Pabst Blue Ribbon.

di SophieJ
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Chapter I ***
Capitolo 2: *** Chapter II. ***
Capitolo 3: *** Chapter III. ***



Capitolo 1
*** Chapter I ***


Chapter One.

 

“Gwyneth, bambina mia, sta lontana da lui! E’ pericoloso, è cattivo, ti farai male…”

Mi ammoniva sempre mia madre. 

Avevo 6 anni quando lo conobbi per la prima volta.

E in quel momento sentii di conoscerlo da molto prima. 

Da vite passate, trascorse nella continua ricerca reciproca l’uno dell’altra, nell’attesa, a volte nella delusione di non essersi incrociati per così tanto tempo.

Era stato un incontro fatale, rivelatore.

Mi ero vista come osservatrice e attrice quel giorno e avevo saputo, come se fossi stata toccata dalla mano chiarificatrice di Dio, che le nostre anime si erano incatenate l’un l’altra in maniera inscindibile e ad un livello così profondo, da diventare quasi una cosa sola.

Il mio asse gravitazionale si era spostato tutto nella direzione di quel bambino unico e sinistro al tempo stesso.

 

Ero uscita per giocare nel palchetto vicino a casa sua.

Stava piovendo a dirotto, come se gli angeli piangessero tutti insieme.

Mi era avvicinata all’altalena e avevo udito dei gemiti di dolore intervallati a dei colpi secchi. 

Ero avanzata fino alla zona più nascosta del parco, dove c’erano i bagni pubblici, e lì, avevo visto un bambino pallido, con gli occhi grigi, tempestosi, che sputava sangue mentre si massaggiava il braccio destro, su cui vi era uno squarcio profondo.

Aveva qualche anno in più di me, ma non poteva nulla contro quei ragazzini che lo strattonavano, tirandogli nel mentre qualche ceffone.

Inorridita alla vista di un tale spettacolo, ero corsa in suo aiuto.

Avevo con me la mia bambola preferita, Brigitte, e me ne servii per minacciare quei ragazzini così cattivi.

Il mio debole tentativo di difendere il ferito non fece altro che peggiorare la situazione:

smisero di prendersela con il bambino dai capelli corvini, facendo di me la nuova vittima di quel gioco crudele.

Mi strapparono la bambola e incominciarono a lanciarsela e usarla a mo’ di pallone da calcio.

Ero scoppiata in lacrime, quando la mia bella Brigitte era finita in una pozza fangosa.

Era uno dei pochi regali che mio padre mi avesse mai fatto.

Aveva un che di speciale per me: sapeva di mio padre, di cuoio, di viaggi in terre lontane.

Lui era sempre assente e credeva che i regali gli avrebbero garantito l’affetto della figlia.

E così fu, finché una mattina di natale scesi ad aprire i regali.

Mio padre era lì e aprì le braccia per invitarmi a correre da lui, ma io non lo feci.

Per me era solo uno sconosciuto, uno passato di lì a salutare sua madre.

E anche quando quest’ultima mi disse che era mio padre, io invece di correre da lui, corsi nella direzione opposta, in camera, e mi nascosi sotto al letto.

Era stato un tale dispiacere per mio padre, che non aveva più accettato lavori che comprendessero lo stare troppo lontano da casa.

 

Avevo sentito tre esplosioni, percependo qualcosa di liquido scorrermi sul viso.

Non mi ero azzardata ad aprire gli occhi, finché non avevo sentito una mano tiepida sulla spalla. 

Allora avevo guardato su e i miei occhi si erano persi in quel grigio magnetico.

“Tutto bene?” mi aveva chiesto.

Io avevo solo annuito, incapace di proferire parola, e mi ero tirata su i piedi.

“Non ho potuto fare molto per la tua bambola, mi dispiace.”

Mi aveva teso Brigitte e io l’avevo afferrata con forza, stringendomela al petto.

“Perché? Tu non hai fatto nulla. E’ tutta colpa di quei brutti bambini di prima.-“

Lui aveva sorriso.

E solo allora avevo visto. 

Sul prato c’erano in tre punti differenti, tre pozze vermiglie dai contorni indefiniti e un sacco di sangue spruzzato sulle giostre, sul prato e su tutto ciò che si trovava nel raggio di tre metri.

Lo avevo guardato con timore e mi ero ritratta, mettendo un po’ di distanza tra noi.

“Non aver paura. Non ti voglio fare del male… non te ne farei mai.”

E io gli avevo creduto. Mi aveva teso una mano e io, seppur riluttante,  l’avevo afferrata. L’avevo stretta e gli avevo sorriso, un sorriso dolce e fiducioso.

E lui mi aveva sorriso di rimando e mi aveva accompagnata a casa.

Mi ero ricordata del suo braccio ferito e avevo chiesto di vederlo, ma non avevo scorto nessuna traccia di una ferita.

Lo avevo guardato con aria interrogativa e lui mi aveva spiegato: “Non ti preoccupare, io guarisco in fretta.”

Prima di entrare in casa, mi ero voltata a guardarlo un ultima volta e gli avevo chiesto:

“Come ti chiami, bambino coraggioso?”

“Dale, Gwyneth, ma tu questo già lo sai.”

Gli avevo sorriso e avevo varcato la soglia di casa.

Ma quando ero corsa a guardare fuori dalla finestra, il bambino dagli occhi grigi non c’era più.

 

Eravamo diventati grandi amici, o meglio: Dale era diventato il mio difensore, il suo cavaliere, o protettore.

Mi aveva sempre aspettata, ogni pomeriggio, dall’altalena e aveva sempre portato qualche cosa di buono da mangiare per me.

 

Ma tutto prima o poi finisce.

 

Avevo 9 anni quando Dale se ne andò.

Ero da poco tornata a casa e, il tempo di lasciare lo zainetto nell’ingresso, ero corsa nei pressi dell’altalena.

Ma lui non c’era.

Ero corsa a casa sua, ma era tutto tristemente silenzioso.

Ero ritornata a casa in lacrime per sentire da mia madre che gli Armstrong se n’erano andati per sempre.

 

Ero ritornata più volte in quel parco, più per abitudine che per altro.

Speravo che lui si sarebbe fatto vivo, ma non fu così.

Un giorno avevo scorto appeso ad un albero un bigliettino nero e avevo chiesto a mia madre di tirarmelo giù.

C’erano solo due parole su di esso: “Ritornerò. Dale.”

I miei occhi si erano appannati e calde gocce salate avevano solcato con fierezza il mio viso.

La mia grande amicizia con Dale era finita senza una parola, ma solo una promessa.

 

 

“Gwyneth, muoviti!”

Mia madre cercava con rabbia le chiavi della macchina, che tra l’altro era ferma da mesi e che, a mio avviso, non aveva nessuna intenzione di svegliarsi dal suo letargo.

“Maledette chiavi!” sbraitò, risistemandosi gli occhialetti tondi sul setto nasale.

La osservai mettere sotto sopra la casa, cercando di scovare quel piccolo mazzetto tintinnante di metallo.

Ormai le misere speranze iniziali, alimentate da qualche esclamazione come ‘ci siamo!’ oppure ‘trovate!’, si erano dissolte in un nulla di fatto.

“Mamma, io vado a prendere l’autobus. Ci vediamo in ospedale!” 

Uscii di casa, quasi correndo e vidi con stizza l’autobus partire proprio in quel momento.

Stupidi mezzi pubblici!

Andai sotto la tettoia della fermata a controllare gli orari e scoprii con orrore che il prossimo autobus sarebbe passato tra una ventina di minuti.

No. Non posso aspettare tanto. Mio nipote non può certo aspettare il mio arrivo per uscire dall’utero di mia sorella!

Cercai di riflettere alla svelta.

C’era una cosa che odiavo fare, ma al momento non vedevo alcuna alternativa.

Presi il coraggio a due mani e raggiunsi la strada principale a due isolati da casa mia, sporgendo il pollice alzato, nella speranza che qualche buon samaritano mi notasse e mi desse un passaggio.

Passò una decina di minuti e niente. Non un’anima pia si degnò di darmi una mano, anzi, un passaggio.

E dire che non ero così malvestita, insomma… Avevo pure i tacchi!

Ma niente. Neppure un vecchio bavoso si degnò di fermarsi.

“La bontà del genere umano…” mormorai con sarcasmo.

Basta! Ci vuole un’azione drastica. A mali estremi, estremi rimedi!

Mi piazzai su una corsia della strada, per nulla intenzionata a spostarmi di lì.

“Hey, tu!” strillai, piazzandomi di fronte alla macchina che stava sopraggiungendo a gran velocità. “Smettila di guidare in modo così spericolato e dammi un passaggio all’ospedale!”

Le gomme della machina stridettero cercando di arrestare quella folle corsa e il ragazzo al suo interno si lasciò sfuggire un’imprecazione piuttosto colorita.

Ottimo! il mio obiettivo era che qualcuno si fermasse e alla fine l’avevo avuta vinta.

Stava guidando una R8 e l’aveva appena fatta tirare al lucido, perché splendeva come un diamante esposto ad una fonte di luce.

Qualcuno mi dia un pizzico, credo di star sognando.

“Che diamine stai facendo?” mi gridò con rabbia, tirando giù il finestrino.

“L’autostoppista! Non lo vedi, idiota?” ribattei con astio. “Ora, fammi entrare.”

“Ma che… Pensi veramente che ti darò un passaggio?” domandò incredulo.

“Ovvio, scemo,” dissi, guardandolo con sufficienza, “Mia sorella sta per partorire e siccome io non ho la patente, si suppone che qualcuno mi dia uno strappo fin laggiù.”

“Esistono i mezzi pubblici, non lo sai?” disse lui con fare sarcastico.

“Si, è vero. Ma il tempo che arrivi un autobus e si destreggi nel traffico e giunga all’ospedale, mio nipote sarà già nato!” gli ho spiegato con impazienza.

“Levati dalle scatole, ragazzina,” disse con fare minaccioso “O non esiterò a passarti sopra come un rullo compressore!”

Risi a quella sua ultima battuta, lui, passarmi sopra? Uhm, non credo proprio.

“Provaci se ci riesci!” lo sfidai, saltando sul cofano della sua macchina.

“Se la graffi giuro che…” scosse la testa, scrutandomi accigliato.

“Che farai? Sentiamo.” gli domandai, rotolando da una parte all’altra, schernendolo.

“Ugh. Tu. Entra.” cedette, sporgendosi dal lato del passeggero per aprirmi la portiera.

Si! Proprietario dell’R8: 0. Io: 1.

Facile, no?

“Dove?” mormorò, mentre balzavo sul sedile di fianco a lui.

“Oh cielo… Siamo un po’ smemorati, eh? Ho detto all’ospedale.” dissi, con tono di sufficienza.

“Quale??” chiese con stizza, impaziente di premere a fondo il pedale dell’acceleratore.

“Beh, considerato che c’è solo un ospedale nelle vicinanze…” dissi con voce strascicata.

“Cristo, d’accordo.” e premette con gioia il pedale dell’acceleratore, facendo sgommare lievemente la macchina “Sei fortunata che io ti stia dando un passaggio.”

“Beh, direi di essere piuttosto fortunata, visto che ho lasciato un bel segno sul tuo cofano con i tacchi.”

“COSA?” disse, quasi andando a sbattere contro un palo della luce.

“Non hai mai preso in considerazione l’idea di gestire un po’ meglio la rabbia?” chiesi incuriosita “Qualcuno dovrebbe ritirarti la patente.” mi guardò con un’espressione scioccata “Stavo scherzando, scemo.”

“Ha ha ha! Davvero divertente! Così divertente che mi sono scordato di ridere.” borbottò seccato.

“Se hai dimenticato di ridere, come mai ho sentito un ‘hahaha’? dissi freddamente.

“Perché tu stai delirando. Ecco perché.” mi rispose.

“Credo che tu sia mentalmente frustrato.” sbuffai “Almeno il mio cervello funziona benissimo.”

Lui mi ignorò.

“Eccoci!” annunciò “All’ospedale!”

“Finalmente! Credevo che sarei morta soffocata dal tuo profumo; uso eccessivo di acqua di colonia?” mentii; il suo aroma era giunto alle mie narici come una fresca e dolce brezza profumata, nulla a che vedere con il puzzo dei miei coetanei.

“Davvero? Lo stesso vale per te, sgualdrina.” mormorò sardonicamente.

Saltai giù dal sedile e uscii dall’auto. “E a chi devo porgere i miei ringraziamenti?”

“Dale. Dale Armstrong.” ha detto con orgoglio. “E tu…sei?” chiese, socchiudendo gli occhi.

“La tua amichevole Spider-Woman di quartiere!”

Poi gli sbattei la portiera in faccia, avvaindomi verso l’interno dell’edificio.

Sentivo gli strilli di mia sorella fin da lì e quindi accelerai il passo.

Proprietario dell’R8/Dale: 0. Io: 2.

 

 

Donnina nell’ampolla:

Contro ogni previsione, negli ultimi tempi mi sto cimentando nel genere romantico.  *applausi e occhi lucidi* :D Non è proprio un genere nelle mie corde, ma bisogna provare anche qualcosa di nuovo quando la tua musa ispiratrice fantasy si dà all’ippica e ti lascia nei casini. *donna maledetta* Comunque, intanto ringrazio chiunque abbia letto, recensito o semplicemente speso 5 minuti del suo tempo ( forse anche meno xD) a leggere questa mia nuova impresa: VI ADORO! So che è un’inizio piuttosto breve, ma è un esperimento, perciò vedrò dal vostro indice di gradimento se procedere o meno! ;D Alla prossima, Jollies! Un bacione! SMACK!

Sophie J

 

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Capitolo 2
*** Chapter II. ***


 

Chapter Two.

 

Fermi tutti! Avevo sentito bene? Dale Armstrong? 

Scandagliai con tutte le mie forze ogni ritaglio del mio passato, ma per qualche ragione non riuscivo a ricordare dove lo avessi già sentito.

Eppure quel nome mi parve così pericolosamente famigliare.

Dannato proprietario di R8! Che l’ira degli dei scenda su di te!

Passai la notte insonne a causa dell’euforia di mia madre per il nuovo membro della famiglia.

Non faceva altro che blaterare di quanto sarebbe stato bello una volta lo avessero portato a casa e di quante volte si sarebbe recata a casa di mia sorella per assolvere ai suoi doveri di nonna.

“Mamma, guarda che non è mica figlio tuo… Lasciali in pace.”

Mia madre mi guardò malissimo. “Certo, che non è figlio mio! Ma essendo figlio di mia figlia è come se lo fosse!” disse con la naturalezza che solo lei possedeva, anche mentre diceva stupidaggini.

Va bene… Se lo dici tu… Vorrà dire che quando verrà il mio turno, mi trasferirò dall’altra parte del pianeta!

 

Il giorno seguente, non feci in tempo a mettere piede a scuola, che fui presa d’assalto dalle mie compagne.

“Che sta succedendo? Come mai siete così eccitate? Il preside si è finalmente deciso a farci vedere un film Horror/Splatter con tanto di squartamenti, evirazioni eccetera?”

Tre paia di occhi scioccati e schifati si posarono su di me.

“Gwyn, è disgustoso! Ma come ti vengono in mente certe idiozie?”

Feci spallucce.

Da quando la gente era diventata così sensibile? Bah.

“Comunque, a scuola si è iscritto il figlio di un miliardario! Non è emozionante?” chiese Erin con gli occhi lucidi. 

Era sempre stato il suo sogno quello di sposare un miliardario e fare la bella vita, perciò non mi sorpresi del suo stato d’animo: stava già fiutando il sangue di scapolo, giovane e schifosamente ricco.

E non era la sola: anche Margaret e Clarisse lanciavano gridolini concitati, battendo le mani e raccontandosi già la storia della loro vita, all’insegna della prosperità e del successo.

“Cause we are living in a material world and i am a material girl…” intonai, ricevendo indietro tre occhiate contrariate.

“Ok… Ok! - dissi alzando le mani in segno di resa - comunque, chi è il nuovo dio bello, ricco e famoso che ha deciso di unirsi a noi comuni mortali?”

“Dale Armstrong!” sospirò, con un espression e così sognante da darmi il voltastomaco. “Devi vederlo! É così attraente! Occhi grigi, capelli corvini… Gnam! Gnam!”

Occhi grigi? Capelli corvini? Mi parve di ricordare qualcosa, ma proprio quando l‘immagine rivelatrice si stava per presentare di fronte ai miei occhi, ecco che invece sopraggiunse il ricordo del bellimbusto del giorno precedente.

“Ehm, Dale Armstrong? Ne sei sicura?” ripetei, colta da un misto di imbarazzo e preoccupazione.

Margaret mi scrutò con attenzione, cercando di capire questo mio strano comportamento.

Ero quasi certa di aver letto preoccupazione nei suoi occhi. Forse temeva che anch'io mi sarei buttata nella gabbia dei leoni, per vincere il premio finale.

“Non fare la svampita, Gwyn! Queste tattiche non hanno mai funzionato! Credi di riuscire ad accalappiarlo con un trucco simile? Ha! Incredibile!”

“Dale Armstong, accalappiarlo?” scoppiai a ridere “Beh, di lui per il momento mi interessa meno di zero, però la sua macchina… quella sì che era una bomba!”

“La sua macchina?” Clarisse mi guardò come se fossi pazza.

“Si, un R8.” dissi, ricordandola con un sorriso. “ Grigia metallizzata.”

“Hai passato troppo tempo con tua madre ultimamente… Hai preso un po’ della Alicite…” Clarisse scosse la testa con esasperazione “Non c’è proprio speranza che almeno uno della famiglia sfugga a quella tremenda malattia. Credevo che tua sorella maggiore l’avrebbe scampata, ma già mostra i segni dell’infezione…” Scosse nuovamente la testa con finto dispiacere.

“Hey!” incrociai le braccia al petto: chi si credeva di essere per parlare così della mia famiglia? “Non ce l’ho. Oltretutto, una ragazza deve sapere certe cose.”

E detto ciò sbiancai, vedendo il proprietario dell’R8 dirigersi con fare altezzoso verso di noi.

“Buongiorno, quale sfortunata coincidenza di frequentare la tua stessa scuola.”

Mi piazzai di fronte a lui, lanciandogli occhiate di sfida.

“Quindi, ti sei per caso schiantato contro qualche palo della luce di recente?”

“Questo non è affatto divertente, rossa.” Una delle bellezze mozzafiato si era avvicinata con fare protettivo al bellimbusto e mi guardava sprezzante.

“Mi ci sono imbattuta una volta.” la vidi distogliere lo sguardo e arrossire leggermente, forse a causa della rivelazione appena fatta. “E fa davvero… male.”

Beh, questo non mi sorprende affatto Miss Perfettina e dannatamente Bionda.

Dale alzò una mano e la ragazza arretrò di un passo. Dannazione, quanto vorrei anch’io avere degli schiavi!

Iniziò ad avvicinarsi e io mi misi in posizione d’attacco. Non ero una tipa particolarmente violenta, ma imparavo in fretta.

“Fai un altro passo e ti decapito!” 

A questo punto, quasi peraltro involontariamente avevo tirato fuori dallo zaino una scarpetta rosa Barbie, Dio solo sa come c’era finita lì. Ah, già… il nuovo nato.

A cui ho dato in eredità tutti i miei vecchi giocatoli. Anche contro il mio volere.

“Io non credo proprio, signorina Brown.” Udii la voce del preside Jefferson dirmi. 

Diedi uno schiaffo alla mano che Dale mi tendeva con rabbia; gli aveva dato l’arma più potente che esista. Il mio cognome.

“Metaforicamente parlando, signore, la mia scarpetta delle bambole è smussata e quindi inoffensiva.” gli ho assicurato con gentilezza, alzando la scarpetta per dimostrare la mia tesi.

“Sapete cosa penso,” disse spostando lo sguardo da me a Dale “Penso che abbiate bisogno di una pausa.”

Poteva sembrare una bella notizia in altre circostanze, ma ciò che la nostra scuola definisce ‘pausa’, letteralmente significa ‘tortura’.

E questo significava che ci avrebbero affibbiato una qualche attività disgustosa, per cui non volevano sborsare un soldo per assumere un professionista.

Maledetto preside! Lo sfruttamento minorile è perseguibile dalla legge! Dovrei denunciarti! 

No. Non sarebbe una buona idea.

“No, preside,” protestai “ sono una brava ragazza… Voi non potete farlo” piagnucolai.

Preside Jefferson mi ignorò e decise la nostra sorte con un sorrisetto compiaciuto:”Voi due pulirete il bagno dei maschi.”

Oh signore. Tutto fuorché questo, dio solo sa cosa ci fanno lì dentro. Credete che mi serva una maschera? Lo penso anch’io.

“Cosa?” farfugliò Dale, che si capiva non aveva mai dovuto muovere un dito per far nulla, “Non può essere serio!”

“Sono serio Aale Drmstrong.” disse, prima di allontanarsi. “L’attrezzatura la potete prendere nello sgabuzzino dei bidelli”

“Fa sul serio?” mi chiese. Aveva quell’aria atterrita tipica dei marmocchi che non hanno mai lavorato e quindi non sanno neppure da dove cominciare.

Anche se non mi dispiacerebbe toglierlo d’impiccio. Per soldi, s’intende.

“Aww, abbiamo paura di un po’ di olio di gomito? Avanti! Sii uomo, Aale!” dissi con una risatina.

“Oh cielo, mio padre lo verrà a sapere, ne può stare certo! E faremo chiudere questa stupida scuola per maltrattamenti su minori!” Mormorò, scuotendo la testa.

E io lo guardai incredula.

Voglio dire, sì, questo compito fa schifo, ma non c’è bisogno di piantare su una scenata simile. Non così tanto, almeno. Avrei capito se fosse stato un po triste, non nego che quei bagni mi preoccupassero non poco. Ma pure quello delle ragazze non era da meno.

“Andare a riferire tutto al paparino perché sei troppo prezioso per essere punito? Cresci un po’ Armstrong!”

Sbattei le palpebre un paio di volte. C’era un che di famigliare in quel nome. Nel pronunciarlo mi erano venute le farfalle nello stomaco. Cosa? Farfalle nello stomaco? Per questo qui? Per carità!

Ebbi anche l’impressione che un ricordo si stesse per affacciare nella mia mente, ma non fui in grado di trattenerlo e questo fuggì via.

Dannazione!

Lui ignorò il mio precedente commento e andammo a recuperare l’attrezzatura.

Vidi che di tanto in tanto mi lanciava delle occhiate, cariche di un’emozione che non avevo mai visto e che mi scottava le guance, tanto da farmi male.

Andai a prendere la scatola di cookies che tenevo nello zaino, sapendo che quel compito ci avrebbe tenuti occupati per un po’.

“Che stai facendo?” chiese tendendo una mano come per fermarmi, nemmeno fossi una delle oche che avevano imparato a parlare a comando.

“Prendo del cibo! Non finiremo molto presto questa ‘faccenda’.” gli dissi “Ti consiglio di fare altrettanto.”

“Nah… Non ne ho bisogno.” mi fece cenno con una mano e si diresse verso il bagno dei maschi. Oh beh, io l’ho avvertito.

Recuperai i cookies e lo raggiunsi. Lo trovai di spalle che se ne stava da una parte, con i muscoli contratti, che guadava con disgusto gli orinatoi a muro. 

Non riuscii a trattenermi e gli andai di soppiatto alle spalle e gli feci “Boo!”, senza sortire alcun effetto.

“Sapevo che eri qui dal momento in cui hai aperto la porta.” Sbuffai, seccata. Un punto per te, Dale!

Gli presi la spazzola dalle mani per mostrargli come si usava. In fondo era lui l’uomo lì e io non avevo nessuna intenzione di avvicinarmi a quei luoghi di perdizione.

“Questo,” e gli indicai la spazzola “si usa per pulire quello.” e indicai con essa l'orinatoio di fronte a noi.

Forse avrei dovuto spiegargli meglio, perché mi lanciò delle occhiate interrogative. Anzi no, era in iperventilazione. Forse dovrei prendergli un sacchetto di carta o qualcosa di simile.

Mi grattai la testa e gli allungai la spazzola. Lui si avvicinò meccanicamente agli orinatoi, accigliato, e iniziò a strofinare.

Bravo ragazzo. Nel frattempo, io lavo il pavimento.

Dopo un po’ di ‘oh signore e molti ‘che diamine…’, mi venne una certa fame. Perciò tirai fuori i miei cookies e lo osservai mentre scrostava con estremo disgusto.

“Come è elegante da parte tua…” sbuffai con malizia. Se solo avessi avuto con me una macchina fotografica... Questo era uno di quei classici momenti da polaroid.

Emerse dal wc che stava pulendo, adocchiando con invidia i miei biscotti. Che cosa avevo detto a proposito di portarsi del cibo? Umano insolente!

Ma io non sono umano. Sentii di colpo sussurrare nella mia testa.

Girai la testa da una parte all’altra,  cerando di capire da dove quel sussurro, anzi fruscio, provenisse, ma niente. Nemmeno un’anima viva a confermare quello che forse mi ero immaginata. A parte Dale, ma lui era troppo intento a guardarmi male perché non aveva ascoltato il mio consiglio.

“Ne vuoi uno?” gli domandai, sventolandogli il biscotto in faccia. “Te ne darò uno solo se mi darai uno strappo fino a casa in quella tua meravigliosa R8.”

Lui ci pensò leggermente su, poi annuì tendendo una mano verso di me per reclamare il suo biscotto.

Gliene consegnai uno con un sorriso trionfante. Si! Un Passaggio gratis! Non ero mai stata un’abile contrattatrice, ma di sicuro quel giorno feci l’affare del secolo.

Mi chiedo se ha solo un R8 o se invece, magari, possiede pure una Lamborghini o una Ferrari.

“Hey!” disse, indicandomi il biscotto “C’è un po’ di saliva su questo!”

“Hey! L’accordo ormai è fatto e quindi non puoi restituirmi il biscotto!” dissi con impazienza. “E poi…” aggiunsi, agitando un dito “la saliva è un extra!”

 

 

 

 

Donnina nell’ampolla:

Buondì! Eccomi qui con il secondo capitolo di questo mio esperimento! hahaha! Spero sia stato di vostro gradimento! Dal prossimo iniziano tutti gli eventi paranormali ecc, quindi Stay Tuned! xD Mi scuso per gli eventuali errori! A volte si nascondono ai miei occhi questi piccoli furfanti! xD Comunque, intanto ringrazio chiunque abbia letto, recensito o semplicemente speso 5 minuti del suo tempo ( forse anche meno xD) a leggere questa mia nuova impresa: STIMA PROFONDA! Sopratutto a Furga1, per il coraggio nell’avermi comunque lasciato un segno del suo passaggio: *Occhi lucidi e mi inchino umilmente*  Alla prossima, Jollies! Un bacione! SMACK!

Sophie J

 

 

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Capitolo 3
*** Chapter III. ***


"Ferma la macchina!!" Dissi, battendo la mano sul volante della vettura, avendo avvistato un chiosco dei gelati.

"Oh cielo," Dale esclamò, facendo una piccola deviazione “chiedere, magari? Invece di battere una mano sul volante, mentre io sto cercando di guidare. Oh no, questo non è possibile, il giorno in cui farai qualcosa di vagamente normale, gli asini voleranno.”

"Forse," replicai “E magari sarà pure il giorno in cui non rischierai di schiantarti contro un palo della luce!”

Punti totali, Dale:0 io:1

No tranquilli, non sto tenendo il conto.

Ci lanciammo occhiate astiose, poi lui si mise a ridere. Che ti ridi?

"Ah, comunque polla… Perché mi sto fermando?"

"Gelato". Gli dissi semplicemente, indicando il chiosco che aveva appena aperto. Gli era stato dato il nome molto fantasioso di' The Ice Cream Store '. 

Il luogo era piuttosto lugubre, semi fatiscente, con un bancone pressoché vuoto e offuscato da anni di cricca e polvere; aveva delle insegne rosicchiate dalla ruggine e dei vasetti contenenti strane diavolerie esposti al pubblico.

Non c’era anima viva a servire, ma Gwyneth sapeva che alla sera era un posto parecchio trafficato. Vi era sempre un via vai di gente facoltosa e non, che si fermava per prendere del take away e poi ripartiva a tutto gas.

Forse lì si svolgono loschi affari…

“Fammi capire, tu mi hai quasi fatto fare un incidente perché volevi del gelato?" domandò con incredulità, i suoi occhi velati da una luce sinistra.

"Oh, per favore," dissi, le mani giunte in segno di preghiera “me lo devi! Ti ho insegnato a pulire gli orinatoi!”

Dale ci pensò su, lanciandomi occhiate incuriosite, poi annuì.

 

Parcheggiò nello spiazzo di fronte al chiosco e mi permise di trascinarlo fin sotto al bancone, da dove avremmo poi ordinato.

“Strano… Non c’è né la lista dei gelati né il listino prezzi.”

“Forse dovreste guardare meglio…” una voce sinistra, proveniente dal retro giunse alle nostre orecchie facendoci accapponare la pelle.

“Salve… Ehm… Dove di preciso?”

Le tende grezze e sciupate che separavano il retrobottega dal negozio si aprirono dolcemente e ne venne fuori un giovane uomo sulla trentina, lunghi capelli neri e gli occhi… pure.

Indossava abiti di pelle nera e un soprabito anch’esso nero, ma di velluto.

I suoi occhi erano ostili, cattivi ed erano piantati su di me. Mi misi una mano sul petto, cercando di placare il doloroso senso di pericolo che mi faceva battere forte il cuore.

Lui dovette aver fiutato la mia paura, perché sorrise, rivelando dei denti affilati e bianchissimi, come quelli di uno squalo.

“Avete del gelato?” chiesi nuovamente con voce malferma, lanciando occhiate preoccupate in direzione di Dale.

Il losco figuro spostò il suo sguardo da me a lui e vidi un tocco di panico, misto a profondo terrore sbiancargli il viso.

L’uomo si volse verso di me e mi trattò con estremo riguardo, la nota ostile e sprezzante che lo aveva caratterizzato pochi secondi prima ora era scomparsa.

Mi volsi a guardare Dale che mi sorrise amichevole, ma non appena i suoi occhi grigi si posarono sull’uomo dietro al bancone, scorsi un che di cattivo in essi; era lo sguardo di un predatore che pregustava un lauto pasto.

“Ecco qui la lista, mademoiselle.” mi disse untuoso il gelataio, ricevendo un’altra occhiata famelica da parte di Dale.

Non capii quali fossero le dinamiche del loro rapporto, ma era certo che Dale dominava il loro silenzioso quanto mortale gioco di sguardi.

Presi la lista e mi accorsi subito che era sudicia e unta.

I gusti che si potevano scegliere spaziavano da cervello di mucca alle more, intestini di capra in salsa di pomodoro…

Ma dico io: stavano scherzando? Come si poteva servire roba simile alla gente? Guadai Dale che non sembrava affatto schifato, anzi.

Quando i nostri occhi si incontrarono, fui certa di vederci una certa voracità, mista ad una luce strana e inquietante. Era eccitato, ma non seppi dirmi il perché.

Riposi la lista e feci per andarmene, ma la voce melliflua del venditore mi trattenne.

“Abbiamo gusti un po’ più… esotici, se non ha gradito quelli elencati.”

“E quali sarebbero? Animelle umane? Un cuore ancora pulsante? Polmone sanguinolento?”

Il venditore mi lanciò un’occhiata eloquente, senza confermare né smentire nulla.

Improvvisamente mi sentii a disagio. Che cos’era esattamente quel posto? Un ritrovo per cannibali?

“Dale, andiamo!” e mi avviai verso la macchina.

Lui mi raggiunse quasi subito, mangiando con gusto una pallina di gelato scarlatta.

“Che roba è?”

Lui guardò il gelato e poi mi guardò, soppesando la mia domanda.

“Non credo che tu voglia saperlo…” nei suoi occhi c’era un’implicita supplica a non domandare altro.

“Vorrei un gelato, se possibile. Uno vero, però, non quelle stramberie di prima!”

Salimmo in macchina e partimmo alla volta di una gelateria giapponese, che a suo dire faceva ottimi gelati.

I gusti spaziavano tra alghe, soia, fiore di ciliegio, sesamo, balena…

Balena? Mi chiesi se fosse ancora legale la caccia alle balene. Ma poi ripensandoci, mi dissi che c’erano tante cose proibite che la gente faceva lo stesso. 

Alla fine scelsi 'fiore di ciliegio' perché tra tutti i gusti era quello che mi suonava meglio. Anche perché gli unici altri ‘normali’ erano liquore e vino rosso.

E dubito che mia madre avrebbe gradito che arrivassi a casa ubriaca a causa di un gelato.

A quanto pare i genitori di Dale, invece, pensavano che fosse perfettamente normale ubriacarsi con il gelato, visto che lui ordinò una pallina di 'vino rosso'.

“Pago io”. Mi disse e io inarcai un sopracciglio.

“Sono perfettamente in grado di pagarmi il gelato, Armstrong.” Lo informai e uscii il portafoglio dalla borsetta con un lieve cipiglio sul volto. 

Pagare per me? Non credo proprio. Io non sono una pezzente, tante grazie.

“No,” disse afferrandomi il polso “pago io”.

“Perché ?!” Chiesi con rabbia: credeva forse che non avessi i soldi? 

“Perché se non lo faccio”, incominciò “Ti sembrerò uno stronzo.”

“Oh, per l'amor del cielo,” sbottai “sei un ragazzo così… testardo.”

“E tu sei una fastidiosa femminista!” mi rispose “Fammi pagare dannazione.”

Bah! E io sarei una femminista?! Sbuffai, per nulla contenta e posai dieci dollari sul bancone.

“Pago io per entrambi. Un cono con fiore di ciliegio e una cialda al vino rosso, per favore.”

Apparentemente, la gelataia doveva aver osservato la nostra discussione, perché prese i miei soldi, ci diede i gelati e poi corse a nascondersi sul retro, evitando lo sguardo omicida che Dale le rivolse. 

La gelataia è un’idola, pensai. Potere alle donne!

Tornò fuori per darmi il resto.

"Kisaku." ci disse con un cenno del capo e un sorriso "Arigatou gozaimashita. Grazie."

Fece un piccolo inchino e poi ritornò sul retro .

Dale era visibilmente incollerito. Era rosso come un pomodoro e la sua espressione non aveva nulla di amichevole.

“T… Tu… Tu!” farfugliò, puntandomi il dito contro, con uno sguardo rabbioso. 

Gli feci un sorrisetto vittorioso: povero! Dovevo averlo colpito pesantemente nel suo incommensurabile ego. Tanto meglio per me.

Dale: 0 Io: 2

“Tu puoi camminare fino a casa.” Si avviò furioso verso l’R8, poi, aperta la portiera, si volse verso di me.

Santo cielo, quanto è infantile!

“E se vieni rapita, torturata o chissà cos’altro, peggio per te! Sarei tentato di buttarti nel bagagliaio della mia macchina, ma non sarebbe una buona idea… O perlomeno è ciò di cui sto tentando di convincermi. ” Salì sulla macchina e partì a tutto gas, senza degnarmi di uno sguardo.

Stupido proprietario di R8 irascibile, testardo e arrogante!

Dale: 1 Io: 2

E ora come ci arrivo fino a casa?

 

Donnina nell’ampolla:

Buondì! Eccomi qui con il terzo capitolo! hahaha! Spero sia stato di vostro gradimento! Oggi Dale era piuttosto lunatico! xD Comunque, intanto ringrazio chiunque abbia letto, recensito o semplicemente speso 5 minuti del suo tempo ( forse anche meno xD) a leggere questa mia nuova impresa: STIMA PROFONDA! Sopratutto a Furga1 e a Vik1 per le loro opinioni circa questa storia : Grazie di cuore <3  Alla prossima, Jollies! Un bacione! SMACK!

Sophie J

 

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