Rovi & Rose

di vannagio
(/viewuser.php?uid=79904)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 9 ***
Capitolo 10: *** Capitolo 10 ***
Capitolo 11: *** Extra ***
Capitolo 12: *** Secondo Extra ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


Per la serie…
“Quando vannagio vaneggia!”




Capitolo 1




Che quella sarebbe stata una giornata del cazzo, JD l’aveva capito subito, nel preciso istante in cui aveva trovato Darla seduta sul marciapiede, davanti al negozio di tatuaggi. Stava fumando una sigaretta, come la sera in cui l’aveva assunta, e sorseggiava caffè nero da un bicchiere di cartone di Starbucks.
«Perché non hai aperto? Hai dimenticato le chiavi a casa?».
Lei gli porse un altro bicchiere di caffè, identico al suo. Ghirigori fumosi si sollevavano dal bordo del bicchiere, attorcigliandosi su loro stessi e disperdendosi nell’aria frizzante del mattino.
«Bevi questo prima, ti aiuterà a incassare il colpo».
Troppo tardi. JD si era già accorto dell’enorme graffito che imbrattava la saracinesca. Il lavoro di un artista, nulla da eccepire, peccato che la scritta dicesse “Paga o ti fottiamo”. Un poeta, proprio. Sospirando, JD estrasse la chiave dalla tasca dei jeans e la infilò nella serratura. O almeno ci provò. Perché la chiave non entrava, la serratura era come…
«Incollata. È tutto inutile, ci ho già provato io».
Grandissimi. Pezzi. Di merda.
JD si sedette accanto a Darla con in mano il bicchiere di caffè ancora intatto, mentre lei mandava giù un altro sorso del suo.
«Credi siano stati di nuovo loro?».
«Chi altri, se no? Il graffito è abbastanza chiaro, mi pare».
Darla diede un ultimo tiro alla sigaretta e poi gliela offrì. JD non si fece pregare, lei fumava solo Marlboro e lui non diceva mai di no a una Marlboro.
«Che cazzo sta succedendo?», chiese Darla. «Mi hai sempre detto che eravamo al sicuro da queste porcate. Williamsburg Nord è territorio della banda dei Coyote, no?».
JD diede fondo al mozzicone di sigaretta, prima di rispondere. «Non lo so. Forse i Polacchi non si accontentano più di Greenpoint». Spense la cicca sul bordo del marciapiede e prese il cellulare. «Chiamo il fabbro, così almeno apriamo».
Una serratura da sostituire, un graffito da lavare, il conto del fabbro da saldare, tre farfalline tatuate sulle fiche depilate di tre biondine con la puzza sotto il naso qualche ora più tardi, e l’ipotesi di JD era stata confermata: quella era proprio una giornata del cazzo. Aveva una gran voglia di prendere Gina da sotto il bancone, sentire il legno dell’impugnatura sotto le dita e spaccare in due la testa di qualcuno. Invece si lasciò cadere sul divano a peso morto e sbuffò.
«Devo nascondere Gina?».
«Come l’hai capito?».
Da dietro il bancone, Darla ammiccò.
«Non perdi mai la calma, tu. Le volte che ti ho visto sbuffare, in questi sette anni, si contano sulle dita di una mano».
«Be’, se da quella porta entra un’altra stronza che vuole una farfalla sull’inguine, mi vedrai sbuffare tantissimo, te lo garantisco».
«E saprò di dover nascondere Gina».
«Come mi conosci tu, nessuno mai».



Quella era davvero una giornata del cazzo. E JD ne aveva le palle gonfie, di quella merda. Dieci farfalline in un giorno erano troppe per fino per il Santo Protettore Dei Tatuatori. Che forse non esisteva affatto, vista e considerata la ragazzina che era appena entrata nel suo negozio di tatuaggi. C’era solo un tipo di ragazza che JD detestava più della solita Barbie Voglio Una Farfalla Sull’Inguine, ovvero la classica Bellezza Dark.
Nella maggior parte dei casi quel genere di ragazza aveva niente di dark (vestiti a parte, ovviamente) e tutto di una zoccola. Si rivolgeva a un tatuatore, perché era convinta che con un tatuaggio sulla patata avrebbe rimorchiato di più. A conti fatti, non c’era alcuna differenza tra una Barbie e una Bellezza Dark (vestiti a parte, ovviamente). Da dietro il bancone, Darla stava rivolgendo alla Bellezza Dark in questione un’occhiataccia molto eloquente e poco lusinghiera.
«Che ti serve, dolcezza?».
«Un elefante in tutù. Quando ti sei fatta ficcare quel piercing nel naso, hai starnutito fuori tutto il cervello, per caso? Sono in un negozio di tatuaggi, cosa cazzo vuoi che mi serva?».
Ah, ottimo. Non solo Bellezza Dark, ma anche Faccio La Stronza Così Sembro Più Figa.
Proprio la mia giornata fortunata.
A giudicare dalla faccia di Darla, il motto “Il cliente ha sempre ragione” stava per essere mandato a ’fanculo. JD le fu subito accanto.
«Darla, vai a fumare una sigaretta, ci penso io qui».
Lei non diede segno di averlo sentito, continuava a fissare in cagnesco la stronzetta, tanto che JD fu costretto a stringerle il polso a mo’ di avvertimento. Allora Darla digrignò un “Va bene” tra i denti, si liberò con un brusco strattone dalla sua presa e uscì dal negozio sbattendo la porta. Le vetrate stavano ancora tremando, quando JD estrasse da sotto il bancone l’album con i tatuaggi che piacevano tanto alle Stronzette Dark.
«Dovresti assumere una cassiera più intelligente, quell’idiota fa scappare i clienti».
«E tu dovresti moderare il linguaggio, se non vuoi che ti sbatta fuori a calci nel culo dal mio negozio».
Di solito JD era più accomodante con i clienti, anche se gli stavano sul cazzo fin dalla prima occhiata. Quel pomeriggio, però, dopo le dieci fottute farfalline e l’atto di vandalismo a opera dei Polacchi, il suo limite di sopportazione era stato ampiamente superato. Stronzetta Dark si morse il labbro, come per trattenere a stento una parolaccia.
Ci tieni parecchio a farti tatuare la fica, eh?
Bella era bella. Anzi, di più. Toglieva il fiato.
Le lenti a contatto gialle (molto in voga tra le Stronzette Dark) facevano pendant con i capelli, che erano di un biondo scuro, quasi miele. Il cuoio nero, di cui era interamente vestita, aderiva al suo corpo come una seconda pelle. Sopra il corpetto scollatissimo, portava un giubbotto da motociclista. Forse il tipo che se la sbatteva era un biker. Un biker molto fortunato.
«Allora». JD cominciò a sfogliare l’album. «Qui abbiamo teschi, ragni di tutte le specie, ali nere da mettere sulla schiena… Oh, questo sembra fatto a posta per te: una croce gotica rovesciata. Che ne dici? Oppure… preferisci un pentacolo? Il pentacolo alla base della nuca è molto gettonato, quest’anno».
«Quando hai finito di percularmi, avvertimi. Così ti spiego quello che ho in mente».
La cosa si faceva interessante. JD mise da parte l’album e si appoggiò con entrambe le mani al bordo del bancone, in attesa.
«Sono tutto orecchi».
Lei frugò nelle tasche del giubbotto da motociclista e ne estrasse un foglietto a quadri stropicciato. Dopo averlo lisciato per bene, appiattendolo sul ripiano del bancone, vi poggiò sopra indice e medio e lo spinse verso JD. Lui si sporse in avanti e inarcò un sopracciglio.
«Tutto qui? Sono quasi deluso».
«Lo vorrei intorno ai polsi, puoi farlo?».
Stronzetta Dark lo fissava dritto negli occhi, come sfidandolo a scoppiare a ridere o a fare qualche commento fuori luogo.
Caspita, la ragazzina ci tiene davvero.
JD afferrò il foglietto per esaminare meglio il disegno.
«La fascia centrale deve essere larga due centimetri, tutta rossa, semplicissima, nessuna decorazione», precisò lei nel frattempo. «L’intreccio di rovi e rose, ai due lati della fascia centrale, puoi gestirlo come ti pare, hai campo libero. L’importante è che complessivamente il tatuaggio non superi i cinque centimetri di larghezza».
Tutto sommato poteva andargli peggio. Avrebbe potuto chiedergli un’altra cazzo di farfalla, ad esempio.
«Su entrambi i polsi, hai detto?».
Stronzetta annuì.
JD tiro fuori un elastico dalla tasca dei jeans e si legò i capelli in una coda.
«Sì, posso farlo».



«Ehi, JD. Hai un minuto?».
Il ronzio dell’ago cessò. JD posò la macchinetta elettrica sul banco di lavoro, passò un panno pulito sulla pelle arrossata e sporca d’inchiostro, e solo allora sollevò lo sguardo.
«Perché?».
Da dietro la tenda spessa, che divideva il laboratorio tre metri per tre in cui lui lavorava dal disimpegno in cui venivano ricevuti i clienti, faceva capolino il viso di Darla.
«Di là c’è Big D. Vuole sapere se hai tempo per un drago sulla schiena».
JD corrugò la fronte.
«Dipende. Quanto grande?».
«E che cazzo ne so? Mi occupo solo di grana e documenti, lo sai. Faglielo tu, l’interrogatorio. Per chi diavolo mi hai presa? Perry Mason?».
Mentre i passi di Darla, oltre la tenda, si allontanavano, JD si lasciò sfuggire un sospiro esasperato. Sempre così con lei: quando qualcuno la faceva arrabbiare, non c’era modo di farle passare il cattivo umore. Ed era tutta colpa di quella grandissima stronza che sedeva sulla poltroncina imbottita, se adesso Darla era incazzata peggio di un puma inferocito.
Maledetta l’entità sovrannaturale che me l’ha mandata.
Intanto, la suddetta Bellezza Dark, anche nota come Spina Nel Fianco e Grandissimo Rompimento Di Coglioni, aveva un bastardissimo sorrisetto compiaciuto stampato su quella faccia da stronza che si ritrovava. JD fece finta di non vederlo.
«Che ti dicevo? Conosco bene le tipe come quella: fanno le carine solo se sentono l’odore di un grosso cazzo».
Non che avesse torto, ma JD non aveva nessunissima voglia di darle ragione.
«A quanto pare, sull’argomento cazzi sei molto preparata».
Le guance di Stronzetta si tinsero di rosso per la rabbia. Tuttavia lei non fiatò. Anzi, si morse il labbro a sangue pur di non replicare. La minaccia di cacciarla dal negozio, se non avesse tenuto a freno la lingua, era ancora valida. JD sorrise affabile e alzandosi le diede un buffetto sulla testa.
«Fai la brava bambina e non toccare niente, intesi? Torno subito».
«Non sono una bambina e poi si può sapere dove stai andando?», protestò lei. «Non puoi fare una pausa. Non te lo permetto! Devo tornare a casa prima di cena, altrimenti…».
JD spense lo stereo.
Uscito dallo studio, andò incontro al grosso omone, largo un metro e alto il doppio, che lo aspettava accanto al bancone.
«Se avessi saputo che eri inguaiato con una brutta gatta da pelare, non avrei chiesto a Darla di disturbarti. Scusa tanto, amico».
«Una gatta morta, per essere precisi». JD gli assestò una pacca sulla spalla, a mo’ di saluto. «Non preoccuparti, Big D. Questo e altro per il mio cliente preferito…», si piegò sulle ginocchia, sorridendo, «…e per la sua splendida bambina. Come stai, Patti?».
Patti (con la i, non con la y, come Patti Smith), una bambina biondissima, tutta vestita di rosa, era aggrappata ai bermuda di Big D e cercava di nascondersi dietro gli enormi polpacci tatuati di suo padre. Non appena riconobbe JD, però, gli si buttò a peso morto tra le braccia.
«Un drago? Sei sicuro? Tu non sei tipo da draghi», chiese poco dopo JD.
Big D fece spallucce e accennò col mento alla bimba rosa-vestita che teneva in braccio.
«A Patti piacciono i draghi, e a casa di Big D la parola di Patti è legge».
JD scoppiò a ridere.
«Lo tieni per le palle, il tuo papà. Eh, Patti?».
«Attento a come parli, razza di stronzo. Se Tiffany sente Patti dire anche solo mezza parolaccia, si incazza come una belva e mi lascia in bianco per un mese».
Ma Patti non sembrava interessata a imparare le parolacce: seguire con le dita i contorni della grossa D tatuata sul collo del padre era molto più importante per lei, a quanto pareva. JD conosceva Big D da diversi anni, ma vedere quella specie di scimmietta rosa penzolare dalle spalle di un omone tatuato, grosso come un elefante, dalla barba rossa e la testa rapata a zero, gli faceva sempre un certo effetto. Se a quel quadretto si aggiungeva Tiffany, una biondona-barra-fotomodella-barra-expornostar che JD aveva avuto l’onore di tatuare in luoghi dove il sole normalmente non batte, il tutto diventava ancora più strano, per non dire inquietante.
«Patti disse drago e drago fu, allora. Torna lunedì mattina, Big D, così ci mettiamo d’accordo sul disegno. Purtroppo ci vorrà tutto il pomeriggio prima che la gatta morta se ne vada».
«Fai con comodo, amico. Chiamami, quando hai finito di spennarla per bene».
Big D gli strizzò l’occhio, prima di uscire dal negozio con Patti che faceva cavalluccio sulle sue spalle.



«Perché sorridi?».
Stronzetta sussultò.
«Cosa? Oh, ah… sei tornato. No, niente. Quel tizio e sua figlia mi hanno fatto pensare a due persone che conosco».
JD assunse una finta espressione offesa.
«Mi hai spiato?!».
«Sì, l’ho fatto. E ho pure sentito come mi hai chiamata. Sono morta dalle risate, guarda. Dovresti fare il cabarettista, il tuo è un talento sprecato».
«La verità fa male, lo so».
JD sfoderò un sorriso degno dello Stregatto, mentre si sedeva sullo sgabello e dava un’occhiata al polso sinistro di Stronzetta. L’intreccio nero di rovi stava venendo bene, adesso rimaneva soltanto da aggiungere le rose, di un bel porpora: sarebbero state da dio su quella pelle bianchissima.
Aveva a che fare con i tatuaggi praticamente da quando era nato, eppure JD non aveva mai visto una pelle così. Quando Stronzetta si era tolta il giubbotto, scoprendo le spalle e le braccia, per poco non se n’era venuto nelle mutande. Di un rosa pallido, vellutata come il petalo di un fiore, glabra e priva di qualsiasi imperfezione, quella pelle era la tela perfetta sulla quale dipingere, il blocco di marmo che ogni scultore sognava. Nel poggiarci sopra l’ago per la prima volta, JD aveva avuto la netta sensazione di stare per profanare qualcosa di sacro e purissimo. Come portarsi a letto una ragazza vergine: eccitante e spaventoso al tempo stesso. JD si concesse ancora un istante, per accarezzare con lo sguardo tutto il braccio, risalire fino alla spalla, girare intorno al collo e poi scendere giù, su tutto quel ben di dio che straripava dal corpetto aderentissimo.
«Vedi di non menartelo troppo, okay? Manca poco all’ora di cena».
Per quale motivo il Dio Dei Tatuaggi avesse donato una simile opera d’arte anatomica a quella grandissima stronza, sboccata, viziata e figlia di papà, JD non riusciva proprio a spiegarselo. Per un attimo assaporò l’idea di mandarla a ’fanculo, ma la cruda realtà dei fatti era che non poteva: il pensiero di non avere più sotto mano quel corpo creato a posta per i tatuaggi faceva male al cuore.
Il ronzio dell’ago tornò a colmare il silenzio.
«Allora? Chi sono?».
«Chi sono chi?».
«Le due persone che Patti e Big D ti hanno fatto tornare in mente».
Stronzetta esitò, prima di rispondere.
«Mio padre ed io».
«Uhm».
JD sperava proprio che non ci fosse dietro un fottutissimo dramma familiare, perché non era in vena.
«Sai… tutto questo lo sto facendo per lui».
Come volevasi dimostrare. JD trattenne a stento un’imprecazione.
«Mio padre ha dei tatuaggi che gli ricordano costantemente un passato non proprio rose e fiori. Si fa un sacco di pippe mentali sul fatto che io possa vergognarmi di lui e di quello che era un tempo. Vorrei fargli capire che si sbaglia. Sono orgogliosa di essere sua figlia, è un padre di valore e non lo cambierei con nessun altro al mondo».
«Fammi indovinare: i tatuaggi di tuo padre sono delle fasce rosse sui polsi?».
Stronzetta annuì.
«Sui polsi e sul collo. Ha provato a farli rimuovere, una volta. Sai, con il laser, ma il trattamento non ha funzionato, il rosso è un colore difficile da eliminare. Perciò indossa sempre maglioni a dolcevita, per non sentire gli occhi degli altri addosso».
«E dato che lui non può toglierseli…».
«…ho pensato di farmi tatuare qualcosa di simile sui polsi. Esatto».
Okay, forse JD si era sbagliato, forse non tutte le Stronzette Dark erano stupide e inutili, forse c’era ancora una speranza per la salvezza del mondo.
«Pensi che apprezzerà il gesto?», le chiese.
«Chi, mio padre?» Stronzetta scoppiò a ridere, con la bocca aperta, la testa buttata all’indietro e i capelli che le accarezzavano le spalle nude. «Come minimo gli prende un colpo. E se sopravvive, mi ammazza».
JD ghignò.
«Un vero peccato non poter assistere, allora».



«Hai capito tutto, sì?».
Stronzetta annuì, mentre si rigirava tra le mani il vasetto di crema.
«Lavo delicatamente il tatuaggio, applico la crema e poi copro con la pellicola trasparente, proprio come hai fatto tu. Tutto questo per circa una settimana, fin quando l’inchiostro non smette di scaricare».
«Brava bambina, dieci e lode».
Stronzetta mise il broncio.
«Non sono una bambina!».
Darla li spiava di sottecchi da dietro il bancone e scuoteva la testa con disapprovazione. Per quale cazzo di motivo stava tenendo la porta aperta per permettere a Stronzetta di uscire, JD proprio non lo sapeva. E perché diavolo la stava seguendo fuori, sul marciapiede? Mistero.
Si fermarono accanto a una Ducati. JD non poté fare a meno di sgranare gli occhi, quando Stronzetta slacciò il casco dalla sicura e inforcò la moto. Be’, questo spiegava il giubbotto da motociclista almeno. Intanto lei si era accorta del suo sbalordimento e gongolava come una scema: glielo leggeva in quegli occhi gialli da gatta.
Per un millesimo di secondo, JD pensò che quelle non potevano essere delle semplici lenti a contatto, perché di norma le lenti a contatto non sorridono, non brillano come un calice colmo di champagne contro luce, e soprattutto non si accendono quando vedono qualcosa di loro gradimento.
Il millesimo di secondo successivo, JD si diede dell’idiota depravato.
«Tu mi piaci, sai?».
«Eh?».
«Sei il primo che mi tratta come la stronza che sono».
Promettente.
«Se domenica sera passi dalle parti del Goldfinger, vienimi a trovare. Mi esibisco con la mia band».
Sì, certo, contaci, come no. «Vedrò quello che posso fare».
Stronzetta sorrise, le sue lenti a conta… no, i suoi occhi (perché quelli non potevano non essere i suoi veri occhi) si animarono di un guizzo malizioso e saltellarono allegramente da un tatuaggio all’altro sulle braccia di JD.
«Chiedi di Honey».



La parte della giornata che Darla preferiva era l’orario di chiusura. Non che non le piacesse lavorare lì, eh? Anzi, Darla adorava lavorare lì, ancora di più adorava lavorare per JD. Ma la chiusura del negozio era una specie di rito sacro per il suo capo, che gli era stato tramandato dal nonno Wile Coyote e al quale solo Darla aveva avuto il privilegio di essere ammessa. Lo aiutava a riordinare gli album, a pulire le attrezzature e a sistemare le boccette con i colori. Poi, mentre lui contava i contanti e li riponeva nella cassaforte dietro la foto di Wile Coyote, Darla si concedeva un bicchierino di tequila sul divano. Nessuno dei due apriva bocca, fin quando la serratura della cassaforte non aveva fatto clock.
Quella sera Wile Coyote sembrava più soddisfatto del solito, seduto sulla sua Harley Davidson, con quarant’anni in meno sul groppone e una Gina vestita solo di tatuaggi sul sellino posteriore. Accanto alla foto dei nonni di JD, c’era la riproduzione de La Grande-Jatte, che cozzava con un pugno su un occhio con il resto dell’arredamento. Ogni volta che la guardava, Darla provava uno sfarfallio al basso ventre che l’avvertiva di cercarsi qualcuno con cui scopare, per non rischiare di stuprare JD sul bancone.
Clock.
«Hai impegni stasera?», gli chiese.
«Il solito goccetto del venerdì sera al Coyote Club. Tu?».
«Penso che andrò a rimorchiare qualcuno. Sempre che non ti voglia sacrificare tu, ovvio».
JD alzò gli occhi al soffitto.
«Solo buoni amici, ricordi? Eravamo sul quel divano, nudi. E tu hai detto “Da adesso in poi solo buoni amici”».
«Se è per questo, ho detto anche che per te avrei fatto tutte le eccezioni alla regola che volevi».
JD si lasciò andare a una sonora risata.
Quanto era bello, quando rideva. Be’, era bello sempre. Uno dei più belli con cui Darla avesse mai scopato. Il che era tutto dire, dato che lei scopava solo con i migliori pezzi di manzo sul mercato. La bellezza di JD non era fatta di pettorali scolpiti o bicipiti guizzanti, la bellezza di JD stava nel suo sguardo. C’era qualcosa di erotico nel modo in cui guardava le persone. Perché lui ti scrutava dalla testa ai piedi come se fossi una tela, o un blocco di marmo, e ti tatuava con gli occhi. Tanto che alcune volte, con lo sguardo di JD addosso, Darla aveva percepito il punzecchiare leggero dell’ago sulla pelle. Soprattutto sull’ombelico, intorno al piercing, dove una volta l’aveva baciata. La cosa che però più la mandava su di giri, di JD, erano i suoi tatuaggi. Da lontano erano soltanto un vortice di colori sulla pelle, colori all’apparenza incasinati e mescolati a casaccio; da vicino invece prendevano forma e si trasformavano in opere d’arte. Come un quadro puntinista al contrario. Come La Grande-Jatte appesa alla parete.
Darla sospirò. Se fosse stata innamorata di JD, la sua vita sarebbe stata molto più semplice. Perché doveva innamorarsi solo delle teste di cazzo?
«Non ti preoccupare, sto scherzando. Tanto l’ho capito che ti sei fatto infinocchiare dalla stronzetta di oggi».
«Chi?».
«Non fare il finto tonto».
«Non faccio il finto tonto, non ho idea di chi tu stia parlando».
Questa volta fu Darla a rivolgere gli occhi al soffitto. Si mise in piedi, sbuffando.
«Se cerchi Gina, l’ho nascosta in bagno. Ci si vede domani».
«Aspetta, qui ho quasi finito, ti accompagno io».
«No, meglio di no». Darla ghignò. «Non vorrei che la tua fidanzatina ci vedesse insieme e fraintendesse».
«Vaffanculo, Darla!».



Il Coyote Club era stranamente tranquillo quel venerdì sera. C’erano solo due Coyote grigi, vecchi amici di Wile, che bevevano birra scura da boccali grossi come secchi. Lo salutarono con un cenno del capo e JD fece altrettanto, mentre prendeva posto al bancone.
«Ti porto il solito?».
Halona, la proprietaria del Coyote Club, lo fissava con espressione imbronciata. Da quando la conosceva, JD non l’aveva mai vista ridere.
«Non mi dire, hai cacciato anche Lizzy?».
«Era una troia».
«Chissà perché le tue bariste sono sempre troie. Non sarebbe ora di cominciare a porsi delle domande? Del resto, le troie mica scopano da sole, no?».
Si diceva che Halona avesse ammazzato un uomo a mani nude e il coyote tatuato sulla sua spalla confermava il pettegolezzo (Più grande è il coyote, più grave è il crimine, diceva sempre Wile. Il coyote sulla schiena di Wile era enorme). Halona era talmente tosta da aver preso il comando della banda dei Coyote dopo la morte di Wile e apparteneva a quella categoria di donna che ti faceva venire la cacarella solo con un’occhiataccia, nonostante i lunghi capelli argentati e il fisico minuto e ossuto. Per questo motivo JD non capiva come mai a quel vecchio rincoglionito di suo marito, che nonostante i settantacinque anni suonati si sbatteva qualsiasi essere vivente dotato di due grosse tette, la facesse passare sempre liscia.
«Perché lo chiedi a me? Ti sembro una troia, io? Chiedi alla tua commessa, scommetto che quella c’ha perfino la patente, della provetta troia».
«Dopo tutto questo tempo ancora non l’hai perdonata? Quando è stato? Sei anni fa?».
«Sette. E se non la smetti, giuro che ti sbatto fuori a calci in culo dal mio locale». Halona gli mise davanti al naso la sua ordinazione (un bicchiere di Grey Goose e un boccale di birra scura doppio malto), ponendo fine così alla discussione sulle bariste troie. «Dovrei farci mettere una targhetta su quello sgabello», disse invece, indicando col mento lo sgabello vuoto accanto a JD.
«Lo dici ogni venerdì, ma sono passati otto anni dalla morte di Wile e lo sgabello sta ancora aspettando».
Halona sbuffò.
«Lo so, ma poi penso che la targhetta non serve a un cazzo, tanto ci sei tu a ricordare alla gente che nessuno deve sedersi lì».
JD abbozzò un sorriso.
«Sei più velenosa del solito, stasera. È successo qualcosa?».
«Grane con la banda dei Polacchi».
JD si fece improvvisamente serio.
«Tipo?».
«Tipo che si sono messi in testa di espandersi qui a Williamsburg Nord, nel nostro territorio. Il loro capo deve essersi rincoglionito tutto in una volta, se pensa che i Coyote rimarranno in disparte a guardare. Ci sono state già parecchie risse tra i miei e i loro. Jim e Charlie sono finiti all’ospedale, ma si sono trascinati dietro tre Polacchi». L’espressione sul viso di Halona era quella di una mamma orgogliosa. «Tu, piuttosto. Devi stare attento. Il tuo negozio di tatuaggi si trova proprio al confine tra Greenpoint e Williamsburg».
JD fece roteare il liquido trasparente nel bicchiere un paio di volte.
«Arrivi tardi».
Halona aggrottò la fronte. «Eh?».
«Mi hanno lasciato un promemoria, stamattina. “Paga o ti fottiamo”. Un po’ datato, forse, ma abbastanza eloquente. E non è nemmeno la prima volta che succede».
La reazione di Halona alla notizia fu un pugno sbattuto sul bancone.
«Fottuti bastardi! Prima non si sarebbero permessi. Prima il negozio di Wile Coyote era il cuore della nostra banda, attaccare il negozio significava sfidare tutti i Coyote. Ora invece…».
«…ora invece le cose sono cambiate, i giovani non hanno più rispetto per le tradizioni, e poi adesso al negozio ci sono io. Che (senza offesa, eh?) non sono un vero Coyote, al massimo una specie di mascotte. Sì, lo so. Lo conosco a memoria, ‘sto ritornello».
«Vuoi che ti metta Cagnaccio a guardia del negozio? Giusto per stare tranquilli».
«So badare a me stesso, Halona. Anche se sono solo una mascotte. Adesso lasciami al mio Grey Groose». JD diede una pacca affettuosa allo sgabello vuoto. «Ho voglia di fare due chiacchiere col mio vecchio».
E se suo nonno Wile fosse stato lì, si sarebbe limitato ad aggiungere “Vecchio un paio di palle, stronzo!”.



Si era ritrovato il foglietto con lo schizzo del tatuaggio di Stronzetta (forse era il caso di cominciare a chiamarla col suo vero nome) in tasca, in mezzo ad alcune ricevute. Non sapeva come fosse finito là, ma era tutta la mattina che se lo rigirava tra le mani senza avere idea di che cosa farci.
Vorrei fargli capire che si sbaglia. Sono orgogliosa di essere sua figlia, è un padre di valore e non lo cambierei con nessun altro al mondo.
E dato che lui non può toglierseli…
…ho pensato di farmi tatuare qualcosa di simile sui polsi. Esatto.

«Che hai lì?».
Sua moglie Tiffany aveva portato Patti al parco, così Big D aveva approfittato di quel momento di libertà per andare a trovare JD e concedersi quella che lui chiamava La Mia Dose Quotidiana Di Cose Da Uomini. Chissà se si era mai reso conto della sfumatura equivoca che il nome portava con sé.
«Uhm, niente». JD si strinse nelle spalle, cercando di simulare indifferenza. «Il tatuaggio che ho fatto alla gatta morta del venerdì pomeriggio, ricordi? Mi ha invitato ad una specie di concerto. Stasera, al Goldfinger».
«É fica?».
JD inarcò un sopracciglio.
«Che cazzo c’entra?».
«C’entra, perché se è fica ci vai e te la scopi».
«Non è così semplice».
«È semplicissimo, invece. Vai e scopi. Come fare due più due. Se scopa come una porca, ti fai dare il numero e la richiami non appena ti torna il prurito alle palle. Se no, arrivederci e grazie. Due. Più. Due». Big D gli si fece vicino, con fare cospiratorio. «Quand’è stata l’ultima volta che hai pucciato il biscotto nel latte? Tre mesi fa?».
«Non è questo il problema. Questa ragazza… è molto giovane».
Big D inarcò un sopracciglio. «Giovane quanto?».
«Ha diciannove anni, ma ho dovuto chiederle il documento, pensavo ne avesse di meno».
«Ah, ma se è maggiorenne che ti frega? Ancora perdi tempo a pensarci? Che cazzo ti costa andare a quel concerto? Male che ti può andare, hai sprecato una serata della tua vita, sai che dramma. Se ti va bene, invece…». Big D fece un gesto eloquente con la mano. «Eh?».
In risposta ricevette solo un’occhiataccia.
«Eccheccazzo, JD! Almeno un po’ deve piacerti, sta’ tipa, altrimenti non staresti lì a rimuginare come un coglione, dico bene?».
JD tornò a fissare lo schizzo sul foglietto stropicciato. Riavvolse le giornate trascorse come il nastro di una videocassetta. Quando raggiunse il momento esatto in cui aveva poggiato per la prima volta l’ago sulla pelle di Honey, premette il tasto play. Una scarica di corrente elettrica ad alta tensione gli attraversò la spina dorsale, facendogli rizzare i peli sulla nuca e qualcos’altro molto più in basso.
«Allora, qualcosa te la smuove, sì o no?».
Anche troppo.



Le tremavano le mani. Scrutava la folla di gente da dietro le quinte e le tremavano le mani. Come una pivella alle prime armi. Non era l’ansia per l’esibizione ad averla trasformata in una corda di chitarra troppo tesa, però. Scandagliava le persone stipate sotto il palchetto una ad una e sapeva che, se avesse individuato chi stava cercando, la corda sarebbe saltata con un blaaaaang tremolante per l’eccitazione.
Ma di lui non c’era neanche l’ombra di un tatuaggio.
A ogni secondo che passava la corda della chitarra si allentava sempre di più, insieme alla speranza di vederlo apparire dal nulla. Aveva dovuto prendere il coraggio a due mani, per invitarlo. Honey era brava a simulare, ma quando lui aveva detto “Vedrò quello che posso fare” il cuore le era saltato in gola e per tanto così non era caduta stecchita sul marciapiede.
Cazzo, se era figo. Cazzo, se le piaceva. Cazzo, come l’aveva guardata. Si era sentita nuda e ricoperta di tatuaggi al tempo stesso, sotto i suoi occhi. Cazzo, cazzo, cazzo. Perché non era venuto? Perché sei una mocciosa e lui è un figo stratosferico e anche se gli è piaciuto quello che ha visto (oh, sì, gli è piaciuto eccome, non sono cieca!), chissà quante ne trova in giro di puttane che gliela servono su un piatto d’argento, a cominciare da quella troia della commessa, credevi davvero che un tipo così si sarebbe accontentato della prima pivella senza esperienza che gli capitava a tiro?
«Honey, che fai lì?».
Alla fine la corda aveva fatto blaaaaang, ma per la persona sbagliata. Honey portò la mano al petto, il suo cuore era un cavallo imbizzarrito, e riprese fiato.
«Cazzo, Connor. Mi hai fatto prendere un colpo!».
«Scusa, ma tra poco si comincia e Ben sta facendo il matto, dice che vuole ripassare la scaletta. Di nuovo. Andiamo, dai».
Honey rivolse un’ultima occhiata sconsolata alla folla sottostante. Ancora niente.
«Va bene, andiamo».
«Cerchi qualcuno?», le chiese Connor.
«Ho invitato un tizio… ma a quanto pare aveva di meglio da fare».
«Be’, se è così coglione da non presentarsi, vuol dire che non vale un secondo del tuo tempo».
«Sì, ma…».
«Non ci pensare, pensa all’esibizione piuttosto. E a dopodomani».
Honey aggrottò la fronte. «Perché? Che succede dopodomani?».
Connor sorrise.
«Ti porto al cinema a vedere Fast & Furious 6. Non parli d’altro da un anno. Ero curioso anch’io, così ho prenotato due biglietti».
Abbracciarlo di slancio fu un gesto automatico.
«Sei il migliore amico del mondo!».



Doveva essersi rincoglionito tutto in una volta.
Perché altrimenti non si sarebbe trovato lì, dove non doveva assolutamente trovarsi. Mentre i bassi della musica rap gli martellavano i timpani, JD solcava quel mare di corpi eccitati, sudati e struscianti con la vaga consapevolezza di stare commettendo la più grande cazzata della sua vita. Raggiunse il bancone del bar, guardandosi intorno come chi si aspetta un’imboscata da un momento all’altro. Il barista, un Moro gigantesco che prometteva guai da qualunque angolazione lo si guardasse, asciugava meticolosamente un bicchiere da cocktail e lo fissava con espressione sospettosa.
«Serve aiuto?».
Tanto valeva approfittarne.
«In effetti, sì. Conosci una certa Honey? Capelli color miele, occhi gialli… veste sempre di nero».
Il Moro si accigliò.
«Chi la cerca?».
«JD. Sono… solo un amico».
Qualcosa nello sguardo del Moro lo aveva indotto ad aggiungere quel solo all’ultimo momento.
«Be’, JD Solo Un Amico, ti consiglio caldamente di girare alla larga da Honey».
Il locale piombò nel buio e JD non ebbe la possibilità di chiedere spiegazioni. Anche il tunzi tunzi dei bassi si era ammutolito senza preavviso e solo un sottofondo di bisbigli e brusii trepidanti rendeva sopportabile l’inaspettata assenza di musica. Poi, all’improvviso, la scarica di una chitarra elettrica spazzò via dal locale qualsiasi altro rumore, come una violenta raffica di vento, e una luce bianchissima accecò tutti i presenti, illuminando a giorno il palco.
Honey era lì, sotto i riflettori.
Chiodo di pelle nera, minigonna, anfibi. E una voce che neanche un angelo.
«Che sventola! Me la sbatterei volentieri, quella lì», fu il commento di qualcuno.
JD non ebbe neanche il tempo di reagire, perché un energumeno grosso quanto un minivan si era lanciato addosso al troglodita come un bulldozer contro un muro e lo aveva steso con un poderoso manrovescio.
«Quella è MIA figlia, coglione!».
La sua voce era un ruggito talmente spaventoso da sovrastare gli strilli metallici delle chitarre e far gelare il sangue nelle vene. Solo quando il tizio si voltò verso il palco, JD riuscì a scorgerlo in faccia: era rapato a zero, aveva una cicatrice sullo zigomo che arrivava fino a metà guancia, e indossava un maglione a dolcevita nero.
Oh. Cazzo.
Il sussurro del Moro gli arrivò alle spalle come una coltellata a tradimento.
«JD Solo Un Amico, non hai la minima idea del casino in cui ti sei ficcato».







________________







Note autore (che non saranno sempre così lunghe, ve lo prometto):
Questa storia ha una storia travagliata.
Inizialmente era stata pensata come oneshot-fanfiction, un regalo di compleanno per Fila. Essendo state vietate le fanfiction nel fandom di riferimento, sono stata costretta a trasformarla in un'originale (chi ha letto i libri in questione riconoscerà sicuramente i personaggi "originari", soprattutto quelli dei prossimi capitoli). Solo che come racconto originale autoconclusivo non aveva molto senso, così avevo pensato “Scriverò una seconda parte!”.
Peccato che, trascorso un anno dalla pubblicazione della prima parte, della seconda parte non se ne vedeva ancora traccia.
A salvarmi la faccia è stata l’iniziativa NaNoWriMo for Dummies: sfida di scrittura!, indetta a dicembre da jakefan su Facebook: si tratta di una variante delll’originale NaNoWriMo, in cui i partecipanti dovevano autosfidarsi a scrivere una storia di almeno 40000 parole. Ebbene, ho colto la palla al balzo e per un mese non ho fatto altro che scrivere.
Rovi & Rosi versione 3.0 è conclusa, non aspetta altro che essere pubblicata. L’ho trasformata in una long di dieci capitoli, che verrà pubblicata con aggiornamenti settimanali, ogni lunedì.
Piccole info prima dei ringraziamenti: Williamsburg e Greenpoint sono quartieri di Brooklyn, New York; Greenpoint viene spesso chiamato Little Poland, per la sua folta comunità polacca.
Ringrazio mille mila volte jakefan, perché con la sua piccola iniziativa e i suoi consigli mi ha spronato a riprendere in mano questa storia, e tutte le ragazze che hanno partecipato insieme a me all’iniziativa, perché hanno fatto il tifo per me (ed io per loro).
Un ringraziamento particolare va a Dragana, che con enorme pazienza ha seguito giorno per giorno (e non per modo di dire) la stesura della storia, e a OttoNoveTre, che si è assunta l’onore di leggere per prima la storia conclusa.
Ovviamente ringrazio tutti quelli che, nonostante sia passato ormai quasi un anno e mezzo, sono ancora qui a seguire questa storia.
Il secondo capitolo verrà pubblicato lunedì prossimo. Se volete ingannare l’attesa e conoscere i trascorsi di JD e Darla, potete leggere Pavoni & Giarrettiere: si tratta di un prequel di Rovi & Rose, ma si regge benissimo da solo come racconto. Se poi ritenete di non essere ancora sazi, vi consiglio Pornoromantico di Dragana: è uno spin-off di Pavoni & Giarrettiere, che Dragana mi ha regalato per il compleanno e che io adoro alla follia.
Grazie ancora a tutti.
A tra una settimana.

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


Capitolo 2




«Thresh, una bottiglia di Vodka per Benedetta, mettila sul mio conto».
Thresh posò lo strofinaccio con il quale stava asciugando meticolosamente il bicchiere da cocktail, mise il suddetto bicchiere da cocktail sulla mensola, insieme agli altri bicchieri, distanziati l’uno dall’altro con precisione maniacale (esattamente dieci millimetri, non uno di più, non uno di meno), ed estrasse una bottiglia da sotto il bancone.
«Sento tanfo di scommessa persa, Boss».
«Puoi dirlo forte», intervenne Benedetta. «Carlisle ha scommesso che Zachariasz sarebbe resistito dieci minuti, prima di picchiare uno degli ammiratori di sua figlia Honey».
«E quanto ci ha impiegato, invece?», chiese Thresh.
Benedetta ghignò.
«Poco meno di tre minuti, proprio come avevo previsto io».
«Quel bastardo di mio cognato mi manderà in rovina. Ogni volta che Honey si esibisce, lui dà di matto e il locale si svuota. Che cazzo ci stai a fare tu, uhm, scansafatiche di un’italiana? Sei la buttafuori di questo locale, sì o no?».
Lei fece spallucce.
«Appunto. Butto fuori la gente, mica dentro. E non ci tengo a fare a pugni con quel pazzo di tuo cognato: dopo la storia dei tatuaggi di Honey non aspetta altro che un’occasione per scaricare la rabbia. Tu, piuttosto, perché continui a far esibire tua nipote, se ti crea tutti questi problemi?».
Carlisle arrossì come una vergine la sua prima notte di nozze. Il famoso e temuto Cardinale del Goldfinger, un armadio a quattro ante, con la cresta da moicano, un bastone da passeggio in avorio e un anello d’oro al mignolo che erano come un’insegna lampeggiante al neon che diceva “Boss pericoloso”, si trasformava in un budino tremolante quando si tirava in ballo sua nipote. Roba da non credere.
«Lo sai perché. È impossibile dirle di no», rispose lui.
Benedetta sbuffò e roteò gli occhi.
«A proposito di Honey», si intromise Thresh, che aveva ripreso ad asciugare bicchieri. «C’era un tizio che chiedeva di lei. Sulla trentina, tutto tatuato. Ha tenuto a precisare che era solo un amico. Preferisco dirlo a te, Boss. Zachariasz non ragiona lucidamente quando si tratta di Honey».
«Gli ficco il mio bastone su per il culo, a Mr Solo Un Amico!», ruggì Carlisle. «Ti ha detto come si chiama? Gli faccio subito una visitina e vediamo se ha il coraggio di farsi rivedere nel mio locale».
Benedetta scoppiò a ridere.
«E meno male che è Zachariasz quello che non ragiona!».
«Ha detto di chiamarsi JD», rispose Thresh. «Ma sta’ tranquillo, Boss, è scappato a gambe levate non appena ha visto Zachariasz in azione. Non penso che si rifarà vivo».
«Lo spero», disse Carlisle, serissimo. «Per il suo bene».



Il coglione finì scaraventato contro i cassonetti. Una pioggia di rifiuti si abbatté su di lui, ricoprendolo dalla testa ai piedi. Benedetta lo tenne sotto tiro con lo sguardo per qualche istante, ma il coglione non sembrava intenzionato a rialzarsi. Forse aveva perso i sensi. Strano, però, non le era sembrato di averlo colpito particolarmente forte. Forse si stava fingendo morto, come gli opossum, nella speranza che lei lo lasciasse in pace. Tutto sommato posso accontentarlo, si disse Benedetta. Passò in rassegna il vicolo per puro scrupolo, poi si chiuse la porta del retro alle spalle.
«Prende molto seriamente il suo mestiere».
Benedetta aggrottò la fronte.
«Lei non dovrebbe essere qui, questa uscita è riservata solo al personale».
«O ai rifiuti di cui sbarazzarsi». L’uomo uscì dal cono d’ombra e finalmente Benedetta riuscì a metterlo a fuoco per intero. Aveva un fisico massiccio, ben piazzato, ma era più basso di lei di qualche centimetro. Portava un paio di baffi che gridavano sbirro ai quattro venti e indossava un completo giacca e pantalone che aveva visto tempi migliori. Una cravatta macchiata e una camicia spiegazzata completavano il quadro. «Detective Martìnez, della Omicidi», si presentò, col distintivo spiegato. «Mi hanno detto che lei si occupa della sicurezza del Goldfinger e che se avevo delle domande da porre, era a lei che dovevo rivolgermi».
Carlisle, pezzo di merda, questa te la faccio pagare.
Benedetta incrociò le braccia sotto al seno e si appoggiò contro la parete.
«Spero non sia una cosa lunga. Il locale sta per chiudere e c’è un gruppetto di figli di papà da accompagnare alla porta».
«Sarò rapidissimo, glielo prometto». Il Detective Martìnez indicò con un cenno del mento la porta sul retro. «Che aveva fatto quel tipo?».
«Non conosceva il significato della parola no. Mi sono limitata a spiegarglielo con le buone maniere».
«Stava importunando una delle prostitute del Cardinale?».
Domanda a bruciapelo, il Detective aveva fegato da vendere. Tanto di cappello.
«Non conosco nessun prete che va a puttane, Detective. Posso chiedere in giro, però, se le fa piacere».
Martìnez ripose il distintivo nella tasca interna della giacca, abbozzando un sorriso.
«Due sere fa c’è stata una rissa a due isolati da qui. Ne ha sentito parlare?».
«Le solite scaramucce tra bande, suppongo».
«Anche, ma non solo. C’è scappato il morto. Pare che la banda dei Polacchi stia cercando di accaparrarsi il monopolio dello spaccio di droga nella zona nord di Williamsburg. Lei ha mai visto qualcuno spacciare al Goldfinger?».
«Se lo avessi visto, avrebbe fatto la fine di quel coglione lì fuori. Come ha constatato lei stesso, prendo molto seriamente il mio mestiere».
E questa volta Benedetta non stava mentendo. Piuttosto stava minimizzando. Se qualcuno che non era un uomo del Cardinale avesse avuto la felice idea di mettersi a spacciare al Goldfinger, quel qualcuno non sarebbe sopravvissuto a lungo per vantarsene con gli amici. In ogni caso, forse i Polacchi non avevano ancora cacato fuori dal vaso, ma se il Detective aveva ragione, poco ci mancava. Carlisle doveva essere informato.
Il Detective Martìnez nel frattempo aveva tirato fuori un taccuino e ci stava scarabocchiando sopra un numero.
«Be’, quando capiterà…».
«Voleva dire se capiterà, forse», lo corresse Benedetta.
«No, volevo dire esattamente quello che ho detto. Quando capiterà…». Strappò il foglio di carta sul quale aveva scarabocchiato il numero e glielo porse. «…la pregherei di chiamarmi immediatamente, non vorrei essere costretto ad arrestarla per intralcio alle indagini».
Benedetta prese il foglio, lo piegò in due e se lo infilò in mezzo alle tette, senza togliergli gli occhi di dosso.
«Ci conti, Detective». Ma anche no.



Marie Louise sapeva perché Julia Roberts in Pretty Woman non si faceva baciare dai suoi clienti. La spiegazione filosofica sulla profonda intimità del bacio era solo una gigantesca balla a uso e consumo delle casalinghe romantiche. La verità era che il cliente medio quando la baciava, non la baciava. Le mangiava la faccia. Poi il cliente medio usciva soddisfatto dal bagno del Goldfinger e Marie Louise rimaneva con cento dollari in mano, la gonna alzata sopra la vita, le mutandine pasticciate di sperma e il rossetto spalmato su mezza faccia.
Sospirando, Marie Louise si guardò allo specchio. Quasi quasi preferiva i pompini ai baci. Prese una salvietta imbevuta e cominciò a tergersi il viso. I capelli erano un disastro, ma non aveva importanza, la serata era conclusa, con un elastico avrebbe risolto facilmente. Le mutandine invece erano da buttare, meno male che era una persona previdente, si portava sempre un cambio. Forse quella sera avrebbe usato la doccia che il Cardinale metteva a disposizione per le sue ragazze. Di solito lei ne faceva a meno, se poteva. Le sembrava di approfittarsene, il Cardinale faceva già così tanto per loro, chiedendo una percentuale irrisoria sui guadagni e fornendo tutta la protezione di cui avevano bisogno.
Uscendo dal bagno, di nuovo presentabile, si imbatté in Honey.
«Ehi, tesoro! Complimenti, tu e i ragazzi siete stati formidabili stasera».
Honey abbozzò un mezzo sorriso, senza aggiungere nulla. Doveva esserle capitato qualcosa, di solito dopo l’esibizione della band era impossibile farla stare zitta. La spinse in bagno e una volta chiusa la porta le chiese: «Qualcosa non va?».
Lei fece spallucce, fissandosi la punta degli anfibi.
«Sono una scema, Marie Louise».
«Questo lo so, tesoro. Te lo ripeto sempre», rispose per farla ridere. E solitamente ci riusciva, anche. «Hai litigato con tuo padre?».
«No. Cioè, sì. Per i tatuaggi. Ma è storia vecchia, ormai. Ci siamo chiariti». Sbuffò. «Mi sono presa una sbandata per un ragazzo più grande di me. E a mala pena conosco il suo nome. Anzi, non credo nemmeno che sia il suo vero nome. Ti pare normale? L’ho visto soltanto una volta e mi ha trattata male, per giunta. Eppure non riesco a smettere di pensare a lui».
Marie Louise aggrottò la fronte.
«Che intendi per trattata male?».
«No, no, non è quello che pensi. È solo che tutte le persone che conosco mi trattano con i guanti, come se fossi fatta di cristallo, anche se faccio la stronza. Invece lui… mi ha rimesso in riga, ecco. E anche se lì per lì la cosa mi ha irritato tantissimo… be’, mi ha anche intrigata. Non so se riesco a spiegarmi…».
«Ti spieghi benissimo, tesoro».
Honey fissava un punto alle spalle di Marie Louise, come se stesse rivivendo un evento passato, e arrossì.
«Ovviamente è di una bellezza indescrivibile. Solo a pensarci mi viene la pelle d’oca. Bello in un modo tutto suo. Ha i capelli lunghi e non riesco a decidere se li preferisco sciolti o legati. E poi dovresti vedere i suoi tatuaggi! Scompaiono sotto la maglietta e avrei tanta voglia di sbirciare sotto per vedere cosa c’è…». Honey sgranò gli occhi e si coprì la faccia con le mani. «Oddio, dimentica quest’ultima frase, ti prego! Volevo solo dire che…».
«Sei cotta a puntino, è chiaro».
Honey si ammosciò come un pene post-coito.
«Già. Solo che per lui non esisto». L’espressione di Honey era così abbattuta che a Marie Louise venne un po’ da ridere. «Ti è mai capitato di provare una cosa così?».
«Ma certo, Honey. Quando avevo la tua età mi capitava circa una volta alla settimana. E ogni volta pensavo di aver incontrato l’amore della mia vita».
«E poi?».
Le accarezzò una guancia, e sorrise.
«Poi sono diventata grande».



Filip odiava fare il palo, ma Patryk era un fottuto prepotente, mettersi a discutere con lui era come sventolare un fazzoletto rosso davanti alle corna di un toro imbufalito. Per fortuna, oltre che un pezzo di merda, Patryk era anche molto veloce nel concludere gli affari. Non appena il ragazzino uscì dal cesso pubblico, passandogli accanto senza degnarlo di un’occhiata, Filip seppe che la transazione si era conclusa con successo. Si guardò intorno, facendo finta di consultare il tabellone delle fermate della metropolitana di Williamsburg, poi fischiò. Patryk comparve al suo fianco, proprio mentre arrivava la metropolitana e lo spostamento d’aria faceva gonfiare la sua giacca a vento.
«È andato tutto bene?».
«Anche troppo. Ho finito le cartucce».
Le porte scorrevoli si aprirono. Filip e Patryk salirono, occupando due sedili sulla destra. Vennero subito seguiti da un gruppo di cinque uomini, che parlottavano fitto tra di loro. Era notte fonda, il vagone era deserto, c’erano decine di posti liberi, ma i cinque uomini scelsero di rimanere in piedi, aggrappandosi alle maniglie, proprio davanti a Filip e Patryk.
Uno del gruppo indossava un giubbotto di pelle senza maniche. Sul suo bicipite c’era il tatuaggio di un coyote. Da come Patryk sudava freddo, Filip dedusse che anche lui lo aveva notato. Si scambiarono un’occhiata.
Niente panico, cercò di dire a Patryk con lo sguardo. La prossima fermata è vicina.
E poi non era detto che quei cinque fossero lì per loro, magari si trattava solo di una coincidenza. Quando però intravide il baluginare della lama di un coltello, a Filip tornò in mente suo padre: gli diceva sempre che solo i coglioni credevano alle coincidenze.
Neanche si fossero messi d’accordo, Filip e Patryk scattarono in piedi nello stesso momento e si misero a correre in direzioni opposte. Filip diede fondo a tutte le sue energie, doveva guadagnare tempo, la prossima fermata era vicina, poi le porte si sarebbero aperte e lui sarebbe stato salvo.
L’urlo di Patryk gli gelò il sangue. Si voltò indietro, senza fermarsi, ma nessuno lo stava inseguendo. Forse i Coyote avevano preferito prendersela con Patryk, in fondo era lui quello che teneva i soldi. Non si fermò, continuò a correre a perdifiato. I vagoni non finivano più, ed erano tutti deserti, ma ormai la stazione era vicina, la metropolitana aveva già cominciato a rallentare. Ancora un vagone, poi sarebbe uscito. Si gettò un’ultima occhiata alle spalle e…
«Sei un po’ lontano da Little Poland, eh?».
…cadde tra le braccia di un Coyote.
Dietro di lui ce n’erano altri tre. Sghignazzavano, ed erano tutti muniti di coltello.



Fino a qualche anno prima, la colazione era il momento più chiassoso della giornata. Appena suonava la sveglia, Honey schizzava da sotto le coperte come un cazzo di petardo. A volte il petardo esplodeva nella camera da letto di Isa e Zachariasz, svegliandoli di soprassalto e rimbalzando sul loro materasso come una stramaledetta palla da ping pong. Altre volte invece sfrecciava direttamente al piano di sotto e se non gli si correva subito dietro per intercettarlo, il petardo poteva anche decidere di far saltare in aria la cucina.
Zachariasz ricordava con una sconfinata nostalgia quel periodo, fatto di pigiami rosa macchiati di latte, cereali allo sciroppo d’acero disseminati sul pavimento e scarabocchi di pennarello blu sulle braccine paffute. Adesso al posto del petardo c’era uno zombie col mascara sbavato intoro agli occhi, che si trascinava a passi strascicati fino al tavolo della cucina. I pigiamini rosa erano stati soppiantati dalle maglie nere lunghe fino alla ginocchia. I cerali allo sciroppo d’acero facevano ingrassare, quindi erano stati banditi. E, dulcis in fundo, gli scarabocchi di pennarello blu sulle braccine paffute si erano trasformati in due tatuaggi intorno ai polsi.
Honey rigirava il cucchiaio nella tazza del caffelatte con lo sguardo perso nel vuoto, mentre Zachariasz la fissava accigliato.
«Sei sicura che vada tutto bene, Honey?».
«Uhm? Sì, papà. Tutto bene».
«Hai cominciato a compilare le domande di ammissione per il college? Guarda che la scadenza è vicina».
«Comincio questo pomeriggio prima delle prove, non ti preoccupare».
I tempi andati erano belli anche perché significava sempre e no sempre no. Per un breve periodo il era diventato no e il no un forse. Adesso, invece… be’, nessuno poteva dirlo con certezza. Ed era proprio questo a tormentare Zachariasz: l’incertezza, il non sapere quali pensieri stessero attraversando la mente di sua figlia. Sua figlia che si era appena alzata.
«Meglio che vada, o faccio tardi a scuola».
Il caffelatte non era stato toccato.
«Vuoi che ti accompagni?».
«No, prendo la moto. Dopo scuola vado al Goldfinger per provare con la band. Ci vediamo stasera a cena».
Gli diede un bacio frettoloso sulla guancia e scappò via urlando “Ciao, mamma!”, proprio mentre Isa usciva dal bagno con un’espressione sconvolta sul viso.
«È la prima volta che esce da casa così in anticipo, cosa è successo?».
Zachariasz stava fissando la porta che Honey si era chiusa alle spalle, uscendo.
«Non lo so, forse è ancora arrabbiata con me».
Isa si sedette di fronte a lui e si versò del tè nella tazza.
«Per la storia dei tatuaggi? Ma se avete fatto pace! Alla fine ti sei pure commosso».
Zachariasz tossì per nascondere l’imbarazzo.
«Non è questo il punto. Ormai quella ragazza è diventata un rompicapo per me. Non parliamo più. Ti ricordi com’era, prima? Mi diceva sempre tutto, non vedeva l’ora di tornare a casa per raccontarmi la sua giornata. Adesso, invece, è un miracolo se mi rivolge la parola».
Il sorriso di Isa era di quelli inteneriti, che lo facevano sentire un bambino sperduto.
«Zachariasz, tua figlia è cresciuta, tutto qua. Non c’è niente che non va in lei».
«E se invece si vergogna di me? Forse non dovevamo raccontarle la verità sul mio passato. Forse era troppo presto».
«Pensi che si sarebbe fatta fare dei tatuaggi simili ai tuoi, se si vergognasse di te?».
«Francamente? Non ne ho idea».
Isa si sporse da sopra il tavolo e lo prese per mano.
«Sai cosa penso, invece? Tua figlia ha deciso per sé da sola, senza chiedere il tuo parere come faceva prima, e questa scoperta ti ha messo una gran fifa addosso. Honey è come una bambina che sta muovendo i primi passi, adesso. Bisogna lasciarla provare».
«E se cade nel tentativo?».
Isa strinse la presa sulle dita di Zachariasz.
«Noi saremo lì, ad aiutarla a rimettersi in piedi».



L’orario di apertura del Goldfinger era lontano ancora anni luce, ma Carlisle era già esausto. Benedetta era in piedi di fronte alla sua scrivania, seria come la morte. E proprio come La Signora Con La Falce, non aveva portato notizie allegre. Carlisle riempì due bicchieri con del whisky di prima scelta e ne offrì uno a Benedetta. Mandato giù il primo sorso, si sentì subito un po’ meglio.
«Credi che diventerà un problema serio, quello con i Polacchi?», chiese lei.
Carlisle soppesò il bicchiere, prima di rispondere.
«Sono avidi, è questo il problema. Per permettere a Zachariasz di abbandonare la banda senza ripercussioni, ho dovuto sborsare un patrimonio. Mi hanno dissanguato finché hanno potuto. Maledetto il giorno in cui mia sorella si è innamorata di quel pazzo, sono più le grane che altro! Di’ a Thresh e Liam di chiedere in giro, comunque. Voglio essere certo al cento per cento prima di far saltare qualche testa. Lo sbirro è sicuro di quello che dice, almeno?».
Benedetta si strinse nella spalle.
«Sembra un tipo in gamba, uno che sa il fatto suo».
Sul viso di Carlisle si aprì un sorriso da squalo.
«Senti, senti. Da quando gli sbirri sono tipi in gamba?».
Il vaffanculo in risposta venne coperto da un toc toc leggero, che pose fine alla discussione. Da dietro la porta fecero capolino i riccioli neri di Marie Louise. Alzarsi in piedi fu automatico per Carlisle. Dimenticare di appoggiarsi al bastone, però, gli costò una mezza scivolata e una figura di merda. Benedetta non ebbe nemmeno il pudore di nascondere la risata dietro a una mano. Guadagnò l’uscita dell’ufficio di Carlisle, borbottando qualcosa di molto simile a un “Così impari, stronzo”. Prima di chiudersi la porta alle spalle, salutò con un sorriso Marie Louise. Che invece si era fermata in mezzo alla stanza, indecisa su dove collocarsi. Non si era ancora cambiata, indossava una maglia che le cadeva addosso morbida e larga, lasciando scoperta una spalla, e un paio di jeans aderenti. Stava dannatamente bene vestita a quel modo.
«Disturbavo, per caso?», chiese lei.
«Affatto. Posso offrirti qualcosa?».
«No, grazie, non bevo mai quando sono in servizio».
Risero insieme.
Marie Louise gli piaceva soprattutto per quel motivo. La sua non era una vita facile e sicuramente quello che era costretta a fare per sopravvivere non le andava a genio, ma non ne faceva un dramma. Andava avanti a testa alta, non si lamentava mai. Anzi, riusciva perfino a scherzarci su. A differenza di Eleonora, l’infermiera che Carlisle aveva frequentato per un po’, che prendeva tutto mortalmente sul serio e non possedeva il dono dell’autoironia.
«Stasera avrei necessità di smontare un po’ prima del solito. Sarebbe possibile?».
«Certo, non c’era nemmeno bisogno di chiederlo».
«Grazie, Cardinale. Adesso tolgo il disturbo e vado a prepararmi per la serata».
Carlisle si fece abbagliare dal suo sorriso, come un coniglio dai fari dell’auto che sta per travolgerlo. Sbatté un paio di volte le palpebre, mezzo rincoglionito, e quando riuscì a mettere di nuovo a fuoco la stanza, si rese conto che Marie Louise aveva quasi raggiunto la porta. Dovette lottare contro la gamba azzoppata per precederla e aprirle la porta.
«Tu non disturbi mai, Marie Louise».



«Mi raccomando, siate discreti. Il Cardinale vuole sondare il terreno, prima».
Thresh guardò Benedetta come per dire “Con chi credi di avere a che fare, con un pivello?”. I due Mori diventavano molto suscettibili quando si trattava del mestiere che svolgevano per il Cardinale. Se si metteva in discussione la loro professionalità, poteva anche scapparci una rissa. Benedetta alzò subito le mani in segno di resa, meglio prevenire che curare.
«Non vi sto sottovalutando, Thresh. È solo che si tratta di una situazione delicata».
Lui non sembrava soddisfatto delle sue scuse, ma non insistette.
«Telefono a Liam. Oggi era il suo giorno libero. Speriamo non sia troppo impegnato con Veronica per rispondere… se capisci cosa intendo».
Come se gliene fottesse qualcosa, a lei, di quello che Liam faceva con Veronica.
Mentre Thresh telefonava al fratello, Benedetta fece vagare lo sguardo sul locale ancora deserto. I ragazzi della band stavano accordando gli strumenti per le prove, Honey invece era seduta a un tavolino, china su una pila infinita di fogli. Era passato tantissimo tempo dal giorno in cui l’aveva vista per la prima volta seduta a quello stesso tavolino: aveva tredici anni, le trecce e stava facendo i compiti di matematica. Improvvisamente le tornò in mente quello che le aveva raccontato Marie Louise la sera prima. Raggiunse il tavolo di Honey e si sedette di fronte a lei.
«Ehi, ragazzina. Che combini?».
Honey sollevò il viso dalla pila di fogli e le rivolse un sorriso stanco.
«Ciao, Benedetta. Sto cercando di compilare le domande di ammissione al college, ma mi sono bloccata al quesito numero dieci: “Come e dove ti vedi tra dieci anni?”. Che cazzo di domanda è? Come faccio a saperlo? In dieci anni potrebbe succedere di tutto».
«Be’, prova a pensare all’obbiettivo che vorresti raggiugere, credo che la domanda serva a questo. Cosa ti piacerebbe fare?».
Honey si lasciò andare contro lo schienale della sedia, sospirando.
«Non lo so, è questo il problema. Se la domanda fosse “Come e dove ti vede tuo padre tra dieci anni?” avrei la risposta pronta: “Come una donna in carriera. Un medico di fama internazionale, possibilmente”. Ma la domanda è rivolta a me, ed io vedo solo un’immensa parete bianca».
«Be’, le pareti bianche hanno di bello che con una semplice bomboletta spray puoi disegnarci sopra quello che vuoi. Non ti crucciare, ragazzina. Vedrai che troverai la tua strada, indipendentemente da quello che si aspetta tuo padre».
Honey stava mordicchiando il tappo della penna, con espressione poco convinta.
«Se lo dici tu… ma il quesito numero dieci continua a sembrarmi una domanda del cazzo».
Benedetta rise.
«Be’, forse quello che ho da dirti ti tirerà su di morale…».



«Mi prendi in giro? Ma… aspetta, tu come facevi a sapere che…».
«Marie Louise mi ha raccontato che eri abbattuta per colpa di un tizio che ti piaceva. E, guarda caso, un ragazzo di nome JD ha chiesto di te a Thresh. Ora, se la matematica non è un’opinione…».
Honey avrebbe voluto strillare di gioia e abbracciare Benedetta, da quel momento in poi anche nota come Santa Subito e Salvatrice Della Patria, ma decise che non sarebbe stato dignitoso da parte sua, quindi cercò di contenersi.
«Quindi è venuto, alla fine! Ma se n’è anche andato senza salutare. Come cazzo dovrei interpretare il suo comportamento?». Si prese la testa tra le mani e si tirò i capelli per la frustrazione. «Quasi quasi preferisco il quesito numero dieci».
Benedetta rise, con la sua risata bassa e roca, quella che Honey le invidiava tantissimo perché la trovava sexy da morire. Chissà se anche JD trovava sexy quel genere di risata. Si adombrò subito. La sua risata non era bassa, roca e sexy come quella di Benedetta. La sua risata era squillante e sguaiata, da mocciosa.
«Ragazzina, mi stavi a sentire o no, prima? Quello è venuto qui e ha chiesto di te, cosa c’è da capire?».
Da quel punto di vista, il suo ragionamento non faceva una grinza. Però…
«…perché non è rimasto?».
Benedetta inarcò un sopracciglio, come per dire “Sul serio?”.
«Hai presente tuo padre? Quello che abbatte persone nemmeno fosse un bulldozer da demolizione?».
«Quindi vuol dire che gli piaccio, ma che ha rinunciato in partenza?».
«Vuol dire che la prossima mossa spetta a te, adesso. Gli uomini sono tutti un po’ coglioni, vanno incalzati, altrimenti aspetta e spera!». Benedetta si fece improvvisamente seria e ammonì Honey con lo sguardo. «Che sia chiaro, però. Di tutta questa storia, io non ne so niente. Non voglio problemi con tuo padre, tanto meno con Carlisle».
Honey mimò l’atto di chiudere a chiave la bocca.
«Sarò una tomba, non preoccuparti».
Intanto, però, l’adrenalina le faceva prudere la pelle, come se migliaia di formiche stessero zampettando appena sotto l’epidermide. Aveva provato una frenesia simile solo quando aveva visto la sua Ducati per la prima volta, alla concessionaria. Ricordava fin troppo bene le dita che si serravano automaticamente, già pronte a impugnare il manubrio, la smania di sentire il vento tra i capelli e di vedere l’asfalto scorrere liquido sotto le ruote. Adesso stava vivendo la stessa identica emozione. Le sue gambe tremavano dalla voglia di correre al negozio di tatuaggi. E intanto ce li aveva già davanti, il sorriso da stronzo che la canzonava e lo sguardo tanto affilato quanto l’ago che usava per tatuare.
«Ehi, Honey!». Dal palco, Ben e Connor si stavano sbracciando per richiamare la sua attenzione. «Dobbiamo farle queste cazzo di prove, sì o no?».
Lei sospirò. Prima il dovere, poi il piacere. Si rivolse a Benedetta: «Grazie per la soffiata, anche se non ho capito perché tu l’abbia fatto».
Benedetta si strinse nelle spalle, con finta aria innocente.
«Per godermi la scena di tuo padre e tuo zio che ci rimangono di merda. Per cosa, se no?».
Honey non poté fare a meno di ridacchiare.



Gli uomini vanno incalzati, aveva detto Benedetta. E Honey aveva escogitato un piano perfetto. Doveva soltanto respirare profondamente e prendere il toro per le corna. O il tatuatore per i capelli.
Contò fino a tre (uno, due, due e un quarto, due e mezzo, due e tre quarti, due e cinquanta, tre) e finalmente smontò dalla moto. Si sfilò il casco e si aggiustò i capelli guardandosi nello specchietto retrovisore. Il casco era sempre una gran seccatura, perché appiattiva i capelli. I suoi infatti sembravano pisciati da un gatto. Porca puttana!
L’insegna del negozio di tatuaggi si stagliava di fronte a lei con aria minacciosa. Le ricordava l’antro della strega delle favole. Sorrise nel pensare che, in fondo, quell’antro era davvero abitato da una specie di strega.
Okay, Honey. Vai, ammazza e torna.
«Guarda chi si rivede!», esclamò Darla nel vederla entrare. «Niente poco di meno che Miss Bimbaminkia! Ehi, JD, hai visite».
Calma e sangue freddo, Honey. Ricambia con la stessa moneta.
«Buon pomeriggio, Darla. Quanti pompini hai fatto oggi?».
«Sicuramente molti più di quanti ne abbia fatto tu in tutta la tua vita. Del resto, non è che ci voglia molto per superare lo zero, dico bene?».
Cazzo, ce l’aveva scritto in fronte o cosa? Honey avvampò per l’imbarazzo. Doveva trovare una risposta, non poteva dargliela vinta, ne andava del suo onore, del suo orgoglio, del…
«Honey?».
Cos’è che doveva fare? JD era emerso dal laboratorio. Aveva legato i capelli in una coda, ma una ciocca era sfuggita all’elastico e gli ricadeva davanti alla faccia. Indossava ancora i guanti in lattice, che erano sporchi di inchiostro.
«Ciao, JD. Stavi lavorando?».
Ecco, brava. Parla, dimostra di possedere uno o due neuroni.
«In effetti, sì. Che succede? Problemi con i tatuaggi?».
In automatico Honey si massaggiò il polso destro, ma scosse la testa.
«No, i miei tatuaggi stanno benissimo. È solo che…». Certo, avere lo sguardo di Darla addosso, che si stava godendo la scena appoggiata comodamente al bancone, non aiutava. «Ci sarebbe un mio amico che vorrebbe fare il tatuatore. Ha visto i miei tatuaggi e gli sono piaciuti un casino. Quindi mi ha chiesto se per caso non poteva fare una chiacchierata con te. Non lo so, discutere di tecniche e roba del genere».
JD inarcò un sopracciglio.
«Un tuo amico? E ha dei tatuaggi questo tuo amico?».
«Sssssì». Pensapensapensapensa. Scartabellò velocemente tutti i tatuaggi che aveva visto su google immagini digitando le parole fotomodelli, palestrati e tatuati, e scelse «Un teschio sulla spalla, un tribale lungo tutto l’avambraccio e un veliero sul bicipite».
Dio, come si sentiva cretina, ma chi voleva prendere in giro? Una bambina che prova ad abbindolare due persone adulte e vaccinate. Chissà quante troiette avevano tentato di rimorchiarlo con una scusa così penosa e patetica, era proprio una stupida, cosa le era saltato in mente? Perché non aveva escogitato un piano migliore? Adesso JD le sarebbe scoppiato a ridere in faccia e…
«D’accordo». Eh? «Digli di passare qui domani mattina, ho giusto un buco tra le dieci e le undici».
Bene, dai. Ancora un piccolo sforzo.
«Veramente lui va ancora a scuola, frequenta con me il corso di matematica. Non si potrebbe fare domani pomeriggio? Tipo… non so, intorno alle cinque? Hai presente la Midwood High School? C’è un diner in fondo alla strada sulla quale si affaccia il nostro liceo, vi potreste incontrare lì. Poi dopo gli fai anche vedere il negozio, se ti va».
JD fece spallucce e si rivolse a Darla.
«Come siamo messi domani pomeriggio?».
«Calma piatta. Sempre che oggi non prenoti nessuno, ovviamente».
JD tornò a guardare Honey, che per un attimo avvertì il punzecchiare dell’ago sulla pelle.
«Domani alle cinque, allora. Com’è che si chiama il tuo amico?».
«Connor», rispose prontamente.
Connor non era tatuato, non aveva la minima intenzione di diventare tatuatore e non frequentava con lei il corso di matematica. Anzi, a scuola non ci andava proprio.
Tanto lui non lo saprà mai.
Ebbe appena il tempo di spiegargli dove si trova di preciso il diner in questione, prima che entrasse un cliente. Era meglio levare le tende, non voleva essergli di impiccio.
Bene, adesso ringrazia. «Grazie, JD. Sei stato davvero gentilissimo». Saluta. «Ci si vede, eh?». Ignora Darla ed esci a passi moooooolto lenti e tranquilli.
Aveva quasi raggiunto la moto, quando sentì la porta del negozio aprirsi dietro di lei.
«Honey?».
Si voltò forse troppo velocemente. E va be’, vaffanculo!
«Sì?».
JD era fermo sulla soglia, teneva la porta aperta con una mano, come indeciso se rientrare o meno. La scrutava con la fronte aggrottata. Poi, però, un sorriso stronzo fece capolino sul suo viso, come il sole da dietro a una nuvola.
«Sei stata fenomenale ieri sera».
Se avesse potuto, Honey si sarebbe messa a saltellare.



Decidere cosa indossare non gli era costato molta fatica. Pantaloni cargo, anfibi e felpa nera. Una punta di gel tra i capelli, ed era pronto. Honey lo vedeva conciato in quel modo praticamente tutti i giorni, ma non aveva alcun senso agghindarsi da damerino solo per andare al cinema. Inoltre Honey gli aveva sempre detto che quel look gli donava e squadra che vince non si cambia mai, giusto?
Contemplando il suo riflesso allo specchio, Connor non se la sentiva di darle torto. Stava proprio bene. Anzi, era così di buon umore che quasi quasi si azzardava a definirsi uno schianto. L’ottimismo è il profumo della vita e Connor si sentiva capace di tutto, anche di scalare una montagna. Quella era l’occasione che stava aspettando, finalmente sarebbe riuscito a farsi avanti con Honey. Il buio della sala cinematografica avrebbe nascosto l’imbarazzo e tutto sarebbe stato più semplice. Non una passeggiata, forse. Ma più semplice, sì.
Il bip bip del cellulare lo riportò alla realtà.
Connor si guardò intorno. Dove cazzo aveva buttato il cellulare? Lo individuò sotto a un mucchio di spartiti sulla scrivania. Un messaggio. Da parte di Honey.
Se qualcuno te lo chiede, sono stata con te tutto il pomeriggio, okay? Ci sentiamo domani, poi ti racconto.
Rilesse il messaggio tre volte, prima di afferrarne il significato. Poi prese i biglietti per Fast & Furoius 6 dal portafoglio e li guardò con aria sconsolata. Pensare che li aveva comprati con tre giorni di anticipo, perché non voleva rischiare di rimanere fregato all’ultimo momento. Li buttò nel cestino delle cartacce, ma poi ci ripensò e li raccolse. In fondo ci aveva speso soldi veri. Passando davanti allo specchio, si spettinò i capelli con rabbia, si sedette sul letto e compose il numero di Ben.
«Pronto?».
«Ehi, amico! Mi ritrovo con due biglietti gratis per Fast & Furious 6. Mi fai compagnia?».
«Lo sai che non dico mai no a qualcosa, se è gratis».
Non il pomeriggio che aveva sperato, ma almeno non sarebbe rimasto solo a casa a rimuginare come un coglione.



Seduto al tavolino del diner, JD diede un’occhiata all’orologio appeso sopra al bancone dei gelati: il ragazzino dai tatuaggi improbabili era in ritardo. Cominciava a pensare che Darla avesse ragione.
Dai, è palese, è una trappola!
Darla, è troppo stupida come scusa per essere inventata di sana pianta.
Un diciannovenne con quei tatuaggi? Sì, certo. Molto probabile, come no. Mi meraviglio di te, JD.
Ehi, a diciannove anni io avevo già metà dei tatuaggi che ho adesso!
Spiacente, tu non fai testo, JD.

Una parte di lui, quella dell’ingenuo bietolone, non le credeva. Una seconda parte, quella del tatuatore esperto, concordava con Darla. La terza e ultima parte di lui, quella del porco depravato, sperava che Darla avesse ragione. Lo stesso porco depravato che ad ogni rombare di moto che udiva drizzava le orecchie col cuore colmo di aspettative. Quando poi Honey entrò per davvero nel bar, col casco sotto braccio e il giubbotto da motociclista ancora addosso, il porco depravato esultò trionfante.
JD era indeciso se darsela a gambe o rimanere, mentre Honey faceva vagare lo sguardo tra i tavoli con aria smarrita. Nel preciso istante in cui lei lo individuò, le sue labbra si distesero in un sorriso radioso e lo champagne nei suoi occhi scintillò malizioso. A quel punto JD seppe di non avere più alcuna speranza di salvezza.
«Scusa il ritardo. Non puoi capire il casino che c’era per strada», disse lei.
Dopo aver posato il casco sul tavolino, gli si sedette di fronte e si nascose dietro al menù, ma JD si allungò sopra il tavolo e glielo sfilò dalle mani. Privata dello scudo che la proteggeva dal suo sguardo accusatore, Honey si morse il labbro come una bambina beccata con le dita nella marmellata e fece ciao ciao con la mano. JD ci provò a essere arrabbiato con lei, sul serio, ma non ci riuscì.
«Connor, te lo ha mai detto nessuno che sei identico alla tua amica Honey?».
«Sì, ma sono più bello io».
«Questo è tutto da vedere».
Honey arrossì e per mascherare l’imbarazzo riacciuffò il menù.
«Ordiniamo?».
JD chiamò il cameriere con un cenno della mano, che arrivò da loro in un battibaleno.
«I signori desiderano?».
«Una birra, grazie», disse JD.
«Una birra anche per me», gli fece eco Honey.
Le scoccò un’occhiata perplessa.
«Tu non hai l’età per bere alcolici».
Lei si imbronciò immediatamente. Raddrizzò la schiena e incrociò le braccia sotto al seno.
«Senti, di padre ne ho già uno che fa per dieci». Con un sorriso da civetta, si rivolse al cameriere. «Una birra, grazie».
Fu difficile trattenere un sorriso. Più lei si atteggiava ad adulta, più a lui veniva voglia di provocarla. Come un gatto che stuzzica il cucciolo di cane al di là della staccionata.
«Non le dia retta, prende un succo d’arancia».
«Forse non ho l’età per bere alcolici, ma di sicuro non ho dieci anni!». Ed ecco un altro sorriso da civetta per il cameriere. «Prendo un Espresso».
Il cameriere spostò lo sguardo corrucciato da Honey a JD. E da JD a Honey.
«Avete finito? È la vostra risposta definitiva? L’accendiamo?».



Una gocciolina di condensa scendeva lenta lungo il collo della bottiglia di birra, ormai vuota. L’Espresso invece si era raffreddato nella tazzina, non era stato toccato. Honey ci aveva vuotato dentro tutta la zuccheriera, prima di decretare che bleah era troppo amaro per lei. Perché mi hai impedito di prendere la birra? Sei proprio uno scassa palle. JD si era premurato di ricordarle che, se fosse stato per lui, avrebbe ordinato il succo d’arancia. Honey aveva replicato con una linguaccia. Alla fine le aveva ceduto metà della sua birra.
«Allora, come ha reagito tuo padre? Si è arrabbiato molto per i tatuaggi?».
Lei fece spallucce.
«All’inizio sì. Non l’avevo mai visto così incazzato. Non hai idea di come sia mio padre da incazzato, fa paura». Invece, l’idea, JD ce l’aveva eccome. Altroché. Non per niente aveva lasciato il Goldfinger a gambe levate, domenica sera. «Ma credo che ce l’avesse più con se stesso che con me. Sai, penso che lui si senta… infetto. E vive nel terrore che il suo passato possa infettare anche me».
«E tu come la pensi, invece?».
Honey sollevò entrambe le sopracciglia, genuinamente stupita, ma si riprese subito. JD sorrise tra sé e sé. Lottava come una tigre per non essere considerata solo una bambina, però quando qualcuno la trattava veramente da adulta, chiedendo la sua opinione, se ne meravigliava.
«Te l’ho detto, l’altro giorno. A me non interessa, conta soltanto il presente. Lui ha voltato pagina per mia madre e per me. È questo l’importante. Ho provato a spiegarglielo. Credo che una parte di lui lo abbia capito, si è perfino commosso! Ma un’altra parte continua ad avere paura. Immagino che le vecchie abitudini siano difficili da abbandonare».
JD annuì. «Immagini bene».
«Ed è per questo che mi assilla con le domande di ammissione al college. Vuole vedermi diventare una donna rispettabile, che si guadagna da vivere onestamente. Non sai che litigate, quando sono entrata nella band! Era convinto che sarei diventata una tossica che vive in un camper e che si prostituisce per arrotondare!».
JD scoppiò a ridere.
«Anche mio padre aveva aspettative ben precise. C’è rimasto molto male quando a dieci anni l’ho informato che avrei fatto il tatuatore».
Lei appoggiò il mento sul palmo della mano, con sguardo trasognato.
«Deve essere bello avere le idee chiare. A dieci anni pensavo solo a pettinare le bambole!».
«È solo merito di mio nonno, se ho scoperto così presto la mia vocazione».
«Era un tatuatore anche lui?».
Ogni volta che si tirava in ballo Wile, JD diventava serio.
«Wile Coyote era Il tatuatore. Mi ha insegnato tutti i suoi segreti. E quando è morto, mi ha lasciato in eredità il suo negozio. Chissà dove sarei adesso, se non fosse per lui».
Intanto Honey aveva aggrottato le sopracciglia.
«Perché Wile Coyote? Era un fan della Warner Bros?».
Di nuovo JD scoppiò a ridere. Se Wile l’avesse sentita, avrebbe imprecato per settimane. Ringrazia che sei una donna, ragazzina, avrebbe detto. Uno degli imperativi morali di Wile era “Le donne non si toccano, a meno che non siano loro a chiedertelo”.
«No, affatto. Aveva un coyote tatuato sulla schiena. Nel mio ambiente succede spesso che alla gente venga affibbiato un soprannome in base ai tatuaggi che possiede. Big D, ad esempio, ti ricordi di lui? Ha una grossa D sul collo».
«Quindi io potrei farmi chiamare Rosaspina! Che è sempre meglio di Honey. Non perdonerò mai mio padre per avermi condannata a un nome così stupido».
JD scosse la testa.
«Eh, no. Non funziona mica così, sono gli altri che devono scegliere per te il soprannome. E poi, al massimo, tu potresti farti chiamare Spina Nel Fianco».
«Sei proprio uno stronzo, JD!», scattò Honey, rossa di rabbia. Ma durò poco, perché all’improvviso il suo sguardo si accese. Prese a fissarlo dritto negli occhi, come se avesse risolto un difficilissimo rompicapo. «Anche JD è un soprannome».
La sua domanda era implicita.
«Sta per John Doe». Si sollevò la manica e mise in mostra la sagoma incappucciata che occupava tutto il bicipite destro. «Ed ecco da dove deriva».
Honey si sporse in avanti, per ammirare il tatuaggio più da vicino.
«È bellissimo. E inquietante. Sembra proprio che mi stia tenendo d’occhio da sotto il cappuccio. Sono quasi sicura che si tratti di una donna. Un po’ incazzata, anche. Secondo me non le sto molto simpatica. Magari è gelosa».
JD annuì, sinceramente colpito. Lo spirito di osservazione era una qualità che apprezzava nella gente. Anche perché la maggior parte delle persone con un discreto spirito di osservazione sapeva ascoltare ciò che i tatuaggi avevano da dire. E Honey aveva appena dimostrato di possedere un buon udito.
«E perché dovrebbe essere gelosa?».
Sono proprio uno stronzo.
Come previsto, Honey avvampò e distolse lo sguardo. Non sapendo che pesci pigliare, tornò a mescolare il caffè, che a causa del troppo zucchero si era ormai trasformato in una melma marrone e granulosa.
«No, così. Dicevo per dire. Tu sei un ragazzo, io una ragazza, siamo seduti al tavolo di un diner da un po’, da soli… la gente potrebbe farsi un’idea sbagliata».
Il discorso stava improvvisamente prendendo una brutta china ed era principalmente colpa di JD. Era venuto il momento di mettere le cose in chiaro. Ipocrita bastardo, prima lanci il sasso e poi nascondi la mano?
«Ascolta, Honey. Sono stato bene con te oggi, ma questa storia deve finire qui».
Il cucchiaio girava in tondo, grattando il fondo della tazzina.
«Una storia non dovrebbe cominciare, prima di finire?».
«Honey…».
Il cucchiaio cadde sul tavolino, tintinnando.
«Perché hai chiesto di me al Goldfinger l’altra sera, allora? Perché sei venuto qui? E non venirmi a dire che hai creduto alla cazzata dell’amico, perché offenderesti la mia intelligenza. No, in realtà offenderesti la tua intelligenza».
Quell’improvvisa presa di posizione prese JD in contropiede. Non riusciva proprio a capirla: un attimo prima arrossiva per un’innocua provocazione; l’attimo dopo tirava fuori le palle e scopriva le sue carte. Cristo, aveva una voglia disperata di fumare. Lasciò una banconota sul tavolino e si alzò.
«Ehi, aspetta, dove stai andando?».
«A fumare una sigaretta. E poi al negozio. Tra meno di un quarto d’ora devo tatuare un’iguana sul culo di un vecchio grassone».
Honey gli fu subito alle calcagna, ma JD continuò a camminare senza voltarsi. «Non puoi scaricarmi così, devi rispondere alla mia domanda». Nel sbarrargli la strada, casualmente inciampò su qualcosa e finì abbarbicata alle sue spalle. «Oh, che sbadata!».
L’espressione sul suo viso non aveva proprio niente di sbadato. Le mani di JD finirono, anche loro, casualmente sulla vita di Honey. Per un momento infinito rimasero lì, indecise. JD si vedeva a un bivio: afferrarla per il giubbotto e baciarla o spingerla via e andarsene. Le sue dita artigliarono il cuoio nero, ma poi allentarono la presa. Con un immane sforzo di volontà, JD si allontanò di un passo.
Una sigaretta, subito.
Si tastò le tasche dei jeans in cerca del pacchetto, ma non lo trovò. Forse l’aveva dimenticato in auto. Ma anche le chiavi erano sparite. Dove cazzo aveva la testa? Probabilmente all’intreccio di rovi e rose che sotto i suoi occhi cresceva a partire dal polso di Honey, si arrampicava intorno al braccio e si insinuava nell’incavo tra i seni.
«Cercavi queste?».
Il mazzo di chiavi roteava intorno all’indice di Honey, che aveva sfoderato il tipico sorrisetto da stronzetta. Nell’altra mano, invece, c’era il pacchetto di sigarette.
«Non solo stronza e viziata, anche borseggiatrice?».
«Me lo ha insegnato un’amica di mio zio», spiegò senza smettere di sorridere. «Cosa mi stavi tatuando?».
«Eh?».
«Poco fa, mi stavi fissando in modo… strano. Come l’altro giorno, quando mi hai guardato i polsi per capire da dove cominciare. Ho pensato che stessi… vedendo qualche altro tatuaggio e mi sono incuriosita».
Come diavolo faceva?
Era come finire in mezzo a un cespuglio spinato, con lei. Ogni volta che pensava di essersi liberato dalle spine, si sentiva graffiare e si accorgeva di essere ancora impigliato tra i rami spinati. Quando domenica sera si era lasciato alle spalle il Goldfinger, aveva creduto di averla scampata. E invece lei era riapparsa nel suo negozio qualche giorno dopo. Ora tentava di mantenere le distanze e invece lei lo riacciuffava cogliendolo di sorpresa.
JD la scrutò a lungo, incredulo. Lei sorresse il suo sguardo, anche se il modo in cui si stava massaggiando il polso destro lasciava intendere che era nervosa.
«Ce l’hai per vizio tu, di non rispondere alle domande».
Al diavolo, si disse. Si rituffò tra i rovi a passo deliberatamente lento, per non metterle paura. Le tirò i capelli indietro, con entrambe le mani, guardandola dritto negli occhi. Occhi che adesso frizzavano come champagne appena stappato.
«Lo so già che me ne pentirò».
E la baciò.







_____________







Note autore (che come promesso non sono lunghe come quelle del primo capitolo):
Visto che sono stata di parola? Non sembra vero nemmeno a me di stare pubblicando il secondo capitolo di questa storia: è come spezzare una maledizione!
Grazie mille per il caloroso benvenuto che avete riservato ai miei personaggi. Non me lo aspettavo e quindi sono doppiamente felice. Spero tanto che il secondo capitolo sia all’altezza delle vostre aspettative. Non potete capire l’ansia!
Piccola nota informativa: Midwood è un altro quartiere di Brooklyn, New York.
Come sempre ringrazio le mie fidate beta per il loro aiuto.
A lunedì, col terzo capitolo.
Grazie ancora a tutti!

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


Capitolo 3




«Ehi, puttanella. Non mi stancherò mai di ripetere quanto non sono felice di vederti».
«L’unica puttana, qui, sei tu, Darla. E comunque il sentimento è reciproco».
Honey oltrepassò il bancone senza degnarla di uno sguardo, abbandonò la tracolla coi libri sul pavimento e si diresse a passo di marcia verso il laboratorio, dove sapeva di trovare JD. Meno stava vicino a Darla, meglio era per la sua salute mentale.
Il ronzio della macchinetta salutò il suo ingresso nel laboratorio.
«Non potreste cercare di andare d’accordo voi due?», chiese JD.
«Solo quando l’inferno gelerà».
JD era chino sul suo braccio sinistro. Non aveva legato i capelli con l’elastico come faceva di solito quando tatuava i clienti, perciò le lunghe ciocche nere gli ricadevano a tenda davanti al viso e ostruivano la visuale. Honey gliele sistemò dietro l’orecchio, in modo da poter dare una sbirciatina. Stava lavorando a un tatuaggio che aveva cominciato qualche giorno prima: adesso, un paio di occhi gialli da gatto stavano spiando Honey, tra le spire di un serpente avvinghiato intorno all’avambraccio. L’espressione sul volto di JD era concentrata ma serena. Mentre l’ago ronzava e la pelle si tingeva di giallo, lui sorrideva sovrappensiero. Come se tatuarsi da solo fosse la cosa più facile e normale di questo mondo.
«Come farai ora, ti tatuerai anche la faccia? Non c’è più neanche uno spazietto libero!».
Il ronzio cessò. JD prese la sigaretta dal posacenere e diede un tiro. La punta brillò di un rosso acceso per qualche istante, per poi tornare subito grigia e fumante.
«E tu che ne sai? Hai mai visto come sono fatto sotto i vestiti?».
Honey avvampò. Quando la provocava in quel modo, le veniva voglia di picchiarlo. Soprattutto perché invece di sfruttare la battuta e approfondire l’argomento, cambiava subito discorso. Come qualcuno che ha imboccato per sbaglio un vicolo cieco molto stretto e per uscirne è costretto a fare retromarcia.
«Come è andata a scuola?».
Ecco, appunto.
«Potresti toglierli, i vestiti», disse lei, ignorando la seconda domanda. «Così potrei parlare con cognizione di causa».
Gli tolse la sigaretta dalla bocca e la spense nel posacenere. Poi si sedette sulle sue ginocchia, gli circondò il collo con le braccia e lo baciò. Le piaceva il suo sapore di tabacco e l’odore di inchiostro che impregnava i suoi capelli. La mano di JD strisciò lentamente sotto la gonna e Honey tremò, anche se sapeva già che lui non si sarebbe spinto fino in fondo. Non lo faceva mai.
Certe notti, sola nel suo letto, era difficile addormentarsi, se tutto quello a cui riusciva a pensare erano le mani di JD. Si incantava a guardarlo lavorare: mentre i tatuaggi prendevano letteralmente vita sotto le sue dita, Honey provava a immaginare l’effetto che quelle stesse dita avrebbero avuto sui suoi nervi.
Le mani di JD erano pericolose.
Honey l’aveva capito fin dal loro primo bacio, davanti al diner, in piedi sul marciapiede, tra le occhiate curiose dei passanti. JD si era trattenuto in quell’occasione, lei se n’era accorta. L’aveva baciata lentamente, come un liquore che va assaporato a piccoli sorsi altrimenti dà alla testa, e le sue mani non erano mai scese oltre il collo e le spalle. Nemmeno quando gli si era buttata praticamente addosso, aveva ceduto. Al contrario, JD aveva ammansito e imbrigliato la sua impazienza con carezze leggere tra i capelli e sulla nuca. Eppure, nonostante quella ferrea disciplina, Honey aveva avvertito tutto il potere di quelle mani gocciolare lento sulla sua pelle, come cera liquida e bollente. Quelle mani avrebbero potuto liquefarla solo sfiorandola, ne era certa.
«Honey?».
«Uhm?».
«Mi stai ascoltando?».
Sbatté le palpebre un paio di volte, poi annuì ancora un po’ frastornata.
«Stavo dicendo che mi piacerebbe portarti in un posto, domani sera». Le orecchie di Honey si drizzarono come antenne. Un appuntamento? Dopo due settimane di incontri clandestini nel suo negozio, le stava davvero proponendo un vero appuntamento? «Credi sia fattibile?», le chiese.
«Certo che sì!».
JD aggrottò la fronte.
«Prima, per favore, accendi il cervello. Hai risposto troppo velocemente».
«Il mio cervello è attivissimo, stai tranquillo. Dimmi dove, come e quando».



«Sono a casa!».
«Alla buon ora! La cena è quasi in tavola, dove sei stata tutto il pomeriggio?».
«A provare con la band». Honey diede un bacio a Zachariasz, che stava apparecchiando, e un altro a Isa, che invece stava sorvegliando la pentola dello stufato sul fornello. «Torno subito, salgo solo a mettermi addosso qualcosa di più comodo».
Zachariasz la trattenne per un braccio.
«Non così in fretta, ragazzina. Stamattina non hai accennato a nessuna prova con la band».
Lei si strinse nelle spalle.
«Mi sa che mi è sfuggito, allora. Vado, ammazzo e torno».
Si divincolò dalla sua presa e corse su per le scale. Zachariasz la seguì con lo sguardo, fin quando non scomparve al piano di sopra.
«Non so più cosa pensare. Due settimane fa faceva invidia a uno zombie. E guardala adesso, non sembra nemmeno la stessa ragazza! Qui gatta ci cova».
Isa roteò gli occhi.
«E se è triste, c’è qualcosa che non va. E se è felice, allora ci nasconde qualcosa. Insomma, tesoro, non te ne va mai bene una?».
Zachariasz infossò le spalle, sulla difensiva.
«Non ha ancora finito di compilare le domande di ammissione al college. Ogni volta che tiro fuori l’argomento, cambia discorso o scappa via. E poi è sempre in giro. Sono preoccupato!».
Isa comparve alle sue spalle e lo abbracciò da dietro, baciandolo sulla nuca.
«Sai che novità! Tu sei sempre preoccupato».
Zachariasz si girò tra le sue braccia e la strinse a sé.
«Dici che esagero?».
Lei sorrise e gli tamburellò la punta del naso con l’indice.
«Appena un pochetto».



Benedetta aprì la porta del sul ufficio senza esitazione.
«Buonasera, Detective».
«’Sera».
Il Detective Martìnez aveva un’aria sciupata, le profonde occhiaie intorno ai suoi occhi dicevano che non dormiva cinque ore di fila da un bel po’. Indossava lo stesso completo trasandato della volta scorsa. Il nodo alla cravatta era lento e storto, il colletto della camicia sbottonato. Se non fosse stato per la fede che portava al dito, Benedetta avrebbe detto che il Detective era scapolo.
«Mi hanno detto che mi stava cercando, vedo che non ha avuto problemi a trovare il mio ufficio. Cosa posso fare per lei, questa volta?».
Benedetta prese posto dietro la sua scrivania, indicò con un cenno della mano la sedia vuota, ma il Detective Martìnez preferì rimanere in piedi, a fissare i monitor della sorveglianza.
«Dove si trovava la notte scorsa?».
«Qui al Goldfinger, perché?».
«C’è qualcuno che può confermarlo?».
«Praticamente tutto il personale. Posso sapere a cosa devo questo interrogatorio?».
Finalmente Martìnez smise di fissare gli schermi e si voltò verso Benedetta. I suoi occhi castani, seri e profondi, la trafissero come un coltello, ma lei sostenne senza difficoltà il suo sguardo.
«Ieri notte sono stati trovati due cadaveri in una delle fermate della metropolitana di Williamsburg. Due spacciatori».
Benedetta si accigliò. Non ne sapeva niente. E se non lo sapeva lei, allora nemmeno il Cardinale era stato informato della faccenda. Brutto, bruttissimo segno.
«La droga è un settore pieno di rischi», commentò.
«Patryk Nowak e Filip Mazur, li conosceva?».
Scosse la testa. «Mai sentiti nominare».
Martìnez assottigliò lo sguardo, forse cercando di capire se mentiva o meno.
«Appartenevano alla banda dei Polacchi. Ormai la guerra tra bande per Williamsburg Nord e il territorio di spaccio non è più soltanto un’ipotesi».
Benedetta si appoggiò allo schienale della sedia a braccia conserte.
«Storia interessante, solo non capisco perché sia venuto a raccontarla a me».
«Alcuni testimoni sostengono di avere visto Nowak e Mazur gironzolare da queste parti».
Lei fece spallucce.
«Ha idea di quanta gente gironzola qui ogni sera?».
«Sì, è vero. Il Goldfinger è un locale molto frequentato. Però, forse, questi due particolari frequentatori non erano molto graditi. Forse al suo capo non piace la concorrenza».
No, al Cardinale non piaceva affatto la concorrenza, ma se avesse ammazzato qualcuno (al Cardinale non piaceva delegare il lavoro sporco agli altri) che spacciava al Golfinger senza il suo permesso, lei sarebbe stata la prima a saperlo. Che cazzo stava succedendo a Williamsburg?
«Detective, non capisco. Sta dicendo che Nowak e Mazur avevano intenzione di aprire un loro locale, per caso? Perché non riesco a immaginare altro tipo di concorrenza che potrebbe impensierire il mio capo».
Martìnez abbozzò un sorriso. Camminò avanti e indietro, soppesando i passi. Poi si fermò davanti alla scrivania e piantò i palmi sul piano, sporgendosi in avanti e guardando Benedetta dritto negli occhi.
«Ho sentito parlare parecchio di questo posto», disse serissimo.
La cravatta penzolava sotto il suo mento e sfiorava quasi il piano della scrivania. A Benedetta venne in mente uno di quei film porno, con la poliziotta che interroga il sospettato. Per un attimo vide se stessa afferrare la cravatta e…
«Soprattutto alla Buoncostume. Droga, prostituzione… cose da niente, insomma. E siccome non ero abbastanza soddisfatto, ho fatto delle ricerche per conto mio. Immagini la mia sorpresa quando è saltato fuori che il cognato del suo capo è sospettato di diversi crimini. Guarda caso, tutti compiuti per conto della banda dei Polacchi».
Merda! Ci mancava solo questo, che dopo quasi vent’anni la storia di Zachariasz saltasse di nuovo allo scoperto. Ciononostante, Benedetta non si scompose.
«Ha finito con le sue illazioni, Detective?».
Martìnez sospirò pesantemente e finalmente accettò di sedersi.
«Sì, è vero. Non ci sono prove. Immagino che anche il suo capo abbia un alibi di ferro, per la scorsa notte».
Benedetta annuì. «Non si allontana mai dal suo locale».
«Potrei parlare con i vostri alibi? Giusto per raccogliere qualche dichiarazione».
«Certo che sì, vada al bar. Thresh e suo fratello Liam risponderanno a tutte le domande che riterrà opportuno porre».
Benedetta e il Detective si alzarono contemporaneamente. Per un po’ rimasero lì, in piedi, l’uno di fronte all’altra, senza sapere di preciso cosa fare. Poi Martìnez si guardò intorno.
«I fronzoli non sono la sua passione, eh?».
«Mi piacciono le cose essenziali. Quello che mi serve e nient’altro».
«Per un certo periodo mia moglie si è dilettata di arredamento, invece. Le riusciva anche piuttosto bene. Aveva il dono di rendere le case accoglienti».
«Sembra una donna in gamba».
Sul viso del Detective Martìnez comparve un sorriso triste e nostalgico.
«Lo era».
All’improvviso Benedetta si sentì una merda. Avrebbe dovuto immaginarlo. Calò un silenzio doloroso tra loro. Martìnez si schiarì la voce e senza aggiungere altro si avviò verso l’uscita. Aveva già aperto la porta, quando si fermò per dare un’ultima occhiata all’ufficio.
«Sa, forse una pianta potrebbe fare la differenza».
Benedetta gli rivolse un sorriso tirato.
«Non credo. Ho un talento naturale per far morire le cose».



Era uno di quei pomeriggi in cui nessuno aveva voglia di fare niente, figurarsi provare la scaletta per la prossima esibizione al Goldfinger. Il garage di Ben era il luogo ideale per trascorrere quei momenti di totale apatia. Jonathan se ne stava mezzo sdraiato sul vecchio divano rosso che i genitori di Ben avevano sostituito e posteggiato là qualche anno prima. Ben invece strimpellava distrattamente la chitarra e Honey sembrava persa nel suo mondo fatto di tatuaggi. Connor si morse la lingua per il disappunto.
«Oh, ragazzi. Mi sono rotto di stare qui a non fare un cazzo. Possiamo almeno occupare queste ore morte per decidere cosa fare stasera?», disse improvvisamente Jonathan. «Che ne so. Vi va di andare a vedere un film?».
Connor spiò Honey di sottecchi, che però stava ancora sognando a occhi aperti. Dopo due settimane non si era ancora resa conto di essersi dimenticata del loro appuntamento al cinema.
«Naah, andiamo al Goldfinger», propose Ben. «Si esibiscono gli Skulls, stasera. Sono tipi tosti, quelli. Dobbiamo tenere d’occhio la concorrenza. E poi con Honey entriamo gratis. Dico bene, Honey?».
Lei sussultò.
«Cosa? Ah, uhm. Veramente io avrei un impegno stasera».
Tre paia di occhi si puntarono su di lei. Il sorrisetto di Ben era tutto un programma.
«Non mi dire… il tatuatore? Che bolle in pentola?».
«Non lo so. Ha detto che vuole portarmi in un posto. Dobbiamo incontrarci al negozio, all’orario di chiusura».
«Oh, lo so io dove vuole portarti quello là!».
Honey gonfiò le guance, come una rana.
«Piantala di sparare minchiate, Jonathan!».
Lui scoppiò a ridere.
«Guardate com’è arrossita, la principessina! Secondo me l’hai capito anche tu, dove vuole portarti».
«O meglio, cosa vuole farti», rincarò Ben.
«Siete dei grandissimi pezzi di merda. Invece di prendermi per il culo, non potreste almeno farmi un favore?».
«Tipo?».
«Tipo coprirmi con mio padre».
Ben e Jonathan si guardarono a vicenda e fecero spallucce quasi contemporaneamente.
«Per me non c’è problema».
«Nemmeno per me. Se ce lo dovessero chiedere, diremo che sei stata con noi».
Honey sorrise riconoscente, poi rivolse lo sguardo speranzoso a Connor. Che per un attimo soppesò l’idea di rispondere “Vaffunculo, Honey” e mandare a puttane la sua seratina romantica col tatuatore trentenne del cazzo. Solo per un attimo, però.
«Non c’è bisogno che mi fai gli occhi dolci. Certo che ti copro».



Sta’ calma, Honey. Non è la prima volta che esci con un ragazzo. Fai un bel respiro ed entra. Sei tosta, sei di roccia, niente può scalfirti. Questa serata sarà perfetta. Non te la stai facendo sotto dalla paura per quello che hanno detto Ben e Jonathan. Andrà tutto bene. Devi solo mantenere la calma.
«Ciao, Darla. Come mai sei ancora qui? Di solito a quest’ora sei già a farti fottere da qualcuno. Non vorrai mandare a puttane la tua fama, vero?».
Per la prima volta da quando aveva cominciato a frequentare il negozio di JD, Darla infranse la loro ormai consolidata tradizione di insulti: invece di rispondere a tono, si limitò a fissarla con un inquietantissimo ghigno che le tagliava la faccia in due.
Non ti fidare, ha qualcosa in mente. Ricorda, niente può scalfirti.
«Che cazzo hai da guardare? E dov’è JD?».
«È corso a casa a cambiarsi. Ha fatto tardi, perché all’ultimo minuto è arrivato un cliente affezionato e non ha potuto dirgli di no. Per questo sono ancora qui, mi sono offerta di tenerti compagnia fino al suo ritorno».
Honey sfoderò il sorriso più falso del suo repertorio.
«Un pensiero carino da parte tua, ma non era necessario che ti prendessi un simile disturbo. Vai pure a farti fottere, posso aspettare da sola».
Darla scosse la testa, sempre con quel ghigno da brividi impresso sul viso. Aggirò il bancone, ancheggiando come una pantera. Come cazzo faceva a muoversi con quegli shorts infra-chiappa, non le davano fastidio? Vedendosela arrivare incontro, Honey indietreggiò istintivamente di un passo, ma Darla la prese sottobraccio e la trascinò fino al divano. Dopo che si furono sedute fianco a fianco, Darla prese a guardarla dritto negli occhi. Adesso il ghigno da Malefica non c’era più, era stato sostituito da un’espressione grave e mortalmente seria.
«Devi essere emozionata per stasera», disse.
«Per niente», mentì Honey. «È un’uscita come un’altra».
«Ti ammiro molto, sai. Sei davvero coraggiosa. Al posto tuo, nonostante la mia decennale esperienza, sarei molto intimidita».
Okay, ha sicuramente in mente qualcosa. Tieni la schiena dritta. E fa’ attenzione, Darla fiuta la paura come un segugio la sua preda.
«Mi spiace, non capisco di che cazzo stai parlando».
Le sopracciglia di Darla guizzarono in alto, in una finta espressione meravigliata.
«Ah, ma allora non è che sei coraggiosa, sei solo ignorante! Avrei dovuto immaginarlo. Per fortuna che hai me, posso darti delle dritte che ti renderanno tutto più semplice».
«Ma di che diavolo…?».
«Perché JD è un tipo molto esigente, sai? Non si accontenta mica della posizione del missionario. Lo sai, vero, qual è la posizione del missionario?».
Sì che lo sai. In teoria, ma lo sai. Quindi perché non stai annuendo? Annuisci, scema. Annuisci!
«Mi ricordo quando usciva con quella tipa nota per essere una bocchinara di prima categoria. Tu come sei messa a pompini? Guarda che JD ci tiene. Il pompino è la prestazione base, praticamente. Indispensabile per il primo appuntamento».
Vuoi chiudere quella cazzo di bocca? E smetti di sgranare gli occhi come un uccello impagliato. Okay, non hai mai fatto un pompino in vita tua, ma non sei mica nata ieri. Riprenditi, cazzo!
«Ah, poi c’era quella che sapeva infilare i preservativi senza mani. Lo sai fare anche tu? Aspetta, ma lo hai mai visto da vicino un preservativo, almeno?».
La scatola esposta in farmacia e quello nel portafoglio di Ben contano?
«Dovresti anche cercare di capire qual è la tua posizione preferita. Ti piace stare sopra, sotto o a pecora. E perché? Ah, sei vaginale o clitoridea? È importante saperlo. Hai idea cosa sia un sessantanove?».
«Ehm…».
Voglio morire.
«Ragazze, non ditemi che state cominciando a comportarvi da persone civili!».
Honey dovette fare violenza su se stessa per non sussultare nel trovarsi davanti JD. Si alzò dal divano, con un sorriso di gomma appiccicato alla faccia, e lo salutò con un bacio sulla guancia.
«Darla mi stava dando qualche dritta». Si rivolse alla diretta interessa. «Apprezzo il pensiero, Darla, ma non mi hai detto nulla di nuovo. Anzi, è tutta roba superata da secoli. Si vede che non sei più tanto giovane».
Lei era ancora seduta sul divano, con le gambe accavallate e un’espressione di sufficienza.
JD le fissò a lungo prima di chiedere: «Dritte riguardo a che cosa?».
«Cose da ragazze», risposero entrambe contemporaneamente.
JD non sembrava molto convinto, ma si strinse nelle spalle e lasciò correre.
«Possiamo andare, allora?».
Honey annuì, raggiante. Se solo fosse riuscita a smettere di tremare!



«Caspita, cinque minuti senza aprire bocca. Deve essere una specie di record per te!». Honey provò a ridere, ma le uscì fuori solo un mezzo singulto strozzato. A giudicare dallo sguardo corrucciato, era un’altra la reazione che JD si era aspettato da lei. «Non mi hai chiesto nemmeno dove ti sto portando», tentò una seconda volta. «Non sei curiosa?».
Lo so io dove vuole portati quello là!
O meglio, cosa vuole farti.
Il pompino è la prestazione base, praticamente.

Il nodo alla gola le impedì di deglutire a vuoto.
«No, è solo che non voglio rovinarmi la sorpresa».
Adesso non farne un dramma. Si tratta di un pompino. Che vuoi che sia? Nei film porno li fanno di continuo. A proposito, com’è che facevano nei film porno? Cazzo, adesso si pentiva amaramente di non aver prestato attenzione, quella volta che i ragazzi avevano messo su un carnaccio nel garage di Ben. Avanti, concentrati, qualche sequenza l’hai vista anche tu. Corrugò la fronte, per lo sforzo di concentrazione. Allora, c’era una tizia bionda con la fica tatuata, inginocchiata davanti a un palestrato di colore. E poi? Gli aveva sbottonato i pantaloni, supponeva. Oppure erano già nudi? No, ma quelli erano dettagli insignificanti, ciò che le interessava davvero era la tecnica. Glielo aveva preso tutto in bocca o si era aiutata con la mano?
«…con la mano».
«CHE?».
Nel voltarsi di scatto quasi si ruppe l’osso del collo. JD la fissava come se fosse pazza.
«Ho detto. Vuoi una mano? A sganciare la cintura, intendo».
Ricominciare a respirare fu un sollievo, ma il cuore non voleva saperne di darsi una calmata. Forse era il caso di smettere di pensare ai film porno. Forse, eh?
«No, faccio da sola. Siamo già arrivati?».
«Così pare».
Scese dall’auto e nel vedere quello che aveva di fronte, tutti i suoi problemi di tecnica del pompino si dispersero come sabbia al vento.



«Ehi, Tom, come va?».
«Alla grande», rispose Tom, mentre chiudeva il registratore di cassa. «Non dovresti essere a una festa, stasera?».
«Devo ancora finire il giro. Ci sono stati problemi, oggi?».
Tom scosse la testa. «No, è stata una giornata tranquilla».
«Bene. Ti spiace se prendo un pacchetto di fonzies? Sono le mie preferite».
«Fa’ pure».
Aveva appena chiuso il registratore di cassa, ma Cagnaccio pattugliava la zona, un pacchetto di fonzies gratis era il minimo che Tom poteva dargli per sdebitarsi.
Lo avevano soprannominato Cagnaccio perché era fedele come un cane da guardia, ma se si incazzava diventava selvatico ed era capace di mordere chiunque. A eccezione del suo padrone, ovvio. Halona lo aveva raccattato come un randagio in un centro di recupero per tossicodipendenti a sedici anni, se lo era messo in casa, lo aveva addomesticato e gli aveva dato un lavoro. Da allora Cagnaccio le era rimasto sempre a fianco, scodinzolando felice.
«Quanto ti devo?», chiese Cagnaccio, mettendo mano al portafoglio.
«Lascia stare, a posto così».
«Grazie, Tom. A buon rendere».
Aprì il pacchetto e uscì dal negozio che già aveva la bocca piena.
Tom aspettò che la porta si fosse chiusa, poi prese la scopa e cominciò a spazzare il pavimento. Non erano passati nemmeno sessanta secondi, quando udì lo sparò. Per lo spavento, lasciò cadere la scopa. Il tempo di constatare che era ancora vivo e corse fuori.
Tre uomini stavano caricando il corpo massiccio e macchiato di rosso di Cagnaccio su un SUV nero. Prima ancora che Tom riuscisse a fare alcunché, lo sportello era stato chiuso e la vettura era ripartita sgommando.
Quando un ladro decide di svaligiare una casa, pensò Tom, la prima cosa che fa è liberarsi del cane da guardia.



«Questo posto è una figata assurda!», esclamò Honey.
JD abbozzò un sorriso, mentre la prendeva per mano e se la trascinava dietro, inoltrandosi nella calca di gente tatuata ammassata tra i tavoli. Ci aveva messo venti minuti per convincerla a entrare nel locale. Perché prima Honey aveva preteso di esaminare, una ad una, le decine di moto parcheggiate davanti al Coyote Club. Sulle forcelle allungate della Harley Davidson di Sam si era quasi commossa e lui era stato costretto ad afferrarla per la collottola del chiodo di pelle per impedirle di inforcarla.
Vuoi farti ammazzare, per caso?
Scusa, JD. Mi sono lasciata trascinare dall’emozione.

Lui aveva sentito addosso il peso degli sguardi sospettosi dei biker radunati di fronte all’ingresso. Nemmeno la mascotte della banda poteva permettersi una simile libertà. Toccare la moto di un Coyote è il modo più rapido per passare a miglior vita, diceva sempre Wile. E JD sapeva per esperienza personale che non era solo un modo di dire.
«Sono contento che ti piaccia», disse, quando finalmente ebbero raggiunto il bancone. «Temevo che saresti rimasta delusa».
L’espressione di Honey era incredula.
«E perché mai avresti pensato una cazzata del genere?».
«Di solito frequenti posti più eleganti e alla moda».
Honey sbuffò. «Figurati! Frequento il Goldfinger perché è il locale di mio zio. Certo, lo adoro, ma solo perché ci sono praticamente cresciuta dentro. Questo posto invece è…». Un tizio con una lunga barba grigia e le zanne di un coyote tatuate sul cranio la spintonò di lato per farsi largo. Honey però non si scompose. Anzi, a giudicare dalla sua espressione sembrava che non aspettasse altro che essere spintonata di nuovo. «Non ci sono parole per descriverlo, JD!», concluse alla fine con sguardo trasognato.
Lui scosse la testa, segretamente compiaciuto.
«Vediamo se riusciamo a rimediare un tavolo libero, allora».
«Difficile con questo casino. È sempre così affollato?».
«No, di solito è più tranquillo, ma stasera si festeggiano i quarant’anni dall’apertura del locale. C’è praticamente tutta la banda dei Coyote».
Honey sgranò gli occhi. «Quindi tu sei uno di loro?».
«No, io no. Però mio nonno Wile ne è stato il capo fin quando è campato».
«Cazzo!».
JD rise. «Lo prendo come un complimento».
Alla fine erano riusciti a ottenere un tavolo solo per gentile concessione di Halona, che dopo aver squadrato Honey dalla testa ai piedi, aveva fulminato JD con un’occhiataccia e se n’era andata borbottando qualcosa come “Uomini, ragionano solo con l’uccello”.
«Quella donna mi mette una gran fifa».
«Meglio, così non la prendi sottogamba. Halona non possiede il senso dell’umorismo, odia le domande, soprattutto quelle stupide, picchia come un pugile professionista e nutre una scarsa simpatia per le belle ragazze, soprattutto quelle che si scopa suo marito».
«Ma chi? Il simpatico vecchietto che mi ha offerto la birra poco fa?».
Ci mancò poco che JD non si strozzasse con il suo Grey Goose.
«Apri bene le orecchie. Stai alla larga da quel “simpatico vecchietto”, perché proverà a rimorchiarti non appena ne avrà l’occasione».
Honey era sbalordita.
«Te l’ho già detto che adoro questo posto?».
Come se avesse ascoltato i loro discorsi, il simpatico vecchietto in questione, che di nome faceva Shiriki, salì sul palco, intimò alla band di cessare la musica e si schiarì la voce nel microfono.
«Scusate l’interruzione, signore e signori, ma mi è giunta voce di un fatto increscioso appena verificatosi qui al Coyote Club. Qualcuno si è imbucato alla nostra festa». Il coro di buuuuuuu fu immediato. «Qualcuno che non fa parte della nostra banda e che non è stato nemmeno invitato. Ora, come sapete, ci sono tradizioni ben precise che vanno assolutamente rispettate, soprattutto in una serata di baldoria». Un boato di approvazione si levò dalla massa informe di persone stipata sotto il palco. «Invito, quindi, l’incantevole accompagnatrice di John Doe a salire immediatamente sul palco. O sarò costretto a buttarla fuori dal locale a calci in culo, come direbbe la mia adorata consorte».
Halona, da dietro il bancone, gli mostrò il dito medio. Nel frattempo Honey era di colpo sbiancata ed aveva infossato la testa nelle spalle come una testuggine, sperando probabilmente di passare inosservata.
«Sta mica parlando di me?».
JD mandò giù un sorso di Grey Goose, prima di rispondere.
«Conosci un altro John Doe, forse?».
«Cazzo, cazzo, cazzo. Che diavolo vuole da me? Perché non mi lascia in pace?».
«Ho dimenticato di dirti che Shiriki ha una fissa per il karaoke. Chi non fa parte della banda, per guadagnarsi un posto a sedere nel Club, deve cantare una canzone sul palco».
Honey si coprì la faccia con entrambe le mani e scosse ripetutamente la testa.
«Cristo santo, questo è un incubo!».
«Andiamo, che sarà mai! Ti esibisci al Goldfinger quasi ogni sera, dovresti essere abituata a questo genere di cose, no?».
I capelli le frustavano il viso, mentre continuava imperterrita a scuotere la testa.
«Non è la stessa cosa. Al Goldfinger gioco in casa, e ci sono i miei amici».
«Ho capito, te la stai facendo sotto dalla paura. Comprensibile. Lo stile di vita del biker non è per tutti».
Le mani di Honey ricaddero sul tavolo, serrandosi automaticamente. Nei suoi occhi qualcosa guizzò, come lo champagne che viene agitato prima di venire stappato. La furia le trasformò i capelli in una nuvola di elettricità statica che crepitava intorno al suo viso. A JD venne in mente un gattino che arruffa il pelo e soffia.
«Giuro che questa me la paghi, stronzo!».
Mentre lei marciava come un soldato verso il palco, JD non poté fare a meno di sorridere.
«Eccoti, finalmente!», esultò Shiriki. «Sei una di quelle che si fanno desiderare, non è vero? Com’è che ti chiami?».
Lei diede un’occhiata all’oceano tempestoso di braccia tatuate, corpi massicci, barbe scure e boccali di birra che si abbatteva contro il limitare del palco, e sbiancò ancora di più.
«Honey», farfugliò nel microfono.
«Bene, fate un bell’applauso di incoraggiamento a Honey!».
Shiriki le cedette il microfono, rivolgendole il migliore dei suoi sorrisi a mezzaluna, e il viso di Honey prese subito colore. Nel vederla in piedi sul palco, stringere spasmodicamente il microfono con una mano e massaggiarsi il polso destro con l’altra, mentre con occhi spiritati fissava il pubblico, JD provò un moto di sconfinata tenerezza nei suoi confronti. Per essere un gattino dal pelo arruffato aveva fegato da vendere, doveva dargliene atto. Si sentì leggermente in colpa per averla data in pasto ai Coyote senza pietà. Ma durò poco. Perché Shiriki le palpò il culo e i sensi di colpa evaporarono in una sonora risata. La faccia di Honey, invece, era quella di qualcuno che avrebbe voluto sprofondare al centro della terra.
«Complimenti, JD!», urlò il vecchio dal palco, scatenando un’ondata di risate sguaiate e fischi di apprezzamento da parte del pubblico.
Poi, però, la base della canzone partì. Honey chiuse gli occhi e cominciò a cantare.
Improvvisamente fu come guardare un film muto. JD vedeva la gente intorno a lui e al palco che parlava, rideva, si spintonava, bisticciava, applaudiva, sbatteva i boccali vuoti sui tavoli, fischiava, JD vedeva tutto, ma non sentiva niente, era come se qualcuno avesse abbassato il volume dello stereo.
C’era soltanto Honey, come la prima volta.
Chiodo di pelle nera, minigonna, anfibi. E una voce che neanche un angelo.
La prima cosa che JD notava in una persona erano i tatuaggi, se una persona non era tatuata, difficilmente riusciva ad attirare la sua attenzione. Quando Honey era entrata nel negozio non aveva addosso alcun tatuaggio, eppure l’attenzione di JD era riuscita ad attirarla comunque, con quella pelle vergine e immacolata, talmente perfetta che gli veniva voglia di fare due cose, poggiarci sopra l’ago e le labbra. Non sapeva bene in quale ordine.
Adesso stava succedendo esattamente la stessa cosa.
In una donna, per JD, la voce era importante. Doveva essere calda e avvolgente come una coperta, roca come le fusa di un gatto, forte come un pugno nello stomaco. La voce di Honey non poteva essere più diversa di così. Nelle note basse era esile e misurata, procedeva in punta di piedi, quasi avesse paura di disturbare. Ma poi subentravano le note alte, e allora la voce cresceva, squillava, diventava furiosa, pestava i piedi a terra e sbatteva i pugni sul tavolo, ti fulminava con un’occhiataccia, tirava fuori tutto il suo carattere, diventava tosta e intrattabile. Quella voce sembrava una cosa, ma in realtà era tutt’altro. Esattamente come Honey.
Forse per questo era stato intrigato da entrambe.
Improvvisamente l’audio tornò a funzionare normalmente.
«Be’, che ne dite?», chiese Shiriki alla folla. «Se lo è guadagnato un posto a sedere al Club, questo pulcino che strilla come un’aquila?».
Il pubblico fischiò e applaudì.
Shiriki si rivolse a Honey, sorridendo.
«Benvenuta al Coyote Club, Voce D’Aquila!».
L’aiutò a scendere dal palco, non prima di averle assestato un’altra pacca sul sedere.
«Quel vecchio porco!», esclamò Honey, crollando stremata sulla sedia.
JD rise. «Come? Non è più un “simpatico vecchietto”?».
«Mi ha palpato il culo! Due volte!».
«È la tassa, mia cara. E va pagata. Prendilo come un complimento. Se Shiriki non ti palpa il culo, vuol dire che o sei cessa o ti disprezza talmente che non ti darebbe nemmeno una bottarella».
Honey storse la bocca. «Sono lusingata».
«Sei stata bravissima, in ogni caso».
Lei raddrizzò la schiena, rossa in faccia.
«Sul serio?».
JD annuì, senza smettere di fissarla. Intercettò la sua mano, che automaticamente era partita per la tangente del solito tick nervoso, quello di massaggiarsi il polso destro. Lo champagne negli occhi di Honey stava frizzando di nuovo, come la prima volta. Che voglia matta di baciarla.
Ma un urlo mandò a puttane l’atmosfera.
Shiriki saltò giù dal palco e si tuffò a pesce nell’oceano di corpi a ridosso del palco. Halona scavalcò il bancone come una gazzella, dimostrando ancora una volta di sbattersene altamente della sua età. Prima di sparire anche lei nella folla, si fermò al tavolo di JD e Honey.
«Sloggiate, subito. Queste sono faccende della banda».
«Sicura? Potrei dare una mano».
«Cazzo, JD, non metterti a discutere con me. La festa è finita».
Non aveva mai visto Halona ridere, ma non l’aveva nemmeno mai vista piangere. Adesso, invece, aveva gli occhi lucidi. L’eccezionalità dell’evento gli fece capire che non doveva insistere ulteriormente. JD prese Honey per mano e cercò di farsi largo a forza di spintoni.
«Che cosa sta succedendo?», chiese lei.
Honey ebbe la sua risposta, quando raggiunsero l’ingresso del locale. C’era un uomo a terra, JD lo riconobbe come Cagnaccio, con un foro di proiettile all’addome che perdeva parecchio sangue. Shiriki stava cercando di tamponare l’emorragia, mentre una Halona con le guance rigate abbaiava ordini a destra e manca. Tutt’intorno a loro era un coro di Sono stati i Polacchi, Maledetti bastardi, Lo hanno fatto cadere da un’auto in corsa proprio qua davanti, È un gesto di sfida e Non possiamo fargliela passare liscia.
Honey era di nuovo bianca come un lenzuolo.
«Cristo santo, dobbiamo chiamare un’ambulanza!».
«Non hai sentito Halona? L’unica cosa che dobbiamo fare è levare le tende».



«Dove ha detto che andava?».
«Per la centesima volta. A una festa, con i ragazzi della band».
Seduta di fronte alla specchio della toletta, Isa si stava dedicando alla pulizia del viso. Zachariasz non capiva come cazzo facesse sua moglie a starsene ferma, così calma e tranquilla, come se nulla fosse, come se la loro unica e adorata bambina non fosse chissà dove, in balia di chissà chi, a fare Dio solo sapeva cosa. A differenza di Isa, Zachariasz non riusciva a stare fermo, così prima si era attardato in palestra a smaltire l’ansia sul sacco da boxe, poi aveva fatto una corsa intorno all’isolato e adesso, lontano anni luce dall’essersi rasserenato, stava camminando avanti e indietro, misurando a grandi passi la camera da letto per tutta la sua lunghezza.
«Tesoro, credo che tu abbia bisogno di una camomilla».
«Non ne ho voglia».
«Guarda che non era un consiglio. Scendi in cucina e preparati una camomilla. Subito».
Zachariasz sbuffò e obbedì di malavoglia. Scese le scale, attraversò il soggiorno e arrivò in cucina, ignorando il telefono appeso alla parete. Aprì lo sportello dello stipetto che si trovava sopra il lavandino, prese la teiera, la riempì con dell’acqua, la mise sul fornello e accese la fiamma.
Non lo guardare, si disse. Non farti tentare.
Intanto, però, i suoi occhi andavano sempre lì, al telefono.
Che sarà mai, in fondo.
Si era fatto dare il numero di Connor per le emergenze. E un padre in pensiero per la figlia non era un’emergenza? Solo una chiamata, per essere sicuro che stesse bene.
E che non mi abbia mentito.



Approfittando dell’assenza di Honey, si erano fatti consegnare tre pizze al garage di Ben e avevano deciso di dedicare la serata all’esplorazione di youporn. Connor però non era in vena. Mentre Ben e Jonathan sbavavano e sghignazzavano su Pirates, lui se ne stava seduto in disparte, sul divano rosso e polveroso, azzannando di tanto in tanto un pezzo della sua pizza ai peperoni.
«Guarda come glielo prende tutto, che porca!».
Jonathan si voltò per l’ennesima volta verso di lui.
«Connor, non fare il guastafeste, vieni a vedere anche tu! Non ti risolleverà il morale, ma il cazzo di sicuro».
«Fatti i cazzi tuoi, Jonathan. Letteralmente».
«Tu invece va’ un po’ a fanculo».
«Lascialo perdere», intervenne Ben. «Se non è aria, non è aria».
Proprio in quel momento, il cellulare di Connor cominciò a squillare. Per un brevissimo istante pensò che si trattasse di Honey, ma si afflosciò come un palloncino sgonfio, quando si rese conto che era solo Zachariasz.
«Il padre di Honey mi sta chiamando, abbassate il volume».
Nessuno dei due gli diede retta. Ovvio.
Uscì dal garage e prima di rispondere ripassò mentalmente quello che doveva dire.
Sì, Honey è qui con noi. No, non può rispondere adesso, ma le assicuro che è tutto a posto, si sta solo facendo trombare da un tizio che è dieci anni più grande di lei.
Il display continuava a lampeggiare.
No, non era questa la storia sulla quale si erano accordati con Honey, non poteva dire quelle cose… Oppure sì?
A te quel tizio non piace. E Honey non ti dà retta perché è troppo presa.
Ma se faccio la spia, si incazzerà come un puma e non mi rivolgerà più la parola.
Meglio incazzata, che con quel pervertito del cazzo.

Il cellulare smise di squillare, ma solo per pochi secondi, ricominciò quasi subito.
Finirà in grossi guai col padre.
Devi solo dirgli che è uscita con un ragazzo. Non è mica necessario specificare l’età.

Facendosi cullare dalla stronzata del gesto altruistico e disinteressato, Connor prese un respiro profondo e premette il tasto rispondi.
«Pronto?».



L’appartamento di JD distava più o meno cento metri dal vicolo in cui si trovava il suo negozio. Dalla finestra della cucina, Honey riusciva a vedere la sua moto, che aveva posteggiato in prossimità dell’imboccatura del suddetto vicolo. Abbandonò la postazione davanti alla finestra per dare un’occhiata in giro. Non c’era molto da vedere, in realtà: un tavolo con due sedie, un piccolo piano cottura e due stipetti appesi alla parete; sul frigo era stato raccolto uno sparuto gruppo di fotografie incorniciate. Era evidente, JD passava più tempo al negozio che nel suo appartamento, nel quale probabilmente tornava a mala pena per dormire. E a proposito di dormire, che cazzo ci faceva un materasso sul pavimento della cucina?
Sussultò, quando qualcosa di caldo e morbido le venne posato sulle spalle. Nel voltarsi si ritrovò con un giacchetto di lana e l’espressione corrucciata di JD addosso.
«Non c’è il riscaldamento qui e il chiodo di pelle nera non riscalda a sufficienza».
«Grazie».
«Stai bene?».
«Starò bene quando mi spiegherai cosa cazzo è successo».
JD sospirò e prese posto su una delle due sedie.
«È in corso una guerra per il dominio su Williamsburg Nord. La banda dei Polacchi è sempre rimasta entro i confini di Greenpoint, non per niente la chiamano Little Poland. Adesso però vorrebbe espandersi nel territorio dei Coyote».
«Cioè Williamsburg Nord».
«Esatto. Quella di stasera è solo una delle tante puntate della miniserie “Ammazziamoci a vicenda appassionatamente”. Le cose peggiorano di giorno in giorno. Ho dovuto perfino trasferirmi, un mese fa. Prima abitavo a Greenpoint». JD si passò una mano tra i capelli, portandoseli indietro. «Mi spiace che tu abbia dovuto assistere a una scena del genere. Portarti a quella festa non è stata una grande idea».
«Non è colpa tua, non potevi sapere che sarebbe finita a quel modo. Ti assicuro che mi sono divertita tantissimo finché è durata».
L’angolo della bocca di JD si arricciò all’insù.
«Anche sul palco?».
Lei roteò gli occhi, ma sorrise. «Sì, anche sul palco». Poi gli occhi tornarono al pavimento, come attratti da una calamita. Curiosità il tuo nome è donna, si dice. «JD, scusa se mi faccio i cazzi tuoi, ma mi spieghi perché c’è un materasso nella tua cucina?».
«Ho sfondato il letto, l’ultima volta che ho scopato».
Honey sgranò gli occhi e lui scoppiò a ridere.
«Dovresti vedere la tua faccia!». Lei fece per massaggiarsi il polso, ma JD intercettò la mano, stringendola nella sua. «Stavo scherzando. Mi sono trasferito da poco, sto ritinteggiando la camera da letto».
«Tanto l’avevo capito», disse lei deglutendo a vuoto.
Lo sguardo di JD era diventato troppo pesante da sostenere, così Honey si vide costretta a guardarsi nuovamente intorno per mascherare l’imbarazzo. In mancanza di meglio tornò alle fotografie incorniciate poste sul frigo. La prima ritraeva Wile Coyote e Gina (non la mazza, la nonna di JD) sulla Harley Davidson: si trattava della stessa istantanea appesa sopra al bancone del negozio. Nella seconda fotografia JD teneva in braccio una Patti vestita di rosa di qualche anno più piccola; alla sua sinistra c’era un omone gigantesco, che lei riconobbe come Big D; alla sua destra una donna bionda e procace, che supponeva essere Tiffany. Nella terza e ultima fotografia, invece, JD abbracciava da dietro una ragazza bellissima, dai lunghi capelli neri e un sorriso abbacinante, che le ricordava qualcuno.
«Come si chiama?».
«Juno».
No, il nome non le diceva niente. Dove l’aveva già vista?
«E che tatuaggio ha?». Quando la risposta non arrivò, Honey si voltò verso JD, che la guardava con aria stupefatta. «Che ho detto di male?».
Lui impiegò mezzo minuto ad articolare la frase, come se trovare le parole giuste gli stesse costando parecchio sforzo.
«Primo, come fai a essere sicura che ha un tatuaggio? Secondo, con tutte le domande che potevi farmi… tipo, non so… “Stavate insieme?”, “L’amavi molto?” o “Perché vi siete lasciati?”, tu hai chiesto “Che tatuaggio ha?”. Non ha molto senso».
«Che stavate insieme e che l’amavi molto è lampante, si capisce subito da come la tieni stretta nella foto. Perché vi siete lasciati non sono cazzi miei. E deve avere almeno un tatuaggio, era la tua ragazza!». Honey si strinse nella spalle. «Visto? L’unica domanda possibile, che non mi faccia fare la figura dell’idiota tra l’altro, è “Che tatuaggio ha?”».
Lo sguardo di JD era ancora più sconvolto di prima.
«Aveva un pavone che partiva dalla schiena e arrivava al ginocchio».
Honey fischiò, ammirata. «Che figata! Siete ancora in buoni rapporti? Mi piacerebbe vederlo». Aspetta… aveva? Un campanello fece din din din nella sua testa. Con mezzo secondo di ritardo, purtroppo. E all’improvviso capì cosa Juno le ricordava. Gli occhi che fissavano l’obbiettivo nella foto erano uguali a quelli della… «Oh, cazzo».
«È morta in un incidente d’auto».
Honey si coprì la bocca con una mano, per nascondere lo sgomento.
«Merda, mi dispiace. Sono proprio una cretina. Non volevo riaprire vecchie ferite».
JD scosse la testa, si alzò dalla sedia e le accarezzò una guancia.
«Non ti preoccupare, è successo tanti anni fa. Le ferite si sono rimarginate da un pezzo».
Titubante, Honey poggiò la mano sul suo braccio, all’altezza del bicipite. Anche se era coperta dalla manica della felpa, sapeva che lì c’era il tatuaggio della sagoma incappucciata. Quello che lui le aveva mostrato al bar, settimane prima. Quello che gli aveva garantito un soprannome a vita.
«Perché l’hai fatto modificare?», gli chiese.
«Come…».
«…l’ho capito? Dagli occhi».
Lui continuava a fissarla.
«Perché non smetteva di parlarmi di lei, non riuscivo a sopportarlo».
Honey annuì, sospirando.
«I tatuaggi sono dei gran chiacchieroni».
JD aprì la bocca, come per dire qualcosa, ma poi ci ripensò. La baciò di slancio, invece, spingendola contro il frigo. Il giacchetto di lana cadde per terra. Colta alla sprovvista, troppo sorpresa per reagire, Honey si lasciò baciare. Fin quando una nuovissima consapevolezza non la travolse all’improvviso come uno tsunami.
Quello era l’appartamento di JD.
Lei si trovava nell’appartamento di JD.
Con JD.
Da sola.
Da sola, con JD.
Che le stava accarezzando la coscia in un modo troppo… troppo.
Lo so io dove vuole portati quello là!
O meglio, cosa vuole farti.
Il pompino è la prestazione base, praticamente.

Si separò da lui per riprendere fiato.
«Aspetta un attimo».
«Cosa?».
E poi lo guardò.
E capì dai suoi occhi che erano arrivati al punto di non ritorno.
E si ricordò del materasso sul pavimento.
E le venne in mente che non aveva mai fatto un pompino.
Gli diede un spintone e corse via dall’appartamento a gambe levate.







_____________







Note autore:
Il ritardo nella pubblicazione non è dipeso da me. Stamattina, proprio mentre stavo rispondendo alle recensioni, la connessione ha deciso di prendersi una giornata di ferie e ha smesso di funzionare. Risponderò alle ultime recensioni tra pochissimo.
Per quanto riguarda il capitolo, nulla da aggiungere, se non le dotte citazioni: alcuni scambi di battute nella scena in cui il Detective Martìnez parla con Benedetta provengono dal libro Lover Avenged di J. R. Ward, della saga La Confraternita del Pugnale Nero; il passaggio “[…] che gli veniva voglia di fare due cose, poggiarci sopra l’ago e le labbra. Non sapeva bene in quale ordine.” me l’ha suggerito jakefan in un momento di crisi scrittoria.
Come sempre ringrazio le mie beta e tutte le persone che leggono, seguono, ricordano, preferiscono e recensiscono questa storia. Grazie, grazie, grazie!
A lunedì (connessione permettendo).

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Capitolo 4 ***


Capitolo 4




Marie Louise aveva appena lasciato un cliente soddisfatto nel bagno del Goldfinger (per una volta era lei a uscirne per prima) e aveva deciso di essersi meritata una sigaretta.
Questa volta è davvero l’ultima, da domani smetto sul serio.
Aprendo la porta sul retro, venne investita dall’odore dolciastro di marciume e decomposizione che proveniva dai cassonetti. Poco male, aveva avuto a che fare con odori di gran lunga più sgradevoli. Il gradino ghiacciato contro le chiappe invece non era una bella sensazione, ma la voglia di fumare era tanta, perciò intimò alle sue chiappe di pazientare, mentre tirava fuori dalla pochette di perline tabacco e cartine. A Marie Louise non piaceva comprare le sigarette già pronte. Primo, perché costavano un occhio della testa, era molto più conveniente comprare il tabacco sfuso. Secondo, perché lei preferiva i preliminari all’atto vero e proprio, anche quando si trattava di fumare una semplice sigaretta.
«Marie Louise?».
Una sagoma scura si stagliava contro il lampione.
«Chi è là?».
«Sono io».
La sagoma si mosse e, togliendosi da davanti alla luce, a poco a poco assunse le sembianze di una ragazza dai capelli biondo miele, che indossava un chiodo di pelle nera e un paio di anfibi.
«Honey? Che ci fai qui? Tuo zio ti sta cercando in lungo e largo!».
Honey si sedette accanto a lei, sul gradino.
«Ti prego, non dirgli che sono qui. Ho solo bisogno di parlare un po’ con te».
«D’accordo, tesoro. Ma come facevi a sapere che ero qui?».
Honey sorrise.
«Scherzi? Vieni qui a fumare la tua ultima sigaretta ogni sera alla stessa ora».
Marie Louise lanciò un’occhiata sconsolata al pacchetto di tabacco che teneva ancora in mano. Con un sospirone, lo ripose nella pochette insieme alle cartine.
«Cos’è questa storia che mio zio mi sta cercando?».
«Tuo padre ha saputo che gli hai raccontato una frottola e ha messo l’intera squadra sulle tue tracce».
«Cazzo. Ci mancava solo questa. Vorrei tanto sapere come ha fatto a… Nah, non ha importanza, tanto lo scoprirò non appena tornerò a casa».
Marie Louise le diede un buffetto sui capelli.
«Non credo che verranno a cercarti qui, per il momento. Che ti è successo, piuttosto? Sembri sconvolta».
Honey si coprì il viso con le mani.
«Sono uscita con quel ragazzo di cui ti ho parlato, ricordi?».
«È andata male?».
«No, anzi! Sono stata benissimo con lui, stava andando tutto alla grande. Poi però… l’atmosfera si è scaldata e mi sono fatta prendere dal panico».
Marie Louise aggrottò la fronte.
«Ha cercato di forzarti, per caso?».
«No, no. Appena mi sono tirata indietro, lui si è fermato. Solo che… non gliel’ho detto. Che non l’ho mai fatto, intendo».
«Be’, questa è stata una mossa molto stupida».
«Lo so, ma avevo paura che…».
«…che ti considerasse una bambina?».
Honey prese a massaggiarsi il polso destro, e annuì.
«E di deludere le sue aspettative. Non ho nessuna esperienza, mentre lui ha avuto già un sacco di storie».
Marie Louise la prese sotto braccio.
«Prima di tutto ti consiglio di parlarne con lui».
«Non posso, mi vergogno troppo».
«Tesoro, devi dirglielo. E da come reagirà, capirai se è davvero così speciale come pensi».
Honey sbuffò.
«È tutta colpa di quella troia di Darla!».
Marie Louise la lasciò andare, come scottata.
«Prego?».
Lei sgranò gli occhi, rendendosi conto della gaffe appena commessa.
«Oh, cazzo. Scusa, non volevo dire che… Darla lavora con JD e mi odia a morte. Se avessi sentito cosa mi ha detto, stasera…».
«Mi meraviglio di te». Honey si ammutolì, sotto lo sguardo severo di Marie Louise. «Troia e puttana sono i tipici appellativi che usano gli uomini per insultare le donne e col mestiere che faccio ormai non mi stupisco più di quanto possano essere meschini e ipocriti. Ma una donna che chiama in quel modo un’altra donna? No, questo non finirà mai di stupirmi. Le donne dovrebbero sostenersi a vicenda, fare fronte comune, non comportarsi come oche in un recinto».
Honey si stava fissando le punte degli anfibi, adesso. L’espressione contrita e colpevole sul suo viso addolcì subito l’umore di Marie Louise.
«Vai a casa, adesso. Prima che tuo padre chiami l’esercito. E rifletti su quello che ti ho detto».



Isa stava fissando Zachariasz in silenzio, appoggiata allo stipite della porta. Si era avvolta nella vestaglia di seta nera, quella delle grandi occasioni. Forse sperava di convincerlo ad abbandonare la causa giocando sporco, ma aveva fatto male i suoi conti.
Lui, invece, era seduto sul letto di Honey e si rigirava tra le mani il vecchio gattino di peluche che le aveva regalato in occasione del suo quarto compleanno. Miss Kitty Fantastica, lo aveva chiamato. Da quel giorno non se n’era più separata.
«Tesoro, andiamo a dormire. Le parleremo domani».
«Mi ha mentito».
Isa incrociò le braccia sotto al seno.
«Lo so, anch’io sono molto delusa. Però, probabilmente, c’è un motivo ben preciso se non ci ha detto la verità».
«E quale sarebbe?».
«Davvero non riesci a intuirlo da solo?».
Il rombo di una motocicletta interruppe la loro conversazione. I vetri della finestra lampeggiarono, illuminati dai fari della Ducati di Honey. Zachariasz raddrizzò la schiena e irrigidì le spalle, pronto a tutto. Isa invece si limitò a sospirare profondamente.
«Per favore, cercate di non urlare. Non vorrei che i vicini si svegliassero e chiamassero la polizia».



Quella notte JD non era riuscito a dormire un granché. Così, piuttosto che rimanere nel letto a rimuginare, aveva preferito alzarsi e aprire il negozio con un’ora di anticipo. Quarantacinque minuti più tardi era arrivata anche Darla, che passando davanti al bancone gli aveva lanciato un’occhiata di sbieco. Senza fare commenti, per fortuna. La mattinata era proseguita lenta e noiosa, non si era fatto vivo nessuno. E forse era meglio così, perché JD aveva la testa altrove, non riusciva a concentrarsi, Darla gli chiedeva qualcosa e lui doveva farsi ripetere la domanda tre volte, prima di afferrare il significato delle parole ed elaborare una risposta sensata.
Lo sguardo atterrito di Honey compariva di continuo davanti ai suoi occhi, perseguitandolo. Il dubbio (anzi, la convinzione) di aver sbagliato qualcosa, o esagerato, o osato troppo, o interpretato male i segnali lo tormentava. Per quale altro motivo, altrimenti, Honey sarebbe scappata in quel modo?
«Cazzo, JD! Mi dai retta un secondo, per favore?».
«Uhm?».
Darla gli stava di fronte e reggeva uno scatolone tra le braccia.
«Dove devo metterlo?».
«Ah, ehm… dunque…».
Un sospiro. Poi lo scatolone cadde per terra con tonfo sordo. Darla afferrò JD per un braccio e lo trascinò fino al divano. Quando si ritrovò con una Marlboro in bocca, JD si rese conto che Darla si era seduta di fronte a lui, sul tavolino, che aveva accesso la sigaretta, le aveva dato un tiro, gliela aveva offerta e lui l’aveva accettata automaticamente, senza accorgersene. Cazzo, era proprio messo male!
Lei intanto lo stava scrutando con un’espressione serissima.
«Senti, non voglio farmi i cazzi tuoi, ma se da quella porta entra un cliente e tu lo tatui in questo stato, finisce in carneficina. Quindi dimmi cosa è successo ieri sera con la stronzetta e facciamola finita. Tanto lo so che il problema è lei».
JD le restituì la sigaretta e si tirò indietro i capelli.
«Non lo so. Stava andando tutto bene. E poi all’improvviso lei è scappata. Credo di averla spaventata. Forse si è sentita forzata. Forse ero talmente su di giri da non accorgermi che lei non era sulla mia stessa lunghezza d’onda. Cristo, deve essere per forza andata così. Mi sono comportato da maiale e lei è scappata via terrorizzata».
Darla non parlò subito. Diede un altro tiro alla sigaretta e poi con un abile colpetto di dita fece cadere la cenere nel posacenere.
«JD, dimentichi una cosa».
«Cosa?».
«Che io ho scopato con te una volta. E maiale è l’ultima parola che userei per definirti, ripensando a quella sera. Sei stato passionale e impetuoso, ma anche delicato e attento. Perciò, credimi, sono sicura al cento per cento che non hai nulla da rimproverarti».
«E quale sarebbe il problema, allora?».
«Che lei è vergine!».
Una secchiata di acqua ghiacciata in faccia lo avrebbe gelato di meno.
«Non è possibile. Cosa te lo fa credere?».
Darla roteò gli occhi.
«Uomini, avete gli occhi in culo, proprio. Tutto me lo fa credere. È lampante, JD. Ce lo ha scritto sulla fronte. Non ho mai visto un cazzo in vita mia. Siccome è un’idiota, si vergognava come una ladra e non te l’ha detto. Ieri sera si sarà resa conto della cazzata che ha fatto e si è spaventata, per questo è scappata».
JD si mise le mani tra i capelli.
«Cristo santo! Come cazzo ho fatto a non accorgermene?».
In realtà il sospetto gli era venuto all’inizio, ma con Honey non si era mai sicuri di niente, sembrava una cosa e invece veniva fuori sempre che era tutt’altro. Cazzo, normale che fosse scappata a gambe levate, le era praticamente saltato addosso! Non lo aveva previsto, non l’aveva portata nel suo appartamento con l’intenzione di andarci a letto, ma di nuovo lei lo aveva colto alla sprovvista. Aveva tirato fuori una delicatezza e una maturità disarmanti nell'affrontare l'argomento Juno, che lui non si era minimamente aspettato. E poi non ci aveva capito più un cazzo, l'unica cosa che ricordava chiaramente erano la bocca di Honey e quei dannati vestiti che lo tenevano lontano dalla sua pelle. Cazzo, cazzo, cazzo.
«JD, non è colpa tua. La scelta di non dirtelo è stata sua. Quella stronzetta è maggiorenne e vaccinata, anche se a volte si comporta come una demente. Chiamala e chiarite».
«Ho già provato a chiamarla, non mi risponde».
«Aspetta qualche altra ora e riprova. E per favore, smettila di tormentarti. Non sei un pervertito, okay? Se ogni donna avesse un JD personale, il mondo sarebbe un posto migliore».



Entrare in ufficio e trovarci dentro il Detective Martìnez era un pessimo modo per cominciare il turno di lavoro. Benedetta non si preoccupò di celare l’irritazione, tanto i poliziotti erano abituati a essere trattati come una scocciatura dalla gente. Rimase accanto alla porta, a braccia conserte.
«Dovremmo smetterla di incontrarci così, Detective».
«Starà mica pensando di invitarmi a cena?».
«No, solo che sarebbe carino se si annunciasse, prima di comparire nel mio ufficio quando le pare e piace».
Martìnez abbozzò un sorriso e si spostò di lato, togliendosi da davanti alla scrivania. Benedetta aggrottò le sopracciglia. Qualcuno aveva poggiato, tra il portapenne e il tagliacarte, una minuscola piantina d’edera. Aveva foglie appuntite, quasi cuoriformi, di un bel verde scuro e attraversate da venature sottili. Bella, ma senza fronzoli. Proprio nel suo stile.
«E quella da dove arriva?».
«È un regalo. Per lei. O per il suo ufficio».
«Gliel’ho detto, non ci so fare con le cose vive».
«Sono sicuro che con un po’ di impegno potrebbe imparare».
Benedetta lo guardò come se fosse pazzo. Poi assottigliò lo sguardo, squadrandolo dalla testa ai piedi. Il Detective doveva aver assunto una governante, perché il suo aspetto era nettamente migliorato. La cravatta era annodata bene, la camicia era pulita e stirata. Il completo era ancora lo stesso delle ultime due volte, ma era stato portato in lavanderia di recente. Peccato per le occhiaie, che a quanto pareva non volevano saperne di sparire.
«Detective, è venuto qui solo per dare un tocco femminile al mio ufficio o c’è dell'altro?».
Martìnez si sedette davanti alla scrivania, appoggiò i gomiti sui braccioli di acciaio inossidabile della sedia e unì le punte delle dita.
«C’è stato un altro morto».
«Sa, questa sua premura nel tenermi aggiornata su fatti che non mi riguardano mi commuove».
Martìnez ignorò la frecciatina.
«Apparteneva alla banda dei Coyote, questa volta. Sono stati i Polacchi a farlo fuori. Un regolamento di conti, probabilmente».
Ed ecco svelato il mistero della morte di Nowak e Mazur. I Coyote non avevano una grande simpatia per gli spacciatori. Una volta un gruppo di messicani aveva cercato di spacciare davanti a una scuola sul territorio dei Coyote. Poco tempo dopo i loro cadaveri erano stati trovati sparpagliati per la città, con lo stomaco imbottito di meth, la stessa che avevano cercato di spacciare davanti alla scuola. Benedetta soppesò l’idea di rendere partecipe il Detective della sua intuizione, ma la scartò quasi subito. Martìnez era abbastanza in gamba da fare due più due da solo.
«Deduco che non è venuto qui per accusare ingiustamente me o il mio capo, questa volta».
«Deduce bene. Sono venuto soltanto a metterla in guardia. Le cose si stanno facendo serie, lì fuori. Non è escluso che dopo aver risolto con i Coyote, i Polacchi decidano di rivolgere le loro attenzioni a questo locale. Non solo per la droga. Il cognato del suo capo, quello che chissà come è uscito dalla banda incolume, rappresenta un pericolo per loro».
Il Detective non aveva torto. Zachariasz aveva potuto lasciare la banda solo grazie ai soldi che il Cardinale aveva sborsato. Ma se adesso i Polacchi decidevano che Zachariasz era un rischio che non potevano correre… be’, quello sì che era un cazzo di problema.
«Apprezzo il suo interessamento, Detective. Ma sappiamo badare a noi stessi».
«Non ne dubito. Infatti non la stavo mettendo in guardia dai Polacchi, ma da me. Se il suo capo deciderà di prendere parte a questa guerra, non esiterò a sbatterlo in galera, insieme a lei e al resto della combriccola. È una promessa».
Benedetta aprì la porta, senza togliergli gli occhi di dosso.
«Grazie per la piantina, Detective».
Lui capì l’antifona e si alzò. Passandole accanto, sorrise.
«Mi raccomando, si ricordi di innaffiarla regolarmente».



«Sei un grandissimo pezzo di merda!».
Il pugno arrivò troppo velocemente per essere evitato. E gli fece un male cane. Del resto, cosa poteva aspettarsi dalla figlia del proprietario di una palestra di boxe? Honey stava ancora imprecando. Più per il dolore alla mano che per l’incazzatura, a giudicare da come si stava massaggiando le nocche. Connor si tastò il mento, per fortuna non c’era traccia di sangue.
«L’ho fatto solo per il tuo bene. Quel tipo non mi piace».
«PER IL MIO BENE?». Honey tentò di scagliarsi di nuovo contro di lui, ma Ben e Jonathan riuscirono a trattenerla. «Non sono cazzi tuoi con chi esco, stronzo!».
«Adesso calmati, Honey».
«Chiudi la bocca, Ben! E tu lasciami, Jonathan! Sono incazzata a morte anche con voi, cosa credete? Dove eravate mentre quel coglione faceva la spia, eh? È una fortuna che mio padre non mi abbia murata viva in casa. Se non era per mia madre, adesso non sarei nemmeno qui a dirvene quattro».
La notizia non piacque per niente a Connor.
«Be’, allora di che cazzo ti lamenti, scusa!».
Ben e Jonathan aumentarono nuovamente la presa sulle braccia di Honey.
«Mi lamento del fatto che un vero amico non dovrebbe fare la spia!».
«Se è per questo, un vero amico non dovrebbe dare pacco ai suoi amici!».
«Ma di che…».
Honey sgranò gli occhi e smise improvvisamente di dimenarsi, tanto che Ben e Jonathan ritennero sicuro allentare la presa sulle sue braccia.
Ah, ecco. Si è ricordata finalmente.
«Non sono fiero di quello che ho fatto, ma almeno io ho la decenza di sentirmi in colpa».
«Connor, non è la stessa cosa. Io non ti ho dato buca di proposito!».
«Certo, ti è solo passato di mente, perché evidentemente avevi di meglio da fare. Be’, eccoti la notizia del secolo. Se pretendi qualcosa da qualcuno, prima devi renditi meritevole di quel qualcosa. Altrimenti sei solo un egoista del cazzo, che prende senza dare nulla in cambio».
L’espressione di Honey era ferita, adesso. «Vai a farti fottere, Connor», disse. E uscì dal garage di Ben senza voltarsi indietro.
«Bella mossa, amico!», commentò Jonathan, dandogli una pacca sulla spalla. «E adesso dove la rimediamo un’altra cantante per l’esibizione di sabato?».



Questa è davvero l’ultima, lo giuro.
Diede il primo tiro e sospirò di soddisfazione. Il tabacco poteva anche uccidere, ma non c’era niente di meglio di una sigaretta rollata a mano, soprattutto dopo essere uscita dall’auto di un cliente talmente grasso da non riuscire a vedergli il pene. Lui gli aveva chiesto un pompino, ma si era rivelato meccanicamente impossibile prenderglielo in bocca. Marie Louise si era quasi convinta a restituirgli i soldi (lei si faceva pagare sempre in anticipo) e andarsene, quando lui l’aveva guardata con occhi da cucciolo bastonato. Non aveva avuto il coraggio di aprire la portiera, così lo aveva baciato sulla bocca e nel frattempo lo aveva masturbato con la mano. Alla fine non le era andata nemmeno tanto male, visto che il tizio si era rivelato un discreto baciatore.
Un sottilissimo filo di fumo si alzava dalla punta rossa di quello che ormai era solo un mozzicone tra le sue dita. Marie Louise spense la cicca sul gradino e la buttò nel cassonetto, pronta a riprendere servizio. All’improvviso, però, il rumore metallico di qualcosa che veniva scalciato la fece voltare. Una vecchia lattina di Coca-Cola rotolò fuori dall’ombra e si fermò proprio accanto ai tacchi delle sue décolletté. Forse era caduta dal cassonetto.
Be’, di sicuro non rimarrò qui ad accertarmene.
Aveva già la mano sulla maniglia, quando venne afferrata per i capelli e tirata indietro. Mise il piede in fallo, perse l'equilibrio già abbastanza precario sulle décolletté, la caviglia si piegò malamente e cadde a terra, gemendo di dolore. Due uomini incombevano su di lei. Uno alto e magro, l’altro basso e massiccio. Non riuscì a vederli in faccia, si erano messi strategicamente controluce.
«Tu lavori per il Cardinale, dico bene?», disse quello alto. Aveva una voce acuta, sembrava sul punto di scoppiare a ridere.
Marie Louise non si preoccupò di rispondere. Alzò un braccio per parare gli occhi dalla luce e mettere a fuoco i lineamenti dei due individui. Non fu un’idea geniale, la sua. Le costò un calcio nello stomaco. I conati di dolore le tolsero il fiato per un tempo infinito, mentre si contorceva come un verme infilzato nell’amo.
«Al mio amico non piacciono le puttane. È stata una puttana a staccargli la lingua a morsi. Ti conviene rispondere alla mia domanda», disse sempre quello alto.
«Sì. I-Io… sì».
«Sì, cosa?».
«Lavoro per il Cardinale».
«Allora non ti dispiacerà portargli un messaggio da parte nostra», proseguì quello alto, di nuovo sul punto di sghignazzare.
«Che messaggio?».
Ma si pentì immediatamente di averlo chiesto.



«E quindi, a quando le nozze?».
Benedetta lo fulminò con un’occhiataccia.
«Ancora un’altra parola, Thresh, e giuro che ti tappo la bocca col tuo uccello».
«Andiamo, ti ha regalato perfino la piantina! Sai cosa significa, questo? Che pensa a te continuamente!».
«Vai a farti fottere».
Thresh scoppiò a ridere. Suo fratello Liam invece si limitò ad abbozzare un sorriso. Stava facendo saltare gli spaghetti nella padella, insieme a un filo d’olio, peperoncino tritato e due spicchi d’aglio schiacciati. All’una, la notte era ancora giovane al Goldfinger, così Benedetta e i due Mori si concedevano sempre uno spuntino. Certo, il fatto che Liam fosse un ottimo cuoco non guastava. A volte, quando era di buon umore, anche Carlisle si univa al gruppo.
«Adesso devi ricambiare, però. Altrimenti lo sbirro ci resta male».
Ma Benedetta non replicò.
Era troppo impegnata ad assistere alla scena più surreale cui avesse mai assistito: Liam che lasciava cadere la padella e gli spaghetti per terra e non si curava di spegnere il fornello, prima di sfrecciare verso la porta. Lo seguì con lo sguardo e sgranò gli occhi.
«Cristo, Marie Louise!».
«Sto bene, non è così grave».
Nonostante ciò si aggrappò al braccio che Liam gli stava offrendo. Aveva un occhio nero, un brutto taglio sullo zigomo, parecchi lividi disseminati sulle braccia e una caviglia gonfia.
«Chiama il Cardinale», disse Benedetta.
Thresh non se lo fece ripetere due volte.
«Chi è stato? Un cliente?», chiese poi a Marie Louise.
Lei scosse la testa e sempre appoggiandosi al braccio di Liam, zoppicò fino a una sedia.
«Due della banda dei Polacchi».
«Merda! Li hai visti in faccia?».
«No, ero troppo impegnata a pararmi la faccia dai calci».
La porta di metallo si spalancò all’improvviso, andando a sbattere contro la parete adiacente e producendo un baccano infernale. Il Cardinale era in piedi sulla soglia della cucina, l'ombra scura sul suo viso non prometteva nulla di buono. E nemmeno l'andamento incespicante dovuto al bastone e alla gamba zoppa riusciva a renderlo meno spaventoso o pericoloso. Porse il bastone a Thresh, si inginocchiò davanti a Marie Louise, le tolse delicatamente la scarpa e prese a esaminarle la caviglia, toccandola come se fosse fatta di cristallo. Marie Louise storse la bocca in una smorfia, ma non fiatò.
«Non sembra rotta, ma Liam ti accompagnerà al Pronto Soccorso, tanto per stare tranquilli». La guardò dritto negli occhi. «Ti prometto che non la passeranno liscia».
Lei scosse la testa.
«No, Cardinale. Lascia perdere. I Polacchi hanno scoperto che hai mandato Thresh e Liam a indagare in giro. Se la sono presi con me per colpire te».
«Come se avessero bisogno di un pretesto!». Carlisle si rivolse a Benedetta. «Il Detective Martìnez ci ha visto giusto. Finite le scaramucce con i Coyote, passeranno a noi. Stanno solo preparando il terreno».
Benedetta annuì.
«Quindi che si fa?».
Thresh fece scroccare i pugni.
«Mi sembra ovvio. Li cerchiamo e li facciamo neri».
Carlisle fece di no con la testa.
«No, una reazione impulsiva è quello che si aspettano. Anche se non mi piace l’idea, dobbiamo aspettare. La prima cosa che farò domani mattina sarà parlare con Zachariasz. Le sue conoscenze possono esserci utili».
Liam sbuffò e Thresh annuì.
«Liam ha ragione. Se quello che abbiamo scoperto è vero, e l’episodio di stasera lo conferma, la banda dei Polacchi ha un nuovo capo. Per questo c’è stato quest’improvviso cambio di rotta. Non è detto che quello che Zachariasz sa della banda valga ancora».
«Ma è meglio di niente». Carlisle si rimise in piedi e Thresh gli restituì subito il bastone. «Marie Louise, mi spiace non poterti accompagnare di persona all’ospedale…».
«Non dirlo neanche per scherzo, Cardinale».
Liam prese Marie Louise in braccio, per impedirle di mettere sotto sforzo la caviglia gonfia, e si avviò verso l’uscita. Da dietro la spalla del Moro, lei rivolse un ultimo sorriso a Carlisle, che la seguì con lo sguardo, fin quando non fu sparita oltre la porta.
«E che mi dici di Martìnez?», chiese poi Benedetta. «Quello fiuta guai a chilometri di distanza. Ed è stato molto chiaro, durante la sua ultima visita».
Carlisle la scrutò a lungo, per poi sfoderare il suo tipico sorriso da squalo.
«Oh, sono sicuro che troverai un modo per tenerlo occupato».
Thresh trattenne a stento le risate e Benedetta li mandò entrambi a cagare.



Ogni volta che Big D prenotava un appuntamento per un tatuaggio, il giorno della seduta JD adibiva un angolino del suo laboratorio a quello che ormai tutti chiamavano L’angolino di Patti. Stendeva sul pavimento una vecchia coperta patchwork, insieme a qualche cuscino, uno scatolone capovolto a mo’ di tavolino, fogli di carta e mille pennarelli colorati. Così, mentre JD disegnava sulla pelle di Big D, Patti tatuava col pennarello il suo peluche di pezza. Le pareti de L’angolino di Patti erano tappezzate di disegni, che riportavano tutti in calce una grossa P rosa.
«Dov’è Honey? A quest’ora del pomeriggio non dovrebbe già gironzolare per il negozio e tempestarmi di domande sui miei tatuaggi?», chiese Big D sdraiato a pancia in giù sulla poltroncina dei clienti. «Non mi dire che ti ha già scaricato!».
JD smise per un attimo di tatuargli la schiena.
«Perché pensi che sia stata lei a scaricare me e non il contrario?».
«E mi chiedi pure perché, cazzo?». Si interruppe un attimo per assicurarsi che Patti, impegnata a disegnare nel suo angolino personale, avesse indossato le cuffie. Poi riprese il discorso a voce leggermente più bassa. «Saresti un folle a scaricare una figa del genere! Anzi, io ti avverto. Se scopro che l’hai davvero scaricata, ti ripudio come amico. Tatuatore avvisato, mezzo salvato».
JD non rispose subito. Stava colorando di verde una squama sull’ala del drago. Era un tatuaggio enorme, quello richiesto da Patti per il padre, che lo stava tenendo impegnato ormai da diverse settimane.
«Non l’ho scaricata e non ho intenzione di farlo».
«Ecco, bravo».
«O almeno, una parte di me non ha intenzione di farlo».
«Che?».
«D, sono troppo grande per lei».
«Ti prego, non di nuovo con ‘ste minchiate!».
«Ed è vergine».
Per un po’, il ronzio dell’ago accompagnò il canticchiare di Patti. Big D guardava fisso di fronte a sé, a labbra serrate.
«Non dici niente adesso, eh?», chiese JD.
«Stavo solo cercando di trattenermi dall'imprecare, cazzo! Tutte le fortune a te, e hai anche il coraggio di lamentarti!».
JD spense l’ago.
«Stai scherzando, vero?».
Big D si mise seduto. «Non scherzo no, maledizione!». L’espressione sul suo viso era seria come la morte. «Senti, amico, Tiffany è Tiffany, ed io la amo da impazzire, mi butterei da un ponte per lei, ma… come dire... ecco, non credo che sia mai stata vergine. Invece, tu! Pensa, è tutta tua! Una figa così, vergine, tutta per te!». Tornò a sdraiarsi, sbuffando. «Ma cosa ti parlo a fare, che non capisci un cazzo!».
JD riaccese l’ago e nel poggiarlo sulla pelle di Big D premette un po’ più forte del dovuto.
«Ahia, cazzo! Non fare lo stronzo, tanto lo sai che ho ragione».
«Honey non è un pezzo di carne, D. É una persona, con dei sentimenti».
«Lo so, dannazione. Honey è una persona. Una persona meravigliosa che ha scelto te. Capisci? Te! E tu che fai? Stai lì a farti mille seghe del cazzo sul fatto che è troppo giovane e vergine, quando invece dovresti baciare la terra sulla quale cammina e ringraziare il Creatore che te l’ha mandata. Sai che ti dico, JD? Vaffanculo. Sei un ingrato del cazzo. Se esistesse la giustizia divina, saresti già diventato impotente da un secolo. Invece no, maledizione!».
Non si rivolsero la parola per tutto il resto della seduta. Big D era troppo di malumore, JD troppo impegnato a rimuginare sulle parole del suo amico.



L’ufficio di Zachariasz era solo un cubicolo di quattro metri quadrati, con pareti di cartongesso, situato nell'angolo più interno della palestra. Ciononostante era il luogo ideale in cui discutere di affari importanti. Gli schiamazzi dei pugili e i tonfi sordi dei guantoni contro i sacchi da boxe proteggevano le loro conversazioni dalle orecchie indiscrete.
«Non so come aiutarti, Carlisle. Sono passati quasi vent’anni, ormai».
«Avrai pure mantenuto i contatti con qualcuno della banda… un vecchio amico, magari».
Zachariasz lo fissò in silenzio, per un minuto intero. Carlisle non aveva paura di niente, tanto meno di suo cognato. Eppure c’erano momenti, momenti come quello, in cui scrutare dentro quegli occhi di pece gli faceva venire la pelle d’oca, perché era come cercare di scorgere il fondo di un pozzo profondissimo.
«Quando tua sorella è rimasta incinta, tu sei stato molto chiaro con me. Ricordi?».
Carlisle annuì.
«Certo. Ti avrei strangolato con le mie mani, se avessi fatto soffrire Isa».
«Esatto. Sono in debito con te e dato che non sarò mai in grado di restituirti i quattrini che hai sborsato per farmi uscire dalla banda, il minimo che posso fare è mantenere la promessa che ti ho fatto. Perciò se dico che ho tagliato i ponti con la mia vecchia vita, vuol dire che l’ho fatto definitivamente e incondizionatamente. Non c’è vecchio amico che tenga».
Carlisle si lasciò andare contro lo schienale della sedia, sospirando.
«Non sai quanto avrei preferito che non l’avessi fatto, ora come ora».
«È davvero tanto brutta la situazione?».
«Tu che dici? Lo sbirro mi alita sul collo e ha anche fiutato qualcosa sul tuo passato. I tuoi vecchi compagni di brigata mi hanno fatto capire molto chiaramente che hanno intenzione di espandersi nel mio campo di specializzazione. E per via del suddetto sbirro, non posso permettermi di spaccare la faccia ai due pezzi di merda che hanno picchiato una delle mie ragazze».
Zachariasz si sedette sulla scrivania.
«Provare a trovare un accordo pacifico con i Polacchi?».
«Ci ho già pensato e credo anche che sia l’unica soluzione. L’idea di fargliela passare liscia non mi piace, ma se rispondo alla violenza con la violenza, ho più io da perdere che loro. Mi metterò in contatto con il loro nuovo capo, anche se non ho molte speranze di ottenere una risposta positiva. Quel tipo sembra disposto a fare la pelle a tutti, pur di raggiungere il suo obbiettivo».
«Deve essere molto giovane. Ai miei tempi i Polacchi preferivano gli accordi, specialmente se fruttavano molti quattrini. Però i metodi di persuasione sono rimasti gli stessi. Chissà se Stanlio e Ollio sono ancora attivi».
Carlisle assottigliò lo sguardo.
«A proposito di gente molto giovane, come va con Honey?».
Zachariasz sbuffò di frustrazione.
«Lasciamo perdere. Non sono riuscito a farmi dire chi è il ragazzo con cui è uscita l’altra sera».
«Uno della band?».
«No, è escluso. Quelli sono tipi a posto, non avrebbe avuto motivo di tenermelo nascosto. Deve essere qualcuno che sa che non approverei. E non hai idea quanto la cosa mi faccia impazzire».
Carlisle scoppiò a ridere.
«Ce l’ho eccome, invece. Mia sorella ha sposato un assassino, ricordi?».
Zachariasz lo fulminò con un’occhiataccia.
«Non perdi mai occasione per rinfacciarmelo, vero? Eppure sai bene quanto quello che ho fatto mi tormenti, giorno e notte».
Carlisle alzò le mani in segno di resa.
«Ehi, stai parlando con un pappone che spaccia droga nel suo stesso locale. Figurati se mi permetto di giudicarti».
Zachariasz prese a camminare avanti e indietro, nervoso come un toro dentro al recinto prima del rodeo.
«Credo che sia cominciato tutto quando si è fatta fare quei maledetti tatuaggi. La storia di Honey con questo ragazzo, intendo. Più ci penso, più mi convinco che deve essere andata così».
La parola tatuaggi fece scattare qualcosa nel cervello di Carlisle, ma non seppe dire cosa. «Be’, potremmo scoprire in quale negozio è andata e chiedere in giro». Sfoderò il suo sorriso da squalo. «Sempre che non si tratti del… cazzo!».
Zachariasz si voltò di scatto verso di lui, con un sopracciglio inarcato. Carlisle invece aveva sgranato gli occhi, mentre la voce di Thresh gli rimbombava nella testa.
C’era un tizio che chiedeva di lei. Sulla trentina, tutto tatuato. Ha tenuto a precisare che era solo un amico. Ha detto di chiamarsi JD.
Idiota, come diavolo aveva fatto a dimenticarsene?
«Carlisle, che diavolo ti prende?».
«So chi è. Il ragazzo di tua figlia. So chi è. E non ti piacerà».



Aveva perso il conto, ormai, di tutte le volte che aveva preso un respiro profondo, prima di varcare la soglia del negozio di JD. Quel giorno, invece, i suoi polmoni non volevano saperne di gonfiarsi e i suoi piedi sembravano aver messo radici nel marciapiede, tanta era la fifa.
Devi solo dirgli che sei vergine. Il peggio che può succedere è che ti scarichi.
Appunto.
Certo, perché evitandolo continuamente e non rispondendo alle sue chiamate avrai molte più chance di frequentarlo, giusto?
Anche questo è vero.

«Ciao, Darla. Lavati la faccia, c'è dello sperma che ti cola dal mento».
«Fossi in te mi preoccuperei dei tuoi baffi da latte. JD è in laboratorio».
«Gentilissima, come sempre».
Scostare la tenda fu più difficile del previsto, ma trovarsi faccia faccia con JD fu tutto un altro paio di maniche, tanto che un tremore alle ginocchia minacciò di farla cascare per terra come una pera cotta. Non posso farcela, si disse. Per fortuna JD era da solo nel laboratorio. Stava riordinando L’angolino di Patti. Probabilmente Big D era andato via da poco.
«Honey!».
Per la sorpresa, JD aveva fatto cadere tutti i pennarelli. Lei prese subito a massaggiarsi il polso destro.
«Ciao, JD».
«Come stai?».
«Bene. Ho avuto un po’ di grane con mio padre, ma adesso è tutto a posto».
Si scrutarono in silenzio. «Dobbiamo parlare», dissero poi contemporaneamente.
Risero entrambi, anche se brevemente e in modo nervoso. JD si lasciò cadere a gambe incrociate sulla coperta patchwork di Patti e assestando una pacca al cuscino, invitò Honey a fare altrettanto. Lei esitò, non era sicura che standogli così vicina avrebbe trovato il coraggio di dirgli la verità.
Non fare la cretina, vuoi essere trattata da adulta? Allora comportati da adulta!
Prese posto accanto a lui, mentre il cuore cercava di sfondarle la cassa toracica. «Comincia tu», disse JD.
Avanti, Honey. Tutto di un fiato, come strappare un cerotto.
«Ecco, innanzi tutto devo chiederti scusa per non aver risposto alle tue chiamate e per essere scappata via in quel modo l’altra sera…».
«No, non devi».
«…e poi devo spiegarti cosa è successo».
«Honey, aspetta un secondo».
«No, aspetta tu, d’accordo? Fammi parlare, prima che cambi idea. Non puoi capire l’imbarazzo che…».
«Lo so già», disse lui.
La mandibola di Honey sfiorava la coperta, tanto era spalancata.
«Co-come? Come hai…».
JD abbozzò un sorriso, tirandosi i capelli indietro.
«Diciamo che qualcuno mi ha tolto le fette di prosciutto dagli occhi appena in tempo».
«E…?».
«E... cosa?».
«Non sei arrabbiato?».
L’espressione genuinamente perplessa di JD la fece sospirare di sollievo.
«Perché dovrei esserlo?».
Serrò le dita intorno al polso ancora più forte di prima. «Perché non ti ho detto la verità. Perché non sono…». Le nocche sbiancarono. «...quello che ti aspettavi».
JD le sollevò il viso con due dita sotto il mento. Lei dovette mordersi la lingua per non dire qualcosa di stupido.
«Honey, a me piace da matti che tu non sia quello che mi aspetto. Non hai bisogno di fingere con me, non devi sforzarti di essere qualcos’altro. Mi piaci esattamente come sei».
Okay, calma. Cervello non andare in tilt. Non ancora.
«Anche se non l’ho mai fatto?».
Honey trattenne il fiato…
«Sì».
…e si sgonfiò come un palloncino bucato.
«Bugiardo».
JD scosse la testa.
«Non sto mentendo. A me non interessa con quanti uomini sei stata. O se sei vergine. La mia unica preoccupazione è che non sia… giusto per te frequentare me».
Honey sbuffò e roteò gli occhi.
«Mio padre ha fatto cose che… lasciamo perdere. Mio zio Carlisle gestisce un giro di prostituzione nel suo locale. Ma sono entrambi brave persone ed io non potrei immaginare la mia vita senza di loro. Quindi, per favore, definisci giusto».
«Dovresti fare l’avvocato del diavolo». La mano di JD passò dal suo mento alla sua guancia. «Voglio solo essere sicuro che tu sia convinta di quello che fai. Che non ti senta mai forzata. Posso aspettare tutto il tempo che vuoi, non c’è alcuna fretta».
Da come reagirà, capirai se è davvero così speciale come pensi.
Honey sorrise. «Ecco, questo è giusto».
Anche prendere l’iniziativa e baciarlo era giusto. Giustissimo. E JD doveva essere d’accordo con lei, perché rispose al bacio senza farsi pregare. Cristo, quanto le era mancato l’odore d’inchiostro tra i suoi capelli! Affondò le dita in quella massa setosa, per poi chiuderle intorno a una ciocca e tirare. JD non parve dispiaciuto. Anzi, reagì afferrando Honey per la vita e stringendosela addosso. Stava giusto complimentandosi con se stessa, per l’audacia e il coraggio, quando un ehm ehm la fece ritrarre di scatto, spaventata. Darla era apparsa accanto alla tenda, si era portata i capelli dietro alle orecchie e lanciava continuamente occhiate nervose alle sue spalle.
«Mi spiace interrompere l’idillio… ma, ehm, Honey, di là c’è qualcuno per te».
«ESCI SUBITO DA LI’, RAGAZZINA!».
Quella. Voce.
Il sangue le si ghiacciò nelle vene.







_____________







Note autore:
Solito problema di connessione, giuro che non me lo sto inventando, deve esserci qualcosa nel lunedì che non va. Oppure è il destino che mi sta inviando dei segnali, forse mi sta suggerendo che non è il caso di proseguire con la pubblicazione della long. XD Per fortuna adesso ho una internet key di emergenza, perciò pubblico ora e non se ne parla più.
Anche qui, nella scena in cui Martìnez parla con Benedetta, ci sono alcune battute prese dal libro Lover Avenged di J. R. Ward, della saga La Confraternita del Pugnale Nero.
Come sempre ringrazio le mie beta e tutte le persone che seguono/ricordano/preferiscono/recensiscono o anche solo leggono questa storia.
A lunedì!

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Capitolo 5 ***


Capitolo 5




Il viaggio in auto era stato uno strazio. Honey non aveva aperto bocca, perché era troppo incazzata. Zachariasz non aveva aperto bocca, perché era troppo incazzato. E così, per tutto il tragitto, nessuno dei due aveva aperto bocca, perché erano entrambi troppo incazzati.
Almeno lui aveva un buon motivo, però.
Impedirsi di picchiare a sangue quel bastardo di un capellone pervertito era stata un’impresa titanica. Che era riuscito a portare a termine solo perché beccarsi una denuncia non era una mossa intelligente con l’aria che tirava in quel periodo. Così, quando Honey era uscita da quella specie di sgabuzzino, si era limitato ad afferrarla per un braccio e a trascinarla fuori dal negozio di tatuaggi fin dentro alla sua auto. Non prima, però, di aver ringhiato al pervertito un “Se ti becco di nuovo con MIA figlia, ti ammazzo”. Va bene essere prudenti, ma non era mica fatto di plastica. E quel bastardo si era imboscato con SUA figlia dietro a una tenda. Serrò le dita intorno al volante. Il solo pensiero gli faceva venire voglia di inserire il freno a mano, sterzare e tornare indietro, per suonargliele di santa ragione.
Maledetto figlio di puttana!
Giunti davanti al vialetto di casa, Honey non gli diede il tempo di spegnere il motore, aprì la portiera e sfrecciò dentro casa nemmeno avesse il diavolo alle calcagna. Zachariasz non si preoccupò di posteggiare per bene (per quanto gliene fotteva in quel momento potevano ridurgliela a un cubetto di metallo, l’auto) e le corse dietro.
«Cosa sta succedendo?», chiese Isa, vedendoseli schizzare davanti uno dopo l’altro.
Non le rispose. Salì le scale tre gradini alla volta. La porta della stanza di sua figlia era già chiusa. A chiave. Bussò. Anche se era più corretto dire che cercò di farsi strada a spallate.
«Ragazzina, apri immediatamente questa porta. Dobbiamo fare quattro chiacchiere, tu ed io».
«Non ho niente da dirti!», urlò Honey.
Isa arrivò tutta trafelata.
«Qualcuno vuole spiegarmi, per favore?».
«Il ragazzo con cui è uscita l’altra sera? Non è un ragazzo. È un trentenne. E quando sono entrato in quel maledetto negozio di tatuaggi, perché il bastardo fa il tatuatore (come se non fosse abbastanza, maledizione!), stava cercando di metterle le mani addosso».
Isa sgranò gli occhi, attonita.
La porta si aprì. Honey apparve sulla soglia. I capelli gonfi di rabbia. I pugni puntellati sui fianchi. Gli occhi che lampeggiavano.
«Veramente sono stata io a mettergli le mani addosso per prima».
«Questo perché ti ha plagiato. Scommetto che è stato lui a convincerti a mentirci, l’altra sera».
«Sbagliato di nuovo. È stata una mia idea. Perché sapevo che avresti reagito così. Ho diciannove anni, papà! Ho scoperto da un pezzo che i bambini non li porta la cicogna, non puoi più trattarmi come una bambina!».
«Ti tratterò da bambina fin quando TU ti comporterai da bambina! Scordati di uscire, scordati la band, scordati la tua moto».
«E come ci vado a scuola?».
«Ti ci accompagno io. E ti vengo a riprendere, anche. E dopo scuola vieni in palestra con me, così ti tengo d’occhio».
«Per fortuna non puoi costringermi a rivolgerti la parola!».
Gli chiuse la porta in faccia.
Quando Zachariasz si voltò, si ritrovò a tu per tu con l’espressione eloquente di Isa.
«Non dirlo», disse lui, scendendo rapidamente le scale.
«E invece lo dico, perché non è così che si affrontano i problemi», replicò Isa, seguendolo attraverso il soggiorno. «Murarla in casa non è la soluzione. In questo modo si impunterà e basta. Non ti ricordi com’eri alla sua età?».
Stai a vedere che adesso il cattivo sono io.
«Certo che me lo ricordo. E mi ricordo anche com’ero a trent’anni. Per questo motivo preferisco prevenire che curare».
«Finirà per fare qualche sciocchezza, Zachariasz. Proprio come ho fatto io, tanti anni fa, per stare con te».
«Non è la stessa cosa, perché io ci tenevo veramente a te. Non ero un uomo di trent’anni che voleva farsi passare il prurito alla palle scopandosi una ragazzina».
Isa lo trattenne per una spalla, lo fece voltare e gli prese il viso tra le mani, guardandolo dritto negli occhi.
«Capisco che tu sia preoccupato, lo sono anche io, ma…».
Zachariasz si ritrasse da lei e scosse la testa.
«No, Isa. L'altro giorno gliel'ho fatta passare liscia perché mi hai convinto che si trattava di un caso isolato, che in fondo era colpa nostra che non dimostravamo di fidarci abbastanza, che dovevano cominciare a vedere Honey come un'adulta. Be', guarda dove ci ha portati, la tua fiducia!».
Isa puntellò i pugni sui fianchi. La somiglianza con Honey, in quel frangente, fu un pugno allo stomaco per Zachariasz.
«Ah, quindi sarebbe colpa mia, adesso?».
«Non ho detto questo».
«Sì che l’hai detto, invece. Sai, cosa? Vado a prenderti qualche cuscino e il piumone. Non vorrei ti venisse il mal di schiena sul divano, stanotte».
Cazzo, cazzo, cazzo!



Porca puttana, ti ho innaffiato regolarmente proprio come ha detto Martìnez, si può sapere cosa c’è che non va in te? Non sarai un tantino viziatella, forse?
La piccola edera se ne stava mogia mogia dentro al suo vasetto, al centro della scrivania di Benedetta, e ovviamente non rispondeva. Di sicuro aveva visto giorni migliori, nella sua breve vita di piantina. Le foglie erano tutte raggrinzite e in punta avevano cominciato ad appassire. Sembrava che qualcuno si fosse divertito ad accartocciarle nel pugno una per volta.
Lo avevo detto, io, che non ci so fare con le cose vive. Adesso questa disgraziata creperà ed io dovrò fare i conti con i sensi di colpa. Come se qui al Goldfinger non avessi già grane a sufficienza a cui pensare.
Un toc toc leggero interruppe le sue elucubrazioni.
«Entra, Marie Louise».
«Come facevi a sapere che ero io?».
Benedetta fece spallucce.
«Ho tirato a indovinare».
Non era vero. Non aveva un talento speciale solo per far morire le cose. Benedetta sapeva anche riconoscere le persone dal rumore dei loro passi o dal modo in cui bussavano alla porta. E quella era una capacità molto utile, soprattutto se dall’altro lato della porta c’era un tizio con una pistola e tante cattive intenzioni. Il bussare di Marie Louise era sempre delicato ma deciso. Abbastanza forte da essere percepito fin dal primo colpetto, ma allo stesso tempo abbastanza leggero da non causare infarti o capriole con avvitamenti sulla sedia per lo spavento.
«Cercavo il Cardinale», disse lei, sedendosi davanti alla scrivania. «Nel suo ufficio non c’è, speravo di trovarlo qua».
«È via per un impegno d’affari. Sarà qui a momenti». Benedetta assottigliò lo sguardo. «Avevi bisogno di qualcosa? Ci sono stati altri problemi?».
Marie Louise scosse la testa.
«No, niente del genere. In realtà, forse puoi rispondermi tu. È da un po’ che non vedo Honey al Goldfinger. Di là ci sono i ragazzi della band che stanno provando e quella di stasera sarà la loro terza esibizione senza di lei. So che non sono affari miei, ma volevo soltanto sapere se sta bene. Dopo quello che mi è successo nel vicolo… insomma, con quello che si sente in giro, non c'è da stare tranquilli e mi sono preoccupata».
Erano trascorse quasi due settimane, la slogatura alla caviglia era guarita nel giro di tre giorni, l’occhio nero e i lividi avevano richiesto più tempo per sparire del tutto ma alla fine anche loro erano scomparsi, del taglio sulla guancia non c’era più traccia, eppure il pestaggio aveva lasciato ancora qualche segno su Marie Louise.
«Sta bene. Suo padre le impedisce di uscire di casa, per via di quel tipo che frequentava. Li ha scoperti ed è successo un casino. Meno male che Honey ha tenuto la bocca chiusa. Se le fosse sfuggito che ero a conoscenza di tutta la faccenda… cazzo, non voglio proprio pensarci. Meno ho a che fare con Zachariasz, meglio è».
«Accidenti, mi spiace. Non deve essere una bella situazione».
«Già».
Tacquero per un po’, ognuna persa nei suoi pensieri. Poi lo sguardo di Marie Louise si posò sulla piccola edera e si fece perplesso.
«Che è successo a questa povera piantina?».
«Non ne ho idea. La innaffio regolarmente come mi è stato detto, ma si ammoscia ogni giorno di più».
Marie Louise si sporse in avanti sopra alla scrivania e sollevò il vasetto, che cominciò a sgocciolare come una spugna imbevuta.
«Chi ti ha detto regolarmente intendeva una volta al giorno, non ogni ora».
«Questo spiega molte cose, in effetti».
«Devi subito metterla in un altro vaso, con della terra asciutta. Fai passare ventiquattro ore e poi riprendi ad innaffiarla. Ma solo una volta al giorno, mi raccomando. Il terriccio deve mantenersi umido, non annacquato. E non sarebbe male se mettessi il vaso vicino alla finestra, così le foglioline prenderebbero un po’ di sole».
Benedetta sospirò e si passò le mani tra i capelli.
«Senti, ho un’idea migliore. Prendila tu».
«Come? Perché?».
«Non sono in grado di occuparmene. È piuttosto evidente, mi pare. E poi mi è stata regalata da un tizio che…».
«Se è un regalo, allora non puoi darla via. Non sta bene».
«Sì, però…».
«…il tizio non ti piace?».
«Non ne sono sicura».
«Ma la piantina sì, giusto?».
Benedetta fissò l'edera. Bella, senza fronzoli.
«Sembra fatta a posta per me».
Marie Louise sorrise, intenerita.
«Allora dovresti tenerla e basta».
Come il suo bussare, anche i consigli di Marie Louise erano delicati ma decisi. Abbastanza mirati da farti capire che aveva intuito più del necessario, ma allo stesso tempo abbastanza discreti da non farti sentire un’idiota.



Marie Louise fissava la porta sul retro, tenendola a distanza. Quasi temesse che potesse spalancarsi da sola e risucchiarla fuori. È solo una porta, pensò, rigirandosi una sigaretta tra le dita. Una porta sul retro che si affaccia su un vicolo. Un vicolo nel quale era stata picchiata. Tra tutte le cose che le erano capitate negli ultimi anni, di certo quella non era la peggiore, eppure eccola lì, sera dopo sera, a fissare la stramaledetta porta sul retro, incapace di allungare la mano e afferrare la maniglia. Le dava fastidio avere paura, quel vicolo era stato suo per tanto tempo, un angolino in cui stare da sola per il tempo di una sigaretta, una piccola coccola che si concedeva tra un cliente e l’altro. E adesso le avevano portato via anche quello. Rivolse un’occhiata nostalgica alla sigaretta che teneva tra indice e medio. Nemmeno il tabacco aveva più lo stesso sapore.
«Marie Louise!». Sussultò e la sigaretta cadde per terra. Si piegò sulle ginocchia per raccoglierla, ma nonostante il bastone e la gamba zoppa il Cardinale fu più veloce. «Mi spiace, non volevo spaventarti», disse poi lui, porgendogliela.
«Non ti preoccupare, ero solo sovrappensiero».
Il Cardinale lanciò un’occhiata alla porta sul retro e aggrottò la fronte.
«Cattivi pensieri?».
«Più o meno. Stavo decidendo se concedermi o meno una pausa sigaretta».
Ciò che aveva sempre apprezzato del Cardinale, oltre al buon gusto nel vestire e al fatto che trattava le sue prostitute come dipendenti e non come schiave, era che capiva sempre quando non insistere. Difatti, nemmeno quella volta la deluse. Si limitò a tirare fuori dalla tasca interna del cappotto bordato di zibellino un sigaro e uno zippo.
«Be’, mentre tu decidi, ti spiace se mi porto avanti?».
Marie Louise rise.
«Cardinale, questo posto è tuo. Puoi fare quello che vuoi!».
«Hai ragione», convenne lui. Spalancò la porta sul retro, scese il gradino e si voltò. «Ti va di farmi compagnia? Un sigaro così non si può fumare in solitudine».
La sagoma massiccia del Cardinale si stagliava contro il vicolo, che sembrava un grosso buco nero pronto a inghiottirla. Marie Louise si strinse la pochette di perline al petto e avanzò a passo incerto. Quando poggiò il primo piede sul gradino, ebbe l’impressione di trovarsi su una zattera traballante. Si sedette subito, per non rischiare di cadere, senza smettere di guardarsi intorno. Nel frattempo il Cardinale si stava accendendo il sigaro, con la mano davanti allo zippo per proteggere la fiamma dalla brezza notturna.
«Benedetta ha detto che mi stavi cercando», disse, mettendo via l’accendino.
«Cosa? Ah, sì. Volevo chiederti notizie di Honey, ma Benedetta mi ha spiegato cosa le è successo. Sono un po’ preoccupata».
«Perché? Dovrebbe essere al sicuro, adesso».
«Perché mi ricorda un po’ me, quando avevo la sua età».
Il Cardinale si tolse il sigaro dalla bocca e sbuffò fumo come una locomotiva.
«E com’eri alla sua età?».
«Testarda. Impulsiva. E un po’ ingenua. Una volta, avevo diciassette anni, volevo andare a tutti i costi al concerto della mia band preferita. Mio padre però non mi diede il permesso. Così mi accordai col mio ragazzo. Sarei sgattaiolata via dalla finestra della mia stanza, mentre i miei guardavano la tv al piano di sotto».
«Com'è finita?».
«Ho fatto un volo di due metri e mi sono rotta una gamba».
La punta bruciacchiata del sigaro si staccò, sgretolandosi in una polvere sottile che si disperse in una folata di vento prima ancora di toccare terra.
«Mi stai chiedendo di far ragionare Zachariasz, quindi».
Maria Luise annuì.
«Ho parlato con Honey, è molto presa da questo ragazzo. Sono sicura che se suo padre continuerà a non farla uscire, proverà a scappare. Pensa a quello che c’è per strada, ultimamente. Una gamba rotta è il meno che può capitarle».
Per un po’ il Cardinale fissò in silenzio il cielo stellato, mentre Marie Louise giocherellava distrattamente con la sigaretta.
«Non hai ancora deciso se fumarla o meno?».
«È che dovrei togliermi il vizio. Di solito venivo qui per fumare da sola, come se dovessi nascondermi. Il piacere non è lo stesso se c’è qualcuno che mi guarda. Penso sia una specie di gusto ancestrale per il proibito».
«Vuoi che vada via, allora?».
Marie Louise lanciò un’occhiata nervosa al vicolo.
«No, se rientri, rientro anche io».
Altra pausa. Altre nuvole di fumo che salivano su. L’odore del sigaro era intenso, le faceva pizzicare la gola e le sarebbe rimasto addosso, sui vestiti. Come una specie di marchio. Ai clienti non sarebbe piaciuto. Ma Marie Louise decise che non le importava. Per una volta se ne sarebbe fregata di quello che ai clienti piaceva o non piaceva.
«Sai, in realtà anch’io dovrei smettere», disse il Cardinale improvvisamente. «Il mio medico dice che ho i polmoni ridotti a un grumo di catrame. Se Benedetta mi vede fumare, mi ammazza». Tirò fuori l’accendino e glielo accese di fronte. «Il tuo silenzio in cambio del mio?».
Sorridere fu automatico. Per accettare l’accordo, invece, le bastò infilare la sigaretta tra le labbra e farsela accendere con lo zippo.



«Mamma, non ce la faccio più. Tu devi fare qualcosa».
«Sto già facendo tutto il possibile. Il problema è che siete peggio di due muli cocciuti. Se non vi parlate, non è che io possa fare i miracoli!».
Honey sbuffò e si mise a giochicchiare con dei rametti secchi, abbandonati sul piano di lavoro. Sua madre trascorreva tutto il tempo libero che aveva a disposizione (Che con te e tuo padre che mi ronzate continuamente intorno non è mai abbastanza) nella piccola serra che lo zio Carlisle aveva fatto costruire in giardino come regalo di nozze.
«Che stai facendo?».
Sul ripiano da lavoro, sua madre aveva allineato dieci vasetti. In ciascuno di essi aveva piantato un rametto spoglio e nodoso. E adesso li stava spuntando ad uno ad uno con un paio di forbici da giardinaggio.
«A settembre avevo fatto degli innesti a gemma dormiente sulle rose canine. Vedi? Questo è l’innesto». Indicò una specie di cicatrice a forma di T su uno dei rametti, dal quale fuoriusciva una piccolissima gemma verde». Con una sforbiciata eliminò la parte superiore del ramo. «La porzione che sta sopra all’innesto va eliminata».
«Mamma, parla come mangi, non so nemmeno cosa sia un innesto».
Sua madre scosse la testa, mentre zac zac un altro rametto veniva spuntato.
«L’innesto è una tecnica che permette di dare vita a una nuova pianta, attraverso l’unione delle parti di due piante diverse. Di solito si sceglie una pianta dalle radici robuste per il portinnesto, come la rosa canina. Fai un taglietto sulla corteccia». Prese uno dei rametti che aveva tagliato via e con un coltellino fece un’incisione a T sulla corteccia. «Ecco, qui va applicata la gemma dell’altra pianta. Se l’innesto è fatto bene, il risultato sarà una pianta completamente nuova».
Honey storse il naso. Si chinò sul ripiano da lavoro, in modo da studiare più da vicino uno dei vasi.
«In sostanza, non ti piace la pianta che hai, così la costringi ad accettare un corpo estraneo alla sua natura, qualcosa che non tiene conto delle sue caratteristiche, per ottenere una pianta che soddisfa le tue aspettative. Sai, penso che a papà piacerebbe usare l’innesto su di me. Potrebbe incidere la mia scatola cranica, metterci dentro un pezzo di cervello di qualcun altro e vedere cosa succede. Forse in questo modo potrei diventare la figlia modello che desidera».
Lo scappellotto sulla nuca arrivò all’improvviso e fece un male cane.
«Ahia, mamma!».
«Lo vedi che non hai capito niente? I corpi estranei non c’entrano niente. L’innesto è… prendere il meglio delle due piante e sperare che da quelle due parti cresca qualcosa di nuovo, che sia simile alle due piante originarie, ma al tempo stesso che possa distinguersi e sviluppare una sua individualità. Il punto è che non puoi prevedere come diventerà, alla fine è sempre la pianta a decidere, tu puoi solo cercare di indirizzarla».
Honey inarcò un sopracciglio.
«Scusa, ma io cosa ho detto?».
Sua madre sospirò e tornò a concentrarsi sui rametti.
«Un giorno forse capirai».



«Che figata, fate la grigliata domenicale come Dominic Toretto e la sua banda! Scommetto che anche voi prima di cominciare a mangiare, vi riunite intorno alla tavola con le bottiglie di birra in mano e rendete grazie al Signore per la famiglia che vi ha donato».
JD rise, lanciando un’occhiata al gruppetto di persone poco più in là. Big D si occupava del barbecue. Tiffany apparecchiava la tavola. Patti stava alle calcagna di sua madre con il cestino del pane, come un pulcino che segue mamma oca in lungo e largo. Gregory e Nathan, gli ex-coinquilini di Big D, ci provavano a turno (ma a volte anche contemporaneamente) con Darla.
«Qualcosa del genere».
«Mi spiace non poter essere lì con voi».
«Ci saranno tante altre grigliate, Honey».
Gli sembrava di essere tornato adolescente, quando usciva con la figlia del preside e dovevano vedersi di nascosto perché non era esattamente il ragazzo di buona famiglia che i genitori di lei si aspettavano. Accidenti, in effetti era esattamente la stessa identica situazione. JD si tirò i capelli indietro e sospirò.
«Come va con tuo padre?».
«Parliamo lo stretto indispensabile».
«Così non va, dovete chiarirvi. Forse se ci parlassi io…».
La sola idea gli faceva venire la pelle d’oca, ma ci sono momenti in cui un uomo è costretto a fare una scelta: tirare fuori le palle o continuare a comportarsi da codardo. E lui ne aveva le palle gonfie di quella situazione. Cazzo, non aveva più quindici anni. E nemmeno Honey.
«JD, per caso hai voglia di morire? Mio padre come ti vede ti ammazza. Non ci provare nemmeno ad avvicinarti a lui».
«Meglio morire nel tentativo, piuttosto che sentirci per due minuti se e quando riesci a fregargli il cellulare dalla tasca».
Dall’altro capo del telefono calò il silenzio.
«Ehi, guarda che stavo scherzando».
«No, invece hai ragione. Prima o poi ti stancherai di aspettare che i genitori diano il permesso alla bambina di uscire. Incontrerai una donna vera e mi manderai a ‘fanculo».
«Honey, senti, già tuo padre mi crede un porco interessato solo a scoparti, per favore, non ti ci mettere anche tu. Altrimenti mi spieghi che cazzo di senso ha tutto questo?».
«Non ti arrabbiare…».
«Non sono arrabbiato, ma questa situazione è da risolvere, non può andare avanti per sempre».
«La fai facile, tu. Non hai idea di quanto sia dura la testa di mio padre».
«Ce l’ho, invece, perché conosco te. Adesso, però, scusa, ma devo andare. La grigliata è pronta».
«JD, aspetta…».
«A presto, Honey».
Cacciò il cellullare in tasca e quando sollevò lo sguardo, si ritrovò con gli occhi azzurri di Tiffany addosso. L’espressione sul suo viso era seria.
«Conosco un sacco di brave ragazze, JD. Ex colleghe, ragazze adulte, con tanta esperienza. Se sei interessato, non devi far altro che chiedere».
«Io!». Gregory stava sventolando la mano in aria. «Io sono interessatissimo!».



Come e dove ti vedi tra dieci anni? Adesso è facilissimo rispondere: murata viva in casa di mio padre, zitella e vergine.
Honey sbuffò e chiuse con stizza la cartelletta delle domande di ammissione al college che ormai si portava dietro ovunque, ficcata nella tracolla in mezzo ai libri di scuola. Se mai l’ispirazione l’avesse colta nel momento meno opportuno, lei sarebbe stata pronta, penna alla mano, e non si sarebbe lasciata sfuggire l’occasione di rispondere all’odiatissimo quesito numero dieci.
Lanciò un’occhiata di sbieco all’orologio e sbuffò di nuovo. Mancava un quarto d’ora alle ventuno e alla chiusura della palestra. Passava tutti i pomeriggi lì, adesso. Sua madre dopo pranzo faceva volontariato all’ospedale, suo padre andava in palestra e a casa non c’era nessuno disponibile a fare da babysitter alla mocciosa. Perciò, suo padre, dopo averla prelevata da scuola, la posteggiava alla reception. Se non doveva studiare o compilare le domande di ammissione, le ordinava di occuparsi degli abbonamenti, di incassare le quote mensili degli iscritti e di stampare le schede di allenamento.
Come se tutto ciò non fosse abbastanza, era anche in ansia per JD.
Non si erano più sentiti, dopo l’ultima conversazione al telefono. E quel discorso rimasto in sospeso la spaventava. Aveva bisogno di chiarire con lui, immediatamente. Più facile a dirsi che a farsi, purtroppo. Anche uscendo di nascosto da casa, mentre i suoi genitori dormivano, come avrebbe fatto a raggiungere l’appartamento di JD a Williamsburg? Lei viveva in una zona residenziale di Midwood, non poteva farsi dieci chilometri a piedi nel cuore della notte. E passate le undici di sera, c’era solo un pullman ogni ora. La sua moto era in garage, le chiavi nascoste chissà dove. Era letteralmente fottuta. No, non letteralmente. Magari lo fosse stata letteralmente!
La porta si aprì, lasciando entrare due tizi. Uno alto e magro, l’altro basso e massiccio. Honey serrò le labbra. Ci mancavano solo gli scocciatori dell’ultimo minuto.
«Scusate, ma stiamo per chiudere».
«Non siamo qui per allenarci. Volevamo parlare con Zachariasz. Dov’è?», disse quello alto.
Che cazzo hai da sogghignare, stronzo?
In realtà non è che stesse sogghignando per davvero, ma aveva un modo di parlare bizzarro, come se fosse sempre sul punto di scoppiare a ridere e riuscisse a stento a trattenere le risate. In ogni caso non le ispirava molta fiducia. Né lui, né il suo amico basso e silenzioso.
«Stanlio, Ollio. Vi ho pensato giusto qualche settimana fa!».
Suo padre era entrato nella reception, subito seguito dal suo dipendente Kip.
«Anche tu ci hai dato molti pensieri in questo ultimo periodo. Soprattutto al nostro capo».
Zachariasz si rivolse a Kip.
«Tu puoi andare».
Kip non sembrava convinto, ma come Honey sapeva fin troppo bene che gli ordini di Zachariasz non andavano messi in discussione. Soprattutto quando ti guardava come ora stava guardando Kip. Che perciò si limitò ad annuire.
«Accompagna Honey a casa, per piacere», aggiunse suo padre. «Mi raccomando, a casa».



«Certo che è proprio uno schianto, tua figlia», disse Stanlio, col sorriso sulle labbra. «Chissà quanti problemi ti dà con i ragazzi! Se mi imbattessi in lei in un locale, non esiterei un’istante a rimorchiarla. A quella una bottarella non gliela leva nessuno, direi proprio così. Vero, Ollio?».
Ollio non rispose. Passeggiava per la palestra con sguardo distrattamente interessato, mentre contemplava ad uno ad uno gli attrezzi per la pesistica. Si fermò davanti a un sacco da boxe, lo fissò per qualche istante, poi prese a girargli intorno, come un pugile esperto che studia l’avversario. Infine mandò a segno una rapida sequenza di pugni, che fece dondolare il sacco avanti e indietro, avanti e indietro. Come un pendolo. Erano passati vent’anni, ma seguivano ancora lo stesso copione.
Zachariasz incrociò le braccia al petto.
«Stanlio, con me questi trucchetti non funzionano. Facevo anch’io parte della squadra di persuasione, ricordi? A proposito, che fine hanno fatto gli altri? Siete rimasti solo in due?».
Il sorrisetto di Stanlio lo aveva sempre mandato in bestia. Non si capiva mai se il suo fosse un vero sorriso o se si trattasse semplicemente dell’espressione di default della sua faccia. Gli ultimi ricordi che Zachariasz aveva di Stanlio erano l’accendino acceso in una mano e le ombre sinistre che le fiamme dell’incendio proiettavano intorno al fottuto sorrisetto.
«Della vecchia squadra sì. Ma in compenso c’è tanta gente nuova e volenterosa. Hanno mandato noi da te perché eravamo amici. Anche se adesso te ne vergogni, a quanto vedo. Il dolcevita non ti dona, ti preferivo con le fasce rosse in bella vista. Ti ricordi come si spaventava la gente, quando le vedeva?».
«La gente che sa si spaventa ancora quando le vede».
«Per questo le nascondi? Per non spaventare la gente? Eppure prima ti piaceva».
«A cosa devo questa visita?», tagliò corto Zachariasz.
Il sorrisetto si accentuò sugli angoli della bocca di Stanlio. Ecco, forse adesso stava sorridendo per davvero.
«Il nostro nuovo capo ha saputo che uno sbirro sta ficcando il naso nel tuo passato e nei nostri affari. Ed è preoccupato che tu possa spifferare qualcosa. Accidentalmente, ovvio, nessuno pensa che tu sia un infame. Però i poliziotti sono dei fottuti bastardi, riescono a spillare informazioni anche ai più taciturni. Ollio lo sa bene, dico bene?».
I tonfi sordi dei pugni di Ollio contro il sacco furono l’unica risposta che ottenne.
«Povero, Ollio. Ti ricordi, vero, perché non ha più tanta voglia di parlare? Era così chiacchierone, un tempo. Poi si è lasciato scappare qualcosa con un sbirro. Il capo non l’ha presa tanto bene, a lui le spie non piacciono molto… Da quel giorno Ollio la bocca non l’ha aperta più».
Zachariasz ne aveva abbastanza di tutte quelle stronzate.
«Avevamo fatto un accordo, con il capo di allora. E non ho intenzione di mandarlo a puttane. Se spifferassi qualcosa, ci andrei di mezzo anch’io. Non sono così stupido».
«Be’, ma la polizia tende a essere clemente con i pentiti. E tu hai un sacco di cui pentirti, no? Com’è che si chiamava quel tizio che è bruciato vivo nell’incendio? Jones o Smith? Mi confondo sempre».
«Smith».
«Smith, giusto. Poveretto, chi poteva immaginare che fosse ancora dentro al suo negozio? A quell’ora di notte, poi. Secondo me ci portava le puttane. Sua moglie era un cesso».
Zachariasz serrò i pugni.
«Tu lo sapevi che era lì. Mi hai detto di spargere la benzina e nel frattempo Smith era dentro, imbavagliato e legato a una sedia come un salame».
Ollio smise di tirare pugni e con gesti lenti e calmi sguainò un coltellaccio a serramanico.
«Lo vedi?», disse Stanlio. «Poi ti stupisci se siamo preoccupati. Tu ci riservi ancora del rancore. E il rancore è pericoloso».
Ollio infilzò il coltellaccio nel sacco, sventrandolo come se fosse un maiale. Il taglio vomitò sabbia sul pavimento. Stanlio annuì compiaciuto.
«Però è più pericoloso per te, che per noi. Per te e per quella sventola di figlia che ti ritrovi».



«E tu cosa hai fatto?».
«Secondo te? Li ho ringraziati e poi li ho accompagnati alla porta».
Carlisle sgranò gli occhi.
«Sei proprio invecchiato, Zachariasz. Una volta li avresti ammazzati di botte entrambi senza pesarci due volte».
«Non credere che non mi sarebbe piaciuto o che non ci abbia fatto un pensierino, ma sarebbe stata una mossa stupida, che sarebbe servita solo a mettere in pericolo Honey e Isa. Senza contare che erano due contro uno. E che si trattava di due parecchio tosti».
Ecco, aveva nominato Honey, era l’occasione giusta per introdurre l’argomento. Carlisle si accese un sigaro, con finta nonchalance.
«Uhm, a proposito di Honey, cosa hai intenzione di fare con lei?».
Zachariasz aggrottò la fronte.
«Che intendi?».
Carlisle fece spallucce ed espirò una boccata di fumo.
«Non puoi tenerla segretata in casa a vita. Non credi che…».
«Non cominciare pure tu, okay? Pensavo fossi dalla mia parte. A parte il fatto che quel porco ha dieci anni più di lei ed è tatuato dalla testa ai piedi… si guadagna da vivere facendo il tatuatore, che cazzo di avvenire potrebbe garantirle?».
«Be’, innanzitutto, Honey se lo deve creare da sola il suo avvenire. E poi quello del tatuatore è sempre un lavoro onesto, no? Non è un criminale. Devo ricordarti cosa facevi tu, invece, quando hai conosciuto Isa? Credi che io non preferissi un partito migliore per mia sorella? Qualcuno che non avesse a che fare col mio ambiente, magari? Cazzo, Zachariasz. Non dico di prendere la cosa alla leggera, ma almeno vedi di capire che tipo è, prima. Che so… parlaci, conoscilo. Se vuoi dico a Thresh di chiedere in giro. Così l’unico risultato che ottieni è spingere Honey a fare qualche cazzata. E in questo periodo nessuno di noi può permettersi cazzate».
Come sempre, quando gli rinfacciava il suo passato, gli occhi di Zachariasz si trasformavano in due pozzi neri senza fondo.
«Perché non vedi di parlare col capo dei Polacchi, invece? E risolvere questa merda di situazione?».
«L’ho fatto, testa di cazzo! Pensi che passi il tempo a grattarmi le palle, per caso? Ma quello mi ha riso in faccia. Sì, mi ha offerto cibo squisito, un sigaro cubano, perfino una puttana. Però alla fine mi ha riso in faccia. Dice che non sa che farsene dei miei soldi, che lui presto sarà in grado di farne molti di più, che un altro al suo posto si sarebbe offeso per la mia offerta e che quindi sono molto fortunato. Non c’è bisogno che ti spieghi che non è un buon segno, vero?».
«E tu che hai fatto?».
Carlisle abbozzò un sorriso.
«Secondo te? Quello aveva un esercito dentro al suo ufficio. L’ho ringraziato e mi sono fatto accompagnare alla porta».
Zachariasz scosse la testa, turbato.
«Anche tu sei invecchiato».



Sua madre bussò alla porta. Honey sapeva che si trattava di lei, perché suo padre non si faceva vedere in camera sua dalla sera che erano tornati insieme dal negozio di tatuaggi. Questa situazione è da risolvere, non può andare avanti per sempre, aveva detto JD. Già, ma di chi era la colpa, se erano arrivati a quel punto? Non di Honey, sicuramente. Sua madre nel frattempo era entrata, col cordless in mano.
«È Connor. Vuole parlare con te».
Ci mancava solo quel cazzone.
«Però io non voglio parlare con lui».
Sua madre coprì la cornetta con la mano.
«Sembra molto dispiaciuto. Dagli una chance».
Honey roteò gli occhi, ma allungò la mano verso sua madre, tenendo lo sguardo fisso sulla parete di fronte. Rispose al telefono solo quando sua madre si fu chiusa la porta alle spalle.
«Che cosa vuoi? Parla in fretta, ho da fare».
«Immagino, rigirarsi i pollici è un’attività che tiene molto impegnati».
Honey si guardò intorno. Era sdraiata sul letto senza aver tolto gli anfibi, circondata da domande di ammissione al college incomplete, cartine di cioccolatini e fogli di carta accartocciati. Miss Kitty Fantastica la fissava perplessa dalla scrivania.
«Se mi hai chiamato per prendermi per il culo, possiamo anche finirla qui».
«No, aspetta! In realtà volevo chiederti scusa».
«Ah, davvero? Ma come, non avevi fatto la spia per il mio bene? E non avevi detto che ero solo un’egoista del cazzo?».
Connor, dall’altro capo del telefono, sospirò.
«Senti, tu non sei una santa, okay? Ce l’hai anche tu, la tua parte di colpa».
«Certo che sei proprio bravo a chiedere scusa, eh?».
«E fammi finire, no? Tu hai la tua parte di colpa, ma io mi sono comportato da stronzo. Non dovevo fare la spia con tuo padre. Non è così che ci si comporta tra amici».
Honey si mise in bocca un altro cioccolatino...
«Perciò dimmi a che ora vanno a dormire i tuoi, così ti faccio uscire da lì».
…e per poco non si strozzò. Quando ebbe finito di tossire e sputacchiare cioccolato mezzo sciolto sul copriletto, riuscì a farfugliare solo un «Cosa?».
«Hai capito bene. Ti porto dal tuo tatuatore, ma solo a patto che mi assolvi da tutti i miei peccati e che quando finisce la prigionia torni nella band. Non hai idea di quante me ne hanno dette Ben e Jonathan!».
Honey sbatté le palpebre in silenzio. Miss Kitty Fantastica sembrava volerle dire “Di’ qualcosa, cogliona!”.
«Honey, ci sei ancora?».
«Sì, sì. Connor, io… non so che dire».
«Devi solo dire “Ti perdono, Connor”».
Honey si morse il labbro. Col cuore che batteva a mille. Avrebbe rivisto JD, avrebbe potuto parlare con lui, chiarirsi.
«Ti perdono, Connor».
«Bravissima! E adesso, avanti, a che ora vanno a dormire i tuoi?».



Alle undici e mezza in punto, la finestra della camera di Honey si aprì. Connor, che si era nascosto dietro a una fila di alberi in fondo al vialetto, si avvicinò con aria circospetta al porticato. Nel frattempo un paio di gambe fasciate da jeans neri aderentissimi che terminavano in un paio di anfibi consumati scavalcavano il davanzale. Honey camminava rasente alla parete, dosando ogni passo per non fare scricchiolare le assi del tetto e non rischiare di cadere. Giunta al limite del porticato, usò lo steccato delle piante rampicanti di sua madre a mo’ di scala per scendere. A poco meno di un metro dal suolo, si lasciò cadere.
«Sembra che tu l’abbia fatto mille volte», disse Connor.
«Be’, è così. L’ho fatto ogni sera in queste due settimane, ma solo nella mia immaginazione», rispose Honey, spolverandosi le maniche del chiodo di pelle. «Sono a posto?».
Sotto al chiodo, invece del corpetto, questa volta aveva indossato una canotta bianca e larga, di quelle che portava durante le prove o per andare a scuola. Il bianco traspariva e si intravedeva il reggiseno nero. Maledetto stronzo di un tatuatore!
Connor le tolse una foglia dai capelli.
«Sei perfetta. Andiamo, dai».
La prese per mano e insieme percorsero rapidamente il vialetto. L’auto di Connor, però, non era vuota come forse Honey si era aspettata.
«Che cazzo ci fanno loro qui?».
Connor si strinse nelle spalle e sorrise.
«Hanno insistito per accompagnarmi».
«Ehi!», protestò Jonathan seduto davanti, dal lato del passeggero. «Ti sembra questo il modo di ringraziare gli amici?».
Il viso di Ben fece capolino da dietro, tra i due sedili.
«Sei una stronza ingrata».
Honey sembrava sul punto di commuoversi.
«Non metterti a piangere, adesso, okay?», disse Connor. «Le ragazze che piangono mi mettono ansia».
«Non sto piangendo, mi è entrato qualcosa nell’occhio».



Mezzanotte meno un quarto. In tv non facevano un cazzo, la tequila era finita e non aveva sonno. Al Coyote Club c’erano troppi casini in quel periodo, farci un salto sarebbe servito soltanto a farsi il sangue più amaro di quanto non fosse già. E ormai Big D era un padre di famiglia. Forse poteva chiamare Darla. No, probabilmente aveva rimorchiato qualcuno, non voleva romperle le palle. L’unica era portarsi avanti con la bozza del tatuaggio commemorativo commissionatogli da Al, un biker dei Coyote.
Aveva già tirato fuori l’album da disegno dalla borsa, quando qualcuno suonò il campanello. JD aggrottò la fronte. Chi cazzo poteva essere a quell’ora? Prese Gina (ormai la situazione era tanto critica, per le strade, che se la portava dietro ovunque) e guardò attraverso lo spioncino.
Cazzo!
«Uh, che accoglienza!», disse Honey, sorridendo, dopo che JD ebbe spalancato la porta. «Gina mi fa sentire davvero la benvenuta».
«Ti prego, dimmi che hai chiarito con tuo padre e che la tua presenza qui è assolutamente legittima. Stasera non sono in vena di giocare a Romeo e Giulietta».
Quando il sorriso che Honey si era impressa in faccia si afflosciò su se stesso come un soufflé mal riuscito, JD si rese conto di essere stato troppo brusco. Merda, non guardarmi in quel modo! Come da copione, lei si stava massaggiando il polso destro, il che significava solo una cosa: non aveva chiarito con suo padre e la sua presenza lì non era legittima. Ciò servì ad attenuare i suoi sensi di colpa.
Con Gina sotto braccio, JD prese le chiavi della macchina, che teneva appese alla parete accanto alla porta, e il giubbotto dall’attaccapanni.
«Andiamo, ti riaccompagno a casa».
«Cosa? Perché?».
«Lo sai benissimo perché, se i tuoi scoprono che non sei nel tuo letto, finisce a carneficina. Si può sapere che diavolo avevi in testa? Non hai pensato alle conseguenze?».
Honey smise di massaggiarsi il polso, raddrizzò la schiena e serrò entrambi i pugni.
«Certo che quando vuoi sai essere proprio stronzo, JD. Lo so da me che rischio molto, ma non sono venuta qui per capriccio, volevo solo chiarirmi con te. In ogni caso, non c’è bisogno che mi riaccompagni, basta che mi fai usare il telefono. Anzi…». Honey lo spinse di lato e si diresse a passo di marcia verso il telefono. «Chiamo subito i miei amici, così vengono a prendermi e tolgo il disturbo».
Stava già componendo il numero, ma JD le sottrasse la cornetta e riagganciò.
«Hai ragione, scusa. Sono uno stronzo».
Honey si imbronciò, a braccia conserte.
«E un coglione».
«E un coglione».
Si sedettero al tavolo, uno di fronte all’altra. Honey prese a sfogliare distrattamente l’album da disegno di JD. Voltava una pagina, la rivoltava, la rivoltava di nuovo, ci faceva scorrere lo sguardo sopra. Poi passava alla prossima.
«Ti porti il lavoro a casa?».
«Non riuscivo a dormire».
«Quando da bambina non avevo sonno, mia madre mi preparava sempre una cioccolata calda. Era miracolosa per l’insonnia».
JD non commentò, sapeva che stava solo prendendo tempo per riorganizzare le idee. Si impose di non metterle fretta. Altre pagine dell’album erano state voltate a ritroso, nel frattempo. Il fremere della carta sotto le dita riempì il silenzio che era calato tra di loro, fin quando la bocca di Honey non si spalancò in una o di meraviglia.
«Che c’è?». Girò l’album verso di lui, senza dire niente. Era arrivata al foglietto ingiallito sul quale anni prima era stato disegnato un pavone dal piumaggio blu e verde. JD capì subito cosa Honey gli stava chiedendo con lo sguardo. «Sì, è il pavone di Juno».
Lei si riprese l’album e studiò il disegno più da vicino.
«È un capolavoro, JD. Sei un vero artista».
«Grazie».
JD scrutava intensamente Honey, cercando di decifrarne i pensieri dall’espressione del suo viso. Sembrava sincera, su di lei leggeva solo ammirazione e stupore. Non vi era traccia di gelosia o invidia o preoccupazione. Con molte delle ragazze con cui era stato, in quegli anni, non aveva funzionato perché erano entrate in competizione col ricordo di Juno. Honey invece no, o almeno non lo dava a vedere. Doveva essere molto sicura di se stessa. Oppure fingeva molto bene. Quando però lo sguardo di lei scese in fondo alla pagina, e il genuino stupore sul suo viso si accentuò, JD fu costretto a ricredersi. Non era l’eccessiva sicurezza a farla reagire in quel modo. E sicuramente non stava fingendo.
«Questo è lo schizzo del mio tatuaggio, quello che ti ho fatto vedere quando sono venuta a farmi tatuare! Pensavo di averlo perso. Perché l’hai messo qui? È uno sgorbio, andrebbe incenerito».
«L’ho messo lì perché ha un bel significato. Lo sai, no? I tatuaggi con un bel significato sono pane per i miei denti. E poi… è importante per me».
I suoi occhi sgranati confermarono l’intuizione di JD. Honey si era semplicemente tirata fuori dalla competizione prima ancora di cominciare a giocare.
«Importante?».
JD la prese per mano.
«Tu non sei un capriccio per me, Honey. Era questo che cercavo di farti capire, l’altro giorno al telefono. Altrimenti perché credi che me la sia presa tanto? Capisco la situazione, capisco te e capisco le preoccupazioni di tuo padre, ma se tu non vuoi parlargli e non permetti nemmeno a me di farlo… Be’, allora non vedo molte soluzioni. E non ti dico questo per metterti fretta, puoi metterci tutto il tempo che vuoi, basta che mi assicuri che hai intenzione di farlo. Voglio fare le cose per bene con te, perché penso che ne valga la pena. Proprio come penso che il tuo tatuaggio sia all’altezza di quello di Juno. Quindi, per favore, dimostrami che per te è lo stesso».
Honey aprì la bocca, ma la richiuse senza dire alcunché. Deglutì a vuoto. Poi si frugò nelle tasche del chiodo e ne tirò fuori un mazzo di chiavi. Il mazzo di chiavi della sua auto. Che razza di stronzetta! Come cazzo aveva fatto a sfilarglielo di mano senza che lui se ne accorgesse?
JD le lanciò un’occhiata interrogativa e lei si morse il labbro.
«Te l’ho detto. Ero venuta solo per chiarire. Adesso abbiamo chiarito, puoi riaccompagnami a casa. Domani parlerò con mio padre, te lo prometto. Così avrai la conferma che per me è lo stesso».
JD afferrò il mazzo di chiavi, se lo rigirò tra le mani. Poi, dopo aver guardato l’orologio, se lo mise in tasca.
«Stavo pensando che è ancora presto, in fondo. E che vorrei provare il rimedio miracoloso contro l’insonnia di tua madre. Ti va una cioccolata?».



«Sembra che l’amido scaduto stia facendo il suo dovere».
«Tu ringrazia che l’abbiamo trovato. Non sapevo nemmeno di averlo. Forse risale a quella volta che Tiffany ha insistito per festeggiare il mio compleanno e ha improvvisato un dolce alla crema di latte».
L’aroma del cioccolato era avvolgente come un abbraccio. Honey, davanti al fornello, mescolava il composto con attenzione maniacale, come se ne andasse della sua stessa vita. A causa dei vapori caldi, i suoi capelli erano gonfiati fino ad assumere la consistenza e la voluminosità dello zucchero filato. Chissà se avevano anche lo stesso profumo, dello zucchero filato.
Intanto, la cioccolata aveva cominciato a fare blob blob dentro la pentola ed era diventata densa. Honey smise di mescolarla e ne prese un po’ col mestolo. Prima di assaggiarla, si chinò leggermente in avanti, dischiuse le labbra e ci soffiò sopra. A occhi chiusi. Come in attesa di un bacio.
«Credo sia pronta», sentenziò spegnendo il fornello. «Vuoi assaggiarla anche tu? Magari la preferisci più zuccherata».
JD fece spallucce.
«Non ne ho idea».
«Apri la bocca, allora. Ma fa attenzione, che scotta».
Prese un’altra cucchiaiata di cioccolata col mestolo e la avvicinò alla bocca di JD. Prima di imboccarlo, soffiò di nuovo per raffreddarla. JD venne investito da una folata di aroma al cacao, non riuscì a capire se veniva da lei o dalla cioccolata.
«Devi assaggiarla, per capirlo».
«Come?».
Honey si morse il labbro. Lo champagne scoppiettava nei suoi occhi.
«Per capire quanto zucchero ci vuoi. Devi assaggiarla».
JD, non mandare a puttane il bellissimo discorso di prima per un po’ di cioccolata.
Fosse la cioccolata il mio problema…

Le sottrasse il mestolo e lo buttò nel lavandino senza degnarlo di uno sguardo. Poi prese il viso di Honey tra le mani. Lei aveva già chiuso gli occhi e dischiuso le labbra, proprio come prima, quando aveva soffiato sulla cioccolata. Ma invece di baciarla sulla bocca, come lei si aspettava, JD posò un bacio sui suoi capelli. Odoravano di cacao amaro. Molto meglio dello zucchero filato.
«JD…».
La strinse tra le braccia, indeciso e combattuto. Doveva chiederle se era sicura? Se aveva paura come la volta scorsa? Snocciolare qualche frase a effetto per rassicurarla? Prima però qualcuno avrebbe dovuto rassicurare lui.
«JD?», lo chiamò di nuovo.
Abbassò lo sguardo su di lei.
E nei suoi occhi trovò le rassicurazioni che stava cercando.
La prese per mano e la condusse in camera da letto. Si distesero sopra le coperte, senza nemmeno togliersi le scarpe. JD le accarezzò la guancia. Ma la carezza scivolò subito giù, lungo il collo e sulla clavicola, trascinando via con sé la spallina della canotta e del reggiseno. La pelle di Honey era liscia e immacolata come un foglio di carta, JD non finiva mai di stupirsene. Le sue dita divennero matite e disegnarono sul foglio bianco i rami dei rovi che un giorno sarebbero cresciuti dal polso e si sarebbero arrampicati fin lì, appena sopra l’attaccatura del seno, dove ora lui aveva poggiato la mano.
Il cuore di Honey vibrava come le ali di una farfalla, sotto il suo palmo. JD si ritrovò a pensare che, in quel frangente, Honey stessa era come una farfalla. Una farfalla sul palmo della sua mano. E a lui sarebbe bastato stringere le dita per farle del male. Quella consapevolezza lo fece tremare di paura, quasi quanto tremava lei.
«Se faccio qualcosa che non ti piace, me lo devi dire».
Lei annuì, con gli occhi colmi di spuma.
«Honey, se hai…».
«No».
Non doveva insistere, quei discorsi la spaventavano e basta. Ed era inutile girarci intorno. Così, si chinò su di lei e la baciò. Honey rispose immediatamente, aggrappandosi alle sue spalle.



La testa di Honey era un pallone gonfio di aria. Stava succedendo tutto troppo in fretta o troppo lentamente. O entrambe le cose. Un attimo prima erano in cucina, un attimo dopo sul letto. Poi i minuti erano colati via goccia a goccia, per un secolo intero, prima che la mano di JD lasciasse la sua guancia e si chiudesse sul suo seno. Subito dopo, qualcuno aveva di nuovo premuto il pulsante accelera, perché gran parte dei vestiti erano finiti sul pavimento senza che lei se ne rendesse conto. E adesso il tempo si era fermato un’altra volta.
Sopra di lei, i tatuaggi di JD erano vivi.
Lo sguardo giallo dei due lupi l’aveva ipnotizzata. A contatto col fiato incandescente del drago, la sua pelle si era liquefatta come cera bollente e colava sulle lenzuola. Il suo cuore stava soffocando, stritolato dalle spire del serpente. Le vele del veliero si gonfiavano a ogni sospiro.
«Per piacere, JD, potresti coprirti un po’?».
«Cosa c’è che non va, Honey?».
La bocca del teschio si arricciò in un ghigno furbo.
«Niente. Solo… Meglio se ti copri».
«Senti, non sono una bestia, se non ti piaccio, smettiamo subito».
«No! Credo che…». Il drago soffiò faville rosse sul suo viso. Il sangue si infiammò come benzina. «Credo che il problema sia opposto…».
Lo vide trattenere a stento una risata. Si allungò sopra di lei, accese la lampada sul comodino e spense la luce centrale.
«Così va meglio?».
I tatuaggi la scrutavano ancora, ma i colori si erano attenuati.
«Sì, ehm, grazie».
JD la baciò lentamente, per un po’ i tatuaggi scomparvero. Poi lui tornò a fare quella cosa meravigliosa con le dita, che lei sapeva avere un nome ben preciso, ma che in quel momento riusciva solo a definire come Cosa Meravigliosa Con Le Dita.
Ah, lo aveva detto, lei, che le mani di JD erano pericolose!
La stava accarezzando come tatuava, con attenzione e precisione, e proprio come se fosse stata appena tatuata, la sua pelle era arrossata, gonfia di eccitazione e ipersensibile. Con gli occhi dell’artista, JD ripercorreva le carezze che aveva tatuato sul suo corpo, aggiungendo e correggendo dove necessario.
Honey lo afferrò per i capelli, che gli ricadevano davanti alla faccia lunghi e dritti. Aveva voglia di baciarlo e di sentire l’odore di inchiostro. JD si distese su di lei, reggendosi sul gomito per non pesarle addosso, e i suoi capelli la abbracciarono come un nido d’inchiostro. Le sue dita, intanto, continuavano a tenerla sulla corda.
E corda era la parola giusta.
Percepiva una specie di nodo caldo, all’altezza del bassoventre. Un nodo fatto di nervi, che le dita di JD allentavano e stringevano a proprio piacimento come fili. Ogni volta che erano sul punto di sbrogliarlo, stringevano di nuovo e il nodo tornava opprimente e fastidioso, lasciando Honey insoddisfatta. In modo piacevole, però.
E poi fu una reazione a catena.
I lupi ulularono, il serpente sibilò, la chiglia del veliero infranse le onde, il teschio sghignazzò, il drago ruggì fiamme rosse e il nodo si sciolse all’improvviso, letteralmente. I suoi nervi si erano liquefatti, l’onda incandescente che ne derivò la travolse in pieno e la ustionò come un colpo di frusta lungo la schiena. Per il contraccolpo, Honey si inarcò contro JD. Che cominciò a entrare in lei, con spinte lente ma profonde. Una fitta la colse impreparata, Honey gemette e si aggrappò spaventata alle spalle di JD. Lui la strinse nel suo abbraccio, per rassicurarla. Forse funzionò, oppure l’orgasmo che le annebbiava la mente funzionava come un anestetico, perché le fitte si affievolirono quasi subito. Honey si rilassò contro il materasso e le spinte di JD si fecero più serrate. I suoi capelli dondolavano avanti e indietro, avanti e indietro, solleticandole il viso. JD non smetteva di guardarla e lei sostenne il suo sguardo. All’improvviso lo vide irrigidirsi, come colpito da una scarica di corrente elettrica. I muscoli del suo corpo si contrassero tutti nello stesso momento e i tatuaggi divennero bassorilievi scolpiti sulla sua pelle.
Infine si accasciò accanto a Honey, esausto.



«Come stai?», le chiese.
«Una favola».
JD aveva ancora il fiato corto. Honey era sdraiata sul fianco, col braccio incuneato sotto la testa, e lo fissava con lo sguardo critico dello studioso che sta assistendo a un fenomeno bizzarro e inspiegabile. Non gli piaceva tutta quella distanza tra di loro.
«Tuo padre mi ammazzerà».
«Cos’è? Hai paura di lui?».
«Ho paura sì, cazzo!».
Honey ridacchiò. JD ne approfittò per stringersela addosso e lei lo avvolse come una coperta. Odorava ancora di cacao amaro. Gli venne voglia di cioccolata, si ricordò che in cucina ce n’era una pentola intera. Peccato che alzarsi dal letto fosse un’opzione impraticabile. Accarezzò la schiena di Honey lungo la colonna vertebrale, pizzicando le vertebre come se fossero le corde di una chitarra. La sentì rabbrividire e sorrise.
«Hai una pelle bellissima», disse sovrappensiero.
«Sai, JD. Di solito la gente normale dice che ho delle belle tette».
Scattò a sedere come un bambolotto a molla.
«La gente, chi?».
Honey rise di nuovo.
«Sono sicura che una volta chiarito tutto andrai molto d’accordo con mio padre».







_____________







Note autore:
Pubblicare questo capitolo mi rende parecchio nervosa, c’è tanta carne sul fuoco, speriamo che non si sia bruciacchiata troppo!
Nello scorso capitolo ho dimenticato di dire che Miss Kitty Fantastica è il nome della gatta di Willow e Tara del telefilm Buffy. La povera micetta pare faccia una brutta fine per colpa di Dawn, perciò le ho voluto fare un piccolo omaggio.
Gregory e Nathan, gli ex-coinquilini di Big D, sono personaggi di Dragana e se volete saperne di più sul loro conto, vi consiglio (se ancora non lo avete fatto) di leggere Pornoromantico. Non ve ne pentirete!
Be’, adesso mi ritiro nel mio angolino ad ansieggiare per il capitolo.
Grazie a tutti, come sempre.
A lunedì!

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Capitolo 6 ***


Capitolo 6




Non sapeva perché quella sera avesse scelto il Goldfinger per farsi un goccio. A lui piacevano i locali più piccoli e discreti, quelli in cui gli unici posti a sedere sono di fronte al bancone, quelli in cui non c’è una band che suona ma solo un televisore acceso su una qualche partita di football, quelli in cui gli altri avventori sono ubriaconi senza speranza che ti fanno sentire un uomo molto fortunato. Eppure eccolo lì.
«Detective Martìnez, ma lei non ce l’ha un giorno libero?».
José sollevò lo sguardo. Benedetta Amato, la buttafuori del Goldfinger, era in piedi di fronte al suo tavolo e lo scrutava con sospetto. Era vestita più o meno come sempre. Una maglietta nera aderente, sotto al giubbotto di pelle (che a giudicare dal rigonfiamento non nascondeva soltanto un fisico tonico e muscoloso, ma anche una fondina ascellare munita di pistola) e un paio di pantaloni cargo. Unica differenza, il corto taglio di capelli era stato vivacizzato da una punta di gel. Oppure Amato era appena uscita dalla doccia.
«In effetti questa sera non sono in servizio. Anche se quella tizia al bancone che rimorchia a ripetizione mi fa venire voglia di esserlo».
Indicò con un cenno del mento una ragazza provocante, dalle labbra rosso fuoco e un caschetto biondo platino, che stava sussurrando qualcosa all’orecchio di un vecchio grassone. Qualcosa di molto stuzzicante, a giudicare dal sorriso del vecchio.
«Che avrà mai fatto di male quella povera ragazza?».
«Andiamo, una come quella non rimorchierebbe mai uno sgorbio simile!».
«I gusti non si discutono».
«L’ho vista entrare nella toilette tre volte nell’ultima ora e mezza. Sempre con un uomo diverso».
«Questo è un locale notturno, Detective. Non si aspetterà mica che la gente si comporti da santa, vero?».
José abbozzò un mezzo sorriso.
«Non ho idea di come faccia il suo capo a passarla liscia con la Buoncostume. Basterebbe un infiltrato con una telecamera nascosta per far chiudere questo posto in quattro e quattr’otto. Anzi, ora che ci penso un’idea ce l’ho… Il suo capo è ricco sfondato e la Buoncostume è sempre a corto di fondi. Ovviamente non ho le prove per dimostrarlo».
«Mi sta suggerendo di perquisirla, Detective?».
Chissà perché, l’idea di farsi perquisire da lei non gli dispiaceva. Ebbe un flash di se stesso, nell’ufficio della buttafuori, schiacciato contro il muro e le mani di lei che lo frugavano a fondo, molto a fondo. Bevve un sorso di whisky per arginare una fantasia decisamente inopportuna e imbavagliare l’inquilino dei piani bassi prima che si mettesse in mostra.
«Gliel’ho detto. Non sono in servizio. Sono venuto qui solo per annegare i ricordi nell’alcol».
«Devono essere ricordi molto spiacevoli».
«È l’anniversario della morte di mia moglie. I ragazzi sono da mia suocera, così ne approfitto per concedermi un goccio».
Lei serrò le labbra.
«Mi spiace. Tolgo il disturbo, allora».
L’afferrò per un braccio senza sapere il perché. Le cose di cui non sapeva il perché stavano diventando troppe, quella sera.
«In realtà, i ricordi annegano meglio se si beve in compagnia».
Amato lo fissò in silenzio, indecisa se accettare o meno. Si divincolò dalla sua presa con un gesto stizzito, ma invece di andare via come José si era aspettato, gli si sedette di fronte. Senza smettere di fissarlo con quel suo sguardo di pietra, fece un gesto alla cameriera, che portò immediatamente un altro bicchiere. José le versò il whisky e lei lo mando giù tutto in una volta.
«Che cosa le è successo?», le chiese.
Amato inarcò un sopracciglio.
«In che senso?».
«Cosa l’ha resa così?».
Era convinto che l’avrebbe mandato a ‘fanculo, invece inaspettatamente Amato scoppiò a ridere.
«Perché la gente, quando vede una come me, pensa sempre che ci sia dietro un dramma familiare o un qualche trauma infantile agghiacciante? Dove sta scritto che le prove della felicità di una donna siano le gonne a campana che indossa, i capelli cotonati che porta o i sorrisi cordiali che snocciola?».
«Quindi non ha una storia triste alle spalle?».
«Tutti abbiamo una storia più o meno triste alle spalle, ma non è detto che una storia triste ci renda quello che siamo. Per quanto mi riguarda, sono sempre stata così, taciturna e poco incline alle smancerie. Anche prima che mio padre mollasse mia madre per un’altra e che fossi costretta a lasciare la scuola per trovarmi un lavoro e aiutare mia madre con l’affitto».
«Caspita. Quanti anni aveva?».
«Sedici».
«Ed è stato allora che ha trovato lavoro al Goldfinger?».
«No, no. Venni assunta qui parecchi anni dopo, come barista. Una sera stesi un tipo che aveva cercato di palparmi il culo. Pensavo che il mio attuale capo mi avrebbe licenziata. Invece mi promosse a buttafuori. E adesso sono capo della sicurezza e pienamente soddisfatta della mia vita. Anche se non dispenso sorrisi zuccherosi come un distributore automatico e non diventerò mai un’icona di femminilità».
José si portò il bicchiere alla bocca, senza dire nulla.
«A cosa sta pensando, Detective?».
José stava pensando che la femminilità non c’entrava un cazzo con le gonne a campana o i sorrisi zuccherosi. Che la femminilità, piuttosto, aveva a che fare con la capacità di una donna di colpire un uomo. E Amato era una donna che gli uomini li stendeva, letteralmente.
«Al suo gancio destro, Amato. Deve fare un gran male».



Carlisle era appena uscito dal parcheggio del Goldfinger con la sua Mercedes, quando la vide. Marie Louise camminava a passo svelto lungo il marciapiede, con l’aria di chi non vede l’ora di entrare dentro casa.
Anche quella sera si erano incontrati nel vicolo sul retro del locale, per l'ennesima sigaretta clandestina. E dopo, quando era rientrato nel suo ufficio, Carlisle non aveva fatto che pensare all’abito di raso scollato più dietro che davanti, ai lacci dei sandali che le avvolgevano il polpaccio in modo sensuale e alla lunga collana di perle con un nodo un po’ anni trenta.
Per questo motivo, forse, la riconobbe immediatamente, anche se era lontana, anche se aveva legato i capelli in una coda improvvisata, indossava una tuta comoda, una giacca a vento e un paio di scarpe da ginnastica.
Fermò l’auto proprio accanto a lei e abbassò il finestrino.
«Ehi, Marie Louise».
Lei si voltò e la preoccupazione sul suo viso si sciolse in un sorriso.
«Oh, Cardinale, sei tu!».
«Ti serve un passaggio fino a casa?».
«No, no. Va bene così. Devo solo raggiungere la metropolitana. E poi non voglio disturbare».
«Non disturbi affatto. Avanti, sali».
Ma il viaggio in auto non fu rilassato come si era aspettato. Marie Louise se ne stava rigida sul sedile del passeggero e non apriva bocca. Aveva sbagliato qualcosa forse? Aveva oltrepassato qualche linea di confine di cui ignorava l’esistenza?
«Ho parlato con Zachariasz. Di Honey», disse per rompere il ghiaccio.
«Sei riuscito a convincerlo?», chiese lei, sempre tesa.
«All’apparenza no. Ma credo di avergli dato qualcosa su cui rimuginare».
Marie Louise sospirò. «Meglio di niente».
«Destra o sinistra?».
«Destra».
Carlisle sgranò gli occhi.
«Abiti a Bushwick?».
«Non è poi così male, come zona. E poi l’unica casa che potevo permettermi l’ho trovata lì. Williamsburg è troppo alla moda per le mie tasche».
«E tu torni a casa ogni notte in metropolitana?».
«Mantenere un’auto costa troppo».
C’era qualcosa che non tornava. Che ne faceva di tutti quei soldi che guadagnava? Era una donna sola, che a giudicare dal modo in cui vestiva fuori dall’orario di lavoro, non aveva il pallino per le grandi firme o i monili di valore. Forse stava risparmiando per un qualche progetto? Oppure, più probabile, era sommersa dai debiti.
«Ecco, abito qui».
Si fermarono davanti a una casetta unifamiliare a due piani dall’intonaco scrostato.
«Perché non me l’hai detto?», disse Carlisle. «Avrei potuto dire a Benedetta di accompagnarti. Avrei potuto accompagnarti io stesso».
«Non mi va di disturbare e non mi piace dipendere dagli altri. L’ultima volta che mi sono messa nelle mani di qualcuno, dopo mi sono ritrovata a fare la prostituta per sopravvivere».
Carlisle non faceva mai domande alle sue ragazze. L’unica cosa che gli importava sapere era che non avessero avuto guai con la legge. Non per disinteresse, ma per discrezione. Del resto lui non aveva voglia di raccontare in giro la storia di come era diventato zoppo e se qualcuno faceva domande in proposito diventava una belva. Non fare agli altri quello che non vuoi venga fatto a te era la sua filosofia di vita. Adesso, però, posando lo sguardo sugli occhi tristi di Marie Louise, si rammaricò di non sapere nulla di lei e del suo passato. Forse avrebbe potuto aiutarla, anche solo comprandole un’auto.
Un ricciolo corvino era sfuggito all’elastico, glielo sistemò dietro l’orecchio.
«Chiedere aiuto agli amici non è dipendere dagli altri».
Com’era bella la sua bocca. A forma di cuore. Si chinò su di lei, ma Marie Louise si ritrasse. I suoi occhi non erano più tristi, adesso. Erano seri e risoluti.
«Cardinale, noi non siamo amici. Tu sei il mio magnaccio. Un bravo magnaccio, certo, ma pur sempre solo un magnaccio. Ed io non posso permettermi di essere in debito con te. Grazie per il passaggio, è stato molto gentile da parte tua».
Scese dall’auto e percorse il breve vialetto senza voltarsi.
Un magnaccio, solo un magnaccio! Che cazzo significa? Questa me la deve spiegare.
Si ritrovò a suonare il campanello, senza nemmeno rendersene conto. Marie Louise aprì la porta ma non la zanzariera, più stupita che arrabbiata. Lui invece era incazzato nero.
«Ti ho mai trattata da puttana, forse?», l’aggredì.
Lei sussultò, ma rimase salda sulle gambe. Incrociò le braccia sotto al seno, fissandolo attraverso la rete della zanzariera.
«No, Cardinale. Non l’hai mai fatto e, credimi, apprezzo la tua delicatezza. Ma non cambia quello che sono. Così come non cambia quello che sei tu».
Tipico. Gli sembrava di essere tornato indietro nel tempo, a quando Eleonora lo aveva accusato di essere solo un criminale, che sfruttava la gente e non l’amava abbastanza per cambiare vita. Aveva cercato di spiegarle che non era solo questo. Aveva cercato di portarla oltre le luci violente e la musica assordante del Goldfinger, accompagnarla nella sua notte tenendola stretta perché non si spaventasse e parlarle di Benedetta, di Thresh e Liam e anche di tanti altri, farle vedere quello che erano al di là della facciata stereotipata che mostravano, regalarle la loro grandezza nascosta. Aveva cercato di dirle che Gesù a suo modo era un infermiere come lei, ma non aveva paura di camminare tra puttane e farisei, né di perdonare ladroni. Una buona cattolica come lei avrebbe dovuto capirlo. Ma Eleonora non aveva voluto ascoltarlo.
E adesso la storia si ripeteva.
«Mamma?».
Marie Louise e Carlisle sussultarono contemporaneamente, ma per motivi diversi. Un ragazzino alto quanto un soldo di cacio era apparso stropicciandosi gli occhi per il sonno.
«Alex, che ci fai sveglio a quest’ora? Dov’è Rebecca?».
«Si è addormentata davanti alla tv».
Marie Louise prese il ragazzino per mano.
«Domani cerchiamo un’altra babysitter. Rebecca si è addormentata davanti alla tv una volta di troppo».
Fece per chiudere la porta, ma si bloccò ricordandosi di Carlisle.
«Adesso capisci perché? Non sono solo quello che vedi».
Gli chiuse la porta in faccia.
Carlisle tornò in auto, dandosi del coglione. Concentrato su se stesso, preoccupato di essere stato trattato come uno stereotipo di bassa lega, non si era accorto che il primo a non essere andato oltre la facciata era stato proprio lui.
Non fare agli altri quello che non vuoi venga fatto a te.
Gran bel coglione.



«A che ora finiscono le lezioni, oggi?».
«Presto. Alle dieci. C’è l’orientamento professionale».
«Bene».
Erano imbottigliati nel traffico da circa dieci minuti. Per fortuna che erano usciti da casa con largo anticipo. Altrimenti addio orientamento professionale. Zachariasz rivolse uno sguardo di sottecchi a sua figlia, che guardava la strada con aria annoiata. Stamattina si era svegliata di buon umore. Per la prima volta dopo due settimane gli aveva dato il buongiorno senza sputarlo fuori come un boccone amaro impossibile da inghiottire.
«Se avessi preso la moto, sarei già a scuola».
«Già».
Non lo aveva detto in tono arrabbiato o risentito, era una semplice constatazione. Una constatazione appropriata, in fondo. Da quando si era sobbarcato l’onere di accompagnarla a scuola personalmente, Zachariasz trascorreva gran parte del suo tempo in auto e arrivava sempre in ritardo in palestra.
Non puoi tenerla segretata in casa a vita.
Le parole di Carlisle continuavano a ronzargli in testa, da quando avevano discusso di Honey. E anche se Zachariasz non l’avrebbe ammesso mai ad alta voce, suo cognato e sua moglie avevano ragione. Tenere Honey chiusa in casa per sempre non era né pratico, né fattibile. Soprattutto adesso che il liceo stava per finire e presto lei sarebbe andata al college.
«Papà?».
«Sì?».
Honey sganciò la cintura e si sedette a gambe incrociate sul sedile.
«Mi dispiace di averti mentito».
Zachariasz trattenne il fiato per l’emozione. Honey si stava massaggiando il polso destro, significava che aveva bisogno di racimolare il coraggio per dire qualcosa di importante.
Sai, papà. Quando ero bambina e c’era qualcosa che mi spaventava, mi bastava prenderti per mano per far passare la paura. Ero convinta che le fasce rosse sui tuoi polsi fossero magiche e che mi trasmettessero un po’ del tuo coraggio. Adesso anch’io ho delle fasce tatuate sui polsi, ogni volta che le tocco è come se ti prendessi per mano. E a quel punto niente sembra impossibile.
«Avrei dovuto affrontare la questione da adulta e parlarti subito di JD».
Zachariasz si mosse nervoso sul sedile. Slacciò la cintura anche lui, perché percepiva una stretta al petto.
«Sì, avresti dovuto».
«JD ci tiene a me. Non mi ha plagiato. Insomma, tu mi conosci meglio di chiunque altro. Lo sai che sono cocciuta come un mulo e che nessuno può farmi cambiare idea, quando mi metto in testa qualcosa».
«Questo però non mi garantisce che lui non voglia solo approfittarsi di te».
Honey si morse il labbro.
«Non potresti fidarti del mio giudizio?».
«Avrei potuto prima, forse, ma adesso…».
«D’accordo, lo capisco. Allora accetteresti di conoscere JD? Una cena. O un pranzo. O una colazione. O solo una chiacchierata. Qualsiasi cosa. Papà, a me lui piace davvero. E non ho intenzione di rinunciarci. Potrai impedirmi di vederlo fino all’inizio del college, ma poi…».
Zachariasz serrò le labbra.
«Suona come un ultimatum».
«Un po’ lo è, hai ragione. Perché devi capire che sono cresciuta, ormai. E che non potrai tenermi per sempre sotto una campana di vetro».
Devo ricordarti cosa facevi tu, invece, quando hai conosciuto Isa? Credi che io non preferissi un partito migliore per mia sorella? Qualcuno che non avesse a che fare col mio ambiente, magari? Cazzo, Zachariasz. Non dico di prendere la cosa alla leggera, ma almeno vedi di capire che tipo è, prima.
Mannaggia a Carlisle e ai suoi discorsi sensati. Al diavolo, forse si era rammollito. Forse era solo felice che sua figlia avesse deciso di rivolergli la parola. In modo civile ed educato, per giunta.
«Va bene».
Honey sgranò gli occhi. Fremeva come una molla pronta a scattare.
«Va bene cosa?».
«Voglio conoscerlo».
Si stava trattenendo dall’esultare, era palese.
«Quindi potrei invitarlo a pranzo? Diciamo oggi? Invece di venirmi a prendere a scuola, potrei prendere il pullman e andare da lui. Solo per un invito formale», si affrettò ad aggiungere notando l'occhiataccia di Zachariasz. «Poi torno a casa immediatamente. Croce sul cuore».
Lui si allacciò la cintura, la fila di auto davanti a loro stava cominciando a muoversi.
«Metti la cintura, Honey».
«É un sì?».
«Metti la cintura, Honey».
Tornò a sedersi composta sul sedile e fece come ordinato. Nel frattempo la loro auto aveva ripreso a procedere spedita, finalmente.
«Se entro un’ora non sei ancora tornata a casa, l’accordo salta. Intesi?».
Il sorriso di Honey andava da un orecchio all’altro.
«Signorsì, signore!».



«Buongiorno, Darla! Scopato bene, stanotte?».
«Io sì, e tu?».
Honey si bloccò, con gli occhi fuori dalle orbite. JD uscì dal laboratorio proprio in quel momento e lei lo fulminò con un’occhiataccia.
«JD, cazzo! Ma come ti salta in mente di raccontare una cosa del genere a lei?».
Lui la guardò come se fosse pazza.
«Guarda che io non ho raccontato un bel niente a nessuno».
Darla scoppiò a ridere.
«È vero, Honey. Non mi ha detto niente. Avevo solo un sospetto, perché stamattina è entrato in negozio fischiettando. Lui non fischietta mai. E adesso, grazie a te, ne ho avuto la conferma! Congratulazioni, tesoro! Benvenuta nel mondo delle baldracche!».
Le guance di Honey si infiammarono per la rabbia. Prese fiato, decisa a sputare addosso a Darla tutto l’odio che provava nei suoi confronti, ma JD le tappò la bocca con la mano prima che potesse fiatare alcunché.
«Se sei qui, hai parlato con tuo padre, suppongo. Come è andata?».
«Oh, la bimba ha chiesto a papino il permesso di uscire col fidanzatino?», chiese Darla, scimmiottando la voce di Honey e appoggiandosi al bancone con lo sguardo della tipica stronza pettegola. «E cosa ha risposto papino?».
Honey si divincolò dalla presa di JD e scattò in avanti a pugni serrati, ma lui la riacciuffò al volo, la sollevò di peso da terra e la portò in laboratorio. Il tutto mentre quella puttana di Darla alternava attacchi di ridarella a imitazioni della sua voce.
«La odio! Dio, quanto la odio!», esclamò Honey, dopo che JD l’ebbe messa a sedere sulla poltroncina dei clienti come una bambola. «Un giorno o l’altro perderò le staffe e la prenderò a ceffoni. Parola mia!».
JD rise.
«Quel giorno tirerò fuori la vasca che conservo in magazzino per le grandi occasioni e la riempirò di fango».
Honey si imbronciò.
«Ah, ah, ah. Sto morendo dal ridere».
«Allora?», chiese JD, improvvisamente serio. «Come è andata con tuo padre?».
«Molto meglio di quanto mi aspettassi, in realtà. Non credevo che sarebbe stato così semplice. È bastato… parlare».
«Visto?».
Gli angoli della bocca di JD si arricciarono all’insù. Diventava ancora più sexy quando sorrideva in quel modo furbo, se n’era accorta solo la scorsa notte. E ancora non capiva come aveva fatto a non accorgersene prima.
Dopo aver fatto l’amore con lui, si era aperto una specie di terzo occhio sulla sua fronte, che le permetteva di vedere e sentire cose che prima non aveva mai visto o sentito di JD.
«Ha accettato di conoscerti. Sono passata qui per comunicarti che oggi sei invitato a pranzo a casa mia».
Ecco, una delle cose di JD che prima non aveva notato e adesso invece sì era il leggerissimo tic al sopracciglio destro che scattava quando lui era preoccupato. JD manteneva sempre la calma, anche nelle situazioni più critiche, ma agli occhi di Honey, adesso, quel tic lo incastrava peggio di una dichiarazione scritta e firmata in carta bollata.
«Devo mettere la cravatta, o roba del genere?».
Honey rise.
«No, che non devi. Per me vai benissimo così».
Le si fece vicino, vicinissimo.
«Così come?».
Eccone un’altra.
Prima lei non se n’era mica accorta di come i suoi occhi brillavano quando la provocava deliberatamente. Sì, aveva capito che gli piaceva da matti farlo, ma il luccichio non l’aveva mai notato. Un luccichio che la faceva tremare di paura ed eccitazione al tempo stesso. Che la rendeva spregiudicata.
«Così», rispose.
Honey sollevò l’orlo della felpa di JD e solleticò il drago sul mento appuntito. Poi la sua mano salì, sotto il tessuto. Piano, lentamente.
JD la baciò, ovviamente.
Prima non lo aveva capito. Adesso sì. Se accarezzava i suoi tatuaggi, o se semplicemente li guardava come se morisse dalla voglia di toccarli, JD andava subito fuori giri. Quella forse era la scoperta più sensazionale di tutte. Un’arma pericolosa nelle sue mani inesperte, che però Honey aveva intenzione di imparare a usare come si deve nel più breve tempo possibile.
L’ehm ehm di Darla li interruppe per la seconda volta nel giro di due settimane.
Cazzo, ma allora dillo che lo fai a posta!



«Oh, chi non muore si rivede!».
Merda!
Suo padre l’aveva messa in guardia. Se rivedi i tipi che si sono presentati in palestra, scappa come se avessi il diavolo alle calcagna, mi hai capito bene? Quel giorno però era ancora incazzata con lui, così non aveva prestato molta attenzione al suo avvertimento, né tanto meno gli aveva chiesto spiegazioni. Trovarseli lì, al negozio di tatuaggi, la fece pentire amaramente di non averlo fatto. Soprattutto perché si era accorta del tic al sopracciglio di JD.
«Tuo padre lo sa che sei nel territorio dei Coyote?», chiese quello alto, che sembrava sempre sul punto di scoppiare a ridere. Dio, quella specie di sorrisetto le faceva venire i brividi! Che cazzo volevano da JD? Non avevano l’aria di essere interessati a un tatuaggio.
«È una cliente che se ne stava andando», si intromise JD. «Il tatuaggio che mi ha chiesto era troppo idiota per la fama di questo negozio. Darla, ti spiace accompagnarla fuori?».
«No, affatto. Ne approfitto per fumare una sigaretta».
Darla prese Honey sottobraccio e la strattonò con forza.
«Andiamo, tesoro. Questo posto non fa per te».
«Ma… aspetta, devo dire una cosa a JD! È importante».
«Spiacente, le farfalle sulla patata non sono più disponibili per oggi».
Honey rivolse un’occhiata implorante a JD, che invece scosse la testa con aria mortalmente seria. Darla riuscì a trascinarla fino alla porta. Quando passarono accanto al tizio basso e silenzioso, che se ne stava fermo e impalato di fianco all’uscita, a braccia conserte come un buttafuori, Honey intravede un segno rosso sotto al colletto della camicia, come una specie di…
MERDA!
Erano ormai fuori dal negozio, quando Honey puntò i piedi a terra e costrinse Darla a fermarsi.
«Ragazzina, possibile che tu sia così stupida? Non hai capito l’antifona?».
«Ho capito molto di più, invece! Quei due fanno parte della banda dei Polacchi, l’ex banda di mio padre. Non possiamo lasciare JD da solo con loro, sono pericolosi!».
«Hai scoperto l’acqua calda, stronzetta! Adesso ascoltami bene, corri a casa senza fermarti. Nel frattempo io andrò subito da Halona a chiederle aiuto».
«Ma…».
«Niente ma! JD sa badare a se stesso e lo farà meglio se saprà che sei al sicuro. Perciò non costringermi ad accompagnarti di persona a casa, perché perderei del tempo prezioso e andrebbe tutto a svantaggio di JD».
Honey fece per aprire bocca, ma ci ripensò. Si limitò ad annuire, massaggiandosi il polso destro.
«Mi prometti che JD starà bene?».
Darla sorrise. E per una volta non in quel modo odioso che rivolgeva solo a Honey.
«Parola di Darla».



Darla non metteva piede al Coyote Club da sette anni, dal giorno in cui Halona l’aveva licenziata come barista perché aveva scoperto che era andata a letto con suo marito Shiriki. Halona non le era mai piaciuta, una vecchia acida e incartapecorita senza un briciolo di senso dell’umorismo. Tutti a chiedersi come mai lei non avesse ancora mandato a cagare quel porco di Shiriki. Il vero mistero invece era come mai quel porco di Shiriki, la simpatia fatta persona, non avesse ancora mandato a cagare quell’incagabile e intrattabile arpia che non rideva mai.
Entrò di corsa nel locale. Sapeva che a quell’ora della mattina c’era solo la proprietaria. E al massimo Shiriki. E difatti trovò Halona dietro al bancone, intenta a studiare i libri contabili. Aveva un nuovo tatuaggio intorno al bicipite, una striscia nera simile alle fasce di stoffa che si mettono sopra i vestiti per esternare il lutto: era stato fatto da poco, perché la pelle era ancora arrossata. Quando Halona sollevò lo sguardo e vide Darla, la sua bocca, se possibile, si serrò ancora di più di quanto non fosse già normalmente.
«Hai voglia di morire, per caso?».
«No, ma si tratta di…».
«Non me ne fotte un cazzo perché sei qui. Per quanto me ne importa potresti finire sotto un treno».
Darla sbatté il pugno sul bancone.
«Cazzo, fammi parlare!».
«Osi darmi degli ordini? FUORI DAL MIO LOCALE, PUTTANA!».
«Cos’è tutto questo trambusto?».
Shiriki veniva dal retrobottega, con la solita aria pacifica di chi ne ha combinata una bella grossa e cerca di non dare nell’occhio. Come al solito portava una giacca elegante, sopra a un gilet colorato e a un paio di blue-jeans scoloriti. Ma cazzo se era invecchiato parecchio dall’ultima volta che l’aveva visto! Era molto più stempiato e la lunga treccia ormai era completamente brizzolata (quando lo aveva conosciuto c’erano solo due pennellate di grigio sulle tempie). In compenso il ragnetto tatuato sopra il sopracciglio e l’orecchino all’orecchio destro erano ancora al loro posto. Per un istante Darla rivide le mani callose e tatuate di Shiriki sui suoi seni ed ebbe un fremito. Darla, non adesso.
«Stanne fuori, Shiriki. Non sono cose che ti riguardano», abbaiò Halona.
Ovviamente lui la ignorò. Il sorriso che rivolse a Darla aveva mille sottointesi. Era una delle prime cose che l’avevano attratta di lui. Insieme al suo modo di fare che era uno strano miscuglio tra il vecchio porco e il signore elegante.
«Oh, guarda chi si rivede. La Ragazza Con La Giarrettiera. Quanto tempo! Che ci fai qui?».
«Non ci fa niente qui, se ne stava andando».
«No, che non me ne vado, fottuta stronza. Pensi che mi faccia piacere rivedere la tua faccia da vecchia arpia? JD è nei guai».
A giudicare dalla sua espressione, Halona era sul punto di sputarle addosso, ma nel sentire il nome di JD si bloccò e aggrottò la fronte. Anche Shiriki si era fatto improvvisamente serio.
«E perché non lo hai detto subito? Che tipo di guai?».
Cristo, che voglia di prenderla a sberle!
«Perché non l’ho… ah, lasciamo perdere. Due della banda dei Polacchi sono entrati nel negozio. Avevano fasce rosse intorno al collo. Immagino anche intorno ai polsi, ma non sono riuscita a vederle».
Halona e Shirki si guardarono. «Squadra di persuasione», dissero contemporaneamente.
«Vai a chiamare Sam e Bruce», disse Halona a Shiriki. «Io vado avanti con Darla».
Shirki annuì. «Ci vediamo al negozio di tatuaggi».
«Andiamo», disse Halona a Darla. «Prendiamo la mia auto».



Meno di cinque minuti e il pullman che l’avrebbe portata a casa sarebbe passato davanti alla fermata. Honey se ne stava seduta sulla panchina rigida come un pezzo di legno, massaggiandosi ossessivamente il polso destro. Cristo santo, com’era difficile fare la cosa giusta!
Pensare che in quel preciso istante JD era da solo, in balia di quei due bastardi… Si prese la testa tra le mani, per la frustrazione. Continuava a rivedere lo sguardo amareggiato di suo padre mentre le raccontava della banda dei Polacchi, dei crimini che aveva commesso quando ne faceva parte, e le veniva da piangere. Ma Darla aveva ragione, che cosa poteva fare lei per aiutare JD? Sapeva tirare qualche pugno, ma affrontare due tizi come quelli era tutto un altro paio di maniche.
Non poteva nemmeno chiedere aiuto a suo padre, perché quella mattina, da brava idiota quale era, presa dall’euforia di aver chiarito con lui, aveva dimenticato di farsi restituire il cellulare che le era stato sequestrato. E non c’erano cabine telefoniche, in quella zona. O meglio, c’erano, ma erano state tutte vandalizzate e distrutte. Cazzo, cazzo, cazzo! Avrebbe dovuto dire a Darla di telefonargli. Perché non glielo aveva detto? Perché era una cretina.
Sta’ tranquilla. JD se la caverà, lui ha sempre tutto sotto controllo. In fondo, non è mica detto che quei due siano andati da lui con l’intenzione di fargli del male, no? A tuo padre non hanno fatto niente, l’altro giorno.
Ma c’era il tic al sopracciglio destro che la perseguitava. Se perfino JD era preoccupato, allora la situazione era grave. L’unione fa la forza, in fondo. Due inesperti contro due esperti erano sempre meglio di uno inesperto contro due esperti. Honey sapeva dove JD teneva Gina: se fosse riuscita a sfrecciare dentro al negozio, cogliendo i due tizi alla sprovvista, forse sarebbe riuscita ad arrivare fin dietro al bancone e ad afferrarla. A quel punto, con un’arma in mano, lei e JD avrebbero avuto il coltello dalla parte del manico.
In fondo alla strada apparve il pullman.
Non è un piano malvagio, si disse massaggiandosi il polso destro, può funzionare. Una botta in testa ciascuno, poi avrebbero chiamato la polizia e i due stronzi non avrebbero più dato fastidio a nessuno, né a JD, né a suo padre. E poi, in ogni caso, Darla era andata a chiamare i rinforzi, giusto? Anche se le cose non fossero andate come previsto, lei e JD avrebbero dovuto soltanto guadagnare del tempo fino all’arrivo dei Coyote. Sì, poteva farcela. Era un buon piano.
Le porte del pullman si spalancarono di fronte alla fermata.
Ma Honey era già corsa via.



«Certo che ti tratti bene, eh, JD? Quella commessa è proprio una gran sventola. Quante volte al giorno te lo succhia, il cazzo? Perché ha proprio la faccia di una che adora succhiare i cazzi. E poi ho sentito dire che ha la fama di essere una gran troia».
JD non aveva nessuna intenzione di stare al suo gioco e rispondere alle provocazioni. Preferiva concentrarsi sull’individuare una via di fuga. Gina era nascosta dietro al bancone, ma tra lui e il bancone c’era Stanlio. Ollio se ne stava a braccia conserte accanto alla porta, placido e silenzioso come sempre, ma JD sapeva che se avesse tentato di uscire, lui lo avrebbe acciuffato e ributtato dentro immediatamente.
«Che poi sei pure ingordo! Non te ne basta una? Pura la figlia di Zachariasz! Com’è che non ti ha ancora ammazzato, tra l’altro? Zachariasz è sempre stato gelosissimo delle sue cose».
«Non so di cosa parli».
Il sorrisetto di Stanlio si accentuò sugli angoli.
«Non crederai che mi sia bevuto la messa in scena della cliente, vero? Ollio, la mascotte dei Coyote pensa che io sia stupido, ci pensi?».
Ollio non rispose.
«In ogni caso a me non importa chi ti scopi. A me importa che ci dai quello che ci devi».
«Io non vi devo niente».
«Oh, oh, oh. Io invece credo di sì». Stanlio aggirò il bancone e vi si appoggiò sopra con entrambi i gomiti. Sempre col sorrisetto sulle labbra, nonostante l’aria annoiata. «Sei sul territorio dei Polacchi e i Polacchi pretendono una piccola tassa dagli esercizi commerciali che si trovano sul loro territorio. Sai, in cambio di protezione».
«Ti sei sbagliato, forse. Non siamo a Greenpoint. Williamsburg Nord è il territorio dei Coyote».
«Ancora per poco».
«E non ho bisogno di protezione».
«Ah, davvero? Ti senti forte perché…», con una mano frugò sotto al bancone, «…hai questa?».
Impugnò Gina per il manico e con due colpi secchi fece schiantare a terra prima il registratore di cassa e poi il telefono. Nonostante il baccano infernale JD non fece una piega. Stanlio ridacchiò.
«Guardalo, Ollio. Gioca a fare il duro. Non ti fa tenerezza? A me sì». Sollevò lo sguardo, in direzione della foto di Wile Coyote. «In questo sei identico a tuo nonno. Nemmeno lui perdeva le staffe davanti alle manifestazioni di violenza. E quando ti menava, lo faceva con calma, senza scomporsi, come se stesse facendo saltare le patate in padella. Io lo so per esperienza».
«Già, mi ha raccontato di quella volta che te l’ha messo nel culo».
Il perenne sorrisetto scomparve dal viso di Stanlio, contraendosi in una smorfia rabbiosa. Ma durò solo per un fugace istante. Poi il sorrisetto tornò ad arricciargli gli angoli della bocca, più inquietante che mai. Ollio intanto si stava avvicinando lentamente a JD. Stanlio lo imitò, mulinando Gina e fischiettando.
«Ti hanno mai raccontato come mai Ollio non parla più? No? Strano. Povero Ollio, a lui piaceva chiacchierare, ma più di tutto, gli piaceva fare il duro. Proprio come a te. Il problema di Ollio era che quando faceva il duro, diventava impulsivo. E siccome era anche un chiacchierone… Capirai che non era quella che si dice una combinazione vincente».
JD indietreggiò. Alle sue spalle c’era l’entrata del laboratorio. Davanti a lui Stanlio e Ollio formavano una parete invalicabile.
«Un giorno Ollio fa il duro col tizio sbagliato. Insulta sua madre, sua moglie, sua figlia e fa pure lo sbruffone, lo chiama finocchio». Stanlio sospirò, affranto, scuotendo la testa in direzione del compagno. «Ollio, ma che ti diceva la testa, eh?».
JD ne approfittò per scappare in laboratorio. Non c’erano uscite lì, ma forse poteva guadagnare tempo.
«Dove vai? Non vuoi sentire come finisce la storia?».
Fece appena in tempo a trovare la mazza da golf di Darla, quella lei che aveva chiamato come Tiffany perché…
Il colpo alla schiena lo freddò come una pistolettata. Cadde sulla poltroncina dei clienti, il dolore talmente agghiacciante da non riuscire nemmeno a urlare. Stanlio era sopra di lui e soppesava la mazza con una mano.
«Allora, dov’ero rimasto? Ah, sì. Il tizio sbagliato, però, aveva tanti amici. Tizi sbagliati anche loro. E indovina un po’? Ognuno di loro aveva una mazza, proprio come questa».
JD si era appena rimesso faticosamente in piedi. Schivò il secondo colpo per un pelo, sentendo l’aria sibilare alla sua sinistra. Ma si era dimenticato di Ollio, che nel frattempo aveva caricato un pugno potentissimo contro il suo stomaco. JD si piegò su se stesso, sputando fuori aria e saliva. A quel punto schivare Gina divenne impossibile: JD cadde a terra sotto le mazzate di Stanlio e i calci di Ollio, con la sensazione di essere stato travolto da una valanga di massi.
«Quando poi si sono stancati di pestarlo, uno di loro si è tastato le tasche del giubbotto e ci ha trovato dentro un tagliacarte. Ora, a questo punto credo non sia difficile per te intuire come lo hanno usato, quel tagliacarte, vero? Ollio non parla, il tagliacarte taglia le cose…». Stanlio si guardò intorno, con sguardo perplesso. «Ollio, vedi un tagliacarte nei paraggi?».
Ollio ovviamente non rispose. Stanlio si rivolse a JD. Col sorriso sulle labbra.
«Sai mica dove posso trovare un tagliacarte?».



Tic tac, tic tac. L’orologio sulla parete della cucina scandiva il tempo. Ad ogni tic tac corrispondeva un piccolo passo in avanti della lancetta dei secondi e un ulteriore aumento del ritardo di Honey.
Zachariasz si sentiva parecchio idiota, adesso. Ripensava alla conversazione di qualche ora prima, all’espressione contrita di Honey che lo aveva quasi fatto commuovere, e non riusciva a credere di essersi fatto infinocchiare come un pivello. C’era stato un tempo in cui nessuno, nemmeno il più miserabile degli esseri umani, era capace di intenerirlo. Nel suo campo era sempre stato uno dei più duri. Ora, invece, sua figlia faceva il bello e il cattivo tempo con lui, senza nemmeno sforzarsi tanto.
«Magari ha mancato di poco il pullman e ha dovuto aspettare quello successivo, vedrai che sarà qui a momenti».
«C’è un pullman ogni dieci minuti, Isa. È in ritardo di mezz’ora, è ovvio che mi ha preso in giro un’altra volta».
Aveva chiamato di nuovo Connor, ma lui gli aveva garantito di non sapere nulla. Non si fidava, però. Connor e sua figlia avevano fatto pace di recente. Difficile che il ragazzo facesse nuovamente la spia, adesso che si erano chiariti. Zachariasz si alzò dalla sedia e indossò il cappotto.
«Dove vai?».
«Secondo te? A riprendermela».
Quel porco di un tatuatore avrebbe fatto presto i conti con lui.
Isa sospirò.
«Zachariasz…».
«Non cominciare. Lo sforzo di capirla l’ho fatto. Non puoi dire che non l’abbia fatto. Lei mi aveva promesso che si sarebbe comportata da adulta d’ora in poi. Be’, non rispettare i patti non è comportarsi da adulta».
«Sono convinta che ci sia una spiegazione valida».
Zachariasz prese le chiavi dell’auto.
«Lo scopriremo presto».
Isa si mise davanti alla porta, una profonda ruga di preoccupazione le attraversava la fronte.
«Promettimi che non perderai le staffe».
«Lo sai che non posso promettertelo».
Pugni puntellati sui fianchi. Espressione torva. Di nuovo la somiglianza di Isa con sua figlia lo mise fuori gioco per qualche istante.
«No, tu non vuoi promettermelo. È diverso».
Zachariasz roteò gli occhi.
«Farò del mio meglio per non perdere le staffe. È il massimo che posso promettermi».
Isa sorrise, si alzò sulle punte dei piedi e posò un bacio leggero sulle sue labbra.
«Bravo il mio ometto!».
Una volta messa in moto l’auto, Zachariasz non riuscì a fare a meno di pensare che Honey non era l’unica capace di infinocchiarlo come se nulla fosse. Doveva essere una specie di carattere ereditario. E lui, invece, stava proprio invecchiando.



Questa volta era veramente fottuto. Spalmato come marmellata sul pavimento del laboratorio, JD passò in rassegna tutti gli insegnamenti di Wile. Doveva essercene almeno uno che potesse aiutarlo a venire via dalla merda fino al collo in cui era cascato. Ma Non immischiarti negli affari dei Coyote e camperai cent’anni era l’unico consiglio che gli veniva in mente in quel momento. Peccato che ormai fosse troppo tardi.
Il suo corpo non doleva, bruciava. Era come trovarsi su un letto di carboni ardenti: da qualsiasi parte si girasse, la sua pelle si ustionava e le sue ossa si scioglievano per il dolore. Sentire male è positivo, significa che il tuo corpo funziona ancora. Be’, vaffanculo, Wile. Stavano per ammazzarlo, sapere che il fottuto male che provava era positivo non gli era di consolazione.
«No? Niente tagliacarte? Che peccato». Stanlio stava ancora sorridendo. Estrasse un coltello a serramanico e fece spallucce. «Vorrà dire che mi manterrò sul tradizionale».
Almeno Honey e Darla sono al sicuro.
Ecco, quella sì che era una bella consolazione.
«Allontanati da lui, subito!».
Incredibile, anche sgranare gli occhi gli procurava dolore. Non poteva essere la sua voce, quella. Vero? Ti prego, fa’ che non sia lei.
«Ollio, guarda chi è tornata a farci compagnia». Stanlio si rivolse un attimo a JD. «Visto che non era solo una cliente?».
Imprecare non gli fece male, ma non servì nemmeno a farlo stare meglio. Sollevò il capo, ignorando le fitte alla spina dorsale (sembrava che gli avessero piantato dei chiodi tra le vertebre), e ovviamente lei era là, accanto alla tenda scostata che divideva il laboratorio dalla sala d’attesa. Guardava Stanlio dritto negli occhi, ma si stava massaggiando il polso destro. Mai fare capire al tuo avversario di avere paura, Wile glielo ripeteva sempre, quando era bambino.
«Honey, vattene via», biascicò.
Ma naturalmente lei lo ignorò.
«Ho chiamato la polizia, saranno qui a breve. Vi conviene andarvene».
Oh, merda. Merda, merda, merda!
Stanlio scoppiò a ridere.
«Ollio, la bimba sta cercando di bluffare».
«L’ho chiamata sul serio e ho raccontato tutto quello che so su di voi e la vostra banda, siete in grossi guai».
JD provò ad alzarsi.
«Honey, ti prego, vai via!».
«Ollio, per piacere, non riesco a pensare con questo fastidioso ronzio di sottofondo».
Il calcio sui denti arrivò immediatamente, implacabile. Il dolore esplose sulla sua faccia come una granata: un gigantesco boom all’inizio e una pioggia di schegge subito dopo. E proprio come dopo la detonazione di una bomba, il dolore lo rese sordo. L’urlo di Honey veniva da lontano, le sue orecchie sembravano tappate con l’ovatta.
«Sai cosa stavo pensando, Ollio?».
Ollio non rispose.
«Questa ragazza, guardala bene. È tre cose in una: la figlia di Zachariasz, la nipote del Cardinale e la puttanella della mascotte dei Coyote. Riesci a vedere le sue potenzialità, Ollio?».
Silenzio.
«Be’, io sì».
«HONEY, SCAPPA!».
E finalmente lei gli diede retta.
Purtroppo Ollio, nonostante la sua mole, era molto più veloce. La raggiunse immediatamente e l’acciuffò per i capelli. Honey strillò, provò a divincolarsi scalciando a destra e sinistra, ma la presa di Ollio era salda.
«Mi rincresce, piccola. Ollio ha una fissa per i capelli delle ragazze, adora afferrarli e tirarli».
Stanlio si stava godendo lo spettacolo di Honey immobilizzata come un gattino preso per la collottola, perciò gli stava dando le spalle. Mai arrendersi, se vedi una breccia infilatici dentro a razzo, disse Wile nella sua testa. Così, in un ultimo disperato tentativo, JD afferrò Gina che era stata abbandonata lì vicino, alla sua portata, sul pavimento. Chiamò a raccolta le ultime forze rimaste e scattò in piedi. Alzò la mazza sopra la testa, pronto a colpire, ma Stanlio si voltò. E sorrise. JD si scagliò ugualmente contro di lui. Purtroppo però aveva perso l’effetto sorpresa, le sue braccia erano fatte di pongo e al posto delle gambe aveva due blocchi di cemento. Stanlio schivò il colpo, lo disarmò con una facilità inaudita e una volta venuto in possesso della mazza, ricambiò subito con…
Buio.







_____________







Note autore:
Ed eccoci qui, al giro di boa. Con questo capitolo comincia la seconda parte di Rovi & Rose, che sarà un po’ movimentata.
Bushwick è un altro quartiere di Brooklyn.
Il passaggio “Aveva cercato di portarla oltre le luci violente e la musica assordante del Goldfinger, accompagnarla nella sua notte tenendola stretta perché non si spaventasse e parlarle di Benedetta, di Thresh e Liam e anche di tanti altri, farle vedere quello che erano al di là della facciata stereotipata che mostravano, regalarle la loro grandezza nascosta. Aveva cercato di dirle che Gesù a suo modo era un infermiere come lei, ma non aveva paura di camminare tra puttane e farisei, né di perdonare ladroni” è stato preso in prestito (con i dovuti riadattamenti) da una storia di Dragana, che purtroppo è stata cancellata. Grazie a lei per avermi dato il permesso!
E come sempre un enorme grazie a tutti voi, che seguite/ricordate/preferite/recensite o anche solo leggete Rovi & Rose.
A lunedì!

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** Capitolo 7 ***


Capitolo 7




La porta del negozio era già spalancata, quando Zachariasz arrivò. Messo il primo piede dentro, vide il registratore di cassa e un telefono in pezzi sul pavimento.
«Dobbiamo chiamare un'ambulanza».
«No, ci penserà Shiriki a lui».
«Sì, Ragazza Con La Giarrettiera, sta' tranquilla. So quello che faccio».
Zachariasz si voltò. C’erano due donne. Una era la cassiera del negozio, che come la volta scorsa era praticamente nuda e ricoperta di tatuaggi. L’altra invece era vecchia e grigia, un mucchietto d’ossa. C’era pure un uomo, vecchio e grigio anche lui. Stava applicando un qualche impacco sulla faccia ammaccata del porco tatuatore, che invece era disteso sul divano: i lividi sul suo petto si confondevano con i tatuaggi. Di Honey nemmeno l’ombra.
Per un brevissimo istante, il suo orgoglio di padre gli fece credere che sua figlia fosse finalmente rinsavita e che avesse dato al tatuatore quello che si meritava. Solo per un brevissimo istante, però. Perché l’attimo successivo due energumeni uscirono dal laboratorio e gli rivolsero due occhiate torve, una ciascuno.
«E tu chi cazzo sei?».
Zachariasz li ignorò.
«Dov’è mia figlia?».
La commessa e i due vecchi si accorsero finalmente di lui. Nel voltarsi nessuno dei tre sussultò. La commessa lo riconobbe subito. Fece per dire qualcosa, ma il tatuatore gemette e si mosse sul divano, attirando nuovamente la sua attenzione.
«Honey…», biascicò.
«L’ho mandata a casa, sta’ tranquillo», disse la commessa.
Sbagliato, pensò Zachariasz con una bruttissima sensazione alla bocca dello stomaco, che gonfiava sempre più come una spugna in acqua.
Il tatuatore provò ad alzarsi. Il vecchio lo tenne giù.
«Non ci pensare nemmeno, fammi prima verificare che non ci sia niente di rotto».
Il tatuatore scosse la testa, non si dava pace.
«No, devo... non è andata a casa, è tornata indietro».
La commessa imprecò.
«Cosa? Maledetta incosciente! Cazzo, JD! Con tutte le donne che ci sono sul pianeta, perché hai scelto proprio una bambina viziata e idiota? Adesso me lo devi spiegare!».
Ma il tatuatore non sembrava ascoltarla.
«Voleva aiutarmi e… l’hanno presa».
La spugna si trasformò in un blocco di granito, che rischiò di schiacciarlo dall’interno. In due rapide falcate, Zachariasz fu davanti al divano, spinse di lato il vecchio e afferrò il tatuatore per il collo.
«Chi è che l’ha presa? Che cazzo è successo qui dentro? Parla, bastardo, o giuro che ti ammazzo con le mie mani!».
Il tatuatore tossì qualcosa, chiaramente stava cercando di parlare.
«Molla la presa. Immediatamente».
La vecchia gli era andata sotto a muso duro. Qualcosa lo punzecchiava al fianco.
«Uomo Con La Cicatrice, dalle retta. Non sta scherzando», disse il vecchio.
Zachariasz aprì le dita, il tatuatore si accasciò sul divano, come un burattino a cui hanno tagliato i fili, e la vecchia rinfoderò il coltello. Solo allora Zachariasz notò il Coyote tatuato sulla sua spalla ossuta. Anche i due energumeni ne avevano uno, adesso che ci faceva caso: sul collo e sul cranio. Gli venne da imprecare e spaccare mezzo negozio. Non perdere le staffe, si disse. L'hai promesso a Isa.
«Che cazzo c’entri tu con i Coyote?», chiese al tatuatore. «E chi ha preso Honey?».
Il tatuatore sollevò lo sguardo. I suoi occhi erano vitrei, ma pungenti come lame affilate. Anzi, no. Come aghi. Lui sa tutto, pensò Zachariasz. E le sue parole glielo confermarono.
«Quelli della tua vecchia banda».



José era sveglio già da circa trenta minuti, ma non aveva osato muovere un muscolo, era rimasto a fissare il soffitto come un coglione. La donna che gli dormiva accanto apparteneva a quel genere di donna che, dopo la scopata di una notte, si riveste in silenzio, dice grazie prima di chiudersi la porta alle spalle e poi non si fa più sentire. E lui voleva ritardare l’arrivo di quel momento il più possibile.
Che poi il grazie avrebbe dovuto dirlo lui a lei, non il contrario. Era pieno di alcol come una botte, quando il Goldfinger aveva chiuso i battenti. Benedetta lo aveva accompagnato a casa perché non era in grado di reggersi in piedi, figuriamoci di guidare.
Aveva solo dei ricordi sfocati di quello che era successo dopo, come cercare di vedere attraverso un vetro appannato. Il getto ghiacciato della doccia sulla faccia e sui vestiti, che gli rimetteva in moto il cervello. Il materasso che gli veniva incontro. No, lui che andava incontro al materasso. Benedetta che gli toglieva le scarpe e diceva qualcosa riguardo a un’aspirina, che gli allungava un bicchiere d’acqua. Lui che invece di poggiare le labbra sul bordo del bicchiere, le poggiava sulla bocca di Benedetta.
José si massaggiò la mascella, gemendo piano.
Cazzo, ci aveva visto giusto, il gancio destro di Benedetta faceva un male boia! Ma almeno lo aveva fatto tornare lucido in men che non si dica. José era convinto che, dopo quel colpo di genio da parte sua, lei sarebbe andata via senza voltarsi indietro. Invece Benedetta aveva cominciato a sfilarsi i vestiti, uno dopo l’altro. Senza dire una parola. Guardandolo dritto negli occhi. Cristo, quanto si era sentito coglione! Lui ubriaco marcio, i vestiti bagnati e stropicciati, l’alito che doveva puzzare da fare schifo. E lei, invece, una scultura greca imponente sempre più nuda.
Se lo era scopato. Senza dire una parola. Guardandolo dritto negli occhi.
Sì, lei aveva scopato lui, non il contrario. José non aveva fatto molto. All’inizio aveva cercato di afferrarla per i fianchi stretti, ma lei lo aveva subito rimesso in riga, bloccandogli i polsi sopra la testa, alla testiera del letto, con la cintura. E così si era lasciato cavalcare. E non gli era dispiaciuto. Oh, no, affatto. Benedetta ci sapeva fare, lo aveva domato e ammansito. Ed era stato bellissimo guardarla muoversi sopra di lui, con colpi di bacino profondi e decisi, lasciarle prendere quello che voleva, a modo suo. Lei era bellissima. Con quella schiena muscolosa e lunghissima, non finiva mai, che era in grado di inarcarsi come una canna di bambù. Con quelle cosce toniche che lo tenevano piantato al materasso. Con quei seni, piccoli, sodi ma asciutti, dai capezzoli scuri e dritti. Sarebbe riuscito a posarci sopra la bocca almeno una volta, prima di vederla scomparire da quella porta?
Cazzo, gli era venuto di nuovo duro.
Il bip bip del cellulare svegliò Benedetta di soprassalto. Si guardò intorno, spaesata, quando incontrò gli occhi di José, parve ricordare tutto.
«Buongiorno», le disse.
«È il mio o il tuo?».
«Il tuo, credo».
Benedetta scattò in piedi, nuda, sveglia e scattante come una tigre. Come cazzo faceva? A lui normalmente servivano tre tazze di caffè per potersi definire sveglio. Figuriamoci dopo una notte come quella! Per fortuna che era solo mezzogiorno e che prendeva servizio dopo pranzo. Nel frattempo Benedetta stava frugando nelle tasche dei pantaloni. Quando trovò il cellulare, andò in bagno e si chiuse dentro. Le antenne da sbirro si drizzarono immediatamente. Doveva trattarsi di roba di lavoro. José cercò a tentoni i boxer e li trovò accanto al comodino. Se li era appena infilati, quando lei uscì dal bagno. Non lo degnò di uno sguardo e cominciò a rivestirsi.
«Qualche problema?».
«No, tutto a posto».
«Dalla tua faccia non si direbbe».
Benedetta lo fulminò con un’occhiataccia.
«Senti, mettiamo subito le cose in chiaro. Abbiamo solo scopato. Non siamo diventati pappa e ciccia, okay? Fatti cazzi i tuoi e vedrai che andrà tutto bene».
«Sembra una minaccia».
Aveva rindossato pantaloni, reggiseno e anfibi. Il resto se lo mise sottobraccio e si avviò verso il soggiorno a passo di marcia. José la seguì, solo per vederla chiudersi la porta alle spalle. Senza dire una parola.
Si era sbagliato. Apparteneva a quel genere di donna che alla fine non dice nemmeno grazie.



Honey non aveva idea di quanto tempo fosse trascorso.
Seppe che era ora di pranzo solo quando, nella stanza in cui era stata rinchiusa, entrò una signora anziana con un vassoio. La vecchia aveva raccolto i capelli grigi in due lunghe trecce che le pendevano sul seno prosperoso. Indossava una gonna larga e rossa, un grembiule a fiori allacciato in vita e ai piedi un paio di babbucce.
«Jest moją specjalnością», disse la vecchia e poggiò il vassoio per terra, accanto a Honey. «Nazywa Żurek».
Suo padre non le aveva mai insegnato il polacco, perciò Honey nemmeno ci pensò a chiedere aiuto alla vecchia. E poi non era così stupida, la vecchia faceva parte del nemico, esattamente come i due uomini che l’avevano rapita. La ciotola sul vassoio conteneva una minestra fumante, nella quale galleggiava un uovo sodo. Honey si limitò a spingere via il vassoio col piede. La smorfia di disapprovazione della vecchia era tale da formare tante rughette intorno alla sua bocca.
«Jeść zupę, aż będzie gorąca».
«Non ho fame».
Potevano rapirla, potevano spaventarla a morte, potevano rinchiuderla in un magazzino, ma non potevano costringerla a mangiare. Chi le assicurava che la minestra non fosse drogata?
Honey prese la ciotola, si alzò in piedi e guardando la vecchia dritto negli occhi, rovesciò la minestra sul pavimento. L’uovo sodo si spappolò sul linoleum e la minestra schizzò sulle babbucce e sull’orlo della gonna della vecchia. Che adesso fissava Honey come se avesse voglia di strangolarla.
«Głupia dziewczyna vizziata!».
Lo scappellotto sulla nuca arrivò inaspettato e velocissimo.
«Ahia, maledetta strega!».
«W Afryce dzieci głodują, nie wstyd ci?», sbraitò la vecchia.
«È inutile che continui a parlare, tanto non capisco un cazzo di polacco!».
Ma la vecchia stava già andando via, strascicando le babbucce. Chiuse la porta a chiave, lasciando Honey di nuovo sola, alla luce traballante di un neon.
Tornò a sedersi sul pavimento, massaggiandosi la nuca.
Durante il tragitto in auto era stata bendata, perciò non aveva visto dove era stata portata. L’avevano rinchiusa in una specie di magazzino, senza finestre. C’erano vestiti ovunque, ammassati in pile altissime contro le pareti e sugli scaffali. Un negozio di vestiti, forse? Honey aveva frugato in lungo e in largo e sparpagliato vestiti sul pavimento, sperando di trovare una finestra dietro le pile di abiti. Ma niente, nada.
La gambe avevano smesso di tremare da un pezzo, ormai.
Se le davano da mangiare (cibo drogato probabilmente, ma pur sempre cibo), voleva dire che non avevano intenzione di ammazzarla. Non subito, almeno. JD le aveva parlato di una guerra tra bande. Era chiaro, i Polacchi volevano usarla come leva per espandersi nel territorio dei Coyote. E magari spillare soldi a suo zio Carlisle, già che c’erano. Cazzo, cazzo, cazzo! Quanto era stata cretina a tornare al negozio? Perché non ne combinava mai una giusta? Per di più era preoccupatissima per JD.
Si prese il viso tra le mani e ricacciò indietro le lacrime.
Ha solo perso i sensi, il colpo alla testa è stato fortissimo, non è morto, sta bene, non ti preoccupare, pensa solo a un modo per uscire da qui. Potrai disperarti e chiedere scusa quando sarai a casa.
La porta si aprì, lasciando entrare il tizio che sogghignava sempre. Honey aveva scoperto che si chiamava Stanlio. Un soprannome azzeccatissimo, vista la sua corporatura alta e allampanata.
«La vecchia Anelia ha detto che non hai gradito lo Zurek. Era molto offesa, nessuno rifiuta mai il suo Zurek».
Honey irrigidì la schiena e sostenne lo sguardo divertito di Stanlio.
«Non avevo fame».
«Ollio, hai visto che disordine, qui dentro? Abiti sparsi per terra, minestre rovesciate… non si può dire che ti sia annoiata in nostra assenza, vero, piccolina?».
Dietro di lui comparve Ollio, il tizio basso, massiccio e muto, che passò il mocio sul pavimento per ripulirlo dallo Zurek. Honey non lo perdeva di vista, mentre si massaggiava il polso destro.
«Per quanto tempo ancora avete intenzione di tenermi prigioniera?».
Stanlio sorrise.
«Piccolina, non so se te ne sei accorta, ma sei un ostaggio. E gli ostaggi non hanno il diritto di fare domande stupide. Non dovrebbero fare domande in generale, a essere precisi».
«Non me ne frega un cazzo se posso o non posso!».
Ridacchiando, Stanlio si inginocchiò di fronte a lei. Honey strisciò automaticamente indietro, fin quando non trovò la parete a sbarrarle la ritirata. Stupida, lo provochi anche? Non hai ancora imparato la lezione?
«Non avere paura, piccolina. Voglio solo raccontarti una storia», disse Stanlio. «Una storia con una morale. Ollio la conosce meglio di me, ma lui, come penso tu abbia già capito, non può raccontarla. Così dovrai accontentarti della mia versione».
Ollio era in piedi, dietro a Stanlio, appoggiato al bastone del mocio, e non batteva ciglio.
«Anche lui la pensava come te, sai? Riguardo alle domande stupide, intendo». Stanlio allungò una mano e il cuore di Honey fece una capriola, ma lui si limitò a sistemarle una ciocca dietro l’orecchio. «Un giorno il nostro capo gli assegna un compito. Ollio non è mai stato un pozzo di intelligenza, così chiede delucidazioni, vorrebbe chiarite un paio di cosette. Il nostro capo gli dice di obbedire e basta, non è compito suo fare domande. Ma Ollio è cocciuto, così insiste. E lo sai cosa fa, allora, il nostro capo?».
Una musichetta elettronica lo interruppe all’improvviso. Ollio gli porse un cellulare che squillava con insistenza.
«Pronto?», rispose Stanlio con espressione annoiata. «Sì. D’accordo, sì. Perfetto. Troppo buono, capo. È stata solo un’intuizione, lo sai che per me la banda viene prima di tutto. Okay, a dopo».
Stanlio restituì il cellulare a Ollio, che lo ficcò nella tasca posteriore dei jeans, e tornò a concentrarsi su Honey.
«Scusa l’interruzione, piccolina. Dunque, ero arrivato alla mia parte preferita. Il nostro capo è parecchio contrariato, così ordina a due dei suoi uomini, di quelli che non fanno mai domande, che obbediscono e basta, di tenere fermo Ollio. Poi prende un coltello…». La lama a serramanico apparve davanti al naso di Honey, che si appiattì il più possibile contro la parete. «Costringe Ollio ad aprire la bocca, gli solleva la lingua con la lama, presente come si fa con le ostriche? E poi… ZAC!».
Honey sussultò.
«Da quel giorno Ollio non fa più domande stupide. Obbedisce e basta. Morale della favola?». La lama ghiacciata del coltello contro la sua guancia le fece arricciare la pelle sulla nuca. «Il mio nuovo capo è molto soddisfatto dell’idea che ho avuto, ma mi ha raccomandato di non farti del male. Però io sono un tipo impulsivo, lui lo sa. Perciò se dovessi perdere le staffe per colpa della tua lingua lunga e decidere di accorciartela un po’, quella lingua, non credo che me ne farebbe una colpa». Stanlio le diede un buffetto sulla testa e si alzò. «Adesso dimmi, piccolina, hai ancora voglia di fare domande stupide?».
Il viso sorridente di Stanlio tremolava come un miraggio dietro le lacrime.
«Solo una», balbettò Honey, deglutendo a vuoto.
Stanlio allargò le braccia.
«Spara!».
«Posso andare in bagno?».
Stanlio scoppiò a ridere.
«Certamente! Ollio, accompagnala tu. Non vorrei mai che la nostra piccola ospite se la facesse addosso».



Nei momenti di stress, Wile si sedeva sul suo sgabello, al Coyote Club, cominciava a fumare e non finiva finché non vedeva il fondo del pacchetto di sigarette. Spiccicava parola solo per chiedere in prestito un’altra sigaretta, se riteneva di non essere ancora soddisfatto. Chi pratica lo zoppo impara a zoppicare, diceva suo padre. E probabilmente non aveva torto, dato che adesso, mentre Halona e Shiriki litigavano, JD se ne stava seduto accanto allo sgabello di Wile a fumare in silenzio.
«Non possiamo lasciare Voce D’Aquila in balia dei Polacchi, è solo una bambina ed è stata rapita per colpa nostra».
«Come siamo eroici, oggi! Saresti altrettanto ben disposto, se la bambina in questione non avesse un paio di grosse tette da palpare?».
«Amore mio, così mi offendi! Lo sai che preferisco un bel culo a un paio di grosse tette».
«Amore mio, un paio di palle! L’hanno rapita per ricattarci. Be’, non ho intenzione di lasciarmi fottere il territorio per colpa di una mocciosa di cui conosco a mala pena il nome. Ci penseranno suo padre e suo zio a tirarla fuori dalla merda. Ah, a proposito, JD. Grazie per avermi avvertito che ti scopavi la figlia di un ex-Polacco e la nipote del Cardinale, eh? Fa piacere sapere che hai sempre a cuore le sorti della nostra banda!».
JD si limitò a soffiarle il fumo in faccia. Halona tossì e disperse la nuvola agitando la mano. Stava giocando col fuoco, lui lo sapeva, ma in quel momento non gliene fotteva un cazzo. Non c’era una parte del suo corpo che non gli facesse male, eppure quel dolore era niente in confronto al nodo che gli aggrovigliava le viscere e al cappio al collo che gli mozzava il respiro.
«Non dici niente? Parla, cazzo!».
JD scivolò giù dallo sgabello e si avviò verso l’uscita.
«E adesso dove diavolo pensi di andare? Non abbiamo ancora finito, qui!».
«A me pare di sì, invece. Non posso costringervi ad aiutarmi. Vado al Goldfinger, forse lì potrò rendermi utile».
Halona lo trattenne per un braccio.
«Vorresti tradire i Coyote per passare dalla parte del Cardinale?».
Si divincolò con una calma glaciale dalla presa di Halona.
«Mettiamo in chiaro una cosa. Io non faccio parte della tua banda. Del resto, sei stata proprio tu a ripetermelo giorno e notte, giusto? Sono solo la mascotte. Non passo dalla parte di nessuno. Rimango dalla mia, di parte. Dalla mia e da quella di Honey».
«JD, non sei il solo ad esserci andato di mezzo. Hai dimenticato perché mi sono fatta tatuare la fascia nera sul braccio? Ho giurato sulla tomba di Cagnaccio che l’avrei fatta pagare cara, a quei maiali. L’attacco al negozio di Wile è solo uno dei tanti conti in sospeso che non vedo l’ora di saldare. Se sapessimo dove tengono la ragazzina, in modo da tirarla fuori da lì e poter dare loro quello che si meritano, sarei la prima a buttarmi nella mischia. Ma così…».
«Non devi giustificarti, Halona».
JD le voltò le spalle e fece per imboccare l’uscita, quando il suo cellulare squillò. Una volta sola. Un messaggio. Forse è Darla che aspetta in auto (Halona le aveva proibito di entrare al Coyote Club), pensò, mentre posava lo sguardo sul display retro-illuminato.
Rinchiusa magazzino, pile abiti ovunque. Forse negozio vestiti. No rispondere. Rosaspina.
Lo stupore lo paralizzò per un istante lungo quanto un secolo.
Quindi io potrei farmi chiamare Rosaspina! Che è sempre meglio di Honey. Non perdonerò mai mio padre per avermi condannata a un nome così stupido.
Il cappio al collo si era allentato appena appena. JD chiuse gli occhi e per la prima volta da quando era rinvenuto nel suo negozio, respirò a pieni polmoni. Sta bene, si disse. Ha trovato un modo per contattarmi, deve stare bene per forza. JD tornò sui suoi passi volando. Halona e Shiriki nel frattempo avevano ripreso a battibeccare.
«Stammi a sentire, Shiriki, se non… e tu che cazzo vuoi ancora? Fuori dalle palle!».
«Che tu sappia i Polacchi possiedono un negozio di vestiti?».
Halona inarcò un sopracciglio.
«No, perché?».
JD le passò il cellulare. Lei lesse il messaggio e sgranò gli occhi.
«Come fai a sapere che è veramente lei e non una trappola?».
«Il soprannome con cui si è firmata. Lo conosco soltanto io. Adesso abbiamo un piccolo indizio. Com’è che avevi detto, poco fa? La prima a buttarti nella mischia?».
Halona passò il cellulare a Shiriki e sbuffò.
«Non ci aiuta molto. Il capo dei Polacchi ci ha dato appuntamento a mezzanotte, al vecchio cantiere abbandonato della Pentex&Co. Non abbiamo il tempo di assaltare ogni singolo negozio di vestiti di Little Poland. Certo, se conoscessimo qualcuno che ha o ha avuto a che fare con la loro banda, forse…».
Shiriki riconsegnò il cellulare a JD, fissandolo dritto negli occhi.
«Be’, qualcuno che risponde a questo identikit JD lo conosce, se non sbaglio».
Halona spostò lo sguardo alternativamente da Shiriki a JD, fin quando la comprensione non le illuminò gli occhi.
«No, non se ne parla. Scordatevelo, con quel pazzo non voglio averci a che fare. È escluso!».
«Quel pazzo e suo cognato sono la nostra unica chance, Halona. Dobbiamo mettere da parte i nostri pregiudizi per avere la meglio sui Polacchi».
«Shiriki, quasi quasi ti preferisco quando ti comporti da vecchio porco».



Messaggio inviato.
Seduta sulla tazza di quello che assomigliava più a uno sgabuzzino che a un cesso, Honey si trattenne dall’esultare. Aspetta a cantare vittoria, non è ancora finita. Il difficile non era prendere, il difficile era rimette a posto senza farsi scoprire. Durante la segregazione in casa si era allenata molto a sfilare il cellulare dalla tasca di suo padre per chiamare JD di nascosto.
Cancellò il messaggio, tirò lo sciacquone, nascose il cellulare nella manica del chiodo di pelle, prese un bel respiro profondo e spalancò la porta del cesso. Ollio era appoggiato alla parete a braccia conserte.
«Ho finito», annunciò, facendo finta di massaggiarsi il polso destro. In realtà stava tenendo fermo il cellulare, per evitare che cadesse per terra.
Come sempre, Ollio non spiccicò parola. Si limitò a farle strada lungo lo stretto corridoio. Giunti davanti all'entrata della sua cella-magazzino, lui spalancò la porta e si fece da parte per permetterle di entrare. La soglia era leggermente rialzata rispetto al pavimento del corridoio e formava una piccola sporgenza.
Sia benedetto l’operario incompetente che ha costruito questo posto!
Fece finta di inciampare, come già aveva fatto all’andata, e si spalmò su Ollio per non cadere.
«Oh, cavolo! Che sbadata, ci sono cascata di nuovo!».
Il cellulare era scivolato nella tasca con successo e Ollio, intento a fissarle le tette, non si era accorto di nulla. Honey fece per allontanarsi, ma si sentì trattenere. Ollio le aveva passato un braccio intorno alla vita e, a giudicare dal suo sguardo, sembrava avere intenzioni molto precise.
«Lasciami. Lasciami subito!».
Le era uscita fuori una vocetta stridula, patetica. Forse era colpa del fiato che improvvisamente era venuto a mancare. O del cuore, che stava cercando di sfondare la cassa toracica.
«Co robisz, synu łajdaka!».
Una babbuccia volante colpì Ollio sulla testa, mancando di poco la faccia di Honey. Ollio allentò la presa con sguardo sorpreso, e lei ne approfittò per mettere le dovute distanze tra di loro. Nel frattempo, Ollio stava aprendo e chiudendo la bocca, come un pesce che boccheggia. Dalla sua espressione, Honey capì che stava inveendo. Contro la vecchia dello Zurek, per la precisione. Che invece non sembrava molto impressionata.
«Wrzask jest inutie. To miejsce nie jest burdel!», ribatté la vecchia, coi pugni puntellati sui fianchi larghi.
«Insomma, cos'è tutto questo trambusto?».
Stanlio apparve alle spalle della vecchia, col sorriso sulle labbra.
Ollio e la vecchia gli risposero contemporaneamente: il primo agitando il pugno e imprecando in silenzio; la seconda sbraitando in polacco.
«Calma, calma, calma. Non c’è bisogno di innervosirsi tanto. Ollio, Aniela ha ragione. Ti capisco, la piccolina ha un corpo niente male. Se avessi potuto, le avrei già dato una bottarella, anche più di una, e dopo ti avrei ceduto il posto. Ma non è questo il luogo per certe cose. Senza contare che il capo è stato molto chiaro. E tu non hai più una lingua da farti tranciare. Non so se mi spiego».
Ollio abbassò il pugno e sbuffò.
«Bravo». Stanlio si rivolse a Honey, sospirando. «Certo che voi donne siete un’inesauribile fonte di guai per noi uomini! Entra dentro, piccolina. Meno Ollio ti vede, meglio è».
Col cuore in gola, Honey non se lo fece ripetere due volte.



«Cerca di ragionare! Non puoi andare da solo, non sai nemmeno dove la tengono. Finirai solo col farti ammazzare!».
Carlisle aveva due casseforti, nel suo ufficio: in una teneva i contanti, nell’altra le armi. Ed era proprio quest’ultima che Zachariasz stava saccheggiando, riempendo col suo contenuto un borsone da palestra. Gli sarebbe tornato utile un fucile a canne mozze? Be’, nel dubbio…
«Zachariasz, mi stai ascoltando?».
Chiuse il borsone con un gesto secco e se lo caricò sulla spalla.
«Tu cosa proponi? Andare all’appuntamento? A mezzanotte, in un cantiere abbandonato. Questo sì che è un bel modo per farsi ammazzare! E anche se i Polacchi si attenessero ai patti, cosa vorresti fare?».
«Pagare tutti i soldi che mi chiedono, ovvio».
«Quelli vogliono il monopolio della droga. E magari anche il tuo locale».
Carlisle sbatté il pugno sulla scrivania.
«Glieli darò entrambi, allora! Si tratta di mia nipote, cazzo. Credi che tu sia l’unico a tenere a lei?».
«No, non lo credo affatto. E non lo credono nemmeno loro. Per questo l’hanno presa. E per questo devo andare da solo».
«Forse c’è un’altra soluzione».
Carlisle e Zachariasz si voltarono e strabuzzarono gli occhi quasi contemporaneamente. Il porco tatuatore era appena entrato nell’ufficio, con la stessa nonchalance con cui si varca la soglia di casa propria. Il primo impulso fu spaccargli la faccia con un manrovescio, sfortunatamente Carlisle reagì più velocemente.
«E a te chi cazzo ti ha fatto entrare?».
Benedetta comparve alle spalle del tatuatore. «Io».
Carlisle inarcò un sopracciglio.
«Tu quoque, Brute, fili mi!».
Lei fece spallucce.
«Dice di avere notizie di Honey».
Il borsone con le armi cadde per terra con un tonfo metallico, facendo sobbalzare tutti quanti.
«Hai la mia attenzione, tatuatore», disse Zachariasz.
«Honey è riuscita a mandarmi un messaggio. Non so come, ma c’è riuscita». Si avvicinò alla scrivania e gli porse il cellulare. «E… per la cronaca, mi chiamo JD».
Zachariasz lesse velocemente il messaggio.
«Rosaspina?».
«È… una cosa nostra, per questo non ho dubbi che sia stata lei a scrivere il messaggio. Ha idea di quale posto possa trattarsi?».
Zachariasz fissò il tatuatore (oh, al diavolo, JD!) attentamente. L’unica parte del corpo non tatuata era la faccia, ma i lividi e gli occhi gonfi ovviavano a quella mancanza. Zachariasz aveva una certa esperienza in fatto di ferite e contusioni. JD doveva provare un male fottuto, anche solo quando respirava, eppure se ne stava lì, in piedi davanti a un assassino e a un trafficante di droga, che per quanto ne sapeva lui avrebbero potuto volerlo morto, con una calma e una tranquillità che non erano normali. Aveva l’aria di uno che le prende senza implorare, vendendo cara la pelle. E uno così, di solito, se (anzi, non appena) ne ha l’occasione, restituisce indietro con gli interessi. A Zachariasz bruciava molto che Honey si fosse rivolta a JD e non a lui, ma non poteva negare che adesso cominciava a intuire cosa sua figlia avesse visto in JD. In ogni caso, non era quello il momento di fare il padre geloso.
«Il negozio di vestiti non mi dice nulla», disse infine.
«Una sartoria?», ipotizzò Carlisle, che nel frattempo aveva anche lui letto il messaggio.
Zachariasz scosse la testa. «Mai sentito niente del genere. Forse…». Sbarrò gli occhi. Come aveva fatto a non pensarci subito? «Il lava secco! La vecchia Anelia ha un lava secco a Greenpoint, con un magazzino in cui tiene tutti i vestiti da lavare! E Anelia è la madre di Ollio».
«Be’, finalmente un punto di partenza!».
A parlare era stata la vecchia del negozio, quella che lo aveva minacciato col coltello. Da dove era spuntata fuori? Zachariasz sbuffò e fulminò JD con un’occhiataccia.
«Dovevi proprio portartela dietro?».
«Poche storie, Polacco», abbaiò la vecchia. «Ti assicuro che l’antipatia è reciproca».
Carlisle stava assistendo alla scena con espressione perplessa, ma quando i suoi occhi si posarono sul coyote sulla spalla della vecchia, imprecò a mezza bocca. Assottigliò lo sguardo in direzione di Benedetta.
«Mi spieghi che ti pago a fare?».
Lei fece di nuovo spallucce.
«Non mi paghi abbastanza per mettermi contro una Coyote».
«Cardinale, io non ti piaccio, ma neanche tu piaci a me», disse la vecchia, appoggiandosi a palmi aperti sulla scrivania di Carlisle. «I Coyote non amano gli spacciatori, anche quelli che si limitano a trafficare nel loro locale. Però oltre alla reciproca antipatia, adesso abbiamo un’altra cosa in comune: conti in sospeso con i Polacchi».
«Qual è la tua proposta?», chiese Carlisle.
«So che siete preoccupati per la ragazzina e che vorreste correre a salvarla subito, ora che sapete dove si trova. Be’, ti chiedo di aspettare fino alla mezzanotte. Approfittiamo di questa occasione per rimettere in riga i Polacchi».
L’espressione di Carlisle era pensierosa. Non stava davvero prendendo in considerazione la proposta, vero?
«Carlisle, è di mia figlia che stiamo parlando, non la lascerò in balia di quei due pezzi di merda un minuto di più», disse Zachariasz.
«Sono d’accordo con lui», si intromise JD. «È troppo rischioso».
La vecchia scosse la testa.
«La ragazzina è la chiave per estorcerci quello che vogliono, non le faranno del male, almeno fino a quando non lo avranno ottenuto. Pensaci, Cardinale. Se adesso tu andassi a salvare la ragazzina, cosa avresti risolto? Domani, o tra una settimana, i Polacchi ne combinerebbero un’altra. La prossima volta qualcuno dei tuoi potrebbe venire accoppato. A me è già successo, e credimi, anche se non mi stai simpatico, non te lo auguro».
Carlisle guardò Zachariasz, nel suo sguardo una muta domanda.
«No, non chiedermelo. Fino a un momento fa avresti dato tutto, pur di salvarla».
«Perché ero convinto che non avessimo altre alternative. Adesso un’altra alternativa ce l’abbiamo, insieme ai rinforzi che ci servono. Tu li conosci meglio di chiunque altro, Zachariasz. Lo sai che non si daranno mai per vinti. Non saremo al sicuro, finché non avremo dato loro una lezione. Tu non sei onnisciente e onnipresente, come farai a proteggere ventiquattro ore su ventiquattro Isa e Honey? Ricordi? Non puoi murarle in casa a vita, nemmeno per un buon motivo. Ha ragione Halona, dobbiamo sfruttare l’occasione».
Honey, perdonami.
Zachariasz si limitò ad annuire.
Carlisle si rivolse a JD.
«Tu che dici, ragazzo?».
«Che potete andare tutti a ‘fanculo».
E uscì dall’ufficio senza voltarsi.
«Tutto suo nonno», disse la vecchia, sospirando. Poi allungò una mano verso Carlisle. «Allora, che ne dici? Sotterriamo l’ascia di guerra, almeno momentaneamente?».
Appoggiandosi al bastone, Carlisle si alzò in piedi e strinse la mano della vecchia. Le sue labbra erano distese nel solito ghigno da squalo.
«Però del capo dei Polacchi me ne occupo io».
«Mettiti in fila, cocco».



Cazzo, aveva finito le sigarette!
JD accartocciò il pacchetto vuoto nel pugno e sospirò. Mancavano ancora parecchie ore alla mezzanotte, i grandi capi avevano deciso e lui era solo una mascotte. Aveva perso il conto di quante sigarette aveva fumato da quando gli era stato comunicato il piano. Di questo passo avrebbe fatto la fine di Wile Coyote. Stava giusto considerando l’idea di smettere, quando una mano dalle unghie laccate di nero gli mise sotto al naso un pacchetto aperto di Marlboro. Accantonò immediatamente i buoni propositi e ne prese una.
«Grazie».
Darla prese posto accanto a lui. Il Goldfinger era deserto, quella sera. Il Cardinale l’aveva tenuto chiuso, per ovvie ragioni.
«Come va?».
«Alla grande!», rispose sarcastico.
Dopo il primo tiro, però, si sentì subito meglio.
«Qual è il piano, quindi?».
«Il Cardinale e Halona andranno all’appuntamento con i Polacchi. La buttafuori e uno dei due Mori al lava secco».
«E tu?».
«Sia io che Zachariasz volevamo andare con la buttafuori, ma ci hanno fatto notare che la nostra assenza all’appuntamento potrebbe insospettire i Polacchi. E poi, diciamocelo, in questo stato non sono nelle condizioni di salvare nessuno, mi sento come se mi avessero investito con un camion. Però…».
«…ti pesa non correre da lei subito». Darla abbozzò un sorriso. «È più forte di te, non è vero? Non puoi fare a meno di soccorrere le gatte randagie».
«Honey non è una gatta randagia».
«Io sì. E anche lei, in un certo senso». Darla si portò i capelli dietro l’orecchio e prese a giocherellare col piercing sul labbro, quello a forma di mano scheletrica. «Tu… sei sicuro di poter affrontare tutto questo?».
JD inarcò un sopracciglio.
«Ha importanza se posso o non posso?».
Lei fece spallucce.
«No, immagino di no. Solo, pensavo… che deve essere doppiamente difficile per te. Insomma, questa storia avrà riportato a galla vecchi ricordi, no?».
JD si tirò indietro i capelli. Lavoravano fianco a fianco da sette anni, ormai. Eppure la capacità di Darla di capirlo alla prima occhiata lo lasciava ancora di stucco.
«Mi sembra di rivivere tutto, ma in peggio. Con Juno… è successo tutto all’improvviso. Come se mi avessero mozzato una mano con un colpo d’accetta: un dolore intensissimo all’inizio, che si è affievolito con l’andare del tempo. Adesso, invece… è come se la mano me la stessero tagliando con una sega arrugginita. Quest’attesa è… un dolore atroce, infinito e continuo, non dà pace».
Darla posò la mano sul suo avambraccio, comprendo gli occhi gialli del gatto che si era tatuato appena qualche settimana fa.
«Andrà tutto bene».
Quando Darla diceva “Andrà tutto bene”, non lo diceva mai tanto per dire. Se lo diceva, significava che ci credeva veramente. E guardandola negli occhi, JD ne ebbe la conferma. Ne era convinta.
«Come fai a esserne così certa?».
«Perché quando ci sei di mezzo tu, JD, le cose vanno sempre bene. Per me è stato così».



Arrivare al Goldfinger e trovarlo chiuso era stato uno shock. Varcare la soglia e scoprire quello che era successo… be’, Marie Louise non era rimasta con le mani in mano. Aveva tenuto compagnia a Isa, la sorella del Cardinale. Non si erano mai incontrate prima di quel momento, ma Marie Louise era una mamma, capiva fin troppo bene cosa provava, perciò non c’era stato nessun imbarazzo. L’aveva presa per mano e portata in cucina, dove aveva chiesto a Liam se per piacere le preparava una tisana, di quelle per calmarsi. Non avevano parlato per niente, né tanto meno Marie Louise aveva cercato di riempire il silenzio con parole vuote, si era limitata a starle accanto, mentre Isa sorseggiava la sua tisana e fissava il vuoto con gli occhi gonfi.
La mezzanotte era ormai vicina, quando Zachariasz arrivò e Marie Louise li lasciò soli. Fuori dalla cucina, si imbatté nel Cardinale.
«Mia sorella è…».
«…lì dentro, con Zachariasz».
«Ah, okay. Allora aspetto. Volevo solo salutarla, prima di andare».
Per un po’ rimasero in silenzio, senza sapere cosa fare. L’imbarazzo li rendeva goffi e impacciati, come nuotare in una melma densa: ogni bracciata era una faticaccia. Sembrava passato un secolo da quando lui l’aveva accompagnata a casa e aveva scoperto dell’esistenza di Alex.
«Marie Louise, mi dispiace per ieri sera».
«Non è necessario che tu…».
«Invece sì! Ho frainteso le tue intenzioni, ho frainteso le tue parole e sono stato sgarbato nei tuoi confronti. Certo che ti devo delle scuse, è il minimo. Non faccio che vantarmi di quanto tratto bene le mie ragazze, come se ripeterlo in continuazione mi rendesse migliore ai…». Lasciò in sospeso la frase e serrò le dita intorno al pomo del suo bastone. «…agli occhi degli altri. Invece hai ragione tu, posso essere il pappone più gentile del mondo, ma sarò sempre un pappone. Tu devi pensare prima di tutto a tuo figlio. È giusto, lo capisco. Non hai idea quanto io lo capisca».
Marie Louise sorrise.
«Invece l’idea ce l’ho eccome, perché so quanto vuoi bene a Honey. E sì, sarai sempre un pappone, ma questo non significa che tu non sia anche qualcos’altro. Uno zio premuroso, ad esempio, e un brav’uomo».
Per un breve istante, Marie Louise lesse qualcosa negli occhi del Cardinale. Un barlume di gratitudine, come se lui non avesse aspettato altro in tutta la vita che sentirsi rivolgere quelle parole. Così, senza stare a pensare quanto poco coerente fosse quel gesto, si appoggiò alle sue spalle e gli diede un bacio. Sotto le sue mani, il Cardinale si irrigidì come un pezzo di legno. Le venne da ridere, ma si trattenne.
«Sta attento lì fuori, Cardinale. Torna a casa tutto intero».



Venti minuti alla mezzanotte.
José era alla quarta porzione da asporto di nachos e dal Goldfinger ancora nessun segno di vita. Benedetta gli aveva cortesemente suggerito di non ficcare il naso nei suoi affari, ma lui era uno sbirro e il naso negli affari degli altri ce lo ficcava per mestiere. Così quella sera aveva deciso di fare un salto al locale, giusto per dare un’occhiata in giro.
Peccato che lo avesse trovato inspiegabilmente chiuso.
Aveva fatto un giro intorno all’edificio e nel parcheggio, stando attento a non entrare nel raggio d’azione delle telecamere di sorveglianza. La Mercedes del Cardinale era al suo posto. Riconobbe anche l’auto di Benedetta, posteggiata tra altri quattro veicoli.
Qui gatta ci cova, aveva pensato.
Si era appostato con la sua auto, in modo da tenere d’occhio il parcheggio. E da allora non si era più mosso, se non per andare a pisciare o comprare roba da mettere sotto i denti. Non aveva prove che stesse succedendo qualcosa di grosso, solo indizi, ma quando le sue antenne da sbirro captavano segnali sospetti difficilmente si sbagliavano.
José prese due nachos e se li ficcò in bocca.
Provò a immaginare la reazione di Benedetta, se l’avesse trovato lì. Forse l’avrebbe malmenato un po’. Si ritrovò a massaggiare la mascella senza nemmeno rendersene conto, era capitato di continuo durante la giornata. Un po’ perché gli faceva ancora un male cane, un po’ perché il dolore riportava a galla quello che era successo. Certo, non gli sarebbe dispiaciuto ripetere l’esperienza, ma sapeva già che non sarebbe successo. C’erano troppi però in mezzo.
Sarebbe bello. Però io sono uno sbirro. Però ho due figli piccoli. Però lei lavora per un presunto trafficante di droga. Però non sembra la tipa da romanzi rosa.
Be’, nemmeno tu, se è per questo.

Un rombo di motore interruppe le sue elucubrazioni.
La Mercedes del Cardinale era stata messa in moto, così come l’auto di Benedetta e una vecchia Ford. Si diede del coglione, per essersi lasciato distrarre come un pivello. Nel frattempo le tre auto erano uscite dal parcheggio: alla prima svolta imboccarono strade diverse.
E adesso? Chi cazzo seguiva? L’auto di Benedetta o la Mercedes del Cardinale e la Ford che le andava dietro?
Il José che si stava ancora massaggiando la mascella diceva Benedetta. Lo sbirro, invece, suggeriva il Cardinale. Accese l’auto a fari spenti, mentre si ficcava altri tre nachos in bocca, e uscì dal suo nascondiglio. ‘Fanculo, si disse.
Alla fine prevalse lo sbirro.



Il cantiere abbandonato della Pentex&Co. era un cimitero di carcasse arrugginite, scheletri di ferro, scavatrici assaltate dalle erbacce e pilastri in cemento armato che assomigliavano a tante lapidi messe in fila. I lavori erano stati bloccati quando JD era solo un marmocchio, a causa di qualche magagna giuridica di cui lui non si era mai veramente interessato, e da allora non erano più ripartiti. Di giorno il cantiere era il parco giochi degli Skaters e l’album da disegno dei Writers; di notte invece diventava il terreno neutrale sul quale bande rivali potevano fronteggiarsi indisturbate.
Avevano posteggiato le auto accanto alla gru più alta, il punto di riferimento per l’appuntamento. Il capo dei Polacchi aveva preteso che non si presentassero più di tre uomini per parte. Perciò Halona aveva portato con sé JD e Sam. Il Cardinale, invece, aveva preferito che il Moro di nome Liam restasse di guardia al Goldfinger, così si era fatto accompagnare solamente da Zachariasz. Ovviamente non erano così ingenui da credere che i Polacchi si sarebbero attenuti ai patti.
«Shiriki e gli altri sono già qui?», chiese JD smontando dall’auto.
Halona annuì, scrutando l’oscurità che inghiottiva i muri di cemento.
«Sì, sono appostati qui intorno, ci copriranno le spalle».
«Bene».
JD si sedette sul cofano della sua auto, con Gina poggiata sulle gambe. Zachariasz gli si avvicinò e gli porse una pistola.
«Prendi questa», gli disse. «Ti sarà molto più utile di quella».
JD scosse la testa e diede una pacca affettuosa a Gina.
«Grazie del pensiero, ma anche Gina ha un conto in sospeso con i Polacchi. Non mi sembra giusto negarle questo piacere».
Carlisle inarcò un sopracciglio.
«Hai dato un nome da donna a una mazza da baseball?».
Halona, intenta a caricare la pistola, sbuffò.
«È stato suo nonno, non lui. Ma fatemi un cazzo di favore, non chiedetegli di raccontarvi il perché. Non sono in vena, stasera».
«Tu non sei mai in vena», replicò JD.
La risposta piccata di Halona venne preceduta dallo stridere di pneumatici sul pietrisco. Il buio si solidificò in un SUV nero, tra due container, che si fermò a una decina di metri dalle loro auto. La portiera dal lato del guidatore si aprì, lasciando uscire Stanlio. Dall’altro lato smontò un tizio con una cicatrice sulla guancia, che JD non conosceva.
«Dove hai lasciato Ollio?».
Stanlio ghignò nella sua direzione.
«A tenere compagnia alla tua fidanzatina, JD. É uno sporco lavoro, ma qualcuno deve pur farlo… non che a Ollio dispiaccia, anzi!».
JD serrò le dita intorno al manico di legno di Gina, ma Zachariasz poggiò una mano sulla sua spalla.
«Manteniamo la calma».
«Senti chi parla».
Intanto Stanlio era andato ad aprire la portiera posteriore. JD udì un piccolo tonfo, come se qualcuno fosse saltato giù dal SUV. Intravide solo due piedi. Piedi molto piccoli. E quando Stanlio chiuse la portiera, il capo dei Polacchi apparve dinnanzi a loro in tutta la sua imponenza.
«Buona sera, signori». Sorrise in direzione di Halona, che ricambiò con una smorfia. «E signore, ovviamente. Splendida notte per gli affari, non trovate? Zachariasz, è un piacere rivederti. Ti chiederei come sta la famiglia, ma… come dire?». Fece spallucce. «Ops!».
La faccia di Zachariasz era una maschera di cera. I suoi occhi due pozzi senza fondo.
«Ne hai fatto di strada dall’ultima volta che ci siamo visti, Trucizna».
«Sono un uomo ambizioso. Lo diceva anche il nostro vecchio capo, ricordi? “Sei ambizioso il doppio, perché sei alto la metà di un uomo normale”, diceva». Trucizna allargò le braccia, come per dire “eccomi qua”. «Non aveva torto, in fondo. Raramente ne aveva. Mi è dispiaciuto doverlo fare fuori. È il rovescio della medaglia di essere ambiziosi il doppio, suppongo».
Non poteva essere alto più di un metro. Camminava tra Stanlio e l'altro Polacco, che superavano entrambi il metro e ottanta, e faceva impressione. JD, però, non si lasciava ingannare dalle apparenze, i tatuaggi di Trucizna parlavano chiaro. Sulle sue braccia e sul collo erano state tatuate delle fasce rosse, come quelle di Zachariasz e Stanlio. Solo che Zachariasz e Stanlio ne avevano una per braccio e una sul collo. Le braccia di Trucizna erano piene, invece. E il collo era ormai completamente rosso.
«Cardinale, sono contento che anche tu abbia accettato il mio invito. Ti è piaciuto il mio sigaro cubano? Ne ho una scorta intera, a casa. Passa quando vuoi, te ne regalo dieci pacchetti, senza complimenti, dico sul serio!».
Il Cardinale dovette chinarsi per stringergli la mano. E si vedeva che la cosa non gli andava giù.
«Bene», esclamò in fine Trucizna, strofinandosi le mani come una mosca su un mucchio di letame caldo e fumante. «Bando alle ciance, cominciamo!».
Mentre i due capibanda e il Cardinale si riunivano intorno a una piantina della città, discutendo di confini e monopoli, JD si mantenne in disparte, insieme a Zachariasz.
«Trucizna… sembra un nome da donna».
«L’ultimo che ha detto una cosa del genere davanti a lui si è beccato una pallottola in fronte».
Il sopracciglio di JD ebbe un sussulto.
«Promettente. Ha un significato particolare?».
Zachariasz annuì, senza perdere di vista Trucizna.
«Veleno. Significa veleno. Perché il veleno più potente sta nella boccetta più piccola».







_____________







Note autore:
Il polacco della vecchia Anelia viene dal traduttore automatico di google, purtroppo non conosco nessuno che parli il polacco. Se qualcuno tra di voi invece lo conosce e trova errori nelle frasi riportate (ce ne saranno di sicuro, non mi fido affatto del traduttore di google), non si faccia scrupoli a bacchettarmi e a mandarmi le frasi corrette. Ecco le traduzioni delle battute:
- Jest moją specjalnością […] Nazywa Żurek --> Questa è la mia specialità […] si chiama Żurek.
- Jeść zupę, aż będzie gorąca --> Mangia la zuppa, finché è calda.
- Głupia dziewczyna vizziata! --> Stupida ragazza viziata!
- W Afryce dzieci głodują, nie wstyd ci? --> In Africa i bambini muoiono di fame, non ti vergogni?
- Co robisz, synu łajdaka! --> Che stai facendo, mascalzone!
- Wrzask jest inutie. To miejsce nie jest burdel! --> Urlare è inutile. Questo posto non è un bordello!
Nient’altro da aggiungere.
Come sempre, un enorme grazie a tutti.
A lunedì!

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** Capitolo 8 ***


Capitolo 8




«Porteresti mai la tua roba in un lava secco che si chiama La Macchia?».
L’ombra che il lampione proiettava sul marciapiede si allungò fino alle ruote posteriori della sua auto, poi si allargò in una sagoma massiccia e alla fine si condensò in un Moro alto quasi due metri. Passare inosservati confondendosi tra le ombre era la specialità di Thresh e di suo fratello Liam, che nel loro ambito professionale erano conosciuti non a caso come Le Ombre.
«A parte constatare la pessima operazione di marketing della vecchia Anelia, hai trovato qualcosa?», chiese Benedetta.
«Sul retro non ci sono né porte né finestre. Però c’è una scala antincendio, che sale fino al tetto. Forse possiamo entrare da lì. Se c’è una scala, c’è anche una porta».
«E se c’è una porta, c’è anche chi la sorveglia».
Appoggiata alla fiancata della sua auto, Benedetta diede uno sguardo col binocolo a visione notturna. Il lava secco La Macchia era un blocco di cemento quadrato. L’ingresso principale era sbarrato da una saracinesca corrosa dalla ruggine. I neon dell’insegna traballavano, la A finale di Macchia era completamente spenta. L’intonaco era marcio di umidità. Benedetta ci avrebbe scommesso le tette, il lava secco veniva mantenuto in vita per accanimento terapeutico. Era un’ottima attività di copertura, in effetti.
«Allora?», chiese Thresh.
«Il tetto sembra sgombro, ma è difficile appurarlo con certezza da quaggiù».
«Non mi piace lavorare alla cieca».
Benedetta lasciò cadere il binocolo sul sedile del guidatore, attraverso il finestrino aperto.
«Dov’è finito il tuo spirito avventuroso?».
«Mai avuto. Sono un tipo meticoloso e mi piace prevedere tutto. Hai già pensato a come procedere?».
«Di entrare dall’ingresso principale non se ne parla. Saliamo sul tetto e vediamo cosa ci riserva il destino. Se c’è una porta e riusciamo a entrare, io vado avanti e tu mi copri le spalle».
«Non mi piace rimanere nelle retrovie».
«C’è qualcosa che ti piace, almeno?».
Il ghigno di Thresh era una lama bianca nell’oscurità.
«Sì, spezzare colli».
Benedetta roteò gli occhi.
«Secondo te quanti uomini ci sono lì dentro?».
«Difficile a dirsi. Un cecchino sul tetto, di sicuro. Qualcuno in fondo alla scala che porta al tetto. E poi… boh? L’edificio non è molto grande. Ci sono pochi punti di accesso. Direi… due nell’ingresso principale e uno a sorvegliare la stanza in cui tengono Honey. O almeno io farei così. Stanno tenendo sotto chiave una ragazzina, in fondo, non un ninja super addestrato».
«Che ore sono?».
Thresh diede uno sguardo all’orologio da polso.
«Mezzanotte e un quarto».
Benedetta tolse la sicura alla pistola.
«Bene, allora. Cominciamo dal tetto».



«Mi prendi per il culo, Trucizna?».
«Se ti avessi preso per il culo, te ne saresti accorta, Halona. Immagino tu sappia cosa si dice degli uomini bassi, no?».
«Tieniteli per te i tuoi doppi sensi del cazzo. Questo non è un accordo ragionevole, questo è un furto!».
Se JD non avesse saputo del piano, non avrebbe mai detto che Halona stesse fingendo. Ci stava mettendo davvero tanta passione nell’interpretare la parte del capobanda oltraggiato. Probabilmente la sfrontatezza di Trucizna e l’odio che lei covava nei suoi confronti la aiutavano non poco a calarsi nella parte. Il Cardinale, invece, era rimasto in silenzio per la maggior parte del tempo. Ovvio, lui era lo zio preoccupato, che avrebbe fatto di tutto pur di salvare la nipote.
«Accordo ragionevole? Chi ha mai parlato di accordo ragionevole?». Trucizna scosse la testa. «Forse dimentichi che ho il coltello dalla parte del manico, mia dolce Halona».
«Fai meno lo sdolcinato, nano malefico. Me ne sbatto altamente della ragazzina, per quanto mi riguarda potete anche scioglierla nell’acido. Non ti cederò mai il mio club e Williamsburg Nord».
Il Cardinale fece un passo avanti.
«Bada a come parli, cagna!».
«Tu non hai voce in capitolo, razza di storpio con la cresta! Se mi trovo nella merda è tutta colpa di quella puttanella di tua nipote».
«Ancora una parola, Coyote. Solo una…».
«Signori, ma insomma!».
Trucizna si era frapposto tra il Cardinale e Halona, facendo finta di volerli separare. In realtà si vedeva da un miglio di distanza che si stava divertendo un mondo. JD fu colto da un’immagine mentale di lui che saltellava allegro come un bambino su un tappeto di cadaveri. La trovò molto azzeccata.
«Si è portato i rinforzi, proprio come avevamo previsto», bisbigliò Zachariasz, al suo fianco.
«Come fai a dirlo?».
«Lo vedi quel cumulo di macerie, appena cinquanta metri oltre la gru?».
JD annuì e assottigliò lo sguardo, fissando attentamente il punto indicatogli da Zachariasz. Impiegò qualche istante, ma poi lo vide anche lui. Un fioco baluginio. In caso di necessità, i Polacchi sarebbero saltati fuori colpendoli alle spalle.
«La canna di un fucile?».
«Probabile».
Trucizna nel frattempo gettava benzina sul fuoco.
«Ascolta, Halona. Queste sono le mie condizioni. Se non sei d’accordo, per me non c’è problema, faccio una chiamata e pożegnanie! alla ragazzina. Torniamo tutti a casa e riprendiamo la nostra bella disputa da dove l’avevamo lasciata. Tu, però, sei sicura di volere la vita di una fanciulla innocente sulla coscienza?».
Il Cardinale lasciò cadere il mozzicone di sigaro e lo spense con la punta del mocassino.
«Forse a lei le tue condizioni non stanno bene, ma a me sì. Ti cedo il mio club, anche il monopolio della droga. Non me ne fotte un cazzo, ti darò tutto quello che vuoi. Non ti basta?».
Trucizna poggiò la mano sul petto, all’altezza del cuore. Con un’espressione stucchevole sul viso.
«Oh, Cardinale. Il tuo attaccamento alla famiglia è davvero commovente. Ma che me ne faccio del monopolio della droga se non ho un quartiere in cui sfruttarlo? Mi spiace, ma se Halona dice no, non se ne fa niente, prendere o lasciare».
Il Cardinale e Halona si guardarono in cagnesco, senza dire alcunché. Stavano cercando di prendere tempo, era ovvio.
JD spostò il peso del corpo da una gamba all’altra, nervoso come un cavallo nel suo box, e tornò a sedersi sul cofano della Ford. Stare in disparte ad assistere a quella messa in scena senza poter fare nulla era un’agonia. E Zachariasz doveva essere del suo stesso avviso, perché era teso e rigido come un fascio di nervi.
«Cosa non darei per accorciare quel nano di qualche altro centimetro», disse, infatti, poco dopo.
Stanlio li stava fissando, col solito sorrisetto. JD gli restituì il sorriso.
«A chi lo dici».



La prima cosa da fare era individuare le telecamere e aggirarle, perché era da idioti pensare che un posto usato come copertura da una banda di criminali non avesse un sistema di sorveglianza. E infatti ce n’era una in cima alla prima rampa della scala antincendio. Fortunatamente il conto in banca del Cardinale era uno spazzaneve che apriva la strada verso il mondo dei balocchi.
«L’hai vista?».
«Ci penso io».
Thresh sfruttò delle intercapedini nel muro per arrampicarsi e arrivare alle spalle della telecamera. Aggrappandosi alla ringhiera, intaccò la gomma che rivestiva i cavi con la lama di un coltellino e applicò sui fili elettrici scoperti una specie di pinzetta. Al riparo dietro il cassonetto dei rifiuti, Benedetta cominciò a contare venti secondi, il tempo necessario affinché il dispositivo registrasse un’immagine della via sgombra e la riproducesse sul monitor di sorveglianza al posto di quella reale.
…diciannove, venti.
Sgusciò fuori dal suo nascondiglio e salì rapidamente la prima rampa, proprio mentre Thresh scavalcava la ringhiera. Le successive tre rampe erano sgombre da telecamere, ma una volta raggiunto il tetto si sarebbero trovati faccia a faccia con la canna di un fucile.
Per fortuna l’oscurità giocava a loro favore.
Si sporsero oltre il muricciolo che costeggiava il perimetro del tetto quel tanto che bastava per dare un’occhiata e decidere di conseguenza. Come volevasi dimostrare, davanti alla porta del lucernaio c’era un uomo col fucile spianato, che rivolgeva nella loro direzione il fianco destro. A Thresh e Benedetta fu sufficiente una sola occhiata di intesa per accordarsi. Mentre lei rimaneva indietro a coprirgli le spalle, lui saltò oltre il muricciolo. Le suole delle sue scarpe si posarono sul catrame di cui il tetto era foderato senza produrre alcun suono. Benedetta lo vide fondersi nella notte e qualche istante più tardi apparire alle spalle dell’uomo, silenzioso come un’ombra. Il cecchino non ebbe nemmeno il tempo di urlare. Cadde a terra come un fantoccio, con il collo rotto. Quando Benedetta lo raggiunse, Thresh stava contemplando la sua opera col sorriso sulle labbra. Lei inarcò un sopracciglio.
«Non scherzavi sui colli rotti».
«E nemmeno sul rimanere nelle retrovie».
Forzarono la serratura della porta ed entrarono. Una scala a chiocciola di metallo sprofondava giù per diversi metri. Dovettero scendere lentamente, uno scalino alla volta, perché il rumore dei loro passi sul ferro zincato avrebbe potuto tradirli. A due metri da terra, Benedetta intravide un altro uomo armato. Senza pensarci due volte, si lanciò e lo atterrò precipitandogli addosso. Un coltello nel fianco lo mise definitivamente a tacere. Thresh scese rapidamente gli ultimi scalini rimasti e l’aiutò a nascondere il cadavere nel sotto scala. Dai piedi del corpo partiva una scia di sangue.
«Vedi perché preferisco i colli rotti? Non sporcano e non lasciano tracce».



Quando la Mercedes del Cardinale e la vecchia Ford che la scortava erano entrate nel vecchio cantiere abbandonato della Pentex&Co., José era stato costretto a fermarsi. Se fosse entrato anche lui con la sua auto, lo avrebbero scoperto di sicuro. Così aveva posteggiato dietro a un camion e aveva tenuto d’occhio l’ingresso del cantiere con un piccolo binocolo. Una decina di minuti più tardi, era arrivato un SUV nero che, esattamente come la Mercedes del Cardinale, era entrato nel cantiere.
José si era fatto un’idea precisa di quello che stava succedendo, gli serviva solo una piccola verifica. Tolse la sicura alla pistola, la assicurò nella fondina e scese dall’auto. Muoversi a tentoni in un posto dove a ogni passo rischiavi di poggiare il piede su un chiodo arrugginito o di cadere in una buca non era quello che si dice uno spasso, ma non poteva accendere la torcia senza rischiare di segnalare agli altri la sua presenza. E poi vedeva delle luci, a una cinquantina di metri di distanza. Erano i fari delle tre auto, accesi. Si nascose dietro un pilatro incompleto, dal quale fuoriuscivano quattro ferri arrugginiti, e lanciò un’occhiata in direzione dei tre veicoli.
Porca puttana, avevo ragione!
C’erano il capobanda dei Polacchi, Marek Bagiński detto Trucizna, la proprietaria del club che faceva da punto di ritrovo per i Coyote, Halona Birmingham, e il presunto Cardinale. Tutti e tre muniti di scorta. E sicuramente non si erano dati appuntamento lì per una scampagnata notturna. Stavano discutendo animatamente. Quelli più incazzati erano il Cardinale e Ha…
Che è stato?
Uno scricchiolo alla sua destra aveva attirato la sua attenzione. José strizzò gli occhi, perché il buio era impenetrabile e i fari accesi delle auto lo abbagliavano (e poi, ammettilo, stai diventando vecchio) e finalmente lo mise a fuoco. Un uomo. Anzi, no. Parecchi uomini. Uomini armati fino ai denti. Che si nascondevano, pronti a scattare.
Oh, merda. Merda merda merda!
Fece immediatamente dietrofront. Doveva tornare alla macchina e chiamare i rinforzi, prima che quel cantiere si trasformasse in fottutissimo mattatoio.



Lo scatto della serratura la svegliò di soprassalto. Quando la porta si aprì, il rettangolo di luce proveniente dal corridoio la fotografò sepolta sotto parecchi capotti tarlati e maglioni alla naftalina. Pur di non morire congelata sul pavimento, si era raggomitolata come un gatto su un mucchio di vestiti puzzolenti. Si stropicciò gli occhi, ancora mezza addormentata.
«Che è successo? Che ore sono?».
Nessuna risposta.
E non era mai un buon segno, quando nessuno rispondeva.
La figura massiccia di Ollio si stagliò improvvisamente contro la luce dei neon. L’ombra che proiettava sul pavimento era esattamente al centro del rettangolo di luce e talmente lunga da arrivare a sfiorare la punta delle scarpe di Honey. Non riusciva a scorgerlo in viso, ma qualcosa le diceva che Ollio non aveva buone intenzioni. In un attimo fu sveglia come un grillo.
«Dov’è Stanlio?».
Perché diavolo continui a fare domande? Tanto non può rispondere. Piuttosto togliti dalla posizione di svantaggio e cerca velocemente un oggetto contundente!
Honey si alzò in piedi, ma era così spaventata che inciampò nella manica di un maglione e cadde carponi. Fu allora che lo sentì avvicinarsi. L’istinto di sopravvivenza ebbe la meglio e lei si ritrovò di nuovo in piedi senza nemmeno sapere come aveva fatto. Ancora traballante, ma in piedi.
La luce del magazzino si accese e finalmente riuscì a scorgerlo in faccia.
Ollio era serissimo in volto, ma i suoi occhietti celesti, di un celeste acquoso, slavato, le scivolavano addosso come la lingua viscida e flaccida di un cane. Si studiarono in silenzio per un po’, in piedi, l’uno di fronte all’altra. Lui sembrava calmo, ma il modo in cui apriva e chiudeva spasmodicamente il pugno lasciava trapelare una sinistra frenesia, una corrente impetuosa sotto il pelo dell’acqua. Honey invece era un budino tremolante.
«Stanlio ha detto che non hai il permesso di farmi del male».
Ha detto anche che ti avrebbe tagliato la lingua, nonostante gli ordini del suo capo.
Stava solo cercando di prendere tempo, in cerca di qualcosa con cui difendersi. Lo aveva già cercato diverse volte, in realtà, nel corso della giornata, ma non aveva trovato nulla, nemmeno un paio di scarpe. Aspetta, scarpe? Si tolse rapidamente un anfibio e lo impugnò a mo’ di martello.
«Questi cosi pesano un quintale, non ti conviene avvicinarti».
Per la prima volta vide Ollio sorridere.
E così seppe di non avere scampo.
Scattò contro di lei mezzo secondo più tardi, lei provò a scansarsi, ma togliersi un solo anfibio non era stata una mossa geniale. Dopo il primo passo zoppicante, cadde nuovamente sul pavimento. Lui le saltò subito addosso, afferrandola per i capelli e strattonandoli con forza.
Ollio ha una fissa per i capelli delle ragazze, adora afferrarli e tirarli.
Honey aveva ancora l’anfibio in mano, provò a darglielo sulla testa, ma lui riuscì a parare il corpo con un braccio. Lei però non aveva intenzione di arrendersi, né di mettersi a piagnucolare. Mira ai punti deboli, gli diceva sempre Benedetta. La parola chiave è “palle”. Palle degli occhi e coglioni. Mentre lui cercava di tenerla ferma con le gambe, Honey si mise a scalciare come una gatta. Gli graffiò il viso e riuscì a ficcargli due dita nell’occhio destro. Ollio mollò immediatamente la presa su di lei, urlando di dolore. Per gridare non ti serve la lingua, eh, pezzo di merda? Lo spinse di lato e riuscì a sgattaiolare via da sotto il suo corpo. Afferrò l’anfibio e si rimise in piedi. Ma anche Ollio si era alzato, e di nuovo avanza verso di lei, con un occhio rosso e la bocca aperta che gli tagliava in due la faccia. Honey si preparò a colpirlo con l’anfibio, quando…
BAM!
Ollio cadde per terra, gemendo e contorcendosi come un verme infilzato su un amo.
«Maledetto bastardo, adesso te lo faccio vedere io dove lo puoi ficcare il tuo lurido uccello!».
Honey non ci stava capendo più un cazzo, il suo cuore era andato a ballare la samba tra le ginocchia. Forse stava avendo un’allucinazione, forse era morta. Perché Benedetta le era appena passata accanto come un toro imbufalito (come una mandria intera di tori imbufaliti, in realtà), con una pistola fumante in mano, e adesso stava tempestando di pugni la faccia del suo aggressore. Quando però la vide sguainare il coltello e bisticciare con la cintura di Ollio, si riscosse.
«Benedetta, no!».
Non aveva la più pallida idea di quali fossero le intenzioni di Benedetta, sapeva solo che non si trattava di un pompino. La trattenne per un braccio e si mise in mezzo, tra lei e Ollio.
«Lascialo stare, non ne vale la pena!».
Benedetta aveva il fiato corto e gli occhi spiritati.
«Quel porco stava…».
«Ho un debito con sua madre».
Thresh apparve da chissà dove. Reggeva la pistola con due mani e teneva d’occhio il corridoio, gettandosi occhiate guardinghe alle spalle.
«Si può sapere che cazzo combinate, là dentro? Ho sentito dei rumori. Lo sparo avrà messo in allerta gli altri. Ci arriveranno addosso in men che non si dica, dobbiamo sbrigarci».
Benedetta stava fissando Honey, era chiaramente combattuta. Aprì la bocca per dire qualcosa, ma Thresh la precedette.
«Merda, non c’è tempo!».
«E va bene, porco cazzo!». Benedetta rinfoderò il coltello. «Sentito che ha detto? Andiamo!».
Honey sorrise, ma invece di obbedire si voltò verso Ollio. Era stato colpito all’addome e perdeva parecchio sangue.
«Ringrazia Aniela. Se sopravvivi, vedi di trattarla come si deve, intesi?».
E prima che Benedetta riuscisse ad acciuffarla e a trascinarla fuori, riuscì finalmente a dargli sulla testa il fottutissimo anfibio.



Trucizna batté le mani, entusiasta.
«Sono così contento che alla fine abbiamo raggiunto un accordo, mi sarebbe dispiaciuto fare fuori tua nipote, Cardinale. Stanlio mi ha detto che è proprio un bel bocconcino».
L’ilarità di Stanlio confermava le parole del suo capo. Cristo, che voglia matta di cancellargli quel fottuto sorrisetto dalla faccia a colpi di mazzate. JD dovette mordersi la lingua per non saltare addosso a Stanlio subito.
«Be’, sarà meglio per Stanlio che nessuno le abbia torto un capello», disse il Cardinale.
Trucizna sgranò gli occhi, con finta espressione oltraggiata.
«Così mi offendi, però. Credi forse che sia il tipo d’uomo che non si attiene ai patti?».
«Sto solo mettendo le cose in chiaro».
Halona imprecò.
«Possiamo darci un taglio, qui? Stiamo facendo giorno».
«Ma certo!», trillò Trucizna, schioccando le dita. «Sono subito da voi».
Stanlio prelevò una ventiquattrore dal SUV e gliela porse. Mentre Trucizna apriva la valigetta e ne estraeva dei fogli, Zachariasz diede di gomito a JD. Il Cardinale era intento a fissare lo schermo del suo cellulare. Per un millesimo di secondo, JD vide dipingersi sul suo volto un ghigno da squalo. Dal modo in cui aveva irrigidito le spalle, anche Halona doveva essersene accorta. Il cuore di JD fece una capriola per il sollievo.
«Dovete solo firmami i documenti di cessione dei vostri club», disse Trucizna, tornando da loro con i fogli. «Non preoccupatevi, penserò io a compilarli per voi. Cardinale, poi ovviamente dovrai presentarmi i tuoi fornitori e ufficializzare il passaggio di consegna. Mentre tu, Halona, be’, per quanto riguarda la potestà su Williamsburg Nord, sarà un po’ più complicato rendere ufficiale il tutto, ma sono certo che troveremo un modo pratico ed efficiente».
La risata del Cardinale era amara e incrinò il sorriso mieloso di Trucizna.
«Se pensi che firmerò qualcosa prima di vedere mia nipote sana e salva, ti sbagli di grosso».
«Eh, no. No, no, no. Cardinale, anche io voglio mettere le cose in chiaro. Non mi crederai così stupido da lasciare libera tua nipote prima di aver ottenuto quello che ho chiesto?».
«Avevi detto…».
«Avevo detto che ci saremmo incontrati qui a mezzanotte per discutere delle condizioni per il rilascio di tua nipote, non che l’avrei liberata questa sera stessa. Quella ragazzina è la mia polizza assicurativa, cerca di capirmi».
«Fammici almeno parlare, voglio essere sicuro che stia bene. Poi firmerò tutto quello che vuoi».
Trucizna fece finta di rifletterci su, accarezzandosi il mento. Ha proprio una passione per il teatro questo qui, pensò JD.
«Massì, mi sembra un buon compromesso». Schioccò di nuovo le dita e subito Stanlio gli mise un cellulare in mano. «Solo un paio di minuti, però. Va bene essere magnanimo, ma non esageriamo, eh?».
Compose il numero, fischiettando, si portò il cellulare all’orecchio e rimase in attesa. Per diversi minuti.
«Qualcosa non va, Trucizna?», chiese Halona, sorridente.
«Forse non c’è campo», suggerì il Cardinale.
«Non risponde nessuno». Trucizna si voltò a guardare Stanlio. «Perché non risponde nessuno?».
«Io, io…».
«Te lo dico io perché», si intromise il Cardinale. Che adesso non si preoccupava più di camuffare il suo ghigno da squalo. «Non risponde nessuno, perché sono tutti morti».



«Mandato?», chiese Benedetta, senza perdere di vista la strada.
Thresh mise via il cellulare e annuì.
«Sì, adesso i Polacchi avranno pane per i loro denti».
Honey se ne stava rannicchiata sul sedile posteriore dell’auto di Benedetta. La siringata di adrenalina, dovuta alla fuga da quella che per lei era stata una specie di Alcatraz, si era esaurita velocemente come un fuoco di paglia, lasciandola infreddolita e tremante. Era esausta, affamata e si sentiva le mani di Ollio ancora addosso. Rabbrividì.
«Staranno bene, vero? Non succederà niente a nessuno, giusto?».
Benedetta e Thresh le avevano raccontato brevemente cosa era successo, mentre lei era stata rinchiusa nel magazzino. Non riusciva a toglierselo dal cervello, quel maledetto tarlo. Che scavava e scavava e scavava. Era tutta colpa sua. Suo padre, JD, suo zio, Halona, Shiriki… stavano tutti rischiando la vita a causa sua, perché non aveva saputo obbedire a un ordine esplicito, aveva fatto di testa sua, come al solito. Era proprio una bambina viziata.
Benedetta le lanciò un’occhiata indagatrice attraverso lo specchietto retrovisore.
«Non ti preoccupare, ragazzina. È tutta gente in gamba, che sa il fatto suo».
«Sì, ma…».
«Niente ma. Adesso ti accompagniamo al Goldfinger, lì sarai al sicuro, ci sono tua madre e Liam. Thresh ed io invece andremo al cantiere, per dare una mano».
Honey raccolse le gambe al petto e poggiò il mento sulle ginocchia. Fuori dal finestrino, la città correva veloce. Le casette a schiera e i negozietti di Greenpoint lasciavano il posto poco a poco alle case a due piani ricoperte di murales di Williamsburg. Il Goldfinger era vicino.
«Riportateli a casa sani e salvi, allora».
L’occhiata di Benedetta nello specchietto retrovisore sembrò addolcirsi per un istante. Ma forse erano solo la stanchezza e i sensi di colpa ad averle giocato un brutto scherzo.



«Morti?».
Trucizna aveva gli occhi fuori dalle orbite. Il Cardinale annuì, sempre sorridendo come uno squalo. Lasciò cadere il bastone, si tolse il cappotto bordato di zibellino, lo piegò con cura e lo poggiò sul tettuccio della sua auto. Poi si slacciò i polsini e si arrotolò meticolosamente le maniche della camicia di seta fino ai gomiti.
«La tua polizza assicurativa è stata annullata».
JD scese dal cofano della Ford, mulinando minacciosamente Gina. Sam e Zachariasz estrassero la pistola dalla fondina. Con un sorrisetto nervoso, Stanlio tolse la sicura alla sua, subito imitato dal tizio con la cicatrice sulla guancia.
«D’accordo», disse Trucizna. «Ammetto il mio errore, vi ho sottovalutati. Però anche voi avete sottovalutato me».
Un numero imprecisato di uomini con i fucili spianati comparvero alle loro spalle, proprio come JD e Zachariasz avevano previsto.
«No», disse Halona. «Non l’abbiamo fatto».
Un gruppetto di Coyote sbucò da dietro un container, con Shiriki in prima fila. Le canne delle pistole e dei fucili ammiccavano sotto la luce dei fari delle auto.
«Oh». La fronte di Trucizna era imperlata di sudore. «Com’è che si chiama, una situazione del genere? Stallo alla messicana?».
«Non ne ho idea, io sono indiana». Halona puntò la pistola contro Trucizna. «Questo è per Cagnaccio!». E sparò.
Accadde tutto con una rapidità sconcertate.
Trucizna schivò il colpo per un pelo, tuffandosi di lato. Quelle gambette erano dannatamente veloci per essere così corte. E all’improvviso JD si vide cadere addosso una pioggia di proiettili, provenienti da entrambi i fronti. Adesso sapeva cosa si intendeva con l’espressione fuoco incrociato. Si sentì tirare indietro. Zachariasz lo aveva afferrato per la collottola della felpa e messo al sicuro dagli spari dietro la vecchia Ford.
«Te lo avevo detto che la mazza non sarebbe servita a un cazzo!».
Zachariasz usava la portiera dell’auto come barriera e sparava in direzione dei Polacchi. Sam era a terra, prono, in un lago di sangue. Il Cardinale aveva trovato riparo dietro la Mercedes, mentre Halona usava il cadavere del Polacco con la cicatrice sulla guancia come scudo e rideva sguaiatamente. Cazzo, se doveva scatenarsi l’inferno per vederla ridere, era meglio non vederla ridere mai. E dove diavolo era finito Trucizna? Al sicuro nel suo SUV a prova di proiettile, naturalmente. Insieme a Stanlio. Che stava mettendo in moto.
No, pezzo di merda, è troppo facile così.
«Coprimi!», urlò a Zachariasz.
«Dove cazzo pensi di andare? Se crepi, dopo chi la sente Honey?».
Non si preoccupò di rispondergli, ma si fiondò a testa bassa verso il SUV. Sembrava di essere in guerra, con gli squadroni che avevano abbandonato le trincee per scendere sul campo di battaglia. Un Polacco si accorse di lui e provò a sparargli, ma cadde a terra con un buco in fronte prima ancora di aver premuto il grilletto.
Grazie, Zachariasz!
Il SUV era già partito in retromarcia. Lentamente, però, perché il caos e il terreno accidentato gli impedivano di prendere velocità. Ciò permise a JD di avventarsi sulla maniglia e di spalancare la portiera. Stanlio fece per sparargli, ma lui fu più veloce, lo colpì alla mano con Gina, facendogli perdere l’arma. Stanlio non ebbe l’occasione di urlare, perché JD lo afferrò per la maglia e lo tirò fuori dal SUV. Che continuò a camminare lentamente ma inesorabilmente a marcia indietro.
Stanlio era ancora per terra.
«Ti devo una storia», gli disse JD.
Ma dovette parare il pugno di un Polacco, che gli si era scagliato contro. Il tempo di stenderlo con un colpo di Gina sulla tempia e Stanlio stava già scappando verso un complesso di mura di cemento armato. JD gli corse subito dietro.
«Dove vai? Pensavo che ti piacessero le storie!».



Halona rideva come un’invasata, intorno a lei i Polacchi cadevano simili a mosche spiaccicate. JD stava inseguendo Stanlio, Zachariasz era impegnato a restituire con gli interessi il piombo che gli pioveva addosso.
Carlisle vide il SUV nero incagliarsi in una buca, arrestando così definitivamente la sua avanzata in retromarcia. Doveva raggiungerlo, prima che Trucizna riuscisse a scappare. Seguendo l’esempio di JD, corse a testa bassa verso il veicolo. Correre era un eufemismo, in realtà. La gamba rigida gli permetteva tuttalpiù di zoppicare velocemente. Sparò al ginocchio di un Polacco che gli sbarrava la strada e ne stese un altro con un manrovescio. Quando spalancò la portiera posteriore del SUV, però, trovò il sedile vuoto.
«Credevi che sarei rimasto lì ad aspettarti?».
Una fitta lancinante al fianco lo colse impreparato. Si accasciò contro il sedile e scoprì di essere stato pugnalato. Riuscì a voltarsi, solo per vedere Trucizna saltargli in grembo e tempestargli la faccia di pugni. Cazzo, se sapeva colpire, il piccoletto! Ogni colpo gli faceva vedere le stelle e lo rendeva sempre meno cosciente. Si sentiva la testa gonfia e pesante, come in un dopo-sbornia di quelli devastanti. Pensava che sarebbe morto così, come un coglione, tenuto giù da un nano alto un metro e un tappo, quando i colpi cessarono all’improvviso.
Carlisle sollevò a fatica una palpebra e intravide Trucizna disegnare una parabola volando all’indietro e schiantarsi al suolo. Halona assisteva alla scena ridendo a crepelle e lo teneva sotto tiro con la pistola. Carlisle si rimise faticosamente in piedi. Si estrasse il coltello dal fianco, digrignando i denti per il dolore, e lo lasciò cadere per terra. Zoppicò lentamente verso Trucizna, tamponandosi la ferita con la mano. Intorno a loro gli spari erano diminuiti, le urla e i lamenti invece erano ovunque.
«Due contro un nano, molto leale», disse Trucizna, alzandosi.
Il pugno di Zachariasz lo rispedì al tappeto.
«Tu che parli di lealtà? Volevi ammazzare mia figlia, volevi ammazzarci tutti. Ma hai fatto male i tuoi conti».
Trucizna si massaggiò la mascella, sorridendo.
«Alto la metà, ambizioso il doppio, ricordi?».



Non appena JD ebbe raggiunto il complesso di mura in cemento armato, Stanlio gli fu addosso come sputato dall’oscurità. Cercò di colpirlo con Gina, ma Stanlio si abbassò appena in tempo per vedere la punta della mazza sbriciolarsi contro un pilastro di cemento. JD si parò il viso col braccio per proteggersi dalla pioggia di schegge e Stanlio ne approfittò immediatamente: gli fece picchiare la testa contro il pilastro, lasciandolo intontito e spaesato per qualche secondo, mentre Gina rotolava via poco più in là.
«Dato che sembri così ansioso di prenderle di nuovo…».
Due pugni allo stomaco lo fecero arretrare di un paio di passi e accartocciare su se stesso. Un altro sulla schiena, e JD finì a terra carponi. Il calcio sul mento lo mandò definitivamente al tappeto, mentre la risata di Stanlio gli solleticava le orecchie. La sua testa era un tamburo che faceva tum tum tum sotto i colpi del batterista. JD riuscì a tirarsi su in ginocchio solo con la forza della disperazione.
«Sai cosa farò una volta che avrò sistemato te? Andrò a riprendermi la tua fidanzatina. Devo ancora togliermi qualche sfizio con lei. E te lo giuro, se scopro che è successo qualcosa a Ollio… oh, una lingua tagliata sarà il meno che potrà capitarle».
Il tum tum tum alla testa aveva coperto metà delle parole di Stanlio, ma il concetto era chiaro. JD voltò la testa e la vide. Gina. Con la testa mozzata, ma pur sempre Gina. I passi di Stanlio sul pietrisco erano vicinissimi. Com’era quella cosa che diceva sempre Wile sulla breccia in cui infilarsi subito? Non aveva importanza. Si lanciò su Gina, schivando l’ennesimo calcio per un soffio. Non appena sentì le sue dita chiudersi intorno all’impugnatura, si fece rotolare lontano dalla portata dei calci di Stanlio. Non si concesse nemmeno il tempo di riprendere fiato. Scattò in piedi e caricò un colpo di mazza su Stanlio, che gli si era scagliato di nuovo contro. Lo prese in pieno: se fosse stato una palla da baseball, sarebbe stato un fuori campo.
«Ti devo una storia, stavo dicendo poco fa». JD si mise davanti a Stanlio a gambe divaricate. «Ti sei mai chiesto come mai mio nonno ha dato un nome da donna a questa mazza?».
Stanlio era ancora in piedi, ma barcollava. Si estrasse una scheggia di legno dallo zigomo. Il suo viso era un mascherone di sangue che sghignazzava.
«Sinceramente? Non me frega un cazzo».
JD gli assestò un colpo al ginocchio, Stanlio urlò ma non si accosciò.
«Tutti pensano che sia stato Wile a insegnarmi a tirare il primo pugno. Invece no, tutti si sbagliano. È stata mia nonna. Che si chiamava Gina».
Il sorrisetto non voleva abbandonare la faccia di Stanlio.
«E si vede, colpisci come una femminuccia!».
Lo picchiò sull’altra gamba. Questa volta Stanlio cadde in ginocchio, ma il sorrisetto era ancora lì. JD si era ripromesso che lo avrebbe cancellato a suon di mazzate. Lo doveva a Honey, a se stesso e anche a Gina, che ci aveva rimesso la testa.
«E questo ci porta al perché Wile ha chiamato la mazza come mia nonna».
«Perché le piaceva ficcarsela in culo?».
Pugno sul naso. Stanlio sputò sangue, ma ancora non aveva smesso di sorridere.
«No», disse JD. «Perché stendeva la gente esattamente come un colpo di mazza sulla nuca».
L’impugnatura di Gina calò sulla nuca di Stanlio.
Che cadde a terra.
Privo di sensi.
Il sorrisetto era sparito, finalmente.
Adesso Stanlio non faceva più tanta paura.
JD lo fissò a lungo, indeciso su cosa fare di lui. Non era un assassino, sicuramente non lo avrebbe accoppato. Portarlo in ospedale era troppo rischioso, avrebbero fatto un sacco di domande. Alla fine furono le sirene della polizia a decidere per lui. Cazzo, ci mancava solo questa! Lanciò un’ultima occhiata titubante a Stanlio...
‘Fanculo, ci penseranno gli sbirri a te!
E corse via verso la gru.



«Vi ricordo che ho la precedenza, devo vendicare Cagnaccio», disse Halona, di nuovo seria e imbronciata. «Voglio ammazzarlo io».
Carlisle scosse la testa.
«Ho fatto una promessa a una signora, spetta a me».
Zachariasz invece sbuffò.
«A me basta che qualcuno lo faccia fuori».
L’eco lontano delle sirene mise a tacere la disputa prima ancora che cominciasse davvero. Halona abbassò la canna della pistola.
«Merda, chi cazzo ha chiamato la polizia?».
«Non lo so», rispose Zachariasz. «Ma dobbiamo sloggiare al più presto».
«Concordo».
Non era stata Halona a parlare, però. Nemmeno Carlisle. Zachariasz sgranò gli occhi. E fu come vedere tutto al rallentatore.
Trucizna che estraeva una pistola da una fondina assicurata alla caviglia.
Che la puntava contro Carlisle.
Il colpo che esplodeva immediatamente.
E Trucizna che stramazzava al suolo.
Con un proiettile piantato nel petto.
Il tempo tornò a scorrere alla velocità ordinaria. Carlisle fischiò, tirando un respiro di sollievo.
«Cazzo, c’è mancato davvero poco, stavolta».
«Adesso sei in debito con me, Cardinale. Due volte».
Carlisle aveva la faccia di chi avrebbe preferito di gran lunga beccarsi una pallottola in fronte, piuttosto che essere in debito con un simile individuo. La canna della pistola fumava ancora, Halona fissava il cadavere di Trucizna con gli occhi ridotti a due fessure sottilissime e un sorriso triste sulle labbra.
«Adesso puoi riposare in pace, Cagnaccio».
Le sirene erano sempre più vicine, si intravedevano già le luci lampeggianti rosse e blue. Sul campo di battaglia si era passati dalla modalità carneficina a quella si salvi chi può e ognuno per sé.
«È meglio filarcela», disse Carlisle.
Ma la gamba zoppa e la ferita al fianco lo tradirono. Dovette appoggiarsi alla spalla di Halona per non accasciarsi a terra. Proprio in quel momento, l’auto di Benedetta sbucò dal nulla sfrecciando come una scheggia impazzita, mise sotto un Polacco abbagliato dai fari e si fermò proprio davanti a loro, sbandando e sollevando una nuvola di polvere. La portiera posteriore si aprì automaticamente.
«Avanti, salite!», urlò Thresh, seduto dal lato del passeggero.
Zachariasz aiutò Halona a sistemare Carlisle sul sedile posteriore, aspettò che anche lei fosse salita e poi chiuse la portiera.
«Che cazzo stai facendo?».
«La Mercedes di Carlisle non può rimanere qui, risalirebbero subito a lui. E poi devo trovare JD».
Thresh avrebbe voluto protestare, ma Benedetta lo interruppe.
«Ci vediamo al Goldfinger».
Ingranò la marcia e ripartì sgommando.







_____________







Note autore:
“Pożegnanie” in polacco dovrebbe significare “Addio”, sempre che il traduttore di google non dica scemenze.
Per il resto… niente da dichiarare. Non riesco a credere che manchino solo due capitoli alla fine. Il tempo è volato!
Grazie a tutti, come sempre. Siete fantastici!
A lunedì!

Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** Capitolo 9 ***


Capitolo 9




I fottuti sbirri erano ovunque, spuntavano da dietro i pilastri come funghi, ma di JD nemmeno l’ombra. Dove cazzo si era cacciato? Lo aveva visto correre all’inseguimento di Stanlio, verso quel complesso di mura in cemento armato laggiù. Forse era ancora lì. Forse Stanlio lo aveva accoppato. Doveva andare a verificare, peccato che ci fossero due auto della polizia tra lui e il suo obbiettivo. Senza contare la Mercedes di Carlisle che doveva essere immediatamente portata via, prima che i poliziotti se ne impossessassero.
Okay, una cosa alla volta. Prima la Mercedes.
Si mosse rapido tra le macerie e i container, passando alle spalle di un gruppo di poliziotti che stavano ammanettando due Coyote e tre Polacchi. La Mercedes era stata parcheggiata proprio sotto la gru. Aveva ancora i fari accesi (quindi le chiavi sono ancora nel quadro, che culo), per fortuna gli sbirri erano troppo impegnati ad arrestare gente per occuparsene. Fa’ che nessun proiettile abbia forato le gomme. La fiancata sembrava un colabrodo, in compenso le ruote erano tutte e quattro integre. Zachariasz ringraziò Dio, la Madonna e tutti i santi del paradiso. Aprì la portiera e…
«Mani in alto, non muoverti o sparo!».
Porca puttana, lo dicevo io che era troppo facile!
«Appoggiati all’auto e non fare scherzi».
Se lo avessero arrestato, lo avrebbero rinchiuso in una gabbia e avrebbero buttato via le chiavi. Aveva una lista infinita di precedenti per reati minori, in più era stato sospettato di omicidio. Farsi beccare in un fottuto mattatoio tra cervelli spappolati e budella sparse sul terreno non avrebbe migliorato la sua posizione. Fece come gli era stato detto, solo per prendere tempo. Sentì le scarpe dello sbirro, che si avvicinava lentamente, scricchiolare sul pietrisco. Chiuse gli occhi e prese un respiro profondo, come ogni volta che si accingeva a fare qualcosa di cui non sarebbe andato fiero. Non poteva farsi ammanettare. Avrebbe aspettato che lo sbirro fosse abbastanza vicino, lo avrebbe disarmato e poi…
«Zachariasz, metti in moto!».
Si voltò, e sgranò gli occhi.
JD aveva atterrato il poliziotto, che si dimenava come una tartaruga ribaltata, e lo tallonava a terra. La pistola era finita a pochi passi da lui, insieme a una Gina che aveva visto giorni migliori.
«Metti in moto, forza!».
Zachariasz non se lo fece ripetere una terza volta. Raccolse al volo Gina e si tuffò sul sedile del guidatore della Mercedes. Girò le chiavi nel quadro, diede gas e il motore prese a rombare.
«JD, forza, andia…».
Le parole gli morirono in gola.
Il poliziotto era riuscito a ribaltare le posizioni. Teneva JD sdraiato prono e gli stava ammanettando le mani dietro la schiena. Non poteva lasciarlo lì, ma se non si fosse dato una mossa, il prossimo sarebbe stato lui. Per un attimo JD e Zachariasz si guardarono negli occhi. Occhi seri e risoluti. Occhi pungenti come un ago. JD mimò un “Vai!” con le labbra. Zachariasz annuì, piantò il piede sull’acceleratore e sgommò via. Attraverso lo specchietto retrovisore, vide lo sbirro che spingeva JD dentro a un’auto della polizia.
Questo sì che è un cazzo di problema.



Quando Benedetta e Thresh avevano riportato Honey sana e salva al Goldfinger, Marie Louise non aveva potuto fare a meno di commuoversi. Isa era saltata al collo di sua figlia e non l’aveva più mollata, quasi temesse che l’avrebbero rapita un’altra volta, se le avesse permesso di riprendere fiato. Nel vederle abbracciate, Marie Louise aveva provato il desiderio impellente di correre a casa e stringere forte Alex contro il suo seno.
Isa aveva pianto di gioia, Honey aveva pianto e basta. La ragazza tatuata di nome Darla era uscita dicendo di voler fumare una sigaretta, ma si vedeva che era una scusa perché si sentiva di troppo. Liam, che era non solo un tipo taciturno e un ottimo cuoco ma anche molto sensibile alla vista delle lacrime delle donne, si era rifugiato in cucina. Dall’odorino invitante che si era diffuso nell’aria, avevano dedotto che si era messo ai fornelli. Infatti era emerso dalla cucina mezz'oretta dopo, con una pirofila di quelli che lui aveva chiamato gnocchetti sardi in sugo di pomodoro, salsiccia e zafferano, e una bottiglia di vino rosso appena stappata. Mangiare e bere sono il modo migliore per farsi tornare il buon umore e scacciare i brutti pensieri, aveva detto. E in effetti, il metodo miracoloso di Liam aveva funzionato.
Fin quando Benedetta e Thresh non erano tornati dal cantiere.
«Cristo Santo!».
«Carlisle!».
Isa e Marie Louise erano corse ad aiutare Benedetta e Thresh, che sostenevano un Cardinale ferito. Honey invece era rimasta in disparte, con gli occhi sgranati e le guance rigate dalle lacrime.
«Dobbiamo portarlo in ospedale!», aveva detto Isa.
Il capobanda dei Coyote, Halona, aveva scosso la testa, con sguardo severo.
«No, farebbero troppe domande».
Benedetta aveva annuito.
«Fortunatamente la ferita non ha intaccato organi vitali. Possiamo occuparcene noi».
Così avevano unito tre tavolini del Goldfinger e ci avevano sistemato sopra il Cardinale. Isa, che faceva volontariato al pronto soccorso e quindi era la più ferrata sull’argomento, aveva cercato di medicare il fratello nel miglior modo possibile.
«Dove sono gli altri? Dov’è Zachariasz?», chiese poco dopo Isa.
Stava applicando meticolosamente il disinfettante alla ferita. Era concentratissima, ogni traccia di sofferenza e debolezza era scomparsa dal suo volto, non sembrava nemmeno la stessa donna di prima. Aveva preso in mano la situazione con risolutezza e piglio pratico.
«Sono rimasti un po’ indietro, ma saranno qui a momenti, non temere», rispose il Cardinale, con la faccia contratta dal dolore. «Honey? Sta bene? Le hanno fatto del male?».
«Sto bene, zio». Honey era apparsa al fianco del Cardinale, rigida come un pezzo di legno, le braccia abbandonate lungo i fianchi ed entrambi i pugni serrati. «Sicuramente meglio di te e di tutti gli altri».
«Ah, non preoccuparti, bambina. Questa è solo una ferita superficiale, ci vuole ben altro per ammazzarmi».
«Ma papà e JD non sono ancora…».
«Come ho detto già a tua madre, saranno qui a momenti».
«Ci vorrebbero dei punti», disse Isa, con una ruga di preoccupazione che le increspava la fronte. «Ma non abbiamo anestetici da somministrarti».
Il Cardinale annuì.
«Fai quello che devi. Honey, per favore, di' a Thresh di portarmi una bottiglia di whisky».
Honey non si concesse nemmeno il tempo di dire “Certo”, volò immediatamente verso il bancone. Nel frattempo Marie Louise si era seduta in un angolino per non essere d’intralcio, ma pronta a scattare se si fosse reso necessario il suo aiuto. Vedere Isa che preparava ago e filo, però, la fece agire d’impulso: si ritrovò accanto al Cardinale quasi senza esserne cosciente. Allungò la mano, ma a pochi centimetri dalla meta, indugiò un attimo, con l’impressione di star facendo qualcosa di proibito o di stare prendendo qualcosa che non le apparteneva. Alla fine, sempre titubante, strinse la mano del Cardinale con la sua. Lui si voltò e quando la vide, fece una faccia genuinamente sorpresa, ma sorridente.
Proprio in quel momento arrivò Thresh.
«Avevi chiesto del whisky?».
«Sì, ma adesso non mi serve più».
Marie Louise arrossì e per non darlo a vedere, distolse lo sguardo. Intanto Isa aveva cominciato il suo lavoro di punto croce sulla carne viva del Cardinale. Lui si lasciò sfuggire un gemito e per punizione si morse a sangue la lingua. Marie Louise aumentò la stretta sulla sua mano.
«Mi dispiace, Marie Louise».
«Per cosa?».
L'ago penetrò di nuovo la carne. Lui chiuse gli occhi e digrignò i denti.
«Ti avevo fatto una promessa, che l’avrebbero pagata cara per quello che ti avevano fatto, ma non sono riuscito a mantenerla. Non sono stato io, a dargliene di santa ragione. Sono stato capace solo di farmi accoltellare».
Marie Louise scosse la testa e gli diede un buffetto leggero sulla spalla.
«Sei proprio un idiota, Cardinale».
Isa tirò il filo.
«Concordo con lei».



Gli sguardi che Marie Louise e il Cardinale si stavano scambiando erano molto eloquenti, tanto che per un breve istante Honey riuscì a dimenticare le preoccupazioni e i sensi di colpa. Forse non tutti i mali venivano per nuocere, in fondo.
Se ne stava seduta su un tavolino, con le gambe a ciondoloni. Darla la fissava da lontano, appoggiata di schiena alla parete. Era andata a fumare chissà quante volte e Honey aveva il sospetto (anzi, ne era sicurissima) che fosse solo una scusa per uscire e aspettare fuori il ritorno di JD.
«Zachariasz!».
Honey sollevò lo sguardo e il sollievo che provò fu come un lungo sorso di vino. Le scese in gola lentamente e una volta arrivato allo stomaco, sprigionò un dolcissimo calore, che si propagò in tutto il corpo e le fece girare la testa.
Suo padre era lì, stanco, provato, ma sano e salvo. Teneva stretta sua madre, accarezzandole i capelli e sussurrandole parole rassicuranti all’orecchio, mentre lei singhiozzava contro la sua spalla. Honey gli corse incontro e gli gettò le braccia al collo. Non doveva piangere, doveva essere forte, doveva dimostrare a suo padre di non essere più una bambina piagnucolosa. Sentì il braccio di suo padre circondarle la vita, la sua bocca che la baciava tra i capelli, la sua voce che le chiedeva se stava bene, e i buoni propositi andarono a puttane. Scoppiò a piangere come una pivella.
Dietro suo padre comparve anche Shiriki.
«Ah, allora è vero che l’erba cattiva non muore mai!», disse Halona.
«Anch’io sono contento che tu stia bene, amore mio».
Halona roteò gli occhi, mentre Shiriki sfoderava un sorriso carico di sottintesi.
«Avanti, fatti abbracciare e palpare il culo, lo so che non aspetti altro!».
«Il mio culo è troppo ossuto per certe cose».
Shiriki glielo palpò lo stesso e poi l’abbracciò anche. Lei rimase rigida tra le sue braccia e sbuffò, ma alla fine si lasciò sfuggire un mezzo sorriso.
«Dov’è JD?».
La voce di Darla fece piombare il locale in un gelido silenzio. Honey si staccò dall’abbraccio di suo padre e solo allora si accorse che in una mano stava reggendo Gina. Perché ce l’aveva lui? E perché le mancava quasi tutta la punta? Chi l’aveva ridotta così? Cosa era successo? Dov’era JD, perché non era ancora tornato? Il panico minacciò di spegnere l’ebrezza del sollievo, come una doccia gelata che cancella l’ubriacatura.
«La polizia mi aveva beccato. JD ha steso lo sbirro per permettermi di scappare, ma così facendo si è fatto prendere».
Honey fissava suo padre scuotendo la testa, perché no, non poteva essere vero, ma lui evitava il suo sguardo come la peste.
«E tu sei andato via senza aiutarlo», concluse Darla, con una semplice e gelida constatazione.
«Se lo avessi aiutato, avrebbero arrestato anche me, e allora a che cazzo sarebbe servito?».
Halona sputò a terra.
«È solo una fottutissima scusa! Lo hai abbandonato, lui ti ha salvato il culo e tu lo hai abbandonato!».
Sua madre provò a trattenerla, ma Honey riuscì a correre via. Non poteva rimanere lì, non poteva stare a sentire quelle assurdità. Si rifugiò nel vicolo sul retro. Si lasciò cadere sul gradino ghiacciato e si tirò i capelli con rabbia e frustrazione.
Non piangere, stronza. Che cazzo ti piangi? È tutta colpa tua, non hai diritto di piangere. Idiota, dovevi proprio giocare all’eroina, eh? Oh, sono forte e coraggiosa, torniamo indietro a stendere dei tizi che ammazzano gente per mestiere, e sicuramente un’ottima idea. Sei solo una bambina viziata, dovresti esserci tu al posto di JD.
Una carezza leggera sui capelli la fece sussultare. Marie Louise prese posto accanto a lei e le passò un braccio intorno alle spalle.
«Andrà tutto bene».
«Non fate che ripetermelo tutti. Che andrà tutto bene. Che non devo preoccuparmi. Che ci penseranno loro, i grandi, a risolvere tutto. Perché in fondo hanno ragione, no? Sono solo una mocciosa e devo lasciare che siano gli adulti a occuparsi di tutto. JD è l’unico che non mi tratta da mocciosa e guarda dove è finito. Gli ho rovinato la vita».
Marie Louise le asciugò le lacrime con un fazzoletto.
«Piangere sul latte versato non migliorerà la situazione, tesoro. Sai cosa trasforma un bambino in un adulto?».
«Cosa?».
«Trarre insegnamento dai propri errori».
«Allora sono condannata a rimanere bambina per sempre».
Marie Louise rise.
«Non ne sarei così sicura se fossi in te. A volte gli eventi ci portano a crescere senza nemmeno rendercene conto».
«Parli per esperienza?».
«Tesoro, faccio la prostituta, certo che parlo per esperienza!».
Le sfuggì un sorriso che la fece sentire subito in colpa, così lo nascose dietro alle ginocchia, che aveva portato al petto. Marie Louise non aggiunse altro, le fece compagnia ancora per un po’, poi rientrò, lasciandola da sola a riflettere.



«Ha detto qualcosa?».
«A parte chiedere una sigaretta? No, muto come una tomba».
Il Capitano Gregson sospirò pesantemente. Il Detective Bell gli offrì una ciambella, ma lui fece di no con la testa. Ci mancava solo un picco di glicemia. Era stato buttato giù dal letto nel cuore della notte dalla chiamata della centrale, si era alzato borbottando e imprecando. Aveva perso il conto di quante persone erano state arrestate, nella retata. Tutte coinvolte in una carneficina da film splatter. Fin ora solo uno aveva parlato.
Lanciò un’occhiata al tizio che si trovava al di là del vetro unidirezionale, nella stanza degli interrogatori. Capelli lunghi, tatuato dalla testa ai piedi e una faccia che sembrava essere stata usata come punch ball, tanto era gonfia e livida. Fumava la sigaretta con noncuranza e sguardo perso nel vuoto. Un delinquente in piena regola, insomma.
«Per essere uno che rischia una condanna per omicidio, è assurdamente calmo. Si è presentato un avvocato?», chiese.
«Non ancora».
«Precedenti?».
Il Detective Bell si mise la ciambella in bocca e scartabellò velocemente dei fogli.
«È fulifo, nemmeno una mulfa».
«Fammi vedere».
Il Capitano Gregson gli strappò i fogli di mano per accertarsene con i suoi occhi.
«Trentun anni, incensurato, negozio di tatuaggi… questo spiega perché sembra un quadro di Picasso vivente. Che razza di nome, però!».
«Infatti l’unica cosa che ha chiesto, oltre alla sigaretta, è stato essere chiamato JD. Dice che il suo nome di battesimo, e cito testualmente, gli sta sul cazzo».
Il Capitano Gregson sbuffò.
«Sinceramente? Per me può anche farsi chiamare Mary Poppins. Quello che mi interessa sapere è perché diavolo ha sentito il bisogno di partecipare a una guerra tra bande e ammazzare Trucizna. L’arma del delitto l’avete trovata?».
«Di armi del delitto ce ne sono anche troppe e…». Il Detective Bell indicò l’indirizzo del negozio di tatuaggi sui fogli che il Capitano Gregson stava ancora consultando. «Il suo negozio si trova tra Greenpoint e Williamsburg Nord. Praticamente quasi a confine tra il territorio dei Coyote e quello dei Polacchi. Forse subiva delle estorsioni».
«Ah, ecco. Domani mattina la prima cosa che faremo sarà mandare qualcuno al negozio di tatuaggi e a chiedere in giro. Se estorcevano denaro a JD, forse lo estorcevano anche agli altri esercizi commerciali della zona. Invece… quel delinquente che lo accusa… com’è che si fa chiamare?».
«Stanlio».
«Qualcuno un giorno mi spiegherà perché in questo ambiente hanno tutti dei soprannomi ridicoli. Va be’, tu che ne pensi? Possiamo fidarci di quello che dice?».
Il Detective Bell annuì.
«A differenza di JD, ha una fedina penale lunga un chilometro, ma ci tiene a salvarsi le chiappe e sa che parlando avrà più possibilità di ottenere delle attenuanti».
«E il procuratore distrettuale non starà a cavillare, darà per buona la versione di Stanlio pur di trovare un capro espiatorio». Il Capitano Gregson si massaggiò il mento, con aria pensierosa. «Ci sono notizie invece di tale Halona Birmingham? L’avete rintracciata?».
«No, al suo club non c’è nessuno, se ne sta occupando il Detective Martìnez. È tornato al cantiere per un sopraluogo».
Il Capitano Gregson annuì.
«È stato lui a dare l’allarme, vero? Da quando sua moglie è morta, quell’uomo è diventato uno stacanovista».



«Tua sorella ha fatto un ottimo lavoro, Cardinale. Tanti complimenti, Bella Signora», disse Shiriki rivolgendosi a Isa, che gongolava di soddisfazione. «Non c’è molto che possa fare, a parte preparare un impacco da applicare sui punti per prevenire infezioni e lenire il gonfiore». Shiriki coprì la ferita con la garza. «Dove posso trovare la cucina?».
«Liam, accompagnalo», disse Carlisle.
Liam inarcò un sopracciglio, perplesso. La cucina era il suo regno, e ne era molto geloso.
Carlisle roteò gli occhi.
«Per favore, accompagnalo, ti assicuro che nessuno vuole rubarti il mestiere».
Liam borbottò un ‘vaffanculo smangiucchiato tra i denti. Alla fine, però, obbedì e fece strada a Shiriki, che prima di seguirlo si voltò verso Isa.
«Bella Signora, sarebbe così gentile da assistermi nella preparazione dell’impacco? Ha delle mani fatte a posta per questo genere di lavoro. E poi la compagnia di una Bella Signora è sempre un vantaggio in più».
Lei annuì, arrossendo.
«Certo, con molto piacere».
Quando i tre furono spariti dietro la porta della cucina, Carlisle si alzò a sedere, gemendo e imprecando. Aveva bisogno di una camicia pulita, ma la camicia pulita più vicina era nel suo ufficio. Troppo lontano. Halona intanto lo fissava a braccia conserte, come se si aspettasse qualcosa da lui.
«Cosa c’è?».
«C’è che sei in debito con me, Cardinale. Ed è ora di riscuotere. Il nonno di JD mi ha chiesto solo due cose, prima di morire. La prima, prendermi cura della banda. La seconda, assicurarmi che JD non finisse nei guai».
Carlisle ghignò.
«Pare che tu abbia fallito in entrambe le cose».
Gli occhi di Halona lampeggiarono di rabbia.
«Infatti è qui che entri in gioco tu. Devi far in modo che JD e tutti gli altri ragazzi escano di prigione nel più breve tempo possibile».
«Ho già contattato i migliori avvocati sulla piazza per JD. Ma…».
Halona gli andò sotto a muso duro. Anche da seduto Carlisle la superava in altezza di diverse spanne, gli arrivava appena sotto il mento. Eppure, chissà perché, fu lui a scostarsi da lei e non il contrario. Benedetta e Thresh seduti a un tavolo poco distante fecero per alzarsi in piedi, ma lui scosse la testa.
«Stammi a sentire, fichetto con la cresta. Ti ho salvato il culo ben due volte da quel cazzo di nano malefico, vedi di ricambiare!».
«Non rompermi il cazzo, va bene? Farò quello che posso, ma cerca di darti una calmata. Ti ricordo che l’idea di affrontare i Polacchi è stata tua, non mia. Quindi se hai voglia di prendertela con qualcuno, prenditela con te stessa!».
Halona aprì la bocca, pronta ad abbaiare, ma poi ci ripensò. Gli tirò un gancio destro sul naso. Poi girò sui tacchi e uscì dal locale, passando davanti a Zachariasz, che la seguì con lo sguardo senza fiatare. Cazzo, quella non era una donna, quella era un bulldozer. Gli aveva sfondato il setto nasale! Si tastò il naso, con la testa che gli girava per il dolore, e si ritrovò la mano sporca di sangue. Meno male che non aveva ancora indossato la camicia pulita, o si sarebbe ritrovato di nuovo punto e a capo.
«Ti piace proprio tanto farti picchiare, eh?».
Marie Louise era appena ritornata dal vicolo sul retro senza Honey e aveva assistito all’ultimo atto della scena. Prese una garza e gliela applicò sul naso per tamponargli l’emorragia.
«Continuo a collezionare figure di merda, stasera. E la notte non è ancora finita!».
«Non farne un dramma, Halona è una donna durissima, al tuo posto sarei morta di paura. Per certi versi mi ricorda mia madre. Be’, anche se mia madre non era un capobanda e non partecipava a scontri armati per la conquista del territorio».
Carlisle la fissò in silenzio, mentre Marie Louise gli puliva il mento dal sangue, chiedendosi se poteva permettersi di fare domande indiscrete. Del resto, non fare domande alle sue ragazze sui loro trascorsi non era un caposaldo della sua politica?
«Parli di lei al passato».
Be', tecnicamente non è una domanda.
Marie Louise abbozzò un sorriso triste. Buttò la garza sporca di sangue in un sacchetto e si alzò sulle punte dei piedi per esaminargli il naso da vicino. Glielo tastò delicatamente. Le sue dita erano sottili e leggere come piume, sembravano essere state create a posta per toccare con gentilezza. Tanto che Carlisle non provò dolore. Anche se forse era merito del profumo di Marie Louise, che agiva su di lui come una dose massiccia di morfina: lo anestetizzava, gli sembra di galleggiare a pancia in su sull’acqua con un sorriso ebete sulla faccia.
«Non sembra grave, ma non sono un’esperta, dovresti chiedere a tua sorella o a quel signore… Shiriki, si chiama così, vero?». Si allontanò da lui di un passo. Carlisle dovette serrare i pugni per vincere l’impulso di trattenerla. «E no, non è come pensi. Mia madre è ancora viva, solo che… una volta mi ha detto che ero come morta per lei, perciò ho deciso che per me sarebbe stata la stessa cosa».
«Mi dispiace».
Lei fece spallucce.
«È successo tanti anni fa, avevo appena scoperto di essere rimasta incinta di Alex… cioè, di mio figlio. Si chiama Alex, mio figlio».
Carlisle annuì, soprappensiero. Sapeva di dover dire qualcosa di intelligente, ma gli venivano in mente solo frasi fatte, scontate e banali.
«È un bel nome».
Sei un coglione, si disse.
«Grazie».
«Il padre dov’è?». Si accorse troppo tardi di aver fatto una domanda che oltrepassava di parecchio il confine tra cosa è lecito chiedere e cosa no. «Scusa, non avrei dovuto chiedertelo, non sono affari miei. Ma ho pensato… dato che tua madre… mi sono domandato come mai non avessi chiesto aiuto al padre di Alex».
Il sorriso di Marie Louise era il tipico sorriso accondiscendete che si rivolge agli ingenui.
«É stata la prima cosa che ho fatto dopo essere stata cacciata di casa, ma i suoi genitori hanno reagito esattamente come mia madre».
«Bastardi, lui e i suoi genitori!».
«Non posso fargliene una colpa. Joshua era un ragazzino tanto quanto me, Cardinale».
«Appunto! Nonostante la tua giovane età, ti sei presa le tue responsabilità. Lui invece no».
Forse l’aveva messa a disagio, perché lei distolse lo sguardo. Durò poco, in ogni caso.
«Be’, Cardinale», disse ammiccando. «Adesso sai una cosa di me che nessun altro sa. Pensa, potresti sfruttare l’informazione per ricattarmi!».
Non si sarebbe mai stancato di ripetersi quanto adorava la capacità di Marie Louise di sdrammatizzare, riuscendo a scherzare perfino su argomenti poco felici come quello.
«Sono rimasto zoppo all’età di dodici anni. Stavo cercando di difendere mia madre dal suo pappone, che la stava picchiando a morte, e lui mi ha sparato al ginocchio. Sono stato fortunato perché aveva una mira di merda, in realtà puntava alla testa. Isa era a scuola quel pomeriggio, non ha mai saputo la verità, crede sia caduto dalla bicicletta».
Marie Louise aveva sgranato gli occhi.
«Cardinale, io…».
Lui la interruppe con un sorriso.
«Adesso anche tu sai una cosa di me che nessun altro sa».



«Cazzo, adesso nemmeno fumare in pace, si può?».
Halona si era appena fiondata fuori dal locale come un toro imbufalito. Quando mise a fuoco Darla, seduca sul marciapiede che, per l’appunto, stava fumando, bestemmiò tirando giù tutti i santi del paradiso.
«Mi cerco un altro posto».
Fece per rientrare ma Darla la fermò.
«Non è necessario. C’è abbastanza spazio per tutte e due, qui fuori. Non siamo costrette a rivolgerci la parola».
Per parecchi istanti, Halona parve indecisa sul da farsi, come se stesse valutando i pro e i contro o temesse che Darla avesse in mente qualche brutto scherzo da giocarle. Alla fine si sedette sul marciapiede, sbuffando. A parecchi metri di distanza da Darla.
Per i primi cinque minuti nessuna delle due proferì parola. Darla si limitò a fissare il cielo. Era una notte serena, dall’aria frizzante, una di quelle notti che lei e JD trascorrevano a bere fino a tardi in un pub. E poi finiva che doveva accompagnarlo a casa, perché lei reggeva l’alcol molto meglio di JD. E ovviamente si fermava tutto lì, perché lui riusciva a comportarsi da bravo ragazzo anche da ubriaco. Chissà come se la passava, adesso! Fosse stato per lei, sarebbe già andata alla centrale, ma le avevano fatto notare che era meglio di no, per non complicare la situazione. Che sarebbe potuta andare l’indomani. Halona si scroccava le dita in continuazione, tanto nervosa da sembrare un serpente a sonagli pronto a scattare.
«Vuoi una sigaretta?».
«Ho smesso».
«Da quando?».
«Cinque anni fa».
«Ah».
Darla diede un tiro al suo mozzicone. Espirare il fumo era la parte che preferiva del fumare. Sentire il fumo caldo che le lambiva le labbra, come una lingua rovente. E poi c’erano uomini che erano disposti a fare carte false per una bocca rosso fuoco che soffiava fumo di sigaretta sulle loro facce. Halona continuava a scroccarsi le dita. Cric, crac, croc.
«Eccheccazzo, dacci un taglio. Non è colpa tua, okay?».
Lei irrigidì le spalle.
«Non so di che cazzo parli».
«Non ci provare, si vede lontano un miglio che ti senti in colpa. Ma non dovresti. Mi sei simpatica come la merda, e non capirò mai come faccia tuo marito a sopportarti, perciò non lo dico tanto per dire o per farti piacere. Hai fatto quello che ritenevi giusto per la tua gente, conta solo questo».
«JD non era d’accordo. E alla fine ci è andato di mezzo lui. L’ho sempre tenuto a distanza dalla banda per mantenere la promessa fatta a suo nonno. E adesso, ironia della sorte, è finito in carcere. Proprio lui, l’unico qui che è sempre stato più pulito di un lenzuolo lavato con la candeggina».
Darla inarcò un sopracciglio. Halona, come al solito, sbuffò.
«Eri la mia barista. Pensi che assumerei una ragazza senza sapere vita morte e miracoli di lei? So di quel furtarello al supermercato».
«Avrò avuto dodici anni!».
«Vita, morte e miracoli».
«Be’, ma allora perché mi hai assunta?».
«Capirai, sai quanti furtarelli ho fatto io a dodici anni? Piuttosto, se avessi saputo che eri una troia… ecco, quello sì che era un ottimo motivo per non assumerti».
Darla si imbronciò.
«E pensare che quando ti ho conosciuta ti stimavo. O meglio, mi sei sempre stata sul cazzo, ma ti stimavo… in un certo senso».
«Be’, se mi stimavi, potevi anche farmi la cortesia di non scoparti mio marito, no?».
Darla roteò gli occhi.
«Ma che c’entra l’aver scopato con tuo marito con te, scusa? A parte il fatto che è tuo marito, ovvio. Mica ci ho scopato per farti un torto, ci ho scopato perché tuo marito è un figo e non ho saputo resistere. Ho fatto bene? No. Lo rifarei? Be’, sì. Mi sto giustificando? No. Tu hai tutto il diritto di avercela a morte con me, ma non mi interessa ottenere il tuo perdono. Non vado a letto con gli uomini delle altre per ripicca. Cioè, non sempre. Solo qualche volta, quando una ragazza mi sta particolarmente sul cazzo. Ma non è il tuo caso. O meglio, non lo era. Ecco, vedi? Se andassi con gli uomini delle altre solo per ripicca, adesso sì che andrei con Shiriki! Ehi, ehi, stavo parlando solo per assurdo!».
Halona si era alzata e le si era avvicinata con aria minacciosa.
«Assurdo un paio di palle, pensi non abbia visto le occhiate che vi siete scambiati poco fa?».
«Solo perché abbiamo passato dei bei momenti insieme! E poi non rompermi le palle, okay? Shiriki non è un santo e penso che tu te ne sia fatta una ragione, ormai. Altrimenti lo avresti lasciato, o ammazzato, da un pezzo».
Halona tornò a sedersi.
«Non l’ho ammazzato solo perché poi avrei dovuto ammazzare anche tutte le troie con cui è stato, per correttezza».
La schiena di Darla fu attraversata da un brivido.
«Temevi di essere arrestata per strage?».
«No, in realtà, semplice culo pesante. Sai che sbattimento rintracciarle tutte? Troppa fatica».
Inaspettatamente, risero insieme.
«Scusate l’interruzione, signore».
Halona e Darla sollevarono il viso nello stesso momento. Un uomo con i baffi dall'aspetto trasandato si era fermato proprio davanti a loro. «Lei è Halona Birmingham?», chiese.
«Chi la cerca?».
Quando il tizio esibì il distintivo, a Darla si gelò il sangue.
«Detective Martìnez, della Omicidi. Devo portarla in centrale per interrogarla».



«Allora sai cosa ti dico, vai a farti fottere!».
Carlisle staccò la chiamata e scaraventò il cellulare contro la parete, che si sparpagliò in mille pezzi sul pavimento. Al suo fianco, Marie Louise sussultò.
«Suppongo che la sua risposta non sia stata quella che ti aspettavi», disse Benedetta.
Carlisle picchiò il pugno sul tavolino, confermando la sua ipotesi.
«Maledetto porco, quando si tratta di intascare bustarelle nessun problema, ma se c’è da farmi un favore… Lui sta alla Buoncostume, mentre il caso di stasera è della Omicidi, ma non avrebbe potuto fare nulla in ogni caso. Ha controllato, ci sono già chilometri di scartoffie ad attestare l’arresto di JD. L’accusa non è stata ancora formalizzata, ma pare che i capi di imputazione a suo carico saranno resistenza a pubblico ufficiale, disordine pubblico e l’omicidio di Trucizna».
Zachariasz si voltò di scatto.
«Come sarebbe a dire?».
Carlisle scosse la testa.
«Hanno preso anche Stanlio. Per salvarsi il culo, il figlio di puttana ha accusato JD dell’omicidio di Trucizna».
Thresh imprecò a mezza bocca. Lo sguardo di carbone di Zachariasz venne attraversato da un lampo di rabbia. Benedetta tornò a pulire la lama del suo coltello, sospirando pesantemente. Per fortuna Honey era ancora nel vicolo sul retro. Più tardi fosse venuta a conoscenza di quella complicazione, meglio sarebbe stato per tutti.
Proprio in quel momento, la porta della cucina si aprì contemporaneamente a quella dell’ingresso. Dalla prima uscirono Shiriki, Isa e Liam, con la brodaglia per la ferita di Carlisle. Dalla seconda entrarono Halona, la ragazza tatuata e… Benedetta sgranò gli occhi e nascose subito il coltello nella tasca dei pantaloni cargo.
«Che succede, amore mio?», chiese Shiriki, porgendo la ciotola della brodaglia a Isa.
La vecchia Coyote si strinse nelle spalle.
«Il Detective Martìnez dice che devo andare in centrale, per rispondere alle sue domande, anche se non capisco proprio perché».
«Te l’ho sempre detto che un giorno il tuo brutto carattere ti avrebbe messo nei guai, amore mio».
«Questo è suo marito? Quello che poco fa ipotizzava di fare fuori?», chiese Martìnez.
Shiriki sfoderò un sorriso strano, quasi… lusingato, ma non commentò.
«In ogni caso non faccia la finta tonta con me», proseguì Martìnez. «L’ho vista con i miei occhi al cantiere».
Accanto all’ingresso, Zachariasz irrigidì la schiena. Benedetta si trattenne a stento dall’imprecare. Ci mancava solo questa! Che cazzo ne sapeva Martìnez di cosa era successo al cantiere? E se aveva visto Halona, allora aveva visto anche… Si voltò a guardare Carlisle, che non batteva ciglio, e poi Thresh, che si stava aggiustando il giubbotto. Per nascondere meglio la pistola, probabilmente.
Halona intanto aveva incrociato le braccia al petto.
«Be’, sì, ero al cantiere. E allora?».
«Quindi non lo nega?».
«È sordo, per caso, Detective? Ho detto quello che ho detto, ma da adesso in poi risponderò solo alle domande che mi verranno poste in centrale. Piuttosto, come sapeva che mi trovavo qui? Mi ha fatta seguire?».
«In realtà passavo da queste parti per un controllo, è stato un colpo di fortuna. Lei, invece? Cosa ci fa qui?».
La vecchia scosse la testa.
«Risponderò in centrale».
Un controllo, certo. Benedetta digrignò i denti. Gli aveva chiesto di non impicciarsi, ma lui ovviamente non l’aveva ascoltata. Del resto, avrebbe dovuto aspettarselo, si trattava pur sempre di uno sbirro. Quanto avrebbe voluto prenderlo a sberle! Ma se lo avesse fatto, sarebbe stato come firmare una confessione.
«Un controllo per cosa?», si intromise Carlisle, guardando il Detective con un’espressione da vergine innocente.
«Si risparmi la commedia, Cardinale. Ho visto anche lei, al cantiere. Insieme a suo cognato».
Zachariasz spostò il peso del corpo da una gamba all’altra. La ciotola nelle mani di Isa traballò. Carlisle sfoderò il suo tipico ghigno da squalo.
«Non so di cosa sta parlando, Detective. Mio cognato ed io siamo stati tutta la sera qui al Goldfinger e ho una decina di testimoni che lo possono confermare. Se vuole le fornisco i nominativi, così potrà fare tutti gli accertamenti che desidera».
«Non si agiti, Cardinale. Non ho parlato ai miei superiori di lei e di suo cognato. Può dormire sonni tranquilli. Anche se so già che me ne pentirò per tutta la vita».
Martìnez stava fissando Benedetta. La voglia di prenderlo a sberle era triplicata. Sorresse il suo sguardo, serrando i pugni.
«Posso parlarti un attimo?», gli chiese. «In privato».
Martìnez si voltò in direzione di Halona, combattuto. Lei roteò gli occhi.
«Non si preoccupi, Detective, non vado da nessuna parte».
Benedetta si diresse verso il suo ufficio, senza preoccuparsi di controllare se lui la stesse seguendo o meno, Martìnez conosceva fin troppo bene la strada. Aprì la porta e quando anche lui fu entrato, la richiuse con violenza. Non gli diede il tempo di fare alcunché. Lo colpì alla mascella, proprio come la notte prima. «Questo è perché non ti sei fatto i cazzi tuoi». Il secondo colpo affondò nello stomaco. «E questo perché pensi che una scopata tra ubriachi cambi le carte in tavola».



«Devo liberarmi di una patata bollente». Halona sfoderò dalla tasca del giubbotto una pistola. «Ci ho ammazzato Trucizna con questa, ed è molto meglio se il Detective non mi perquisisce mentre ce l’ho addosso».
«Dalla a me», disse Shiriki.
«No», si intromise Zachariasz. «Me ne sbarazzo io. È meglio, tu sei suo marito. Il Detective potrebbe chiedere anche a te di seguirlo».
Shiriki annuì.
«È registrata?», chiese Zachariasz.
«Ovvio che no», rispose Halona, mentre gli porgeva l’arma.
Lui l’assicurò alla cintola dei pantaloni e poi tirò su la lampo del giubotto di pelle per coprirla. I suoi occhi si era trasformati in due pozzi neri senza fondo. Nel frattempo Isa aveva posato la ciotola di Shiriki sul tavolino, facendone traboccare un po’ del contenuto dai bordi. Si sedette accanto a Carlisle, che la prese per mano. Lei ricambiò la stretta, aggrappandosi con tutte le sue forze.
Nessuno sapeva leggere negli occhi di Zachariasz meglio di Carlisle.
Nessuno, eccetto sua sorella Isa.



Martìnez si appoggiò alla scrivania per riprendere fiato, gemendo e imprecando. Dietro la mano con cui si stava massaggiando la mascella, però, Benedetta intravide un mezzo sorriso. Come se si fosse aspettato esattamente quella reazione da lei e fosse contento di averci azzeccato. Il che la fece incazzare ancora di più.
«Ti sbagli, non lo credo», disse lui. «Non ho cinque anni».
«Allora perché? Speri forse che sentendomi in debito verrò a letto con te un’altra volta? Be’, se è così, sappi che hai più speranze di scoparti Thresh».
Lo sguardo di Martìnez si adombrò.
«Ti sembro il tipo d’uomo che ha bisogno di ricorrere a simili mezzucci per andare a letto con una donna?».
No, non ne aveva bisogno. Lei ne era la prova vivente.
«Senti, non me ne fotte un cazzo di che tipo d’uomo sei. Voglio solo sapere perché. Nessuno fa niente per niente».
Lui tornò in posizione eretta, non senza lamentarsi un’altra volta, e abbozzò un sorriso intenerito. «Sapevo che saresti riuscita a occuparti di lei». Indicò con un cenno del mento la piccola edera sul davanzale della finestra. «É cresciuta tantissimo, la piccolina. Lei hai addirittura sostituito il vaso!».
«Porca puttana, non cambiare argomento! Se fossi coinvolta anch’io nella storia del cantiere, forse potrei capire il tuo gesto, ma così…».
«Perché so che tieni a lui. Mi hai raccontato del Cardinale, di come ti ha aiutata, ricordi? E poi il lava secco La Macchia di Greenpoint ti dice niente? Sei morti, un ferito e una vecchia terrorizzata. Quanto pensi ci metterà la polizia a collegarli alla strage del cantiere? Se avessi parlato del Cardinale, saresti rimasta coinvolta anche tu eccome!».
Martìnez era serissimo, adesso. Benedetta aggrottò la fronte.
«Se non avessimo…».
«Avrei agito nella stessa identica maniera. E adesso, scusa, ho una sospettata da portare in centrale».
Le passò accanto guardando dritto di fronte a sé. Benedetta lo seguì, senza parole.
Fuori dal suo ufficio, intanto, l'atmosfera si era fatta stranamente elettrica.
«Forza, Signora Birmingham. È ora di andare. E lei, Signor Birmingham… Non sarebbe male se venisse anche lei».
«Che c’entra mio marito, adesso?».
Martìnez ammiccò.
«Precauzione. Mi consideri pure paranoico».



Quando Zachariasz aprì la porta che dava sul vicolo sul retro, trovò Honey seduta sul gradino. Si stringeva nelle braccia, infreddolita, e fissava il vuoto.
«Honey?».
Lei si girò verso di lui, aveva gli occhi un po’ arrossati. Forse per il pianto. Forse per il freddo. Forse per entrambi.
«Ci sono novità?».
Zachariasz esitò. Non voleva mentirle, sarebbe stato come predicare bene e razzolare male, ma sapeva anche che Honey avrebbe faticato a capire, perciò optò per una mezza verità.
«Sì, ma non buone».
Honey annuì e basta. Tornò a fissare il vuoto. A Zachariasz pareva ieri quando l’aveva vista seduta su quello stesso gradino per la prima volta, aveva tredici anni, due trecce che le scendevano sulle spalle e non voleva saperne di tornare dentro e finire i compiti di matematica. Era anche la prima volta che la portava al Goldfinger. Gli pareva ieri, sì, ma sapeva che non era ieri. Era molto più tempo. Honey era cresciuta davvero, era una donna ormai, e lui l’aveva capito soltanto adesso.
«Tesoro», cominciò, prendendo posto accanto a lei. «È meglio che tu e la mamma torniate a casa. Vi accompagnerà Benedetta».
«Cosa? No, io voglio aspettare JD».
«É sicuro che non uscirà prima di domani mattina».
«Ma…».
«Tuo zio ed io rimarremo qui a studiare un piano. Tu però hai bisogno di riposare».
«Papà, non sono più una bambina».
«Lo so. Oggi hai dovuto affrontare cose molto più grandi di te, credevo che ne saresti uscita distrutta e invece sei ancora in piedi, sana e salva. Quindi, credimi, adesso lo so. Che non sei più una bambina. Che puoi affrontare questo e altro».
E che non devo più preoccuparmi per te. O, meglio, si sarebbe sempre preoccupato per lei, ma adesso sapeva che poteva fare quello che doveva col cuore sereno.
Honey abbassò lo sguardo sul suo polso destro, che si stava massaggiando spasmodicamente.
«Ho anche combinato un bel casino».
«Honey, guardami». Lei tornò a fissarlo dritto negli occhi e per un attimo Zachariasz temette di non farcela, di stramazzare sull’asfalto viscido del vicolo. L'aria all'improvviso sembrava densa come crema, respirare era diventata un'impresa. Dilatò le narici e prese un respiro profondo. «Non è colpa tua. Non sei responsabile di nulla, qualsiasi cosa accada. Hai capito? Tu hai solo cercato di fare la cosa giusta tornando indietro da JD. Ricordi quello che mi hai detto sui tuoi tatuaggi?».
Lei annuì, tirando su col naso.
«Ogni volta che li tocco è come se ti prendessi per mano. Come se avessi accesso a un po’ del tuo coraggio».
Zachariasz abbozzò un mezzo sorriso.
«In te c’è una parte di me. Per tanto tempo ho temuto che fosse quella peggiore, invece no. Tu hai preso il meglio di me e lo stai coltivando e nutrendo come io non ho mai fatto. E questo, oltre ad alleggerire la mia coscienza, mi rende molto fiero di te».
Honey gli buttò le braccia al collo e scoppiò in singhiozzi contro la sua spalla.
Zachariasz tornò indietro nel tempo, quando il peso più dolce del mondo si era posato sulla sua spalla per la prima volta, quando aveva capito che adesso la vita di un altro essere umano dipendeva da lui, quando aveva giurato a se stesso che avrebbe fatto qualsiasi cosa pur di difendere quella bambolina rosa e che sarebbe diventato un uomo migliore per lei.
Forse finalmente sarebbe riuscito a mantenere quell’ultima promessa.
«Ti voglio bene, papà».
«Anch’io, sempre».
Honey si staccò dal suo abbraccio e si asciugò gli occhi col dorso della mano. Zachariasz le porse Gina e lei la maneggiò con cura, neanche si fosse trattato di una reliquia, accarezzandone la punta ormai spaccata, smusata e frastagliata.
«Tienila tu, questa», le disse. «Così potrai restituirla a JD di persona, quando tornerà a casa».



Mezz’ora più tardi al Goldfinger erano rimasti soltanto Zachariasz e Carlisle.
«Non sono convinto, ci deve essere un’altra soluzione. Aspettiamo di sentire i miei avvocati, vediamo quali alternative ci propongono».
«No, ormai ho deciso».
«Deciso un paio di palle! Non pensi a tua figlia, non pensi a tua moglie? Mia sorella, cazzo. Avevi giurato che ti saresti preso cura di loro!».
«Non capisci? Lo devo fare. Per JD, per Honey, ma soprattutto per me stesso. Per diventare l’uomo che ho sempre desiderato essere per la mia famiglia».
Carlisle scosse la testa, sconfitto, ma non insistette. Zachariasz gliene fu infintamente grato.
«Penserai tu a loro, non è vero?».
«Certo, maledetto figlio di puttana. Certo».
«E per quanto riguarda la palestra… Kip è perfettamente in grado di gestirla da solo. Assicurati solo che dia la mia parte a Isa, è un bravo ragazzo, ma prevenire è meglio che curare».
Carlisle annuì.
«Vuoi che ti accompagni?».
«No, preferisco andare da solo».
«Va bene, allora… cosa si dice in questi casi?».
Zachariasz gli porse la mano. Lui gliela strinse subito.
«Grazie di tutto, Carlisle».
«Oh, fottiti, bastardo!».



Dovevano essere circa le nove del mattino, JD non era sicuro, non c’erano finestre. Non aveva dormito nemmeno un po’, perché la cella del distretto di polizia nella quale era stato rinchiuso era piena come un uovo. Quattro o cinque dei suoi compagni di cella erano stati suoi clienti e nel riconoscerlo lo avevano salutato con un cenno del capo.
«Ehi, JD. Vieni qua».
Un agente stava aprendo la cella con un grosso mazzo di chiavi tintinnante. Dietro di lui c’era il Detective Bell.
«Un altro interrogatorio?», chiese oltrepassando la porta che l’agente teneva aperta.
«No, al contrario, sei libero».
JD aggrottò la fronte.
«Non capisco. Stanlio ha ritrattato?».
«Affatto, Stanlio continua a ripetere che sei stato tu. Ma c’è stata una confessione che ti scagiona completamente. O meglio, quasi. Sei ancora accusato di resistenza a pubblico ufficiale, ma sono sicuro che il giudice terrà conto delle attenuanti».
Stavano camminando lungo il corridoio.
«Attenuanti?».
Il Detective Bell fece per rispondere, ma si bloccò. Fissava qualcosa di fronte a lui. JD seguì il suo sguardo e sgranò gli occhi. Qualche metro più avanti, Zachariasz era in manette, affiancato da due agenti. JD provò ad avvicinarglisi, ma uno dei due sbirri lo tenne a distanza.
«Stai indietro, ragazzo».
«Non si preoccupi, agente», intervenne il Detective Bell. «È tutto a posto. Diamo loro due minuti».
A giudicare dalle occhiate nervose che lanciavano in direzione di Zachariasz, i due poliziotti non sembravano convinti che lasciare incustodito un reo confesso di omicidio fosse una buona idea, ma non protestarono. Si allontanarono di un paio di metri, insieme al Detective.
«Che cosa hai raccontato?».
«Che ho ucciso Trucizna, perché aveva minacciato di far male alla mia famiglia. Che tu ti trovavi al cantiere per impedirmelo».
«E ti hanno creduto?».
«All’inizio no. Ma ho portato con me l’arma che ha freddato Trucizna. E il poliziotto che stava per arrestarmi al cantiere mi ha riconosciuto».
JD sospirò e si portò i capelli indietro.
«Non avresti dovuto».
«Sì, invece. Adesso siamo pari».
«Non pensi a Honey? Lei ha bisogno di suo padre».
«Honey sa badare a se stessa, ma visto che l’hai tirata in ballo… Vedi di trattarla come si deve e di non farla soffrire. Se arriva al mio orecchio la notizia che ha versato anche solo una lacrima a causa tua, giuro che evado di galera e ti ammazzo con le mie mani».
Il sopracciglio destro di JD ebbe un sussulto, proprio mentre il Detective Bell tornava con i due agenti.
«Mi spiace, ma dobbiamo andare adesso».
La faccia di Zachariasz era di pietra. JD non sapeva cosa dire, grazie sembrava una parola così scontata e vuota. Gli venne in mente che Wile preferiva tacere, piuttosto che ripetere come un robot le solite frasi fatte. JD si era sempre trovato d’accordo con lui.
«Honey lo sa già?».
«No, e non la prenderà bene. Fa’ che non si senta in colpa. Dille che fin quando avrò i miei tatuaggi magici, starò bene».
«D'accordo».
Poi i due agenti portarono via Zachariasz e JD rimase a fissarlo finché non scomparve in fondo al corridoio. Provava una sensazione di rigetto alla bocca dello stomaco, come quando Wile aveva scoperto di avere il cancro ai polmoni.
Soltanto io ho il diritto di essere incazzato. Mi vedi incazzato, forse? No, infatti. Quindi levati quel cazzo di muso dalla faccia, che andiamo dall’avvocato.
A fare che?
Il testamento, no? Il mio negozio deve finire in buone mani. Non voglio che a tuo padre venga la felice idea di venderlo.
Wile, non pensi che dovresti prima pensare a curarti?
No.
Ma…
La minestra è questa, che ti piaccia oppure no. Non puoi cambiarla. Le uniche cose che ti spettano sono accettare la mia decisione e prenderti cura del mio negozio. Non voglio ripeterlo più, sono stato chiaro?
Cristallino, nonno.
Non chiamarmi nonno!







_____________







Note autore:
E questo era il penultimo capitolo.
Chi segue la serie tv Elementary avrà sicuramente riconosciuto il Capitano Gregson e il Detective Bell. Del resto, ci troviamo sempre a New York, no? I vari universi si intersecano facilmente, di questi tempi.
Come sempre, un grazie gigantesco a tutti.
Ci vediamo lunedì prossimo, con l’ultimo capitolo!
Bacioni.

Ritorna all'indice


Capitolo 10
*** Capitolo 10 ***


A Veronica e a Chiara.
Sperando che il cesto dei giochi continui a riempirsi.




Capitolo 10




«Come stai?».
«Bene».
«Davvero?».
«Davvero».
Honey si guardò intorno. Il primo incontro con suo padre lo aveva immaginato diversamente. Con un vetro a dividerli e due cornette per parlarsi, come nei film. Invece l’avevano fatta entrare in una stanzetta, con in mezzo un tavolo, e non appena si era seduta, la porta di fronte a lei si era aperta e ne era uscito suo padre, in divisa arancione. Adesso erano seduti l’uno di fronte all’altra, mentre due agenti, uno per porta, facevano finta di essere invisibili.
«Tu invece come stai?», chiese suo padre.
Eh, bella domanda. Aveva pianto per una settimana, distrutta dal senso di colpa. Poi si era data due schiaffi e si era detta che frignare non avrebbe fatto uscire suo padre di galera. Che non era questo che lui si aspettava da lei. E che doveva essere forte anche per sua madre, che non se la passava meglio di lei.
«È strano non avere più il tuo fiato sul collo». Suo padre rise e Honey con lui, felice di aver un po’ sdrammatizzato l’atmosfera. «Sto bene, sì. Insomma, me la cavo».
«JD ti tratta bene?».
Honey roteò gli occhi.
«Sì, certo che sì. Tu, invece? Che mi dici dei tuoi avvocati? Ti senti pronto per l’udienza preliminare di lunedì?».
Lo sguardo di suo padre si incupì.
«Honey, spero che tu non ti sia fatta false speranze, le probabilità che io esca di qui in tempi brevi sono…».
«Lo so, papà. Volevo solo… confortarti».
Suo padre la prese per mano, da sopra il tavolo.
«L’unico conforto che mi serve è sapere che tu stai bene e che sei felice».
Honey annuì.
Non piangere. Non. Piangere. Lo avevi giurato, che non avresti pianto più. Dimostragli che non si sbaglia, che puoi farcela, che sei grande. Guardalo, sta bene. Sta veramente bene.
Era vero. Le rughe sulla sua fronte si erano appianate; le spalle si erano rilassate, come se finalmente fosse riuscito a liberarsi del macigno che per anni era stato costretto a sorreggere. E se lui era così tranquillo, allora lei non doveva essere da meno. Con uno sforzo titanico, Honey ricacciò indietro le lacrime. Tirò fuori una cartelletta dalla tracolla e la porse a suo padre.
«È un po’ stropicciata, gli addetti alle perquisizioni sono dei veri elefanti».
Lui se la rigirò tra le mani.
«Di cosa si tratta?».
«Sono le bozze delle domande di iscrizione al college. Le belle copie sono state compilate e spedite ieri mattina. Ho pensato che ti avrebbe fatto piacere leggere cosa avevo scritto. Non far caso alle cancellature a penna, però. Come ho detto, sono le bozze».
«Hai pensato bene. Quali hai inviato?».
«Tutte. Ma spero che mi prendano alla New York University. Così non sarò costretta ad allontanarmi da…».
«JD».
«Stavo per dire da mamma. E da te. Ma sì, anche da JD».
Per un attimo Honey fu certa che suo padre si sarebbe commosso.
Potevano entrare soltanto uno alla volta. Perciò, quando ebbero esaurito il quarto d’ora a loro disposizione, Honey uscì per lasciare il posto a sua madre. Fuori dalla stanzetta, suo zio Carlisle camminava avanti e indietro, in attesa del suo turno.
«Come lo hai trovato?».
Honey non dovette pensarci nemmeno un secondo.
«Sereno. Rilassato».
Lui sbuffò.
«Tuo padre è matto come un cavallo, sappilo».
I minuti scorrevano lenti come ore. I passi claudicanti di suo zio scandivano i secondi come un orologio mal sincronizzato. Tac, ta-tac. Tac, ta-tac. Tac, ta-tac. Honey pensò che se non lo avesse fermato subito, sarebbe impazzita.
«Non ho visto Marie Louise, ieri sera. Sta bene?».
Tac, ta-
«Uhm? Ah, sì. Ha fatto cambio con Kimberly, adesso la sua serata libera è giovedì. Venerdì mattina deve svegliarsi presto, ha cominciato a seguire un corso da estetista».
«Oh, è meraviglioso!».
«Già».
Ma suo zio non sembrava davvero convinto di quel già.
«Va… tutto bene tra di voi, vero?».
Lui inarcò un sopracciglio.
«In che senso?».
Honey ammiccò.
«Dai, lo sai in che senso».
«Marie Louise ha… altro a cui pensare. Ed io non voglio esserle d’intralcio».
«Oh, andiamo!».
«Ragazzina, faresti meglio a farti gli affari tuoi».
Suo zio aveva messo su la faccia seria, quella da "Non insistere con me, sono un boss pericoloso". Così Honey si imbronciò e il discorso cadde lì.



«Ciao, Darla».
«Ciao, Honey».
«JD?».
«In laboratorio con Big D».
«Okay».
Honey si lasciò cadere sul divano, che sbuffò per il contraccolpo. Lanciò un’occhiata in tralice a Darla: se mai ci fossero stati dubbi sul sopraggiungere della primavera, lo si sarebbe comunque intuito dal suo abbigliamento, succinto più che mai. Honey aveva una voglia matta di freddarla con qualche battuta al vetriolo, tipo “Non faresti prima a non vestirti per niente?” oppure “Ti rendi conto che la stoffa che hai addosso non basterebbe a confezionare nemmeno un perizoma?”. Nonostante ciò, si trattenne. Darla non le piaceva, non le sarebbe mai piaciuta e il sentimento era reciproco. Però avevano una cosa in comune, JD. Così erano giunte a un tacito accordo: tu ignori me ed io ignoro te e siamo tutti più felici.
«Ehi, dolcezza!».
Honey sorrise.
«Ciao, Big D! Nuovo tatuaggio?».
Big D fletté il bicipite, sul quale una tigre nuova di zecca parve spiccare un salto, nonostante la pellicola trasparente che la imballava.
«Che te ne pare?».
«Stupenda!». Honey si guardò intorno. «Ma Patti non c'è?».
«No, oggi aveva una festicciola con le amichette, l’ha accompagnata Tiffany. Ah, senti, l’ho già detto a JD. Domenica prossima organizzo un barbecue a casa mia. Non credo ci sia bisogno di dirlo, giusto? Sei invitata anche tu».
Non c’era uno specchio, quindi non poteva esserne sicura al cento per cento, ma la probabilità che il suo sorriso fosse quello di una scema era molto alta.
«Oh, ehm, grazie».
Big D le fece l’occhiolino, poi si rivolse a Darla.
«Tu ci sei, giusto?».
«Non lo so. Gregory c’è?».
«Porca puttana, ma allora è vero! Gregory mi ha fatto la stessa domanda, al telefono. Voi due avete…».
Darla roteò gli occhi.
«Fatti i cazzi tuoi».



«Tu sei sicura che io non te ne abbia mai parlato, giusto?».
«Sicurissima. Forse è un tuo super potere, JD. Vedere i tatuaggi sulla pelle della gente prima ancora che alla gente venga l’idea di farseli. Sei una specie di super eroe dei tatuaggi».
«Ah, allora è per questo che sulla tua fronte vedo la scritta scema. Appena finisco con questo, mi metto subito al lavoro lì».
«Sei proprio uno stronzo».
JD rise, senza perdere la concentrazione sul polso di Honey. L’ago ronzava e nel frattempo, sotto le sue dita, l’intreccio di rovi e rose cresceva e si arrampicava lungo il braccio. Questa volta non solo nella sua immaginazione, ma per davvero.
«Allora lo faccio arrivare a metà avambraccio, giusto?».
«Sì. Deve arrampicarsi a poco a poco. Ad ogni nuovo traguardo raggiunto».
«Se scegliere il corso di studi è stato il primo, allora per quando avrai ottenuto la laurea, sarai diventata un cespuglio di rovi vivente».
Honey ammiccò, maliziosa.
«Un cespuglio di rovi molto attraente».
Con la mano libera gli accarezzò il serpente sull’avambraccio, come se stesse accarezzando qualcos’altro. Il brivido rovente sulla schiena rischiò di fargli scappare la macchinetta e di deturpare per sempre quel miracolo anatomico che aveva sotto le dita.
«Fai la brava, non voglio farti un buco sulla pelle».
«Perché ho una pelle bellissima, vero? Che ti fa impazzire».
I suoi occhi da gatta puntavano il ragno sul collo, come se avesse intenzione di baciarlo proprio lì, tra una zampa e l’altra. E poi scendere giù, far scorrere la lampo della felpa, scostare il tessuto e…
JD spense l’ago, coi nervi a fior di pelle.
«Cazzo, Honey! Ci tieni o no a questo tatuaggio?».
«Sì, scusa».
L’ago tornò a ronzare. Era divertente vederla seduta impettita, mentre si mordeva la lingua per non parlare. Proprio come la prima volta che l’aveva tatuata.
«Perché solo il polso destro?», chiese JD per farla parlare e per dimostrare che non era arrabbiato con lei.
Honey colse l’occasione al volo.
«Perché è il tatuaggio destro che tocco sempre, quando mi serve il coraggio di mio padre. Forse vederlo crescere a poco a poco insieme a me mi aiuterà a sentirmi più sicura e più forte. Sai, credo funzioni come un innesto».
JD inarcò un sopracciglio.
«Cioè?».
Lei esitò un istante. Se avesse avuto il polso libero, se lo sarebbe sicuramente massaggiato.
«Me l’ha spiegato mia madre, ma all’inizio non avevo capito. Prendi la parte di una pianta, la applichi su un’altra e… be’, è un po’ un terno al lotto, non puoi prevedere cosa ne verrà fuori. L’unica certezza è che il risultato sarà qualcosa di completamente nuovo, simile ma diverso alle piante originarie. Ecco, la fascia rossa sul mio polso è l’innesto, rappresenta quello che ho assorbito da mio padre. L’intreccio di rovi e rose, invece, è la pianta nuova. Nessuno può dire in anticipo come diventerà, crescendo, perché anche se ha accettato l’innesto e di certo non lo rigetta, non è mica detto che debba seguirlo alla lettera».
JD spense di nuovo l’ago.
«Nessuno tranne me. Dimentichi il mio super potere. Io l’ho già visto, come diventerà».
Honey si morse il labbro.
«Vuoi farmi uno spoiler?».
JD le portò una ciocca di capelli dietro l'orecchio.
«Sarà un intreccio di rovi di quelli pericolosi, che se ci caschi dentro è la fine. Perché più cerchi di liberartene, più ti graffia e ti tiene impigliato alle sue spine. Sarà coriaceo, tenace e impossibile da estirpare».
Lo champagne negli occhi di Honey frizzava.
«Se provo a baciarti mi sgridi di nuovo?».
JD sorrise.
«Assolutamente no».



«JD, non sono sicura che sia una buona idea».
«Cazzate. Avanti, entriamo».
Venerdì sera. JD aveva chiesto a Darla se le andava di fargli compagnia al Coyote Club. Lei gli aveva risposto se per caso non si era tatuato anche il cervello, oltre che il corpo. Lui l’aveva spinta in auto ridendo.
Non c’è l’esibizione della tua baby-fidanzata, stasera?
Tra un’ora. C’è giusto il tempo per il solito goccetto in onore di Wile.

Il Coyote Club era moderatamente vuoto, probabilmente la banda non si era ancora ripresa dalle recenti perdite al cantiere e dagli arresti. Darla si strinse al fianco di JD, guardandosi intorno con aria terrorizzata. Non c’era traccia di Halona. Quando si rese conto che si stavano dirigendo verso il bancone, cercò di trattenere JD per un braccio. Con scarsi risultati, purtroppo.
«No, JD. Lì no. Prendiamo un tavolo in fondo. Uno dei più nascosti e imboscati, possibilmente».
Ovviamente lui non le diede retta e si sedette al solito posto, accanto allo sgabello preferito di Wile. A Darla non rimase altro da fare che imitarlo, bestemmiando sottovoce.
«Finirò ammazzata per colpa tua».
Shiriki sul palco stava cercando di alleggerire l’atmosfera luttuosa costringendo una ragazza castana a cantare Summertime. La poveretta aveva le guance rosse di vergogna e sembrava sull’orlo delle lacrime.
«Cristo, non gli è ancora passata la fissa per il karaoke?».
«E mai gli passerà».
«Chi è la sfortunata?».
«La nuova barista».
«Se l’è già scopata?».
«No». Darla sussultò. Non era stato JD a rispondere all’ultima domanda. Ma Halona. Una Halona incazzata nera, per la precisione. «Pago profumatamente una gallina per servire ai tavoli e alla fine sono sempre io quella che sgobba. Come cazzo è possibile?».
JD sorrise.
«Un bicchiere di Grey Goose, un boccale di birra scura doppio malto e… Darla, tu cosa prendi?».
Darla gli lanciò un’occhiata, cercando di comunicargli col pensiero che doveva essere pazzo se pensava che Halona l’avrebbe servita. Era un miracolo che non l’avesse ancora cacciata a calci in culo dal club, a dire il vero. Ma i secondi passavano e Halona non aveva ancora detto nulla. Se ne stava con le mani appoggiate al bancone e la fissava con un’espressione seccata.
«Allora? Ti muovi? Ho altre ordinazioni da prendere», abbaiò infatti.
«Ehm, un bicchiere di tequila».
«Alla buon’ora».
Quando Halona si fu allontanata, la faccia di Darla doveva essere molto eloquente, perché JD prese a spiegarsi senza che lei gli avesse chiesto ancora niente.
«L’altra sera mi ha detto, testuale, “Di’ a quella puttanella della tua commessa che il suo allontanamento forzato dal Coyote Club è stato revocato”».
«E basta?».
«E basta».
«Nessuna spiegazione?».
«Nessuna spiegazione. Sarà stato qualcosa che le hai detto…».
Halona portò le loro ordinazioni, senza spiccicare parola. Nel frattempo la barista castana strillava sul palco come una gallina a cui stanno tirando il collo.
«Ma poi come cazzo ha fatto a cavarsela con la polizia?».
JD bevve un sorso del suo Grey Goose, posò il bicchiere e fece spallucce.
«Come vuoi che abbia fatto? Alla Halona!».
«Cioè?».
«L’hanno interrogata e lei ha raccontato che i Polacchi le chiedevano il pizzo, che la polizia non faceva il suo dovere, che non si sentiva tutelata e che quindi era stata costretta ad andare al cantiere per pagare. Nessuno ha potuto contraddire la sua versione, perché nessuno l’ha vista sparare. È finita che a momenti il Capitano della polizia chiedeva scusa a lei. Halona è astuta come un coyote, cade sempre in piedi».
Darla scoppiò a ridere.
«Simpatica come la merda, certo. Però profonda stima per lei. Finalmente comincio a capire perché Shiriki non l’ha mai scaricata!».



Per tutta la sera si era impedita di avvicinarsi a lui.
Non era stata una missione particolarmente difficile da portare a termine, dato che lui era rimasto seduto sempre al bancone. Le era bastato rimanere fuori dal perimetro di tiro e fingere di non averlo visto. Peccato che con tutto quel bere prima o dopo una visita al cesso era d’obbligo. Lui c’era stato due volte. Sì, lo sapeva perché aveva solo finto di non averlo visto, in realtà lo aveva tenuto d’occhio. Sì, lo aveva tenuto d’occhio molto bene, perché si era accorta di come Kimberly lo puntava. Sì, aveva intercettato Kimberly prima che riuscisse a seguirlo nel cesso, poteva benissimo trovarsi qualcun altro da spennare come un pollo, grazie tante.
La terza visita al cesso avvenne poco prima della chiusura. Lo stava ancora tenendo d’occhio: aveva lasciato delle banconote a Thresh sul bancone, prima di alzarsi. Bene, voleva dire che era salva, una pisciata e si sarebbe tolto dai coglioni, finalmente. Sarebbe potuta tornare a casa senza fare cazzate.
«Qual è la tua scusa, stasera?».
Oppure no.
Martìnez sollevò lo sguardo dalle mani insaponate e sorrise.
«Questo è il bagno degli uomini».
«Sì, ma io sono il capo della sicurezza. A me tutto è concesso. Perciò rispondi alla mia domanda».
Lui si sciacquò le mani, se le asciugò sulla giacca e poi le infilò nelle tasche dei pantaloni. Portava il solito completo trasandato. Possibile che un poliziotto non potesse permettersi abiti nuovi?
«In effetti non ho una scusa, stasera».
«Così non va. Potrei pensare che stai mettendo in atto quel tuo progettino… ricordi? Quello del poliziotto infiltrato e della telecamera nascosta».
Lui si fece serio.
«Vuoi perquisirmi?».
Gli andò sotto a muso duro e lo spintonò contro il lavandino.
«Non provocarmi, sono ancora incazzata con te».
«Stavo facendo il mio lavoro».
Benedetta sbuffò.
«Lo so».
Cristo, c’era qualcosa di sbagliato in lei. Più Martìnez si comportava da sbirro irreprensibile, più a lei veniva voglia di sbatterlo contro la parete e strappargli quell’orribile completo di dosso. Dovette serrare i pugni per impedirselo. Martìnez se ne stava così tranquillo e sereno, schiacciato tra lei e il lavandino, con le mani in tasca. Ci mancava solo che si mettesse a fischiettare.
«E ti ho parato il culo, mi pare».
«So anche questo».
«La cosa non ti piace».
«Non mi piace essere in debito con uno sbirro».
Non le piaceva, ma la mandava su di giri.
«Tu non mi devi niente, Benedetta».
Gli occhi di Martìnez erano castani. No, non di cioccolato e quelle puttanate da romanzo rosa. Erano castani, un po’ annacquati dal whisky, leali e sinceri. Occhi che non sapevano mentire, nei quali persino una come lei, che non si fidava mai di nessuno, avrebbe potuto riporre la sua fiducia.
Lo acciuffò per il colletto della giacca e lo baciò. Con violenza, e possessione. Sapeva di whisky e dopobarba. Quando lo lasciò andare, Martìnez aveva il fiatone e le mani ancora in tasca. Benedetta non riuscì a trattenere un mezzo sorriso.
«Hai imparato a tenere le mani a posto, dall’ultima volta. Mi piacciono gli uomini che apprendono in fretta».
«Non è stato facile, credimi».
Benedetta stava già sfilando la cintura di Martìnez dalla fibbia.
«Allora meriti un premio».



«La rossa al bancone ti punta da più di un’ora».
Connor ripose la chitarra nella custodia e sollevò lo sguardo. L’esibizione si era conclusa da un pezzo, l’ora di chiusura era vicina. Per via di qualche tizio collassato sul pavimento e di due o tre ubriaconi ai tavoli, il Goldfinger sembrava a stento sopravvissuto a un rave party. Non c’era da sbagliarsi, quindi. Honey stava sicuramente parlando della tipa che sorseggiava un cocktail colorato al bancone, che aveva i capelli rossi e uno stacco di coscia vertiginoso. Connor scosse la testa.
«Seee, certo, come no».
«Ti dico di sì, non fa che guardare da questa parte. Chi dovrebbe puntare? Me?».
«Be’, può essere. Magari è lesbica».
Honey staccò i cavi delle casse, sbuffando.
«Non te ne va mai bene una. Si può sapere come deve essere la tua donna ideale?». Connor si morse la lingua a sangue, mentre Honey sbarrava gli occhi come folgorata da un'improvvisa illuminazione. «Oppure…».
Una gocciolina di sudore freddo gli scese lungo la tempia.
«Oppure cosa?».
«Oppure c’è già qualcuno».
Ricominciare a respirare fu un sollievo, peccato che non si fosse minimamente reso conto di aver trattenuto il respiro.
«No, non c’è nessuno».
«Andiamo, a me puoi dirlo!».
Connor sospirò, sconfitto.
«E va bene. Ci sarebbe, ma è fuori dalla mia portata. Contenta?».
«Be’, potresti…».
«No, non potrei. Discorso chiuso. Non parliamone più».
Connor era già pronto. Honey avrebbe sicuramente insistito e insistito e insistito, cercando di vincerlo per sfinimento. Ma lui non avrebbe ceduto per nessuna ragione al mondo, così avrebbero finito col litigare e non parlarsi per qualche giorno. Questa volta, però, lei lo colse di sorpresa, riprese a occuparsi delle casse senza aggiungere nulla.
«Scusa, Connor».
O quasi.
«Non ti devi scusare».
«No, non mi riferivo alla rossa ma… a quella storia del cinema, quando ti ho dato buca».
Ah, ecco. Connor si grattò la nuca, a disagio. In realtà non ci aveva pensato più. E adesso che lei tirava fuori l'argomento, scopriva che lo lasciava... indifferente.
«Non preoccuparti, è acqua passata».
Honey si stava massaggiando il polso, mordendosi il labbro.
«Sì, ma non ti ho mai chiesto scusa».
«Be’, tu non lo fai mai in generale, quindi…».
«Lo so, infatti sto provando a cambiare il mio carattere da stronza».
«Uh, che bella novità!».
Honey si imbronciò e lo colpì sulla faccia con uno spartito. Risero entrambi. Poi Ben li sgridò, perché non avevano ancora finito di mettere a posto la loro roba. Così tornarono a lavoro, sghignazzando sotto i baffi per via di Jonathan, che faceva il verso a Ben alle sue spalle.
«Hai bisogno di un passaggio per tornare a casa?», chiese Connor, quando anche l'ultimo amplificatore venne riposto nel furgoncino volkswagen.
«No, ho la moto. E poi non torno subito a casa».
Gli occhi di Honey si posarono su JD, che la stava aspettando fumando una sigaretta, accanto alla moto.
Domanda scema, Connor. Domanda davvero scema.
«Ah, capito».
«Però potresti offrilo a lei, il passaggio...».
Honey ammiccò e Connor inarcò un sopracciglio. La rossa li aveva seguiti fino al parcheggio e bighellonava accanto al furgoncino.
«Dai, piantata!».
«Uff, quante prove ti servono?».
«Ho detto di piantarla».
«Come vuoi». Gli diede un bacio sulla guancia. «Ci vediamo dopodomani, al garage di Ben».
«D’accordo».
La guardò correre verso JD, poi decise che era meglio non affondare il coltello nella piaga e voltare le spalle alla scenetta romantica che si sarebbe sicuramente consumata di lì a poco. Intanto la rossa era ancora là, studiava il furgoncino con l’occhio critico dell’esperta. E porca puttana se erano lunghe quelle gambe!
Tentar non nuoce, si dice. E tentiamo, allora!
«Ehi, stavi cercando di fregarmi il furgoncino o ti serviva un passaggio?».
Aveva un sorriso rosso fuoco, come i suoi capelli.
«Entrambe le cose, in realtà. Questo furgoncino è una figata!».
Connor sorrise di rimando.



Vedendosela arrivare incontro, JD diede un ultimo tiro alla cicca e poi la lasciò cadere per terra, schiacciandola con la punta degli anfibi.
«Possiamo andare?».
«Sì, certo». Honey fece per prendere le chiavi dalla… dove cazzo era finita la borsa? «Merda, ho dimenticato la borsa al Goldfinger. Aspetta qui, faccio in un attimo».
JD sorrise.
«Tranquilla, non mi muovo».
Attraversò di corsa il parcheggio, deviò nel vicolo, spalancò la porta sul retro e per poco non cadde addosso a Marie Louise.
«Honey, stai attenta!».
«Oh, cacchio, scusa! Vado di fretta».
Marie Louise rise.
«Sì, l’avevo notato».
Honey ne approfittò per riprendere fiato.
«Stai tornando a casa?».
«Già».
«È tardi, perché non ti fai accompagnare da qualcuno, almeno fino alla fermata della metro? Te lo darei io, il passaggio, ma sono con la moto e ho dietro JD. Aspetta, forse facciamo in tempo a fermare Connor, lui ha il furgoncino e…».
Marie Louise la trattenne per un braccio.
«Non è necessario, tesoro. Ma grazie per il pensiero».
«Be’, nel parcheggio ho visto la Mercedes di mio zio. Perché non…».
«Perché no».
Honey serrò le labbra. Che teste quadrate che avete tu e mio zio! «Va bene». L’abbracciò di slancio, cogliendola di sorpresa. «Buona notte, Marie Louise».
«Buona notte, tesoro».
Pochi minuti dopo era di ritorno nel parcheggio.
«Recuperata la borsa? A chi stai mandando il messaggio?», chiese JD.
Concentrata sulla tastiera del cellulare, Honey scosse la testa.
«Dopo ti spiego».



La babysitter era stata pagata e congedata, Alex dormiva profondamente avvolto nel suo bozzolo di coperte. Marie Louise portò il borsone con gli abiti da lavoro in bagno e lo svuotò nella lavatrice: l’avrebbe azionata l’indomani, non voleva svegliare Alex.
Il getto bollente dell’acqua sulla pelle la fece tornare come nuova in pochi minuti. Si avvolse in un grosso asciugamano e con i capelli che ancora gocciolavano, andò in camera da letto lasciandosi dietro una scia di orme bagnate.
Indossò il pigiama di flanella, un paio di pantofole e si diresse in cucina, dove riempì il bollitore con dell’acqua e lo mise sul fornello. Si sarebbe concessa una camomilla, poi a nanna. Nell’attesa prese a tamponarsi i capelli con un asciugamano.
Il campanello di casa suonò all’improvviso. Subito seguito da una scarica di colpi sulla porta. Marie Louise sussultò. Chi poteva essere a quell’ora? La scarica di colpi continuava, qualcuno sembrava deciso a buttare giù la porta.
«Marie Louise, sono io, apri!».
Spalancata la porta, Marie Louise non ebbe il tempo di fare o dire alcunché. Il Cardinale la spinse di lato ed entrò, guardandosi intorno con sguardo spiritato. Evidentemente non aveva trovato quello che stava cercando, perché si voltò in direzione di Marie Louise con espressione perplessa.
«Cosa è successo?», le chiese.
«Primo, abbassa la voce, Alex sta dormendo. Secondo, come sarebbe a dire “Cosa è successo?”. Caso mai dovrei essere io a chiederlo a te, non credi?».
«Mi hai mandato un messaggio».
«Che?».
«In cui dicevi di avere bisogno di aiuto».
Marie Louise scosse la testa.
«Deve esserci uno sbaglio, Cardinale. Non ho mandato nessun messaggio».
In tutta risposta lui estrasse il cellulare dalla tasca interna del cappotto e glielo porse. Sul display l’sms recava come mittente il numero di Marie Louise.
«Non è possibile, il mio cellulare è nella borsa. Non l’ho toccato da quando sono tornata a casa. Aspetta qui un secondo». Andò in camera da letto, frugò nella borsa e… Tornò in dietro, scuotendo la testa e sorridendo tra sé e sé. «Non trovo il cellulare. È sparito».
Il Cardinale inarcò un sopracciglio.
«E perché sorridi?».
«Perché so chi l’ha preso. E chi ha mandato il messaggio al posto mio».
«Chi?».
«Honey».
L’informazione impiegò qualche istante prima di raggiungere le sinapsi del Cardinale. Non appena i suoi occhi si illuminarono di consapevolezza, si lasciò cadere sul divano e si massaggiò l’attaccatura del naso, sospirando pesantemente.
«Ti farò riavere il cellulare al più presto».
«Non ti preoccupare, sono sicura che domani sera riapparirà nella borsa da solo, come per magia».
«Mi spiace, Marie Louise. Non so cosa le sia saltato in mente». Il Cardinale la guardò negli occhi e all’improvviso scattò in piedi, come un bambolotto a molla. «Perdonami, mi sono seduto senza nemmeno…».
«Non ti preoccupare, non è niente».
«È meglio che tolga il disturbo. È tardi e tu sarai stanchissima».
Proprio in quel momento, il bollitore prese a fischiare.
Marie Louise aveva smesso di credere nei segnali del destino da tanto tempo, ormai. Quindi di certo non fu il tempismo del bollitore a convincerla a trattenere il Cardinale per un braccio. E nemmeno il gesto da principe azzurro che corre in soccorso della fanciulla indifesa. Il romanticismo era per le ragazzine e le casalinghe. Lei invece era una donna adulta e molto vaccinata.
«Veramente… stavo preparando una camomilla. Ti va di farmi compagnia?».
Il Cardinale esitò un istante.
«D’accordo».



Mentre Carlisle si sedeva al tavolo della cucina, Marie Louise prendeva due tazze dallo stipetto sopra il lavello, le riempiva con l’acqua e vi intingeva due o tre volte una bustina di camomilla ciascuna. Quando le poggiò sul tavolo, le tazze fumavano e l’acqua era diventata di un bel colore dorato.
«Lasciala raffreddare un paio di minuti, è bollente».
«Okay, grazie».
Bevvero in silenzio. O meglio, Marie Louise bevve. Carlisle si limitò a stringere la tazza con entrambe le mani e a fissarla con sguardo grave.
«Cosa c’è che non va?».
«No, niente».
Azzardò un sorso, per farla contenta, ma non riuscì a trattenere una smorfia. Marie Louise ridacchiò.
«Sembri mio figlio quando lo costringo a mangiare gli spinaci. Se non ti piaceva, perché non l’hai detto subito? Ti avrei offerto qualcos’altro».
«Non volevo essere scortese».
E sfidare la sorte. É già un miracolo che tu mi abbia chiesto di restare.
Intanto Marie Louise si era alzata senza dire niente. Aprì lo stipetto sopra al frigorifero, quello più in alto, probabilmente quello che Alex non poteva raggiungere nemmeno salendo su una sedia, e tornò al tavolo con un bicchiere e una bottiglia di whisky.
Carlisle sorrise.
«Mi conosci bene».
«Tutti al Goldfinger sanno che il whisky è il tuo preferito».
La studiò di nascosto, mentre gli versava il liquore nel bicchiere. Sembrava serena. Lo era sempre, in realtà, perché non era quel tipo di donna che si lasciava andare all'autocommiserazione. Ma era sempre stata una serenità rassegnata, la sua. Come quella di chi si è abituato a vivere al buio. Adesso, invece, una piccola fiammella rischiarava la notte, un passo alla volta.
«Come va con il corso?», le chiese.
«Ho appena iniziato, è ancora presto per dirlo». Fece spallucce, mentre tornava a sedersi. «Però mi piace, sono entusiasta».
«Quindi… qual è il tuo progetto? Aprire un salone tutto tuo?».
«No, non sono così ambiziosa. Mi accontento di essere assunta da qualcuno, così finalmente potrò guadagnarmi da vivere onestamente».
Carlisle fece roteare il liquido ambrato nel bicchiere, sovrappensiero. Marie Louise bevve un lungo sorso di camomilla, come per concedergli tutto il tempo di cui aveva bisogno.
«Stavo pensando…», disse finalmente. «Mia sorella frequenta spesso un salone di bellezza piuttosto grande e avviato. Potrei chiederle di…».
«Cardinale, no. Grazie, ma no».
«Prima di rifiutare potresti almeno ascoltare la mia proposta, no?».
Marie Louise poggiò la tazza sul tavolo. Come il martelletto del giudice appena prima della sentenza.
«Te l’ho già detto, non voglio essere in debito con te».
«Non saresti in debito con me, ma con mia sorella. Tu hai bisogno di fare pratica e di entrare nel giro. E se la sorella di un amico può darti una mano, che male c’è ad accettare? Pensa che lo stai facendo per tuo figlio, no?».
«Cardinale, noi non siamo amici. Ne abbiamo già parlato».
«Lo so, Marie Louise. E tu devi dare la precedenza ad Alex. Quando ti ho detto che capivo, non mi riferivo a quello che stava succedendo con Honey. Non solo. Stavo pensando a mia madre, che ha sacrificato tutta la sua vita per darne una dignitosa a me e a mia sorella». Carlisle mandò giù il whisky tutto in una volta, aveva bisogno di farsi coraggio. Poi prese un respiro profondo e la guardò dritto negli occhi. «In un’altra situazione, se fossimo state persone diverse, ti avrei corteggiata, ti avrei regalato dei fiori e ti avrei invitata a cena. Questa però non è un’altra situazione e noi non siamo persone diverse. So che non accetteresti mai di venire a cena con me. Quindi permettermi almeno di aiutarti e di esserti vicino come amico».
Marie Louise cercò di nascondersi dietro la tazza, ma era vuota ormai. La ripoggiò sul tavolo, a disagio.
«Non so che dire».
«Di’ di sì. E se proprio vorrai sdebitarti con mia sorella, le acconcerai i capelli gratis».
Se solo non fosse così orgogliosa e cocciuta... No, invece. Non sarebbe più lei.
Marie Louise prese la bottiglia di whisky, ne versò due dita nella sua tazza e altre due nel bicchiere di Carlisle. Poi sollevò la tazza, a mo’ di brindisi.
«Gratis e a vita».
Lui fece altrettanto col bicchiere.
«Gratis e per tutto il tempo che riterrai opportuno».
Bevvero alla goccia per ratificare l’accordo.



Il mazzo di chiavi tintinnava allegramente, mentre clock clock JD faceva scattare la serratura della porta del suo appartamento. Gli veniva difficile chiamarlo semplicemente casa. Ci stava così poco, lì dentro, giusto per dormire e ingurgitare una colazione veloce. Casa era il suo negozio di tatuaggi. Casa sono le persone a cui tengo, diceva Wile.
Eppure si stava instaurando una piacevole routine, la sera, quando rientrava. Spalancata la porta, Honey si fiondava come un petardo impazzito in cucina con le sporte da asporto del Los Pollos Hermanos. Nel frattempo lui appendeva chiavi e giubbotto all’attaccapanni, si legava i capelli con l’elastico che teneva in tasca, si toglieva le scarpe e a piedi nudi raggiungeva Honey, che lo rimbeccava sempre perché era troppo lento.
«Avanti, sbrigati che ho fame!».
Per l’appunto.
Lei stava già apparecchiando, dove per apparecchiare si intendeva aprire le sportine e inspirare a pieni polmoni l’odore fragrante e unto del pollo fritto con sguardo da lupo famelico. JD prese le posate dal cassetto e le mise a tavola.
«Oggi al negozio non abbiamo avuto tempo di parlarne… è andata bene con tuo padre?».
Honey distolse l’attenzione dal pollo e prese posto sulla sedia.
«Sì. E non tanto per dire, l’ho trovato davvero sereno. Non è una cosa strana?».
JD fece spallucce, sedendosi davanti a lei e prendendo la sua porzione di pollo.
«Non lo so, Honey. Non lo dico per lavarmi la coscienza, la mia coscienza non sarà mai a posto, ma… forse tuo padre aveva solo bisogno di sentirsi in pace con se stesso, e adesso a quanto pare lo è».
«Sì, hai ragione. Credo che più o meno intendesse questo, oggi. Ha solo usato parole diverse».
Mangiarono il pollo in silenzio. A JD non era mai dispiaciuto il silenzio. Prima di conoscere Honey, ci aveva passato ore intere, in silenzio, senza mai trovarsi male. Adesso, chissà perché, provava una specie di disagio, come stare seduto sui carboni ardenti. In compagnia di Honey il silenzio diventava un’entità artificiosa.
«Abbiamo dimenticato il dolce», disse quasi meccanicamente.
«Be’, a quello si può rimediare, no?». Honey ammiccò, maliziosa, facendolo ridere. «Ma prima devo darti una cosa».
«Intendi, oltre al dolce?».
Divenne immediatamente rossa.
«Scemo. Chiudi gli occhi, arrivo subito».
JD inarcò un sopracciglio, ma obbedì. Sentì i suoi passi allontanarsi velocemente e poi, dopo qualche istante di silenzio, tornare indietro di gran carriera. Qualcosa di pesante venne posato sul tavolo.
«Adesso puoi aprirli».
JD non si limitò ad aprili, lì sbarrò completamente.
«Ma questa è… Pensavo di averla persa, dove l’hai trovata?».
Honey, in piedi accanto al tavolo, sorrideva raggiante.
«L’ha recuperata mio padre e me l’ha affidata prima di… be’, lo sai. Solo che gli mancava tutta la parte superiore, così l’ho fatta riparare».
Ancora incredulo, JD impugnò Gina per guardarla da più vicino. Il frassino di cui era fatta era tornato liscio e immacolato, profumava di cera. Si intravedeva solo una sottilissima linea di congiunzione tra la parte nuova e quella vecchia.
«Il tizio che l’ha sistemata ha usato lo stesso tipo di legno», spiegò Honey. «Ha detto però che non sarebbe tornata mai più come prima. Magari potresti appenderla al negozio, sopra al bancone. Se l’è merita, in fondo, la pensione, non credi anche tu?».
Altroché se se l’è meritata.
Honey non prese a massaggiarsi il polso solo perché il tatuaggio era ancora fresco. In compenso si morse il labbro.
«Ho fatto male? Forse preferivi…».
«Scherzi? È un pensiero bellissimo. Lo sai quanto ci sono affezionato. Non so come ringraziarti!».
«È il minimo, dopo quello che hai passato a causa mia».
JD poggiò nuovamente Gina sul tavolo, afferrò Honey per un braccio e la fece sedere sulle sue ginocchia.
«Honey, ascolta…».
«Sì, lo so lo so, non devo sentirmi in colpa, me lo ripeti continuamente, ma non ho potuto fare a meno di pensare a quella volta davanti a quel diner, quando hai detto che sapevi che te ne saresti pentito...».
«Mi sbagliavo».
«…e poi c’era questa bellissima analogia con Narsil, la spada di Aragorn…».
«Nar… che?».
«Narsil. È stata spezzata in tre pezzi ed è stata rifoggiata a Gran Burrone. Non mi dire che non hai mai letto…».
«Honey…».
«Sì, hai ragione, sto cianciando come al solito».
JD le pizzicò il fianco.
«Mi piace quando cianci, mi hai fatto un bellissimo regalo, domani appenderò Gina sopra il bancone, a Wile piacerà un sacco, e non sono affatto pentito, quella volta davanti a quel diner mi sbagliavo. Adesso posso avere il mio dolce?».
Honey divenne di nuovo rossa e sbuffò.
«Te l’ho già detto che sei scemo?».
Anche dopo il dolce si era instaurata una specie di routine. Rimanevano sdraiati fianco a fianco, sotto le coperte. Se le palpebre non cedevano, JD si metteva a lavorare alle sue bozze e Honey cercava con scarsi risultati di tenere la bocca chiusa per non disturbarlo.
Il silenzio non si addiceva a Honey, JD era abbastanza taciturno per entrambi. Quando Honey non c’era, sentiva la mancanza delle sue chiacchiere. E poi, in tutta onestà, si era stancato del silenzio della sua vita da un pezzo ormai. Forse per questo motivo, prima, aveva provato quella strana sensazione di disagio.
«Ti è rimasta una cicatrice, proprio qui», disse lei, picchiettandogli il mento con l’indice. «Potresti coprirla con un tatuaggio».
Lui scosse la testa.
«No, la faccia è l’unica parte del corpo in cui non ho intenzione di farmi tatuare. Però stavo pensando di farmi crescere il pizzetto, che ne pensi?».
«Penso che non sarò certo io fermarti. Invece, a proposito di tatuaggi… che ne dici di mettere via quell’album da disegno?».
«Perché?».
«Perché ti sto immaginando col pizzetto e la cosa mi piace da matti».
La voglia di saltarle addosso ora e subito era tanta, ma cercò di controllarsi, perché la voglia di provocarla era maggiore.
«Ancora un minuto».
L’indice di Honey fece no no davanti al suo naso.
«Spiacente, qui siamo a casa e a casa non si parla di lavoro».
«Casa mia è il negozio di tatuaggi, Honey. Questo è solo il posto in cui dormo».
«Be’, di tanto in tanto ci porti me. Ci scopi, con me. E ci mangi, anche, con me. Mi hai dato perfino una copia delle chiavi! Se non è casa questa…». Honey aggrottò la fronte. «Che c’è, che ho detto?».
Casa sono le persone a cui tengo.
JD sorrise. L’album da disegno finì per terra, insieme alla matita.
«Niente, hai ragione. A casa non si parla di lavoro».
Si era proprio sbagliato quel giorno davanti a quel diner.



Zachariasz aveva fatto amicizia col suo compagno di cella la seconda sera. Aveva appeso la foto di Honey alla parete sopra la sua brandina e Chad, nel vederla, aveva fischiato con sguardo ammirato.
«Che cazzo, amico! Una sventola da paura, quella lì. Dove bazzica? Quando esco di qui mi piacerebbe farle una visitina».
Zachariasz si era voltato verso di lui lentamente, molto lentamente. Chad non era stupido, ed era indietreggiato di un passo.
«Quella è. MIA figlia. Coglione».
Poi Chad si era fatto un sonnellino sul pavimento, con lo zigomo sinistro un po’ più rosso e gonfio di quello destro. Quando era rinvenuto, aveva chiesto scusa a Zachariasz, e da allora erano diventati ottimi amici.
Gli altri detenuti non erano un problema. Honey aveva ragione, i suoi tatuaggi erano davvero magici. Non appena li metteva in mostra, la gente evaporava come neve al sole. Ogni tanto si imbatteva in qualcuno della vecchia squadra di persuasione, ma quando capitava, si limitavano a salutarsi con un cenno del capo, come vecchi amici che sanno di non avere più niente da dirsi se non “Ciao, come va?”.
Tutto sommato Chad era un buon compagno di cella, anche se chiacchierava a ruota libera, pure mentre dormiva. Chissà come, riusciva a fargli avere tutto quello di cui aveva bisogno. Come la piccola torcia a batterie, ad esempio. Le luci nella cella venivano spente molto presto, la sera. Zachariasz non riusciva a prendere sonno prima delle undici, così la torcia gli era molto utile per ammazzare il tempo a suon di libri. La biblioteca della prigione era molto fornita.
Quella notte, però, era un’altra la lettura alla quale aveva deciso di dedicarsi.


Quesito n° 10: Come e dove ti vedi tra dieci anni?

La prima volta che ho letto questo quesito, d’istinto avrei risposto “Che cazzo di domanda!” “Ed io che cazzo ne so?” “Ed io come faccio a saperlo?”. Dieci anni sono un tempo infinito, soprattutto per una come me, che non sa nemmeno cosa mangerà a cena.
Questa domanda mi ha veramente messa in crisi, nelle ultime settimane. Non si tratta di mancanza di immaginazione, non sarebbe un problema per me inventare quattro puttanate frasette ad effetto per ingraziarmi la vostra simpatia. Il punto è che si sta parlando del mio futuro e ancora purtroppo non riesco a vederlo in maniera nitida, ‘sto cazzo di questo futuro.
Fin da piccola ho vissuto in una teca di vetro, sono stati gli altri a prendere le decisioni difficili per me. Forse perché a ragione non mi ritenevano abbastanza matura per farlo. Oppure, più probabilmente, perché mi volevano bene e quando si vuole bene a una persona si cerca di proteggerla, sempre e comunque. In ogni caso, quasi certamente è per questo motivo che oggi sono una bambina viziata ho difficoltà a decidere da sola a cuor leggero e a immaginare un futuro diverso da quello che gli altri avevano previsto per me.
So che adesso vi aspettate la svolta brillante, che mi farà apparire ai vostri occhi come la studentessa più promettente che abbiate mai avuto la fortuna di incontrare. E non potete capire quanto io per prima vorrei che fosse così. La verità invece è che una risposta a questo cazzo di quesito non l’ho ancora trovata.
Però ci sto lavorando.
Non so se qualcuno di voi abbia mai visto come lavora un tatuatore. Prima di poter posare l’ago sulla pelle, è essenziale scegliere il soggetto. Dopo di che, si passa a disegnare la bozza del tatuaggio. Qualunque tatuatore, anche il più incapace meno bravo, vi dirà che raramente il tatuaggio finale, quello che ti ritrovi sulla pelle, ha qualcosa a che fare con la primissima bozza. Soprattutto se al tatuatore capita un cliente rompiballe indeciso. Ecco, io sono la classica cliente stronza indecisa, il mio futuro tra dieci anni è la bozza del suo tatuaggio.
Intanto ho scelto il soggetto, che non è cosa da poco.
Ho deciso di studiare legge. Mi piacerebbe diventare un avvocato penalista, perché se c’è una cosa che ho imparato dalla mia famiglia, soprattutto da mio padre, è che giusto o sbagliato sono solo concetti relativi. È giusto che un uomo si prenda la colpa di un crimine che non ha commesso per salvarne un altro? È sbagliato voler bene a un padre anche se in passato ha fatto cose di cui non va fiero? Il mondo non è bianco e nero, e in questo particolare momento della mia vita sento che mi piacerebbe aiutare chi vive nel grigio.
Come ho già detto, si tratta solo di una bozza.
Non è detto che non apporti delle modifiche durante la fase di progettazione. Che piacciano o no al E non importa cosa ne penserà il tatuatore, perché artista o no il tatuaggio sulla pelle me lo devo tenere io, non lui.
Come e dove mi vedo tra dieci anni ancora non lo so, dunque.
Posso assicurarvi, però, che sarò esattamente come e nel posto in cui io, e soltanto io, vorrò ho deciso di essere.



Zachariasz si passò il dorso della mano sugli occhi, poi ripose il foglio nella cartelletta di Honey, insieme a tutti gli altri. Col sorriso sulle labbra, spense la torcia.
«‘Notte, Chad».
«Buonanotte, Zachariasz».
Sì, quella era proprio una buona notte.







_____________







Note autore:
Questo era l'ultimo capitolo.
Prima dei saluti…
Se siete curiosi di scoprire come è proseguita la serata di Connor, potete dare uno sguardo a questa one-shot: Misunderstanding.
Se invece non ne avete ancora abbastanza di JD e Darla, Pavoni & Giarrettiere è un prequel che racconta di come questi due personaggi si sono conosciuti.
Infine vi consiglio lo spin off Pornoromantico di Dragana, che parla del primo appuntamento di Big D e Tiffany. Risate e pornoromanticismo garantiti.
EDIT del 18/04/2014 - Dragana ha scritto un altro simpaticissimo spin-off, con protagonista Darla: Gatte Randagie.
E adesso…
Non sono brava con i saluti e i ringraziamenti. JD mi ricorda che secondo Wile era meglio rimanere in silenzio quando non si aveva niente di originale da dire. Ma Wile e JD sono due orsi di poche parole da non prendere come esempio, perciò cercherò di fare del mio meglio cominciando dalla parola più scontata.
GRAZIE.
A Dragana, a OttoNoveTre, a Jakefan e a tutto il gruppo NaNoWriMo for Dummies: sfida di scrittura!, perché senza il loro aiuto questa storia non esisterebbe.
A tutti voi, che vi siete lasciati intrattenere da questo racconto di poche pretese. La funzione di una storia è principalmente questa: intrattenere. Spero, nel mio piccolo, di esserci riuscita.
Intanto sono contenta di aver condiviso con voi il mondo di JD, Honey, Darla e compagnia. Una mia compagna di scrittura una volta ha detto che condividere le proprie storie su EFP è come mettere i propri giochi in un cesto e lasciare agli altri bambini la possibilità di giocarci. Ho sempre pensato che la metafora fosse azzeccatissima: oltre alla gioia della condivisione, infatti, devi mettere in conto la possibilità che il giochino non piaccia a tutti o che un bambino lo rompa. E un piccolo rischio che secondo me vale sempre la pena correre. Se non avessi condiviso il mio giochino con voi, non avrei mai letto le vostre bellissime recensioni. Se non avessi cominciato a mettere i miei giochini nella cesta, non avrei conosciuto tante belle persone.
Grazie di cuore.
Alla prossima.

Ritorna all'indice


Capitolo 11
*** Extra ***


Per la serie…
“Quando vannagio vaneggia!”







Dedicata a fila, che oggi compie gli anni!
Tantissimi auguri!




Extra
-La grigliata-




«Quindi… quando ci vediamo per la prossima seduta?».
JD scostò la tenda per far passare Ted.
«Giovedì alle cinque va bene?».
Ted annuì.
«Ottimo».
«Un sorriso per la stampa!».
JD e Ted ebbero appena il tempo di voltarsi e si trovarono di fronte alla lente di un obbiettivo, incorniciata da un caschetto nero. Subito dopo il click dello scatto e il sorriso di Darla che faceva capolino da dietro la fotocamera.
«Darla, ma che cazzo…?».
«Ted, per favore, alzeresti la maglietta?».
Glielo chiese come se gli stesse proponendo di appartarsi dietro la tenda per una sveltina. Probabilmente lo aveva fatto davvero: quando JD era arrivato al negozio, quel pomeriggio dopo la pausa pranzo, aveva trovato Darla seduta sul marciapiede a fumare una sigaretta e Ted stravaccato sul divano a fissare il soffitto come uno che ha appena raggiunto il nirvana.
«Se me lo chiedi con quel sorriso, la maglietta non sarà l’unica cosa ad alzarsi, dolcezza».
«Tu sì che sai come si parla a una donna». Darla inquadrò il complicato tatuaggio maori che occupava metà busto di Ted e – click – poi contemplò soddisfatta la fotografia sul dispay. «Posso pubblicarla su internet, vero?».
«Nessun problema».
Non appena Ted fu uscito dal negozio, non prima di aver insistito per avere il numero di telefono di Darla, che per esasperazione lo aveva accontentato, JD incrociò le braccia al petto.
«Darla, si può sapere che combini?».
«Niente paternale, okay? Ted è un bravo ragazzo, quando si accorgerà che gli ho dato un numero falso se ne farà una ragione».
«Non me ne frega un cazzo di Ted, mi riferivo alla foto».
Darla roteò gli occhi e andò a sedersi dietro al bancone, davanti al portatile.
«È per la tua pagina Facebook».
«Ho una pagina Facebook?».
«In realtà ce l’ha il tuo negozio. Sto assemblando degli album, così la gente vedrà quanto sei bravo e farà a botte per avere un tuo tatuaggio».
«Il tatuaggio di Ted non è completo…».
«Fa niente, metterò la sua foto nell’album “Work In Progress”».
«…e mi sembra di avere detto circa un milione di volte di non volere pubblicità. Porta solo coglioni e tatuaggi idioti».
«Con l’arte non si mangia, JD, ed io ci tengo al mio stipendio».
«Nessuno qui ha mai messo in discussione il tuo stipendio».
«C’è crisi. Meglio non lasciare nulla al caso».
JD si appoggiò al bancone con entrambe le mani e si sporse verso Darla, fissandola dritto negli occhi.
«Cancella. Quella cazzo. Di pagina».
L’espressione cordialmente perplessa di Darla era a un palmo dalla sua faccia. «Sei minaccioso come un gattino che arruffa il pelo, JD. Adesso smetti di fare i capricci e va’ a disegnare nella tua stanza». Si alzò dallo sgabello, gli scoccò un bacio sul naso e girò intorno al bancone col passo di una pantera. «La mamma va a fumare una sigaretta e poi torna a occuparsi delle cose da grandi. Oh, ciao, Honey! Che sorpresa, sei in anticipo!».
Honey era ferma sulla soglia. Con due palle da bigliardo al posto degli occhi.
«Le lezioni sono finite prima, oggi», farfugliò.
Prima di uscire dal negozio, Darla diede un bacio anche a lei, sulla guancia. Honey la seguì con lo sguardo, poi si voltò in direzione di JD con la fronte corrugata.
«Ho interrotto qualcosa?».
JD si grattò la nuca.
«Solo il solito teatrino di Darla. Si è messa in testa che deve occuparsi della mia PR».
Honey lasciò cadere la borsa coi libri sul pavimento e gli andò incontro. Quando gli fu di fronte, prese un fazzoletto di carta dalla tasca del giubbotto e glielo sfregò sulla punta del naso. Prima che finisse nel cestino, JD notò sul fazzoletto una macchia rossa della stessa tonalità del rossetto di Darla.
«Be’, odio ammetterlo», disse Honey. «Ma stavolta concordo con lei. Ti serve un po’ di pubblicità, qualcosa che attiri i clienti».
JD inarcò un sopracciglio.
«Tu che sei d’accordo con Darla? Il mondo sta per finire, per caso?».
Fiato sprecato, Honey era già partita per la tangente. Le sue guance avevano riacquistato colore, mentre sulla sua faccia si disegnava un’espressione genuinamente entusiasta.
«Sai cosa dovresti fare? Mettere un cartello!».
«Un cartello?».
«Sì, all’imboccatura del vicolo, per segnalare il negozio alla gente che passa. Un bel cartello colorato, con una frase carina. Una citazione, magari. Un aforisma che abbia a che fare con i tatuaggi». Gli diede un bacio a stampo sulla bocca e si fiondò sul portatile di Darla. «Vediamo se Google ci suggerisce qualcosa…».
JD si coprì la faccia con entrambi le mani e sospirò.
«Honey, speravo nella tua antipatia verso Darla per avere supporto contro la sua crociata. Non potevi scegliere un altro momento per passare dalla sua parte?».
Il ticchettio sulla tastiera si fermò solo per mezzo secondo.
«Se glielo dici ti ammazzo».
Scuotendo la testa, JD si diresse verso il laboratorio.
«Vado di là a disegnare. Potrai venire a farmi compagnia solo quando avrai finito di complottare alle mie spalle con Darla».
«Aspetta, volevo chiederti una cosa!».
«No, Honey. Lo spot pubblicitario in tv no. Su questo sono categorico».
«No, scemo. Riguardava la grigliata a casa di Big D. Volevo sapere… come mi devo vestire?».
JD aggrottò la fronte. Poi lanciò un’occhiata ai vestiti di Honey. Chiodo di pelle nera. Un maglietta di pizzo che lasciava intravedere un top blu elettrico a fascia. Una minigonna a balze con orli di pizzo. Calze a righe nere e blu lunghe fino alle ginocchia. Anfibi.
Fece spallucce.
«Normale. Vestiti normale».
Lei sbiancò all’improvviso, ma non disse nulla.
«Che c’è? Che ho detto?».
«No, niente». Tornò a fissare il pc. «Normale va benissimo».



Normale.
Nor. Ma. Le.
Nooooormaaaaaaleeeee.
Che c’è di difficile?
Tutto, porco cazzo!

Se ne stava a gambe incrociate sul pavimento, davanti a un armadio che trasudava pizzo, borchie, roba nera, gotica e assolutamente NON normale, da circa un quarto d’ora e ancora non era venuta a capo del rompicapo. Avrebbe fatto meglio ad ascoltare il suo istinto e comprare qualcosa di normale quando ne aveva avuto l’occasione, il giorno prima. Ma lo struzzo che era in lei aveva preferito ficcare la testa in un buco e fare finta che il problema non ci fosse.
Anche perché, stupidamente, si era lasciata cullare dall’idea di chiedere qualcosa in prestito a sua madre. Solo quando si era trovata a dover scegliere tra un mucchio di abiti color pastello, aveva preso coscienza di quanto a largo si fosse spinta nel mare di merda in cui era cascata. Era tornata nella sua stanza con la testa infossata nelle spalle.
Forza e coraggio, Honey. Chi cerca trova.
Si rimboccò le maniche e cominciò a scavare un tunnel tra i vestiti dell’armadio. Ne riemerse venti minuti dopo, con la sensazione di essere arrivata in Cina. In pugno stringeva gli abiti più normali del suo guardaroba: una T-shirt degli Incite Delirium e un paio di jeans neri con le ginocchia bucherellate.
Li indossò a razzo, chiedendosi se gli anfibi fossero abbastanza normali per i gusti degli amici di JD… poi si ricordò che doveva esserci un paio di Converse con le borchie, da qualche parte sepolto nell’armadio. Altri cinque minuti passati a spalare vestiti le confermarono che sì, le Converse c’erano ancora, ma in pessime condizioni. Comunque sembravano in grado di reggere un giorno in più, quindi indossò anche quelle.
Infine contemplò il risultato allo specchio.
Cazzo, dimostrava sì e no quindici anni. Già aveva nelle orecchie le prese per il culo di Darla. E gli amici di JD l’avrebbero trattata come una coetanea di Patti.
È tardi e non è che tu abbia molta scelta: questo, il pigiama coi teschietti o essere presa per una zoccola, si disse sconsolata.
Il clacson della vecchia Ford le ricordò che JD la stava aspettando già da mezz’ora, così volò giù per le scale, afferrò la torta che aveva preparato per l’occasione, salutò sua madre e corse lungo il vialetto. JD era appoggiato alla fiancata dell’auto, con una sigaretta tra le dita. Quando la vide, il suo sopracciglio ebbe un piccolo fremito. Honey sapeva che con un uomo di poche parole come JD anche la più impercettibile delle smorfie nascondeva mille significati.
«Cosa?».
Lui distolse lo sguardo e spense la sigaretta contro la suola della scarpa.
«Uhm, niente. Andiamo, dai. È tardi».
«JD, parla, cazzo!».
Lui si grattò la nuca. Ahia, pessimo segnale.
«Niente, è solo che… sei vestita in modo…».
Honey ebbe un tuffo al cuore.
«Non va bene? Non ti piaccio?».
«No… cioè, sì. Stai bene, sei solo diversa dal solito. Tutto qua. Ma va bene, eh?».
Quello era il colmo. Gli puntò l’indice accusatore nel centro del petto e lui indietreggiò di un passo.
«Me lo hai detto tu! “Vestiti normale”, hai detto così, non ricordi?».
JD sembrava indeciso tra sgranare gli occhi e scoppiare a ridere. Il risultato fu una specie di colpo di tosse.
«Intendevo… normale! Come al TUO normale».
«Col mio normale avevo paura di fare la figura della zoccola!».
«Honey… le altre ragazze sono Darla e Tiffany. Presente? La ragazza generosa e la ex-pornostar».
Due fighe stratosferiche e lei si era vestita come una liceale del primo anno? Voleva nascondersi nel suo tunnel di vestiti e non uscirne mai più.
Fece per correre indietro, ma JD la trattenne per un braccio.
«E adesso dove pensi di andare?».
«A cambiarmi. Faccio in un attimo, promesso!».
Lui scosse la testa.
«Nemmeno per sogno. Siamo in ritardo, non c’è più tempo».
«Ma… io…».
«Honey, faresti un figurone anche con un sacco di iuta. Sta’ tranquilla».
La spinse dentro l’auto e pose fine alla discussione chiudendo la portiera.



«Non c’è bisogno di essere nervosa».
«Non sono nervosa, infatti».
«Davvero?».
Con un cenno del mento, JD indicò la mano sinistra di Honey, che stava stringendo spasmodicamente il polso destro all’altezza del tatuaggio.
Oh, porca pu… Il dannato tic nervoso la tradiva sempre!
Honey afferrò il vassoio con la torta, che aveva poggiato sul cruscotto, e smontò dall’auto sbuffando rumorosamente. JD si lasciò sfuggire una mezza risata, mentre smontava anche lui e la seguiva lungo il vialetto.
Big D e Tiffany vivevano a Midwood, in una graziosa casetta monofamiliare dalle imposte bianche e l’intonaco color lavanda. Il piccolo portico era una giungla di piante, che crescevano rigogliose nei vasi ancorati alla ringhiera o in quelli che pendevano dalla grondaia. Nell’angolo sotto la finestra, c’era una robusta sedia a dondolo in legno chiaro e, sparsi tutto intorno ad essa, centinaia di mattoncini colorati della Lego. Dal retro della casa si propagava l’odore acre del fumo e il vocione roboante di Big D, che si sovrapponeva senza alcuna fatica agli strilli di una chitarra elettrica.
JD suonò il campanello un paio di volte e la porta venne aperta una manciata di secondi più tardi.
«JD, tesoro, finalmente! Cominciavamo a preoccuparci. Che cosa è successo? Di solito non sei mai in ritardo».
Due mani dalle unghie laccate di rosse afferrarono JD per le spalle e mandarono la sua faccia a schiantarsi contro due labbra a canotto dello stesso rosso. Honey aveva già visto Tiffany in foto, ma dal vivo era un altro paio di maniche. Le prime tre parole che le vennero in mente furono: appariscente, come il trucco pesante intorno ai suoi occhi; esagerata, come le tette strizzate dentro al top leopardato; sgargiante, come il rosa shocking della sua minigonna.
«La Ford ha fatto i soliti capricci», rispose JD.
Dio, quanto lo amava! Honey avrebbe voluto ricoprirlo di baci per non averla sputtanata davanti alla loro ospite.
«Te lo avrò detto un milione di volte di mandare la vecchia caretta dallo sfascia carrozze. Mai una volta che mi dai retta, brutta testa di cazzo!».
Alle spalle di Tiffany era comparsa l’enorme sagoma monolitica di Big D. Diede una pacca sulla spalla di JD, che per poco non finì a pomiciare col pavimento del portico, e strizzò Honey in un abbraccio spaccaossa.
«Tu devi essere la piccola Honey». Gli occhi da sfinge di Tiffany si erano posati su di lei, che non poté fare a meno di trattenere il respiro. «Ho sentito molto parlare di te». La baciò su entrambe le guance. «È un piacere fare la tua conoscenza».
«Piacere mio…». Signora? Naaaah! «…Tiffany. Ho portato una torta». Le porse il vassoio cercando di sorridere in modo spontaneo e naturale. «Una torta alle noci».
Il sorriso di Tiffany si incrinò appena.
«Veramente… sono allergica alle noci».
«Oh…» merda! «…io… non ne avevo idea, mi spiace molto».
«Meglio così!», esclamò Big D. «Ce ne sarà di più per me! Ma non state lì impalati, entrate! Gli altri sono già in giardino».
Mentre seguivano la minigonna sculettante di Tiffany e le spalle titaniche di Big D attraverso la casa, Honey diede una piccola gomitata a JD.
«Potevi dirmi che era allergica alle noci», bisbigliò.
«Non mi hai detto che avevi intenzione di cucinare una torta».
«Potevi immaginarlo! È da maleducati presentarsi a mani vuote in occasioni come queste».
JD sollevò le due confezioni di birra che stringeva in una mano.
«Infatti ho portato questa! Semplice, economica e piace a tutti».
Honey fece una smorfia. Peccato che non avesse ancora l’età per comprare alcolici, lei, a differenza di tutti gli altri invitati alla grigliata. Cazzo, certe volte era davvero seccante essere la molto-più-giovane-ragazza di un trentunenne!



Il giardino era un rettangolo verde, circondato da uno steccato bianco: sul lato destro c’era il barbecue, un lungo tavolo e le panche in legno; su quello sinistro un piccolo roseto di rose rosse e bianche, che avrebbe fatto schiattare di invidia sua madre.
Patti sedeva su una coperta di Hallo Kitty distesa sul prato. Indossava un grazioso vestitino rosa, tutto tulle e fiocchetti, portava i capelli biondi legati in un vaporoso chignon e calzava un paio di scarpette rosa lucido: sembrava una ballerina in formato ristretto. Stava giocando con la sua bambola preferita, quella di cui aveva “tatuato” le braccia con i pennarelli colorati.
«Mi raccomando», disse Tiffany. «Niente parolacce davanti a mia figlia».
«GREG! BRUTTA TESTA DI CAZZO!».
Big D corse come un toro imbufalito verso il barbecue, dove un uomo stava armeggiando con la griglia. Barba curata nei minimi dettagli per apparire incolta, maglia a fiori, bretelle, braccia tatuate, pantaloni col risvolto e mocassini. Sul tavolino accanto al barbecue c’era anche un cappello.
Gay o hipster?, si chiese Honey.
«Cazzo, D. Stavo solo ravvivando la brace!».
Big D gli strappò l’attizzatoio dalle mani e lo agitò minacciosamente davanti alla sua faccia.
«Per l’ultima volta. In questa casa. Nella MIA casa. Mi occupo io del barbecue. Del MIO barbecue. Intesi?».
L’espressione omicida sul suo volto faceva paura, ma il tizio di nome Greg non fece una piega. Al contrario, alzò gli occhi al cielo con aria esasperata.
«Dio mio, come sei possessivo con le tue cose, D! Stavo solo spiegando a Darla che ci vorrebbero dei pezzetti di legno di ciliegio da mettere nella brace, perché donano delle splendide colorazioni rossastre alla carne. In alternativa… legno di rovere, pesco, melo o castagno sarebbero azzeccatissimi per…».
«Te lo do in testa, il castagno, se non ti levi subito dalle palle!».
«Va bene, va bene».
Per nulla offeso, Greg gli cedette il posto davanti alla griglia e lanciò un’occhiata d’intesa a Darla (adagiata come una gatta sonnacchiosa sulla sdraio), che sembrò passarla ai raggi x.
«C’è spazio per me su quella sdraio?».
Darla sfoderò un sorriso ingenuo studiato al millimetro.
«Se non ti dispiace stare un po’ strettini…».
«Assolutamente no!».
Hipster, senza alcun dubbio, e decisamente etero, fu la conclusione di Honey.
Fu in quel momento che Darla si accorse di lei. La studiò dall’alto in basso lentamente e quando tornò a guardarla in viso sorrise.
«Mi piace come ti sei vestita oggi. Fa’ molto Mathilda di Léon al suo primo giorno di liceo».
«Sempre meglio di te». Indossava i soliti pantaloncini infrachiappa e il pezzo di sopra di un bikini all’uncinetto. «Ci sono film porno in cui gli attori sono più vestiti».
Qualcuno poggiò una mano sulla sua spalla. Nel voltarsi Honey si ritrovò a pregare che la terra si aprisse sotto di lei seduta stante e la inghiottisse in un sol boccone. Gli occhi da sfinge di Tiffany sorridevano serafici.
«In realtà, per gli standard di un film porno, Darla è ancora troppo vestita, fidati».
JD, che si era fermato a chiacchierare con un ragazzo asiatico, la raggiunse poco dopo.
«Che c’è? Sei pallida!».
«Ho appena fatto una battutaccia sui film porno e Tiffany mi ha sentita».
JD le diede un buffetto sulla testa.
«Non ti preoccupare, Tiffany c’è abituata. Sono anni che Gregory si versa dell’acqua sul pacco nella speranza che gli chieda di togliersi i pantaloni».
«Se lo dici tu…».
«Vieni, ti presento gli altri».



«Hai presente gli album di scritte giapponesi che tengo sotto il bancone?».
Honey annuì.
«Be’». JD diede una pacca sulla schiena a Hiroshi, che sorrise compiaciuto. «È lui che mi passa le frasi».
«Sul serio? Sei tu l’artefice di questo diabolico piano?».
Hiroshi scosse la testa.
«Oh, no. L’idea è di JD, io l’ho solo aiutato a metterla in atto».
«Allora so chi ringraziare per la figuraccia di qualche mese fa», disse Honey. «Non ricordo perché, mi ritrovo a sfogliare uno degli album incriminati. Incappo in una frase che secondo la traduzione sottostante significa “Per perdere la testa bisogna averne una!” tra parentesi “di Albert Einstein” e dico a JD “Certo che Einstein doveva essere un tipo spiritoso”. Lui mi guarda in faccia, serio, per tre secondi netti. Poi non ce la fa più a trattenersi e sbotta a ridere come un pazzo».
«“Shiride banana ototte”», recitò JD. «Letteralmente “Puoi prendere una banana col culo?”».
«Oddio, quella frase?!», esclamò Hiroshi. «Era diventata un tormentone alle grigliate di Big D, due anni fa. Hai occhio, Honey. Il piano diabolico, come lo chiami tu, è cominciato proprio da lì».
«E pensare che è molto richiesta tra i miei clienti! In giro per New York ci sono almeno una ventina di persone con la frase “Puoi prendere una banana col culo?” tatuata sul fondoschiena».
JD, Honey e Hiroshi risero contemporaneamente.
Hiroshi era un tipo simpatico. L’aveva accolta con un caloroso sorriso e lei aveva tirato mentalmente un sospiro di sollievo nel scoprire che c’era un suo coetaneo nel gruppo degli amici di JD. Hiroshi aveva un viso pulito, quasi da adolescente, con un mento appuntito. Davanti agli occhi portava una zazzera di capelli così neri da avere riflessi blu. Da sotto la camicia, che gli cadeva addosso retta e lunga, spuntavano due gambe sottili come stuzzicadenti. Con una divisa scolastica da liceo giapponese, sarebbe stato il cosplay perfetto di un qualche manga yaoi.
«JD mi ha detto che hai fatto domanda per l’università», disse Hiroshi, una volta accantonato il discorso tatuaggi. «In cosa vorresti laurearti?».
«Legge», rispose prontamente Honey.
Lui fischiò.
«Uh, impegnativo. Mio padre avrebbe voluto che diventassi avvocato, ma alla fine ho scelto architettura».
«A quale anno sei?».
Hiroshi inarcò il sopracciglio.
«Prego?».
«Di università, intendo».
Il sopracciglio di Hiroshi rimase inarcato. Poi lui e JD si rivolsero un’occhiata perplessa e le scoppiarono a ridere in faccia di punto in bianco.
«Non capisco, cosa ho detto di divertente?».
JD riprese fiato, tenendosi la pancia.
«Hiroshi lavora nello stesso studio di architettura di Gregory. Si è laureato da un po’».
«Da un bel po’», lo corresse Hiroshi.
«Ha la bellezza di trentacinque anni».
«Trentaquattro e mezzo, grazie».
Grandissima. Figura. Di merda.
Doveva essere impallidita, perché Hiroshi le sorrise.
«Non ti preoccupare, Honey. Lo prendo come un complimento».



«D, non è che hai salato la carne prima, vero?».
«Per chi cazzo mi hai preso?». Il tossicchiare di Tiffany fece sussultare Big D, che deglutì a vuoto. «Cioè… volevo dire, per chi caspita mi ha preso?».
Gregory annuì compiaciuto.
«La carne va salata sempre in fase di cottura, altrimenti si trasforma in una suola di scarpa».
«Lo so, porca puttana! LO SO!».
Tiffany si schiarì la voce una seconda volta e Big D si tamponò il sudore sulla fronte con un tovagliolo.
«E poi è importante farla marinare per qualche ora, prima di cuocerla», continuava imperterrito Gregory. «Hai…».
«Oh, Cristo…». Tiffany fulminò Big D con un’occhiataccia. «…baldo. Certo che l’ho marinata! Adesso, grandissimo pezzo di… pupù, mi faresti il piacere di portare il tuo fondoschiena sulla sdraio e lasciarmi cucinare in pace? Ho tutto sotto controllo».
L’occhiata scettica di Gregory fece ridere tutti. Anche Honey, che si era messa un po’ in disparte. Con tutte le brutte figure che aveva accumulato in pochissimo tempo, aveva deciso che era meglio per lei tenersi a una distanza di sicurezza. Così, mentre Big D difendeva a forchettone tratto il barbecue dagli attacchi di Gregory (“Non devi usare il forchettone, se pungoli la carne, i succhi che la rendono morbida escono fuori e la bistecca diventa di gomma. Tiffany, per favore, va’ a prendere una paletta!”), Patti disegnava sulla sua coperta di Hallo Kitty e JD chiacchierava con Darla, Tiffany e Hiroshi, lei sedeva su una sdraio all’ombra, ufficialmente perché aveva caldo.
«È inutile che ti sforzi».
Era stato Nathan a parlare, seduto anche lui all’ombra poco più in là. Insieme a Gregory, aveva condiviso l’appartamento con Big D prima che si sposasse con Tiffany. JD le aveva raccontato che possedeva un negozio di roba metallara e suonava a tempo perso in una band. Aveva sperato che con lui sarebbe stato più semplice legare, ma quando erano stati presentati, le aveva rivolto solo un ciao smozzicato.
«Che intendi?», gli chiese.
Lui fece spallucce e si tirò indietro i capelli.
«Di farteli tutti amici. È come con la tua maglietta».
Honey abbassò lo sguardo sulla t-shirt degli Incite Delirium, cercandovi una risposta.
«Scusa, ma ancora non capisco».
Nathan incrociò le braccia dietro la testa.
«Non è che adesso diventi una fan degli Incite Delirium solo perché indossi una loro maglietta».
Eh?
«Guarda che io sono una fan degli InDel».
«Ed io sono Kirk Hammett solo perché possiedo una chitarra. Stai mentendo, sei troppo giovane per conoscere davvero gli InDel».
Quindi non solo trattata come una mocciosa, anche accusata di essere una poser?!
«L'ultima traccia del primo cd era "Alfa&Omega", ma la mia si interrompeva prima della fine perché era finito il nastro». Nathan si accarezzò il pizzetto. Honey prese coraggio. «Te lo giuro! Avevo anche preso una cotta pazzesca per il batterista, come si chiamava... Ross».
«Vabbè, questa è scontata. La cotta per Ross ce l'hanno avuta tutti, me compreso».
Gregory, che nel frattempo aveva vinto la battaglia del barbecue per abbandono di Big D (“To’h, pensaci tu, visto che sei tanto bravo! Basta che non rompi più il caz… voglio dire, le scatole”), rimase con una bistecca gocciolante sospesa sulla carbonella.
«Che c'è! Ross è talmente eterosessuale che ti fa diventare gay, è risaputo».
L’ombra si fece all’improvviso più scura. L’enorme sagoma di Big D si era frapposta tra loro e il sole.
«Ehi, dolcezza, per caso quel disadattato di un metallaro ti sta dando fastidio?».
Honey fece di no con la testa.
«Stavamo solo parlando di musica».
«Appunto! Quello quando parla di musica diventa uno schizzato».
«Concordo», si intromise Gregory. «Il giorno che ci siamo conosciuti, quando sono andato a vedere la stanza da prendere in affitto, mi ha fatto il terzo grado sulla musica che ascoltavo».
Nathan sbuffò.
«E se mi capitava un coinquilino con gusti musicali del cazzo? Cioè, scusa, Tiffany. Volevo dire… del piffero».
Gregory scosse la testa.
«Sembravi uno schizzato, ho quasi considerato l’idea di cercare un’altra stanza per colpa tua».
Nathan mise il broncio.
«Divento schizzato solo quando parlo di musica con voi due, perché non ne capite un ca… volo. A differenza sua», concluse, indicando Honey.
Lei inarcò un sopracciglio e incrociò le braccia sotto al seno.
«Ah, quindi adesso non sono più una poser?».
Il ridacchiare di qualcuno, per la prima volta non causato da una sua figura di merda, le fece provare una piacevole sensazione di calore allo stomaco. Forse Nathan aveva ragione, dopo tutto. Doveva solo smettere di sforzarsi.



Nel bel mezzo dell’abbiocco post-pranzo, Gregory scattò in piedi, fotocamera alla mano.
«Facciamo una foto!».
Dal gruppo si levò una specie di lamento unanime.
«Un’altraaaaaa?».
«Avanti, ci vuole una foto di gruppo!», insistette lui.
«A me sta bene», disse Darla. «Dopo me la passi, voglio postarla sulla pagina Facebook di JD».
Honey annuì.
«Non male come idea!».
JD, che stava disegnando una rosellina sul dorso della mano di Patti con un pennarello lavabile, sollevò lo sguardo dal piccolo capolavoro e le lanciò un’occhiataccia.
«Cosa c’entra una foto della grigliata nella…», mimò le virgolette con le dita, «…mia pagina?».
Darla fece spallucce.
«Una foto con gente tatuata…».
«…più pertinente di così si muore», concluse per lei Honey.
JD le guardava perplesso.
«Sì, ma… non sono tutti tatuaggi miei».
«E allora?», replicò Darla. «Alla gente piace ficcanasare nella vita altrui. Più ficcanasa, più si affeziona. Più si affeziona, più spende soldi per farsi tatuare da te. Più soldi per te, più aumenti per me».
Tiffany stava tagliando la torta alle noci di Honey.
«Non fa una piega».
JD fece per replicare, ma fu distratto da Patti, che gli stava strattonando la manica della felpa per ricordargli che c’era ancora il suo tatuaggio da completare.
Nel frattempo Big D stava fissando alternativamente JD, Darla e Honey con un sopracciglio inarcato e l’espressione di chi ha l’aria di essersi perso qualche pezzo per strada.
«Scusate, ma… JD ha una pagina Facebook? Ho sentito bene?».
Nathan, collassato sulla sedia a dondolo, sollevò una palpebra. Solo una.
«Perché, vi risulta che JD abbia internet?».
«Io non sapevo nemmeno che avesse un computer…», rispose Hiroshi.
«…o un cellulare che faccia altro a parte chiamare e mandare messaggi», aggiunse Gregory.
Col capo chino sulla mano di Patti, JD sbuffò.
«Guardate che sono ancora qui e che ci sento benissimo».
«L’ho costretto io a installare una connessione internet in negozio», spiegò Darla. «Mi rompevo i maroni a stare dietro il bancone a non fare niente. Così l’ho minacciato: internet o tv via cavo».
«Invece il portatile ce l’ha per merito mio», disse Honey.
Darla roteò gli occhi.
«Già, ma non l’ha nemmeno acceso».
Honey sorrise serafica.
«Non ancora».
Tiffany porse la prima fetta di torta a JD.
«Sembra proprio che tu sia finito tra l’incudine e il martello, zuccherino».



Dopo cena Honey diede la buonanotte a sua madre e salì in camera. Si buttò a pancia in giù sul letto e si collegò col portatile al suo profilo Facebook. C’erano tre richieste di amicizia: da parte di Gregory, Nathan e Hiroshi. Non appena le ebbe accettate, Nathan le scrisse in bacheca.
“Fammi sapere quando tu e la tua band vi esibite, voglio proprio vedere se siete bravi come dice JD”.
Cliccò su mi piace e rispose.
“Senz’altro. Così, quando saremo diventati famosi, potrai indossare una nostra maglietta senza fare la figura del poser”.
La replica di Nathan fu “:P”.
Arrivò un’altra notifica. Hiroshi l’aveva taggata in un album di foto di tatuaggi tradizionali giapponesi.
“Mostrale a quell’orso del tuo ragazzo e digli che conosco di persona il tatuatore che li fa. Magari si convince ad accettare il mio invito, finalmente. Questa primavera vi voglio entrambi con me a Tokio”.
“Lo prenderò per sfinimento”, rispose. “Promesso!”.
Poi andò a curiosare sul profilo di Gregory, che aveva già pubblicato le foto della grigliata. Ne aveva scattato circa un trilione. Ce n’era una che immortalava una salsiccia abbrustolita, la cui didascalia recitava “La salsiccia di Nathan”. Parecchia gente aveva messo mi piace.
Honey sorrise tra sé e sé. Era stata stupida a farsi tutte quelle pippe mentali. In fondo gli amici di JD non erano molto diversi dai suoi. Cazzoni e divertenti allo stesso modo, solo un po’ più maturi secondo l’anagrafe.
Continuò a sfogliare l’album.
“Beato tra le donne”. Gregory in mezzo a Darla, Tiffany, Patti e Honey.
“Finalmente qualcuno che cucina come si deve!”. La torta alle noci di Honey.
“L’orso e la bambina bionda”. Patti, seduta sulle ginocchia di JD, che con espressione concentratissima era intenta a intrecciargli i lunghi capelli neri.
“Terza incomoda”. Un primo piano di lei e JD. Solo in quel momento Honey si rese conto che, nella foto, da dietro la sua chioma bionda spuntavano due dita di donna dalle unghie laccate di nero. Darla, ovviamente. Maldetta stronza.
“Honey, te ne sarò grato a vita!”. Tiffany guardava con sguardo voluttuoso verso l’obbiettivo della fotocamera e mimava l’atto di tamponare con uno strofinaccio il pacco di Gregory. Honey arrossì, mortificata. Per sbaglio gli aveva rovesciato la birra sui pantaloni. Tra lo stupore generale, Tiffany si era alzata in piedi e aveva accostato le labbra all’orecchio di Gregory esclamando “Oh, che pasticcio! Lascia che me ne occupi io, zuccherino”. Lui aveva sbarrato gli occhi e tutti erano scoppiati a ridere. Perfino Big D.
“Musicista mancato”. Nathan che strimpellava una chitarra.
“Giappo serio”. Hiroshi che faceva le smorfie verso l’obbiettivo.
“Cocca di papà”. Primo piano del viso addormentato di Patti, accoccolata sulla spalla di Big D.
“Foto bimbominkia”. Una selfie di Darla che baciava Gregory sulla guancia, mentre lui ammiccava in direzione dell’obbiettivo.
Ci mise circa un’ora a sfogliare l’intero album.
L’ultima fotografia era quella che ritraeva il gruppo intero. L’inquadratura era riuscita un po’ sbilenca e decentrata, perché Big D non aveva un treppiedi in casa e avevano dovuto poggiare la fotocamera in bilico sul bracciolo di una sdraio. “Gente tatuata”, diceva la didascalia.
Honey studiò lo scatto più da vicino.
Big D, con l’enorme D sul collo. Tiffany abbarbicata a suo marito e le spire di un serpente che spuntavano da sotto il top leopardato. Darla seduta sulle ginocchia di Gregory, entrambi con le maniche di tatuaggi sulle braccia. Nathan, con la chitarra in grembo e la chitarra tatuata sull’avambraccio. Hiroshi e gli ideogrammi giapponesi sul petto (nella foto non si vedevano, ma lui glieli aveva fatti vedere dopo qualche birra di troppo). JD e il tripudio di colori che lo ricopriva dal collo in giù. Lei stessa e il cespuglio di rovi che stava lentamente crescendo dal polso in su. Perfino la piccola Patti, in groppa alle spalle di JD, aveva dei tatuaggi lavabili sul dorso della mano.
Gente tatuata. Gente tatuata che sorrideva.
Folgorata da un’improvvisa illuminazione, Honey cliccò su rispondi e commentò.
“Gente tatuata e felice”.



JD aveva appena imboccato il vicolo sul quale si affacciava il suo negozio, con la mano davanti alla bocca per accendersi una sigaretta, quando la vista periferica comunicò al cervello un’anomalia. Camminò all’indietro, uscendo nuovamente dal vicolo e sollevò il viso. Appeso al muro, c’era un cartello che prima non c’era. Fondo nero. Scritta dai caratteri svolazzanti e colorati.

Non puoi comprare la felicità, ma puoi comprare un tatuaggio.
Ed è quasi la stessa cosa!

Nel varcare la soglia del negozio, trovò Darla seduta dietro al bancone. Lo sguardo fisso sullo schermo del portatile e un palloncino rosa che le copriva mezza faccia.
«Che sai dirmi di quel cartello lì fuori?».
Il palloncino fece plop. Darla masticò la gomma un paio di volte, prima di rispondere.
«Non guardare me. Questa volta non c’entro niente, io».
«Se non sei stata tu, allora chi?».
Lei fece spallucce.
«Una bimba bionda che ti vuole tanto tanto tanto bene, suppongo».
JD inarcò un sopracciglio.
«Patti?».
Darla sbuffò e finalmente distolse lo sguardo dal portatile, rivolgendo a JD un’espressione spazientita.
«No, JD. L’altra bimba bionda».
«‘Fanculo, Darla».
Si girò sui tacchi e fece per uscire.
«Ehi ehi ehi, dove stai andando?».
«A togliere il cartello. Cosa pensi dirà il cliente medio di questo posto, quando leggerà quella frase?».
«Il cliente medio di questo posto è già tanto se sa leggere. Sono d’accordo con la bimba. Già il posto è inculatissimo, se non metti qualche cartello sulla strada, come faranno i potenziali clienti a trovarti?».
«Wile non aveva bisogno di…».
«Perché tuo nonno era un orso proprio come te, JD. Senza contare che i tempi erano diversi». Darla sorrise. «E poi togliendo il cartello feriresti i sentimenti della bimba».
JD rimase con un piede fuori dalla porta per qualche istante in silenzio, poi tornò dentro sospirando.
«Anzi, sai che faccio, adesso?», continuò Darla. «Inserisco la frase come descrizione per la tua pagina Facebook e la foto di gruppo della grigliata come copertina».
JD si lasciò cadere sul divano, sconfitto.
«Questo giorno lo devo segnare in rosso sul calendario».
«E perché mai?».
«Per una volta che mi farebbe comodo il tuo supporto, dai manforte a Honey. Lo fai a posta, non è vero?».
Darla ammiccò.
«Se glielo dici ti ammazzo».
JD roteò gli occhi.
Sia mai che rischiaste di diventare amiche.







_____________________







Note autore:
Tanti auguri a te, tanti auguri a te! Cara Francesca, spero tanto che questo piccolo extra ti piaccia e possa allietarti la giornata. Ancora mille auguri!
Angolo dei crediti.
Tanto per cominciare Gregory e Nathan appartengono a Dragana e potete leggerli in Pornoromantico, uno spin off sul primo appuntamento di Big D e Tiffany. Sicuramente l’ho già linkato altre volte, ma ripetere non fa male, dato che si tratta di una bellissima e divertentissima commedia.
Vorreste sapere chi sono gli Incite Delirium e dove trovare le loro cassette? Be’, anche io! Rivolgiamo tutti un’occhiata minacciosa a OttoNoveTre, così magari si vergogna a tal punto da continuare e pubblicare una cosuccia che ha in cantiere.
Lo scambio di battute tra Nathan e Honey che comincia da “Stai mentendo” a “Ross è talmente eterosessuale che ti fa diventare gay, è risaputo” è stato scritto da OttoNoveTre. Non capisco un ca… volo di metal e gente metallara, perciò le ho chiesto aiuto per avere un input. Ovviamente ha funzionato alla grande!
La frase che Honey scrive sul cartello me l’aveva fatta leggere Dragana tanto tempo fa, ma non trovo più il link, purtroppo.
Piccolo angolo dello spamm.
Ho pubblicato una one-shot poco shot con Halona come protagonista. Se vi va di leggerla, si chiama Randagio.
Spero che questo piccolo extra sia stato di vostro gradimento.
A presto, vannagio

Ritorna all'indice


Capitolo 12
*** Secondo Extra ***


Dedicata a Dragana!
Un’amica come te meriterebbe una storia migliore… ti prometto che proverò a rimediare in futuro.
Nel frattempo, buon compleanno!




Secondo Extra
-Il segreto di Pulcinella-




Honey aveva appuntamento con JD all’orario di chiusura, perciò era già buio pesto quando imboccò il vicolo del negozio di tatuaggi. La vetrata d’ingresso era lo schermo acceso di un televisore in mezzo a una stanza buia. A una manciata di passi dalla maniglia, Honey si fermò a sbirciare.
Darla era sdraiata di schiena sul divano: il caschetto corvino sparpagliato a ventaglio sul bracciolo, i seni sul punto di straripare da sotto il top nero striminzito, la giarrettiera tatuata sulla coscia lasciata in bella vista dagli shorts cortissimi, i piedi posati sul grembo di JD e dei piccoli batuffoli di cotone incuneati tra un dito e l’altro. JD aveva legato i capelli in un insolito cipollotto alto, con la mano sinistra reggeva una boccetta di smalto nero, con la destra un pennellino. Sul tavolinetto quadrato di fronte al divano, accanto a una bottiglia di tequila piena per metà, c’erano due bicchierini. Uno esibiva come un distintivo l’impronta rossa di una bocca. La stessa tonalità di rosso delle labbra di Darla, che in quell’istante erano tese in una risata sguaiata. JD scuoteva la testa con aria rassegnata, mentre stendeva pennellate ferme e precise sull’unghia dell’alluce. Per qualche istante, Honey si imbambolò a contemplare i movimenti fluidi di quella mano tatuata ed esperta, che fino alla sera prima aveva spennellato carezze altrettanto scrupolose e attente sul suo corpo. Quel pensiero la aiutò a stroncare sul nascere il principio di mal di pancia che minacciava di attanagliarle lo stomaco.
Il campanello trillò quando finalmente Honey si decise a varcare la soglia e fu come spezzare un incantesimo, far esplodere una bolla di sapone o lasciar andare il respiro che non ci si era resi conto di aver trattenuto. La risata di Darla si mozzò a metà e JD sollevò lo sguardo dalla sua opera d’arte col pennellino gocciolante sospeso a mezz’aria.
«Ehi, ciao».
Honey si trattenne a stento dal massaggiarsi il polso destro.
«Sono in anticipo?».
JD sorrise.
«No, affatto. Sei in perfetto orario».
«Faccio sempre un macello con lo smalto», disse Darla. Aveva incrociato le braccia dietro la nuca, in una posa languida, da gatta pigra. La collana di tribali intorno al collo puntava come una freccia in direzione dell’incavo tra i seni. «Ho chiesto a JD di aiutarmi».
Honey rinsaldò la presa sul borsone e annuì.
«Finite pure con calma. Nel frattempo io comincio a prepararmi per la festa».
Con la porta chiusa del cesso alle spalle e il suo riflesso torvo allo specchio davanti, Honey si massaggiò lo stomaco e sospirò.
Sei una cretina, si disse.



Se c’era una cosa in cui Greg senza alcun dubbio eccelleva, dopo la cucina e i consigli di stile, era organizzare feste. Nel suo loft alla moda da socio di uno studio di architettura discretamente affermato, si era raccolta praticamente mezza Williamsburg. Distinguere gli amici di gioventù dai clienti distinti o gli imbucati dagli amici degli amici, però, era praticamente impossibile. Almeno a una prima occhiata.
«Certo che Greg prende le feste di Halloween molto sul serio, eh?».
Honey indicò con un cenno del capo il padrone di casa, travestito da Conte Dracula. Stava flirtando con una Beatrix Kiddo e una Sarah Connor. Contemporaneamente.
«Altroché», confermò JD. «È un’ossessione patologica, la sua».
L’appartamento era stato trasformato in un castello stregato, con scheletri e cadaveri impiccati che pendevano dal soffitto, pareti tappezzate di ragnatele, arazzi impolverati alle finestre e inquietanti strumenti di tortura sparpagliati un po’ ovunque. Sul tavolo del buffet, il cibo aveva un aspetto disgustoso: bulbi oculari in gelatina, spiedini di ragni, vassoi colmi di dita umane arrostite, caraffe di sangue, sandwich ai vermi. Honey tentò con una lingua caramellata e…
«Ohmmioddio, è squisita!».
«Questa sa di menta». JD stava sorseggiando una roba vischiosa color vomito che gli aveva impiastricciato i denti di un verde giallastro. «Ehi, guarda, ci sono anche Connor e Rouge».
Honey li salutò sventolando una mano. Si dovette trattenere dal ridacchiare, perché se da un lato Rouge era da togliere il fiato e perfettamente a suo agio nei panni di una conturbante Jessica Rabbit, dall’altro Connor aveva il volto paonazzo di chi si vergogna come un ladro. O magari stava solo scoppiando di caldo, dentro a quel costume da Roger Rabbit. I due piccioncini risposero al saluto con entusiasmo, ma prima di avere l’occasione di raggiungerla furono intercettati da un gruppetto di persone che sembravano parecchio in confidenza con Rouge.
«Dovrebbero esserci anche Ben e Jonathan», disse Honey, guardandosi intorno. «Greg mi ha detto che potevo invitare qualche amico. È stato carino da parte sua».
«Sai chi altri è molto carino, stasera?». JD la colse di sorpresa cingendole la vita con un braccio e stringendosela contro il petto. Le dita della mano libera si erano già insinuate sotto la gonna, a giocherellare con l’orlo delle calze a righe. «Tu».
Honey avvampò, ma gli posò il dito indice sulle labbra.
«Tieni quei denti verdastri lontano da me, per favore».
«Posso provarci. Non prometto nulla, però». Le sopracciglia di JD fecero su e giù in modo allusivo sotto la tesa del cilindro sfondato, facendola ridere. «Il Cappellaio Matto è un tipo imprevedibile».
Chi sei tu e che ne hai fatto di JD?
«Se devo essere sincera, io Alice l’ho sempre shippata col Bianconiglio».
Di fronte al sorriso malizioso di Darla, apparso dal nulla come (oh, vaffanculo!) quello dello Stregatto, Honey alzò gli occhi al soffitto.
«Il Bianconiglio? Sul serio? Ma se è il personaggio più noioso della storia!».
«Dici? Non lo so. A me l’intellettuale con l’occhialetto sexy attizza. E poi lo sanno tutti che il Cappellaio e la Lepre Marzolina scopano come conigli».
JD mollò (purtroppo) la presa su Honey (per colpa di quella maledetta troia) e sbuffò.
«Questa faceva veramente cagare, Darla».
Lei si strinse nelle spalle.
«Non è colpa mia se non avete senso dell’umorismo».
Si stava arrotolando la lunga treccia finta intorno all’indice, simulando nonchalance. Honey valutò il suo travestimento con una lenta occhiata dall’alto in basso.
«Lo sai che Carrie Fisher detestava questo costume?».
Darla fece ondeggiare i fianchi, strizzandole l’occhio. Le catenine che sorreggevano il lungo velo davanti alla passera tintinnarono in modo sensuale.
«Meno male che non sono Carrie Fisher, allora».
Una pacca sulla spalla risparmiò ad Honey la fatica di elaborare una replica al vetriolo.
«Honey, devi spiegarmi come sei riuscita a convincere JD a mascherarsi», disse Nathan. Per l’ennesima volta, quella sera, si tirò indietro alcune ciocche della parrucca bianca. Continuavano a cadergli davanti alla faccia truccata da teschio. Probabilmente stava rimpiangendo di aver scelto una delle prime versioni di Eddie The Head per il suo costume. «Sono anni che ci proviamo senza alcun risultato».
«Be’, magari Honey è stata capace di presentare delle argomentazioni a sostegno della tesi un tantino più convincenti delle nostre». Greg si era unito alla conversazione insieme a Nathan e amicava da sopra gli occhialetti scuri. «Non so se mi spiego».
Mentre Honey non poteva fare a meno di arrossire (perché in effetti l’accordo sul costume di coppia prevedeva l’uso del costume di coppia anche durante la… consumazione del dessert post-festa), JD si limitò a mandare giù un sorso della poltiglia verde, rivolgendo ai due un’occhiata per niente impressionata.
«Molto sottile. Complimenti».
«Ehi, quello con la mente perversa sei tu, caro mio». Greg ghignò, lasciando intravedere un canino appuntito. Il look di Gary Oldman nel film Dracula di Bram Stoker gli donava parecchio e, se doveva fare una stima sulla base delle occhiate che le altre ragazze alla festa gli stavano rivolgendo, Honey non era l’unica di questa opinione. «Io mi stavo riferendo al suo indiscusso talento come futuro avvocato».
«Comunque non è vero che questa è la prima volta che viene convinto a mascherarsi», si intromise Hiroshi. Aveva sgraffignato un bulbo oculare dal tavolo del buffet e si era messo immediatamente alle calcagna di Greg. Col suo fisico mingherlino e quei capelli nerissimi, impersonava un Elle perfetto col minimo sforzo. «Vi ricordate quando gli abbiamo appiccicato la targhetta adesiva Dio alla camicia?».
«È vero, hai ragione!».
«E poi Darla si è vestita da Giovanna D’Arco».
«Una sexy e succinta Giovanna D’Arco!».
Darla rise.
«Non ero così succinta».
«See, come no. Tu non sei succinta solo quando parli».
«Fatemi indovinare», azzardò Honey. «Giovanna D’Arco perché… anche lei aveva una relazione molto stretta con Dio?».
Cinque bocche si ammutolirono all’improvviso. Cinque paia di occhi sbigottiti si posarono su di lei.
Oddio. Ho fatto un’altra delle mie figure di merda, per caso?
«Che c’è? Che ho detto?». Honey li squadrò uno ad uno, torva. «Non sono mica così giovane da non aver visto Buffy, eh?».
Quattro su cinque distolsero lo sguardo. La quinta, Darla, si schiarì la voce.
«Oh, guardate, sono arrivati Big D e Tiffany. Cazzo, quei costumi da Coniugi Frankestein sono proprio azzeccatissimi!».



Honey si era allontanata dal gruppo di JD con l’intenzione di scambiare quattro chiacchiere con Connor e Rouge. Voleva anche tentare di rintracciare Ben e Jonathan. Chissà dove e con chi si erano imboscati, quei due. Avevano lasciato solo una serie di messaggi sconnessi sulla chat di gruppo. Durante il tragitto, però, aveva deciso di fare una piccola sosta al tavolo del buffet per riempirsi il bicchiere di sangria rosso sangue e il piattino di lingue caramellate. Erano veramente buone.
«…da cosa è vestita secondo te?».
«Boh? Schiava sexy? Danzatrice del ventre sexy? Qualsiasi Cosa Basta Che Sia Sexy?».
Honey spiò di sottecchi alla sua sinistra, da dove provenivano le voci. Due ragazze, una non meglio identificata infermiera e una noiosissima già vista mille volte gatta nera, confabulavano a un volume discreto ma non abbastanza davanti alla torta a forma di testa decapitata. Non le servì origliare a lungo per capire di chi stessero spettegolando.
«Non so, mi ricorda qualcosa», disse la gatta nera. «Credo che abbia a che fare con un qualche film di fantascienza».
«Ah, okay. Quindi si è vestita da troia spaziale».
«Praticamente l’outfit da tutti i giorni per una come lei».
Mentre lo scambio si concludeva con delle fastidiosissime risatine divertite, Honey si ficcò in bocca l’ennesima lingua caramellata e gonfiò le guance come una rana.
Allora.
Dunque.
Sì. Divertente, per carità. Cioè, anche no. Al massimo un po’.

Non era un mistero che tra Honey e Darla non corresse buon sangue. Non era un mistero che lei avesse detto cose ben peggiori di e a Darla. Non era un mistero che Darla fosse a tutti gli effetti una… ragazza generosa? Per qualche motivo, in quel frangente, usare la parola troia per riferirsi a Darla come faceva di solito (diciamo anche di continuo) la metteva a disagio.
Ma.
Insomma.
Voglio dire.

Non era mica la stessa cosa, giusto? Honey era la ragazza di JD e Darla era la migliore amica di JD. Insultarsi a vicenda era… una specie di accordo consensuale? Un contorto leit motiv? Il loro modo di rapportarsi l’una all’altra? Appunto. Di qualunque cosa si trattasse, quel qualcosa era loro. Loro, e basta. Di nessun altro.
Forte di quell’impeccabile e per niente cervellotico ragionamento, Honey ingoiò il boccone, abbandonò bicchiere e piattino sul tavolo e, mettendo su un cipiglio battagliero, picchiettò sulla spalla della gatta nera. Che si voltò lentamente, rivolgendole la stessa identica espressione della gattina Minou quando qualcuno disturbava il suo pisolino pomeridiano. Come osi infastidirmi, sciocca umana?
«Sì?».
«Scusatemi tanto». Honey cercò di iniettare tutto il veleno di cui era capace in quelle due parole. «Non era mia intenzione ficcanasare, ma non ho potuto fare a meno di ascoltare e così mi è sorta spontanea una domanda…». Si grattò il mento con aria pensosa. «Questa ossessione per la vita sessuale altrui serve in qualche modo a nascondere l’insoddisfazione che provate per la vostra, di vita sessuale? O siete semplicemente delle patetiche stronze?».
Forse presa in contropiede, l’infermiera boccheggiò un paio di volte come un pesce, prima di riuscire ad articolare parole di senso compiuto. Che poi era una sola, la parola.
«Prego?».
Honey incrociò le braccia e sbuffò spazientita. Stronze e stupide, di bene in meglio.
«In poche parole, vi stavo chiedendo se scopate abbastanza. Per inciso, secondo me la risposta è no».
L’infermiera tornò a boccheggiare. Troppe informazioni da processare tutte insieme, probabilmente. La gatta nera, invece, rizzò il pelo indignata come… proprio come una gatta. Si è calata parecchio nella parte, si vede.
«Si può sapere chi cazzo sei tu? Chi ti conosce? Chi ti ha chiesto niente?».
«Secondo inciso», continuò Honey, senza curarsi di rispondere. «Quello di Darla è un costume da Principessa Leila, episodio sei della saga di Star Wars. E qui scatta la seconda domanda, quanto cazzo bisogna essere fuori dal mondo per non conoscerlo? In ogni caso, è un costume di Halloween dieci volte più originale di un camice macchiato di ketchup e una calzamaglia nera con le orecchie ficcata sulla testa a mo’ di preservativo».
Con sua grande sorpresa, però, l’arringa finale non sortì l’effetto sperato sulle sue avversarie. O meglio, l’infermiera era ancora in alto mare. La gatta nera, al contrario, non pareva aver prestato molta attenzione alle sue parole: aveva prima aggrottato la fronte e poi inarcato le sopracciglia, come qualcuno che è appena venuto a capo di un difficilissimo rompicapo.
«Oh, aspetta». Applaudì entusiasta. «Molto giovane, capelli biondi, carattere di merda, lingua biforcuta… Adesso ho capito chi sei, sei la baby-fidanzata di JD!».
L’infermiera emise un ooooh di stupore molto genuino.
«Sei molto tenera, lo sai?». La gatta si stava letteralmente leccando i baffi dalla soddisfazione. «Ma… gioia, tesoro della zia, credimi, te lo dico col cuore in mano, dovresti scegliere meglio le persone per cui scendi in battaglia».
Di che cazzo blatera, ‘sta stronza? Decise di parafrasare il concetto.
«Dovrei capire cosa intendi?».
La risposta arrivò a bruciapelo. Come uno schiaffo, anzi no, una zampata in piena faccia.
«Intendo che se fossi in te non sprecherei energie a difendere la tizia che si è trombata il mio ragazzo».
Per fortuna Benedetta le aveva insegnato a incassare. Letteralmente e metaforicamente. Honey fu molto fiera di sé per la prontezza di spirito con cui le scoppiò a ridere in faccia.
«Stronzate. Sono solo un mucchio di stronzate».
«Darla si è scopata chiunque». La gatta roteò le mani in aria. «Che c’è? Credevi che il tuo JD fosse speciale? Credevi di aver trovato l’unico uomo sulla faccia della terra immune al potere della sua figa?».
«Che dolce!», rincarò l’infermiera. Il suo era il tono di voce stucchevole che una vera infermiera avrebbe rivolto solo a un malato terminale. «Sei così dolce che quasi mi dispiace per te».
Honey scosse la testa, più per scacciare la pulce che tentava di insinuarsi nel suo orecchio che per negare.
«Siete… siete penose. Secondo voi mi faccio mettere in crisi da un’evidente minchiata inventata su due piedi da un paio di stronze che cercano di recuperare la faccia? E… ammesso e non concesso che sia vero, perché due tizie qualunque dovrebbero essere a conoscenza di una cosa del genere?».
«Come perché, tesoro! Lo sanno tutti, è il segreto di Pulcinella», sbottò la gatta. «Ad ogni modo, se non credi a noi…». Puntò l’indice munito di artiglio verso qualcosa alle spalle di Honey. «…puoi chiedere direttamente a lei. Tanto siete pappa e ciccia, no?».
Il qualcosa alle sue spalle era qualcuno. E non un qualcuno qualsiasi.
Darla.
Che aveva ascoltato tutto (o almeno l’ultima parte), ce lo aveva scritto in faccia.
Honey tentò di allentarsi il colletto, annaspando.
«Sono solo stronzate, non è vero?».
Darla aprì la bocca, ma la richiuse subito. Fece per portarsi una ciocca dietro l’orecchio, ma a metà del movimento parve ricordarsi che aveva i capelli acconciati in una treccia e lasciò perdere. Infine, abbassò lo sguardo.
«Dovresti parlare con JD».
Greg si sbagliava, era succinta anche nel parlare.
Aria.
Mi manca l’aria.
Non c’è abbastanza aria qui dentro.

Allentarsi il colletto non era più sufficiente. Honey si fiondò verso l’uscita dell’appartamento senza guardarsi indietro, o intorno. Senza sapere chi si fosse accorto di cosa, o se Darla avesse provato a fermarla. Le chiacchiere, gli schiamazzi, la musica… si erano fusi in un brusio di sottofondo che non le dava alcun indizio. Come quando da bambina mischiava tutti i colori insieme e alla fine otteneva solo una indistinguibile poltiglia marrone. Nemmeno la vista la stava aiutando granché, davanti a sé aveva solo un lungo e stretto tunnel claustrofobico che terminava sulla porta d’ingresso.
Aveva quasi raggiunto la meta, quando si sentì trattenere per un braccio.
«Honey, che succede?».
Connor. Con un paio di orecchie da coniglio in cima alla testa. Accanto a lui, una sagoma rossa.
«Io… Mi dispiace, devo andarmene. Non posso rimanere».
Lui la fissò dritto negli occhi per un tempo probabilmente breve ma che le sembrò dilatarsi fino a tendere verso l’infinito. Tre vite (o forse secondi) più tardi, Connor cercò con lo sguardo la sagoma rossa che aveva a fianco.
Oh, Rouge. Giusto.
La ragazza annuì, prima ancora che lui avesse occasione di fiatare.
«Vai».



«Mi dispiace di avervi rovinato la serata, ragazzi».
«Non dirlo nemmeno per scherzo», disse Ben.
«Non era poi questa gran festa», gli fece eco Jonathan.
Seduta a gambe incrociate sul polveroso divano rosso del garage di Ben, Honey rimestava il cucchiaio nella vaschetta di gelato ormai mezzo sciolto. Era il suo gusto preferito, caramello salato. Ben era stato così premuroso da sbriciolarci dentro un bel pugno di oreo, proprio come piaceva a lei. Nel giro di dieci minuti ne aveva spazzolato via la metà, non era una novità che quando era frustrata le venisse fame. Adesso aveva mal di pancia, anche se aveva il sospetto che il gelato c’entrasse poco.
Connor faceva il giocoliere con le bacchette da batterista, appollaiato sullo sgabello dietro la batteria. Si era liberato del costume, aveva tenuto solo le orecchie da coniglio. Quando si accorse di essere osservato, abbozzò un sorriso senza smettere di far roteare le bacchette in aria.
«Non ti preoccupare. Avrei perso almeno mille punti agli occhi di Rouge, se ti avessi mollata lì da sola in quello stato».
«Così però hai mollato lei, lì da sola. Come fa a tornare a casa?».
«Le ho dato le chiavi della mia macchina. E non è sola, ha incontrato degli amici alla festa».
Decisa a ignorare i crampi, Honey si portò un altro cucchiaio di gelato alla bocca. La televisione era accesa in modalità muto sul film La Morte Dei Morti Viventi.
«Se hai lasciato l’auto a lei, come ci siamo arrivati qui?».
Ben sollevò lo sguardo dal solitario a cui stava giocando, sdraiato a pancia in giù per terra, e inarcò un sopracciglio.
«Ehm. Con la mia auto, no?».
«Ah, giusto».
Non aveva un ricordo molto chiaro di quello che era successo fuori dall’appartamento di Greg. In corridoio avevano incontrato Ben e Jonathan, travestiti rispettivamente da lupo mannaro e vampiro, anche se si era accorta dei loro costumi solo dopo, al garage, in seguito alle prime cinque cucchiaiate di gelato. Il tragitto in auto era stato confuso e sfocato, non ricordava di essere salita sul sedile del passeggero, o di aver contemplato il traffico fuori dal finestrino, o di aver parlato con i ragazzi. Nelle orecchie continuavano a risuonare sempre le stesse parole (Lo sanno tutti, è il segreto di Pulcinella!) e davanti agli occhi continuavano ad apparire flash di JD e Darla avviluppati l’uno all’altra come anguille.
«Dovresti smetterla di rimuginarci».
«Wow, Jonathan. Gran bel consiglio, complimenti. Sai anche suggerirmi un metodo efficace per smettere?».
Jonathan, col mantello da vampiro buttato addosso a mo’ di copertina, stava strimpellando il basso cercando di stare dietro agli accordi di Kiss Me, I’m Shitfaced dei Dropkick Murphys, perciò perse un po’ di tempo a elaborare una risposta.
«Potresti pareggiare i conti scopando con uno dei tuoi amici». Le rivolse un sorriso tutto denti aguzzi. «Mi offro io volontario. È uno sporco lavoro, ma qualcuno deve pur farlo».
«Oppure potresti scopare con Darla», gli diede manforte Ben. Stava rimescolando il mazzo del solitario e mimò l’atto di ululare alla luna, prima di specificare: «A patto però che mi sia data la possibilità di assistere».
I piatti della batteria fecero splash.
Honey scagliò un cuscino contro Connor, mirava alla faccia ma la mancò clamorosamente.
«E tu? Non hai suggerimenti geniali da darmi, tu?».
«Uhm». Connor mise su una faccia seria. «Non so, non sono rimaste molte opzioni. Una cosa a tre con Darla e JD?».
Un altro splash chiuse la freddura.
Jonathan si tappò la bocca per trattenersi dal ridere. Una delicatezza che Ben non si sognò nemmeno di imitare (infatti, era sbottato a sghignazzare come un lupo). Solo Connor, dall’alto del suo sgabello, ebbe il buon gusto di limitarsi a farle l’occhiolino.
Honey ci provò, ci provò davvero a indignarsi, a fare l’offesa, a prenderli a randellate sulla testa, o a bestemmiare come un’indemoniata, ma alla fine anche lei (vaffanculo!) si lasciò andare a una sonora risata. E probabilmente di lì a poco il suo mal di pancia avrebbe potuto anche andare via, se non fosse stato per l’improvviso bussare alla porta del garage che glielo mise di nuovo sotto sopra.
«Che vuoi che faccia?», chiese Ben, tornato serio.
Honey scambiò un’occhiata prima con Jonathan, poi con Connor, e prese un bel respiro profondo.
«Vai a vedere chi è».
Lo stridere del metallo contro metallo sovrastò la voce di Ken Casey finché la saracinesca non si fu sollevata abbastanza da lasciar passare una persona adulta. Quando finalmente riuscì a mettere a fuoco la sagoma sulla soglia, Honey scattò in piedi furiosa (e anche un po’ delusa). La vaschetta di gelato ruzzolò per terra.
«Che cazzo ci fai tu qui?».
Darla indossava ancora il costume da Slave Leila, aveva aggiunto solo un giacchino leggero di jeans nel vano tentativo di coprirsi un po’.
«Dobbiamo parlare, Honey».
«Non abbiamo proprio un cazzo di niente da dirci».
«Senti, non siamo all’asilo. Possiamo saltare i convenevoli e andare dritto a punto, per favore? Rimandiamo questa conversazione da troppo tempo, ormai».
I ragazzi si erano come freddati sul posto, spostando lo sguardo alternativamente da Darla a Honey.
«Come diavolo facevi a sapere che ero qui?».
Darla roteò gli occhi.
«Sei andata via con i tuoi amici. Dove altro potevi essere?».
«Chi ti ha dato questo indirizzo? Non dovresti nemmeno conoscerlo!».
Per la seconda volta nella stessa serata, Darla aprì la bocca come per dire qualcosa, per poi chiuderla subito dopo. Brutto, bruttissimo segno. Honey passò in rassegna le facce dei suoi amici, in cerca di un qualche suggerimento. Due di loro parevamo improvvisamente molto interessati alle punte delle loro scarpe.
Honey sbarrò gli occhi. Ti prego, ditemi che ho capito male.
«Mi state prendendo per il culo?».
Connor sollevò le mani in segno di resa.
«Ehi, non guardare me. Mi vedo con Rouge da prima che mi presentassi Darla».
«Sei stata tu a insistere perché socializzassimo con gli amici di JD», si difese Ben.
Honey pestò il piede a terra, ringhiando.
«Non era quello che intendevo!».
«Dovevi essere più precisa, allora», intervenne Jonathan.
Se fosse stata un cartone animato, le sarebbe cascata la mascella per terra e le sarebbero schizzati gli occhi fuori dalle orbite. Darla, intanto, si massaggiava l’attaccatura del naso con aria spazientita.
Spazientita.
SPAZIENTITA, LEI?

«C’è una persona nella mia vita che non ti sei scopata?».
La troia sospirò, come una maestra di fronte a un’alunna particolarmente dura di comprendonio.
«Non credo che rispondere a questa domanda contribuirebbe in modo costruttivo alla conversazione».
«OH. MIO. DIO».
Honey si lasciò cadere a peso morto sul divano e si mise le mani nei capelli. Non può essere vero, questo è un incubo. Un film dell’orrore. Appropriato, in fondo. Era o non era la notte di Halloween?
«Ragazzi, venendo in qua ho visto una tavola calda», disse Darla, dopo qualche istante di silenzio imbarazzato. «Perché non prendete qualcosa da mettere sotto i denti? Ho la sensazione che sarà una lunga notte. Offro io».
Aveva allungato a Ben una manciata di banconote, ma lui non le prese. Insieme a Connor e Jonathan, fissava Honey in attesa che si pronunciasse riguardo alle sue intenzioni.
Massì, che cazzo me ne fotte. A questo punto, cosa ho da perdere? Se vuole parlare, parliamo e vaffanculo.
«Voglio un cheeseburger», disse, all’improvviso esausta. «Con doppio bacon».
Non era una novità, quando era frustata le veniva fame.



I ragazzi erano appena usciti dal garage. Darla lanciò il giacchino di jeans su una sedia, raccolse la vaschetta di gelato dal pavimento e prese posto sul divano accanto a Honey. Dopo aver ingollato una generosa cucchiaiata di caramello salato mezzo sciolto (con un’espressione che avrebbe fatto invidia alla Tiffany dei tempi d’oro), arricciò il naso e storse la bocca in una smorfia.
«Bleah. È troppo dolce. Stucchevole!».
Honey le strappò di mano cucchiaio e vaschetta.
«È il MIO gelato, deve piacere a me, non a te. Non te lo ha mica prescritto il dottore che ti devono piacere per forza le cose che piacciono agli altri».
Le labbra di Darla si incurvarono all’insù.
«Stiamo ancora parlando del gelato?».
«Non avevi detto che volevi saltare i convenevoli?».
Si fissarono. Poi Darla annuì.
«Giusto. Via il dente, il via il dolore. Maledizione, avrei dovuto portare della tequila». Intinse l’indice nel gelato e se lo succhiò voluttuosamente, ignorando il Pensavo ti facesse cagare! di Honey. Infine abbracciò un cuscino a mo’ di peluche e si lasciò andare contro lo schienale del divano. «Tu non mi piaci», esordì, guardando Honey di sbieco. Cominciò a elencare sulle dita della mano destra. «Sei arrogante, infantile, viziata e un’autentica figlia di papà. Tutti ti trattano come la principessa di ‘sto cazzo». Le dita della mano destra si erano esaurite in fretta, passò a quelle della mano sinistra. «Non hai mai dovuto romperti il culo un giorno in vita tua, non ti sei mai guadagnata nulla, tuo zio ti ha regalato una moto che probabilmente vale quanto un anno del mio stipendio e sono convinta che gran parte dei tuoi problemi derivino dal fatto che da bambina nessuno ti abbia detto no o dato una sonora sculacciata quando serviva».
«Sto cercando un part-time», la interruppe Honey, massaggiandosi il polso destro. Aveva infossato la testa nelle spalle come una tartaruga. «E la moto… l’ho venduta. Era superflua. Con mio padre in prigione… ho pensato che era meglio impiegare quei soldi in qualcosa di più utile. Tipo la retta del primo anno di università».
Darla le rubò un’altra ditata di gelato.
«Ti rendi conto che dire che la tua moto vale quanto la retta di un anno di università non ti mette in una luce migliore, vero?».
Chissà cosa ti aspettavi con ‘sta patetica rivelazione, che magicamente cambiasse idea sul tuo conto? Honey si spostò sul pavimento, portando con sé la vaschetta del gelato. Poggiò la schiena alla seduta del divano, lo sguardo fisso sul televisore.
«Questo tuo bel discorso arriverà mai a un punto, a parte insultarmi?».
Fruscio di stoffa. Tintinnio di catenelle. Un sospiro.
«Il mio punto è. Tu non mi piaci. Ma voglio bene a JD. JD vuole bene a te. E questo io lo rispetto. Non farei mai qualcosa per mettere in pericolo la vostra relazione. JD ed io abbiamo fatto sesso una volta sola, è successo eoni fa, prima che tu nascessi». Ah ah ah, che simpatica. Honey si tappò la bocca con una cucchiaiata di gelato. «Non è ricapitato mai più e non è stato altro che una scopata, una botta e via. Non c’è niente tra noi. Nada. Nichts. Zero. Siamo solo amici».
Honey aspettò pazientemente che il gelato si sciogliesse sulla lingua, di percepire la nota salata in mezzo a tutto quel dolce, prima di mandare giù.
«Lo so».
«Bene, perché…». Una lunga pausa. «Aspetta, lo sai?».
Sullo schermo muto del televisore, un gruppo di zombie stava facendo a pezzi una comparsa.
«Per trenta, orribili minuti della mia vita, ho creduto che JD mi avesse tradito. Poi ho mangiato il gelato e sono tornata in me. Lui non è il tipo. Nemmeno tu, nonostante la tua fama».
Di nuovo il fruscio. Ancora il tintinnio. Il primo piano sullo stomaco sventrato venne sostituito dal volto incazzato di Darla.
«Mi spieghi che cazzo ci faccio qui? Perché ci stiamo torturando in questo modo? A quest’ora potevo essere seduta sul cazzo di quel fantastico Jack Sparrow che mi faceva il filo alla festa. E invece sono qui, a ghiacciarmi le chiappe sul pavimento di un fottuto garage. Con te».
«Non te l’ho mica chiesto io di venire qui. Io non ti voglio qui. Perché sei qui? Perché non c’è JD?».
Darla sbuffò.
«Figurati. Era già in macchina per venire da te, quando l’ho raggiunto. L’ho convinto che era meglio se prima ci facevamo quattro chiacchiere, tu ed io».
«Allora fammi il cazzo di piacere di non lagnarti. JD mi ha tenuto nascosto una cosa che a quanto pare mezza New York sapeva già. Senza una fottuta motivazione valida, tra l’altro. Mi è concesso di essere incazzata almeno per una sera, o è chiedere troppo?».
L’espressione accigliata di Darla si sciolse in una più neutra.
«No, non è chiedere troppo».
«Grazie».
«Prego».
Darla, però, non aveva intenzione di mollare l’osso.
«È davvero tutto qua?».
Un’altra lunga pausa. Per non doverla guardare in faccia, Honey si concentrò sul cucchiaio con cui stava grattando il fondo della vaschetta. Aveva davvero intenzione di vuotare il sacco? Con Darla? Ti sei rincoglionita tutta in una volta, per caso?
«Una cosa ci sarebbe. Ma è stupida».
«Tanto con te ormai mi sono abituata alle cose stupide».
Sempre adorabile, non c’è che dire.
«Prima hai detto che siete solo amici, tu e JD. Ma non è così». Lasciò perdere vaschetta e cucchiaio, prese a rincorrere col dito i contorni dei rovi e delle rose intorno al polso. «Detesto l’espressione solo amici. Che significa? Che l’amicizia è meno importante? Mia madre dice sempre guarda che gli amori vanno, gli amici restano. Ed è vero. Magari un giorno io non ci sarò più, tu invece ci sarai ancora per JD. Un per sempre è raro, ma è più facile che si avveri tra amici. Vi conoscete da tanto, sapete praticamente tutto l’uno dell’altra. Tra voi c’è un’intimità e una confidenza che...», si massaggiò sopra l’ombelico, «che mi mette un po’ di mal di pancia, a volte. Non è gelosia, non credo. Nemmeno invidia, perché anch’io ho degli amici». Si sfregò il polso e si strinse nelle spalle. «Non lo so, è una roba ingarbugliata. Sapere che voi due non eravate stati insieme in quel senso mi consolava un po’. Mi piaceva l’idea di conoscere almeno un lato di lui che tu non avevi visto». Finalmente trovò il coraggio di guardarla. «Ti avevo avvertita che era una cosa stupida, quindi risparmiami le prese per il culo, okay?».
«Non è stupida». Darla si portò una ciocca sfuggita alla treccia dietro l’orecchio. Deglutì a vuoto. «Mi dispiace che tu abbia dovuto scoprirlo così. Ho seguito la discussione con le due stronze solo fino a un certo punto. Mi sono distratta un attimo, solo un attimo, e quando ho capito cosa stava per succedere, era già tardi. È successo tutto troppo velocemente».
Honey annuì.
«Va bene. Non è colpa tua».
Darla strisciò al fianco di Honey. Sullo schermo del televisore scorrevano i titoli di coda. Ken Casey cantava imperterrito in sottofondo.
Some may be from showing up
Others are from growing up
Sometimes I was so messed up and didn’t have a clue
I ain’t winning no one over
I wear it just for you
I’ve got your name written here
In a rose tattoo

Darla si schiarì la voce.
«Grazie, a proposito. Per aver preso le mie difese. Non era necessario, ma… grazie».
«Non l’ho fatto perché era necessario». Honey urtò la spalla di Darla con la sua, e le fece la linguaccia. «Solo io posso darti della troia».
Darla ricambiò lo spintone.
«Cristo, che stronza insopportabile».



Si era ripromessa di aspettare fin all’indomani mattina, ma lo stomaco farcito di cheeseburger e bacon l’aveva resa impaziente. Non che normalmente fosse una persona capace di grande pazienza, eh? Diciamo più impaziente del solito, ecco.
Quando JD aveva spalancato la porta dell’appartamento alle tre del mattino, vestito solo di tatuaggi e dei pantaloni del pigiama, con i lunghi capelli neri che gli ricadevano arruffati oltre le spalle, il cervello di Honey era andato in cortocircuito per qualche secondo. Questo è giocare sporco, cazzo. Per fortuna, lui l’aveva tolta dall’impaccio di dover proferire parola intrappolandola in un abbraccio mozzafiato e soffiandole scuse sconnesse sul collo. Le era bastato percepire l’odore di inchiostro e tabacco per sentirsi immediatamente sciogliere in mezzo alle gambe. Okay, ritratto. Questo non è giocare sporco, questo è barare a tutti gli effetti.
Adesso erano in cucina. Il posacenere sul davanzale della finestra era colmo di cicche ancora fumanti. Il tavolo da pranzo non era molto grande, Honey aveva cercato di mettere la maggior distanza possibile piazzandosi di fronte a JD, invece che al suo fianco. Forse percependo una certa tensione, Minou aveva dato la buona notte a entrambi strusciandosi contro le loro gambe e poi era corsa a rintanarsi in camera da letto.
«Lo sai che odio quando mi trattano da stupida o da bambina. Stasera mi sono sentita entrambe le cose. Lo sapevano tutti, JD. Tutti. Perché non me lo hai detto?». Gli puntò gli occhi addosso. «Avevi intenzione di dirmelo, almeno?».
«Certo!», esclamò lui. Di fronte all’espressione scettica di Honey, ingobbì appena appena le spalle ma non distolse lo sguardo. «Mi sono comportato da codardo, me ne rendo conto. Avrei dovuto dirtelo subito».
«Perché non l’hai fatto?».
«Perché…». Si tirò i capelli indietro e sospirò. «Tu e Darla siete sempre ai ferri corti. Avevo paura che sapere cosa era successo potesse peggiorare la situazione tra voi».
Honey aggrottò la fronte.
«Non pensavo che i nostri battibecchi ti dessero tanto fastidio».
«All’inizio erano divertenti, ma…». Fece spallucce. «Tu sei la mia ragazza. Lei la mia migliore amica. È tanto strano desiderare che due persone così importanti nella mia vita vadano d’accordo?».
Oh. Prese a sfregarsi il polso destro.
«È colpa mia».
«No». JD scattò in piedi e si inginocchiò di fronte a lei. «Non sto cercando di fare lo scarica barile. Non sto dicendo che-».
«Lo sto dicendo io, JD. Avrei dovuto comportarmi in modo più maturo». Serrò i pugni. «È il cazzo di ritornello della mia vita».
Come al solito, si era comportata come una bambina. Con i suoi comportamenti infantili aveva messo JD in difficoltà. Perché sceglieva sempre di fare la cosa sbagliata?
«Ehi, guardami». JD strinse delicatamente le dita intorno al tatuaggio di rovi e rose. «Tutti e tre avremmo dovuto comportarci in modo più maturo, ma non dirtelo subito è stata una mia decisione, solo mia. Non hai mai fatto scenate di gelosia, avrei dovuto sapere che non sarebbe stato un problema per te». Le prese il viso tra le mani. «Ti chiedo scusa».
I palmi di JD contro le guance erano calde, confortanti.
«Niente più segreti. Promettimi solo questo», gli disse.
JD la scrutava serio.
«Hai la mia parola. Non commetto due volte lo stesso errore».
«In cambio io ti prometto che cercherò di andare d’accordo con Darla».
«Non voglio che ti senta costretta a farti piacere una persona che ti sta sul cazzo».
Honey scosse la testa.
«A volte nelle relazioni bisogna scendere a compromessi. Tu hai accettato di mascherarti per Halloween, no?».
Le mani di JD, dalle guance, si spostarono sulla nuca. Le sue dita presero ad accarezzarla dietro le orecchie come faceva con Minou. E lei, esattamente come Minou, reclinò la testa per facilitargli il compito. Esattamente come Minou, era a un passo dal fare le fusa.
«A proposito del costume…». La voce di JD si era abbassata di un’ottava. «Sbaglio, o avevo accettato a una condizione?».
Il cuore di Honey fece una capriola. Improvvisamente si rese conto di avere ancora addosso il vestito di Alice e che JD era praticamente inginocchiato tra le sue gambe.
«La condizione prevedeva che anche tu indossassi il costume».
«A questo si può rimediare. Dopo, però. Adesso ho voglia di un’altra cosa».
I grattini dietro le orecchie cessarono di botto, ma JD non le diede il tempo di esternare il suo disappunto. Le raccolse la gonna intorno alla vita, l’accarezzò lentamente sopra le calze a righe nere e bianche, e si chinò a baciarla in mezzo alle cosce. Honey si aggrappò ai suoi capelli per non scivolare come una pera cotta dalla sedia.
Litigare aveva i suoi lati positivi, in fondo.



«Ciao, Darla».
«Ciao, Honey».
«JD?».
«Cliente dell’ultimo minuto. Sta ripulendo l’attrezzatura. Non dovrebbe averne per molto».
«Va bene».
Poco male, avrebbe ingannato l’attesa sfogliando un album di tatuaggi tra quelli allineati sullo scaffale. Sapeva già quale prendere, ma un’imprecazione soffocata la indusse a voltarsi prima ancora di afferrarlo.
Darla si stava mettono lo smalto alle unghie dei piedi. O, almeno, ci provava. Era seduta sul bordo del divano: il busto proteso in avanti verso i piedi poggiati sul tavolinetto, la lingua incuneata in mezzo ai denti e un’espressione corrucciata.
«Porco cazzo, sto facendo un troiaio», borbottò tra sé e sé.
Honey tornò agli album sullo scaffale.
«Non che sia una novità».
«Guarda che ti sento», disse Darla alle sue spalle.
«Non stavo cercando di non farmi sentire».
«Oh, vaffanculo!».
Capì dall'intonazione del vaffanculo che non si stava rivolgendo a lei, ma allo smalto. Honey roteò gli occhi, sbuffando. Tanto gli album di JD li conosci a memoria, ormai. Senza dire nulla, si sedette sul tavolinetto e fece segno a Darla di posare i piedi sulle sue ginocchia. Darla, nonostante il Che cazzo…? perplesso, seguì le indicazioni.
Dopo di che, Honey si fece consegnare lo smalto: era di un nero profondo, ma osservandolo in controluce, scoprì una bellissima e inaspettata sfumatura viola scuro. Si sorprese a pensare che Darla era un po’ come quello smalto, aveva diverse sfaccettature nascoste.
«È un bel colore», disse. E poi, quasi pensando ad alta voce, aggiunse: «Ti dona molto».
Darla non rispose. Sembrava sul chi va là, sulle spine, come qualcuno che si aspetta un’inculata da un momento all’altro. Tuttavia non aveva ancora provato a fermarla, così Honey impugnò il pennellino, lo strizzò contro il bordo della boccetta per eliminare lo smalto in eccesso e si mise all’opera. Dopo aver completato le prima tre dita, si fermò un istante a valutare il risultato.
«Non male», disse Darla, rompendo il silenzio. Si portò i capelli dietro l’orecchio. Aprì la bocca, poi la chiuse. L’aprì di nuovo. «Se ti piace, te lo presto».
Honey abbozzò un sorriso.
«Mi piacerebbe tanto, grazie».
«Figurati. L'ho comprato da Sephora. Quando l'ho visto, ho pensato subito che era il mio. Hai notato il nome sull'etichetta?».
«No, perché? Come si chiama?».
Darla sfoderò un sorriso furbo, e nello stesso momento in cui Honey inquadrava la suddetta etichetta, rispose:
«Gola Profonda».
Porca puttana. Honey afflosciò le spalle, sconfitta. Non sono io se non faccio almeno una figura di merda al giorno.
«Com'è che riesco a insultarti anche quando provo a essere gentile?».
«Non lo so. Sarà un riflesso automatico».
Si guardarono, e scoppiarono a ridere.
«Sai cosa ci vorrebbe, adesso?», chiese Darla poco dopo.
Si guardarono, e…
«Tequila!», dissero all’unisono.







_____________________







Note autore:
Se avessi aspettato qualche mese, avrei potuto pubblicare questo extra in occasione del decimo anniversario dalla pubblicazione di Rovi & Rose (DIECI ANNI!!). Questa piccola cosuccia, però, è stata scritta per Dragana, perciò non poteva essere pubblicata in nessun altro giorno se non oggi. Buon compleanno, cara amica mia!
L’idea è nata qualche pomeriggio fa. Cercavo ispirazione per il compleanno di Dragana, così mi sono data alla rilettura delle storie dei miei autori preferiti e delle relative recensioni. Se ci pensate, rileggere vecchie storie e vecchi commenti è un po’ come sfogliare un album di fotografie: torni indietro con i ricordi, affiorano alla mente dettagli che avevi dimenticato, e soprattutto rivivi le chiacchierate e i fangherlamenti con le amichette.
Per questo extra, quindi, galeotte furono la oneshot di Dragana Gatte randagie (che vi consiglio di leggere se amate Darla e già non lo avete fatto), la risposta di Dragana a una ragazza che aveva commentato la suddetta storia, e una recensione che Dragana aveva lasciato a un capitolo di Rovi & Rose.
Piccolo appunto: ho rubato l’idea per il travestimento di Halloween Giovanna D’arco/Dio al telefilm Buffy. Honey, poveretta, pensava di essere incappata in un’innocente citazione pop.
Spero che la storia sia stata di vostro gradimento (ammesso che ci sia ancora qualcuno da queste parti) e spero che sia piaciuta a Dragana. Non è molto, ma ci ho messo il cuore!
Un grazie speciale a OttoNoveTre, partner in crime e beta di prim’ordine, che di recente ha anche pubblicato questo delizioso racconto per la collana La via della seta - Delos Digital: ve lo consiglio caldamente.
Ringrazio anche Francine e fantagiorgia, che con le loro recenti recensioni mi hanno fatto tornare quel leggerissimo prurito alle mani che è indispensabile per scrivere qualcosa.
Un abbraccio,
vannagio

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=2438545