. Sarebbe riuscito a passare sopra anche a questo, con la determinazione e la testardaggine di un cingolato da guerra.

 


*

 


Immobili, entrambi i fratelli non mossero un muscolo per quella che sembrò un’eternità.


Quando infine Dean decise che era giunto il momento di affrontare la realtà, lentamente, afferrò la mano di Sam, al suo fianco, chiedendo silenziosamente la sua attenzione.

La strinse nella sua e gli sorrise.

Sam lo guardava affranto, angosciato, ormai incapace persino di piangere, schiacciato da quanto riusciva a sentire e percepire nello sguardo di suo fratello e nel lieve tremore delle sue dita.

“Andrà bene, Sammy... andrà tutto bene.”

L’espressione contratta e sofferente, il minore deglutì prima di riuscire ad emettere alcun suono.

“Io non ho paura, Dean... ci sei tu con me.”

Gli rispose con voce rotta, ricambiando la sua stretta e la disperazione del suo sorriso.

 

 

 

 


Continua...

 

 

 


Nda: voglio scusarmi tantissimo con tutti per non aver ancora risposto alle recensioni del capitolo precedente! *buuuuuuu* SCUSATE! Lo farò prestissimo, nel frattempo voglio che sappiate che le vostre recensioni mi lasciano ogni volta senza fiato! Dovreste vedere la mia faccia XDDD *anche no, ahahahahah*
Grazie di cuore a tutti per il seguito e la passione che mi trasmettete! A questo punto, spero davvero di chiudere con il prossimo ;)
Baci,
Ele

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Capitolo 9
*** Capitolo 9 ***


Capitolo 9.
 
 


 
Febbraio 1999 - Periferia di Baltimore, Maryland

 
Nel silenzioso vuoto della sua stanza, Sam piegava ordinatamente i vestiti nel borsone che aveva posato sul letto.
Era tutto pronto per lasciare la città. Gli altri erano già fuori sotto una pioggia torrenziale e gelida, impegnati a caricare le loro cose sulle macchine, mentre lui indugiava tra magliette e jeans vecchi e logori, quasi tutti rigorosamente usati da Dean.
Guardò a lungo fuori dalla finestra, interrompendo la preparazione del suo bagaglio.
Indugiò su Dean e il peso che sembrava gravargli addosso, come evitava persino di alzare la testa in presenza di John, la sua espressione ferita e tesa, colpevole... vigliacca.

Dovevi prendermi e portarmi via, dovevamo andarcene. Io e te. Per sempre.

Oh, era arrabbiato.
Quanto avrebbe voluto urlargli quelle parole, la sera precedente, quando si fissavano interdetti, in piedi sulla porta d’ingresso del soggiorno.
Ma non sarebbe stato giusto e Sam lo sapeva.
Aveva capito sin troppo bene cosa rischiavano entrambi, continuando sulla strada che avevano intrapreso.
 
Sam guardava Dean zuppo d’acqua, che pian piano scioglieva la neve accumulata nei giorni.
Non era più candida e soffice e pura... ma sporca e pesante.
Sospirò, e riprese a piegare magliette.
 
Perso nei suoi pensieri, si accorse di avere in mano una particolare t-shirt nera, di Dean come tutto il resto, che non gli entrava più ormai da molti anni, eppure lui continuava a conservarla gelosamente.
 
Ricordava quando, da bambino, questo non possedere mai nulla di nuovo lo infastidisse.
Ricordava buffi bronci e fragorose risate da parte di suo fratello, che si era sempre molto divertito a prendere in giro i suoi capricci e le sue fissazioni.
Ricordava... e provava nostalgia per ciò che non c’era più.


 

 
Agosto 1991, Osage County, Oklahoma
 

Era un tardo pomeriggio caldissimo e appiccicoso.
Sam aveva ancora otto anni, portava quei ridicoli pantaloncini sopra il ginocchio.
Dean sudava nella sua t-shirt nuova di zecca, che si era guadagnato centrando tutti i barattoli con la Beretta di John, giusto il giorno prima.
Aspettavano all’esterno del desolato motel di terz’ordine in cui avevano trascorso gli ultimi due mesi, mentre il padre pagava il conto del soggiorno, prima rimettersi in viaggio verso chissà dove.
Dall’interno dell’edificio provenivano, deboli, le note melodiche di un famoso gruppo rock, mentre fuori, il più piccolo si lamentava del caldo, che sotto il sole a picco sull’asfalto era davvero atroce.
Di fronte a loro, sconfinate pianure di assoluto e angosciante niente; l’unico puntino verde era una piccola aiuola all’esterno della reception, che Sam calpestava lentamente alla ricerca di un quadrifoglio, perché aveva appena letto da qualche parte che erano rari e portavano fortuna.
 
“Non ci sono quadrifogli in quel buco, Sammy! Solo pipì di cane. Esci che papà sta arrivando!”

Aveva messo il broncio a Dean, ma era uscito senza discutere.
Suo fratello maggiore lo aveva guardato di sottecchi, perché era raro che Sam obbedisse ad un qualsiasi ordine senza prima spiegare articolatamente le sue personali ragioni sul perché non avesse senso eseguirlo.
 
“Non l’ho trovato.”

Aveva sbuffato, sconsolato.

“Che ti dicevo? Bevi un po’ d’acqua, tieni.”

Sammy aveva bevuto avidamente dal collo della bottiglietta di plastica e Dean aveva continuato a guardarlo.
Il minore aveva le guance rosse e i capelli un po’ sudati, era sporco di terra fino alle orecchie; finito di bere gli aveva sorriso, rispondendo al suo sguardo assorto.

“Perché io non posso avere una maglietta nuova come la tua?”

Gli aveva chiesto, asciugandosi le labbra con l’avambraccio e guardandolo imbronciato.

“Quando saprai sparare come me, l’avrai anche tu.”

“Non ci credo! Avrò la tua, come sempre.”

“Non frignare, Sammy! Questa è una maglietta fighissima e i marmocchi normali pagherebbero per averla!”

Scherzavano sempre così, spintonandosi e punzecchiandosi a vicenda.

“Io ne voglio una mia! Perché non ho mai niente di mio?”

Aveva esclamato infine il più piccolo, piccato.

“Non è vero! Hai... hai... quella tua testaccia scura sempre arruffata!”

Gli aveva risposto il maggiore, scompigliandogli i capelli mentre Sammy si lagnava strillando e tentava di scansare via le sue manacce.
John sembrava non arrivare mai e il fracasso delle cicale, se possibile, faceva sentire ancora più soffocante la calura di quella cittadina sperduta, dimenticata da Dio.
Non avevano nient’altro da fare, forse per questo Dean aveva iniziato ad insistere sul motivo dei capricci del fratellino.

“Non credevo che ti dispiacesse tanto metterti la mia roba, Sammy.”

“Non è solo per la tua roba... è per tutto.”

“E questo che vorrebbe dire?”

“Niente.”

Erano entrambi seduti sui gradini dell’ingresso, quando Dean all’improvviso si era alzato mettendosi le mani sui fianchi, con fare autoritario.

“Ora mi dici cosa c’è che non va, moccioso! Non ti reggo quando fai quel muso sconsolato.”

Allora Sam lo aveva affrontato, alzando gli occhi su di lui e fissandolo.

“Non mi dite mai dove andiamo e cosa facciamo. Tu e papà intendo... mi trattate come un bambino piccolo! Mi scaricate da una parte e dall’altra per fare chissà cosa. E tu...” Prima di continuare, Sam aveva abbassato lo sguardo imbarazzato ed aveva finito per fissarsi le scarpe, torturandosi la canottiera sgualcita con le mani. “... tu sei l’unica cosa davvero mia. L’unica che ho. E non ti interessa niente di lasciarmi solo e andartene in giro a giocare con ragazzini che conosci da due minuti!”

Dean aveva alzato le braccia per aria, arrendendosi al brontolio infantile di Sam.

“Ho solo fatto un giro in bici con - no aspetta un secondo, che hai detto?”

Resosi conto improvvisamente di quello che realmente aveva voluto dire suo fratello, aveva fatto cadere le braccia lungo i fianchi e, poco dopo, in silenzio, si era seduto di nuovo in parte a lui, schiarendosi la voce nervosamente.

“Io... io sono l’unica cosa tua?”

Gli aveva chiesto, ma Sam non accennava a rialzare lo sguardo.
Preoccupato, Dean aveva provato ad insistere.

“Sam, guardami!”

E così aveva fatto il minore, con tutto l’imbarazzo di quella buffa confessione che gli arrossiva le guance già scottate dal sole.

“Sammy, io non...”

Ma Dean non aveva mai finito quella frase; si era zittito, gli aveva passato una mano sulle spalle e lo aveva stretto contro il suo fianco, senza parlare, senza guardarlo.
Aveva appoggiato la guancia ai suoi capelli e aveva sospirato.
E Sam, un bambino di soli otto anni, lo aveva capito già allora; aveva capito che non era giusto ciò che gli aveva detto, che non poteva davvero credere che Dean fosse solo suo. Ma che lo era comunque.
Che con quel silenzio e quell’abbraccio, Dean gli stava dicendo che per lui era la stessa cosa.
Sam aveva sorriso e, furtivo, senza farsi vedere, aveva guardato di sottecchi il viso di Dean vicino al suo, mentre scrutava il panorama di fronte a loro; il sole gli aveva schiarito i capelli e scurito le lentiggini che aveva sparse sulle guance e intorno agli occhi, sul naso arrossato, fin sopra le labbra piene e screpolate per il caldo.
Si era appoggiato alla spalla di Dean e aveva pensato.

Se tu sei mio, allora anche io sono tuo, fratellone.
 



 
Febbraio 1999 - Periferia di Baltimore, Maryland
 


Fu lì, con quella maglietta in mano e gli occhi fissi fuori dalla finestra, su un Dean infreddolito, bagnato di pioggia e forse pentito di ogni singolo istante che avevano trascorso assieme; fu con in testa quel vortice di sensazione e ricordi, preludio di un amore che germogliava precoce e sbagliato; fu così, che Sam capì.
 
Lui e Dean si appartenevano da sempre.
 
Poteva essere cambiato tutto, a distanza di anni, potevano aver commesso innumerevoli sbagli, primo tra tutti l’amarsi, potevano separarli per mesi, forse anni, ma questo non sarebbe mai cambiato.
 
E sorrise, con la stessa innocenza di allora, ma con molta, molta più disperazione e amara consapevolezza dentro.
Ripose la maglietta con cura nella sua borsa e salutò per sempre la casa che li aveva ospitati in quei lunghi giorni di attesa.
 
 



 
Studio privato del Dottor William Holmes, Baltimore, Maryland
 
 

Sam era arrabbiato con lui, Dean lo sapeva.
Non si erano più nemmeno guardati dalla sera precedente, non si erano più parlati.
Aveva provato ad attirare il suo sguardo, proprio lì, mentre aspettavano il loro turno per entrare nell’ufficio del dottore, seduti di fronte a Clarisse, assorta a picchiettare chissà cosa sulla sua macchina da scrivere.
Niente, Sam sedeva composto in parte a lui e guardava fisso di fronte a sé, imperterrito.
 
Dean sentiva la tensione tra loro addensarsi al limite della sopportazione e il mutismo di suo fratello peggiorava le cose rischiando di fargli esplodere i nervi; allora e solo allora, prese coraggio e parlò, per dire l’unica stupidissima cosa che riuscisse a pensare ormai da settimane.

“Non ci sarei mai riuscito, Sam... non sono abbastanza forte, perdonami.”
 
A testa bassa e senza guardarlo, Dean seppe comunque che Sam si era voltato verso di lui.
 
“Lo so.”

Rispose in un soffio, tornando immediatamente a guardare dritto davanti a sé.
 
John e Bobby attendevano fuori dall’edificio. Sarebbero partiti appena finito l’incontro con Holmes. Dean fissava suo fratello e si sentiva esausto, svuotato, privato di ogni volontà e forza, inutile, in trappola.
Si sentiva morire man mano che il tempo di separarsi da Sam si avvicinava, si sentiva distrutto per quanto avrebbe disperatamente voluto e ormai non poteva più fare. Abbracciarlo, stringerlo forte e baciarlo e dirgli che lo amava e che lo avrebbe amato sempre, che mai e poi mai avrebbe permesso a se stesso o chiunque altro di fargli del male.
Avrebbe voluto dirgli addio e si sentiva schiacciare il cuore e bruciare gli occhi, al pensiero che presto non avrebbe più potuto nemmeno vederlo.
Era necessario.
Lo sapeva, eppure... da quel giorno per tutti quelli a venire la sua vita sarebbe potuta sintetizzarsi con un eppure.

Dovrei stargli lontano. Eppure...
È mio fratello. Eppure...
Non dovrei volerlo così. Eppure...
Oggi finisce tutto. Eppure...
 
Angosciato e in procinto di alzarsi da quella sedia e urlare a Sam che lo amava disperatamente, la voce di Clarisse interruppe il vortice dei suoi pensieri.

“Potete entrare, ragazzi.”

Sam si alzò per primo.

“Non sono arrabbiato con te, Dean.”

Gli disse piano, di spalle, prima di incamminarsi.

Tira fuori le palle, cazzo. Alzati!

Pensò Dean e lo seguì poco dopo, spalle curve e mani dentro le tasche della felpa.
 
 

*
 


Aveva smesso di piovere ormai da qualche minuto, ma il cielo gorgogliava e sembrava in procinto di dichiarare nuovamente guerra al mondo, di lì a minuti.
Quando i fratelli entrarono nel suo studio, Holmes era in piedi alla finestra e contemplava la figura tesa di John Winchester che attendeva i suoi figli nel parcheggio dell’edificio, appoggiato alla portiera della sua auto.
Stava fumando una sigaretta. Avrebbe pagato oro per dividerla con lui e ascoltare quanto quest’uomo avesse da dire; ne avrebbe sentite delle belle, ne era certo.
Non gli ci era voluto molto per capire che il padre dei due ragazzi che stavano per mandare in frantumi anni di esperienza e fiducia in se stesso e nelle sue capacità di terapeuta, era venuto a conoscenza del tipo di relazione che legava i suoi figli.
Avrebbe voluto chiedergli di entrare con loro nel suo studio, avrebbe voluto trovare le parole giuste anche per lui.
Ma la realtà era che le parole giuste, con la famiglia Winchester, non esistevano.
La realtà era che, di fronte a questi due ragazzi, Holmes si era scoperto impreparato.
Perché qualcosa, nella vita di Sam e Dean Winchester, rendeva necessario all’uno la presenza dell’altro.
Qualcosa di grave e di essenziale per la loro sopravvivenza, li spingeva a stringersi in un legame che era difficile classificare, che era complicato da mantenere entro certi confini.
Lo aveva capito, la verità lo aveva schiaffeggiato in piena faccia, quando li aveva visti assieme.
Dolore, colpa, rimorsi, dipinti sul volto di entrambi. Ma più di tutto, vide il bisogno, disperato e sincero, di stare assieme, anche se costretti a reprimere per sempre sentimenti sbagliati e impossibili.
Il dottore si girò, osservandoli rigidi e nervosi, mentre si accomodavano di fronte a lui alla scrivania, e il dolore che li affliggeva lo colpì di nuovo, esattamente come mentre li guardava abbracciati in quella sala d’attesa.
 
Allungò una mano verso il plico ben ordinato di fogli che aveva raccolto in una cartellina sul tavolo, lo spinse verso Dean e si accomodò a sua volta sulla poltrona.
 
“È la tua valutazione.”

Disse, serio. Dean si sporse a la prese in consegna.

“Firmata e timbrata. Basterà portarla in centrale. Il capitano Watson vi aspetta, vi scorterà fino al confine di Baltimore. Si assicurerà di persona che lascerete immediatamente la città, su questo non ha voluto negoziare.”

“Si, signore.”

Rispose il maggiore.

Sam taceva, Holmes lo stava osservando attentamente; gli sembrò spento, quasi gelido nella rigidità della postura con cui sedeva; notò la contrazione involontaria della mascella, appena Dean pronunciò le ultime parole.
Pensò che stesse metabolizzando l’imminente distacco. Pensò che John Winchester non ci fosse andato leggero con i figli, dopo il rilascio di Dean.
 
“Vi separerà, dico bene?”

Entrambi i ragazzi sgranarono gli occhi fissandolo increduli.

“Ma come... come lo sa?”

Chiese incerto Sam.
Dean sembrò invece sciogliersi prima, forse si aspettava che avesse compreso ogni cosa, conoscendo meglio il dottore.

“Mi è bastato accorgermi di come evitava di guardare entrambi, mentre vi attendeva in macchina. È un uomo acuto, difficilmente gli sfugge qualcosa... giusto?”

Dean gli sorrise stanco, mentre Sam sembrava ancora molto stupito.

“Staremo, ehm... separati per un po’. È un bene... giusto? Cioè...”

Holmes ebbe un moto di compassione molto forte, verso l’agitazione visibile di Dean e il suo tentare invano di trovare parole che facessero il meno male possibile.

“Perché siamo qui?”

Li interruppe bruscamente Sam.

“Cosa c’è ancora da dire?”

La voce del minore iniziò a vacillare, a tremare progressivamente, e Holmes si rese conto che il ragazzo era sul punto di crollare.

“Cosa... cosa dobbiamo fare ancora?”

Scoppiò, infatti.
Chinò la testa e, sia Dean che Holmes, lo sentirono nitidamente singhiozzare, nonostante il più giovane stesse evidentemente cercando di trattenersi.
Dean, straziato, fece per confortarlo; allungò la mano verso la spalla del fratello, ma con un cenno del capo, Holmes gli diede ad intendere che fosse meglio lasciare che si calmasse per conto proprio.
 
“Tutto ciò che ho da dire io, è che vi chiedo perdono.”

Disse Holmes dopo qualche secondo.
Quando Sam rialzò la testa, gli occhi lucidi e rossi dal pianto, sembrò crollare definitivamente e sfogare tutta la tensione accumulata, il dolore della separazione ormai prossima e il peso delle azioni commesse, volute immensamente, ora impossibili da cancellare.

“Perdono per cosa?” Soffiò debolmente il più giovane. “Lei non ha fatto nulla.”

Lo sguardo di Holmes si addolcì e sostenne quello perso e distrutto di Sam. Desiderò, sperò con tutto se stesso che il suo dispiacere fosse tangibile, che la sincerità del suo rammarico per non averli saputi e potuti aiutare (più di quanto fatto), fosse percepita come intensa e reale.

“Proprio per questo. Non ho potuto fare niente, non sono riuscito a fare niente. Non ho parole magiche per voi, non c’è nulla che nessuno possa fare per alleviare i vostri sensi di colpa, per farvi smettere d’improvviso di provare ciò che provate.”

Il pianto di Sam, ormai innescato e inesorabile, coinvolse anche Dean che a stento reprimeva il proprio, trasformando il suo volto in una maschera di profonda sofferenza. Il maggiore non distolse mai gli occhi da suo fratello, pietrificato dalla quantità di pena che sentiva provenire da quest’ultimo.
Sam stava piangendo per entrambi. Eppure restava dritto, a testa alta, pugni chiusi e rigidi poggiati ai braccioli della poltrona.

“Non voglio che Dean soffra... non l’ho mai voluto.”

Il minore sembrò confessarlo con fatica. Fu difficile liberare quelle poche parole nell’aria, pesanti come macigni, come attendendo inerme che giungesse infine la punizione adeguata a quanto sentiva gravargli nel cuore da così tanto tempo ormai, che non ne aveva memoria.
Al contrario, l’innocenza e la dolcezza delle sue parole diede prova al dottore di non essersi mai sbagliato: nulla di quanto avessero mai commesso Sam e Dean, da che erano arrivati in quella città (da che erano nati) poteva definirsi una colpa, quanto invece, una tremenda catena di inevitabili eventi.
 
“Sammy...”

Sussurrò Dean, distrutto.

“Ed è questo che ho fatto... che abbiamo fatto, Dean. E tu... tu non ti perdonerai mai per questo e io non perdonerò mai me stesso per aver lasciato che accadesse.”

Alzò lo sguardo, stravolto, verso suo fratello maggiore, che mai aveva abbandonato il suo.

“Ho capito perché sei venuto da lui, so perché hai dovuto farlo. Quello che non so, è come fare a smettere, Dean... come fare a smettere di amarti così.”

Pianse più forte e sembrava così piccolo, così indifeso, che fu straziante; Holmes non ebbe nulla di dire, stavolta, quando Dean gli toccò una spalla con la mano e vi poggiò poi la fronte, tentando sottovoce di calmarlo.
Non c’era modo in cui William Holmes riuscisse a considerarli solo pazienti, non c’era modo in cui ormai fosse in grado di mantenere con loro il distacco che sarebbe stato necessario.
 
Il dottore, infine, a stento consapevole del tempo che era passato, la schiena poggiata stancamente alla poltrona, le mani congiunte di fronte a sé, vicino al loro dolore eppure impotente, a disagio, straziato da ciò a cui stava assistendo, divenne improvvisamente consapevole di quanto poteva ancora fare per questi ragazzi, di quale ruolo avrebbe potuto giocare ora che erano alla fine, ora che si decideva del loro futuro.
Prese la sua ultima decisione e si schiarì la voce, nel tentativo di interromperli il meno bruscamente possibile.

Regalerò loro un po' di tempo.

Si alzò lentamente in piedi, aggiustandosi il vestito e attirando l’attenzione dei ragazzi, che sollevarono il viso per osservarlo.

“Credo... che Clarisse abbia bisogno di me. Vi aspetto fuori, fate... con calma.”

Dean si strinse le labbra con la mano, gemendo un grazie appena sussurrato, mentre Holmes gli sorrise velocemente prima di voltare loro le spalle e avviarsi alla porta d’ingresso.

“Ditevi addio. E tornate ad essere fratelli.”

Così dicendo, il dottore uscì dallo studio, lasciandoli immobili e seduti alla sua scrivania.
Si accorse di aver trattenuto il fiato, perché rilasciò un sospiro lungo e affannato, appena mise piede fuori dalla stanza.

Trovò Clarisse a fissarlo preoccupata.

“Le concedo una sigaretta, Dottore. Ha proprio la faccia di uno che ne ha bisogno.”

Le sorrise sincero e si incamminò verso il terrazzo perché, spesso, i consigli di Clarisse si rivelavano essere i più saggi.

Sperò di cuore di aver fatto la cosa giusta.
Sperò di cuore che il tempo che aveva concesso a Sam e Dean da soli, avrebbe permesso loro di chiudere con le colpe e i rimpianti, e andare avanti consapevoli di averlo scelto in due.
Sperò di cuore di non trovare sulla propria strada un altro Dean, perché in qual caso, avrebbe cominciato a contemplare seriamente il suo possibile e precoce ritiro dalla professione.
 
Era possibile psicanalizzare un Winchester? Forse. Forse, William Holmes semplicemente non era l’uomo giusto per quel compito. E avrebbe dovuto convivere con questo limite per sempre.
 
 
 
 
 

Continua...
 
 
 
 
 
 
 
 
Nda: dai gente, fatemi chiudere con 10 che è tondo e fa più figo! XDD
Dunque, rassicuro immediatamente chiunque sia ancora sintonizzato, dicendo che la storia è finita, ho scritto e betato anche il prossimo capitolo, quindi arriverà puntualissimo tra esattamente una settimana. Poi ci saluteremo per sempre. *alleluia*
Infine, con l’autorizzazione della mia beta (nonché carissima amica, nonché adorato germano, nonché amore della mia turbolenta vita da fangirl), condivido con voi uno dei tanti scleri che questa santa donna ha dovuto sopportare durante i mesi di stesura di questa storia.
Perché si, pippatevelo!
 
 

 
Le rocambolesche avventure di Simo & Ele su Skype
***
[17:35:40] Ele 106: sai cosa? Probabilmente se scrivessi ora, Sam finirebbe orfano perché John avrebbe ucciso Dean per poi suicidarsi e lasciarlo in vita nella vergogna. E Holmes, testimone di tutto, avrebbe insabbiato e mantenuto Sam anonimamente. E poi sarebbero finiti a letto insieme.
[17:36:30] Thinias: ma poveri XD
[17:36:33] Ele 106: buahaha oddio muoio, muoiooooooooooooooooooooooooo
[17:36:43] Thinias: daiiiii
[17:36:55] Ele 106: aiuto soffoco *si asciuga le lacrime* E il cerchio si chiude: Holmes, pazzo per aver giaciuto con un minorenne, si suicida e lascia le sue memorie scritte alla segretaria
[17:37:45] Thinias: allora la finisci??? XD
[17:37:47] Ele 106: che le chiude a chiave in una cassaforte, senza leggerle. La storia dei Winchester morta per sempre
[17:37:57] Thinias: e nessuno lo saprà mai
[17:38:00] Ele 106: pfffffffffffff
[17:38:05] Thinias: emmmm, anche no
[17:38:20] Ele 106: no ascolta, dobbiamo pubblicare sta conversazione, ti prego. Bisogna far ridere il mondo! Dimmi che lo posso fare!!!
[17:38:46] Thinias: ahahahah non capirebbero
[17:38:48] Ele 106: *non ce la fa* guarda, io la pubblico nelle nda del prossimo capitolo
[17:39:33] Thinias: ok va bene XD
[17:39:35] Ele 106: scriverò ‘per capire la crisi esistenziale che ha attraversato l'autrice, prima di partorire sto capitolo’
[17:39:37] Thinias: salvatela
[17:39:43] Ele 106: eccovi una conversazione interessantissima con la sua beta, che naturalmente si  dissocia completamente ahahahah
[17:40:16] Thinias: aggiungi ‘e per capire l'infinita pazienza della beta che si sente come Holmes’

 
***
 
E dopo questa, la fuga e l’anonimato eterno.
Ele

 

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Capitolo 10
*** Capitolo 10 ***


Capitolo 10.



 
Dicembre 1998 – Baltimore, Maryland



‘Risponde la segreteria d’emergenza di John Winchester. Lasciate il vostro messaggio dopo il segnale acustico.’
*bip*

“Papà? Sono sempre Dean, io... non credo che risponderai più a questo punto. Ho... io e Sam siamo... papà, cazzo ti conviene essere sparito per una cosa dannatamente importante, perché qui è un fottuto casino!”

Dean appese il ricevitore con rabbia. Nella cabina telefonica di fronte al liceo, vicino a dove lui e Sam si erano sistemati, c’era puzza di sudore e metallo condensato.
Si appoggiò al telefono con un braccio, vi seppellì la faccia e soffocò un lamento di frustrazione.
Non sapeva esattamente cosa avrebbe dovuto dire a suo padre.

Io e Sammy abbiamo quasi fatto sesso, ieri notte? Avevamo paura? Avevamo freddo? Tu non c’eri...

Palle, erano un mare di stronzate!
Che cazzo era successo quella notte con Sam? E perché, dannazione al mondo intero, non riusciva a farsi schifo?

Dean uscì dalla cabina e sospirò, notando lo sbuffo bianco del suo fiato di fronte a sé e accorgendosi che aveva iniziato a nevicare.
Era già quasi buio, era tardi, si alzò il colletto della giacca troppo leggera e si incamminò verso la stanza di motel appena affittata, pensando che avrebbe dovuto trovare in fretta il modo di guadagnare un po’ di soldi e fare compere, perché faceva un freddo atroce in quella dannata città.

Diede un calcio ad una lattina vuota abbandonata per terra e rallentò il passo.

E ora che accidenti faccio?

Fino a quel momento avevano avuto un sacco di cose da fare, non c’era stato modo di parlarne. Ma adesso? Sarebbe tornato da Sam e che avrebbe fatto? Cosa gli avrebbe detto?
Sarebbe bastato solo che suo fratello non riprendesse mai più il discorso e tutto si sarebbe risolto. Tutto finito.
Cristo, allora perché il pensiero gli faceva pungere gli occhi neanche fosse una stupida ragazzina piagnucolosa?
Dean tirò su la testa e proseguì a passo più spedito.


*

Fu tutto molto semplice, a dire il vero. E dolce. Oh, e così bello che Dean non lo avrebbe mai creduto possibile.
Tornato in stanza, Sam aveva già unito i due letti singoli e sedeva a gambe incrociate al centro, con quell’espressione un po’ spaventata e nervosa, ma paziente e gentile al tempo stesso.
Gli sorrideva, gli occhi erano quasi liquidi, e sembrava così imbarazzato, emozionato, così gracile dentro quella tuta larga e comoda.
A Dean quasi cedettero le gambe, perché Oh mio Dio, improvvisamente fu consapevole di cosa avevano davvero fatto, di cosa lui gli aveva effettivamente fatto.

Sono stato il primo.

Un colpo al cuore e una rivelazione, al tempo stesso.
Si sentì esplodere di gioia e insieme di terrore e stette in piedi a guardarlo fisso, come un idiota, finché non fu Sam ad alzarsi e avvicinarsi a lui.
Sembrava tremare un po’, ma era sempre stato lui il più coraggioso in certe cose, Dean lo sapeva ormai meglio di chiunque altro.
Si sentiva un imbecille totale, imbambolato e rigido come un palo, ad occhi sgranati; una parte di lui avrebbe voluto fuggire a gambe levate.
Ma Sam aveva le labbra più dolci e buone del mondo.
E quando si sporse per baciarlo, Dean non ebbe più assolutamente nulla da dire. Sentì solo il cuore (il suo e quello di suo fratello) sfondargli la cassa toracica.


*


Le coperte erano un buon modo per nascondere ciò che avveniva sotto.
Anche se si attorcigliavano ai piedi e qualche volta gli sembrava di soffocarci dentro, erano calde e protettive, erano una casa dentro le cui mura si consumavano i segreti più intimi.

Sam era tutto attorno a lui, gli avvolgeva le braccia al collo e le gambe intorno ai fianchi; gli respirava veloce addosso, mormorava il suo nome.
A Dean piaceva sentire come la sua voce si scioglieva man mano che lui lo toccava un po’ più veloce; gli piaceva come soffocava i gemiti quando stava per venire contro il suo stomaco; gli piaceva da impazzire che non fosse capace di ricambiare, perché a Dean bastava sentirlo contorcersi e avvinghiarsi a lui, per farselo diventare duro.
A Dean non dispiaceva per niente venire per ultimo, perché scoprì presto che, se Sam non ci sapeva fare con le mani, durante, era invece piuttosto bravo con la bocca, dopo.
A Dean non dispiaceva neppure ricambiare anche questo.


*


Fu tutto così semplice che finse persino di non notare il fatto che Sammy, durante il giorno, non parlava quasi mai, dopo l’incidente di Chicago (così lo chiamava).
Non importava poi molto, perché di notte invece, parlava eccome.

E finse anche di non dare importanza alle numerose telefonate ricevute dalla professoressa Watson, che insisteva per parlare con il padre di Sam per discutere con lui del preoccupante mutismo di suo figlio e del suo completo disinteresse verso l’interazione con gli altri compagni di liceo.
Dean si inventava scuse, liquidava la zelante maestrina con una battuta, e non ci pensava più.


*


‘Risponde la segreteria d’emergenza di John Winchester. Lasciate il vostro messaggio dopo il segnale acustico.’
*bip*

“Stiamo bene, papà. Io... sto facendo del mio meglio, lo sai vero?”

Certe volte il groppo che gli si formava in gola non ne voleva sapere di scendere, a Dean sembrava di ingoiare biglie di vetro; erano sensi di colpa, ma ormai era abituato e ingoiava anche quelli.

“Papà... dove sei?”

*bip*

E il groppo andava giù.


*


Fu tutto troppo semplice e bello, Dean non lasciava nemmeno più messaggi a John.
Ad un certo punto pensò addirittura che quella fosse la vita che avevano sempre voluto, che lui e Sam si fossero incontrati lì, a Baltimore, come due estranei che si fermano dopo un lungo viaggio e si trovano in fondo alla strada del destino.
Sarebbero rimasti loro due per sempre, così, e nessuno lo avrebbe mai saputo.


*


Fu una cosa stupida, in tutto e per tutto. Una sera lo disse persino a Sam.

“Pensi mai che stiamo facendo la cosa più assurdamente sbagliata del mondo?”

Non erano esattamente i discorsi più adeguati da fare, ancora meno se (come loro in quel momento) ci si trovava a rotolarsi insieme tra le lenzuola.
Ma gli uscì spontaneo, ed era davvero curioso di sapere cosa frullava nella zucca scura di Sam, da quando avevano iniziato a... beh, non proprio a fare l’amore perché fino in fondo non c’erano mai andati (e Dean sapeva benissimo di essere un vigliacco per questo, ma si sentiva meno in colpa per non averlo mai fatto e tanto bastava a fermarlo dall’oltrepassare anche quel limite), ma qualcosa del genere.
Sam lo guardò a lungo, un’espressione indecifrabile che lo mise quasi in soggezione.
Era sdraiato sotto di lui, Dean lo schiacciava col proprio peso sul letto. Aveva i capelli tutti spettinati e sparsi sul cuscino, le labbra gonfie e la pelle arrossata, era la cosa più bella che avesse mai visto.

“Non guardarmi così, che ho detto?”

Riuscì a chiederli deglutendo.
Suo fratello rimase zitto, gli solleticò le labbra con le dita di una mano, prima sopra e poi sotto, gli occhi sempre inchiodati ai suoi. Dean a quel punto ebbe solo voglia di baciarlo come se non ci fosse un domani, e quasi si era già scordato il discorso.
Mentre il suo Sam gli sbottonava i jeans e intrufolava la mano all’interno, gli disse che un giorno, forse tra molti anni, magari l’avrebbe vista così.

“Per ora... tu sei l’unica cosa bella della mia vita.”

Gli bisbigliò sul collo.
Dean pensò che fosse un’ottima risposta.







 
Febbraio 1999 - Studio privato del Dottor William Holmes, Baltimore, Maryland



Sei l’unica cosa bella della mia vita...

A Dean sembrò un pugno in pieno stomaco; improvviso, veloce, crudele, di quelli che non sei per nulla preparato ad incassare, che ti piegano in due, se sei fortunato e non ti spezzano del tutto.
Sentì quelle parole in testa, come se Sammy le avesse dette in quel momento, sentì le sue mani sulla pelle, come le avesse ancora addosso.
Si sentì morire.

Sei l’unica cosa bella della mia vita...
No, Sammy, non lo sono. Non devo esserlo.


*


Non passò che un attimo, dopo che il dottor Holmes ebbe lasciato lo studio.
Dean aspettò che la porta si chiudesse alla loro spalle e scattò in piedi. Prese Sam per le braccia e se lo strinse contro come volesse farselo passare attraverso.

“Sammy, scusami... scusami.”

Gli ripeteva, stringendolo più forte.

“Smettila!”

Rispondeva suo fratello, avvolto, quasi nascosto tra le sue braccia, e per Dean fu troppo; quel groppo di sensi di colpa che ingoiava da settimane, gli risalì la gola e prese forma in parole.

“Non eri in te, non stavi bene... io dovevo capirlo, io...”

Sammy gli colpì la spalla con un pugno, poi con due, poi nascose ancora di più il volto contro il suo petto.

“Lo sai che non è così!”

E allora Dean attese, non disse più nulla. Aspettò paziente che Sammy smettesse di singhiozzare, che il suo corpo si rilassasse pian piano, che riuscisse quantomeno a reggersi in piedi da solo, perché sembrava tanto fragile da frantumarsi nel suo abbraccio.

Dio ti prego, ti prego, non voglio che soffra così... Dio aiutaci.

Si ritrovò a maledire e poi pregare e pregare ancora, senza fiato, che il cuore di Sam non si spezzasse assieme al suo.

“Dì qualcosa...” Supplicò Sam e nemmeno seppe come riuscì a parlare in mezzo a tanto dolore.

“Io ti amo, Sammy.”

Gli disse infine, perché era vero, perché quello non sarebbe mai cambiato, perché prima di dire addio ai baci e alle carezze, Dean voleva che Sam sapesse.
Suo fratello smise di piangere e d’un tratto lo guardò come solo lui sapeva fare, come prima di fare l’amore stretti in un letto già sfatto, con quei due pozzi liquidi così simili ai suoi, il colore che si perdeva in onde umide, lacrime che cadevano pesanti come macigni.
La mano di Sam era sul suo petto e, a quelle parole, si strinse aggrappandosi alla sua felpa; Sam poggiò la fronte sulla spalla di Dean e respirò forte, tentando di controllare il tremore del proprio corpo.

Sono tuo, lo sarò sempre.

C’erano così tante cose che non gli aveva mai detto e mai lo avrebbe fatto.
Sam ingoiò lacrime e dolore, alzò di nuovo la testa, insicuro e delicato come una foglia che cade, gli accarezzò le labbra con le dita di una mano, come aveva fatto mille altre volte, e poggiò poi lieve le proprie su quelle di Dean.
Il maggiore chiuse gli occhi e lasciò che fosse il loro ultimo bacio a fare il resto; si concesse di socchiudere appena le labbra e assaporare quelle di Sam, perché da quel momento in poi avrebbe solo potuto ricordarle.
Sentì il sapore delle sue lacrime e capì che insieme, vi erano mischiate anche le proprie.

Un addio è un addio. Per quanto dolce, riesci sempre a sentirne il salato in sottofondo.

Le fronti unite, le mani strette, poggiate proprio sul cuore di Dean, rimasero a lungo in silenzio.
Quando il maggiore recuperò le forze per fare qualcosa, allontanò Sam con gentilezza, continuando a tenergli la mano; con l’altra, gli asciugò le lacrime e si prese del tempo per imprimersi nella mente ogni dettaglio del viso di Sam così vicino, proprio come lo vedeva in quel momento.
Prese un profondo respiro e si raddrizzò.
Entrambi capirono che era il momento.
Che i Sam e Dean di Baltimore si erano detti addio. Che ora si tornava alla realtà.

Avrebbero potuto parlare ancora e ancora. Scelsero invece di non farlo, scelsero di posare nel silenzio il primo mattone della loro nuova esistenza da fratelli.
Non sarebbero mai tornati come prima, non erano più bambini. Non erano colpevoli, ma non erano nemmeno innocenti, erano adulti e dolorosamente consapevoli di quanto rischiavano di perdere.
E dovevano sopravvivere.


*


Uscirono insieme, spalla contro spalla, la devastazione di un lungo pianto che rigava loro i volti e segnava di rosso gli occhi.
Holmes li attendeva seduto alla scrivania con Clarisse, ma si alzò appena li vide e si avvicinò loro per salutarli.

“Fate buon viaggio.”

Strinse la mano di Dean che gli regalò un occhiolino furbo ma finto, e poi passò a Sam che gli rivolte un sorriso talmente triste, da stringere il cuore persino alla sua implacabile segretaria.
William Holmes li guardò uscire dal suo studio più vicini di quanto avrebbero dovuto essere, senza che ci fosse alcun contatto tra loro.

“Buona fortuna... “

Guardò la schiena di uno e dell’altro e sentì che Sam e Dean erano questo: un nucleo irraggiungibile, impenetrabile per chiunque fuorché loro stessi; l’abbaglio fugace di un contatto che finisce inesorabilmente con loro due, inseparabili, che abbandonano un campo di battaglia alla ricerca del prossimo. Due schiene, unite, da guardare un’ultima volta andar via.


*


Nome paziente: Dean Winchester
Stato valutazione: Terminata
Conclusione: Idoneo al rilascio
Osservazioni aggiuntive: relazione incestuosa e problematiche relative volontariamente represse dal paziente.




 
Ҩ Ҩ Ҩ Ҩ Ҩ Ҩ Ҩ




 
Ottobre 2005, Notte di Halloween
Appartamento di Sam Winchester e Jessica Moore - Palo Alto, California




C’erano poche cose di cui Dean Winchester era certo nella sua vita.

A ventisei anni sapeva che i demoni esistevano e che uno di loro aveva assassinato sua madre.
Sapeva che, col tempo, lui li avrebbe uccisi tutti.
Sapeva che Sam, un bel giorno, se n’era andato al college perché voleva abbandonare quella vita (e lui).
Sapeva fottutamente bene di essere molto arrabbiato per questo.
Sapeva che sarebbe morto pur di proteggerlo e che, nel profondo, la sua scelta di andarsene era stata più che giusta.
Sapeva che lo amava come allora, come quell’inverno di sei anni prima a Baltimore, quando faceva un freddo del diavolo ma lui non aveva mai sentito più caldo di quando lo toccava tra le gambe, sotto le coperte del loro letto, in una pidocchiosa stanza di motel, a pochi metri dal liceo cittadino.
Sapeva che si erano detti addio già molte volte.

Sapeva tutte queste cose, mentre forzava la serratura dell’ingresso al suo appartamento, che da qualche tempo divideva con una bella ragazza bionda e formosa.
Era, senza ombra di dubbio, la peggiore scelta della sua vita. Avrebbe dovuto tenere fuori Sam, come lui aveva scelto, rispettare la sua decisione e cavarsela da solo.
Ma quello che sapeva più di tutto, era che suo padre non si faceva vivo da tre settimane e, che se fosse morto anche lui, il suo cuore non avrebbe retto.

Dean aveva dato fondo alle alternative e di John nessuna traccia.
Si sarebbe ripreso Sam e si sarebbe fatto bastare quel che aveva da dargli.
E se avesse dovuto riaprire la ferita sanguinante del loro vecchio e mai morto peccato, che Dean fosse dannato in eterno, lo avrebbe fatto.


*


“Dean? Che accidenti ci fai qui?”

Sammy ansima quando lo atterra, gli sta sopra a cavalcioni e Dean quasi non ci vede più, quasi gli prende un colpo al cuore per quanto il suo odore gli arriva forte, si infila sotto la pelle, nelle ossa e Dio, mi sei mancato da morire, Sammy.
Picchia ancora duro il suo fratellino, Dean ne è fiero, come quando se le davano di santa ragione da piccoli, quando ancora sapeva dove e quando fermarsi con lui.

Lo vede. C’è buio e fa un caldo del cazzo, Dean è stanco più di quanto ammetterà mai, ma i sensi gli funzionano perfettamente; è un dannato cacciatore e non si sbaglia mai, lo sente quando la sua preda ha paura, quando l’eccitazione manda brividi al cervello e pompa vita nelle vene.
Il viso di Sam è vicino al suo come quando si baciavano di nascosto, come quando la sua lingua arrivava a toccargli i punti giusti; ha la pelle d’oca sulle braccia, gli tremano le mani e la voce è malferma.
Dean lo capisce, lo riconosce nello scintillio terrorizzato dei suoi occhi.

Non è cambiato niente. È ancora mio.

Gli verrebbe da ridere, non fosse che ce l’ha quasi duro ed è tutto talmente sbagliato e tragico che ci sarebbe da strapparsi i capelli e piangere fino alla fine dei suoi giorni.
Quando si rialzano e accendono la luce, è esattamente tutto come deve essere.

È ancora mio.

“Papà è andato a caccia e manca ormai da qualche giorno.”

Vieni con me, Sammy. Perché sei tu... sei sempre stato tu l’unica cosa bella della mia vita.

C’è solo un attimo, un momento di debolezza, di esitazione, un istante in cui Dean ripensa a quel dottore dall’aria furba e intelligente, con quegli occhi di ghiaccio che sembravano lame affilate. Ripensa a tutto quello che fece per loro, ripensa ai modi in cui aveva tentato di salvarli e, in parte, ci era persino quasi riuscito.

Chissà che direbbe Doc, se mi vedesse adesso.

Pensa.

Fanculo.

Dopo tutto, riflettendoci meglio, il fottuto universo quella fottuta tregua ancora gliela deve. L’universo è fottutamente in debito con lui.

Forse aveva ragione quel tale, non si ricorda nemmeno chi accidenti fosse.



Gli amori impossibili non finisco mai. Sono quelli che durano per sempre.









Fine


 
A Marzia... lei sa perché <3
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Nda: Pipol del fandom! Vi rubo un secondo per ringraziare con tutto il mio cuoricino wincestoso le tante persone meravigliose che ho incontrato da che pubblico e recensisco su questo sito.
 
Grazie
 
Mi avete sempre incoraggiata, fatto un mucchio di complimenti e trasmesso una voglia matta di continuare a scrivere. In questa storia in particolare, ho messo tanto cuore, tanta passione e il massimo delle mie capacità. Sono contenta... massì, tutto sommato mi sembra di aver chiuso il cerchio, per così dire.
Il resto è storia.

Un ultimo ringraziamento alla beta, Thinias, per la pazienza infinita che ha con me. Se ancora non lo avete fatto, vi invito a leggere la storia che sta traducendo, Under falling leaves, perché ne vale davvero la pena. FIDATEVI!


Niente, detto questo, vi abbraccio forte forte!
Ele106 (@orsettobiondo)
#off

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