Come la notte nera

di Lady Ligeia
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Su si laurea ***
Capitolo 2: *** Pulita ***



Capitolo 1
*** Su si laurea ***


Come la notte nera - prologo
Fare thee well - little broken heart
downcast eyes - lifetime loneliness
whatever walks in my heart
will walk alone...

(Nightwish, Forever yours)


Oggi pomeriggio si laurea Su.

Finalmente, mi viene da pensare, mentre scelgo la cravatta giusta da abbinare alla camicia che ho scelto di indossare.

Non mancherei alla discussione della sua tesi per niente al mondo.
Su è l'ultima dei miei vecchi amici - quasi mia coetanea - a concludere gli studi.
La sua laurea è la fine di un'epoca, in un certo senso.
Un'epoca che, per me, dovrebbe essere chiusa da anni.


So che i miei pensieri si stanno spingendo in una direzione che non dovrebbero imboccare, eppure non intervengo. Il controllo ferreo che su di essi esercito da anni mi snerva. Provo a lasciarli andare. A lasciarli correre lungo il più nero dei tunnel. Tanto, so che cosa troverò là in fondo.

Ci saremo tutti, credo.
Tutti quelli dei vecchi tempi.
Daniela. Genny e Paolo. Silvio e sua moglie Mary. Tiziano.
Alex - c'è sempre un Alex, no? E anche noi avevamo il nostro.
Paoletta, che mi guarderà negli occhi e scoppieremo a ridere come bambini, come sempre, com'è sempre stato.
E poi Chris e Vince, inseparabili come sempre, con le relative fidanzate.
E Clara, la donna in carriera, chissà con quale principe consorte al fianco, stavolta.
Forse non ne avrà, invece: gli uomini per lei vanno e vengono, come le onde del mare.
Algida e sola, meravigliosa Clara, prigioniera di un fascino che non sa di possedere e di un'insicurezza di cui, invece, è fin troppo cosciente.

Tutti gli altri, insomma.


E Sara.
Forse.
Figuriamoci se Su non l'ha avvertita.
Magari, però, le ha detto anche che ci sarò io, e lei preferirà non farsi vedere. Una donna farebbe così.

Sara.
Com'è banale, vero? Ce ne saranno milioni, in Italia. Nel mondo.

Quando una donna si impossessa della tua anima, la cosa peggiore che può capitarti è che abbia un nome così comune.
Un nome così comune che
ad ogni passo ti imbatti in altre donne che lo portano, cosicché, ad ogni passo, ti sembra di incontrarla di nuovo.
E ogni volta è come se il cuore ti si fermasse nel petto.
Ogni volta vorresti urlare, perché non ammetti che altri possiedano qualcosa che appartiene a lei.
Il suo nome, per fare un esempio.
O la tua anima, per farne un altro.

"Sara" non ha vezzeggiativi di sorta, affettuose varianti con cui distorcerne il suono, diminutivi che ne addolciscano l'impatto sui nervi.
Sara è così, pulito, nudo, tagliente.
Sempre.


Il cognome di Sara, di questa Sara, dell'unica Sara, è Pigna.

Come le cartiere.
C'era qualcuno che, per prenderla in giro, la chiamava Quablock, ai tempi. Una battuta idiota, ma un po' idioti eravamo tutti.
Sono da sempre un frequentatore accanito di cartolerie, sempre alla ricerca dei roller dalla punta più fine, delle carte più belle.
E' ridicolo, disperatamente ridicolo, ma quando acquisto un quaderno di quella marca non riesco ad usarlo.
Gli appunti delle lezioni si aggrovigliano.
Comincio ad annotare ai margini pensieri cupi, maledizioni scagliate, inni al suicidio.
La mente mi si riempie di nuovo di lei, e non posso, non posso permetterglielo.


Su si laurea oggi pomeriggio, dicevo.
Ci saranno scherzi, ci saranno applausi. Ci saranno risate.
Su ha dedicato la tesi al padre, scomparso.
E poi c'è una seconda dedica. A me e a Sara, "i due punti fermi" della sua vita.

Spero che nessuno tiri fuori le fotografie.
Quelle vecchie, intendo.
Ad ogni occasione, qualcuno lo fa.
Credo sia Dani, che vive nei ricordi dell'epoca più felice della sua vita. Delle nostre vite, di tutti noi intendo.
Ha una raccolta enorme di immagini, poesie, disegni.
Biglietti del cinema, delle mostre, dei treni.
Programmi degli spettacoli del nostro coro, perché noi siamo un coro. O meglio, lo eravamo. Ci siamo conosciuti così.
Noi e molti altri, ma noi siamo rimasti.

Ad ogni occasione, dicevo, compare quel dannato quaderno. Pigna, suppongo.
Quel dannato quaderno pieno di lei.

Non ho bisogno delle fotografie di Dani - o forse sono di Chris, non ricordo.
Ne ho una anch'io.
Una sola, le altre non ci sono più.
Come non c'è più il vecchio poster di De André.
Come non ci sono più i libri.
Sono rimasti solo i gemelli d'argento che mi regalò il giorno della discussione della mia tesi di laurea.

Una sola, dicevo, e ogni tanto la riguardo. E' nell'ultimo cassetto della mia scrivania, dove Chiara non arriva mai.

L'abbiamo scattata in un bar del centro, è un compleanno di Su. Il ventiseiesimo, credo.
Siamo intorno a un tavolino carico di tartine, su cui è stesa una ricca tovaglia color crema che sfiora il pavimento.
Abbiamo levato alti i bicchieri per brindare.
Da sinistra: Su ride di gusto, florida e dorata, come se la gioia di vivere si fosse fatta carne e fosse giunta ad abitare in mezzo a noi.
Poi c'è Sara, esile e composta, come la notte nera, l'unica dei tre che indossi abiti eleganti - ci aveva raggiunto dopo il lavoro, se non ricordo male, ma ricordo benissimo. Un tubino scuro, corto al ginocchio, la cui giacca giace informe su una sedia accanto a Su.
Io sono dall'altro lato. Non sto guardando verso l'obbiettivo, ma verso di lei. Com'è giusto che sia.
Alzo il calice con la sinistra, la destra è perduta sotto il tavolo. Come la sinistra di Sara, che alza, invece, il calice con la destra.
Un particolare insignificante, nessuno l'ha notato.

Ricordo la mano di Sara che era venuta a cercare la mia, protetta dalla tovaglia troppo lunga.
Ricordo la stretta delle sue dita sotto il tavolo.
Ricordo anche il contatto serico con i suoi collant, perché si era portata la mia mano sulle cosce.
Un gioco antico, tra di noi.
Nasconderci per sfiorare il fuoco che ci avrebbe arsi vivi.
Camminare spensierati lungo il ciglio dell'abisso.
Bambini a maneggiare una lama più tagliente di quanto potessimo immaginare.
Negarci l'uno all'altra e offrirci, offrirci e poi negarci, finché non ci siamo fatti a pezzi.

Ecco perché non ho bisogno di vedere le mille altre fotografie.
Lei è in tutte.
In costume di carnevale, a casa di Chris.
In calzoncini e canottiera, in vacanza, con gli occhiali da sole firmati che le aveva regalato suo padre.
Sciarpa e piumino, in stazione un pomeriggio, non ne ricordo la ragione.
Con la gonna nera e la camicetta bianca della divisa del coro.
In varie scene di gruppo, difficili da identificare.

Nella maggior parte, è con me.
In una immergiamo un cucchiaio ciascuno in un enorme barattolo di Nutella, con in faccia un'identica espressione da bambini estasiati assunta senza ombra di posa o di accordo previo, in assoluta spontaneità.
In un'altra, assonnata, mi posa la testa sulla spalla e ha gli occhi chiusi, come se si fosse addormentata. Era una festa di compleanno.
In una terza facciamo fotocopie, siamo in università. E' stata Su a scattarla. Sara, furiosa, prende a calci la fotocopiatrice recalcitrante, che le ha inghiottito la tessera a scalare e non ha alcuna intenzione di restituirgliela. Io la osservo perplesso. Ammaliato. Folgorato. La comicità di quella scena è impossibile da descrivere.
Non ho bisogno di vederle per sapere, insomma.

Che nessuno mi mostri quelle foto un'altra volta, oggi. Per favore.


Annodo la cravatta. Raccolgo le chiavi della macchina, il portafoglio, il cellulare. Esco.

Ho indossato una camicia con i gemelli.




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Capitolo 2
*** Pulita ***


Come la notte nera - 1
Ciao a tutti, voi che mi leggete!!
Scusatemi per l'attesa... faccio un po' fatica a trovare il tempo di aggiornare, purtroppo, e spesso sono anche troppo stanca per scrivere.
Spero sempre che questa storia vi piaccia.
Grazie anticipato a chi leggerà!
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Le ho conosciute dieci anni fa, Sara e Su.
Per prima, Sara.

Avrei dovuto dedicarmi anima e corpo alla tesi di laurea, allora, ma non ero riuscito a superare al primo tentativo l'ultimo esame e questo mi avrebbe ritardato, perlomeno di qualche mese.
Mio padre aveva subito un ictus, quella primavera, e andava rimettendosi molto lentamente.
Faticavo a far capire a mia madre, che mi avrebbe voluto sempre a casa a darle una mano, che dovevo stare a Milano, per avere tempo e modo di studiare, di cercare i testi che mi servivano per la tesi, di mantenere i contatti con la docente che avevo scelto come relatrice. Niente. Sconvolta da quello che era capitato a papà, diceva che ero un egoista e un ingrato, che se non avevo superato quell'esame era esclusivamente colpa mia e via di questo passo.
So da tempo che non avrebbe voluto dire questo, che le cose non stavano davvero così e tutto il resto della storia.
Così, tuttavia, le sentivo io e provavo un senso di inadeguatezza difficile da immaginare.

Non ho fratelli, né sorelle.
Siamo di Agordo, noi. Provincia di Belluno.
Un piccolo condominio e intorno le montagne.
Quando da ragazzino dubitavo che ci fosse un cielo sopra di noi, e capitava spesso perché ero introverso e molto portato a pormi domande cui nessuno sapeva rispondere, alzavo gli occhi verso di loro e i miei dubbi smettevano di avere significato.
Le mie montagne. Un inno di pietra al buon Dio. L'inno più bello che mai sarà scritto.
Ho cercato la pace anche adesso - contemplandole, toccandole, portando la mia corda e le mie scarpette nell'intimità delle loro rocce -, ma non funziona più.
Forse perché non sono più un ragazzino. Forse perché non è più dell'esistenza di Dio che dubito, ma del senso della mia.

Capii presto che, se fossi rimasto ad Agordo quell'autunno, non me ne sarei più potuto allontanare.
Forse mio padre non si sarebbe ripreso mai del tutto e, a quel punto, non avrei avuto più modo di ritagliarmi un'esistenza da individuo, perso nel groviglio di visite mediche, scadenze e incombenze varie in cui la mia famiglia era precipitata.
Trovai la scusa adatta per tornare a Milano, toccando mia madre in una delle sue - scarse - corde ancora sensibili.

Il mio vecchio amico Silvio, compagno di corso, romagnolo, era in tesi come me. Anche a lui mancava un solo esame. A mia madre era simpatico, tanto che l'aveva invitato spesso a venire a trascorrere l'estate da noi. Non che lui avesse mai accettato: preferiva il mare alla montagna, Bellaria ad Agordo.
Silvio aveva trovato, nei pressi dell'università, una chiesetta nel cui oratorio il parroco aveva organizzato un coro. Silvio ne conosceva la direttrice, suor Maria, perché era stata sua maestra alle elementari. A Bellaria, benché fosse lombarda.
Sia Silvio, sia io, abbiamo sempre amato cantare. Silvio ha una splendida voce tenorile, probabilmente la migliore che abbia mai sentito. Io sono un più che discreto basso: da bambino, cantavo nella chiesa nel mio paese; mia madre era fiera di me.

Dissi a mia madre che tornavo a Milano soprattutto per poter cantare di nuovo, sotto la guida di quella suora, che aveva fama di essere un'ottima insegnante. A mia madre fece piacere, si decise a smettere di tentare di ricattarmi.

Così, mi ritrovai nuovamente a Milano, nello stesso squallido appartamento che condividevo con altri due ragazzi - sempre diversi: quasi ogni mese, i miei coinquilini cambiavano, senza che riuscissi a legare con nessuno di loro.
Squallido, sicuro, ma per me rappresentava la libertà. Il distacco. Il respiro.

Andai davvero a parlare con suor Maria, per dare credibilità alla storia che avevo raccontato a mia madre.

Silvio mi aveva detto che suor Maria aveva un ufficio, nell'oratorio di quella piccola chiesa, e che anche il coro aveva una sede. Due stanzette contigue, minuscole e ingombre.
Mi aveva detto anche, ma io l'avevo dimenticato, che in quei giorni "stavano imbiancando".
Mi feci spiegare da qualcuno dove fosse la sede del coro e mi trovai presto davanti alla porta indicata. Era aperta.
La stanza era del tutto vuota, di modo che la mia prima impressione fu che fosse molto ampia.
La finestra era spalancata sul cortile, nonostante il clima fosse ormai decisamente autunnale. C'erano fogli di giornale sparsi sul pavimento, fissati con lo scotch, e un forte odore di vernice impregnava l'ambiente, nonostante la corrente d'aria fredda.
Misi dentro la testa, imbarazzato. Non sapevo se avrei trovato qualcuno. I soffitti alti e i lunghi corridoi mi intimidivano.

C'era una scala a pioli, in un angolo della stanza, e considerai divertito la creatura che vi stava in cima, intenta a rifinire con il pennello sottile lo spigolo tra la parete e il soffitto. Era un'apparizione esile, infagottata in una vecchia tuta, una bandana annodata in testa per proteggersi dagli schizzi di vernice e, alle mani, guanti di gomma di svariate misure più grandi del necessario. Canticchiava qualcosa, a mezza voce. Un mezzosoprano leggero.
- Ehi - l'apostrofai, titubante. - Tu sei quelli del coro? -
Una domanda stupida, me ne resi subito conto. Volevo chiederle se lei fosse del coro e se sapesse dove fossero finiti gli altri, ma le due frasi si erano fuse nella mia mente, dando origine a quell'interrogativo semiabortito.
- Ehi - rilanciò la giovane imbianchina, senza voltarsi, ma con il riso nella voce. - Io sono soltanto Sara, spero che t'andrà bene lo stèsso. -
Milanese, senza ombra di dubbio.
Scese dalla scala, rapida ma goffa per via della tuta, e mi venne incontro, rivelandomi in tal modo un particolare che non avevo ancora notato: il suo viso rotondo era del nero più profondo che avessi mai visto. Vivido vi risaltava, per contrasto, il bianco dei piccoli denti - regolari come un filo di perle - e degli occhi, intorno alle iridi brune.

I nostri sguardi si incontrarono.

Com'è pulita, fu il mio primo pensiero.
Schietta, diretta, senza tortuosità, intendevo.
Un sorriso così aperto, un brio così risplendente.
Luce e quiete, come se fosse stata un prato assolato su cui riposare.

All'istante capii di piacerle.
Furono dieci secondi lunghissimi, durante i quali - è probabile - il mondo stesso trattenne il respiro.
Per la prima volta in vita mia, mi sentii uomo.
Fui il cavaliere senza macchia e senza paura.
Fui il principe azzurro dei libri di fiabe.
Fui il maschio da sedurre, com'è scritto dal principio dei tempi.
Tutto questo e molto altro, ardeva negli occhi di Sara che percorrevano ammirati ogni centimetro del mio corpo.
Non c'era lascivia, in quell'esame, e nemmeno esibizione. Soltanto desiderio, senza schermi, senza stratagemmi, senza finzioni.
Desiderio, e innocenza allo stato puro.

O così mi sembrò.

Non sono mai stato capace di stabilire se Sara Pigna sia bella nel senso classico del termine.
Credo di no.
Forse è una bellezza africana, incomprensibile per gli europei, troppo pura, troppo esotica.
Quando la conobbi, inoltre, aveva appena vent'anni e, fisicamente, era quasi una bambina: le braccia legnose, le gambe troppo lunghe, niente curve in nessun posto. Alta e longilinea, tuttavia, in un modo che ricordava le liane.
Com'è pulita, pensai, tuttavia, e com'è bella.

Scambiammo qualche parola insignificante, mentre mi lusingava in quel modo.
Mi piaceva piacerle, ecco tutto.
Per il resto, non aveva nulla di ciò che normalmente si cerca in una donna... dal punto di vista fisico, voglio dire.
E poi, in ogni caso, io ero già innamorato di un'altra. Da anni.

Se ricordo Sara adesso, se - dopo averlo sfuggito per anni - cerco di riportare alla mente il suo volto, quasi non ne sono capace.
Il mio sforzo per dimenticarne i lineamenti, per me lancinanti, forse è andato a buon fine.
E' per questo che non voglio vederne le fotografie.
Ricordo solo il tono della sua pelle. La racchiude, la identifica tutta. Sara la Nera.
Ho sempre trovato attraenti le ragazze di colore, di qualunque sfumatura siano: dalla lieve sfumatura cannella di alcune, all'ebano lucidato di altre. Sara è la più scura. "Nera sono, ma bella, o figlie di Gerusalemme"...Cantico dei Cantici. Volete che un bravo bambino come me non lo conosca?

Senegal? Camerun? Zaire?
Sara aveva confessato di non saperlo: non le era mai importato, perché del suo Paese d’origine, quale che fosse, non aveva alcuna memoria. Era stata adottata appena nata e si considerava italiana a tutti gli effetti.
Sissignore, un'italiana nera come l'absolute space, quale problema c'era? Anche una Miss Italia era stata nera, no, pochi anni prima?
Lei era milanese, per la precisione, e quando rivendicava la propria milanesità il suo accento diventava più pesante, soprattutto alle mie orecchie di veneto. Era sconcertante ascoltarlo, quell'accento, mentre scivolava fuori da quelle labbra tumide e scure e faceva capolino nelle biciclètte e nei e nei ciumbia.
Andiamo, idiota
, pensai, ti aspettavi forse che parlasse mandinka, come la mamma di Kunta Kinte!?

Mentre parlavamo - e lei africana si rivelava più a mio agio di me nella nebbia di Milano, dove le montagne non erano altro che un  pizzo azzurrato sull'orizzonte occidentale, da ammirare soltanto in certe mattine particolarmente serene, e non erano nemmeno le mie montagne - qualcun altro entrò nella stanza. Un biondino sottile e pallido, che indossava una tuta molto simile a quella di lei. Dall'occhiata indispettita che mi lanciò, intuii che la mia nuova conoscenza dalla pelle color cioccolato non doveva essere single.
- Oh, ecco il mio fidanzato... - cinguettò infatti, del tutto pleonasticamente. - Armin. -
La stretta di mano che ci scambiammo sembrò una prova di forza, ma le ostilità terminarono prima ancora di cominciare, perché, in realtà, lo slavato compagno dell'incantevole Sara non aveva assolutamente nulla da temere.
Per quanto lei fosse carina e piena di brio, infatti, ripeto, io ero già innamorato di un'altra.

Armin intuì che non avrei mai tentato di soffiargli la ragazza e, nelle settimane che seguirono, stringemmo persino, nella misura in cui ci era possibile, una sorta di intesa molto ruvida. In effetti, lo invidiavo, non tanto perché stava con Sara, ma perché la loro storia sembrava tanto... serena, ecco. Tanto solare, tanto naturale.
Erano insieme da un anno e mezzo, mi spiegarono.
Ogni venerdì e sabato sera uscivano insieme.
Ogni domenica Sara era a pranzo da Armin, o viceversa.
Qualche volta vestivano uguali, o quantomeno secondo il medesimo stile.
Avevano una compagnia in comune, frequentavano gli stessi corsi all'università e, da qualche mese, il coro.

Sara dipingeva, per hobby. Olio, tempera, acquerello.
Guarda un po', una giurista pittrice, ricordo che pensai. Buffa combinazione.
Me lo confidò la sera in cui partecipai alle prove del coro per la prima volta e io notai gli sguardi sornioni che si scambiavano altri dei presenti, ma non li compresi.
Le chiesi di mostrarmi qualcuno dei suoi dipinti e il suo viso si illuminò di un'aria d'importanza, nel rivelarmi che alcuni di essi, debitamente scannerizzati, erano stati pubblicati da due o tre siti amatoriali. Mi avrebbe fornito i link, aggiunse.
Mi ripromisi di guardarli, ma non lo feci. Me ne dimenticai. Studio filosofia, io, e ho sempre guardato gli artisti un po' dall'alto in basso, da bravo amante di Platone. Nel mio appartamento, inoltre, non disponevo di una connessione Internet.
Ricordai solo l'espressione che Sara aveva assunto nel parlarmene: quella di una bambina che si aspetta una lode.
Provai tenerezza per quell'autocompiacimento così ingenuo, così palese. Voleva fare colpo, era chiaro come il sole.
Me la raffigurai bambina davvero, come doveva essere stata: con le trecce e la gonna a pieghe e le scarpine di vernice con il cinturino, un foglio da disegno davanti, un pastello a cera fra le dita e la lingua fra i denti, intensamente concentrata a disegnare.
Mesi dopo, vidi una sua fotografia infantile, incorniciata nell'ingresso dell'enorme appartamento dove viveva con i suoi, e rimasi sconvolto per la somiglianza tra il quadretto che mi ero immaginato e la realtà di quel ritratto.

Io ero innamorato di una ragazza di Belluno che avevo conosciuto durante il vibrante mese di agosto di qualche anno prima.
Veniva a trascorrere le vacanze ad Agordo. Avevo avuto più di una storia con lei, ma ogni volta sembrava non funzionare e lei mi piantava; poi tornava a cercarmi ed io c'ero sempre. Non sarebbe esatto affermare che le cadessi ai piedi: l'aspettavo, più precisamente. Sapevo, senza ombra di dubbio, che sarebbe tornata. Che mi amava. Che ero l'uomo giusto per lei.
Tutti i miei amici di casa mi ripetevano di non fidarmi, che per lei non ero altro che un flirt estivo, da riporre in cantina insieme con l'attrezzatura da via ferrata appena si rientra in città, eppure io non volevo crederlo.

Amavo Chiara, dicevo, e avevo il cuore spezzato, e invidiavo disperatamente i miei due nuovi amici che si tenevano romanticamente per mano nel cortile dell'oratorio dove provavamo per il coro. Mi ero confidato con Armin, un giorno - Sara non c'era - e Armin era stato così comprensivo... mi aveva offerto una birra e detto che non valeva la pena di prendersela, fratello.

Nel frattempo avevo conosciuto anche altri coristi, alle prove, e mi ero trovato bene in loro compagnia.
Mi spiego: io sono un solitario, da sempre.
Anche in montagna, vado da solo, o andavo con mio padre quando stava bene.
Non ho mai avuto una compagnia vera e propria, da frequentare la sera.
Parecchie ragazze hanno lodato il mio aspetto o la mia presunta intelligenza e hanno riso alle mie battute, ma Chiara è stata il mio primo vero amore. Le altre mie storie sono sempre state senza importanza.
Lontano da casa, a Milano, angustiato dalla malattia di mio padre, preoccupato per la tesi di laurea che non riuscivo ad iniziare a scrivere, tormentato dalle telefonate continue di mia madre, frequentando uno scalcinato coro amatoriale, ebbi l'improvvisa e inedita sensazione di aver trovato il mio posto nel mondo. Cantare mi piaceva, gli esercizi per la voce che consigliava suor Maria erano miracolosi, ma, soprattutto, erano splendide le persone con cui cantavo. La loro amicizia mi avvolse senza pormi domande, con semplicità: fin dalla prima sera, fui uno di loro. Il mio vecchio conoscente Silvio ne fu molto soddisfatto.
Eravamo in parte studenti, in parte dottorandi, in parte lavoratori. Diversi le origini, gli accenti, i cammini percorsi fin lì; comune la voglia di stare insieme per fare qualcosa. Era un incredibile crocevia di vite, quel coro: vite giovani e meno giovani, facili e meno facili, ricche e gioiose o aride.

Ricordo i due tenori, ad esempio, Tiziano e Christian: due pugliesi sulla trentina, estroversi e dalla risata pronta, amici per la pelle, rigoroso e intellettuale il primo, più scanzonato e in perenne ritardo il secondo. Il primo tenore era, invece, un ex-seminarista materese, di nome Vincenzo, etereo e taciturno, molto amico di Tizzi e Chris.
Il primo soprano era Genovina, una siciliana solare, bruna e ricciuta, che si faceva chiamare Genny pur non vergognandosi affatto del suo desueto nome di battesimo. La sua migliore amica era un altro soprano, Daniela, naso all'insù e mani da fata, una pessimista cosmica dall'ironia tagliente; dal momento che entrambe studiavano filosofia e condividevano un minuscolo appartamento nella periferia nord della città, le prendevamo in giro rivolgendoci a loro come a una consolidata coppia di sposi, le cui affinità e le cui differenze si combinavano in un insieme quanto mai armonico, esattamente come le loro voci, purissime e splendidamente educate. Ascoltarle discutere era divertente come assistere a una serata di cabaret...
Alessandra era già oltre il giro di boa della quarantina e ci faceva un po' da mamma; suonava l'organo, ci teneva in ordine le divise che sfoggiavamo nelle serate di spettacolo e ci raccontava spesso dell'ex-marito e del loro bambino. Era bravissima ad imitare Rosy Bindi, aiutata in questo anche da una certa naturale somiglianza fisica.
Paoletta era contralto e insegnava ballo latinoamericano: milanese, molto rotonda, tutt'altro che bella nonostante gli stupendi occhi azzurri, bisognava vederla muoversi a tempo di musica, o ascoltarla ridere, per rimanerne completamente conquistati. Era innamorata di Chris, proprio come l'elegante Clara, il primo mezzosoprano, ma Chris non propendeva per nessuna delle due, pur uscendo spesso con entrambe. 
Non ho mai avuto una grande simpatia per Chris, a essere sincero, perché sono diventato subito molto amico delle sue maltrattate corteggiatrici e mi sono sempre chiesto come un tizio così insignificante potesse aver preso il cuore di due ragazze tanto incantevoli.
A mio avviso, Paoletta sarebbe stata perfetta, per lui... Clara era - è - troppo al di sopra. Di lui e di tutti noi.
Poi, tra gli altri, c'era Enzo, baritono, single, oltre la trentina e loquace ai limiti della logorrea, tanto che dicevamo tacesse solo mentre cantava; oltre la trentina erano anche altre due amiche siciliane che lavoravano in un McDonald's del centro e abitavano insieme in un monolocale sui Navigli - anche queste erano l'una l'opposto dell'altra e come facessero ad andare d'accordo era un vero mistero: Piera sembrava un tipo cupo e aveva fama di mangiauomini, mentre Edda era, viceversa, simpaticissima e fidanzata fedele da anni.

Suor Maria dirigeva le prove e ci teneva uniti; era, senza tante parole, il centro d'attrazione di tutto il gruppo.
E' una donna piccola, sulla sessantina, sempre sorridente. Intelligente, sensibile e coltissima.
Il genere di interlocutrice che ispira fiducia.
Il mio primo incontro con lei, tuttavia, non mi colpì poi molto: volevo entrare in quel coro, sapevo già che era una brava maestra, e forse fu questa la ragione per cui non le prestai molta attenzione.

Se qualcuno mi avesse chiesto perché fossi così attratto da quell'ambiente, avrei avuto almeno una dozzina di valide risposte da offrire.
Volevo coltivare un interesse insolito, che mi tenesse legato a Milano e mi impedisse di pensare troppo a Chiara che mi sfuggiva, o a mio padre che non guariva.
Volevo riguadagnare la confidenza di Silvio, che si era allentata con gli anni.
Volevo approfondire il rapporto con quelle persone così vivaci e stimolanti.
In particolare, l'avrei confessato senza la minima remora, volevo conoscere meglio Armin e Sara.

Saremmo potuti diventare davvero ottimi amici, noi tre...


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