Non di solo potere di alida (/viewuser.php?uid=62551)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Quali uccelli? ***
Capitolo 2: *** Canti di speranza ***
Capitolo 3: *** Ciò che non ti aspetti ***
Capitolo 4: *** Un nano diverso ***
Capitolo 5: *** Sguardo cieco sul futuro ***
Capitolo 6: *** Saluti e inviti ***
Capitolo 7: *** Una spada in due posti? ***
Capitolo 8: *** Messaggi arrivati ***
Capitolo 9: *** Il dolore colpisce all'improvviso ***
Capitolo 10: *** Perdersi ***
Capitolo 11: *** Tutto viene a galla ***
Capitolo 12: *** L'incappucciato ***
Capitolo 13: *** Per Arda ***
Capitolo 14: *** Goccia a goccia ***
Capitolo 15: *** Il sangue non conta ***
Capitolo 16: *** Giù, come un castello di carte ***
Capitolo 17: *** Perdonami ***
Capitolo 18: *** Un mondo di silenzio ***
Capitolo 1 *** Quali uccelli? ***
Ciao a tutti. Questa storia
è la mia prima incursione nel
mondo di Tolkien. Spero che possiate apprezzarla, e possiate divertirvi
a
leggerla così come io mi sono divertita a scriverla.
E’ una storia completa.
Ciò significa che ho scritto già
tutto lo scheletro della storia dall’inizio alla fine. E
questa è la prima
volta che lo faccio, solitamente invento mentre posto, ma siccome la
mia ultima
fanfiction (su Harry Potter) è rimasta incompiuta per vari
motivi, ho deciso
che pubblicherò storie lunghe a capitoli soltanto nel
momento in cui ho avrò
già deciso tutti i passaggi della storia, in pratica a trama
sbrogliata.
E perciò, eccomi qua.
Chiunque si sia tuffato su Arda, tra
elfi, nani, hobbit, uomini ecc… saprà bene che il
mondo che Tolkien ha creato è
molto vasto, e le sue trame sono fitte e ben collegate, ma talvolta ci
si
ritrova ad avere delle nozioni discordanti, questo perché
l’autore scriveva,
correggeva, riscriveva e quando è morto il suo lavoro era
tutt’altro che
concluso. Io, sebbene abbia ben chiara la situazione generale, devo
ancora fare
tutti i collegamenti necessari per avere risposte immediate.
Da qui l’idea di scrivere
una ff "What if", del resto perché non
inserire delle varianti che possano far quadrare il cerchio? Ma
comunque, mi
sto dilungando troppo.
In breve, la
storia è
una What if, ciò che dovete necessariamente sapere per
comprenderla appieno è
questo:
Siamo all’atto finale della
guerra combattuta nel Dagorlad,
in cui Isildur tagliò il dito a Sauron e decise subito di
tenersi l’anello
(senza recarsi sul Monte Fato con Elrond).
Esistono tre
Regni
elfici:
Boscoverde il
Grande,
guidato da Oropher che ha un figlio: Thranduil che è sposato
con un’elfa silvan
di nome Wisterian; i
due hanno un figlio
di circa 15 anni umani che si chiama Legolas.
Oropher
nel momento
in cui è diventato Re ha acquisito il potere di controllare
il grande portone
della sua fortezza, il quale può essere sigillato alla
chiusura solo dal Re (se
un elfo chiude il portone, chiunque può riaprirlo, ma se il
portone è chiuso
fisicamente o con un ordine vocale dal Re, questo si
chiuderà e nessuno
riuscirà ad aprirlo se non il Re fisicamente o con la voce).
Il potere è noto a
tutti, ma solo Oropher, Thranduil e Wisterian sanno che è un
potere insito nel
fatto di essere Re e che non è collegato a nessuno oggetto.
Imladris
con a
capo Gil-galad che possiede l’anello Vilya, e che ha un
figlio adottivo, Elrond,
che ama come suo. Elrond è innamorato di Celebrian.
Lothlòrien,
guidato
da Celeborn, cugino di Thranduil, e Dama Galadriel, la quale possiede
l’anello
Nenya. Celeborn è geloso di Thranduil e del fatto che un
giorno lui erediterà
Boscoverde il Grande. I
due hanno una
figlia, Celebrian, innamorata di Elrond.
Gil-galad e
Elrond sono gli unici che conoscono Gandalf, da poco comparso
sulla Terra di
Mezzo. Avendo capito che è stato inviato dai Valar,
Gil-galad affida a Gandalf
l’anello Narya, perché per un elfo solo
è difficile possedere due anelli così
potenti e non restarne ammaliati.
Bene, questo è tutto
ciò che è necessario sapere. Gli
aggiornamenti avverranno una o due volte la settimana, dipende dal
tempo che ho
a disposizione per scrivere. Vi
auguro
una buona lettura e spero di leggere presto le vostre impressioni e
considerazioni..
Capitolo 1
Finalmente
era arrivato il giorno tanto atteso, il male sarebbe stato sconfitto
una volta
per tutte e solo la pace avrebbe dimorato su Arda. Thranduil si
chiedeva se
davvero quel giorno si sarebbe concluso tutto, e come era possibile che
il male
sparisse dalla faccia della Terra in un batter d’occhio. Gli
elfi, gli uomini e
tutti gli esseri viventi, anche i Valar, avevano sempre vissuto
combattendo il
male, che trovava ogni volta la forza di rinascere e riproporsi in
vesti
diverse.
I
suoi pensieri scorrevano veloci mentre le
sue mani accarezzavano la spada di suo padre; la lama era lucente,
l’impugnatura solida e le gemme incastonate in essa
brillavano, le lunghe dita
del giovane Thranduil lentamente ne percorrevano i contorni. Quella
spada aveva
combattuto altre guerre, ma adesso davanti all’inesperienza
del principe
sembrava essere meno solida, era come se le gemme tremassero al pari
dell’animo
inquieto di colui che l’ammirava.
“Un
giorno
sarà tua” disse una voce sicura e dolce.
Thranduil
appoggiò subito la spada sul tavolo. “Non ho
fretta di possederla, padre”.
Oropher gli
si avvicinò, gli lisciò i capelli, sistemandogli dietro le orecchie le
trecce da guerriero.
Suo figlio era bellissimo, ma ancor di più era buono.
“Non hai fretta, eppure
un giorno sarà tua. E’ di ottima
fattura”.
Le mani di
Oropher indugiavano sulle spalle larghe del figlio, del suo unico
figlio, che
egli stesso aveva portato in guerra. Lo sguardo del re era severo,
eppure
sapeva anche riempirsi di
calore.
Thranduil
conosceva la fierezza di suo padre, e sapeva che non avrebbe mai
sentito parole
dolci sussurrate in sottofondo, come quelle che lui invece dispensava a
Legolas, però sapeva di essere amato, lo sentiva nel cuore,
nell’animo e in
quelle mani che ancora compivano dei movimenti circolari sulle sue
spalle.
“Padre…”
disse il principe inclinando il viso verso la spalla nel tentativo di
cercare
un contatto. Oropher avvicinò la mano e accarezzando la
guancia di Thranduil
tentò di rassicurarlo: “Ma dovrai aspettare a
brandirla perché oggi torneremmo
a casa insieme”.
Oropher
abbassò le mani e fece per andarsene, ma due braccia forti
la avvolsero in un
disperato tentativo di fermare il tempo. La voce di Oropher si perse in
fondo
alla gola e lui con compostezza ricambio l’abbraccio.
All’esterno
della tenda del Re, i soldati stavano finendo di prepararsi. Era ora di
uscire
e porre fine al potere di Sauron. L’esercito di Boscoverde il
Grande era
composto da elfi valorosi, anche se con poca esperienza. Erano pronti a
seguire
il loro re e a lottare per il regno; e così fecero quando
arrivò il momento.
Lo scontro
era già iniziato, l’esercito di Sauron
già combatteva contro gli uomini di
Gondor, le urla si diffondevano nella piana, le perdite erano ingenti
ma gli
uomini non demordevano, se
il male non
avesse avuto fine allora neanche il bene ne avrebbe avuto.
Poi
arrivò
il segnale, non c’era alcuna possibilità di
sbagliare, l’arrivo degli uccelli
neri inviati da Celeborn del Lothlòrien indicava che
bisognava andare
all’attacco. Gli eserciti di Imladris e del
Lothlòrien si sarebbero uniti a
loro da li a poco.
L’esercito
con divise verdi avanzò a passo deciso, ordinatamente.
Thranduil guardò davanti
a sé, una marea nemica avanzava verso loro. Si
girò di lato per vedere l’arrivo
degli eserciti alleati, ma non vide nessuno. Anche Oropher si
voltò a cercare
Celeborn e Gil-galad ma l’unica cosa che vide era il suo
umile e fiducioso
esercito, pronto a morire per lui. Possibile che gli alleati fossero
caduti in
un’imboscata? Era troppo strano. Possibile che Celeborn lo
avesse tradito? Il
nipote era sempre stato invidioso
della grandezza di Boscoverde, ma non avrebbe mai inviato il segnale in
anticipo. O lo avrebbe fatto?
“Ah,
Celeborn” pensò il Re “qua affermo che
il
giorno in cui tu entrerai a Boscoverde con l’intenzione di
dominarlo, la
foresta diventerà buia e mai ti
appoggerà” , poi guardò suo figlio
ancora una
volta e penso che forse era l’ultima volta che lo vedeva e
ciò che vide lo
riempì di orgoglio: un giovane principe, con il busto dritto
e lo sguardo fiero
che non mostrava paura ma determinazione.
Oropher si
fece forza e gridò: “Andiamo a sconfiggere il
nemico! Con forza e senza mai
arrenderci, combatteremo fino all’ultimo elfo. Per Arda, per
tutti gli elfi e
per Boscoverde!”.
Senza
pensarci su, gli elfi avanzarono spinti solo dal loro coraggio. Lo
scontro fu
violento, Thranduil con la spada in mano fronteggiava il nemico, gli
alleati
ancora non si vedevano. Suo padre combatteva con tenacia, eppure
sembrava che
per quanta forza ci mettesse la spada non lo assecondasse, era come se
qualcosa
non andasse bene. Oropher sentiva la spada pesante da gestire,
più pesante del
solito, la lama per quanto l’avesse affilata il giorno prima
non era perfetta e
quell’imperfezione gli fu fatale.
Thranduil
vide il padre cadere a pochi metri da lui, il petto in sangue, le gambe
che
tremavano, il corpo che non stava più in piedi, che
lentamente si accasciava al
suolo e sullo sfondo di questo triste scenario le truppe di Imladris e
del Lothlòrien
che finalmente arrivavano e si
lanciavano contro il nemico.
Thranduil non
fece in tempo a realizzare l’accaduto che una fitta di dolore
si diffuse in
tutta la spalla, e fu il suo turno di crollare un po’ alla
volta mentre il
mondo andava avanti nella sua pazzia e Isildur tagliava il dito di
Sauron
recuperando l’anello del potere.
Era confuso,
a terra, e dolorante come non gli era mai capitato d’essere,
eppure, ancora non
lo sapeva, ma sarebbe stata una sensazione familiare ancora per molto
tempo.
Sentì una voce chiamare il suo nome, e un’altra
domandare perché. Poi non sentì
più niente, vide però alcuni elfi che gli si
avvicinavano, parlavano a voce
troppo bassa o forse era lui che per chissà quale ragione
non sentiva più, le
orecchie gli fischiavano fastidiosamente.
Si
sentì
sollevare, cercò di sollevare il braccio per spostare i
capelli che erano
appiccicati sulla guancia, ma la spalla gli fece troppo male e un urlo
strozzato uscì dalla sua gola.
“Principe,
piano…”.
Qualcuno
parlava, lo chiamava principe. Lui era un principe, era figlio di
Oropher che
era il Re degli Elfi di Boscoverde… era in guerra contro le
forze di Sauron e …
le orecchie ripresero a ronzare. Perché quel ronzio non
voleva passare?
Thranduil
era stanco, e mentre lui era lì suo padre magari lo stava
cercando, e poi non
c’era nessuno che parlasse a voce alta.
“Portiamolo
… tenda…”
“…
il
Mezzelfo… non … anche
guarit…”
“Oropher
…
non serve… Mandos…”.
Il ronzio
nelle orecchie di Thranduil aumentò vertiginosamente, stava
male, sì, questo
era certo ma quella parola, “Mandos”,
l’aveva sentita bene, era stata accostata
al nome di suo padre. Thranduil voltò il viso di lato,
qualcuno sosteneva un
elfo con una ferita al petto. Era una brutta ferita, molti sarebbero
morti dopo
aver preso un colpo del genere, sarebbero caduti a terra come
…
Oh, Valar!
Un’immagine gli passò davanti agli occhi: suo
padre che scivolava verso il
basso, suo padre che era stato ferito e che ora era giunto nelle sale
di
Mandos.
Thranduil non
aveva forze ma, come poté, con un misto di angoscia e
consapevolezza gridò“
No, non può essere. Noo!”. Sentì delle
mani gentili ma forti tenerlo.
“Thranduil
devi restare calmo, ti stiamo togliendo l’armatura e poi
curerò le tue ferite.
Sei nella tenda del Re …” la voce si interruppe,
sospirando. “Sei al sicuro”.
Il guaritore
e gli aiutanti liberarono il nuovo Re dall’armatura e gli
scoprirono il petto.
La ferita era sanguinante, ma non grave. “Lord Elrond, cosa
possiamo fare?”.
Elrond si
guardò attorno, non c’era molto da fare
lì. Thranduil era chiaramente sotto
shock, ma la ferita alla spalla non era seria. “Non potete
fare niente, andate
fuori e soccorrete i feriti, al Re ci penserò io”.
I due
aiutanti si scambiarono uno sguardo incuriosito. Vedendoli titubanti,
Elrond li
rassicurò: “Andate e non abbiate paura, il Re non
è in pericolo di vita”.
Elrond di
Imladris era un bravo guerriero, ma ancor di più era un
eccellente guaritore,
non restava altro da fare che obbedire ai suoi ordini per quanto
fossero
inaspettati, perciò i due elfi uscirono dalla tenda.
Thranduil
prese fiato, aveva riconosciuto la voce finalmente.
“Elrond…”.
“Sì,
Thranduil, sono io. Sto ripulendo la ferita, non temere non
è grave”.
“Mio
padre…”.
“Stai
calmo,
non agitarti”.
“Gli
uccelli
sono arrivati troppo presto”.
Elrond
pensò
che Thranduil stesse delirando e posandogli il palmo della mano sulla
fronte
gli controllò la temperatura.
“Gli
uccelli? Quali uccelli?”chiese il guaritore.
“Gli
ucc…”
riprese a dire il Re cercando di alzarsi, ma il dolore alla spalla era
troppo
forte e così ricadde nel letto, chiudendo gli occhi.
La fronte
era fresca, però era necessario che Thranduil bevesse una
tisana calmante,
doveva riposare per
riprendersi in tempi
brevi. La tenda però non era organizzata come infermeria e a
Elrond mancava il
necessario. Allora prese un
lenzuolo, coprì il busto di Thranduil e lasciandolo sdraiato
nel suo giaciglio,
andò verso la sua tenda per recuperare delle erbe.
Dopo poco
Thranduil riaprì gli occhi e si accorse di non essere solo
nella stanza.
“Elrond?”
chiese incerto.
Un elfo
alto, robusto e biondo si accostò al suo letto.
“No, caro cugino, non sono
Elrond”.
Thranduil
senti il sangue salirgli fino alla testa, come osava Celeborn venire
nella sua
tenda, così sfacciatamente, ben sapendo di aver inviato il
segnale in anticipo.
Forse se non lo avesse fatto suo padre non sarebbe morto. Sicuramente
Oropher
avrebbe avuto una possibilità in più.
Le uniche
parole che riuscì a pronunciare furono:
“Perché hai inviato gli uccelli in
anticipo”.
Celeborn
sollevò le sopracciglia e con un mezzo sorriso rispose:
“Di quali uccelli stai
parlando?”.
“Smettila!
Sai bene di cosa parlo. Del segnale che …”
“Come?
Cosa?
Quale segnale, Thranduil?”.
Thranduil
non riusciva a capire se Celeborn lo stesse facendo a posta o
semplicemente
stesse cercando di mantenerlo calmo perché era preoccupato
per lui.
“Celeborn”
disse con calma riprendendo fiato “Ero presente quando tu e
mio padre vi siete
accordati sul momento in cui Boscoverde sarebbe dovuto
intervenire”.
“Già.
C’eravamo solo noi tre e nessun altro”
continuò l’altro sornione.
“Bene,
allora
ti ricordi!”.
“Se mi
ricordo? Mi ricordo tante cose, cugino. Per esempio di come tuo padre
si sia
impossessato di un grande regno, mentre io mi sono dovuto accontentare
di un
piccolo bosco. Di come tu e lui vi siate allontanati sempre
più da me e Galadriel
e abbiate preferito stare con quei selvaggi silvani. Mi ricordo di
tante cose,
certo che ricordo” sputò con la lingua avvelenata.
“Ognuno
fa
le sue scelte, Celeborn. Né io, né mio padre ti
abbiamo mancato di rispetto,
abbiamo solo portato avanti il progetto di costruire un Regno di Elfi,
come tu
e Galadriel fatte nel Lothlòrien”.
“Sì,
anche
io ho dei progetti. Li vuoi conoscere?” domandò
Celeborn dando le spalle a
Thranduil e prendendo in mano un cuscino “Progetto di
seppellirti accanto a tuo
padre e di assumere il comando del tuo regno”.
Il cuore di
Thranduil perse un battito, ma lui tentò di mantenere la
calma. “Spiacente ma
la mia ferita non è grave, e anche se lo fosse, io lascio un
erede al trono”.
Era una
risposta semplice e senza malizia ma Celeborn si sentì
colpire al cuore, lui
non aveva figli maschi, non ancora, e chiaramente dal suo punto di
vista
Thranduil aveva voluto evidenziarlo.
“Il
piccolo
Legolas,” disse con disgusto “non preoccuparti
sistemerò anche lui con la tua
bella mogliettina”.
Thranduil
aveva sentito troppo, fece per alzarsi ma Celeborn fu molto
più rapido e gli fu
subito addosso spingendogli il cuscino sul viso. Thranduil
lottò come se fosse
ancora in battaglia, cercò di liberarsi ma un braccio era
inutilizzabile e
l’altro non poteva competere con la forza di Celeborn e tutto
il suo peso. La
schiena di Thranduil si inarcò, i pugni chiusi battevano sul
materasso, le
gambe si divincolavano ma
non c’era
alcuna possibilità di fuga.
Il tessuto
morbido sulla bocca non faceva passare l’aria e poco alla
volta i polmoni
smisero di lottare, il petto si abbassò e Thranduil rimase
immobile. Celeborn
mise a posto il cuscino e di fretta uscì dalla tenda.
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Capitolo 2 *** Canti di speranza ***
Capitolo
2
Un fresco
venticello danzava sinuoso tra gli alberi, le foglie verdi ondeggiavano
accompagnando la melodia a passi lenti. La luce che irradiava la
foresta sembrava
trascendere il reale e proiettava immagini sfuocate alla vista che
soltanto
altri elfi avrebbero potuto distinguere senza fatica.
Ma quello
non era il momento di ciò che si vede con gli occhi, era
ciò che si sentiva con
il cuore, o si sarebbe voluto vedere, che soavemente
veniva cantato.
Coi forti
archi - sono partiti
le lance a
punta - hanno con loro.
Contro il
nemico, - che il buio adora,
la loro luce
- combatterà.
Le bionde
chiome - legate a treccia,
aspettan
quando - faran ritorno
e mani
dolci, e dita lente
al chiar di
luna - le scioglieranno.
“E’
un bel
canto di speranza” disse Dama Galadriel.
Haldir fece
per alzarsi dal tronco d’albero su cui era seduto, ma lei gli
fece cenno di
restare comodo. “E’ quello di cui abbiamo bisogno,
Haldir: speranza”.
L’elfo
abbassò gli occhi a terra. Non si sentiva a suo agio, e il
Lothlòrien non era
il posto in cui si sarebbe dovuto trovare. Lui era un guerriero e
avrebbe dovuto
lottare come tutti gli altri, ma Celeborn non lo aveva voluto. Non
glielo aveva
detto chiaramente, ma aveva espresso la volontà che qualcuno
di fidato restasse
accanto alla moglie e alla figlia, e meglio di Haldir non
c’era nessuno.
“Haldir,
cosa ti affligge? Vedo pensieri
pesare
sulla tua mente rendendola cupa. Parliamone, forse poi ti sentirai meglio”.
L’elfo
era
visibilmente in imbarazzo mentre accarezzava il muschio sul tronco.
“Mia
Signora, io sono felice di servirla, e darei la mia vita per lei e per
sua
figlia. Eppure in questo momento, ho l’impressione che dovrei
essere nel
Dargolad a combattere per distruggere Sauron”.
Dama
Galadriel sapeva che Haldir aveva pienamente ragione, lui era un
guerriero non
da poco, e diverse volte aveva dato prova del suo valore, eppure
Celeborn aveva
insistito con lei fino allo sfinimento perché fosse proprio
lui a restare nel
Lothlòrien e a nulla erano valse le parole che gli aveva detto
pronunciandosi circa Venya e
il potere racchiuso in esso, che era sufficiente per proteggere chi
restava.
“Ci
sono
molti modi per lottare contro il male, e molti per difendere il bene.
Se il
destino ha voluto che proprio tu restassi qui, allora significa che ci
deve
qualche ragione a noi ancora poca chiara, ma che presto ci potrebbe
essere
svelata”.
“Lei
riesce
a vedere qualcosa?” domandò Haldir ben sapendo di
muoversi su un terreno
delicato, infatti Dama Galadriel non parlava volentieri con tutti delle
sue
visioni o di ciò che vedeva nello Specchio.
“Sento
che
qualcosa di deplorevole sta accadendo. Ma chi riguardi e dove
porterà non mi è
dato ancora di saperlo. Però posso dirti una cosa: chi
insegue la verità,
presto o tardi la trova e più spesso di quanto vorremmo ne
resta deluso”.
Haldir era
perplesso, non obiettava le parole della sua Signora ma non capiva bene
come la
sua inerzia avrebbe potuto essere proficua. Sospirò. Non
c’era altro da fare
che aspettare e cantare la speranza ancora una volta.
Come le onde
- sulla battigia
che poi al
mare - ritornano,
i nostri
cari - col cuore in
petto
a braccia aperte
– accoglierem…
Galadriel
indietreggiò e lasciò Haldir ai suoi pensieri.
Camminando fra
gli alberi poteva sentire che la foresta era
in attesa come loro, come Celebrian che sognava di Elrond, di un futuro
che
sperava di poter realizzare, di un amore che avrebbe dovuto sfociare in
una
convivenza e poi in una famiglia. Restava solo da chiedersi se Elrond
sarebbe
tornato.
La battaglia
era finita, ma quanta desolazione aveva lasciato! Gil-galad osservava
ciò che
era rimasto dell’esercito di Imladris; i suoi guerrieri si
erano battuti con
molta professionalità e ciò aveva limitato le
perdite, tuttavia i morti erano
numerosi.
Glorfindel,
uno dei suoi migliori elementi, nonché suo grande amico e
molto vicino a suo
figlio Elrond, aiutava a trasportare i corpi, quando
incrociò lo sguardo con
quello del suo Signore. Non serviva parlare, e non ci si poteva
fermare.
Semplicemente spostò lo sguardo da Gil-galad a Elrond, che
passava velocemente
tra i feriti con in mano un sacchetto, e poi lo riposò su
Gil-galad che annuì
con la testa e accennò un mezzo sorriso.
Suo figlio
era vivo, cos’altro avrebbe potuto chiedere di più
ai Valar? Vedendolo
camminare a passi svelti, lo affiancò e ne tenne il passo.
“Tutto
bene?
Dove vai di fretta?”.
Elrond ebbe
un sussulto, “Padre…”, non si era reso
conto di aver vicino il padre fino a
quando questo non aveva parlato. “… sì,
va tutto bene. Sto andando da
Thranduil, è nella tenda di Re Oropher, e ha bisogno di
queste erbe” rispose
mostrandogli il sacchetto.
“Spero
che
non sia niente di grave. Boscoverde ha già perso molto,
più del dovuto oserei
dire”.
“E’
ferito.
Non è niente di grave, però bisogna disinfettare
la ferita e fasciargli la
spalla perché non faccia infezione”.
“Certamente”
concluse Gil-galad. Poi si fermò su due piedi e
bloccò l’avanzare del figlio.
“Elrond, avevi già visto tanto dolore e tanti
morti, ma credo mai come questa
volta. Non sei l’unico guaritore del campo, se vuoi
fermarti…”.
“Grazie,
ma
non c’è bisogno che mi fermi, non vorrei che
qualcuno che posso salvare muoia
perché io mi sono fermato”.
“Sei
proprio
testardo, figlio mio”.
Elrond
sorrise a quell’appellativo, lui amava Gil-galad come se
fosse suo padre
naturale, ma temeva sempre che un giorno il re si sarebbe reso conto
che non
valeva la pena amare lui. Gil-galad lo aveva rassicurato innumerevoli
volte
quando era un bambino, ma la sua insicurezza non scemò mai
del tutto.
Gli era
capitato spesso di sentire suo padre, durante le sue visite nel
Lothlòrien,
discutere con Celeborn e quest’ultimo invitarlo a rivedere la
sua “adozione”
del piccolo elfo-bastardo, poiché una somiglianza di occhi e
capelli era poca
cosa per giustificare il lascito di un regno come eredità.
L’unica
risposta che Gil-galad dava era che suo figlio Elrond gli dava giorno
dopo
giorno molto più di quanto lui potesse mai lasciargli.
La
divergenza di opinioni non si risanò mai, neanche quando
Celebrian e Elrond
decisero di essere fatti l’uno per l’altro e il re
del Lothlòrien preferì non
opporsi per non rischiare la dissolvenza della sua amata figlia.
Tuttavia era
un boccone duro da mandar giù, riteneva che Celebrian
meritasse di più e
sperava di riuscire a farle cambiare idea con le buone. Gil-galad era
stato
paziente con Celeborn, ma una volta non poté a fare a meno
di lanciare una
freccia, che non fece sanguinare ma colpì nel segno, e disse
al consuocero che
i “suoi” nipoti sarebbero stati bellissimi, che
avrebbero avuto un padre e una
madre adorabili, peccato solo per qualche elfo altezzoso della famiglia
che,
benché si sapesse di chi era figlio, era proprio un gran
bastardo.
“Non
pensarci” disse il re di Imladris rivolgendosi a Elrond.
“Come
fai a
…” chiese Elrond.
“Sono
tuo
padre! Certe cose le capisco…” continuò
sorridendo “Non pensarci, qualunque
cosa fosse” puntualizzò, lasciando a Elrond il
dubbio se veramente sapesse cosa
stava pensando o no, “Inoltre… ah, ecco il tuo
splendido suocero che arriva…”
“Ti
stavo
cercando Gil-galad. Ho saputo che Thranduil è stato
ferito”.
“Sì,
Elrond
sta andando a portargli delle erbe. Vuoi venire con noi?”
chiese Gil-galad.
Non poteva
andare meglio, pensò tra sé e sé
Celeborn. “Va bene, voglio sincerarmi delle
sue condizioni di salute. Mio zio è morto e voglio essere
sicuro che Boscoverde
abbia ancora una guida”.
Elrond
sollevò il sopracciglio destro al cielo, era davvero molto
toccante quanto
Celebrian fosse interessato a suo cugino… come si potesse
essere così arrivisti
non l’aveva ancora capito, ma ne aveva la dimostrazione sotto
gli occhi ogni
giorno.
Arrivati
alla tenda, entrarono, ma di Thranduil neanche l’ombra.
Gil-galad si guardò
attorno, la tenda era vuota. Sul letto c’erano delle macchie
di sangue, ma i
vestiti di Thranduil mancavano.
“Non
riesco
a capire cosa possa essere accaduto. Era qui, nel letto che
riposava…” disse
Elrond stupito.
“Ma
dove può
essere andato?” chiese Celeborn con voce tremante.
Gli altri
due elfi si voltarono verso il Signore del Lothlòrien,
Celeborn era realmente
sconvolto. Che fosse davvero preoccupato?
“Non
so,
però se la ferita non era grave, magari ha deciso di andare
dal suo esercito”
affermò Gil-galad.
“Oppure…”
propose Elrond “magari ha deciso di andare a salutare
Oropher. Io lo avrei
fatto”.
Celeborn non
era per niente tranquillo. Pensava di trovare un cadavere e invece
Thranduil
non era nemmeno agonizzante, anzi sembrava essere in gran forma se era
riuscito
ad alzarsi e a sgattaiolare fuori. Bisognava trovarlo e lui prima degli
altri,
possibilmente per finire ciò che aveva iniziato.
“Allora
dobbiamo cercarlo. Io mi dirigo verso le sale di guarigione”
disse Gil-galad.
“Io
andrò a
vedere se sta salutando Oropher” si propose Celebrian.
“Va
bene” disse Elrond “appena lo trovate, portatelo
qui. Nel
frattempo io preparerò la tisana”.
“Thranduil
si può sapere che cosa
stai combinando?” rimbombò una voce nella foresta.
Il ragazzino
saltò sui suoi piedi,
nascondendo qualcosa dietro la schiena.
“Tua
madre è preoccupata. Ti sta
cercando da quasi un’ora”.
Thranduil
abbassò lo sguardo a terra,
un po’ si vergognava di aver fatto preoccupare la madre ma
c’erano cose che
andavano fatte.
“Cosa
è successo?”.
Nessuna risposta.
“ Hai
perso la lingua?” continuò
Oropher avvicinandosi al figlio.
Ancora nessuna
risposta.
“Thranduil,
sto perdendo la pazienza”
lo avvisò il padre. “Fammi vedere
cos’hai dietro la schiena”.
Thranduil
indietreggiò. “Io,
veramente…”.
“Thranduil…”
lo riprese sbuffando
Oropher “Fammi vedere cosa hai dietro la schiena!”.
Il ragazzino si
arrese, non c’era
molto da trattare quando il padre aveva quel tono di voce.
Così mostrò al padre
una scatoletta fatte di foglie intrecciate.
Oropher la
guardò dubbioso poi la
prese in mano. “Fai piano, per favore” gli chiese
il figlio.
Il re
pesò la scatoletta, era leggera
e ben sigillata. “Cosa c’è
dentro?”.
Thranduil stette
zitto.
“Vuoi
che apra?” chiese
provocatoriamente.
“No,
papà, per favore”rispose il
principe sottovoce.
“Allora,
cosa contiene?”.
“E’
solo un piccolo usignolo” disse
con un sussurro Thranduil, e con mezzo singhiozzo aggiunse
“è morto”.
Oropher si
accostò al figlio e gli
mise una mano nella spalla spingendolo verso il basso,
contemporaneamente si
chinò anche lui. Con le mani spostò il fogliame e
scavò una piccola fossa,
depose la scatoletta e poi ricopri tutto.
Le guance di
Thranduil erano rigate
di lacrime. Oropher gli sollevò il mento con un dito, poi
gli asciugò le
lacrime passandoci sopra il palmo della mano e gli disse:
“Figlio mio, tutte le
creature sono importanti, e anche un usignolo non è mai
“solo” un usignolo. Ma
che ti sia di lezione, prima di tutto contano i vivi. Una preghiera per
chi non
c’è più, un pensiero per chi manca lo
puoi sempre avere, ma non trascurare i
vivi per rendere omaggio ai morti. Mai, in nessun caso. E adesso vai da
tua madre
che è preoccupata”.
Thranduil
sgranò gli occhi e prese a respirare in maniera convulsa.
Celeborn non era
nella tenda, forse pensava di averlo ucciso. Doveva parlare con Elrond,
o
meglio con Gil-galad, doveva raccontargli tutto. Sì, loro
gli avrebbero creduto.
Si
alzò dal
letto e si vestì in fretta, nonostante la spalla gli facesse
davvero male.
Sarebbe andato da loro e gli avrebbe raccontato degli uccelli
neri… di come
Celeborn aveva tradito lui e il padre. Poi però si
fermò di colpo.
Quali prove
aveva
del tradimento? Chi si era accorto di quegli uccelli? E poi nessuno era
a
conoscenza degli accordi presi. Elrond
aveva pensato stesse delirando quando gliene aveva accennato. E se
avessero
pensato che stesse uscendo di senno? Che la morte di Oropher lo aveva
portato
alla disperazione? Cosa avrebbero fatto?
Il suo
pensiero corse a sua moglie e a suo figlio, loro gli avrebbero creduto?
Loro…
Thranduil si
ricordò della minaccia di Celeborn. Sua moglie Wisterian e
Legolas erano in
pericolo, doveva salvarli, ma doveva anche salutare il padre e
seppellirlo. Non
c’era tempo per tutto e i vivi erano più
importanti dei morti.
Così
una
volta rivestitosi, prese una piccola sacca con del cibo e
andò a vedere il
padre, gli diede un bacio sulla fronte, avrebbe voluto restare
lì ad
abbracciarlo ancora per molto tempo. Se suo padre fosse stato vivo lo
avrebbe
già allontanato ridendo sotto i baffi e dicendogli che
somigliava troppo a sua
madre. Poi gli avrebbe accarezzato la nuca e gli avrebbe detto di
cercare
qualcosa di meglio da fare.
“Ah,
padre.
Davvero tu non sei stato “solo” un padre o
“solo” un Re. Sei stato la mia
guida, e ancora adesso seguo la tua voce. Possa Mandos aprire le porte
delle
sue sale e accoglierti in un mondo senza dolore”.
Gli diede
ancora una bacio, gli sistemò i capelli e poi
scappò via, senza voltarsi perché
sapeva che altrimenti sarebbe tornato indietro, invece doveva andare
avanti e
salvare i vivi. Raggiunse il suo cavallo, quando si sentì
chiamare.
“Principe
Thranduil!”.
Era Galion,
fedele
amico di suo padre e comandante in seconda delle truppe. Subito
abbassò lo
sguardo e si corresse: “Re Thranduil, è
ferito?”.
Thranduil
guardò la camicia, il sangue cominciava a macchiarla
all’altezza della spalla.
“Galion,
non
è niente di grave”.
“Mio
Re,
dove sta andando così…”.
Thranduil
salì sul cavallo con un ghigno di dolore sul viso:
“Devo correre a Boscoverde,
mia moglie e mio figlio sono in pericolo”.
“Come?
Cosa
sta dicendo?” fece l’altro stupito.
“Mio
cugino,
Celeborn, ci ha traditi. Ha tentato di uccidermi e mi ha detto che
vuole
eliminare mia moglie e mio figlio. Temo che possa aver dato questo
compito a un
altro. Non credo che lui sia tanto imprudente da compiere questi
crimini in
prima persona…”.
Galion era
spaventato, il suo re non sembrava essere pienamente in sé.
“Forse dovrebbe
riposare un po’…”.
Thranduil si
rese conto che Galion non lo stava prendendo sul serio, ma doveva
andare.
Perciò semplicemente lo avvisò:
“Galion, stai attento. Guardati le spalle, e
non fidarti di Celeborn. Ti affido l’esercito, riporta i
nostri guerrieri a
casa”.
Poi il nuovo
re di Boscoverde il Grande partì, con la speranza di salvare
tutto ciò che
restava della sua famiglia. Galion
lo
vide andar via e automaticamente rispose: “Sarà
fatto”.
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Capitolo 3 *** Ciò che non ti aspetti ***
Capitolo
3
Il cavallo
correva veloce nella
piana, il campo di battaglia si allontanava minuto dopo minuto, ma i
ricordi
dei momenti vissuti là non sarebbero andati via facilmente e
anche lui che
procedeva al massimo delle sue quattro gambe fuggiva volentieri da quel
luogo.
Il suo padrone
lo aveva sempre
curato, protetto e amato. Tante volte aveva sentito mani esperte
massaggiargli
la base della criniera, spazzolargli il crine e avvicinargli al muso
gustosi
frutti. C’era anche una voce che gli parlava e talvolta
cantava per lui.
Con quelle mani
e quella voce aveva
raggiunto una sintonia perfetta, Thranduil lo aveva chiamato
Lùth, che in
lingua comune significa “incantesimo”,
perché se era vero che tra un elfo e il
proprio cavallo poteva esserci un’affinità
eccellente, era anche vero che Lùth
sembrava avere un’empatia nei confronti del suo padrone al di
sopra del
normale, tale che solo un incantesimo avrebbe potuto giustificarlo.
Naturalmente
nessun incantesimo
aleggiava attorno all’animale, ma questo non diminuiva il
legame tra lui e
Thranduil.
Appena gli
montò in groppa, il Re lo
incitò a correre come il vento, ma Lùth sentiva
anche il dolore e la
spossatezza del suo padrone. A poco a poco le mani tirarono con minor
forza le
redini, il corpo si fece pesante e ondeggiò in modo
insolito. Lùth rallentò
l’andatura. Thranduil prese fiato e lo spronò:
“Lùth, non mi abbandonare
proprio ora. Devi correre, fallo per me”.
Il cavallo
sentì il respiro
affannoso del suo padrone, doveva essere ferito. Forse sarebbe stato
meglio
fermarsi e rifiutarsi di proseguire. “Lùth,
prosegui … te ne prego” continuò il
re barcollando con il corpo in avanti, fino a quando i suoi capelli non
toccarono la criniera del suo destriero e la sua faccia si
posò sul collo
dell’animale.
Lùth
si fermò mentre Thranduil
infilò le sue dita nella criniera e strinse forte per aver
un appiglio e non
cadere a terra di peso. Il suo cavallo si era fermato perché
aveva percepito il
suo malessere e non sarebbe andato oltre. Cavallo testardo!
“Un cavallo
testardo per un elfo
testardo! I Valar hanno visto bene quando te l’hanno
affibbiato!” gli diceva
sempre Oropher.
Ah! Come poteva
essere imprevedibile
la vita. L’inaspettato entrava nel percorso di ciascuno
quando meno lo si
aspettava. Talvolta era qualcosa di bello e per il quale si era
disposti a
mille sacrifici, altre volte era qualcosa di doloroso e angosciante. E
in ogni
caso non si era mai pronti ad affrontarlo.
L’inaspettato!
Come avrebbero fatto
Wisterian e Legolas se Celeborn, o qualcuno in sua vece, fosse giunto
prima di
lui? Era impensabile. Doveva comunicare con loro, anche se non era
affatto
semplice e richiedeva una certa quantità di energia.
Ma bisognava
agire; così si aggrappò
ancora più forte alla criniera e scese lentamente dal
cavallo.
“Ahhh…”
si lamentò Thranduil della spalla.
Una volta a
terra poggiò la schiena
contro la gamba robusta di Lùth e raccolse tutte le energie
che aveva. Dentro
sé poteva sentire la sua mente cercare la strada verso
Legolas, il suo adorato
figlio con il quale fin da subito si era accorto di poter entrare in
contatto
anche a lunghe distanze.
Certamente non potevano
avere un dialogo
mentale a distanza, però riuscivano a trasmettersi emozioni
e immagini.
Più
l'emozione provata era forte,
più facilmente si sarebbe formata l'immagine nella mente
dell'altro.
Legolas e
Wisterian erano nel
giardino privato quando il ragazzo percepì il tentativo del
padre di entrare in
contatto con lui.
“Mamma”
chiamò Legolas eccitato “Papà
sta cercando di dirmi qualcosa”.
Subito
Wisterian lasciò da parte le
fresie che stava raccogliendo e avvicinatasi al figlio gli tenne le
mani.
“Concentrati, Legolas. Cerca di capire cosa vuole
dirti”.
Legolas chiuse
gli occhi e strinse
le mani della madre, fu invaso da un forte senso di dolore e vide il
volto del
nonno, poi la paura si impossessò di lui e gli apparve
chiaro il viso di
Celeborn.
Legolas
tremò e sgranò gli occhi in cerca di conforto.
Wisterian lo ascoltò e anche lei
fu presa da sgomento. Suo suocero era chiaramente morto, del marito in
fin dei
conti non sapeva niente perché come sempre Thranduil si era
concentrato su
loro, su di lei e sul loro figlio, gli aveva messi in guardia dai
pericoli, da
Celeborn, ma della sua condizione di salute neanche una parola.
Celeborn era un
uomo pericoloso, lei
lo aveva capito da subito, da quando le aveva chiesto come era riuscita
ad
accaparrarsi il regno elfico più grande. E poi quando era
nato Legolas, lui e
Galadriel erano andati a Boscoverde a conoscere il piccolo e mentre la
signora
del Lothlòrien aveva manifestato tutto l'amore che poteva
nei confronti del
bambino, lui molto freddamente aveva chiesto se avrebbero usato
l'appellativo
di “principe” per rivolgersi all'erede.
Potere e smania
di grandezza erano
un accostamento insano e lei più volte lo aveva detto a
Thranduil che
concordava, e assieme a Oropher avevano cercato di mettere una certa
distanza
tra i due regni elfici, ma il male trova sempre il momento di essere
spalleggiato dal destino, e quando lo fa accadono cose terribili.
Wisterian si
tenne stretto al petto
Legolas e nel mentre pensava a un modo per proteggere suo figlio in
caso lei
avesse fallito.
Thranduil, da
canto suo, giaceva a
terra svenuto accanto a Lùth, svuotato di ogni forza che il
contatto aveva
risucchiato. La notte stava arrivando e la piana del Dagorlad
cominciava a
trasformarsi in un'immensa distesa di buio.
L'acqua era
calda e il profumo delle
erbe in infusione cominciava a diffondersi nella tenda, Elrond con un
cucchiaino di legno spingeva dentro l'acqua le foglie appena gettate
nella
teiera.
Queste erbe
erano davvero forti,
bastava berne un po' per addormentarsi, e respirarle per rilassarsi.
Elrond chiuse
gli occhi e inspirò e
per un momento pensò che forse suo padre aveva ragione e un
po' di riposo non sarebbe
guastato, ma in quel momento entrò sbraitando Celeborn:
“Thranduil se n'è
andato!”.
Elrond divenne
subito vigile. “Non
può essere. Ma perchè?”.
Celeborn non
rispose, i guardò
attorno ma Gil-galad non c'era, e lui non aveva alcuno intenzione di
parlare
con quel bastardello, doveva fingere davanti alla figlia e …
pazienza, ma
quando erano da soli non ce n'era il motivo.
Elrond era
abbastanza abituato a
quel trattamento, ma lui era stanco il comportamento di Thranduil era
troppo
insolito, sbagliato.
“Non riesco a
capire cosa possa
essergli successo. Forse la morte di Oropher lo ha sconvolto ancor
più di
quanto sembrasse”.
“O forse per
niente. Forse era
proprio quello che voleva...” decise di risponder Celeborn
pensando fosse il
momento giusto per insinuare il seme del dubbio, anche se di certo non
si
aspettava la risposta che il genero gli diede.
“O forse la
guerra ha fatto uscire te
di senno!”.
“Ma
come puoi anche solo pensare ciò
che hai detto. Pensi forse che tutti desiderino avere più
potere come te?
Thranduil amava suo padre!”.
“Ma
davvero?” domandò sarcastico
Celeborn “Allora perché armeggiava accanto alla
spada di Oropher poco prima
della battaglia? Non mi sai rispondere? Come mai un guerriero esperto
come
Oropher è caduto dopo i primi colpi come uno alle prime
armi?”.
Elrond prese
subito fuoco.
“Io non so
perché …”stava rispondendo
Elrond esasperato...
“Te lo dico io
perché, perché si è
fidato di chi pensava non lo avrebbe mai tradito, del sangue del suo
sangue. E
se mio cugino ha fatto questo al padre, chissà cosa saresti
disposto a fare tu
a Gil-galad per acquisire il potere su Imladris”.
La tenda si
aprì ed entrò Gil-galad
che chiaramente aveva sentito il breve scambio di battute.
Fissò dritto negli
occhi Celeborn, nessuna emozione traspariva dal suo sguardo.
“Thranduil non
è nelle sale di
guarigione a visitare i suoi guerrieri. Ma se quello che dici tu,
riguardo a
lui” specificò “è vero,
allora bisogna trovarlo subito”.
Elrond avrebbe
voluto interromperlo,
ma lui gli fece cenno con la mano di tacere.
Celeborn con un
ghigno di
soddisfazione sul viso guardava compiaciuto i due. Forse il suo scopo
non era
andato a buon fine, ma aveva comunque ottenuto qualcosa: Gil-galad
sembrava
dargli ragione, e Elrond era stato zittito.
“Allora partiamo
subito. Galion mi ha
riferito di aver visto partire a cavallo Thranduil non più
di un'ora fa” disse
Celeborn.
“No”
si oppose il signore di Imladris
“Prima dobbiamo dare a Oropher una degna sepoltura. E poi
è meglio viaggiare di
giorno. Partiremo domani mattina, presto”.
Celeborn
acconsentì, infatti aveva
ancora qualche cosa da sistemare. Lasciò la tenda e
andò di filato da Oropher.
Lì ci trovò Galion che vegliava sul corpo senza
vita di quello che per tanto
tempo era stato un suo amico.
“Non mi dire che
ti sei pentito...”.
Galion non fu
preso di sorpresa e
rimase a fissare impassibile il suo Re. “No, non sono per
niente pentito. Mi
stupisco solo di quanto possa essere stato facile”.
“La
spada?” domandò Celeborn.
“Tutto a
posto”.
“Bene, hai una
nuova missione da
compiere”.
“E' quale
sarebbe?”.
“Devi tornare a
Boscoverde e
sbarazzarti di Wisterian e Legolas” disse con noncuranza
Celeborn.
Galion stette
zitto, Oropher era un
ostacolo ma la regina e il ragazzino erano praticamene indifesi.
“E' necessario
farlo, Galion. Prima
di Thranduil. Se vuoi la tua parte, è necessario”.
Un terzo di
Boscoverde, pensò
Galion, e non rimase molto a riflettere poiché
già tante volte lo aveva fatto.
“Quando devo partire?”.
“In questo
momento, prendi il cavallo
e parti. Io e Gil-galad partiremo domattina alla ricerca di Thranduil.
Mi farò accompagnare da due elfi fidati del mio regno,
in caso ci siano sorprese”.
Galion
sghignazzò. Celeborn aveva
una mente diabolica, ma ormai non si poteva tornare indietro.
Così si voltò e
andò via. Celeborn rimase ancora un po' a fissare Oropher, e
il suo sguardo si
posò sull'anello che aveva al dito. Non era un anello del
potere, uno di quelli
forgiati da Celembribor e Sauron, eppure sicuramente qualche potere
doveva
averlo, anche se fosse solo quello di aprire il portone della fortezza.
Così
con un po' di forza glielo sfilò dal dito e lo mise in tasca.
Nel frattempo
un altro anello, molto
più importante se si vuole, passava da una mano a un 'altra:
Vylia.
Gil-galad aveva
deciso di andare
alla ricerca di Thranduil con Celeborn perchè in
realtà non si fidava di
questo. Elrond non era contento, anzi.
“Padre, sarete
da soli. Il pericolo è
troppo elevato. Fammi venire con te”.
“No, Elrond. Tu
devi riportare la
nostra gente a Imladris. I nostri guerrieri hanno combattuto, sono
stanchi e
hanno desiderio di rivedere i loro cari. Curate i feriti per quel che
potete e
poi partite”.
“Può
farlo Glorfindel!”.
Gil-galad prese
le spalle di Elrond
tra le mani e pesando ogni singola parola disse: “No, Elrond.
Tu, e solo tu sei
mio figlio. Tu sei l'erede di Imladris. Glorfindel è un buon
guerriero e a lui
affiderei tutti gli eserciti del mondo, ma tu sei un elfo determinato e
giusto,
conosci la forza delle armi e sai quando non usarla, conosci la
compassione
delle arti mediche e sai quando e come applicarle, hai il potere di
vedere il
futuro e la saggezza di non manipolarlo a tuo piacimento. A te affido
il nostro
popolo” e sfilandosi l'anello dal dito aggiunse: “A
te, affido Vylia”.
Elrond si
ritrasse e coprendosi il
volto con le mani iniziò a scuotere la testa a destra e
sinistra. “No, non
posso. Non voglio”.
“Tu saprai come
usarlo. Se quello che
pensiamo è vero, se in questa storia c'è lo
zampino di Celeborn allora è meglio
che lo tenga tu perchè...”
“Perchè?
Papà. Perchè c'è il rischio
che tu possa non tornare?” domandò Elrond che
conosceva bene la risposta.
“Elrond, se mi
succedesse qualcosa
vorresti forse che Celeborn avesse la possibilità di
impossessarsi di Vylia?”.
Elrond
continuava a scuotere la
testa, non voleva crederci, non voleva affrontare la
possibilità che accadesse
qualcosa a suo padre. Avevano vinto la guerra, per cosa? Per ritrovarsi
subito
dopo a rischiare la vita? Non avevano diritto anche loro, anche lui, di
tornare
a casa e stare vicino ai propri cari? E chi erano questi cari? Lui
aveva solo
il padre. Certo, c'era anche Celebrian, ma non era pronto a rischiare
la vita
di Gil-galad, dell'unico padre che aveva avuto, dell'unico che avrebbe
desiderato avere.
“Elrond, Vylia
ti servirà per
proteggere Imladris. Qualunque cosa accada, costruisci lì il
tuo futuro con
Celebrian. A prescindere da che elfo ignobile sia Celeborn, da
qualunque cosa
abbia fatto o farà, avete la mia benedizione e che i Valar
vi proteggano
sempre”.
Le lacrime
scesero lente sul viso di
Elrond.
“Tienilo con te,
ma non indossarlo
ancora. Mettilo al dito solo nel caso in cui io non
dovessi...”
“Ho capito.
Basta” continuò Elrond, a
viso basso, prendendo l'anello e infilandolo in tasca.
Gil-galad lo
guardò con tristezza e
rassegnazione. Stava dando al figlio un grosso fardello, un grande
aiuto certo,
ma avrebbe richiesto molta forza spirituale saperlo gestire.
“Adesso diamo a
Oropher una degna sepoltura”.
Così
i due, affiancati da Celeborn,
vestirono il Re di Boscoverde il Grande, gli fecero impugnare la spada
e gliela
posarono sul petto. Poi lo avvolsero in un telo e fatta una fossa lo
seppellirono.
La notte era
scesa, il buio pesto
era rotto solo da qualche fulmine che si abbatté sulla piana
assieme a una
forte pioggia. Gli elfi dei tre Regni cantavano tristi melodie di
cordoglio, ma
a causa del buio nessuno poté leggere la frase incisa sulla
lapide che diceva
“Qui giace Oropher, primo Re di Boscoverde il Grande, che fu
grande e giusto e
con onore verrà ricordato”.
Ormai
pioveva a dirotto. Così tanto acqua non si era mai vista da
molto tempo e
certamente dentro una grotta, una cava, una miniera o qualsivoglia buco
sotto
terra, acqua non ne arrivava di sicuro.
I cinque
nani camminavano svelti nella speranza di trovare un riparo, ma
sapevano
benissimo, da ciò che avevano potuto vedere dalle carte
geografiche, che la
piana era davvero vasta e Boscoverde il Grande era lontano.
C’era
la
possibilità di tornare indietro, ma comunque ci avrebbero
impiegato due giorni
buoni per raggiungere il fiume Anduin, e magari la pioggia sarebbe
durata solo
un paio d’ore.
No,
bisognava andare avanti, ma l’entusiasmo non era alle stelle.
“Non
si vede
niente!”.
“Ma
siamo
sicuri di star andando nella direzione giusta?”
“Rhiaian,
quante volte sei stato nel Regno di Oropher?”.
“Abbastanza
da sapere che questa è la strada giusta!” fece il
nano seccato. “Camminate e
zitti”.
I nani
camminarono e andarono avanti come aveva detto Rhiaian, senza
protestare anche
se sapevano benissimo che, come loro, neanche Rhiaian era mai uscito
dalle
miniere di Moria.
Proseguirono
fino a quando Bolin non sbattè contro qualcosa che per
dispetto scalciò e nitrì
ad alta voce.
I nani
gridarono presi alla sprovvista.
“Cosa
c’è?”.
“Chi
è?”.
“Mostrati
e
dici il tuo nome” ordinò Rhiaian, ma era buio e
nessuno poteva mostrarsi.
Fortunatamente
una serie di fulmini illuminò per qualche istante
l’aria, giusto il tempo
perché i nani potessero vedere un cavallo ai cui piedi
giaceva privo di sensi
un elfo.
Angolo
autrice: ciao a tutti.
Ecco a voi
un nuovo capitolo. La storia prosegue, e diciamo che con questo
capitolo
finisce l’introduzione che nel mio riassunto/schema contava 5
righe. Non
credevo di aver tutte queste cose da dire e invece eccomi qui.
Ciò che fino a
qui è stato raccontato si è svolto tutto in una
giornata: dalla mattina in cui
Oropher è stato ucciso alla sera in cui è stato
sepolto.
Spero che la
storia non risulti troppo lenta o leziosa, se così fosse
sarò felice di leggere
le vostre opinioni e, fin tanto che riesco, provare a venirvi incontro.
Geograficamente
i personaggi sono situati ancora tutti nel Dagorlad o Pian della
Battaglia:
Thranduil e i Nani sono abbastanza vicini ai monti Emyn Muil, Galion si
dirige
verso Boscoverde e lo fiancheggerà dal lato orientale. Se
volete avere un’idea
chiara dovreste consultare la Mappa presente nei “Racconti
incompiuti” di
Tolkien. Se cercate la cartina su Internet assicuratevi che faccia
riferimento
alla fine della terza era perché io ho usato quella.
Ringrazio
tutti quelli che leggono, che seguono e che recensiscono. A presto,
Alida
|
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Capitolo 4 *** Un nano diverso ***
Benissimo!
Sono riuscita giusto poco fa a
finire il capitolo e son felice di dire che è venuto
abbastanza bene. Spero di
aggiornare ancora un capitolo Domenica sera o al massimo
lunedì mattina.
Ringrazio
tutti coloro che seguono la mia
ff, che l’hanno inserita tra le seguite e preferite, ma
soprattutto
(grandissimo sorriso) chi recensisce, sia perché fa sempre
piacere, sia perché un
riscontro, e anche una critica costruttiva, è sempre utile
per capire dove è
possibile far meglio.
Vi
abbraccio e vi auguro buona lettura.
Fortunatamente
una serie di fulmini illuminò per qualche istante
l’aria, giusto il tempo perché i nani potessero
vedere un cavallo ai cui piedi
giaceva privo di sensi un elfo.
CAPITOLO 4
I nani,
Rhiaian, Bolin, Farìm, Pimi e Bimi,
erano sbigottiti. Non capitava tutti i giorni di
imbattersi in un elfo
svenuto accanto al suo cavallo durante una tempesta. E grazie al cielo!
“Cosa
facciamo adesso?” chiese Bolin.
“E
cosa
vorresti fare?” domandò Farìm.
“La
strada è
lunga e non possiamo fermarci” aggiunsero in coro i gemelli
Pimi e Bimi.
Bolin
però
non era di quell’avviso. Anche se quest’elfo era un
elfo e non un nano non
potevano lasciarlo lì e proseguire come se nulla fosse. Era
un essere vivente
del resto! Non avrebbe lasciato un cavallo lì, tanto meno un
elfo.
Farìm
conosceva Bolin da tempo e sapeva che non sarebbe stato facile
convincerlo a
proseguire, ma tentò. “I Colli Ferrosi sono
lontani, andiamo avanti, dai!
Sicuramente non sarà da solo, gli elfi viaggiano sempre in
gruppo di questi
tempi”.
“A me
non sembra
che ci sia tanta gente che viaggi con lui” rispose Bolin
guardandosi attorno.
Ma ben poco si poteva vedere con la pioggia che veniva giù a
catinelle.
Bolin si
chinò verso l’elfo e stringendogli la spalla lo
scosse energicamente nel
tentativo di svegliarlo. Thranduil si lamentò del
trattamento subito e Lùth
scalcio dimostrando il suo disappunto.
“Maledetto
cavallo” si lagnò Rhiaian colpito in viso dal
fango “Quest’elfo non è un nostro
problema, Bolin. E in realtà neanche tu lo sei, se vuoi
continuare con noi,
bene. In caso contrario le nostre strade si dividono qui”.
E
già,
perché se era vero che i cinque nani viaggiavano tutti
assieme, era altrettanto
vero che mentre Farìm, Pimi e Bimi erano diretti ai Colli
Ferrosi e Rhiaian a
Pontelagolungo, o così diceva, Bolin non era diretto da
nessuna parte se non
qualche luogo che fosse lontano da Moria.
E
così si
era unito agli altri per non fare la strada, verso chissà
dove, da solo, ma con
l’intenzione, e questa era scelta unanime, di attraversare
Boscoverde, chiedendo
naturalmente il permesso agli Elfi del luogo.
Bolin era
ancora inginocchiato vicino all’elfo. Il suo cappotto era
bagnato, i suoi
pantaloni erano bagnati e anche la sua lunga barba era bagnata. Si
alzò in
piedi e guardò verso i suoi compagni di viaggio, ma ancora
non sapeva cosa
fare.
Si
massaggiò
il mento perché questo gesto lo aiutava a riflettere e un
forte odore di ferro
colpì le sue narici. La barba sembrava essere diventata un
po’ appiccicosa,
annusò le dita e chiarò giunse l’odore
del sangue. Aveva la mano piena di
sangue. Si chinò nuovamente e toccando la spalla
dell’elfo sentì un liquido
caldo.
“E’
ferito.
L’elfo è ferito” disse con evidente
preoccupazione.
“Peggio
ancora” replicò Rhiaian “Io vado via. Se
vuoi stare con lui, allora buona fortuna”.
Farìm,
Pimi
e Bimi lo appoggiarono subito, non voleva guai e la pioggia non aiutava
la
situazione.
Bolin si
mise le mani in testa, non sapeva come avrebbe fatto ad aiutare
l’elfo, ma in
qualche modo si sarebbe arrangiato.
“Andate,
io
troverò la mia strada”.
Farìm
si
strinse forte al petto Bolin, facendolo sentire una sardina sotto vetro
, e gli
augurò tutto il bene del mondo. Bolin sentì i
passi dei nani che si
allontanavano, poco dopo un altro fulmine illuminò
l’aria e gli parve di
riconoscere, in una macchia che si muoveva nell’orizzonte, il
gruppo dei suoi
amici, ma probabilmente era solo un’illusione.
Molto
più
reale era l’elfo che dormiva per terra, e il cavallo che lui
non sarebbe mai
riuscito a cavalcare tanto era alto. Bolin cercò di
sollevare l’elfo ma era
troppo pesante, e inoltre era molto alto rispetto a lui.
Provò a prendere le
misure del cavallo per trovare un modo di raggiungere la sella, ma
più ci
ragionava sopra, più si convinceva che non ci sarebbe mai
riuscito.
E poi dove
avrebbe portato l’elfo?
Gli venne in
mente solo un luogo che non distava troppo dalla piana:
“Sì, ti condurrò là,
nei Monti dell’Emyn Muil”.
Probabilmente
Lùth lo trovò un ottimo piano perché
al sentire quelle parole, di qualcuno
disposto ad aiutare il suo padrone, subito si inginocchiò
permettendo a Bolin
di sistemare, seppur con qualche acrobazia, il suo padrone in sella e
poi di
salire egli stesso.
All’improbabile
trio composto di un elfo svenuto, un cavallo accondiscendente e un nano
bagnato
senza meta, ci vollero circa quattro ore per raggiungere un riparo
nell’Emyn
Muil, e come si sistemarono la pioggia smise di cadere.
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La mattina
non tardò ad arrivare, Celeborn preparò in fretta
il suo bagaglio, in fin dei
conti gli bastava poca roba. Gil-galad ugualmente era solito viaggiare
leggero
e poi sperava di riuscire a trovare Thranduil il prima possibile. La
sua unica
preoccupazione era Elrond che, sebbene avesse deciso di rispettare la
scelta
del padre di partire da solo, avrebbe voluto andare con lui.
“Tieniti
stretto l’anello, Elrond”.
“E tu
stai
attento, e indossa sempre i guanti di pelle
così…”
“Sì,
Elrond”
proseguì Gil-galad “così Celeborn non
si accorgerà che io non lo indosso”.
Elrond
restò
a pensare un paio di minuti mentre il padre preparava la sua sacca.
“Sai a cosa
sto pensando?” domandò fissando la terra.
Gil-galad
rispose schietto: “Non ne ho la più pallida
idea”.
“A
proposito
di anelli… Dov’è finito
l’anello di Oropher? Quando lo abbiamo sepolto non
aveva nessun anello al dito”.
Gil-galad
chiuse con uno strattone la sacca e facendo mente locale convenne con
il figlio
che in effetti nessun anello adornava le dita del defunto Re di
Boscoverde. Non
ci aveva fatto caso perché Oropher non custodiva nessun
anello del potere, ma
adesso sentendoselo dire sapeva che Elrond aveva ragione.
“Forse
lo ha
preso Thranduil” ipotizzò l’elfo.
Elrond si
accigliò: “E perché mai? Non si tolgono
i gioielli ai defunti, soprattutto se
indicano il loro status”.
“Allora
forse lo ha perso in battaglia” propose Gil-galad.
“Sì,
certo.
Non ci credi neanche tu che lo stai dicendo” gli rispose
pensieroso il figlio.
Gil-galad si
mise il sacco in spalla e salutò Elrond. “Figlio
mio, non pensarci adesso.
Troppe preoccupazioni fanno star male e tu hai bisogno di riposo e
soprattutto
di tornare a casa”.
“Papà,
stai
attento. Promettimi che non abbasserai mai la guardia”.
“Te lo
prometto, Elrond”.
I due si
abbracciarono, poi Gil-galad distanziò il figlio e
guardandolo gli sorrise e
gli disse: “Sai, alle volte ti guardo e mi dico, se i Valar
mi avessero
concesso un figlio naturale avrei voluto che fosse come te”.
Elrond
sentì
i suoi occhi inumidirsi, ma trattenne le lacrime.
“Ma
poi
pensò perché accontentarsi di qualcuno che ti
somigli, se posso avere te? Tu,
credimi figlio mio, non sei mai stato un ripiego per la vita che non ho
avuto.
Tu sei proprio la vita che avrei voluto avere”.
Le lacrime
scesero libere sul viso di Elrond, Gil-galad lo abbracciò a
sé più forte che
poté.
“Papà
…”
“Basta”
disse dolcemente
Gil-galad “non
aggiungere altro. Con questa parola hai già detto tutto
ciò che desideravo
sentire. Adesso resta qui, io vado e non voglio che tu mi veda partire.
Ci
rivedremo presto”.
Elrond rimase
immobile, e seguendo il volere del padre non
andò a salutarlo. Seppe poi, da Glorfindel, che due guardie
del Lothlòrien
avevano accompagnato Celeborn e suo padre nella ricerca di Thranduil. E
subito
si pentì di non aver preteso di partire anche lui.
Era
già
mattina inoltrata quando Bolin si svegliò. Il tempo era
sereno, c’era ancora
qualche nuvola ma più che altro il cielo era limpido, e il
sole era piacevole
sul viso. Non bisognava ingannarsi però, bastava
un’ora perché il cielo
diventasse buio e cominciasse nuovamente a piovere.
E i nani, si
sa, sono bassi e la pioggia si abbatte con più ferocia su di
loro, o almeno
questo è ciò che sapeva Bolin.
“Già,
è
proprio così. Pioggia di sera, il
nano si
dispera. Pioggia di mattina, il nano sta in cucina”
ripeteva a voce alta, parlando
a se stesso, mentre con qualche rametto cercava di accendere un fuoco.
Lùth
nitrì.
“Bè, cosa c’è? Non ti piace
il mio proverbio? Non credo che tu lo passa
apprezzare pienamente. Prima dovresti conoscere per bene la vita di un
nano, e
dovresti sapere che vivendo noi spesso dentro le miniere, ben poco ci
interessa
se piove o meno. E perciò se piove di mattina possiamo
starcene tranquillamente
nella nostra casa a mangiare. Però se piove la notte, chi
può dire cosa
accadrà? Potrebbero esserci infiltrazioni nelle rocce e la
grotta crollarci
addosso! “ spiegò Bolin come se stesse parlando
con qualcuno che non fosse un
cavallo.
“Mentre
a
voi cosa interessa? Ve ne state nelle stalle coccolati e vezzeggiati
dai vostri
proprietari, mentre il mondo… Oh per la miseria!”
si bloccò Bolin “Parlo con un
cavallo! Peggio che parlare da solo!”.
Poi
guardò
nuovamente Lùth, che però non gli dedicava
nessuna attenzione.
“Chissà!
Magari mi capisci”.
“Certo
che
ti capisce” rispose una voce debole ma chiara.
Bolin fece
un giro su se stesso per capire da dove arrivasse la voce.
C’erano forse degli
spettri in queste montagne?
“Però”
disse
a Lùth “Mi era sembrato di sentire
qualcuno”.
“Certo
che
hai sentito qualcuno, hai sentito me!” replicò una
voce stizzita.
Bolin si
fermò su se stesso, la voce era vera, ma da chi poteva
arrivare!
“L’elfo!”
esclamò a voce alta spostando la sua attenzione sul
Thranduil. “Scusa, mi ero
dimenticato di te” si giustificò.
Thranduil
cercò di sedersi ma il braccio non si muoveva. Si
guardò la spalla e vide che
era stata fasciata alla bene meglio.
“Ho
cercato
di sistemarti, però non sono un guaritore”.
Thranduil lo
guardò con sospetto. Il nano continuò.
“Però ho fatto del mio meglio. Ho
ripulito con un po’ di acqua, e poi ho fasciato la spalla.
Chissà magari
troveremo delle erbe…”.
“E se
le
trovassimo, tu sapresti cosa fare?” chiese l’altro.
“No,
ma
magari lo sai tu che sei un elfo. Voglio dire, ho sentito che alcuni di
voi
hanno grandi conoscenze in materia di cure, medicine,
erbe…”
“E’
vero”
disse il Re di Boscoverde “Ma io non sono uno di quelli. Un
mio amico lo è”.
Bolin prirese
in mano i legnetti e accese un fuocherello, nel mentre
continuò a parlare per
non fare addormentare nuovamente l’elfo.
“Davvero?
E
come si chiama?”.
“Come
si
chiama chi?” domandò Thranduil, i cui occhi
cominciavano a socchiudersi.
“Il
tuo
amico” rispose Bolin quando, voltandosi, notò lo
stato dell’elfo “Ehi, ehi… non
addormentarti. Devi stare sveglio. Adesso ti preparo la colazione
così potrai
mangiare e riprendere un po’ di forze per …
bè, per andare dove stavi
andando…”.
“Allora,
dimmi, come si chiama il tuo amico che
conosce le arti mediche?”.
Thranduil si
sforzò di tenere gli occhi aperti, il nano aveva ragione
doveva riprendersi e
raggiungere in fretta Boscoverde.
“Si
chiama
Elrond. E’ un ottimo guaritore, un grande amico e per me
è sempre stato come un
fratello. Però non gliel’ho mai detto”.
“E
come
mai?”.
“Perché
… ma
cosa stai cucinando?” cambiò discorso Thranduil.
“Pancetta
di
maiale”.
“Ha un
buon
profumo”.
“Sì,
hai
ragione. Ho imparato a cucinarlo da… bè ma che
importanza ha” disse con un velo
di tristezza negli occhi “O ha importanza?”.
Thranduil
rispose come Oropher gli rispondeva sempre: “Ogni cosa ha
importanza, alcune di
meno, altre di più, ma tutte ne hanno in qualche
misura”.
“Già”
riflettè il nano “bè, è
stato Nàlim, mio pad… sì, il nano che
mi ha cresciuto,
è stato lui a
insegnarmelo. Tuo padre
non ti ha insegnato a cucinare?”.
Thranduil
rise leggermente. “No, però mi ha insegnato a bere
vino”.
“Questa
è
bella!” rise Bolin di ricambio togliendo il cibo dal fuoco,
poi accompagnandolo
con un pezzo di pane lo porse a Thranduil.
“Prego,
mangia pure”.
Thranduil
allungò il braccio sano e prese il cibo. Guardò
il nano, era … un nano. Lui non
aveva nessun problema con i nani, anche se suo padre ne aveva avuto,
però
questo sembrava diverso dagli altri. Non esteticamente, per quello no,
però
tutti i nani che aveva conosciuto erano stati duri nei suoi confronti,
ostili.
Invece questo nano era aperto e socievole.
Bolin
preparò la sua porzione di pancetta e addentò il
pane, era buono come sempre,
non c’era niente di meglio per iniziare la giornata.
“Come
mai
sono qui?” chiese il Re di Boscoverde “Come ho
fatto ad arrivare fin qui?”.
“Ti ci
ho
portato io qua. Ti abbiamo trovato nella piana, svenuto vicino al tuo
cavallo,
nel bel mezzo della tempesta di ieri notte”.
Thranduil
acuì l’udito, non poteva sentire
nient’altro se non i suoni della natura. “E
dove sono tutti gli altri? Gli altri con cui mi hai trovato”.
“Ah”
fece
Bolin “Non se la sono sentiti di impegnarsi con te”
continuò cercando di
trattenere le risate “insomma, sei un elfo, e voglio dire
… eri anche ferito,
magari morivi e poi cosa avrebbero dovuto fare?”.
“Tu ti
sei
comportato diversamente da loro. Non mi hai lasciato
laggiù”.
“Io
non
conto” rispose Bolin con un pizzico di amarezza
“Non conto poi molto”.
Thranduil
masticava l’ultimo pezzetto di pancetta, si sentiva stanco,
accaldato e
infreddolito allo stesso tempo, alcune gocce di sudore gli si formarono
sulla
fronte.
Inspirò
un
po’ di aria fresca; nani, elfi, uomini e forse ogni creatura
su Arda doveva
affrontare la vita, che spesso sembrava remare contro.
“E
… senti.
Come ti chiami. Insomma mi hai salvato la vita, vorrei poter
ringraziarti come
i Valar comandano”.
Il nano era
in ginocchio accanto al fuoco sistemando bene i nuovi ramoscelli appena
aggiunti. Senza neanche guardare in faccia l’elfo si
presentò: “Mi chiamo
Bolin”.
“Solo
Bolin?”.
Il nano
strofinò le grosse mani sui pantaloni. “Esatto, e
tu come ti chiami?”.
“Io
sono
Thranduil Oropherion di Boscoverde”.
Bolin si
alzò in piedi e guardò l’elfo stupito.
“Thranduil di Boscoverde! Ma allora sei
un elfo silvano! Accidenti è proprio a Boscoverde che sto
andando. Secondo te
il tuo Re… come si chiama… aspetta, aspetta,
Oropher. Ecco, secondo te Re
Oropher mi farebbe entrare nel suo regno per starci un
po’?”
Thranduil si
rese subito conto che Bolin non era a conoscenza del fatto che lui
fosse il
figlio di Oropher, e neanche del fatto che Oropher fosse morto.
Con poca
voce e tanta stanchezza sul viso, guardando verso un punto indefinito
nell’orizzonte, Thranduil rispose: “Sì,
ti farebbe entrare”.
“Allora
gli
piacciono i Nani!”.
“Per
niente”.
Bolin scosse
la testa, non riusciva a capire. “Ma…”.
“Non
gli
piacciono i Nani, ma a te farebbe entrare, ti ringrazierebbe e
probabilmente ti
darebbe tutto ciò che vorresti, se potesse farlo. Ma non
può farlo”.
“Non
capisco” continuò Bolin.
Thranduil
prese fiato e lentamente, pensando al padre che non c’era
più, spiegò: “Non può
farlo perché è stato ucciso giusto ieri in
battaglia, e ti darebbe tutto quello
che vuoi perché hai salvato la vita a suo figlio”.
Bolin fu
congelato da ciò che aveva sentito, quest’elfo era
il figlio di Oropher, perciò
il nuovo Re di Boscoverde e lui gli aveva preparato della pancetta, ad
averlo
saputo prima avrebbe aggiunto anche qualche patata.
E
adesso, pensò
Bolin, come dovrò chiamarlo? Re,
Thranduil, Oropherion?
Girò
il viso verso Thranduil, ma lui si era già addormentato.
Bolin vide il sudore sul viso del Re, gli toccò la fronte e
si accorse che era
molto calda.
Subito dopo
la partenza di Gil-galad, Elrond aveva visitato i feriti, per lo
più erano elfi
con ferite curabili in breve tempo, solo una decina erano veramente
gravi.
Tutti chiedevano di partire al più presto, anche quelli che
versavano in
condizioni peggiori.
Non era solo
il ricordo della battaglia, dei morti e dei funerali, era anche
l’aria che si
respirava che rendeva difficile la loro guarigione. Gli orchi erano
stati
bruciati e ci sarebbero voluti giorni, forse settimane
perché il fetore si
dileguasse.
Sicuramente
respirare quest’aria non era salutare, perciò
Elrond aveva chiesto che
venissero costruite dieci portantine su cui sistemare i malati
più gravi.
Questi poi sarebbero stati sistemati sui carri adibiti a trasportare il
cibo,
che però erano stati già alleggeriti durante le
settimane precedenti.
Glorfindel
si stava occupando che tutto fosse pronto per il primo pomeriggio,
sapeva che
Elrond voleva partire quel giorno stesso. Aveva calcolato che sarebbero
arrivati a Imladris in circa 20 giorni di duro cammino, più
realisticamente un
mese, perché certo con i malati non si sarebbe potuto
correre.
E poi
avrebbe dovuto aspettare Gil-galad per sistemare gli affari del Regno e
infine,
solo dopo tutto questo, sarebbe potuto andare nel Lothlòrien
per vedere la sua
Celebrian.
Mentre
attraversa
il campo di battaglia, si chiese cosa avrebbero fatto i guerrieri di
Boscoverde, il loro Re era morto, il nuovo era scomparso, Galion non si
trovava. Chi si sarebbe preso cura di loro?
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Capitolo 5 *** Sguardo cieco sul futuro ***
Buongiorno a
tutti. Chiedo umilmente scusa per il ritardo, ma impegni di studio e
problemi
di salute non mi hanno permesso di aggiornare prima. Inoltre quello che
leggerete è un capitolo di passaggio, certamente necessario
ma un tantino corto
perché altrimenti se avessi fatto un passo in più
su tutti i fronti e con tutti
i personaggi, allora sarebbe dovuto diventare lungo almeno il triplo e
ciò
significava aggiornare fra una settimana buona. Perciò ho
preferito postare
questo piuttosto che niente.
Spero che
troviate il tempo di lasciare una minuscola, piccola
recensione… sempre
gradita, e magari qualche osservazione … mi interesserebbe
sapere se secondo
voi i personaggi sono ben definiti o se la storia pecca nella loro
caratterizzazione.
A presto, e
buona lettura.
Cap 6
Nel Bosco
Dorato il tempo sembrava essersi fermato da secoli e anche se
l’anello della
Signora del Bosco infondeva armonia e serenità, gli animi
erano irrequieti. Non
erano solo gli elfi guerrieri a sentirsi nel posto sbagliato, ma anche
le donne
elfo che aspettavano con impazienza l’arrivo dei propri
compagni.
Tra queste
ce n’era una in particolare che insisteva più del
dovuto con Dama Galadriel perché
guardasse dentro il suo Specchio e le sue insistenze erano perdonate
per un
semplice motivo: la donna elfo rispondeva al nome di Celebrian ed era
la figlia
di Galadriel e Celeborn.
Aveva
continuato a chiedere alla madre il permesso di guardare lei stessa, ma
questo
gli era stato negato. Avrebbe voluto essere appoggiata nella sua
decisione di
lasciare il Bosco Dorato per andare incontro a Elrond e salutarlo
durante il
passaggio dell’esercito di Imladris, ma la Signora del Bosco
era irremovibile,
nessuno sarebbe andato incontro agli eserciti alleati.
“Madre,
perché ti comporti così. Il mio cuore
è in pensiero e le mie notti sono
insonni. Se non vuoi che io guardi nello Specchio posso capire
perché il futuro
può rivelarsi un peso difficile da sopportare, ma quante
volte tu stessa ti sei
affidata a lui? E questa volta ti chiedo di guardarlo per una causa
giusta…”.
“Mia
cara
Celebrian, ogni elfo qui nel Lothlòrien ha una giusta causa,
ciascuno di noi
attende l’arrivo di qualcuno, io stessa attendo tuo
padre”.
Celebrian
abbassò lo sguardo vergognandosi di non aver pensato a suo
padre, ma doveva riconoscere
che da quando amava Elrond, e visto come il suo amato veniva trattato
dal
suocero, era questo che occupava un posto privilegiato nel suo cuore.
Dama
Galadriel le si avvicinò e abbracciandola la tenne stretta a
sé. “Non
vergognarti di amare Elrond. L’amore che provi per lui
è molto forte e
sicuramente ami molto anche tuo padre…” poi
sorrise e guardando negli occhi la
figlia concluse: “… a ciascuna donna il suo uomo,
a tuo padre ci penso già
abbastanza io”.
Celebrian
sorrise,
sapeva che i suoi genitori si amavano ma pensarli come due innamorati,
come lei
con Elrond, la imbarazzava.
“Non
penserai che solo perché abbiamo qualche millennio in
più di te…”
Celebrian si
tappò le orecchie con le mani: “Mamma, va bene, ho
capito… non continuare”.
Fu la volta
di Galadriel di ridere.
“Però”
aggiunse la giovane con un pizzico di malizia negli occhi:
“Potresti guardare
dentro lo Specchio, così per vedere in generale come stanno
andando le cose.
No?”.
A quel punto
la Signora del Bosco si arrese. “E va bene,
guarderò, ma non cercherò nessuno
in particolare, vedrò soltanto ciò che
vorrà mostrarmi”.
“Sono
d’accordo,” disse Celebrian
“andiamo”.
Così
le due
donne elfo si diressero verso lo Specchio. Celebrian rimase a distanza,
era
affascinata da quello strumento ma nel contempo impaurita. Conoscere in
anticipo ciò che doveva ancora avvenire, soprattutto quando
non era chiaro e
andava interpretato, aveva i suoi rischi.
Anche il suo
compagno, Elrond, poteva vedere il futuro ma solo quando questo gli si
presentava volontariamente. Egli possedeva il dono della preveggenza e
a suo
dire poteva essere molto rischioso diffondere notizie apprese in tal
modo.
Dama
Galadriel prese una brocca e la riempì di acqua, poi
lentamente la svuotò nello
Specchio. L’acqua fuoriuscendo dal suo contenitore sembrava
che cantasse a voce
bassa, che bisbigliasse storie tra magia e realtà.
Galadriel si
sporse in avanti e con curiosità guardò dentro il
piccolo laghetto d’acqua,
pensò alla guerra, a tutti gli elfi che erano partiti in
battaglia, e lentamente
si formarono delle immagini.
I colori
partivano dai bordi dello specchio d’acqua per poi unirsi al
centro ed
espandersi in maniera circoncentrica, mentre i cerchi pian piano
svanivano
andava a formarsi l’immagine … e ciò
che Dama Galadriel vide la fece indietreggiare
velocemente e
cadere a terra.
Celebrian,
spaventata, chiamò sua madre e quando non ottenne risposta
gridò a voce alta
perché qualcuno corresse in suo aiuto.
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Sdraiato nel
suo letto a pancia in giù con le mani sotto il cuscino e il
mento poggiato in
corrispondenza delle nocche Legolas si concentrava nel tentativo di
collegarsi
con il padre. Qualcosa però non andava nel verso giusto,
poteva sentire che il
padre non rispondeva, ma questo non era normale. Mai, nemmeno una volta
Thranduil aveva rifiutato di comunicare con il figlio.
Poteva
essere stanco ma trovava le energie, poteva essere occupato ma trovava
il
tempo. Ora però non rispondeva. Il giovane elfo
sospirò, si alzò in piedi e
andò nel terrazzo della sua camera. Gli alberi parlavano tra
loro e si
mostravano in pensiero per il giovane erede che iniziò a
cantare per placare la
loro angoscia.
Continuava a
cantare, quando udì la presenza di qualcuno alle sue spalle,
si voltò e il
sorriso gli nacque sulle labbra.
“Mi
sono
permessa di entrare perché hai lasciato la porta
socchiusa”.
“Non
c’è
problema, mamma. Puoi entrare quando vuoi”.
Wisterian
sorrise. “Fra un paio d’anni non la penserai
così, ma per ora grazie”.
Legolas la
abbracciò. La madre poggiò le sue mani a coppa
nelle sue guance e con molta
calma disse: “Legolas, devo parlarti e purtroppo devo farlo
come se tu fossi un
adulto. Solo i Valar sanno se io e tuo padre avremmo voluto
risparmiarti questo
momento, però occorre che tu sappia”.
Legolas si
fece serio, prese le mani della madre e le strinse con calore.
“Mamma, cosa
devi dirmi? Sai qualcosa dello stato di salute di papà che
io non so? E’ ferito
anche lui?”.
Wisterian
negò con la testa. “No, purtroppo non so ancora
niente di tuo padre. Si tratta
di un’altra cosa, di qualcosa che tuo nonno Oropher e tuo
padre avevano pensato
quando hanno fatto costruire questa fortezza”.
“Di
cosa si
tratta?” chiese con curiosità il ragazzo.
“Qui,
all’interno della fortezza c’è un
passaggio segreto che conduce all’esterno”
rispose la madre sussurrando tale era la paura che qualcuno potesse
sentirla.
Legolas era
sì incuriosito, ma ancor di più affascinato,
eppure capiva il peso delle parole
che sua madre stava usando.
“L’ingresso
al passaggio sta nella camera matrimoniale mia e di tuo padre, il
passaggio
conduce per alcuni metri sotto terra e poi fino alla foresta”.
Il giovane
elfo era attentissimo, non voleva perdere neanche una piccola frase di
ciò che
gli veniva confidato.
“Appena
uscito all’aperto troverai un sentiero, lo dovrai percorrere
tutto ma non per
terra, seguilo passando da albero ad albero, alla fine arriverai all’Antica
strada silvana, continua a
percorrerla saltando tra gli alberi. Da dove la strada finisce potrai
vedere
l’Anduin”.
“Il
grande
fiume!” esclamò Legolas.
“Esattamente.
Bene, lo dovrai attraversare…”
Legolas si
bloccò. “Attraversarlo? Ma come?”. E
subito dopo, rendendosi conto che sua
madre non includeva se stessa in ciò che diceva, aggiunse:
“Dovrò attraversarlo
da solo? E tu? Dove sarai?”.
Wisterian
trattenne il respiro, suo figlio era giovane però anche
molto perspicace. Prese
fiato e con dolcezza gli spiegò: “Se
arriverà il giorno in cui dovrai usare il
passaggio, significa che né io né tuo padre
saremo con te, figlio mio”.
Legolas si
rabbuiò, adesso la segretezza della situazione non gli
sembrava più tanto
entusiasmante.
Wisterian
andò avanti. “Attraversato l’Anduin
dovrai attraversare le Montagne Nebbiose…”.
“No,
non ce
la farò mai … è troppo lontano,
è troppo difficile”.
“…
e una
volta attraversate le Montagne dovrai raggiungere Imladris, vai da
Gil-galad e
Elrond. Fidati solo di loro” concluse la donna.
Legolas
aveva gli occhi pieni di lacrime, semmai si fosse trovato in una
situazione tanto
estrema era convinto che non sarebbe mai riuscito a raggiungere gli
amici dei
suoi genitori.
Wisterian
era preoccupata, capiva i dubbi del figlio e in parte li condivideva,
ma quali
alternative aveva? A chi poteva chiedere di aiutare il figlio? Gli elfi
valorosi, i guerrieri erano tutti partiti, ne era rimasta solo una
manciata a
difesa della fortezza.
Doveva
trattarsi di qualcuno che desse fiducia a Legolas, che fosse sia suo
amico che
di Thranduil, qualcuno a cui avrebbero potuto confidare del passaggio
segreto
senza timore.
E quel
qualcuno, senza che loro lo chiamassero bussò alla porta in
quel momento.
Legolas si
asciugò gli occhi.
“Avanti”
disse Wisterian.
Un elfo
entrò
nella stanza. “Signora, giungono notizie dal confine
meridionale di Boscoverde.
E’ stato avvistato l’esercito di Imladris, sembrano
diretti a casa”.
Wisterian
annuì, ma forse non capì fino in fondo cosa
sentì. Andò dritta verso la porta e
la chiuse.
“L’esercito
di Imladris? Solo quello? E il nostro esercito?” chiese
Legolas.
“Mio
caro
Legolas, del nostro esercito non ci sono ancora notizie”.
Wisterian
sospirò. “Questa, in tutta sincerità,
non è una buona notizia”.
“Concordo”
replicò l’elfo.
“Ma
ora ci
sono cose più importanti a cui pensare” disse con
voce greve la Regina.
L’elfo
si
irrigidì e con un tono sprezzante domandò:
“Più importanti, mia Signora?”.
“Dipende”
disse lei “da quanto è importante per te la vita
del principe Legolas”.
L’elfo
sobbalzò appena, Legolas non era ancora principe, lo sarebbe
stato appena
Thranduil fosse diventato Re, ma non lo era. Oropher era il Re di
Boscoverde.
“Come Principe Legolas? Io pensavo che questo
titolo spettasse a suo marito!”.
“Se
mio
figlio fosse il principe, la sua vita sarebbe importante per te,
Fidelhion?
Sarebbe più importante di tutto l’esercito di
Boscoverde?”.
Fidelhion
sentì la fragilità di una madre preoccupata nella
voce di Wisterian. Lui
conosceva Legolas da quando era nato, così come conosceva
Thranduil dalla sua
nascita. Egli era uno degli elfi silvani che avevano proposto che fosse
Oropher
a guidare Boscoverde, lo apprezzava e rispettava, e ancor di
più sentiva per
suo figlio e suo nipote. Perciò senza pensarci un attimo e
con decisione
rispose: “La vita di Legolas sarebbe più
importante di tutto l’esercito di
Boscoverde, persino di Boscoverde stesso, anche se ne fosse
principe”.
Queste erano
esattamente le parole che Wisterian avrebbe
voluto sentirsi dire, così prese la mano a suo figlio e
rivolgendosi a
Fidelhion disse: “Bene, allora sappi che ho un compito
importante per te”.
Erano
trascorsi sei giorni interi da quando Celeborn e Gil-galad erano
partiti alla
ricerca di Thranduil, avevano attraversato tutta la Piana del Dargolad e entrati a Boscoverde, si
ritrovavano a
fissare il Dol Guldur.
Gil-galad
osservava con disprezzo la costruzione nella quale il male si era
insediato e
dalla quale erano partiti ordini di morte. L’aria era pesante
e sembrava che la
foresta fosse malata, che fosse piena di rabbia e dolore.
I cavalli
erano stanchi, avevano bevuto dalle pozzanghere e mangiato erba,
però ora non
riuscivano proprio ad andare oltre.
“Celeborn,
dobbiamo fermarci, i cavalli sono stremati”.
Il Signore
del Lothlòrien era d’accordo. “Allora
fermiamoci, ma cerchiamo un riparo”
rispose semplicemente.
“Intendi
nella costruzione diroccata?”.
“Esattamente,
perché ci sono problemi?”.
Gil-galad
non era del tutto soddisfatto. Avrebbero potuto trovare riparo tra gli
alberi,
anche se la natura infondeva tristezza, era sempre meglio che
là dove anche le
mura gridavano odio.
“Forse
potremmo sistemarci sugli alberi”.
“Senti,
Gil-galad, io sono davvero stanco, se dovesse piovere saremmo
più riparati da
una costruzione di pietre e rocce piuttosto che da un albero”.
“Non
sembri
nemmeno un elfo” gli rispose il Signore di Imladris.
“Bhè,
tu sei
abituato con i Mezzelfi!” sbottò Celeborn.
Gil-galad
fece finta di non sentire, erano tutti troppo stanchi e litigare non
avrebbe
portato da nessuna parte, la guerra era conclusa e lui desiderava stare
in
pace.
“Chissà
che
strada ha preso Thranduil!” disse cambiando discorso.
“Visto
che
noi non lo abbiamo incontrato, probabilmente sta costeggiando
l’Anduin”.
“Allora
forse dovremmo lasciare Boscoverde e dirigerci verso il
fiume!” propose
Gil-galad.
“No!”
replicò immediatamente Celeborn che non voleva assolutamente
lasciare la
foresta. “Penso che sarebbe meglio se andassimo direttamente
alla fortezza, del
resto potremmo non essere in grado di intercettare Thranduil se
partissimo ora
per il grande
fiume.”.
Gil-galad
restò inizialmente sorpreso dall’enfasi usata dal
consuocero nel rispondergli,
ma poi non potè che concordare. “Già,
il fiume è molto grande e lungo. Chissà
dove sarà?”.
“Non
lo so,
ma non vedo l’ora di incontrarlo. Deve darci molte
spiegazioni! Comunque adesso
è meglio riposare, lasciare che i cavalli riprendano un
po’ di forze e poi
ripartire. Sarà meglio dormire”.
“Sì,
sicuramente non ci farà male” concluse Gil-galad
scendendo da cavallo e salendo
su albero.
Se Celeborn
aveva voglia di comportarsi come un uomo che facesse pure, lui era un
elfo e da
elfo avrebbe vissuto. Chissà poi perché non
voleva salire su un albero? Era
insolito.
Una volta
raggiunta la posizione desiderata, cioè quella con
abbastanza ramificazioni che
potessero fare da materasso, Gil-galad si accomodò. Prima
però diede
un’occhiata a Celeborn e lo vide mentre controllava i propri
bagagli in groppa
al cavallo.
L’animale
era stanco e pareva che una zampa gli facesse male, ma Celeborn non
sembrava
accorgersene, continuò a controllare la sua roba e poi, dopo
aver legato il
cavallo si diresse verso quella che era stata la fortezza del male.
Gil-galad lo
stava ancora osservando e ebbe una sensazione
negativa e quasi ebbe vergogna dei propri pensieri, ma non
potè fare a meno di notare
come Celeborn e la fortezza del Dol Guldur sembrassero un
tutt’uno.
Passò
un
secondo e Haldir si trovò al fianco di Celebrian che, china
accanto alla madre
e con gli occhi pieni di lacrime, raccontò
all’elfo cosa era accaduto.
Haldir non
era un guaritore ma gli era capitato di vedere la Signora del
Lothlòrien in
quelle condizioni altre due volte e non c’erano mai stati
sviluppi positivi.
Celebrian
sollevò la madre e la mise seduta, Haldir strappò
dell’erba “melissa” e aperta
la bocca di Galadriel gliene mise una foglia sotto la lingua. Dopo
pochi minuti
l’erba fece il suo effetto e la Signora del
Lothlòrien riprese i sensi.
Galadriel
posò lo sguardo sull’elfo biondo e poi sulla
figlia. “Sto bene, Celebrian”
disse con voce squillante e seria, come se niente fosse successo,
adesso vai.
Devo parlare con Haldir”.
Celebrian
sapeva di non dover opporsi alla madre, soprattutto in questi momenti,
era
curiosa e voleva sapere ma tanto non avrebbe avuto le risposte che
desiderava.
Sapeva che Haldir era disorientato dal comportamento della madre, ma
non lo
avrebbe mai mostrato per non preoccuparla.
Perciò
non
le restò che rispondere: “Come desideri”.
Haldir fece
cenno di assenso con la testa e la ringraziò, Celebrian
però non aveva
intenzione di cedere così facilmente e dopo essersi
allontanata, salì su un
albero e si avvicinò il tanto necessario per poter sentire e
… origliò.
“Haldir,
se
solo potessi dire a parole ciò che ho visto”.
“A me
può
dire tutto mia Signora, qualsiasi cosa, la mia fedeltà non
verrà mai meno”.
“Lo
so, ma
non si tratta di questo. Ci sono cose che non andrebbero mai dette, mai
nemmeno
pensate, eppure occorre che qualcuno le veda forse per
prevenirle” disse con lo
sguardo fisso sullo Specchio.
“O
forse
perché l’inevitabile presente possa sembrare
più chiaro a posteriori” ipotizzò
Haldir aiutando Galadriel a sollevarsi in piedi.
“Sei
molto
saggio, mio caro amico”.
Haldir
annuì. Celebrian poteva sentire il dubbio e la tensione
nello scambio di
parole. Cosa aveva visto la madre? Perché non voleva
parlarne?
Galadriel si
avvicinò allo Specchio, ma non ci guardò dentro.
“Haldir, ciò che ho visto è il
sangue di un amico sulla spada di un altro amico”.
“A chi
apparteneva la spada? E di chi era il sangue?”.
Galadriel
mantenne la sua posizione: “Non riesco a pronunciare i loro
nomi, forse ho
timore che così facendo ciò che ho visto diventi
più reale. Ma comunque non c’è
tempo da perdere. Preparati subito, appena pronto dovrai partire e
intercettare
l’esercito di Imladris, e dovrai consegnare un biglietto a Elrond”.
“A
Elrond?
Non a Gil-galad?” domandò titubante Haldir.
“Hai
capito
bene, Haldir. Ora vai, non c’è tempo da
perdere”.
Haldir
immediatamente andò. Celebrian, che aveva sentito tutto e
niente, in due
secondi progettò il suo piano: avrebbe preso giusto due
cose, le avrebbe
sistemate in una sacca e avrebbe seguito a distanza Haldir.
Se
lui poteva andare incontro a Elrond, poteva farlo anche
lei.
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Capitolo 6 *** Saluti e inviti ***
Ciao
a tutti. Ecco il
nuovo capitolo. Chiedo scusa per il ritardo ma con le feste in mezzo
avevo
fatto male i conti. Il prossimo capitolo arriverà domenica o
lunedì prossimo
(preparo degli esami e non ho molto tempo a disposizione).
Ringrazio
tutti coloro
che leggono e ancor di più chi recensisce.
A
presto e buona
lettura. Alida
Mentre
attraversa il campo
di battaglia, si chiese cosa avrebbero fatto i guerrieri di Boscoverde,
il loro
Re era morto, il nuovo era scomparso, Galion non si trovava. Chi si
sarebbe
preso cura di loro?
CAP 5
Il
pomeriggio era iniziato nel peggiore dei modi: due dei feriti gravi di
Imladris
erano morti. Ciò aveva affrettato ancora di più
la scelta di Elrond di partire,
infatti nel campo non c’erano abbastanza medicine per tutti.
Avrebbero dovuto
fare una sosta nel Lothlòrien e chiedere a Dama Galadriel un
aiuto.
Certamente
gli elfi di Imladris erano numerosi, circa 800, e non avrebbero potuto
soggiornare nel Bosco Dorato, però nessuno avrebbe rifiutato
loro erbe mediche,
garze e magari il soggiorno dei feriti gravi.
Gli elfi del
Lothlòrien sarebbero partiti un paio di giorni dopo, quelli
di Boscoverde
ancora più tardi. Si sentivano in colpa per aver sepolto il
loro Re lì, nella
piana, e volevano portarne a casa il feretro. Ma nessuno se la sentiva
di
dissotterrare la bara. Avrebbero aspettato Thranduil, e tutti erano
convinti
che sarebbe tornato, che non li avrebbe lasciati lì da soli
e che se si era
allontanato doveva esserci un motivo molto importante.
Elrond aveva
spiegato loro che ci sarebbero voluto giorni per arrivare a Boscoverde
e che le
loro scorte scarseggiavano ma gli elfi silvani erano orgogliosi e
testardi come
i loro re e a niente erano valse le parole dei guaritori e dei
guerrieri degli
altri regni.
Così
con il
cuore appesantito Elrond, affiancato da Glorfindel, e il suo popolo,
presero la
strada per casa. Una domanda ronzava nella testa del Mezzelfo:
“Come faremo a
sapere se mio padre ha trovato Thranduil?”.
Glorfindel
vide il suo amico pensieroso ma non disse nulla, alle volte il silenzio
era ciò
di cui si aveva più bisogno. Tutti salutarono la partenza
del Regno di Imladris
con auspici di buona fortuna. Gli elfi del Lothlòrien
decisero di aspettare
ancora qualche giorno il ritorno di Celeborn e poi sarebbero partiti
anche
loro, ma diedero messaggi e rassicurazioni da portare ai loro parenti.
Quando
l’accampamento divenne una macchia lontana e
indistinguibile, gli elfi di Imladris cominciarono a cantare della
guerra, di
chi non c’era più e di chi avrebbero presto
rivisto.
“Già”.
“Bene,
bene”.
“Forse…”.
“No,
non funziona…”.
Bolin
sbuffò. Ancora una volta si ritrovava a parlare da solo,
quest’elfo doveva
avergli lanciato una qualche maledizione che gli impediva di star zitto
o
semplicemente di formulare una frase intera. Anche se questo
problemino, quello
cioè di lasciare le frasi a metà o comunque
iniziarle e non finirle lo aveva
sempre avuto.
Il problema
era chiaro: il Re silvano stava male e la ferita andava curata. Bolin
aveva
sentito dire che per sterilizzare e chiudere una ferita bastava
sigillarla con
il fuoco, ma credeva che non fosse una cosa simpatica da fare,
soprattutto non
mentre il Re era addormentato.
Perciò
mise
a bollire un po’ di acqua, fece un leggerissimo tè
e lo fece ingoiare a
Thranduil che era ancora inconscio, ma che bevette per istinto un
po’ di te
alla volta.
Passarono i
minuti e un po’ alla volta anche le ore, era già
notte inoltrata quando
Thranduil si svegliò, Bolin gli era accanto, sveglio ma
molto assonnato.
Tuttavia, seppur senza fretta, si propose di cucinare qualcosa.
“No,
grazie”
rispose con un filo di voce l’elfo.
Bolin
però
era di parere diverso: “Dovrebbe mangiare qualcosa, mio caro
Re silvano”.
Thranduil
con molta serenità lo corresse: “Non sono un Re
silvano, io sono un Sindar”.
“Come
fai a
essere un Sindar se il tuo popolo è silvano?”.
“Bella
domanda, che meriterebbe una risposta lunga e articolata, che in questo
momento
non ho la forza di darti. Diciamo che ci siamo uniti agli Elfi Silvani
perché
mio padre riteneva che dovessimo avvicinarci maggiormente alla natura,
a come i
Valar ci volevano in origine. E devo dire che a me non dispiace per
niente. In
un certo senso sebbene sia Sindar di nascita, mi sento anche un
po’ elfo
silvano, e di sicuro lo è mio figlio”.
“Ha un
figlio? Davvero? E come si chiama?” chiese incuriosito il
nano mentre toglieva
un pezzo di pane e di formaggio dalla sacca.
“Si
chiama
Legolas, è molto giovane e come ogni Elfling è
esuberante e pieno di energia.
Gli piace stare in mezzo alla natura
e
parlare con gli alberi della foresta. Lui è un elfo silvano
nello spirito,
proprio come sua madre”.
Bolin
passò
il cibo a Thrandui, che lo prese senza protestare. Non ne aveva le
forze e
inoltre sentiva di avere lo stomaco vuoto.
“Ma
lei…”
iniziò il nano.
Thranduil lo
bloccò all’istante: “Per favore, Bolin,
chiamami Thranduil e non darmi del lei.
Sono un Re, è vero, ma se non fosse per te probabilmente
sarei un Re morto, e
perciò non mi sembra il caso di sollevare queste
barriere”.
Il nano era
sconcertato e rimase immobile, fissando l’elfo. Era la prima
volta che incontrava
qualcuno che non voleva sollevare barriere. “Dicci sul
serio?”.
“Certamente”
rispose Thranduil guardandosi attorno. Poi chiese: “Di
preciso dove ci
troviamo?”.
“Nei
monti
dell’Emyn Muil”.
“Accidenti,
ci siamo allontanati da Boscoverde!”.
Bolin
sembrò
offendersi un tantino. Certamente dalla piana a Boscoverde ci sarebbe
voluto
molto di più che un paio d’ore. Thranduil si rese
conto di aver usato un tono
di voce inadeguato.
“Scusa,
Bolin, ti ringrazio davvero molto di avermi portato al sicuro, e solo
che io ho
molta fretta di raggiungere la mia casa, e i miei cari”.
“Suppongo
che tu sia stato in guerra? Vero? Ho sentito parlare dello scontro che
ci
sarebbe dovuto essere contro Sauron. Si chiama così,
giusto?”.
Thranduil
prese fiato. “Sì, ho combattuto e Sauron
è stato sconfitto anche se credo che
il male troverà altri modi per agire”.
“Il
Male”
ripetè Bolin.
“Ma la
mia
fretta nasce in primo luogo dalla necessità di mettere al
sicuro Legolas e
Wisterian, mia moglie”.
Bolin non
credeva alle sue orecchie. Perché mai un ragazzino e una
donna dovevano
trovarsi in pericolo nella loro casa. “Ma come è
possibile? Non sono al sicuro?
A casa?”.
“E’
possibile perché, vedi, dopo la morte di mio padre, io sono
il nuovo Re, se io
morissi mio figlio salirebbe al trono, ma se non ci fosse nessuno, il
trono
sarebbe libero…” spiegò
l’elfo.
Bolin, che
sapeva come si muovono i fili della vita, chiese: “Libero per
chi?”.
Un sorriso
amaro si formò sul viso di Thranduil. “Libero per
mio cugino Celeborn, che
appena ieri ha minacciato di uccidere la mia famiglia e ha poi tentato
di
uccidere me”.
“Allora,
bisogna fare qualcosa. Dobbiamo agire!” strillò il
nano.
“Per
essere
un nano, sei molto interessato ai problemi di un elfo”.
“Scusa,
non
voglio interferire, voglio solo aiutare” chiarì
Bolin.
“Secondo
me
tu non sei un nano, devi essere di qualche altra razza di cui non
sapevamo
niente”.
“Perché
mai?”.
“Sei
troppo
diverso” si giustificò Thranduil.
“Questo
è
vero! Primo non mi piacciono le grotte. Secondo non mi piace mangiare
in quantità
eccessive, come tutti gli altri nani però amo lavorare i
metalli, e … mi piace
anche l’oro. Però ho conosciuto solo nani e tutti
mi hanno sempre dato ordini,
nessuno che volesse semplicemente chiacchierare con me, e forse questo
mi rende
diverso”.
“E i
tuoi
genitori?”.
“Sono
morti,
molto tempo addietro. Talmente tanto che non me li ricordo neanche
più. Non
saprei neanche descriverteli, non mi è rimasta neanche una
foto di loro”.
Thranduil
era in silenzio, non voleva essere irrispettoso.
“E chi
ti ha
cresciuto?”.
“Un
nano che
credevo fosse una brava persona, ma che invece si è
dimostrata ignobile”.
Thranduil
era incuriosito. Bolin lo guardò è sorrise.
“Adesso riposa Re Sil… no, Re
Sind..”.
“Re di
Boscoverde” disse Thranduil “Se proprio vuoi
chiamarmi Re, va bene Re di
Boscoverde”.
Il nano lo
guardò in faccia, il Re era pallidissimo, gli occhi erano
cerchiati di grigio e
il respiro affannoso.
“Domani
chiacchiereremo un altro po’, ma ora è tempo per
tutti e due di dormire. Domani
decideremo cosa fare”.
Solitamente
Thranduil avrebbe protestato a un ordine diretto, ma in
realtà non aveva la
forza neanche di controbattere, così chiuse gli occhi e
pensando a Wisterian e
Legolas si addormentò.
La luce del
sole sarebbe arrivata da lì a poco e bisognava riposare.
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Una notte e
un giorno intero cavalcando velocissimo, come spinto dal vento e
assecondato
dal destino, Galion continuava ad avanzare senza sosta. Il suo cavallo
era
abituato a lunghe sfaticate e sarebbe trascorso ancora un giorno intero
prima
che i due si fermassero a riposare.
Galion aveva
del lembas con sé e un po’ di acqua, ma la fame
non era il primo dei suoi
pensieri. Un solo pensiero gli ronzava nella mente e cioè
quel terzo di
Boscoverde che sarebbe diventato suo. Quale parte avrebbe potuto
chiedere a
Celeborn?
La parte a
nord dell’Antica via silvana? Oppure metà della
parte meridionale? Dove avrebbe
costruito la sua casa? Sicuramente ovunque fosse non avrebbe vissuto in
una
fortezza sottoterra come aveva fatto Oropher.
Tutte queste
domande avrebbero trovato risposta con il tempo, per prima cosa
bisognava
giungere a Boscoverde. Secondo i suoi calcoli sarebbe arrivato al lato
occidentale del Bosco la mattina successiva e lì tra gli
alberi avrebbe
riposato qualche ora prima di riprendere il cammino percorrendo la
foresta
esternamente.
Tutto si
sarebbe sistemato, bisognava solo dare tempo al tempo.
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Lùth
nitrì
rumorosamente e spinse il muso sulla schiena del nano addormentato, e
continuò
fino a quando Bolin non si fu svegliato.
“Accidenti
a
te, si può sapere cosa c’è?”
chiese sbadigliando.
Lùth,
Bolin
lo vide bene anche se non volle crederci, gli nitrì contro e
poi guardò in
direzione del sole che sorgeva.
“Lo so
benissimo anche io che abbiamo fretta e prima partiamo prima arriviamo,
ma non
per questo ti spingo a colpi di testa!” lo riprese burbero.
Thranduil
aprì gli occhi e vide che il nano parlava con qualcuno,
attorno però non c’era
anima viva. “Con chi ce l’hai questa volta? Sempre
con Lùth?”.
“Con
chi?”.
“Con
il mio
cavallo. Si chiama Lùth, che significa
“incantesimo””.
Bolin si
alzò in piedi: “Incantesimo, eh…
però, hai scelto un nome impegnativo, Re di
Boscoverde”.
Thranduil
aveva gli occhi sgranati, si guardò attorno come se cercasse
qualcuno. “Si può
… sapere … con chi… stai …
parlando?”. Faceva molta fatica a parlare, e per
ogni parola era necessario che riprendesse fiato.
“Con
te”
rispose Bolin “O non è vero che sei il Re di
Boscoverde?”.
Thranduil si
fermò a pensare, la sua mente gli stava giocando brutti
scherzi, doveva subito
prendere qualche medicina per far diminuire l’infezione e far
abbassare la
temperatura. Si sentiva caldo in fronte ma aveva
freddo in tutta la persona.
“Sì,
certo
che sono il nuovo Re. Ahi…” continuò
tenendosi la spalla con il braccio sano. “Forse
però non mi sento ancora pronto per essere chiamato
così. Scusa, Bolin. E solo
che … credo che stessi cercando mio padre… mi
dispiace, davvero”.
“E va
bene,
Thranduil. Non preoccuparti, adesso dobbiamo partire, dobbiamo
raggiungere
Boscoverde”.
“No”
lo
interruppe l’elfo “Io raggiungerò
Boscoverde, tu però, se vorrai aiutarmi,
dovrai raggiungere il Lothlòrien”.
“Dove
dovrei
andare? Io ero diretto a Boscoverde… non vuoi viaggiare con
me? E poi io non ti
lascio viaggiare da solo nelle condizioni in cui ti
trovi…”.
“Aspetta”.
Thranduil prese fiato: “Se partiamo adesso in mattinata
raggiungeremo il fiume
Anduin e poi proseguiremo insieme fino al Lothlòrien, una
volta lì io
proseguirò con Lùth verso Boscoverde, mentre tu,
se vorrai ancora aiutarmi,
dovrai consegnare un messaggio alla Dama del Bosco Dorato, Dama
Galadriel. Cosa
ne pensi?”.
Bolin non si
tirò indietro. “E se non volesse
ricevermi?”.
Thranduil ci
riflettè un po’ su, era una
possibilità. Se Galadriel avesse rifiutato di
parlargli?
“Allora
dovrai tornare verso la piana e consegnare il biglietto a un altro
elfo: Gil-galad
di Imladris oppure suo figlio Elrond”.
“Gil-galad
o
Elrond di Imladris” ripetè Bolin “Sono
tuoi amici?”.
“Sono
elfi
giusti e buoni. Adesso che non c’è più
mio padre, se mio figlio dovesse restare
orfano, sarebbero gli
unici a cui lo
affiderei”.
Bolin rimase
colpito da quelle parole. Thranduil stava male, ma l’unico
pensiero che aveva
in testa era la sua famiglia.
Thranduil
guardò dentro di sé e cercò il
collegamento con Legolas, era forte, ciò
significava che non era in pericolo e che stava bene. Era ancora troppo
debole,
ma entro un paio di giorni avrebbe dovuto contattarlo di nuovo.
Bolin si
preparò, aiutò Thranduil a salire a cavallo e poi
ci salì anche lui. Lùth non
diede segni di disagio, capiva che la situazione era grave e che
avrebbe dovuto
cavalcare per un bel pezzo senza lamentarsi. Sentiva anche che il suo
amato
padrone era stanco e ferito, ma ancora di più preoccupato.
Se solo avesse
potuto fare di più! Ma di più non poteva fare,
perciò iniziò la sua cavalcata verso
l’Anduin dove avrebbe potuto dissetarsi e
dare un po’ di ristoro anche ai suoi passeggeri a cui era
rimasta soltanto una
piccola borraccia d’acqua.
E la mancanza
d’acqua si fece sentire dopo poche ore.
Thranduil, già
duramente provato, faceva
fatica a stare in sella, non si lamentava ma la vista cominciava a
farsi
appannata. I suoi sensi, sempre all’erta, non riuscivano
più a percepire
chiaramente il mondo circostante.
Bolin che sedeva
dietro Thranduil poteva sentire il calore
del corpo dell’elfo, la febbre non era diminuita,
“e come avrebbe potuto”
pensava il nano “l’infezione alla spalla non
è passata”.
Avanzarono
comunque senza sosta, e benché Bolin avesse più
volte desiderato di fermarsi per mangiare un boccone, i due avevano
concordato
che la prima sosta sarebbe stata presso il grande fiume.
E finalmente
giunsero all’Anduin. Il fiume scorreva calmo,
dopo le forti piogge anche lui desiderava un tranquillo riposo. Il
suono
dell’acqua che scorreva fu balsamo
per
le orecchie di Thranduil che sospirò ad occhi chiusi e
inspirò il profumo dei
fiori che generoso si diffondeva nell’aria.
Bolin aveva
attraversato l’Anduin solo una volta con Rhiaian
e i suoi compagni di viaggio, e
si
ritrovò a pensare che sarebbe stato bello se lo avessero
visto ora, in tutta la
sua grandezza e serenità mentre loro lo avevano conosciuto
irruento e colpito
dalla pioggia.
I due scesero da
cavallo. Thranduil era stanchissimo e in
breve si ritrovò a dormire ad occhi chiusi.
Bolin sapeva che
non era una cosa buona perché “Se
un Elfo chiusi ha chiusi gli occhi, è
trappola per allocchi”, però non
era questo il suo caso, Thranduil non fingeva e perciò
doveva star proprio
male. Bolin gli si avvicinò e gli passò la mano
davanti agli occhi, ma non
successe niente, non ci fu nessuna reazione. Allora con molta cautela
gli tolse
la camicia e le bende, e con un po’ d’acqua
ripulì la ferita.
Poi mise a
bollire l’acqua in un pentolino e dopo aver lavato
le bende le immerse nel pentolino per disinfettarle. Infine
lavò la camicia.
Quando, dopo circa due ore, lo rivestì, Thranduil si
svegliò.
“Attenzione,”
disse Bolin seriamente “ti ho appena sistemato
delle garze pulite e la camicia è messa alla bene meglio,
però sempre meglio di
niente”.
Thranduil non
aveva parole di ringraziamento per tutto quello
che Bolin stava facendo per lui, poteva solo sperare che un giorno
avrebbe
potuto ricompensarlo a dovere. Ma cosa poteva offrirgli? Gli doveva la
vita e
niente poteva essere abbastanza.
“Quando
tutto questo sarà finito, vorrei che tu prendessi in
considerazione l’idea di venire a vivere a
Boscoverde”.
Bolin era
sorpreso, il suo sguardo si rattristì e non pensò
neppure un momento che un Re elfico potesse fargli
quell’offerta seriamente.
Gli porse un bicchiere d’acqua e l’elfo lo bevette
avidamente. In quel momento
l’acqua sembrava essere la cosa più bella che
esistesse su Arda.
Prese fiato e
continuò: “Ti piacerebbe, gli alberi sono
rigogliosi e i fiori molto profumati, il cielo e limpido e, a parte
alcuni
problemi che stiamo avendo al sud della foresta, all’interno
del regno di mio
padre ci si può muovere in tutta sicurezza”.
Thranduil
sospirò, ancora una volta il ricordo di suo padre
era venuto inaspettato. Era normale parlare di Boscoverde come il Regno
di suo
padre, lui lo aveva fondato e sarebbe rimasto suo per sempre, ma era
meglio non
indugiare su argomenti tristi.
“Allora
cosa ne dici, ti piacerebbe?”.
Bolin si
massaggiò il mento con le sue grossa dita.
“Andiamo
Re Thranduil, non possiamo attardarci qui. E poi vedrai che quando
tutto sarà
sistemato, e tu sarai a casa con la tua dolce moglie e il tuo figliolo,
il nano
Bolin non sarà più nei tuoi pensieri. Ti
dimenticherai di me, e io non mi
aspetto niente di diverso”.
Thranduil
trasalì alle parole del nano. “Mai e poi mai mi
dimenticherò di te, anche se di te so veramente poco. Una
cosa la so: la
memoria degli Elfi è molto lunga”.
“Speriamo
allora che sia più lunga della vita di un nano”
affermò Bolin.
Lùth
si avvicinò al suo padrone e delicatamente gli si
strofinò accanto. Thranduil ricambiò le
tenerezze, poi prese un pezzo di
pergamena dalla sua sacca e una matita e dopo averci scritto sopra un
messaggio
lo consegnò a Bolin. Nella sua mente poteva vedere ancora
Oropher cadere, e le
gemme della spada che aveva accarezzato, tremare.
Doveva essere sicuro che il destino avesse portato via suo
padre e non
qualcos’altro. Non c’era altro modo, ma lui non
poteva tornare indietro. Aveva
bisogno dell’aiuto di qualcuno.
“Tieni,
Bolin. Questo è il messaggio che dovrai
consegnare”.
Bolin lo prese
senza aggiungere altre parole. Chinò la testa
in segno di assenso, portò il biglietto al cuore e poi se lo
mise in tasca.
Ancora una volta aiutò Thranduil a salire su Lùth
e ancora una volta il cavallo
elfico partì.
A molti
chilometri di distanza da Bolin e Thranduil, e lontano anche da Elrond
che con
il suo popolo lentamente proseguiva verso casa, i quattro nani
viaggiavano
velocemente su un carro di uomini.
Li avevano
incontrati strada facendo e questi uomini avevano acconsentito di
portarli fino
al confine meridionale di Boscoverde in cambio di un po’ di
monete d’oro.
Si erano
anche proposti di condurli oltre, ma i nani, tirchi per natura, non
vollero
sborsare altri soldi, e così quando arrivarono a Boscoverde
era già notte
inoltrata, ma non cambiarono idea e dopo aver pagato e salutato si
inoltrarono
nella foresta più grande della Terra di mezzo.
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Capitolo 7 *** Una spada in due posti? ***
Eccomi
qua, mie care lettrici e lettori…
Spero
che il capitolo vi soddisfi talmente tanto che deciderete
di lasciare impresse le vostre opinioni magari sotto forma di
“recensione”!
Non
è una richiesta, è semplicemente un forte
desiderio di conoscenza.
Ahahah!
Va
bene, i fatti si stanno sviluppando, e da ora in poi ci sarà
solo da dire: Povero Thranduil… non ci credete, continuate a
seguirmi nei
prossimi aggiornamenti e vi ricrederete!
Ora
vi auguro buona lettura.
Prima
però ringrazio tutti, ma davvero tutti, quelli che
recensiscono, leggono, inseriscono la storia tra seguite e preferite.
Miei cari
angeli silenziosi, vi abbraccio tutti.
Sindarin-Italiano
·
Elfling:
elfo giovane (fino ai 15 anni umani credo)
·
Ada:
papà
·
Fae:
anima, spirito
Haldir
immediatamente andò.
Celebrian, che aveva sentito tutto e niente, in due secondi
progettò il suo
piano: avrebbe preso giusto due cose, le avrebbe sistemate in una sacca
e
avrebbe seguito a distanza Haldir.
Se
lui poteva andare
incontro a Elrond, poteva farlo anche lei.
CAP
7
Ad
Haldir bastò un’ora per prepararsi, tuttavia Dama
Galadriel non gli aveva
ancora dato l’ordine diretto di partire. Infatti la Signora
del Bosco Dorato
era indecisa sul da farsi, ciò che lo Specchio le aveva
mostrato era piuttosto inquietante.
Se
avesse impresso la visione avuta sulla carta e il biglietto fosse
malauguratamente caduto nelle mani sbagliate avrebbe potuto creare
più disastri
della realizzazione della visione stessa.
Riferire
a voce la visione ad Haldir avrebbe significato metterlo in pericolo;
lui
certamente non si sarebbe tirato indietro, del resto aveva compiuto
missioni
più pericolose e benché non fossero ancora giunte
conferme, sentiva dentro sé
che la guerra era conclusa e dunque i pericoli per il suo amico fidato
non
erano elevati.
Decise
perciò di raccontare la sua visione.
Haldir
si presentò alla Signora del Bosco pronto per la partenza,
lei lo ringraziò per
la celerità con la quale si era preparato e con un filo di
voce, appena
percepibile all’orecchio elfico gli confidò:
“Non c’è nessun biglietto da
consegnare, amico mio, ma un messaggio da riferire. Sii cauto e astuto
e non
fallire l’obiettivo. Il sangue che vidi sulla spada era del
Signore di Imladris
Gil-galad, e la spada apparteneva al Re di Boscoverde
Oropher”.
Haldir
sgranò gli occhi per lo stupore, perdendo la maschera di
impassibilità che
normalmente indossava. Ecco spiegata la necessità che il
messaggio arrivasse a
Elrond! Non era un messaggio dalla Signora del Lothlòrien al
Signore di Imladris,
era il messaggio da un elfo con grandi poteri magici ad un altro dello
stesso
livello, poiché così Elrond veniva sempre
definito da Galadriel “un elfo che
ancora non sa di avere tanti poteri quanti ne possiedo io”.
“E’
imperativo” continuò Galadriel “che il
messaggio giunga in fretta. Non fermarti
mai e per nessun motivo. In te ripongo la mia fiducia”.
Haldir
si ricompose, salutò la sua Signora e partì. Non
sapeva, e tantomeno lo sapeva
Galadriel, che Celebrian, fatta scorta di lembas e acqua, lo stava
seguendo saltando
di ramo in ramo.
Chiaramente
poteva usufruire degli alberi fintanto che Haldir attraversava il Bosco
Dorato
e per questo motivo aveva inviato il suo cavallo, Gwaew, ai margini del
bosco.
Da lì avrebbero proseguito assieme.
Però
non aveva fatto i conti con la fretta che
sembrava essersi impossessata dell’elfo e sebbene avesse
visto la madre che
parlava con Haldir non era riuscita a sentire ciò era stato
detto.
Intanto
la luce del giorno cominciava a calare e ci si volgeva verso le prime
ore della
sera, e mentre Haldir si avvicinava a tutta velocità al
limite del Bosco
Dorato, là dove il bosco costeggia l’Anduin,
Thranduil e Bolin giungevano nella riva opposta.
La
ferita di Thranduil non sanguinava più ma
l’infezione persisteva come la
febbre. Bolin cercava di sorreggerlo ma l’elfo era troppo
pesante e perciò
spettava a Lùth cercare l’andatura più
consona affinché nessuno cascasse.
“Appena
arriveremo a destinazione ti daremo come premio una bella mela, caro
Lùth”
diceva il nano “e anche degli zuccherini, ma solo se ti
comporti bene. Vero Re di
Boscoverde?” .
“Mh…”
rispose il Re.
“Già…”
aggiunse pensieroso Bolin.
Gli
accordi erano che raggiunto il punto stabilito, Thranduil e
Lùth proseguissero verso
Boscoverde e Bolin si dirigesse a piedi verso il Lothlòrien,
il quale si poteva
già vedere dalla loro posizione.
Ma
il Re di Boscoverde era proprio al limite delle sue forze. Come avrebbe
fatto a
cavarsela da solo in mezzo alla foresta? Come avrebbe raggiunto la sua
fortezza? Sarebbe riuscito a salvare sua moglie e suo figlio?
Bolin
si massaggiava la barba osservando gli alberi verdi di quello che per
lui
poteva essere qualsiasi cosa.
“Thranduil,
è quello Boscoverde?”.
Thranduil
si drizzò e, guardando gli alberi che sembrano pronti al
riposo con il calar
della notte, sorrise e disse: “No, mio caro Bolin. Questo
è il Lothlòrien”.
“Già…”.
Il
Re di Boscoverde gliene aveva parlato durante tutto il viaggio a
cavallo, o
almeno mentre era stato vigile, si trattava di un luogo fatato, dove il
tempo
scorreva in modo diverso che altrove e il male non penetrava in esso,
poiché un
grande potere lo proteggeva.
Sarebbe
stato bello fermarsi là un pochettino, e
vivere la sensazione che il tempo scorresse secondo leggi
diverse da
quelle conosciute.
“Ma
secondo te, in questo Lothlòrien si può anche
tornare indietro nel tempo?”.
Appena
Bolin fece la domanda si accorse che era una stupidaggine,
però non era
riuscito a trattenersi dal porla tale era il suo desiderio di cambiare
il
proprio passato.
Thranduil
sapeva che era impossibile, altrimenti avrebbe subito approfittato di
quell’opportunità per salvare suo padre, ma aveva
sentito nella voce roca del
nano un filo di speranza e anche di disincanto e non voleva in alcun
modo
essere brusco.
“No-non
credo… sia possibile… purtroppo”.
“Già…”
constatò il nano.
Thranduil
sospirò, mal celando la sua noia, e per alleggerire il
momento domandò: “E’
tipico dei nani dire sempre –già-?”.
Bolin
arrossì di vergogna. Che bisogno c’era di mettere
in evidenza questo suo
piccolo difetto “personale”?
“Penso
di no” rispose acidamente.
Thranduil
capì che non aveva migliorato la situazione, adesso invece
di sentirsi giù di
corda, Bolin era adirato, cercò comunque di salvare il
salvabile.
“No,
perché tu lo dici sempre…”
tentò di spiegare al nano, i cui peli della barba
cominciavano a rizzarsi dal nervoso.
“Così
io lo direi sempre?”.
“Sì,
diciamo che lo dici spesso”.
Ancora
una volta Bolin non si trattenne: “E
già”.
Thranduil
rimase immobile sul cavallo, convinto che anche un piccolo spostamento
avrebbe
rivelato che stava per scoppiare dal ridere.
Anche
il nano si accorse della situazione e, colpendo la testa del Re con la
propria
mano, rise contagiando anche l’altro che finalmente si
lasciò andare.
Poi
entrambi divennero seri. Il Lothlòrien era alla loro
sinistra, Thranduil indicò
a Bolin la sua destra. “Quello è il mio Regno. Il
Regno che fu di mio padre e,
che se i Valar lo consentiranno, sarà di mio
figlio”.
Bolin,
la cui visuale era coperta dalla schiena del Re, si piegò di
lato e vide
Boscoverde in tutta la sua grandezza.
“Dunque
siamo arrivati al momento della separazione” disse Thranduil.
Bolin
era agitato. “Non vorrai mica che ci separiamo adesso?! Ti
rendi conto che sei
ferito, che hai la febbre, potrebbe succederti qualsiasi
cosa…”.
Thranduil
scosse la testa. “Non mi succederà nulla. Appena
giungerò a Boscoverde, la
foresta mi aiuterà a guarire. Per me è meglio
andare piuttosto che restare qui.
Tu però devi raggiungere Dama Galadriel”.
Bolin,
con suo grande stupore acconsentì. Doveva andare, si erano
messi d’accordo, lui
voleva aiutare Thranduil e doveva pareggiare i conti. Di quali conti ne
avrebbero discusso in seguito, quando Bolin avrebbe avuto il coraggio
di
parlarne, se mai ne avesse avuto il coraggio.
“Allora
ci lasciamo qui” concluse Bolin “Spero che questa
Dama mi ascolti”.
Dunque
scese dal cavallo e accarezzò Lùth. “Mi
raccomando, stai attento al tuo
padrone”.
Lùth
nitrì e strofinò il suo muso nella testa del
nano. “Però!” esclamò Bolin:
“Sei
proprio simpatico!”.
“Ricordati
del mio invito, Bolin. Se non dovessi venire, verrò a
cercarti”.
“Già…”.
Thranduil
sollevò gli occhi al cielo. “Già
…” disse anche lui sorridendo.
“Bene,
io vado”.
“Attraversa
il fiume qui, che l’acqua è bassa, poi dopo al
massimo un’ora di camminata
raggiungerai il Bosco dorato. Sicuramente ci saranno degli elfi al
confine,
chiedi a loro il
permesso di incontrare
la signora del Bosco”.
Bolin
ascoltava attentamente, vedeva che Thranduil era stanco, che non era
sicuro di
farcela ma che non aveva alternativa, che doveva provare ad andare
avanti
nonostante la spalla gli facesse sempre più male, nonostante
non riuscisse a
stare in equilibrio e stesse iniziando a chiudere gli occhi. Il suo
viaggio
verso casa era faticoso ma non si sarebbe fermato, e lui non lo avrebbe
deluso.
I
due infine si salutarono e le loro strade
si separarono.
Glorfindel
era sempre stato un elfo molto attivo, praticamente incapace di restare
fermo
più di due minuti e anche ora manteneva alta la sua
reputazione aiutando chiunque
poteva, dando anche una mano coi cavalli e facendo tutto ciò
che era utile.
Ancora
una volta gli elfi si erano dovuti fermare per assistere qualche malato
e dar
loro un po’ di conforto; Glorfindel si guardò
attorno, vide la stanchezza
diffondersi tra i suoi amici e compagni, il viaggio proseguiva
lentamente, ma
nessuno se ne lamentava apertamente.
Elrond
apprezzava la pazienza del suo popolo ed egli stesso ne era
testimonianza.
“Siamo
indietro nel viaggio rispetto ai nostri programmi”
constatò Glorfindel.
Elrond
sospirò. “In effetti avremmo già dovuto
raggiungere il Lothlòrien, ma non ne
siamo troppo lontani”.
“Credo
che ci vorrà almeno un altro giorno” fece
l’altro.
Elrond
lo guardò con occhi perplessi.
“Un
giorno senza soste, intendo” specificò allora il
guerriero.
“E
questo è praticamente un sogno, amico mio. Occorre fare
almeno due brevi soste
al giorno, senza tener conto degli imprevisti che si possono
verificare. E’ il
minimo”.
Glorfindel
riprese a parlare, calcolando ad alta voce le distanze, le varie tappe,
il
tempo che avrebbero impiegato fino a quando si rese conto che Elrond
non gli
prestava più attenzione.
“Elrond,
mi senti?” chiese allora guardando il figlio del suo amico
più caro.
Ma
Elrond non sentì, era immobile, e respirava pianissimo a
bocca aperta.
Glorfindel gli fu accanto in un attimo e gli posò una mano
sulla spalla.
“Ehi,
tutto bene?” riprovò il guerriero.
Lo
sguardo di Elrond era puntato verso il basso, sulla nuda terra, dove
non c’era
niente da osservare ma Glorfindel capì a cosa stava
assistendo: Elrond stava
avendo una premonizione. In quel momento si pentì di aver
creato un contatto
con l’amico poggiandogli sopra la mano perché
sapeva bene che in tali
situazioni era necessario non essere disturbati, la mente
dell’elfo doveva
essere libera da qualsiasi pressione.
Ormai
il gioco era fatto e perciò Glorfindel attese immobile fino
a quando Elrond non
si scosse e prese fiato nuovamente piegandosi sulle ginocchia e
contemporaneamente stringendo il braccio dell’amico.
“Elrond,
cosa hai visto?” domandò serio il guerriero.
Elrond
piegato in avanti tossì e tossì ancora,
l’aria di cui aveva tanto bisogno e che
sembrava essergli mancata durante tutta la visione sembrava non volesse
più
arrivargli ai polmoni. Glorfindel lo aiutò a sollevare il
petto e
posizionandosi dietro l’elfo più giovane gli tenne
la fronte con la mano mentre
questo riprendeva fiato.
Una
volta che si fu calmato, Elrond rispose: “Come hai
già certamente intuito ho
avuto una premonizione, ma Glorfindel, quanto vorrei che fosse solo la
stanchezza, o la mia ansia, ad
avermi
fatto vedere ciò che ho visto”.
Glorfindel
era più curioso che mai. “E’ qualcosa
che puoi dirmi?”.
“Solo
se mi prometti che se non si dovesse avverare, mio padre non
verrà mai a
saperlo”.
L’elfo
non era molto favorevole a questa condizione ma sapeva anche che tanto
in un
modo o nell’altro prima o poi Gil-galad l’avrebbe
scoperto da sé. “Va bene”
rispose.
“Ho
visto lo stemma di Imladris coperto
di
sangue e di foglie secche. E ho sentito urlare, un urlo disperato e
prolungato…”.
Glorfindel
si accigliò, non era la prima visione che Elrond aveva avuto
nella sua vita e,
benché ciò che vedeva andasse sempre
interpretato, tutte le sue premonizioni si
erano sempre avverate.
“Glorfindel,
cosa vuol dire tutto questo?” domandò con voce
tremante. “Tu pensi che mio
padre sia in pericolo, o che il male segua il nostro popolo lungo la
strada di
casa?”.
“Secondo
me significa solo che sei stanco
e visto
e considerato che lo sarai ancora per un bel po’ ti consiglio
di non dare
troppo peso a ciò che hai visto”.
Glorfindel
mentiva, spudoratamente ed Elrond lo sapeva. Era consapevole che
l’amico stava
facendo il possibile per tranquillizzarlo, ma lui conosceva bene i suoi
poteri
e sentiva che l’anello che ora portava in tasca stava
amplificandoli, e
rafforzandoli.
Istintivamente
si tolse l’anello di tasca e lo tenne fra le dita. Glorfindel
lo riconobbe
subito, Gil-galad gliene aveva parlato e spiegato i poteri, vederlo in
mano a
Elrond poneva questioni importanti e urgenti.
“Come
mai lo hai tu?” chiese pacatamente.
“Me
lo ha dato mio padre, temeva che se gli fosse accaduto qualcosa
l’anello
sarebbe potuto finire in mani sbagliate”.
“Nelle
mani
di Celeborn”
pensò Glorfindel. Se Gil-galad aveva dato l’anello
al figlio
significava che credeva nella possibilità di non poter
più tornare a casa.
Glorfindel guardò Elrond e forse per la prima volta lo vide
con occhi nuovi.
Quello
che si trovava davanti, era sì un giovane elfo e come tutti
aveva bisogno di sostegno,
ma era soprattutto il suo nuovo Signore, il Signore di tutto il popolo
di
Imladris, un guerriero, un guaritore, un grande elfo con il dono della
preveggenza e la consapevolezza di dover e di poter guidare la sua
gente.
“Perché
dovrebbe accadergli qualcosa? Teme forse Thranduil?”.
Elrond
sorrise e puntando l’indice al viso di Glorfindel gli disse:
“Non sarebbe
meglio, almeno fra di noi, dire sempre ciò che si pensa? Ci
eviterebbe un sacco
di giri di parole”.
Glorfindel
spostò il dito di Elrond dal suo viso e offrendogli uno
sguardo compiaciuto
disse: “Allora, Elrond Gil-galadion, perché tuo
padre teme Celeborn?”.
Elrond
divenne serio e a voce bassa ma chiara spiegò:
“Perché potrebbe essere la causa
della fuga di Thranduil e forse di un grave
tradimento…”
“Tradimento?”
domandò il guerriero.
“Sì,
il tradimento che portò alla morte di Re Oropher”.
Glorfindel
era sconvolto, era un’accusa molto seria, certamente non
fatta con leggerezza.
Si portò le mani ai capelli e immediatamente disse:
“Devo andare a cercare
Gil-galad. Lo devo trovare. Celeborn aveva con sé due elfi
e…”.
“No,”
lo fermò Elrond “se mio padre ti avesse voluto con
lui, ti avrebbe chiesto di andare”.
Glorfindel
si sentì il sangue ribollire nelle vene: “Mi stai
dicendo che lui non mi voleva
attorno, io sono il suo migliore amico e…”.
“…
e forse per questo ha voluto che restassi con me” concluse
Elrond con uno
sguardo triste “Forse ha giudicato più importante
la mia sicurezza rispetto
alla sua, forse ha sbagliato…”.
“No,
perdonami Elrond” lo interruppe Glorfindel strofinandosi il
viso con le mani
callose. “Hai ragione tu, tuo padre mi voleva con te. E aveva
ragione lui, tu
sei molto importante. Non te accorgi ma sei molto più forte
e potente di quanto
credi, o forse stai cominciando a capirlo proprio in questi
giorni”.
Elrond
non rispose niente a quelle
affermazioni, troppo grande era l’elfo che aveva di fronte a
sé per ergersi
come nuovo Signore o come grande elfo, inoltre il Signore di Imladris, suo padre,
era vivo e sperava lo
sarebbe stato ancora per molti e molti secoli.
Celebrian
saltò di ramo in ramo, di albero in albero più
velocemente che poté, ma non riuscì
a tenere il passo di Haldir, che a cavallo e di fretta era praticamente
irraggiungibile.
Riuscì
però a raggiungere il confine del Bosco Dorato e senza
più fiato si fermò a
riposare su un ramo. Cosa avrebbe fatto ora? Sarebbe tornata indietro
dalla madre
oppure avrebbe proseguito a cavallo?
Uscire
da sola, oltre il bosco conosciuto, era piuttosto pericoloso, e lei
aveva
sempre avuto una scorta o quantomeno compagnia. Da una parte
c’era la sua casa,
dall’altra il suo amore.
Ah
… se solo avesse ricevuto un qualche messaggio da Elrond,
forse le sarebbe
bastato o forse no. Lei doveva parlargli, doveva raccontargli di
ciò che era
successo, di ciò di cui si era resa conto in sua assenza e
di cui non aveva
parlato a nessuno. Era un segreto, un bel segreto che però
non riusciva più a
nascondere.
La
sua avventatezza avrebbe potuto compromettere la situazione ma in fondo
si
sarebbe trattato solo di uno o due giorni di viaggio a cavallo.
Sicuramente gli
eserciti stavano tornando a casa.
Una
lacrima scese sul viso della giovane. Cosa sarebbe accaduto se le fosse
successo qualcosa? Quale angoscia avrebbe dovuto vivere Elrond? E se
fosse
svanito?
Celebrian
era quasi decisa a tornare indietro quando sentì un gruppo
di elfi a cavallo:
erano la pattuglia di confine e sembrava si stessero dirigendo verso un
elfling. Celebrian guardò con più attenzione, non
si trattava di un elfling ma
di un nano!
La
giovane avanzò ancora fino a che non riuscì ad
essere abbastanza vicina per
sentire ciò che veniva detto.
“In
nome della Signora e del Signore del Bosco Dorato vi ordino di
fermarvi!”.
Il
nano si fermò.
“Di
grazia, mi chiamo Bolin e chiedo il permesso di incontrare la Dama del
Bosco
Galadriel”.
Gli
elfi risero.
“L’ingresso
al Bosco è concesso solo agli elfi, nessun altro,
né umano, né nano, né altra
specie può entrare. La preghiamo dunque di tornare
indietro”.
Bolin
sbuffò. “Senta, gentilissimo elfo, io devo
assolutamente incontrare la vostra
Signora. Ho un messaggio per lei da parte del Re di
Boscoverde”.
“Ma
davvero?” chiesero increduli gli elfi. “Noi
sappiamo per certo che il Re di
Boscoverde, Oropher, non ha grande simpatia per la tua specie.
Perché mai
avrebbe consegnato a te un messaggio per la nostra Signora, quando ha
un
esercito completo a sua disposizione”.
“Oh,
ma io non mi riferisco a Re Oropher, il quale in caso non lo sappiate
è morto
in battaglia. Io parlo di Re Thranduil di Boscoverde”.
Gli
elfi ebbero un sussulto nel sentire della presunta morte di Oropher, si
guardarono in faccia sbigottiti. “Ciò non cambia
la situazione. Se lei non è un
elfo non può entrare. Ora, gentilmente, dovrebbe tornare sui
suoi passi” disse
sfilando una freccia dalla faretra e tenendola in mano.
Bolin
non si stupì della situazione, lui e Thranduil avevano
previsto questa
possibilità, e comunque non c’era tempo da perdere.
“Allora
vorrà dire che andrò incontro al Signore di
Imladris, forse gli elfi di quel
Regno sono più socievoli di voi” sbottò
e girati i tacchi se ne andò.
Celebrian
non poté credere a ciò che aveva sentito, questo
nano andava incontro all’esercito
di Imladris. Doveva seguirlo, se davvero Oropher era morto e il nano
conosceva
Thranduil probabilmente ci si poteva fidare.
Aspettò
che la pattuglia si allontanasse, poi
fischiò e poco dopo giunse Gwaew. Montò a cavallo
e al trotto prese la strada
già percorsa da Bolin.
Era
buio ormai Celeborn riposava nel vecchio castello di Dol-Guldur. I suoi
uomini
stavano girovagando là attorno, la foresta sembrava
soffrire. Gli alberi
bisbigliavano tra loro parole che soltanto alcuni elfi Silvan e la
famiglia
reale di Boscoverde potevano capire.
Gil-galad
si svegliò dopo aver dormito un paio d’ore.
Sognò Thranduil che era fuggito
ferito e Elrond che
aspettava il suo
ritorno.
Ma
una volta sveglio aveva sempre in mente Celeborn che controllava
scrupolosamente
il suo bagaglio. Decise perciò di scoprire cosa nascondeva
il Signore del
Lothlòrien.
Silenziosamente
scese dall’albero e si avviò verso i cavalli.
Erano tutti tranquilli, la notte
era stellata e serena, non si sentiva un solo rumore.
Gil-galad
riconobbe subito il suo cavallo e lo accarezzò dolcemente,
poi si avvicinò a
quello di Celeborn e iniziò ad osservare ciò che
portava addosso finché
qualcosa attirò la sua attenzione.
Si
trattava di qualcosa di lungo avvolto in una tela pesante. Gil-galad si
guardò
attorno, non vide nessuno e allora sciolse i laccetti e
srotolò la tela. Ciò che
vide lo lasciò senza fiato: la spada di Oropher brillava,
anche al buio, in
tutta la sua bellezza.
Gil-galad
si guardò attorno ancora una volta, e ancora una volta non
vide nessuno.
Osservò la spada. Perché Celeborn
l’aveva con sé? Lui era sicurissimo di averla
deposta nel sepolcro di Oropher, di avergliela vista sistemata sul
petto. Come
era possibile?
Se
era qui, questa era la prova che Celeborn stava complottando qualcosa.
Subito
cominciò a riavvolgerla quando
una voce
lo fece trasalire.
“Gil-galad,
perché tanta fretta? Prendi pure tutto il tempo che vuoi per
osservarla. Non
trovi anche tu che sia bellissima?”.
Gil-galad
strizzò gli occhi per vedere meglio, ma non c’era
bisogno di vedere per
riconoscere a chi apparteneva la voce. “Celeborn,”
disse prendendo in mano la
spada “perché hai con te la spada di Oropher? Come
è possibile che sia qui,
quando l’abbiamo deposta sul petto del suo
proprietario?”.
Celeborn
fece un passo in avanti e contemporaneamente i suoi due uomini
raggiunsero
Gil-galad alle spalle e puntarono i loro coltelli alla gola del Signore
di
Imladris.
“Ah,
mio caro Gil-galad, hai perso un po’ della tua
velocità. A forza di stare con
mezzi-elfi hai finito per diventare più debole”.
“Non
credevo di dovermi difendere da te”.
“Oh,
suvvia! Non essere così falso!” sputò
di rabbia Celeborn “Hai sempre saputo di
doverti difendere da me, da quando hai adottato quella feccia di tuo
figlio …
mi fa schifo soltanto pronunciare quella parola. Secondo te, dovrei
lasciare
che gli umani contamino il nostro mondo?”.
“Cosa
c’entra questo con la spada di Oropher? Con
Thranduil?”.
“Ognuno
di voi, ciascuno a modo proprio, ha cercato di umiliarmi. Quei due
volevano un
Regno più grande del mio, e se lo sono presi. Io e mia
moglie abbiamo avuto una
figlia femmina, e tu ti sei adottato un bastardo sì, ma un
maschio”.
Gil-galad
era incredulo. “Ma cosa stai dicendo? Celebrian è
intelligente, bellissima,
dovresti essere fiero di lei”.
“Lo
sono, ma non è il maschio che avrei voluto”
sbottò lui.
“Maschio
o femmina che differenza fa?”.
“Tu
però ti sei scelto un maschio!”.
“Io
ho preso con me un elfling spaventato dagli orrori visti, piangeva sul
corpo
della madre, mentre quello del padre lo fissava con occhi aperti ma
ormai
spenti. Ho preso un piccolo elfo, un mezzo-elfo, è vero, che
accettò solo la
mia mano tesa, fra tutte quelle che cercarono di aiutarlo. Lo strinsi a
me e
per un giorno intero non si volle staccare dal mio petto, e quando lo
fece fu
solo per chiedermi se ero il suo nuovo Ada.
Cosa avrei dovuto rispondergli? Avrei dovuto rifiutarlo?
No, non potei
farlo e non me ne pentì mai, e mai lo
farò”.
“Commovente”
lo sbeffeggiò Celeborn.
I
suoi uomini sfilarono la spada di Oropher dalle mani di Gil-galad e la
passarono a Celeborn.
Egli
la tenne in mano, la guardò con lussuria.
“Tu
desideri Boscoverde, vero? E per questo che vuoi la spada?”
chiese Gil-galad.
“Io,”
rispose freddamente l’elfo “desidero il
potere” e detto ciò infilò la spada
nello stomaco del Signore di Imladris.
Gil-galad
gemette di dolore e cadde a terra mentre Celeborn gli sfilava la spada
dallo
stomaco e ne ripuliva la lama sulle vesti della sua vittima. Poi
avvicinò la
lama agli occhi di Gil-galad e gli disse: “Una spada non
può essere nello
stesso posto in due momenti”.
Gil-galad
boccheggiò con la bocca piena di sangue e come
poté disse: “Allora ci devono
essere due spade”.
“Intelligente”
rispose Celeborn. “Peccato che la tua scoperta non
sarà di nessuna utilità, perché
resterà tra te e le stelle”.
Appena
Celeborn si voltò, Gil-galad con le sue ultime forze
cercò di mettersi a sedere
e agganciargli una gamba ma
uno degli elfi del
Lothlòrien tentò di
bloccarlo chinandosi e mettendo un ginocchio sulla mano del ferito.
Celeborn
non si accorse di lui e voltandosi infilzò chi credeva fosse
il suo nemico,
uccidendolo sul colpo davanti a Gil-galad.
“Cosa
hai fatto?” chiese allora l’altro elfo del
Lothlòrien.
Celeborn
non si scompose. “Adesso la parte che ti spetta è
più sostanziosa.
Seppelliscilo e poi andiamo”.
L’elfo
prese il suo compagno ormai morto e lo portò via.
Gil-galad
era ancora vivo, gravemente ferito, ma vivo. “Non
può bastarti”.
“Che
cosa?” chiese Celeborn, chinandosi e sfilando i guanti dalle
mani di Gil-galad.
“Non
può bastarti il potere per vivere, non può
bastare a nessuno” disse e poi tutto
divenne nero ai suoi occhi, le sue orecchie non sentivano
più, ma la sua fae era
ancora in lui, sebbene alla
vista sembrava l’avesse abbandonato.
Celeborn
cercò l’anello del potere di Gil-galad, ma le sue
dita erano spoglie, niente le
adornava. Solo il segno dell’anello mancante formava un
perfetto cerchio nel
suo dito indice.
L’urlo
di rabbia che lanciò Celeborn fu tale che anche i Valar lo
sentirono.
|
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Capitolo 8 *** Messaggi arrivati ***
Ciao! Eccovi
un altro capitolo!
Io cerco di
non scoraggiarmi, anche se devo dire che un po’ mi state
mettendo alla prova.
Se volete, se gradite ecc… alla fine del capitolo potete
lasciare una
recensione per dire tutto quello che volete (nel limite
dell’educazione,
grazie).
Dizionario
Sindarin-Italiano
Fae:
anima, spirito
Elfling:
elfo giovane
(non più di 15 anni umani)
Mae
govannen: Ben
arrivato
Celeborn
cercò l’anello del potere di Gil-galad, ma le sue
dita erano spoglie, niente le
adornava. Solo il segno dell’anello mancante formava un
perfetto cerchio nel
suo dito indice.
L’urlo
di rabbia che lanciò Celeborn fu tale che anche i Valar lo
sentirono.
CAP
8
“Dobbiamo
aiutarlo!”.
“Sbrighiamoci!”.
“Non
può
resistere a lungo, se non facciamo qualcosa!”.
“Non
è il
nostro signore! Non ci riguarda!”.
“E’
un elfo,
e dalla forza che emana la sua fae deve
trattarsi di un grande elfo”.
“Non
abbiamo
nessun legame con lui”.
“Il
nostro
Re pose una maledizione sull’altro, noi dobbiamo ostacolarlo
e salvare lui, che
invece tentò di combatterlo!”.
“Dobbiamo
essere fedeli al nostro Re!”.
Così
discorrevano gli alberi secolari del maestoso Boscoverde
il Grande. Gil-galad era ferito gravemente, ma forse per lui
c’era ancora
qualche speranza.
Era mattina
presto quando Bolin si ritrovò sulla riva
dell’Anduin. I fiumi gli piacevano ma
cominciava a stancarsi di questo in particolare.
Attraversarlo
con la pioggia, senza la pioggia, di sera, la mattina non faceva
differenza, in
ogni modo si sarebbe bagnato e sarebbe rimasto in ammollo a lungo e
l’umidità sarebbe
penetrata nelle sue ossa facendolo
sentire vecchio come quel vecchio nano che quando era lui era piccolo
gli
raccontava le sue avventure nelle grotte sotto i mari, dove per andare
bisognava salire su una barchetta e sdraiarcisi dentro mentre questa
entrava
nel grande buco sott’acqua. Una volta entrati il soffitto
della grotta
diventava più alto e si poteva godere uno spettacolo
meraviglioso di stalattiti
e stalagmiti.
Ma qui non
c’erano meraviglie da osservare, a parte il fiume in
sé, e inoltre Bolin non
riusciva a comprendere quando profondo potesse essere il fiume, se era
prudente
attraversarlo in quel punto o se dovesse andare più avanti.
Quando a un
certo punto, “Buongiorno, buon nano”
strillò una voce poco distante facendo
sobbalzare e cadere di spalle nel fiume.
Bolin
cominciò ad annaspare, il respiro gli venne meno, sentiva
che l’acqua iniziava
a coprirgli il viso e le gambe sbattevano ferocemente per restare a
galla.
“Si
calmi,”
continuò la voce ridendo “non si è
accorto di essere proprio sulla riva?”.
Bolin si
fermò, le gambe avevano sbattuto contro i ciottoli della
sponda del fiume e
l’acqua che gli arrivava in faccia la stava sollevando lui
stesso a forza di
muoversi in maniera forsennata.
La ragazza-elfo
scese da cavallo e gli allungò una mano in segno
d’aiuto. Egli la tenne e, rosso
in viso, disse: “Me ne ero accorto. Ma grazie lo stesso,
signora elfo”.
La
ragazza-elfo rise ancora.
“Signorina-elfo…”
si corresse Bolin facendola ridere ancora di più.
“Signora
elfica…” ritentò.
“Va
bene, va
bene tutto. Ma lei mi può chiamare Celebrian, e per favore
diamoci del tu visto
che dovremmo fare un pezzo di strada assieme”.
“Come
sarebbe?” chiese lui. “Che ne
sai
dove sto andando?”.
“Ho
sentito
che parlavi con degli elfi ieri notte e hai detto loro che saresti
andato
incontro all’esercito di Imladris. Bene, ci sto andando anche
io”.
“Io
viaggio
da solo” disse lui fieramente.
Lei
però era
molto furba. “Io, no; viaggio
con il mio
cavallo”.
Eh
sì, un
cavallo sarebbe stato molto utile, però era appunto uno, non
due.
Celebrian
capì a cosa stava pensando il nano.
“Però assieme a me può portare anche un
nano”.
“Se io
fossi
una ragazza elfica non mi fiderei del primo nano che incontro per la
strada”.
Lei
sospirò:
“Non lo farei neanche io, ma hai detto di dover raggiungere
il Signore di
Imladris”.
“Esattamente,
il signor Gil-galad o il signor Elrond” spiegò lui
compiaciuto “Ho una missione
da compiere”.
“Bhè,
si dia
il caso che sono rispettivamente mio suocero e il mio compagno, e se
fossi in
te non direi alla prima ragazza elfica che incontro con chi devo
parlare e
quale ne è il motivo” ribatté con un
pizzico di astuzia negli occhi.
“Bhè”
pensò Bolin “Almeno
avrò qualcuno con cui parlare”.
“Vorrà
dire
che continuerò il viaggio con un altro elfo” disse
rassegnato. “Ah …
dimenticavo, chiamami pure Bolin”.
Celebrian
sorrise, era stato molto facile trovare un po’ di
compagnia per il viaggio, sperava di non doversene pentire, ma la
sensazione
che provava nei confronti di Bolin le faceva dire che era un buon nano.
Thranduil
era felice che il suo fosse un cavallo ubbidiente, era bastato che gli
dicesse:
“Portami a Boscoverde” che Lùth lo aveva
accontentato.
Per primo
avevano costeggiato l’Anduin, le cui sponde erano fiorite e i
cui pesci e erano
abbondanti, poi il cavallo, di testa sua, aveva tagliato dritto per la
foresta
di casa.
Gli alberi
erano in festa e parlavano della nascita di un nuovo principe, che si
diceva
avrebbe avuto molta più affinità con la natura
rispetto a suo padre e suo nonno
perché per metà era un Silvan.
Thranduil
ascoltava con interesse chiedendosi di cosa mai stessero parlando gli
alberi,
quando da lontano qualcuno lo salutò e prese a venirgli
incontro.
Inizialmente
non lo riconobbe ma poi il suo viso divenne inconfondibile.
“Padre,
cosa
ci fai qui?”.
Oropher gli
sorrise ma non aprì bocca.
“Dovresti
essere morto”.
Il Re
sospirò. Allora Thranduil lo invitò ad andare con
lui, ma Oropher gli fece
cenno di no. Poi con voce amorevole chiese: “Figlio mio,
perché sei qui?”.
“Questo
è
Boscoverde, è il nostro regno” spiegò
lui “Dove dovrei essere?”.
Oropher lo
guardò con compassione. Troppo grande era il peso che aveva
lasciato sulle
spalle del figlio, ma non aveva avuto scelta.
“Questo
è il
Boscoverde del passato, di quanto tu e Wisterian eravate uniti e
nasceva il
piccolo Legolas, di quando io piangevo di gioia. Questo Boscoverde
è quello che
porti nel cuore…”.
Thranduil
era stordito, cosa stava succedendo?
“Ma tu
sei
qui…” disse a mezza voce.
Oropher
allargò le braccia per accogliere in sé il figlio
e lasciandosi andare domandò:
“E dove dovrei essere se non nel cuore di chi mi
ama?”.
“Oh,
padre…”
sussurrò Thranduil facendosi avvolgere da quelle braccia
forti ma delicate. Fu
un attimo e quelle braccia non c’erano più.
Thranduil
aprì gli occhi di scatto e fu
investito da un dolore lancinante.
La
ferita nella spalla si era riaperta a causa del continuo sbattere sul
collo del
cavallo, sul quale egli aveva praticamente dormito durante tutto il
viaggio.
Il sangue
della spalla si era asciugato e il liquido giallastro
dell’infezione faceva da
collante tra tessuto e pelle. Dovevano fermarsi e riposare. Thranduil
pensava a
dove poter sostare quando si accorse che Lùth non stava
percorrendo la strada
che attraversavano in caso di emergenza.
Gli alberi
della foresta erano in fermento e non solo per l’arrivo del
Re ferito, parlavano
di un grande elfo che stava morendo e Lùth lo portava
proprio da lui. Thranduil
chiuse gli occhi, Lùth andava al trotto, ma al suo cavaliere
sembrava che
stesse andando ancora più lentamente.
Ogni piccolo
passo, ogni sassolino, veniva percepito come una grande fatica. Un
sasso e il
fiato veniva meno, una radice troppo sporgente e un forte senso di
nausea
invadeva il suo corpo. Thranduil strinse i denti e senza avere la forza
di
controllarsi iniziò a singhiozzare.
“Padre,
padre …”, queste erano le uniche parole che
riuscì a pronunciare prima di
svenire nuovamente.
Arrivati a
Dol Guldur, Thranduil era ancora svenuto. Qualcuno gli si
avvicinò e lo aiutò a
scendere da cavallo, lo sdraiò per terra e, dopo averlo
spogliato della
camicia, esaminò la ferita. La cicatrizzazione era stata
interrotta più volte, e
attorno al taglio aveva chiazze viola e gialle. Gli elfi guarivano
velocemente
però potevano morire a causa delle infezioni.
Senza
pensarci due volte, qualcuno prese un coltello, ne riscaldò
la lama per
disinfettarla e poi riaprì la ferita. Thranduil si
svegliò di soprassalto e
urlò dal dolore, era come se lo stomaco gli stesse salendo
su per la gola e poi
si riabbassasse bruscamente.
Aveva voglia
di vomitare ma era da un po’ che non mangiava e non
c’era niente da buttar
fuori, la testa gli girava e con essa tutto il mondo circostante, poi
sentì
qualcuno tenergli la testa in basso spingendogli la fronte e cercando
di
rassicurarlo che tutto stava andando per il meglio.
Thranduil
aveva gli occhi sbarrati, davanti a sé c’era una
persona, ma non riusciva a capire
chi potesse essere poiché questa indossava un cappuccio.
Si
sentì
premere sulla ferita con il palmo della mano, probabilmente il suo
aiutante
misterioso stava facendo fuoriuscire tutto il pus e, quando il sangue
fu rosso
vivo, riscaldo nuovamente la lama del coltello e gliela
appoggiò sulla ferita
chiudendogliela.
Ancora una
volta Thranduil urlò, una mano gli stava accarezzando i
capelli nel tentativo
di calmarlo, la foresta attorno a sé era in fibrillazione;
la figura che aveva
innanzi si alzò in piedi.
“Aspetta.
Chi sei? Fatti riconoscere” disse il Re di Boscoverde con la
bocca impastata,
ma non ottenne nessuna risposta e anche se la ottenne non la seppe mai
perché
in breve perse coscienza.
Poco dopo,
però, si svegliò di soprassalto.
Boccheggiò un po’ per l’aria quando gli
vennero i connati di vomito a vuoto. In fretta si girò di
lato e cercò di
assecondare il suo corpo, ma era molto doloroso. Sentì una
mano tenergli la
fronte e allontanargli i lunghi capelli biondi dalla bocca.
“Tuo
padre
non vorrebbe che ti sporcassi i capelli in questo modo” disse
lentamente un
elfo dai capelli neri.
“Elrond!”
esclamò Thranduil cercando di mettere a fuoco
l’immagine di chi aveva innanzi.
“Ah,
no…
fortunatamente per lui, no” rispose piegandosi su se stesso.
Thranduil si
mise seduto e osservò meglio l’elfo. I capelli
neri lo aveva indotto
all’errore, si trattava di Gil-galad. Ma cosa ci facesse a
Dol-Guldur proprio
non riusciva a immaginarlo. Poi il suo viso si posò sullo
stomaco del Signore
di Imladris, e subito notò la sua ferita.
“Chi
è
stato?” chiese mordendosi le labbra dal dolore.
“Lo
sai. E
lo sapeva bene anche Elrond, che mi mise in guardia dicendomi di non
fidarmi
di- di lui”.
“Celeborn”
concluse Thranduil.
“Sì.
Thranduil ti devo le mie scuse, se ho dubitato di te, ma sappi
…Gil-galad si
dovette interrompere, parlare era molto pesante e il fiato veniva meno
sempre
più in fretta, ” sappi che Elrond ha sempre
creduto in te…”.
“Grazie.
Ma
non devi scusarti. Adesso riposa, poi ti porterò alla
fortezza, non ci sarà Elrond
ma … ah!” il dolore lo fece zittire.
Gil-galad
gli venne vicino, ma gli doleva lo stomaco. La foresta avrebbe voluto
curarlo,
ma non ne aveva il potere… egli non era il Signore o Re di
Boscoverde!
Chinando il
capo cominciò anche lui a tossire, e la sua bocca si
macchiò di sangue.
Thranduil si
spaventò e, seppur dolorante, cercò di dare una
mano. Non sarebbero morti,
entrambi si sarebbero salvati. Celeborn non avrebbe vinto.
Così, retto solo
dalla sua forza di volontà, tenne Gil-galad per le spalle e
lo fece sollevare.
Il Signore
di Imladris sentiva la sua fine vicina e stretto il polso di Thranduil
per
attirarne l’attenzione ulteriormente, disse boccheggiando:
“Thranduil.
Celeborn… lui… aveva… la
spada… la spada di tuo… padre…
con… con… sé. Lui ha
detto… che… che ci…
sono…due … spade”.
Thranduil si
bloccò, non sapeva se preoccuparsi di più per le
parole appena sentite o per il
sangue che non smetteva di scendere
dalla bocca di Gil-galad.
Il Signore
di Imladris cedette, cadde con il viso sulle ginocchia di Thranduil che
cercò
di svegliarlo ma senza riuscirci. Thranduil avrebbe voluto sollevarlo e
stringerselo al petto ma non ce la fece. Nel tentativo di sollevarlo
sentì uno
strappo nella spalla, la ferita si era riaperta e ancora una volta vide
tutto
buio.
Allora il misterioso aiutante
sistemò Thranduil nel
modo più comodo possibile continuò a scavare la
fossa, che già aveva iniziato
prima.
“Mio
caro
amico, non credevo che un giorno saremmo arrivati a tanto”.
“Ne-an-che,
nean-che io” si sforzò di rispondere
l’altro. “F-for-forse -non
dovre-s-sti f-farlo…”
aggiunse con l’ultimo
filo di voce tremante che gli era rimasto.
“Non
dovrei,
ma è la cosa più giusta da fare”.
Così
dicendo
depose dentro l’elfo morto. Lo ricoprì di terra e
di grosse pietre e dopo aver
pregato Mandos di accoglierne l’anima vi depose sopra lo
stendardo di Imladris.
“C-co-cosa
ab-abbia-mo
f-fa-t-to! Non me l-lo p-per-perdonerò m-mai”.
“Non
dire
così, Elrond Gil-galadion sarà un ottimo Signore
di Imladris”.
“Se-sempre
ch-che n-non sv-svani-sca pr-prima”.
Il chiasso e
il chiacchierio fece riprendere i sensi a Thranduil, la persona
incappucciata
aveva ancora la pala in mano. Il Re di Boscoverde non si accorse
dell’altra
persona che velocemente si era riparata dalla sua vista dietro un
albero. Però
vide la fossa e vide lo stendardo di Imladris.
Il respiro
si fece accelerato, gli occhi del giovane re si riempirono di lacrime,
un po’
perché era stanco, debole e ferito, un po’
perché temeva di conoscere la
risposta alla sua domanda.
“Chi?
Chi è
sepolto lì?”.
L’incappucciato
sospirò è rispose: “Un grande elfo. Il
Signore di Imladris Gil-galad”.
Thranduil
non si rese conto che le lacrime avevano iniziato a scendere sul suo
viso, gli
occhi erano diventati pesanti e senza nessuna forza per ribattere, gli
chiuse e
attese che il dolore passasse.
Quando gli
riaprì attorno a sé non c’era nessuno,
solo una tomba sopra la quale pregare,
piangere e far finta che il mondo fosse quello di quando, ancora elfling, credeva
che tutto sarebbe andato per il
meglio.
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“Elrond,
vedi anche tu quello che vedo io?” chiese Glorfindel fissando
un cavallo che
correva verso la loro direzione.
“Sì,
è
riconosco anche chi è”.
Glorfindel
sbuffò apertamente. “Io non lo avrei fatto notare
ad un elfo più anziano di
me”.
Elrond rise:
“Mio caro Glorfindel, con tutto il rispetto non conosco su
tutta la Terra di
Mezzo qualcuno più vecchio di te”.
“Non
crederai che tuo padre sia di tanto più giovane di
me?”.
“Ma
non più
vecchio” ribadì Elrond. “Bene, quello
che sta arrivando è…”.
“Haldir
del
Lothlòrien” completò Glorfindel con un
sorriso compiaciuto. “A questa distanza
vedo bene anche io”.
“Va
molto
veloce” notò Elrond.
Haldir aveva
identificato già da un bel po’
l’esercito di Imladris grazie agli stendardi che
i guerrieri, orgogliosamente, tenevano ancora in piedi. Il messaggio da
portare
era urgente e lui non si era fermato neanche per riposare un momento.
“Buongiorno
Signor Elrond di Imladris. Buongiorno capitano Glorfindel”
salutò Haldir.
“Mae govannen, Haldir del
Lothlòrien, o
meglio buon pomeriggio sarebbe il caso di dire. Cosa ti porta fino al
nostro
esercito?” chiese Elrond.
Haldir diede
un’occhiata a Glorfindel che, da canto suo, lo fissava con
curiosità.
“Preferirei
parlarle da solo, se posso. Ho un messaggio per lei dalla Dama del
Bosco
dorato”.
Elrond e
Glorfindel si scambiarono uno sguardo preoccupato, poi il
più anziano girò il
cavallo e si avvicinò agli altri elfi per controllare se
avessero bisogno di
qualcosa.
“Dimmi
pure,
Haldir” lo incitò Elrond.
“La
Signora
del Bosco ha avuto una visione mentre interrogava lo Specchio.
Ciò che vide la
spaventò a tal punto che cadde a terra quasi svenuta. Ho
avuto il compito di riferire
la visione a lei e a nessun altro”.
“Parla,
Haldir. Cosa vide Dama Galadriel?”.
Haldir prese
fiato e con un filo di voce riferì: “Vide la spada
di Re Oropher di Boscoverde
il Grande bagnata del sangue del Signore di Imladris Gil-galad, suo
padre”.
Elrond
restò
senza fiato, barcollò in avanti sul cavallo, che subito
nitrì. Glorfindel vide
il suo giovane amico che dava l’aria di essere stordito,
prendere le briglie
del suo cavallo nel tentativo di riassumere una posizione di equilibrio.
“Perché
a
me? Perché il messaggio non era indirizzato a mio
padre?”.
“Credo,
se
posso fare supposizioni, che sia perché anche lei, Elrond,
ha il dono di vedere
ciò che a gli altri è negato. E forse la mia
signora ha pensato che lei avrebbe
saputo gestire meglio il messaggio rispetto a suo padre”.
Elrond emise
un profondo respiro, bisognava che restasse calmo. Si voltò
in cerca di
qualcuno e notò, rassicurato, che Glorfindel non lo aveva
perso di vista.
Guardò il suo popolo che procedeva verso casa. Cosa avrebbe
dovuto fare adesso?
Cosa si aspettava Galadriel? Avrebbe dovuto lasciare la sua gente e
partire
alla ricerca del padre?
I feriti
andavano curati.
“Haldir,
credi che i feriti più gravi potrebbero trovare ristoro nel
Bosco Dorato?”.
“Ne
sono
certo” rispose senza esitazione. “Cosa mi puoi dire
degli elfi del Lothlòrien,
del mio popolo, del mio Signor Celeborn?”.
Elrond
avrebbe voluto spiattellargli in faccia tutti i suoi dubbi, la sua
rabbia ma
non sarebbe stato giusto. Haldir non aveva nessuna colpa e lui non
aveva
nessuna certezza. Perciò ancora una volta la sua pazienza la
fece da padrona.
“I
fatti
sono molto più complessi di quanto potrei dirti su due
piedi. Ti basti sapere
per ora che Celeborn è andato alla ricerca di Thranduil di
Boscoverde, il quale
era molto scosso dopo la morte di suo padre in battaglia. Gli elfi del
Bosco
Dorato si sono trattenuti qualche giorno in più nel Dagorlad
rispetto a noi,
che li abbiamo lasciati sei giorni fa, ma dovrebbero già
essere in viaggio
verso casa ormai”.
“Sinceramente,
la sua spiegazione fa sorgere in me nuove domande e dubbi”.
“Mi
stupirei
se fosse il
contrario. Ora però dobbiamo
riprendere il viaggio. Purtroppo non c’è modo di
comunicare con mio padre, e
francamente non so neanche in quale direzione siano andati”.
“Se
permette, farò il viaggio con voi”.
“Naturalmente.
Mi farà piacere avere un po’ di compagnia e ti
prego Haldir, chiamami pure
Elrond e dammi del tu”.
“Come
preferisci, Elrond” annuì Haldir. Elrond gli era
sempre stato simpatico, e
provava molto rispetto per il mezzelfo come Galadriel. Inoltre aveva
visto
maturare l’amore che legava il giovane signore di Imladris
con Celebrian e non
poteva che esserne lieto.
La elleth
era sempre stata molto spensierata ed Elrond
cercava con tutti i
mezzi di proteggere intatto questo suo genuino e semplice amore per la
vita.
Il gruppo
cavalcò un paio d’ore, ormai si potevano vedere in
lontananza sia Boscoverde
sia il Lothlòrien e l’umore degli elfi stava pian
piano migliorando. Certo le
Montagne nebbiose e Imladris erano lontane ma l’idea di un
bosco nel quale
riposare faceva star meglio il loro animo.
“Allora
da
quanti giorni sei in viaggio, Haldir?” domandò
Glorfindel che nel frattempo si
era riaffiancato a Elrond.
“Da
ieri
sera”.
“Vuoi
dire
che ci hai raggiunto in meno di ventiquattr’ore?”.
“Andavo
di
fretta, capitano Glorfindel”.
“Come
sta
Galadriel?”.
“La
Signora
del Bosco sta bene nei limiti della situazione”.
Glorfindel
alzò gli occhi al cielo, possibile che Haldir dovesse essere
sempre così
diplomatico?
“E
Celebrian
come sta? Scommetto che non vede l’ora di riabbracciare
questo Mezzelfo qua.
Vero?”.
Haldir
sorrise imbarazzato, Elrond invece non rispose niente alla domanda
provocatoria
dell’anziano amico. Era più interessato a capire
chi fosse che gli andava
incontro a cavallo.
“Sembra
che
oggi sia giorno di visite” disse Glorfindel .
Haldir, che
in fatto di vista non aveva certo problemi, esclamò.
“Non posso crederci! Ma
come ha fatto?!”.
“Chi?
Chi
è?” domandò ancora il capitano della
guardia di Imladris.
Elrond
però
non aveva bisogno di una risposta, avrebbe riconosciuto quel cavallo e
la sua
cavallerizza a miglia e miglia di distanza. “E’
Celebrian!”.
“Ma
chi c’è
con lei? Un elfling?”.
Haldir
lanciò uno sguardo di disapprovazione a Glorfindel:
“Per quanto azzardata possa
essere stata la scelta di Celebrian, non avrebbe mai messo in pericolo
un
elfling portandolo fuori dal Bosco Dorato in un periodo come
questo”.
“Azzardata
è
a dir poco” disse Elrond pieno di preoccupazione.
Intanto i
tre aumentarono il passo per raggiungere l’elleth, e rimasero
tutti e tre di
sasso quando videro che Celebrian viaggiava con un nano.
“Celebrian!”
esclamò Elrond scendendo da cavallo.
“Oh,
Elrond”
rispose lei scendendo a sua volta da Gwaew.
Bolin
subitò
si lanciò dal cavallo, praticamente rotolando per terra e
urlò come se stesse
lanciando un grido di battaglia. “Fermi, fermi tutti. Ho una
missione da
compiere”.
Elrond lo
guardò divertito: “Mastro nano, quale che sia la
sua missione, faccia
attenzione o non basterà tutta la mia arte medica per
guarirla”.
Glorfindel
era spazientito, ci mancavano solo i nani, i quali non avevano voluto
combattere contro Sauron ma si erano rinchiusi nelle loro caverne,
miniere o in
qualsiasi modo le chiamassero.
“Allora”
sbuffò
Glorfindel “Quale missione deve compiere un nano? La missione
più grande contro
Sauron, temo l’abbiate già saltata!”.
Bolin non si
fece scoraggiare da queste parole ostili e tolto il pezzo di pergamena
dalla
tasca lo porse a Elrond.
“Questo
è
per lei, Signore Elrond di Imladris, grande elfo e guaritore. O no?
Forse mi ha
detto grande guaritore e elfo… Va bè, non ricordo
esattamente. Ma comunque…
tenga, da parte di Re Thranduil di Boscoverde il Grande”.
“Da
parte di
Re Thranduil?” domandò Elrond incredulo.
Bolin lo
guardò serio e ripetè: “Re Thranduil…”
poi indicando la foresta in lontananza e ammiccando aggiunse:
“… di Boscoverde
il Grande, già”.
Celebrian
rise, questo nano le era troppo simpatico, inoltre le espressioni di
Elrond,
Haldir e Glorfindel erano impagabili.
Elrond non
sapeva come interpretare i modi del nano però prese la
pergamena e aprendola
domandò: “Di preciso quando, dove e come hai
conosciuto Thranduil?”.
Bolin si
massaggiò la barba e spremute le meningi
raccontò: “L’ho conosciuto vicino, se
vogliamo, al luogo dove è stata combattuta la grande
battaglia contro il Male,
nella quale Thranduil mi riferì che è morto suo
padre. Lui era ferito alla
spalla e io mi sono fermato per dargli un po’ di assistenza.
Già. Diciamo pure
che dopo aver chiacchierato un po’, ed esserci conosciuti
meglio… e io, badate
bene, ho fatto amicizia anche con Lùth, il suo cavallo, mi
ha chiesto di
portare questo messaggio alla Dama del Bosco del Lothlòrien,
quel Bosco Dorato…
anche se io ci sono stato e badate, gli alberi sono alberi verdi non
d’oro!
Comunque … elfi davvero strani e poco simpatici quelli
là, non mi hanno fatto
entrare perché non sono un elfo … ahah! Per le
orecchie avrei anche potuto
darmi un’aggiustatina ma crescere ormai non cresco
più…”
“Mi
pare evidente!
Anche io sono un elfo del Lothlòrien” lo
interruppe Haldir gelidamente, ma
Bolin non si scompose.
“Eh…
e
difatti sei un tantino come loro”.
Glorfindel
era assolutamente divertito da questo nano e gli fece cenno con la mano
di non
far caso a ciò che diceva Haldir e di continuare a parlare.
“Comunque
io
non resto dove non sono gradito, e Thranduil mi aveva detto “Se là non ti fanno passare,
vai incontro all’esercito
di Imladris e chiedi di Gil-galad oppure Elrond e consegna a loro
questo
messaggio”. Ora, io sono qui, il messaggio lo hai
tu. Missione compiuta!”.
Elrond gli
sorrise e infine aprì la pergamena e lesse: “Se
credi in me, recupera la spada
di mio padre. E’ di vitale importanza! Il tuo amico,
Thranduil”.
Tutti erano
curiosi di sapere cosa dicesse il messaggio, ma Elrond con un sorriso
di
circostanza ripiegò il biglietto e lo mise in tasca.
“Mastro
nano…”.
“Bolin,
mi
chiami Bolin, per favore”.
“Bolin,
quando è l’ultima volta che hai visto Thranduil?
Sai dove stava andando?”.
“Certo,
certo. Ci siamo separati ieri pomeriggio, sul tardi e lui era diretto a
Boscoverde, aveva premura di arrivare in fretta alla sua fortezza. Ma
essendo
ferito mi disse che sarebbe passato all’interno della
foresta, che l’avrebbe
aiutato a guarire”.
“In
che
modo?” domandò Haldir.
“Questo
non
lo so, ma lui ne era convinto” spiegò Bolin.
“Bene,
allora i piani sono cambiati” disse
Elrond. “Per prima cosa,” disse dando la pergamena
a Glorfindel “affido a te
questo incarico. Sii più veloce che puoi e raggiungici alla
fortezza di
Boscoverde”.
Glorfindel
aprì la pergamena, lesse a sua volta il biglietto e dopo
aver assicurato Elrond
che sarebbe stato più veloce che poteva andò via.
Gli altri
restarono a bocca aperta, tutti volevano conoscere il contenuto del
messaggio,
ma Elrond non aveva alcuna intenzione di svelarlo. “Poi noi
andremmo avanti e
Bolin, tu mi indicherai il punto preciso nel quale vi siete separati
con
Thranduil. Là i feriti verranno portati nel
Lothlòrien, dove si fermeranno
anche Haldir e Celebrian”.
“Io
non mi
fermo là. Io sono venuta per stare con te… tu non
puoi capire come mi sento
lontano da te…”.
“Se
lei
resta, resto anche io” aggiunse Haldir che non voleva
lasciare la figlia di
Galadriel da sola.
Elrond
sospirò.
“A
questo
punto, però dovrai dirmi perché tuo padre
Gil-galad e il signor del Lothlòrien
Celeborn, stanno cercando Thranduil!”.
“Celeborn!
Il cugino di Thranduil?” chiese spaventato Bolin
Elrond
guardò minacciosamente Bolin. “Esattamente lui. Ma
tu, cosa sai di Celeborn?”.
Bolin si
pentì di non aver saputo frenare la lingua, ma ormai
era accaduto e ora avrebbe dovuto dare a tutti le giuste spiegazioni.
“Si
è
azzoppato! Non può andare avanti o rischierà di
doverlo uccidere!”.
“Maledetto
cavallo!” si lagnò Celeborn. “Abbiamo
fretta e questo si azzoppa! Ah! Valar!”.
Celeborn
smontò da cavallo, certamente non poteva proseguire a
cavallo, ma neanche a piedi.
Prese la borraccia d’acqua, qualcosa da mangiare e la spada
di Oropher e li
sistemò sull’altro cavallo.
“Sta
pensando di andare a piedi? O vuole camminare sugli alberi?”.
Celeborn era
sdegnato. “Non sono un silvan, per camminare tra gli
alberi”.
L’elfo
non
gli fece notare che, per quanto lui ne sapeva, anche la figlia
Celebrian camminava
e correva tra gli alberi e lo invitò a montare anche lui sul
suo cavallo.
Celeborn
stava per accettare, quando sentì il trottare di un cavallo.
Lui e il fedele
elfo del suo regno si nascosero e aspettarono di vedere chi arrivava.
Ed ecco
che Celeborn lo vide! Che bello! Sarebbe stato facilissimo! Sapeva cosa
fare!
Ci aveva pensato sopra durante tutta la cavalcata con Gil-galad, come
fare ad
attirare Wisterian e Legolas se Galion non fosse riuscito a portare a
termine
il suo compito? Gli serviva un esca! Ed ecco proprio lì
sotto i suoi occhi:
Thranduil di Boscoverde a cavallo.
Con un balzo
i due elfi furono sul re, facendolo cadere. Thranduil che si stava
appena
riprendendo grazie all’energia trasmessagli dalla foresta,
cadendo batte la
testa giusto il tanto di perdere i sensi.
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Capitolo 9 *** Il dolore colpisce all'improvviso ***
Con
grande ritardo,
ecco a voi il nuovo capitolo. Però è un bel
capitolo, spero che vi appassioni.
A presto, Alida
Con
un balzo i due elfi
furono sul re, facendolo cadere. Thranduil che si stava appena
riprendendo
grazie all’energia trasmessagli dalla foresta, cadendo batte
la testa giusto il
tanto di perdere i sensi.
Cap
9
Quanto
può
pesare la preoccupazione per chi si ama? E’ un continuo
stillicidio del cuore
che niente può interrompere se non la certezza che chi si
ama è al sicuro e
indenne. Talvolta può essere d’aiuto aprirsi e
raccontare, a qualcuno capace di
ascoltare, le ansie che si vivono.
Così
cantava
dolcemente il giovane Legolas nel giardino privato di famiglia:
“Betulle
argentate che lente ondeggiate
la brezza
del vento vi culla d’amor.
L’usignolo
fra i rami cinguetta contento
ma il mio
cuore è in fermento. Quando si placherà?
Chi aspetto
non parla, non sogna e si nega,
le porte al
mio spirito ha chiuso e io prego.
Ah, Valar!
Prendete i miei occhi e portateli a lui
ch’io
veda
che bene il suo corpo riposi,
che riprenda
le forze e al mio animo acceda
e canti
parole, parole d’amor.
Oh, Mandos!
Mio nonno accogliesti,
lasciami il
padre che tanto mi amò.
Risparmia al
mio cuore un altro dolore,
tutto
sopporto ma questo mai, no.
Betulle
argentate che lente ondeggiate
la brezza
del vento vi culla d’amor,
io sono una
foglia e lento cammino
il suo dolce
ricordo mi culla nel cuor”.
“Legolas,
non dovresti preoccuparti così tanto, sono sicuro che tuo
padre sta bene. E’
con gli altri elfi, e se sta male lo cureranno” disse
Fidelhion sedendosi
accanto al ragazzo.
“Come
fai a
dirlo?”.
“Come
fai a
dire il contrario?” chiese dolcemente l’elfo che
non conosceva assolutamente la
capacità che Legolas e Thranduil avevano di comunicare a
distanza.
Legolas
sorvolò: “E’ un
presentimento!”.
“Anche
io ho
un presentimento,” disse Fidelhion “ e
cioè che se continui a buttarti giù di
corda, quale che sia il tuo destino non riuscirai ad
affrontarlo”.
Legolas lo
guardò dritto negli occhi, nei quali poteva leggere la
verità delle parole
appena pronunciate. Se suo padre fosse tornato ferito, avrebbe dovuto
essere
forte e aiutarlo come suo padre faceva con lui quando ne aveva bisogno;
se si
fosse trovato nella situazione di dover percorrere il passaggio
segreto,
addirittura senza sua madre, di forza gliene sarebbe servita molta di
più.
“Vedrai
che
ce la farà e poi ricordati sempre che non è
solo”.
Legolas gli
rivolse uno sguardo interrogativo. “Per esempio?”.
Fidelhion
rise, tale padre, tale figlio! Sempre molto concreti. “Per
esempio Galion”.
“Già,
Galion!” esclamò il giovane elfo sentendosi
improvvisamente
rassicurato. Il padre gli aveva mostrato il volto di Celeborn, lui era
l’uomo
da temere, ma Galion sicuramente l’avrebbe protetto. Egli
infatti era stato un
grande amico del nonno. Era bello,
pensò Legolas, potersi fidare di
qualcuno.
Thranduil
era a terra, con il viso che annaspava per un po’ di ossigeno
tra le foglie
secche. Chissà mai
perché gli alberi
stanno perdendo le foglie… non siamo in autunno pensò
Thranduil, quando
venne raggiunto da un calcio alle gambe, e poi uno al petto e un altro
e un altro
ancora.
Cercò
di
proteggersi con le braccia ma si rese conto che qualcuno gliele aveva
legate
dietro la schiena.
“Svegliati,
bel principino”.
“Bel
Re,
bisogna dire… ormai è un Re… anche se
lo sarà per poco” sghignazzò una voce
che
aveva un non so ché di familiare. Thranduil ci
pensò su e poi capì a chi
appartenesse quella voce: Celeborn.
“Assassino!”
riuscì a dire Thranduil.
Celeborn gli
tenne il colletto della camicia e tirò a sé il
viso del re di Boscoverde. “E
chi avrei ucciso? Sentiamo!”.
Thranduil
tossi. “Gil-galad!”.
“Ah,
mi è
dispiaciuto moltissimo” rispose Celeborn buttando nuovamente
a terra
Thranduil.
“Naturalmente avrei
preferito che fosse Elrond, ma che vuoi farci… alla fine
anche lui va
benissimo”.
“Che
cosa
vuoi, Celeborn? Possibile che … che non ti sei ancora reso
conto che non
riuscirai ad avere ciò che vuoi?” chiese Thranduil
cercando di mettersi a
sedere; parlava velocemente, perché il fiato era sempre
più corto e anche se
qualche parola non gli usciva proprio bene, voleva comunque dire tutto
ciò che
aveva da dire.
Celeborn era
furente; anche se legato e ferito il cugino non si dava per vinto,
cercava in
tutti i modi di averla vinta. Presto però avrebbe capito chi
avrebbe trionfato
e allora si sarebbe dovuto arrendere. Lui non gli avrebbe lasciato
niente per
cui valesse la pena di vivere e così sarebbe svanito.
Senza alcun
preavviso Celeborn diede un calcio ai reni del povero Thranduil che
fece il
possibile per trattenere un urlo, ma non poté nascondere la
smorfia di dolore
che gli si stampò sul viso sudato.
“E’
facile
prendere a calci qualcuno che è legato e ferito. Ma
è sempre stato così. Ti
devi accontentare di poco”.
“Zitto,
zitto!” strillò di rabbia Celeborn, mentre con
forza gli scagliava contro ancora
un altro calcio.
Thranduil
prese fiato, una foglia secca gli entrò in bocca e lui la
risputò fuori
tossendo. “Cosa vuoi fare? Mi vuoi uccidere?”.
Celeborn si
chinò all’altezza del cugino, gli sorrise e
cercò di sistemargli i capelli
mentre lo guardava con finta compassione. “No, cuginetto, lo
sai che ti voglio
bene”.
Thranduil
spostò di scatto la testa. “Non mi toccare, mi fai
schifo”.
Un forte
schiaffo colpì in viso Thranduil facendogli girare la testa
e per un attimo non
seppe più dove si trovava. Aprì la bocca per
respirare e si accorse di averla
piena di sangue, ne sputò
un po’ per
terra e poi cercò con lo sguardo Celeborn.
Stava
lì, in
piedi e lo sovrastava ridendo. “Ah, ah.. Hai provato un
po’ di dolore, vero?”.
Thranduil
non rispose.
“Anche
io lo
avrei provato se fossi
stato colpito da
questo” disse mostrandogli l’anello infilato nel
dito indice. Era un anello
d’oro bianco in filigrana con piccoli diamanti che formavano
una foglia le cui
venature erano di smeraldi verdi.
Gli occhi di
Thranduil si riempirono di lacrime, che però non lasciò
cadere; il suo volto da sgomento
passò in un attimo ad essere pura espressione di disprezzo
verso Celeborn.
“Quell’anello
è di mio padre. Del Re di Boscoverde il Grande, tu non lo
meriti. Non ti
appartiene!”.
“Un
oggetto
appartiene a chi lo possiede” rispose Celeborn.
“Prendi
questa foglia” continuò strappandola da un ramo
“è sulla mia mano e dunque è
mia”.
I tre elfi
posarono gli occhi sulla foglia per un attimo, ma tanto
bastò per vederla
raggrinzire. Thranduil, si asciugò il sangue che lentamente
scendeva dal labbro
al mento, un pizzico di soddisfazione apparve nel suo viso.
“Come vedi neanche
la Foresta ti vuole!”.
Un altro colpo
investì la testa di Thranduil, che non riuscì
da che parte fosse provenuto il colpo, forse era stato un pugno,
più
probabilmente un calcio, e in un attimo tutto divenne nero.
“Non
è che
stavo annegando…”.
“Certo
che
no, eri sulla sponda!”.
Elrond e
Haldir ascoltavano divertiti il primo incontro tra Bolin e Celebrian,
il
viaggio stava proseguendo con velocità. I feriti venivano
curati, e i meno
gravi ormai erano quasi guariti del tutto, grazie alle straordinarie
capacità
di autoguarigione della loro specie.
“A
cosa
pensi, Elrond? Sei preoccupato?” domandò Celebrian.
Elrond
alzò
lo sguardo verso la sua amata, la vedeva diversa, forse la guerra lo
aveva
cambiato, forse il nuovo Elrond non sarebbe piaciuto a Celebrian. Ma
non voleva
parlare di cose private davanti a tutti e perciò disse:
“Penso a Glorfindel.
Spero che riesca a compiere al più presto la missione che
gli ho affidato e
torni presto da noi”.
“Lo
speriamo
tutti” concordò Haldir.
“Già!”
concluse Bolin.
Celebrian
sorrise a Elrond, doveva parlargli, spiegargli il
motivo per cui aveva lasciato la sua casa e gli era andata incontro.
Era stata
mossa dal desiderio di vederlo, ma non era solo questo. C’era
qualcos’altro, di
molto importante. Si era ripromessa di confidargli tutto appena
incontrato, ma
con Bolin e Haldir costantemente al loro fianco non se la sentiva.
Avrebbe
aspettato e poi quando si sarebbero trovati da soli gli avrebbe detto
tutto.
Nel frattempo il
tempo passava, il sole divenne alto in cielo
e il caldo afoso aumentò. L’Anduin era sereno e
gli elfi godevano del canto del
fiume.
“Stiamo
andando piuttosto veloci. Non trovate?” domandò
Bolin.
“Haldir
ha impiegato meno di 24 ore per raggiungerci” disse
Elrond, “Non penso che saremo altrettanto rapidi,
però sarebbe l’ideale se
giungessimo al punto in cui ti separasti da Thranduil entro la
sera”.
Il silenzio
ripiombò sul gruppo per qualche ora. Elrond
sentiva tutto il peso dell’anello che portava; aveva poca
importanza che lo
tenesse in tasca o legato al collo, il suo potere era notevole. Mentre
cavalcava sentì una voce Gil-galad,
stai
attento! Il pericolo incombe su di te! Ho visto la scura ombra del
Dol-guldur
sovrastare il tuo viso. Spero di non essere in ritardo.
Elrond si
voltò per individuare da dove venisse la voce, ma
solo il suo esercito stava alle sue spalle. Celebrian lo
guardò e poi abbassò
lo sguardo alla tasca dei pantaloni di Elrond, qualcosa brillava al suo
interno.
Anche lui si
accorse del bagliore e senza che Haldir o Bolin
se ne accorgessero, infilò la mano in tasca e estrasse
appena appena l’anello,
di modo che Celebrian lo vedesse e si rassicurasse che niente di grave
stava
accadendo.
Celebrian
sussultò e a voce bassa domandò: “Sta
brillando.
Mia madre ti ha contattato?”.
Elrond fece
cenno di sì con la testa e rinfilò
l’anello in
tasca. Celebrian gli sorrise.
“Dobbiamo
andare più veloci, è necessario raggiungere in
fretta
Dol-guldur!” disse Elrond, “Darò ordini
su chi deve guidare l’esercito fino al
Lothlòrien e poi fino a casa, e aumenterò
l’andatura del mio cavallo. Chi vuole
seguirmi, dovrà andare veloce. Non ho intenzione di
aspettare nessuno” concluse
posando il suo sguardo sul nano.
“Uffh!
Certamente non sarò io a rallentare il gruppo!”
rispose indignato Bolin.
“Proprio
quello che volevo sentire!” rispose Elrond.
Così
fecero e verso le otto di sera, Elrond, Celebrian,
Haldir e Bolin giunsero
a Dol-guldur.
Lùth
aveva
assistito impotente al pestaggio del suo padrone, aveva cercato di
divincolarsi
e colpire con gli zoccoli Celeborn ma l’altro elfo glielo
aveva impedito. Quando
poi aveva provato ad alzare le gambe anteriori e colpire Celeborn in
fronte,
Thranduil lo aveva dissuaso, poiché temeva, e con ragione,
la reazione del
cugino. “Non temere, sopporterò. Ti prego, non
ribellarti!” gli aveva detto
prima di svenire per l’ennesima volta.
Lùth
cercò
di avvicinarsi con il muso per annusarlo e scuoterlo, ma Thranduil non
dava
segni di essere cosciente. Allora Celeborn gli sciolse le mani che
erano legate
dietro la schiena, e gliele legò in avanti, poi lo
legò con una fune lunga
circa due metri alla sella, e dopo essere salito sopra al cavallo
partirono al
trotto.
Lùth nitrì di
preoccupazione e angoscia, sentiva il
peso del suo padrone che veniva trascinato nella foresta,
cercò di evitare
fossi, radici molto grosse, tronchi caduti e massi, ma in ogni caso era
Celeborn che lo guidava e a lui non importava niente del nuovo Re di
Boscoverde.
Celeborn
sapeva che i cavalli avevano un cuore, un’anima e anche un
cervello, ma
sottovalutava enormemente la loro capacità di ricordare.
Ignorava che la memoria
di Lùth, un giorno, gli avrebbe presentato il conto.
Avanzavano
senza sosta, a tratti Thranduil riprendeva i sensi e chiamava Celeborn,
pregava
i Valar che tutto finisse in fretta. La fune era stretta ai polsi e
sfregava la
pelle, ogni passo di Lùth era un sobbalzo che tirava polsi e
spalle.
Thranduil
aveva provato più volte a mettersi in piedi ma non aveva
forze, i pantaloni
erano ormai a brandelli, le ginocchia insanguinate, così
come le cosce. Cercava
di sollevarsi ma come le ginocchia cedevano, cadeva a peso morto e
ormai anche
la camicia era solo un ricordo e i capelli un pasticcio di terra,
sangue e
sudore.
Celeborn si
fermò all’improvviso. Era ancora arrabbiato, il
tempo stava diventando
nuvoloso, alzò lo sguardo al cielo ma non vide altro che un
mare di foglie, era
come se la foresta si stesse chiudendo in sé, nascondendo
anche la bellezza del
cielo.
Scese da
cavallo e preso Thranduil per le spalle lo sollevò e lo
sbatté su Lùth, poi gli
tirò i capelli facendogli dondolare la testa avanti e
indietro. Thranduil non
sapeva perché si erano fermati. Forse Celeborn non voleva
più trascinarlo con
sé, forse lo voleva abbandonare nella foresta, forse voleva
eliminarlo
definitivamente.
“Cosa
facciamo? Ci fermiamo?” chiese l’elfo complice.
“Sì,
credo
che sia la cosa migliore da fare. Inoltre ho una strana sensazione.
E’ come se
ci fosse qualcuno nelle vicinanze”.
“Chi
potrebbe essere? Forse qualche elfo silvano”.
“No,
sono
tutti nel Dagorlad, e quelli rimasti nella Foresta staranno nascosti
nella
fortezza. Certamente non se vanno in giro… E tu
sollevati!” urlò a Thranduil
che lentamente scivolava verso terra.
“Non
ce la
fa! Ahah!”.
“Vediamo
se
così ci riesce”, sputò fuori Celeborn
prendendo la spada di Oropher e
puntandogliela alla gola.
Thranduil
non era stupito, Gil-galad lo aveva avvisato, tuttavia gli fece
impressione.
Mai e poi mai aveva associato l’anello del padre o la sua
spada ad una
sofferenza personale, la mano di Oropher con indosso l’anello
gli aveva
accarezzato le guance paffute quando era stato un piccolo elfo, la
spada era
sempre stato il mezzo con il quale il padre lo avrebbe difeso dai mali
del
mondo e ora sembravano essere diventati strumenti di dolore.
Ma non sono
gli oggetti che causano sofferenza, sono le persone, e Thranduil stava
perfezionando la lezione che la vita aveva già avuto modo di
spiegargli.
La lama
della spada fece pressione alla gola. Thranduil trattenne il respiro e
poco
dopo Celeborn premette giusto il tanto perché una linea di
sangue, l’ennesima,
venisse disegnata nel corpo martoriato dell’elfo.
Poi
appuntò
la lama su un tronco e spinto Thranduil a terra lo trascinò
fino all’albero più
vicino. “Stai buono lì, e non ti
legherò anche le caviglie. Dobbiamo riposare e
poi ripartiremo”.
Thranduil
non disse una parola. Voleva riprendere le forze, dare sollievo al suo
corpo, starsene
a contatto con l’albero che avrebbe potuto guarirlo un
po’, riposare, magari
contattare Legolas e anche tante cose che però non
riuscì neanche a pensare,
perché il sonno lo avvolse con dolcezza in brevissimo tempo.
Celeborn e
il complice si poggiarono a un masso e copertisi con un mantello si
addormentarono. Nessuno dei tre elfi, presi dalla loro situazione, si
era reso
conto che qualcuno aveva visto la scena: Thranduil legato, Celeborn che
gli
puntava la spada, la bellissima spada, simile ad una vista tempo prima,
e anzi
doveva essere proprio quella.
I nani di
Rhiaian erano stati immobili, avevano trattenuto il respiro e osservato
tutto.
Rhiaian non era coraggioso, era certamente avido ma non imprudente, e
comparire
così all’improvviso non era nei suoi piani, tanto
meno poteva essere utile,
inoltre i suoi quattro compari dovevano restare all’oscuro di
tutto. Però
quella spada faceva gola anche a loro, chiunque ne sarebbe stato
affascinato,
quanto più un nano.
Decisero
però, una volta che gli elfi si erano addormentati, di
proseguire, senza
indugi. Il destino aveva mostrato loro un interessante quadretto e non
era
detto che non si sarebbero più incontrati.
Fecero
silenzio, ma non abbastanza. Thranduil, che dormiva, ma i cui sensi
erano sul
chi va là, aprì gli occhi per scoprire la causa
del rumore, o almeno tentò di
farlo. L’occhio destro infatti non volle collaborare e
restò chiuso, Thranduil
lo toccò con le dita e nonostante queste avessero poca
sensibilità riuscì comunque a capire che
era gonfio come tutto il lato destro del suo viso.
Il dolore lo
invase, si dimenticò dei rumori sentiti e cercò
di guardarsi attorno. Vide
Celeborn e il complice addormentati. Lui aveva le mani legate ma non le
gambe,
provò ad alzarsi e senza chiederlo ricevette un aiuto
insperato.
L’albero
chinò i suoi rami e avvolgendolo lo aiutò a stare
in piedi, lentamente
Thranduil riuscì a fare un passo alla volta allontanandosi
sempre più, quando
il ramo non fu più della lunghezza sufficiente gli si
sostituì un altro ramo e
un altro ancora e così per diverse centinaia di metri la
foresta portò in
braccio il suo Re.
Lo fece con
grande amore e dedizione fino a quando Thranduil
non ce la fece più neanche così e, lasciandosi
cadere a terra, riprese a
dormire.
Finalmente
poteva vederlo: l’ingresso della fortezza di Oropher, Re di
Boscoverde. Finalmente,
pensò Galion, il futuro
è vicino.
L’elfo
nascose la sua perfidia al mondo e assumendo un atteggiamento triste e
desolato
si spinse in avanti, scese dal cavallo e si accorse che laddove si
sarebbe
aspettato di vedere diverse guardie non c’era nessuno.
Se il Re lo
sapesse! pensò
Galion, e questo pensiero gli
diede fastidio. Era lì per compiere una missione: eliminare
Wisterian e
Legolas, e il suo pensiero più spontaneo era rivolto al suo
ex-Re, il quale era
morto anche grazie a lui.
Portò
il
cavallo nelle stalle e poi entrò nella fortezza. Dopo pochi
passi venne accolto
da una guardia. “Capitano! Sono felice di vederla
rientrare” disse l’elfo
salutandolo, “Ma mi dica, dove sono tutti gli
altri?” chiese aspettandosi di
vedere qualcuno al suo seguito.
Galion gli
sorrise: “Nedhian, è un piacere essere a casa.
Sono da solo e purtroppo porto
tristi notizie. Vorrei parlare immediatamente con la moglie del
principe
Thranduil e se possibile anche con il giovane Legolas”.
Nedhian si
rattristì, vedeva che il suo capitano portava un peso nel
cuore e nello spirito
e credeva sinceramente che fosse stata la guerra a renderlo triste, non
sapeva
che le azioni malvagie che compiamo avvelenano il nostro spirito e
appassiscono
i nostri cuori.
Subito il
giovane fece chiamare Wisterian e Legolas, che vennero accompagnati da
Fidelhion fino alla sala del trono.
Appena
Legolas vide Galion avanzò verso lui e dopo avergli dato un
tenero abbraccio,
chiese subito del padre. Wisterian gli disse di calmarsi e dare la
parola
all’amico fedele del nonno.
“Porto
notizie funeste. Purtroppo il Re Oropher è caduto in
battaglia”.
Wisterian e
Legolas lo sapevano già, ma poiché nessuno sapeva
della capacità che Thranduil
e il figlio avevano di comunicare, dovettero manifestare una certa
sorpresa.
Era comunque una notizia devastante perché confermava
ciò che speravano non
fosse vero.
Il grande
Oropher era morto. Gli occhi di Wisterian si riempirono di lacrime,
Fidelhion
era sconvolto. Galion aveva solo un’idea in testa: liberarsi
di Wisterian, ma
la presenza di Fidelhion rendeva tutto più complicato.
“Continua,
Galion. Dimmi pure di mio marito” lo incitò la
donna elfo.
Galion
tossì. “Potrei parlarle in privato?”
domandò mostrandosi a disagio davanti a
Legolas.
“Io
voglio
sentire” si puntò Legolas. “Sono
abbastanza grande, mamma. Voglio sapere di mio
padre”.
“Parla
pure,
Galion”.
“Bene,
mi
dispiace dirvelo, ma non ho scelta. La battaglia è stata
dura per tutti, molti
elfi, tra cui in nostro amato Re, sono entrati nelle Sale di Mandos. Il
dolore
e l’orrore dilagavano nella grande piana. In quello scenario
di sangue e
terrore anche vostro marito” disse rivolgendosi a Wisterian e
rivolgendosi a
Legolas “e vostro padre è rimasto gravemente
ferito”.
Legolas
scosse la testa. “Non è vero!”.
“Vorrei
che
non lo fosse” tentò di convincerlo Galion.
“Stai
mentendo! Mio padre non sta male!”.
“Legolas,
stai calmo. Probabilmente non è grave”
provò a tranquillizzarlo Wisterian.
“Mamma,
quello che dice non è vero! Sta mentendo!”.
Legolas era sicuro di ciò che
diceva, suo padre forse non stava benissimo ma non era rimasto ferito
gravemente in battaglia altrimenti non avrebbe mai avuto la forza di
mettersi
in contatto con lui.
Lo stesso
pensiero lo ebbe anche Wisterian, ma del resto perché non
avrebbe dovuto
fidarsi di Galion, che era stato fedele amico di Oropher, suo
consigliere, e
guida di Thranduil durante la sua crescita quando, per ragioni di
stato,
Oropher non aveva potuto?
Ora
l’importante era mantenere la calma e poi tutto si sarebbe
chiarito. “Legolas,
forse faresti meglio a lasciarmi sola con Galion. Fidelhion, prenditi
cura di
lui”.
“Ma…
mamma!”
si lamentò il ragazzo.
Wisterian lo
accarezzò in viso e ancora una volta gli disse di uscire.
Legolas uscì dalla sala
accompagnato da Fidelhion. Nel corridoio non c’era nessuno.
“Andiamo, Legolas”
lo invitò Fidelhion.
“Io
non mi
muovo da nessuna parte” rispose Legolas avvicinando
l’orecchio alla porta.
Fidelhion lo
riprese. “Il tuo comportamento non si addice a un membro
della casa reale”.
“Allora
fai
conto che sia un semplice elfo” disse cercando di ascoltare
la conversazione
dentro la stanza.
“Se
fossi un
semplice elfo, ti avrei già preso per la punta delle
orecchie e…”.
“Sh!
Fidelhion, non sento!”.
“Oh,
Valar!
Tua madre non mi perdonerà mai…”.
“Fidelhion,
per favore…”.
L’elfo
si
mise le mani fra i capelli, doveva cedere, Legolas era troppo testardo.
Dentro Galion
portava avanti la sua sceneggiata. “Gli orchi erano
centinaia, mia Signora. Re
Oropher è caduto combattendo e Thranduil assistette alla sua
morte, lo vide
accasciarsi al suolo e fu colpito a sua volta da un orco. La scimitarra
nera si
è abbattuto sul petto di Thranduil. Lui ha provato a
resistere ma il dolore era
troppo intenso”.
Wisterian
piangeva
al pensiero del marito ferito; non era importante se fosse vero o meno,
il solo
immaginarlo sanguinante la faceva star male. Però
l’idea di suo suocero che si
faceva sopraffare da un orco era davvero incredibile.
“Come
è
caduto Oropher? Mi sembra così strano…”
domandò volendo sinceramente capire.
Galion
rispose immediatamente: “Lui era forte, ma era come se la
spada non lo
assecondasse”. Fu un passo falso, e Galion se ne rese conto.
“Forse il destino
che i Valar hanno deciso per lui…”.
“Aspetta,”
lo interruppe lei “cosa centra la spada? E’ una
spada elfica! Non avrebbe mai
potuto tradirlo”.
Galion
infilò la mano nella tasca interna della giacca dove un
pugnale era stato
sistemato precedentemente. “Mia Signora, in battaglia tutto
può succedere”.
“Galion,”
domandò Wisterian “Come è stato ferito
di preciso Oropher?”.
Galion era
infastidito, perché Wisterian chiedeva del suocero e non del
marito? Non le
bastava ciò che le aveva detto?
“Cosa
devo
dire a Legolas? Lui vorrà sapere” insistette lei.
“Ah,
Wisterian! Cosa vuoi dirgli!” sbottò lui prendendo
il pugnale e mostrandolo a
Wisterian“Digli solo che suo nonno ha avuto ciò
che si meritava” .
“Oh,
Valar!”
urlò lei vedendogli l’arma in mano.
“Galion, cosa vuoi fare?”.
Legolas
sentì la madre gridare.
“E
anche tu
avrai quello che ti meriti!” continuò Galion
agitando il pugnale in faccia a
Wisterian che a
quel punto chiamò aiuto.
A quel punto
Fidelhion e Legolas entrarono nella Sala del trono, sfondando
praticamente la
porta e cadendo per terra. Legolas si alzò in un secondo
spinto dal desiderio
di proteggere la madre, ma Fidelhion non avrebbe lasciato che
succedesse
qualcosa a giovane elfo, lo aveva promesso a Wisterian dopo che lei gli
aveva
mostrato il passaggio segreto.
Galion prese
lo slanciò e con forza pugnalò Wisterian allo
stomaco.
Legolas si
lanciò su Galion, ma troppo tardi; il sangue di Wisterian
bagnò tutta la sua
tunica verde chiaro. “No!” si disperò
Legolas di fronte alla madre sanguinante.
Fidelhion
gli fu addosso in un attimo e lo prese di peso allontanandolo da
Galion. “Scappa!
Legolas, scappa!”.
Galion, con
il pugnale in mano, si buttò contro Legolas, ma Fidelhion
non glielo permise,
frapponendosi fra l’arma e il giovane elfo.
“Sca-…ppa,
Le…” la fine rimase in gola a Fidelhion dove
Galion spinse il pugnale.
Legolas
corse via, più velocemente che poté. Dove doveva
andare? Dove poteva andare?
Che strada doveva prendere? Le lacrime gli scendevano sul viso mentre
correva. Senza
sapere come arrivò davanti alla porta della sua stanza,
stava per entrarci
quando si ricordo del passaggio segreto nella stanza dei suoi genitori.
Piangendo e
singhiozzando cambiò direzione e in breve si
trovò nel buio passaggio segreto.
Corse, corse e
corse ancora fino a che
non si ritrovò all’esterno con il vento freddo sul
viso.
Non si
accorse che Galion lo aveva seguito, e poi perso di vista prima di
arrivare
davanti alla porta della sua camera.
Non vide
Fidelhion che si stringeva il collo nel tentativo di fermare
l’emorragia mentre
Wisterian con il suo ultimo respiro lo ringraziava per aver fatto tutto
il possibile
per proteggere il suo unico e adorato figlio.
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Capitolo 10 *** Perdersi ***
Non
si accorse che Galion
lo aveva seguito, e poi perso di vista prima di arrivare davanti alla
porta
della sua camera.
Non
vide Fidelhion che si
stringeva il collo nel tentativo di fermare l’emorragia
mentre Wisterian con il
suo ultimo respiro lo ringraziava per aver fatto tutto il possibile per
proteggere il suo unico e adorato figlio.
CAPITOLO
10
Dol-guldur non
era un posto piacevole. Sebbene ora fosse
libera, sembrava ancora che dovesse svolgere un ruolo importante
nell’eterna
battaglia tra il Bene e il Male.
La prima cosa
che attirò l’attenzione dei quattro
viaggiatori fu l’oscurità. Là il buio
era il respiro del male. Il suo alito che
ancora permeava l’aria. Bolin si guardava attorno con
circospezione; nelle grotte
c’era buio, ma quello della notte faceva più paura.
Da quando aveva
lasciato Thranduil e portato a termine la
sua missione, si era sentito un nano falso, un traditore. Aveva
nascosto la
verità o
comunque l’aveva omessa; adesso
portava addosso il peso della sua vigliaccheria, e si sarebbe preso il
merito
per aver dato a Elrond il biglietto.
Ah! Bolin non
avrebbe mai voluto questo, ma ancora una volta
la vita non era andata secondo i suoi desideri.
Haldir
salì su un albero per riposare qualche ora, Celebrian
e Elrond si misero in disparte a parlare e Bolin si sdraiò
per terra accanto a
un cespuglio dove, poco dopo, si
addormentò: sognò il nano che l’aveva
cresciuto, una grande, grandissima spada
elfica ricoperta di ogni sorta di pietre preziose, sognò
Thranduil che triste
piangeva e sognò un Bolin bambino che cercava di nascondersi
il viso con le
mani.
Era mattina
quando Bolin si svegliò, guardò in alto tra gli
alberi nel caso in
cui gli elfi non
stessero riposando là, ma non vide nessuno. Allora decise di
fare un giro lì
attorno alla ricerca di bacche selvatiche.
Non
trovò bacche ma tre elfi inginocchiati davanti a un
ammasso di pietre . Elrond, Celebrian e Haldir avevano trovato la
lapide di
Gil-galad. Bolin rimase lontano, in disparte, non voleva invadere il
loro
spazio, entrare con prepotenza in
quel
cerchio di sofferenza che si apriva con un cumulo di pietre e si
chiudeva con
le lacrime senza fine di un figlio che piangeva il padre.
Il pianto
inconsolabile di Elrond sembrava volesse parlare
con gli alberi tanto era il silenzio con il quale si sfogava. Celebrian
lo
circondò con le sue braccia e gli sussurrò parole
rassicuranti. Haldir non
aveva fiato per parlare, non voleva crederci.
Che cosa era
potuto succedere? Come era morto Gil-galad?
Dov’era la spada di Oropher che Dama Galadriel aveva visto
nello Specchio e
soprattutto che fine aveva fatto Celeborn? Perché non era
tornato indietro ad
avvisarli? Era ancora vivo o forse era morto anche lui?
Elrond pose una
mano sulla lapide, con l’altra si tolse l’anello
di tasca, infine se lo infilò al dito. Una forte luce lo
investì, era come se
la forza stesse uscendo dal suo corpo per poi rimmergersi dentro,
ancora più a
fondo. Poté guardare dentro se stesso fino ad una dimensione
che non aveva mai
immaginato, poteva sentire la sua anima staccata dal suo corpo, che
viaggiava
nella sua mente e ripercorrere in essa tutto il suo passato, ritrovando
ambienti che erano la rappresentazione dei propri sentimenti.
Vedeva la sua
anima triste e sconsolata in un sottobosco
buio e senza aria, non c’erano profumi particolari e sembrava
che il fiato
stesse per mancargli da un momento all’altro. Poi
sentì qualcuno che lo
chiamava e il sottobosco divenne più luminoso; si rese
contò allora di poter
indirizzare la propria anima dove preferiva e perciò seguì la voce
fino a che, scuotendosi, ritornò
ad avere coscienza di Boscoverde il Grande e di Celebrian, a cui
apparteneva la
voce sentita.
“Gli
anelli hanno un grande potere. Permettono di comunicare
con gli altri possessori degli anelli, ma ancora più
importante permettono di
capire se stessi, di conoscersi a fondo e di riuscire a entrare in
contatto con
le altre anime” disse Celebrian al suo amato.
Elrond
annuì. Evidentemente Dama Galadriel aveva spiegato
alla figlia molte più cose dell’anello che
possedeva rispetto a quanto
Gil-galad avesse fatto con lui.
Elrond
accarezzava la lapide, non riusciva a staccarsene, le
lacrime scendevano libere. Non c’era vergogna nel dolore, era
un sentimento
puro e lui non lo avrebbe negato. Haldir intonò una canzone
di cordoglio. Bolin
si avvicinò e in maniera molto discreta depositò
un mazzo di fiori selvatici.
Elrond lo
ringraziò. Poi rivolse ancora uno sguardo alla
lapide. Quanto amore gli aveva dato suo padre, quanta consolazione
nelle notti
in cui non si sentiva all’altezza delle aspettative del
mondo, quando essere un
mezzelfo aveva davvero significato essere solo metà di
qualcosa che non sarebbe
stato mai.
Eppure le sue
paure erano sempre state dissipate da
Gil-galad, e Imladris era stata davvero una casa accogliente per lui.
Adesso
invece come avrebbe potuto ritornare là e dichiararsi
“Signore” di Imladris?
Chi lo avrebbe accettato? E soprattutto come poteva far accettare al
suo popolo
Celebrian?
Già,
perché Elrond non aveva dubbi, se Gil-galad era morto
allora doveva essere stato per forza Celeborn ad averlo ucciso. Ma come
dirlo
alla dolce Celebrian?
Da canto suo
Celebrian non sospettava niente dei dubbi di
Elrond. Anzi, credeva che egli dubitasse di Thranduil e, sapendo che
era un suo
amico stava zitta perché non voleva causargli altro dolore.
Fu Haldir a
prendere la parola per iniziare ad avere dei
chiarimenti, qualche indizio che potesse indirizzare meglio verso la
comprensione degli eventi. “Bolin” disse
l’elfo “ forse è ora che spieghi la
tua reazione di ieri”.
“Io?
Di quale reazione parli?” domandò il nano che ben
sapeva a cosa si riferisse l’elfo.
“Di
quella che hai avuto quando hai sentito il nome di
Celeborn. Cosa sai di lui?”.
Bolin era
agitato. “Perché? Che
importanza vuoi che abbia?”.
Elrond e
Celebrian erano attentissimi. “Ha importanza per
tutti noi” fece Haldir indicando anche gli altri due elfi.
Bolin si
sentiva a disagio, cominciò a massaggiarsi la
barba, doveva essere sincero per iniziare a pagare le sue colpe. Non
era un
elfo però sapeva nascondere i suoi sentimenti quando voleva,
ma non aveva fatto
i conti con la grande perspicacia di Elrond che seppe leggere nel suo
viso un
certo rimorso, del quale successivamente avrebbe certo chiesto
spiegazioni.
“Thranduil
mi disse che …” Bolin tentennò e
guardò
Celebrian. L’aveva conosciuta da poco ma le era
già molto affezionato, non
voleva ferirla ma non aveva altra scelta. “Thranduil mi disse
che suo cugino
Celeborn aveva tentato di ucciderlo e che aveva intenzione di uccidere,
o far
uccidere, anche sua moglie Wisterian e suo figlio Legolas”.
“Non
è vero!” scattò Celebrian.
“Elrond, diglielo che non è
vero! Che non può essere vero!”.
Celebrian non
riusciva a capire perché Bolin avesse detto
una cattiveria del genere, sicuramente stava mentendo. Eppure Bolin le
era
sembrato un nano per bene, anche simpatico.
Elrond
l’abbraccio. “Va tutto bene, Celebrian.
Calma”.
“Non
va tutto bene, Elrond. Bolin sta dicendo che mio padre
ha cercato di uccidere Thranduil! Che vuole uccidere un
elfling!”.
“E
perciò che forse ha ucciso anche Gil-galad”
aggiunse
Haldir.
Bolin era muto.
Elrond non parlava, in realtà lui era
disposto a credere al nano, ma era difficile deludere Celebrian.
“Diglielo,
Elrond! Diglielo che secondo te è innocente!” lo
sollecitò lei. Aveva bisogno di sapere che il suo amato
credeva nell’innocenza
del padre, che sapeva in cuor suo che Celeborn era un elfo buono.
Però Elrond
non diceva niente e questo aumentava la sua ansia.
“Elrond,
perché non dici niente?”.
“Io…
io credo che Bolin ci stia dicendo la verità”
disse lui
a bassa voce stringendola a sé.
Celebrian si
distanziò di colpo. Il suo sguardo era confuso,
come era possibile che Elrond fosse così facile da
convincere circa la
colpevolezza di suo padre? Questo era l’elfo che amava? Uno
che non dava
neanche una possibilità al suocero? Come poteva credere a
Bolin così
velocemente e a tutto ciò che questo implicava?
Celebrian
piangeva e singhiozzava dal nervoso, dal timore di
non riconoscere più Elrond, o dalla paura che lui potesse
avere ragione, non
voleva credere che tutto questo stava capitando a lei. Forse avrebbe
fatto
meglio a restare nel Lothlòrien.
“Celebrian,
ti prego, ascoltami”.
“Non
voglio - sentire niente!”.
“Aspetta…”.
“Aspetta
cosa? Come puoi solo pensare che mio padre sia un
assassino?”.
“Ci
sono avvenimenti che non conosci a fondo…”
“Ma
conosco mio padre! E so che lui non farebbe mai del male
a una mosca”.
“Tuo
padre è sempre stato geloso della grandezza di
Boscoverde, lo sai anche tu”.
“Elrond,
stiamo parlando di mio padre! Sì, è vero!
E’ geloso
di Boscoverde, delle ricchezze che Oropher e Thranduil hanno
accumulato… e
forse è deluso anche dal fatto che io non sia nata maschio,
ma lui mi ama e ama
mia madre e non ci farebbe mai questo! Non ci darebbe mai un dolore
così
grande!”.
Elrond tese le
braccia verso Celebrian. “Vieni. Possiamo
superarlo…”.
“No!”
affermò determinata ricacciando dentro un singhiozzo.
“Stammi lontano, Elrond”.
“Ma
Celebrian, sii ragionevole”.
“Tu
non capisci quanto le tue parole mi feriscano, Elrond”
disse ricomponendosi. “Se
solo avessi
avuto un attimo di perplessità, invece no! Sei stato subito
disposto a
condannare mio padre!” e poi, senza volerlo, solo spinta dal
dolore
irragionevole che sentiva nel cuore, disse qualcosa che mai pensava
avrebbe
detto: “Forse ha ragione mio padre, forse davvero i Mezzelfi
non sono sensibili
come gli Elfi! Siete sempre disposti a tradire chi vi ama. Forse
davvero non
siete al nostro pari”.
Haldir, che
assieme a Bolin aveva assistito a tutta la
discussione, fece un cenno con la mano a Elrond di non dar peso alle
parole di
Celebrian, ma ormai la frase era stata detta e il cuore di Elrond era
già stato
colpito.
“Forse
è così! Forse avete ragione tu e tuo padre!
Certamente io sono un Mezzelfo, sicuramente meno intelligente di un
Elfo”
continuò sarcastico, ma con il groppo in gola,“e
difatti sono io che ho le
braccia aperte verso te, stupidamente pronto ad amarti nonostante tuo
padre
potrebbe aver ucciso il mio!”.
“Ah!”
continuò lei ancora arrabbiata “Non era neanche il
tuo
vero padre…”.
“Basta!”
urlò Elrond portandosi le mani agli occhi per
coprire le lacrime. “Era comunque tutto ciò che
avevo. Tutto quello che avevo,
tutto quello che avevo” continuò a dire tra i
singhiozzi, mentre le gambe gli
cedevano e cadeva davanti alla tomba del padre.
Celebrian
avanzò verso lui istintivamente, ma Haldir gli si
frappose e nel modo più gentile che conosceva le disse che
ci avrebbe pensato
lui.
“Tu a
chi credi, Haldir?” gli domandò lei, sperando in
una
parola di conforto.
“Io
credo che gli orrori della guerra possano indurre
chiunque a vedere
il mondo in una
prospettiva diversa, a dire e fare cose che normalmente non si
farebbero. E
credo che ora sia il momento di smetterla di parlare e iniziare a
pensare bene
a ciò che si dice”.
Elrond era
ancora inginocchiato, singhiozzava ma lacrime non
gliene scendevano più, continuava a ripetere che Gil-galad
era tutto ciò che
aveva. Haldir si sedette al suo fianco aspettando che si calmasse.
Era difficile
credere che Celeborn avesse tentato di
uccidere Thranduil, avesse ucciso Gil-galad e avesse ancora intenti
omicidi. Ma
era altrettanto difficile non credere a Bolin, il cui animo seppure
irrequieto
sembrava essere sincero. Elrond inoltre era sempre riuscito a leggere
molto
bene dentro l’anima degli altri, aveva il dono della
preveggenza e indossava
uno degli anelli del potere, ciò significava che poteva
vedere meglio degli
altri, e le sue intuizioni erano senz’altro più
precise.
Inoltre Dama
Galadriel l’aveva messo in guardia: qualcosa
di deplorevole stava accadendo, e
chi inseguiva la verità presto o tardi l’avrebbe
trovata e più spesso di quanto
avrebbe voluto ne sarebbe rimasto deluso.
Correva veloce,
senza fermarsi, senza pensare, senza
ascoltare. Correva con gli occhi gonfi e rossi per il troppo piangere.
Se fosse
stato un uomo avrebbe dovuto districarsi tra rami d’alberi e
rovi di frutta
selvatica, ma Legolas era un elfo con un legame particolarmente stretto
con la
natura e gli alberi e i rovi si facevano da parte al suo passaggio per
non
ferirlo, per non farlo soffrire ulteriormente.
Correva veloce
senza guardare avanti forte della complicità
di Boscoverde, quando a un certo punto si scontrò contro
qualcosa e cadde a
terra. Stava alzandosi quando sentì due mani forti che gli
tenevano le braccia.
“Lasciami,
lasciami!” gridò con davanti ancora
l’immagine di
sua madre sanguinante e Fidelhion con il pugnale in gola.
Alzò
lo sguardo e vide un vecchio con lunghi capelli grigi e
un mantello logoro che gli sorrideva teneramente.
“Tranquillo, giovane amico.
Non voglio farti del male”.
Legolas era
impaurito dal vecchio, chiaramente non era un
elfo, ma cosa poteva essere? Lui non aveva mai visto altro che elfi. Lo
guardò
bene, le sue mani erano forti però sembrava si reggesse
appena sul suo bastone.
Forse, se ne avesse avuto bisogno, avrebbe saputo difendersi.
Poi il
consiglio della madre gli ritornò in mente! Avrebbe
dovuto prendere la via sugli alberi e non percorrere la strada. Se ne
era
dimenticato! Chissà se era importante. “Chi- chi
sei?” domandò timidamente.
“Sono
tanti, ma per gli Elfi sono Mithrandir”.
Legolas
inclinò la testa di lato. “E che cosa è
un Mithrandir?”.
“Come
cosa è un Mithrandir?” lo rimbeccò
l’altro perplesso.
“E tu chi sei? E cosa sei? Mio giovane amico”.
“Io
sono Legolas e sono un Elfo” spiegò con
semplicità
l’elfling.
Mithrandir
scoppiò a ridere. “Bene, ora ho capito! Io sono
un Uomo, se così vogliamo dire, o comunque gli assomiglio
molto, e i miei amici
elfi mi chiamano Mithrandir”.
“Un
Uomo! Non ne ho mai visto uno. Ma cosa ci fai nel Regno
di mio nonno? E chi sono i tuoi amici elfi?”.
Mithrandir
corrugò la fronte; quest’elfo era davvero
curioso, quasi come uno hobbit. “E tu perché stavi
correndo veloce come un
fulmine?”.
Legolas si
zittì. Se voleva sapere, doveva anche raccontare
qualcosa, ma aveva paura, troppa. Mithrandir osservò
l’elfling, il suo viso era
rigato di lacrime, sapeva già che non avrebbe ottenuto
nessuna risposta e
perciò decise di darne lui.
“I
miei amici elfi vivono a Imladris, al di là delle
Montagne Nebbiose. Sono il signore di Imladris Gil-galad e suo figlio
Elrond”.
Gli occhi di
Legolas si illuminarono. Lui doveva raggiungere
proprio Imladris, così gli aveva detto sua madre.
L’anziano
continuò. “Sono qui, perché dovevo
raggiungere la
fortezza e parlare con Re di Boscoverde Oropher. Non ho trovato lui, ma
penso
di aver davanti suo nipote Legolas Thranduilion. Giusto?”.
Legolas
annuì e una lacrima gli scese sul viso. “Suvvia,
mio
giovane amico. Cosa c’è da piangere?”.
“Mio
nonno, il Re, è morto in battaglia” disse tirando
su
con il naso.
“Sì,
sono stato informato”.
“Da
chi?”.
“Da
alcuni guerrieri che ho incontrato un paio di giorni di
fa”.
“E di
mio padre, sa qualcosa?”.
“So
che è stato ferito e me ne dispiace. Di più non
so che
dire”.
“Cosa
voleva da mio nonno?”.
Mithrandir si
tenne al bastone. “Dovevo parlargli di affari,
dei quali in mancanza di tuo nonno, avrei discusso con tuo padre, e in
sua mancanza
probabilmente con tua madre”.
Legolas ebbe un
fremito, e gli occhi si riempirono di
lacrime che però fece tutto il possibile per non far cadere.
“Magari potresti
accompagnarmi alla fortezza e portarmi da lei, cosa ne dici?”.
Legolas era
appena un elfling, aveva circa 40 anni, più o
meno 15 secondo il conteggio degli uomini e il peso che portava nel
cuore era
troppo pesante da gestire. “Non posso tornare indietro, non
posso. E’ troppo
pericoloso per me. Mia madre ha detto di andare a Imladris”.
L’anziano
ascoltava, Legolas nascondeva qualcosa di brutto,
doveva aver assistito ad eventi terribili. “Ma tua madre,
dov’è?”.
Legolas si
portò la mano al petto, all’altezza del cuore, e
strinse la sua maglia ma non disse nulla.
“Va
bene, amico mio. Se non vuoi parlarne, non fa niente. Me
lo racconterai quando te la senti”.
Legolas
udì gli alberi parlare: “Fidati, è un
amico. Non
temere”, ma era una risposta troppo difficile da dare.
“Dove
vai? Posso venire con te?” chiese innocentemente.
Mithrandir
sorrise. “Se qui non c’è nessuno, torno
a
Imladris. E chiaramente puoi venire con me”.
“Va
bene, però… io vorrei camminare sugli
alberi” specificò
Legolas.
“Come
preferisci, per me non c’è problema”.
Così
Legolas salì sull’albero
mentre Mithrandir camminava a piedi lungo l’Antica via
Silvana poggiandosi al bastone.
Sugli alberi, nascosto, qualcuno incappucciato aveva visto tutto e,
soddisfatto
di come si erano svolti i fatti, decise di proseguire verso la fortezza
di Re
Thranduil.
“Andiamo,
su!”.
“Stiamo
andando veloci, Rhiaian. Perché tanta fretta?”
domandò Pimi.
“Hai
affari così urgenti a Pontelagolungo?” aggiunse
Bimi.
Rhiaian non
volle rispondere, i suoi affari erano per
l’appunto suoi. “Sbrigatevi, camminare la mattina
presto è sempre meglio che la
notte. Muovetevi!”.
Farìm
proseguiva in silenzio, si guardava attorno perché
aveva sempre l’impressione che qualcuno parlasse o
bisbigliasse, aveva anche
pensato che fossero gli alberi, ma non era disposto a crederci. Poi
notò
qualcuno disteso sul suolo.
“C’è
qualcuno, Rhiaian. Là per terra, c’è
qualcuno!” disse
indicando un corpo accanto a un cespuglio.
I nani si
avvicinarono e guardarono con attenzione. Lo
riconobbero
subito: si trattava dell’elfo che avevano visto
maltrattare strada
facendo. “Chissà perché
l’hanno lasciato andare?” si domandò
Pimi.
“Non
credo che l’abbiano liberato, deve essere scappato”
rispose Fàrim muovendo l’elfo con il piede per
vedere se reagiva.
“Magari
lo stanno cercando!” esclamò Pimi.
“Magari
sarebbero disposti a pagarci un riscatto per averlo”
riflettè Rhiaian, “magari ci darebbero la
spada!”.
Fàrim
non ne sembrava convinto. “Mi sembra che tu stia
sognando a occhi aperti”.
Rhiaian
rimuginò fra sé e sé.
“Può darsi, ma tanto vale
tentare. Che ne dite. Quella spada, anche senza le gemme ci frutterebbe
un bel
po’ di denaro!”.
Gli altri tre
nani erano indecisi, la spada avrebbe fruttato
denaro facile, però mettersi negli affari degli elfi non era
mai una scelta
intelligente. “Tentiamo, ma se diventa troppo rischioso, ti
molliamo!” disse
sinceramente Fàrim, anche a nome di Pimi e Bimi.
“Ci
sto” accettò Rhiaian. “Adesso dobbiamo
legarlo, per
bene, perché se è riuscito a liberarsi ieri,
certamente avrà bisogno di essere
legato meglio. Se tengo un ostaggio non voglio scoprire che
è sparito
all’improvviso”.
Perciò
i quattro nani legarono
Thranduil per bene: le mani le legarono assieme dietro la schiena, con
un’altra
corda bloccarono le caviglie e poi passarono
la corda attorno al collo. Thranduil
poteva stare seduto, ma non sollevare la testa. Quelle poche forze che
stava
riuscendo a conservare e quel poco che era riuscito a riprendersi tutta
la sera
a contatto con gli alberi era stato per lo più vanificato da
questa nuova
tortura.
Il complice di
Celeborn era stupito quando, dopo essersi
svegliato la mattina presto, non trovò Thranduil accanto
all’albero. Si chiese
come aveva fatto il nuovo Re a fuggire e perché gli alberi e
i cespugli
avvizzivano al loro passaggio.
Forse aveva
ragione il re di Boscoverde, forse la foresta
non voleva l’intruso: Celeborn. Che fosse un segno dei Valar?
L’elfo si stava
facendo mille domande ma non aveva nessuna risposta. Da canto suo il
signore
del Lothlòrien era furioso!
Avrebbe dovuto
legare suo cugino, ma come poteva immaginare
che sarebbe riuscito a scappare quando a mala pena si reggeva in piedi?
I due
elfi si misero a cercare Thranduil ma non lo trovarono, era come se
fosse
svanito nel nulla, perso dentro un labirinto. O magari erano loro a
essere
intrappolati in quella foresta che sembrava non gradire la loro
presenza.
“Va
bene!” disse Celeborn infastidito “riprendiamo il
nostro
cammino, portiamo a termine il piano originario. Dobbiamo arrivare in
fretta
alla fortezza e vedere a che punto è Galion”.
“Cosa
facciamo se Thranduil arriva prima di noi?”.
“Non
lo farà! Noi abbiamo i cavalli, lui è a piedi ed
è
ferito! Magari sta marcendo in qualche fosso di questa maledetta
foresta!”.
Lùth
cercò di liberarsi ma Celeborn lo tirò per le
briglia.
“Stai buono, altrimenti perderò tutta la mia
gentilezza!”.
Il cavallo si
calmò, ogni cosa sarebbe stata risolta a suo
tempo, lui doveva essere fedele al suo padrone che gli aveva ordinato
di non
ribellarsi, e così avrebbe fatto. Gli alberi parlavano, non
solo di un Re
ferito che avrebbero dovuto guarire, ma anche di un giovane principino
che si
portava avanti nella foresta accompagnato da un amico degli elfi.
Lùth
decise che se aveva dovuto
lasciare il Re, allora sarebbe andato incontro al principe, e una volta
che
Celeborn gli salì in groppa, fingendo di assecondare il suo
fantino, lo
condusse dove voleva lui.
Passarono i
minuti, il sole si alzò in alto nel cielo, le
ore trascorrevano e i nani cominciavano a pensare che forse
quell’elfo non era
poi tanto prezioso come credevano e che forse nessuno sarebbe venuto a
chiederne il riscatto.
Rhiaian aveva
gli occhi puntati su Thranduil, che non aveva
ancora ripreso i sensi. Lo
guardava con
ferocia e curiosità, si domandava se per caso era lui
l’elfo che
sarebbe dovuto cadere per mano di una spada e se quello che
aveva visto la
sera prima era quello che Bolin, figlio adottivo di Noemat, chiamava
“Il Male”.
Forse era
quella la spada che avrebbe dovuto recuperare per
conto di Noemat, una spada con dei bellissimi gioielli incastonati alla
perfezione, ricompensa per la loro arte di riproduzione dei manufatti e
per la
loro avidità.
Povero,
sciocco Bolin!
pensava Rhiaian, farsi tanti
scrupoli
per degli elfi! Opporsi alla volontà di Neomat e non
rendersi conto degli
sguardi, dei sottintesi, dei piani progettati sotto il suo naso tra lui
e il
patrigno!
Intanto Pimi e
Bimi cominciavano a cambiare idea, non erano
poi tanto convinti che tenere un elfo per ottenere un riscatto fosse
una buona
idea.
“Se
fosse venuto qualcuno a cercarlo, Rhiaian, allora
sarebbe stato diverso”.
“Sono
già diverse ore che aspettiamo, ma non viene
nessuno!”.
“Allora
cosa volete fare?” domandò direttamente Rhiaian ai
suoi compagni di viaggio.
Fàrim
si fece avanti. “Se nel pomeriggio non arriva nessuno,
direi di andarcene via e lasciarlo qui”.
“Arriverà!”
affermò Rhiaian più per convincere se stesso che
gli altri.
Thranduil
era ancora immobile,
ma la sua fae era in subbuglio,
qualcuno stava cercando di smuoverlo, non fisicamente, ma
spiritualmente;
qualcuno voleva comunicare con lui…
Dopo alcune ore di
cammino Mithrandir e Legolas si fermarono. L’uomo era stanco
e voleva mangiare,
ma il giovane elfo sembrava non avere appetito.
“Mangia
pure, Mithrandir. Io riposerò un po’”
aveva detto
Legolas risalendo sull’albero.
Provò
a chiudere gli occhi ma davanti a sé compariva sempre
sua madre nel suo bel vestito verde coperto di sangue. Legolas scosse
la testa
per mandar via il pensiero. Sua madre era morta. Non ci sarebbe stato
un domani
per lei, nessun giorno avvenire per loro.
Era strano
pensare che quando tutto sarebbe finito, comunque
andasse, sua madre non sarebbe ricomparsa. Non era nascosta al sicuro
in una
stanza, non c’era nessun elfo amico a proteggerla, il povero
Fidelhion aveva
pagato cara la sua fedeltà, ma
almeno lui,
pensò Legolas, sarebbe
stato con
Wisterian per l’eternità.
Era diventato
orfano …
di madre, e suo padre
chissà che fine aveva fatto.
Mithrandir stava
finendo di bere una strana miscela marrone, e perciò il
giovane colse
l’occasione per tentare una veloce comunicazione con il padre.
Chiuse gli
occhi, inalò il profumo della corteccia e lasciò
che il vento lo dondolasse per un po’, e poi si
concentrò richiamando alla
mente l’immagine del padre e inviando la sua fae alla ricerca
del padre. Aveva
un migliao di cose da raccontargli ma più di ogni altra cosa
doveva sapere di
Wisterian e di Fidelhion.
Non sperava in
un successo considerati gli ultimi fallimenti,
ma la forza della disperazione lo fece agire.
Si
concentrò sul padre, né ricordò il
profumo, le risa, i
profondi occhi azzurri e finalmente lo trovò. Poteva sentire
la presenza del
padre, così Legolas continuò a ripetere dentro
sé il nome del padre fino a
quando lo spirito di Thranduil si fece sempre più forte.
Allora Legolas
gli mostrò Fidelhion con il pugnale in gola e
Wisterian ricoperta di sangue. Poi gli mostrò il passaggio
segreto e infine
Mithrandir. La sua preoccupazione e le sue paure non vennero trasmesse
filtrate, infatti Legolas era troppo giovane per riuscire a gestire
sentimenti
così forti, perciò il dolore e la disperazione
colpirono Thranduil con tutta la
loro forza facendolo svegliare all’improvviso.
Thranduil cerco
subito di stirarsi ma si ritrovò legato, non
poteva alzare la testa per via della corda, non poteva muovere ne le
mani, ne
tantomeno le gambe. Il suo viso era gonfio e livido, le gambe
incrostate di
sangue secco e foglie.
Si chiese come
avesse fatto Celeborn a trovarlo così in
fretta, ma poi sentì delle voci, non appartenevano a degli
elfi e non sembrava
appartenessero neanche a degli amici.
Angolo autrice:
chiedo
infinitamente scusa per il ritardo, ma ho avuto una settimana
impegnatissima, e
ieri ho fatto cinque ore di fila dal veterinario perché la
mia Sophie non
respirava bene…
spero che il
capitolo vi piaccia. Doveva essere più lungo ma …
pazienza… cercherò di
aggiornare presto…
un abbraccio a
tutti, Alida
|
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Capitolo 11 *** Tutto viene a galla ***
Thranduil
cerco subito di
stirarsi ma si ritrovò legato, non poteva alzare la testa
per via della corda,
non poteva muovere né le mani, né tantomeno le
gambe. Il suo viso era gonfio e
livido, le gambe incrostate di sangue secco e foglie.
Si
chiese come avesse fatto
Celeborn a trovarlo così in fretta, ma poi sentì
delle voci, non appartenevano
a degli elfi e non sembrava appartenessero neanche a degli amici.
Lembas
= Pan di Via
Elfling
= giovane elfo,
fino ai 15 anni più o meno
Mellon
nin = amico mio
Cap 11
Morti.
Thranduil sentiva parlare attorno a sé, ma la sua
attenzione, quella poca che
riusciva ad avere nelle sue condizioni, era indirizzata alle immagini
che
Legolas gli aveva mostrato. Un giovane elfo del suo regno e la sua
dolce, amata
moglie morti.
Sembrava
surreale, aveva sempre creduto che nel momento in cui Wisterian fosse
morta lui
avrebbe sentito una lama trafiggergli il cuore, invece non aveva
sentito
niente. Adesso che sapeva, soffriva, ma prima di sapere non aveva
intuito niente.
Le voci
attorno si facevano più forti, quasi prepotenti e
insistenti. Il capo gli
doleva, quanto dolore stava provando? E per cosa poi? Sua moglie era
morta e se
suo figlio era riuscito a trasmettergli un’immagine
così chiara e definita
significava che l’aveva vista in prima persona.
Il suo
piccolo Legolas che aveva assistito all’omicidio di sua
madre! Oh Elbereth!
Aveva fallito in tutto. Non era riuscito a proteggere la sua famiglia.
Le gambe
pulsavano, i polsi erano legati strettissimi e con la testa legata e
impossibilitata a sollevarsi, i muscoli delle spalle tiravano. Aveva
sete e la
gola sembrava essere in fiamme. Però non poteva concentrarsi
completamente sul
proprio dolore, doveva avere maggior confidenza con la sua foresta che
sicuramente lo avrebbe aiutato.
E
perciò incurante di ciò che gli avveniva attorno,
cercò di
riaddormentarsi.
I cavalli
proseguivano a buon passo, non erano velocissimi ma, del resto, gli
alberi di
Boscoverde erano troppo fitti per poter permettere una corsa sostenuta.
L’Antica
via Silvana era lontana e soltanto lì si poteva procedere
spediti.
Celebrian
cavalcava affiancata da Haldir, e Bolin stava accanto a Elrond. Per
tutta la
mattina avanzarono senza aprir bocca, troppe assurdità, o
troppe cose vere,
erano state dette. Fecero una piccola sosta di appena cinque minuti,
giusto il
tempo per mangiare un boccone di lembas,
e poi ripreso il cammino.
Nel
pomeriggio però si dovettero fermare, Celebrian non stava
bene. “Forse avresti
fatto bene a rimanere con tua madre. Non che la tua presenza non sia
gradita,
ma il nostro procedere sembra essere più pericoloso di
quanto potessimo anche
solo immaginare” le disse con affetto e preoccupazione Haldir.
Celebrian
aveva il fiatone, e prese delle grandi boccate d’aria. Poi
sentì una fitta
nello stomaco e si strinse le braccia attorno alla vita. Elrond la
guardava con
ansia, era adirato e deluso ma l’amava.
Le si
avvicinò, lei gli girò la faccia. “Sono
pur sempre un guaritore” spiegò lui.
Celebrian
piangeva, tutti pensavano che fosse ancora perché Elrond
dubitava di Celeborn o
perché si sentiva in colpa per come aveva trattato Elrond,
ma lei aveva altri
motivi, ben più urgenti di piangere.
“Celebrian,
per favore” disse Elrond “permettimi di
controllarti”.
Bolin
intervenne. “Celebrian, solo perché hai
bisticciato con lui, non vuol dire che
devi trascurare la tua salute”.
“Ha
ragione”
lo sostenne Haldir.
“Non
sto
così male” rispose lei tenendosi la pancia.
Elrond
cominciava a spazientirsi. “Ho visto molti malati che non ho
potuto curare, non
lascerò che la tua testardaggine mi impedisca di salvarne un
altro”.
“Allora
è
questo che sono per te? Solo un paziente?”.
“In
questo
momento sì! Sei un paziente, testardo vorrei aggiungere.
Guarda come ti tieni
lo stomaco! Forse hai mangiato poco e sono solo avvisaglie della
fame”.
“Allora
basterà che mangi un altro po’ di lembas”
disse lei.
Elrond con
tono di voce che non lasciava spazio ad altri commenti rispose:
“Io sono il
guaritore e io deciderò cosa è bene per un mio
paziente; nessun altro”.
Celebrian
cedette, spostò le mani lasciando la pancia libera per
essere controllata.
Elrond era in ansia, se si trattava di fame, allora erano nei guai
perché cibo
ne avevano poco e la foresta non offriva molto. Avrebbero dovuto
cacciare e poi
cucinare. Bolin aveva con sé lo stretto necessario per
cuocere piccole prede ma
difficilmente un coniglio o una lepre avrebbero sfamato tre elfi e un
nano.
Il problema
però non era la fame. Come Elrond posò le mani
sulla pancia di Celebrian
un’immagine inequivocabile gli si proiettò nella
mente: due piccoli elfling
giocavano su un prato, erano identici e ridevano e andavano incontro al
nonno.
Elrond
allontanò immediatamente la mano da Celebrian, che
già sapeva della vita che
portava in grembo, e che si rese conto in quel momento che anche Elrond
ne era
venuto a conoscenza.
“Cos’ha?”
domandò preoccupato Haldir.
“Puoi
chiederlo
direttamente a lei” rispose Elrond “sicuramente lo
sa già da un po’ di tempo”.
Celebrian
sospirò e con voce tenue, rivolgendosi al suo amato,
spiegò: “E’ questo il
motivo per cui sono venuta a cercarti, volevo che tu sapessi
direttamente da
me, che fossi felice con me, con noi. Speravo davvero che tutto sarebbe
andato
bene e che questo fosse l’incoronazione di un giorno
perfetto, ma mi sbagliavo.
E adesso mi chiedo, quale futuro ci attende”.
Haldir e
Bolin erano confusi, forse Celebrian stava male e aveva raggiunto
Elrond per
paura di non riuscire a vederlo prima di scomparire. Questi erano i
loro
pensieri e tanto fu lo stupore quando Celebrian spiegò:
“Dentro me cresce una
nuova vita, e con la benedizione dei Valar fra pochi mesi
vedrà risplendere le
stelle alte in cielo”.
Elrond era
cupo in viso, gli occhi puntati verso la nuda terra. “Non sei
felice?” gli
chiese Celebrian.
Lui
trasalì.
“Oh, Celebrian, sono molto felice. Non potrei provare una
gioia più grande di
questa. Ho visto non una vita, ma due piccoli elfling che ridevano
felici”.
“Due?”
lo
interruppe Bolin “Credevo che sono gli Uomini potessero farne
due alla volta”.
Haldir mise
una mano di conforto e orgoglio sulla spalla di Elrond e amichevolmente
lo
provocò. “Gli Uomini, certo. Ma basta anche un
Mezzuomo“.
Celebrian
sorrise. Elrond però rimase serio. “Quel che ho
visto però mi lascia sgomento.
I piccoli giocavano, ridevano e andavano incontro a … a
Gil-galad”.
Tutti
trattennero il fiato. Per nessun motivo al mondo, Elfo
o Mezzelfo che fosse Elrond, innocente o colpevole che fosse Celeborn,
da
qualsiasi parte si schierasse Celebrian, mai e poi mai qualcuno avrebbe
desiderato che due elfling passassero alle Sale di Mandos.
“Non
è stata
una buona idea, per niente” disse Pimi.
Bimi
concordò con il fratello portando in avanti e indietro la
testa come fosse una
molla. Fàrim faceva dieci passi avanti e poi tornava
indietro per ammazzare il
tempo che però non passava mai. “I Colli Ferrosi
sono ancora lontani e forse
stiamo ritardando la partenza per niente”.
“Abbiate
pazienza. Verranno. Altrimenti perché mai lo avrebbero
tenuto in vita.
Avrebbero benissimo potuto ucciderlo” disse Rhiaian.
L’idea
però
sconvolse gli altri tre nani. “Ma cosa stai dicendo?
Ucciderlo?” gridò Bimi. La
sola idea di qualcuno che compisse un gesto simile lo faceva
rabbrividire,
infatti non erano nani malvagi.
Rhiaian
sputò per terra. “Forse non hai visto bene come lo
trattavano”.
“Suvvia,
suvvia… nessuno ha ucciso nessuno” proruppe
Fàrim tentando di alleggerire l’atmosfera.
Thranduil
intanto dormiva e non sognava niente di bello. La sua mente gli
mostrava
Wisterian morta e coperta di sangue, la vedeva avanzare con la sua
bella veste
verde che a ogni passo diventava sempre più rossa. Vedeva il
suo viso spegnersi
e la pelle cadere, e mentre avanzava il suo corpo si decomponeva e
diventava
man mano parte della foresta.
Il suo sonno
era agitato così come egli stesso. I nani lo videro muoversi
e dimenarsi,
emettere strani mugolii. Pimi e Bimi si alzarono di scatto ed ebbero lo
stesso pensiero:
dovevano coprirlo per non vederlo più. Così gli
buttarono addosso un vecchio
sacco che portavano appresso.
Passò
un’altra ora e Thranduil riprese i sensi. Non solo non poteva
muoversi ma gli
era stato gettato qualcosa sopra, forse una coperta, forse un sacco.
Sì, doveva
trattarsi di un sacco perché poteva vedere qualche filo di
luce passare dalle
larghe maglie del tessuto.
Inoltre
sentiva un fuocherello scoppiettare e il suo calore accarezzargli la
schiena e
le mani dopo aver trapassato la stoffa che lo copriva.
Non
parlò,
rimase immobile aspettando di ricevere qualche indizio circa
l’identità dei
suoi aguzzini. Ingoiò un po’ di saliva, la gola
faceva male e la lingua era
impastata. Neanche in guerra aveva avuto mai tanta sete, infatti i
rifornimenti
non erano mai mancati.
Si sentiva
le labbra asciutte e screpolate, aveva bisogno d’aiuto. Ma
chi poteva aiutarlo?
Era solo. Avrebbe avuto bisogno di Oropher, ogni figlio nel momento del
bisogno
doveva poter contare sul proprio padre. Subito l’immagine di
Oropher fu
sostituita da quella di Legolas.
Doveva
contattarlo, spettava a lui, non poteva lasciare il
suo giovane elfling nello sconforto. Perciò si
concentrò ancora una volta e
bussò al cuore di Legolas.
Mithrandir
avanzava a passo svelto, ma non veloce come Legolas che proseguiva in
avanti
sugli alberi e poi si fermava per aspettare il vecchio Uomo amico degli
elfi.
La luce del
giorno stava scemando e gli alberi proiettavano ombre poco
rassicuranti,
Mithrandir aveva un presentimento infausto. Era sicuro che di
lì a poco
avrebbero incontrato qualcuno che li avrebbe messi nei guai.
Quando
raggiunse Legolas, che lo aspettava guardandolo dalla sua posizione in
alto sui
rami, vide l’elfling
lanciarsi dal
ramo e cadere agilmente su due piedi. “Non sono sicuro che
dovremmo continuare,
la foresta dice cose che mi fanno paura”.
“La
foresta
ti parla?” domandò stupito Mithrandir.
“Certo”
rispose tranquillamente Legolas. “Io sono il suo nuovo
principe, però mi
parlava anche prima quando non lo ero”.
“Questo
è un
bene. O almeno lo credo. E cosa dicono gli alberi al giovane
Thranduilion?”.
Legolas si
fece pensoso. “Dicono che il suolo della foresta è
calpestato da qualcuno
malvagio e che i
nuovi sovrani soffrono.
Dicono … che dal loro sangue nascerà la salvezza
di tutti gli elfi”.
Mithrandir
ascoltava in silenzio, queste parole avevano un significato difficile
da
interpretare. “Ascolta meglio, mellon nin”, lo
incoraggiò il vecchio, “le tue
orecchie e il tuo cuore possono sentire misteri e segreti che io non
potrò mai
udire”.
Legolas
inspirò profondamente e premette i palmi delle mani sulla
nuda corteccia di un
albero; l’albero lo mise in guardia, un amico e un nemico si
stavano
avvicinando assieme, colui che parlava non avrebbe mai avuto
l’appoggio della
foresta e la sua presenza era causa di grande dolore e sofferenza.
Legolas si
chinò per terra, le mani sulle ginocchia. Stava per parlare
quando, in quello
stato di assoluta concentrazione, poté sentire suo padre che
cercava di contattarlo.
Ancora una volta chiuse gli occhi in attesa di vedere quale avviso il
padre
voleva inviargli. Forse c’era un nuovo pericolo in agguato,
forse aveva bisogno
di aiuto.
Aprì
il suo
cuore e poté vedere alcune immagini a lui già
note e altre nuove, che ancora
non conosceva: Thranduil che gli sorrideva donandogli il suo primo
arco,
Thranduil che lo abbracciava mentre gli cantava una canzone e infine
sua madre,
Wisterian, che lo teneva in braccio appena nato.
Suo padre lo
aveva contattato solo per dirgli che lo amava.
Legolas si sentì sopraffare
dall’emozione…
L’energia
che Thranduil stava consumando per comunicare con il figlio era
notevole, ormai
non era più la sua, era quella che la foresta gli stava
trasmettendo e che lui
stava risucchiando avidamente per dar forza a Legolas.
Benché
il
suo corpo fosse debole la sua aurea si rafforzava e Thranduil
cominciò a
brillare, una forte luce argentata si espanse attorno a lui, facendo
trasalire
i nani.
“Cosa
succede?” domandò impaurito Bimi.
“Il
sacco
brilla! Deve essere qualche magia elfica!” strillò
Fàrim di risposta.
Rhiaian non
capiva cosa accadesse ma sapeva che gli elfi non erano esseri magici,
però
alcuni avevano grandi poteri.
“Andiamocene!
E’ arrivato il momento!” disse Pimi.
Rhiaian
provò a tranquillizzarli ma non ci fu verso di farli
cambiare idea.
“Noi
ce ne andiamo verso i Colli Ferrosi,
amico mio. Tu prosegui verso Pontelagolungo e che possa trovare
ciò che cerchi”
disse Fàrim salutando Rhiaian.
“Sei
stato
un buon compagno di viaggio, ma le nostre strade si dividono
qua” continuò
Bimi.
“Però
se
vuoi venire con noi e lasciare quest’elfo qui, sei il
benvenuto. Anzi ci
piacerebbe continuare il viaggio con te”.
Rhiaian
avrebbe voluto ancora un po’ di compagnia ma in
realtà che fossero gli altri ad
andarsene fu un colpo di fortuna, e l’occasione giusta per
portare avanti il
suo programma.
“Andate
pure, io ho i miei affari da sbrigare e voglio aspettare ancora un paio
d’ore
prima di abbandonare la possibilità di guadagnare un
po’ di soldi da questa
situazione”.
“Buona
fortuna!” dissero in coro i tre nani e poi se ne
andarono lanciando occhiatacce al sacco che copriva Thranduil, dal
quale
proveniva una luce sempre più intensa.
A Legolas
non era mai capitato di sentire una tale energia provenire dal padre,
così
vibrante e diretta, così loquace. Di solito aveva dovuto
interpretare le
immagini che vedeva, ma questa volta era come se
avesse udito delle parole accompagnare ciò che
vide, era come se la foresta avesse comunicato attraverso Thranduil.
Questo
diverso modo di comunicare impensierì l’elfling.
Che bisogno c’era di
modificare l’abituale metodo, perché il padre lo
aveva cambiato. Forse che non
aveva abbastanza forza? La solo idea sconvolse Legolas; Mithrandir gli
fu al
fianco e passandogli la mano sulla schiena con movimenti circolari
cercò di
rasserenare il giovane.
Ma il
toccò
dell’Uomo fece rabbrividire Legolas che
indietreggiò spaventato. Thranduil
percepì la paura e lo spavento e gridò,
agitandosi e scuotendosi senza pensare
al male che faceva a se stesso.
Rhiaian vide la
luce diffondersi maggiormente, dunque si
avvicinò e scoprì l’elfo proprio nel
momento in cui Thranduil gridava.
Istintivamente prese ciò che aveva vicino, cioè
un tronco d’albero e colpì
violentemente la testa dell’elfo, il quale immediatamente
cessò ogni movimento.
Nel suo
procedere spedito verso la meta Glorfindel compì solo due
brevissime soste di
pochi minuti: la prima per salutare gli elfi del Lothlòrien
che tornavano a
casa e poi un gruppo di elfi di Boscoverde che rientrava con i feriti.
Quando
giunse nel Dagorlad si rattristò profondamente. Davanti ai
suoi occhi vide
quanti pochi erano i sopravvissuti di Boscoverde, la battaglia gli
aveva più
che dimezzati e nei loro occhi erano impresse le fiamme con le quali
avevano dato
l’ultimo saluto ad amici e talvolta congiunti. Non solo gli
elfi maschi
combattevano, anche le donne elfo avevano risposto alla chiamata della
guerra e
tanti elflings non avrebbero più rivisto né il
padre né la madre.
Chi rimaneva
però doveva trovare in sé la forza di andare
avanti per mantenere vivo il
ricordo dell’amato e tornare dai piccoli elfi che attendevano
a casa.
I corpi dei
defunti erano stati bruciati, le loro ceneri sparse nel campo di
battaglia che
in ultimo li aveva visti vittoriosi. Ai restanti era spettata la
scelta,
difficile ma impossibile da rimandare, se lasciare il corpo di Oropher
sepolto
nella Piana o portarlo a Boscoverde.
Avevano
scelto di non disturbare la sua pace, ma allontanarsi sembrava loro
impossibile. Glorfindel disse loro che aveva un compito, ingrato ma
necessario
da compiere, per ordine di Elrond di Imladris a cui Thranduil aveva
inviato un
biglietto con una richiesta.
Gli elfi
silvani vollero leggere il biglietto, poiché sebbene
Glorfindel fosse un elfo
di grande valore e indubbio onore, la richiesta del grande elfo era
alquanto
insolita, togliere dal sepolcro la spada di un re pareva ingiusto.
“Thranduil,
il vostro nuovo Re, lo richiede. I Valar non vogliano che il vostro
interferire
gli costi non solo il regno ma anche la sua stessa vita”.
Sentendo
questo e percependo la sincerità nell’animo di
Glorfindel, gli elfi non si
opposero e
così l’elfo dalla chioma
dorata si impossessò della spada. Non la guardò
neanche, la avvolse velocemente
in un telo verde con rifiniture di filo d’oro che un elfo
silvano volle dargli
scusandosi di non avere niente di maggior valore, e risalito sul suo
bel
cavallo ripartì.
Gli elfi lo
guardarono correre via, il suo corpo brillava e
il suo elmo luccicava benché il sole stesse calando e il
buio cominciasse
timidamente a farsi avanti.
In men che
non si dica Boscoverde abbracciò il buio, le piante e la
vegetazione crescevano
rigogliose e si rinvigorivano anche grazie alle ombre e
all’oscurità che con
chiarezza mostrava le stelle brillare in cielo.
Elrond
propose di fermarsi e trascorrere la notte accampati.
“Possiamo riposare anche
a cavallo” disse Celebrian, “Non
c’è la necessità di rallentare, io non
sto
così male”.
Haldir scese
da cavallo e sorrise alla giovane. “Riposare un po’
non farà male a nessuno e
certamente non staremo fermi tutta la notte. Partiremo allo spuntar del
sole”.
Bolin si
buttò giù dal cavallo e rimessosi in piedi prese
il suo sacco e vi frugò dentro
alla ricerca di qualcosa da mangiare.
Elrond si
sistemò su una roccia, dalla quale Celebrian stette ben
lontana. Bolin trovò
una mela raggrinzita in fondo al sacco e
l’addentò. Elrond lo guardava torvo.
“Non è così male come sembra,
è molto più dolce di quelle fresche”
spiegò il
nano.
L’elfo
gli
sorrise e gli fece cenno di sedersi accanto a lui. “ Allora
Mastro Nano, cosa
ti porta a compiere un viaggio solitario lontano da Moria?”.
Bolin
masticò lentamente la mela, questo era il momento buono per
togliersi parte del
suo peso di dosso. “Io … io sono andato via da una
situazione insostenibile e
che non avevo alcuna speranza di cambiare”.
Elrond era
incuriosito. “Ci sono molte cose che vorremo cambiare ma non
possiamo”.
“Ah!
Scometto che la vita di un elfo è molto più
tranquilla di quella di un nano!
Specialmente se quel nano sono io”.
“Non
si
dovrebbe giudicare gli altri prima di conoscerli. E anche dopo averli
conosciuti bisognerebbe mostrare maggiore cautela”.
“Io”
iniziò
Bolin “non sono stato cresciuto dai miei genitori, ma da un
altro nano. Il suo
nome è Neomat”.
“Anche
io
non sono cresciuto con i miei genitori, ma da un altro elfo”.
“Gil-galad”
affermò Bolin.
“Esattamente”
sospirò Elrond.
Bolin era
triste, la tristezza dell’elfo era contagiosa. “In
ogni caso ho fatto di tutto
per tutta la mia vita per renderlo fiero di me. Inizialmente lo rendevo
orgoglioso, lavoravo bene i metalli e lui mi lodava. Questo mi faceva
sentir
bene. Poi un po’ alla volta le cose cambiarono. Mi chiedeva
di portare a
termine progetti segreti e io ingenuamente ero felice perché
credevo di essere
stato scelto grazie alle mie abilità… con il
tempo ho capito che fui scelto
perché potevo essere manovrato, e usato”.
Elrond
ascoltava in silenzio. Bolin riprese: “Un giorno venne da noi
un elfo. Non ci
disse il suo nome e io lo chiamai Il Male,
chiese a mio padre di riprodurre un’antica spada elfica. Lui
disse che le spade
dei nani non potevano essere forti, robuste ed eleganti come quelli
fabbricate
dagli elfi, e Il Male insistette nel dire che quella riproduzione in
particolare doveva essere identica all’originale.
Io cominciai
a lavorare il metallo, per renderla altrettanto fine e bella dovevamo
usare
materiali molto più fragili rispetto a quelli che
l’elfo ci indicò. Proseguivo
il mio lavoro impegnandomi al massimo e felice di ciò che
stavo facendo.
Poi accadde
l’imprevisto. Sentì Il Male parlare con Noemat e
dirgli che quella spada
sarebbe stata la rovina di un grande Re degli
elfi…”.
Elrond
trattenne il fiato, aveva ascoltato il discorso di Bolin ma solo ora
capiva che
si trattava di qualcosa che li interessava in prima persona.
“Questo
Re
viveva in una grande foresta e conosceva benissimo la sua spada, non
sarebbe
stato facile imbrogliarlo. Allora Noemat chiese quale sarebbe stata la
nostra
ricompensa e Il Male gli rispose che avrebbe dato loro le gemme
incastonate
nella spada originale, al ché mio patrigno chiese come era
sicuro che il Re
avrebbe ceduto la sua spada e Il Male rise malignamente e poi rispose
che il Re
non avrebbe potuto opporre nessuna resistenza giacché
sarebbe stato morto”.
“Mi
stai
dicendo che tu fabbricasti una spada per un Re elfico e
…”.
“No…
io non
volli farlo. Quando l’elfo se ne andò via io mi
rifiutai di completare il
manufatto. Restai ancora a casa ma Neomat non mi rivolgeva la parola,
mi
rinfacciò di avermi amato e di non aver avuto niente in
cambio da me se non
tante delusioni. Una decina di giorni dopo decisi che me ne sarei
andato via,
andai a parlargli e lo vidi con Il Male, stavano discutendo. Il Male
gli disse
di non dover temere nessun tradimento, che avrebbe avuto la sua
ricompensa e
poi se ne andò. Restato solo Neomat parlò tra
sé e sé a voce alta e disse
esattamente Le rune naniche
che incisi nell’oro sotto le gemme della
riproduzione saranno la mia garanzia” .
Elrond era
stato attento e adesso cercava di tirare le somme. Forse, con molta
probabilità, il patrigno di Bolin aveva duplicato la spada
di Oropher, e chissà
come Thranduil aveva intuito che era indispensabile recuperarla.
“Cosa
disse
Thranduil quando gli raccontasti la storia?” chiese Elrond.
“Non
gliela
raccontai. Non ne ebbi il coraggio… e tu sei molto veloce a
fare due più due
Messer Elfo”.
Elrond
sorrise. “Bolin, le tue azioni non sono state malvage, mai.
Sei fuggito via, è
questo non è stato molto coraggioso ma ti sei rifiutato di
prendere parte ad
un’azione ignobile e omicida. Non c’è
colpevolezza in te. Un buon padre sarebbe
orgoglioso del tuo comportamento”.
Bolin
sospirò,
le parole di Elrond lo rassicuravano e allo stesso tempo lo agitavano.
Lui
aveva capito, chissà cosa avrebbe fatto Thranduil.
“Sento
di
aver tradito la fiducia di Thranduil, mi sento sporco!”.
“Non
dire
così. Probabilmente soccorrendolo gli hai salvato la vita.
Lui è un elfo buono,
e saprà guardare nel tuo cuore”.
Il viso di
Bolin era bagnato di lacrime, aveva fatto bene a sfogarsi con qualcuno,
sperava
solo che anche il nuovo Re di Boscoverde avrebbe saputo capire.
Intanto
mentre Haldir riposava Celebrian si guardava attorno, non amava
particolarmente
il buio, ma fu grazie all’oscurità della sera che
poté vedere il lontananza una
luce, un fuocherello.
“Guardate!
Ci deve essere qualcuno laggiù!”.
Otto occhi
scrutarono in lontananza. “Io non vedo niente”
disse Bolin.
“Mastro
Nano, i tuoi occhi non sono allenati a dovere e i nostri vedono ben
più oltre
di dove Uomo, Nano o qualsiasi altra razza possa”.
“Allora
dobbiamo andare” fece il nano intrepido “Se lo
vedete significa che è un buon
segno. Ormai son passate due ore, chi era stanco si è
riposato?” chiese per
curiosità.
Gli elfi
risero dei modi di Bolin, dunque si risistemarono sui cavalli e
partirono per
andare incontro al piccolo fuocherello che vedevano in lontananza.
“Speriamo
sia Thranduil e che ci dia buone notizie sulla sua cara moglie e il suo
giovane
figliolo” disse il nano.
“Speriamo
sia mio padre” disse fiduciosa Celebrian.
“L’importante
è che sia qualcuno che ci dia delle risposte”
concluse saggiamente Haldir
lasciando a Elrond la possibilità di non esprimersi.
Passata
mezzora circa incrociarono un cavallo solitario senza cavaliere.
“Chi mai
lascerebbe un cavallo tanto bello da solo?”,
domandò Bolin.
“Nessuno”
gli rispose Elrond.
Celebrian
guardò meglio verso l’animale.
“E’ il cavallo di mio padre!”.
Haldir scese
subito dal suo destriero e avvicinandosi all’animale lo
riconobbe. “Hai
ragione, Celebrian. E’ il cavallo del Signore del Bosco
dorato, ma … è zoppo”.
“Perché
è da
solo? Non credo che mio padre lo avrebbe abbandonato solo
perché è diventato
zoppo”, disse Celebrian che dentro sé cominciava a
porsi domande.
Elrond
controllò la zampa dell’animale, poi prese dalla
sua sacca delle erbe e dopo
averle masticate e ammorbidite con la saliva mise l’intruglio
sulla zampa lesa.
“Il succo delle erbe penetrerà nella pelle e
rilasserà il muscolo. Di più non
posso fare”. Poi sussurrò alle orecchie del
cavallo parole elfiche e
questo gli strofinò il muso sulla guancia.
“Secondo
voi
cosa è successo?” domandò Celebrian.
Nessuno rispose
e Celebrian capì cosa avrebbero voluto dire.
E’
ferito.
E’
legato.
Cosa possiamo
fare?
Dobbiamo
chiamare aiuto!
Più
di quello che stiamo facendo non
possiamo fare niente.
Diffondiamo la
notizia cosi che tutta
la foresta sappia.
Forse qualcuno
potrebbe sentirci.
E qualcuno
sentì.
“Legolas,
dobbiamo andare verso Imladris. Così ha detto tua
madre” gli ricordò
Mithrandir.
Il ricordo
di sua madre lo fece esplodere. “Cosa ne sai di mia madre!
Come ti permetti di
darmi ordini! Tu non sai niente! Mio padre è ferito e ha
bisogno di aiuto!
Subito! E tu non mi fermerai!”.
Mithrandir
tenne stretto il lungo bastone su cui si reggeva, raddrizzò
al schiena e il suo
volto divenne severo. Improvvisamente l’uomo
sembrò diventare più alto e
un’ombra scura gli si formò attorno.
“Non c’è bisogno di gridare, io non sono
tuo nemico”.
Legolas era
impressionato ma non si mosse di un passo, l’uomo non lo
spaventava anche se
sicuramente non era un uomo normale.
“Io ti
voglio aiutare,” continuò riportando luce attorno
a sé, “ma
non posso farlo se ci addentriamo nella
foresta. Cose poco chiare avvengono sotto le foglie di questa immensa
foresta”.
“Mio
padre …
non posso abbandonarlo”, disse lentamente e con le lacrime
agli occhi Legolas.
“Mio
giovane
amico” disse con dolcezza Legolas “parli sempre di
tuo padre, non sei
preoccupato per tua madre?”.
Legolas si
coprì il viso con le mani e pianse. Mithrandir aspetto che
l’elfo si calmasse e
poi ascoltò con attenzione tutto ciò che Legolas
gli disse. I fatti erano
peggiori di quanto immaginasse. Wisterian era morta, Thranduil era
ancora
ferito e molto debole.
“Adesso
spetta a te” disse Legolas rivolgendosi all’uomo.
“Io sono stato sincero,
adesso devi esserlo tu. Cosa mi nascondi?”.
Mithrandir
sorrise. “Sei molto sveglio per la tua età. Bene,
pochi giorni fa ho incontrato
tuo padre. Lui era ferito, ma l’ho aiutato a risistemarsi un
pochino. Speravo
che riuscisse ad arrivare alla fortezza senza incontrare ulteriori
pericoli, ma
mi sbagliavo. Adesso dobbiamo intervenire, tua madre ci
perdonerà se deviamo
dal suo itinerario, ma credo che in fin dei conti tu abbia ragione,
dobbiamo
raggiungere tuo padre”.
“E se
incontriamo Celeborn?”, domandò spaventato Legolas.
“In
tal
caso, non dobbiamo opporci a lui. Facciamo finta di non sapere la
verità, ciò
ci sarà utile in seguito. Il cugino di tuo padre
è fin troppo spietato, non
esiterebbe a farci del male se gliene dessimo occasione”.
Legolas
riconobbe la verità nelle parole dell’uomo e lo
appoggiò. Proprio come lui
temeva, dopo una mezzora che seguivano le voci degli alberi
incontrarono
Celeborn.
“Legolas!”
chiamò Celeborn con stupore, giacché pensava che
Galion lo avesse già ucciso,
“Cosa fai qua, in giro per la foresta?”.
L’elfling
si
irrigidì, davanti a sé aveva la causa della morte
di sua madre, forse anche di
suo nonno, che montava Lùth, il cavallo di suo padre.
Improvvisamente ebbe il
desiderio di accusare Celeborn di tutto il male che aveva combinato ma
non lo
fece, si mantenne al piano di Mithrandir.
“Celeborn,
Signore del Lothlòrien, è una gioia immensa
vederla. Sono qui, perché fuggo
dalla fortezza di mio nonno e di mio padre, a causa del tradimento di
un fedele
amico della mia famiglia che si è macchiato le mani del
sangue di mia madre
Wisterian e del mio tutore Fidelhion”.
Dentro
sé
Celeborn era molto soddisfatto, Galion era riuscito
almeno in parte a portare avanti il piano,
Wisterian era stata elimanata! Le sue mani cercarono l’anello
di Oropher nella
sua tasca, già si vedeva mentre infilandosi
l’anello al dito apriva e serrava
il grande e possente cancello della fortezza.
“Quali
parole di sventura odono le mie orecchie. Il mondo sta cambiando e gli
amici
assumono vesti di agnelli per mostrarsi poi lupi ferocissimi al calar
della
notte”.
Poi Celeborn
spostò lo sguardo sull’uomo. “Come mai
un Uomo viaggia in questa foresta,
accompagnando mio nipote?”.
Mithrandir
si poggiò sul bastone, usandolo appunto come appoggio.
“In realtà, sire, non
sono io che accompagno il giovane, bensì il contrario. Mi
persi nella foresta
tre giorni fa e pocanzi incontrai questo gentilissimo
ragazzo”.
“Gli
ho
promesso che mi sarei preso cura di lui e lo avrei condotto a casa mia
appena
possibile” disse Legolas.
Celeborn
guardò l’umano, ai suoi occhi era solo un vecchio
malvestito con un bastone,
niente di pericoloso, perciò non si pose nessun problema.
“Bene,
Legolas. Direi che è il caso di tornare alla fortezza e
affrontare il
traditore. Se vuoi, l’Umano potrà venire con
te”.
“Certamente
non avrei chiesto il permesso di condurre un amico in casa mia, in
quanto a te
se vuoi ospiterò anche il tuo amico”
sbottò Legolas indicando l’elfo che
affiancava lo zio.
Celeborn
ingoiò amaro, il piccolo ostentava il suo potere di
discendente della casa di
Oropher davanti a lui! Presto se ne sarebbe pentito.
“Non
era mio
volere offenderti, né assumere un ruolo che non mi compete.
Spero, mio caro
nipote, che non me ne voglia. Non è comune vedere un Uomo in
un Regno elfico e
io ero sinceramente preoccupato per te”.
Bugiardo e infame,
pensò Legolas. “Scusami tu, zio.
Sono molto stanco”.
“Vieni,
torniamo alla fortezza” gli disse Celeborn e rivolgendosi a
Mithrandir
continuò: “Anche lei, ci segua, divideremo assieme
le ansie fino alla casa di Oropher”.
Lùth
sbuffò
e guardò velocemente verso Legolas, sembrava stare bene e
per quanto riguardava
l’umano che era stato chiamato Mithrandir, se lo ricordava
benissimo: era lui
che aveva curato il suo padrone Thranduil presso Dol-guldur. Il
principe Legolas
era in mani sicure.
-----------------------------------------------
Che fosse
vivo o morto a Rhiaian non gli interessava per niente. Senza pensarci,
coprì
nuovamente Thranduil con il sacco e se ne andò.
La sua meta
non era Pontelagolungo come aveva fatto credere ai suoi compagni ma la
fortezza
di Re Oropher, dove avrebbe dovuto incontrare un elfo di nome Galion,
così
aveva detto di chiamarsi a Neomat il giorno che andò a Moria
per ritirare la
spada duplicata.
La
ricompensa di Neomat era vicina e così la sua.
L’idea di una bellissima gemma
nelle sue mani era straordinaria, lui avrebbe portato le gemme a Moria
e poi,
presa la sua parte, sarebbe davvero andato a Pontelagolungo per
venderla agli
uomini del posto o ai nani che ancora vivevano nella Montagna Solitaria.
Avrebbe voluto
fare un po’ di soldi anche dalla cattura, o
ritrovamento, di Thranduil ma nessuno era andato a cercarlo e forse la
spada
che aveva visto era proprio quella da cui sarebbero state prese le sue
gemme
preziose.
Eccomi qua.
Un bel capitolo,
che ancora una volta non racconta tutto ciò che mi ero
prefissata, ma è più
difficile di quanto credessi far andare avanti la storia su
più piani.
Spero che tutto
sia di vostro
gradimento. Ringrazio chi legge, chi recensisce, chi mette la storia
tra le
seguite e tra le preferite.
Vi
abbraccio tutti e vi lascio qualche
indicazione per orientarvi:
·
Galion
è nella Fortezza di Oropher.
·
Celeborn
e il suo complice, assieme a Legolas e Mithrandir si dirigono verso la
fortezza
(sono a poche ore di distanza).
·
Rhiaian
ha lasciato Thranduil e si dirige verso la fortezza (è a
circa un giorno, poco
meno, di distanza).
·
Thranduil
è legato e impossibilitato di muoversi (si trova a un giorno
di distanza dalla
fortezza).
·
Elrond,
Bolin, Haldir e Celebrian sono a un paio d’ore di distanza da
Thranduil.
·
Glorfindel
ha recuperato la spada e si dirige verso Boscoverde.
|
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Capitolo 12 *** L'incappucciato ***
“Allora
dobbiamo andare”
fece il nano intrepido “Se lo vedete significa che
è un buon segno. Ormai son
passate due ore, chi era stanco si è riposato?”
chiese per curiosità.
Gli
elfi risero dei modi di
Bolin, dunque si risistemarono sui cavalli e partirono per andare
incontro al
piccolo fuocherello che vedevano in lontananza.
Dizionario
Sindarin-Italiano
Elrond : Volta stellata
Cap 12
La luce del
fuoco in lontananza si faceva sempre più fiocca e Bolin
temeva che alla loro
velocità non sarebbero arrivati prima che essa si spegnesse.
“Mastro
Nano,” disse Haldir intuendo i timori del compagno di viaggio
“se non sarà la
vista del fuoco a condurci laggiù, sarà quella
del fumo”.
“Già”,
rispose Bolin pensieroso.
Il viaggio
continuò ancora un po’ prima che Bolin sospirasse
al venticello che trovava la
sua strada tra le foglie degli alberi maestosi.
“Elrond
e
Celebrian” bisbigliò il nano.
I due elfi
risposero contemporaneamente: “Sì”.
L’occasione strappò loro un sorriso.
“Però
che
udito! Niente, mi stavo chiedendo che cosa significassero i vostri nomi
nella
lingua comune”.
“Perché
tanto interesse, Bolin?”, domandò Celebrian.
“Bhè,
non
sarò io a sceglierli, però stavo pensando a due
nomi per i nascituri. Ma,
Elrond, hai visto se erano maschi o femmine?”.
L’elfo
guardava avanti, era stanco, aveva preso troppi colpi tutti assieme.
Quanto
erano duri i suoi giorni e quanto lo sarebbero stati in seguito.
“Che
importanza ha? Erano con mio padre…”.
“Amore
mio,”
disse Celebrian “sai bene che le tue visioni non si
realizzano sempre”.
Haldir la
sostenne. “Non pensarci; vedrai, nasceranno, diventeranno
grandi e forti. Non
gli accadrà nulla, staremo attenti che siano sempre al
sicuro”.
Elrond
però
non li sentì parlare. Bolin poteva vedere lo sguardo del
Mezzelfo sempre più
cupo, meno luminoso, sembrava che si stesse spegnendo davanti ai loro
occhi.
Nel suo cuore
Elrond risentiva la voce del padre che cantava del
cielo azzurro, delle nuvole leggere, della poesia delle stelle e della volta stellata, e infine quando la musica
ebbe termine le stelle caddero, divennero pietre e si ammucchiarono
creando un
tumulo che man mano si sgretolò mostrando il suo cuore
spento e sanguinante.
“C’era
una volta una creatura…”
“Era
un elfo, papà?”.
“No,
Thranduil, non era un elfo”.
“…
che viveva nei boschi…”
“Sei
sicuro che non fosse un elfo,
papà?”.
“Sì,
sono sicuro. Fammi continuare,
dai. La creatura aveva lunghi capelli che soleva raccogliere in una
treccia…”
“Come
gli elfi, papà?”.
“Sì,
come gli elfi Thranduil”.
“Però
non era un elfo. Vero, papà?”.
“No,
Thranduil, è vero. Non era un
elfo!” si spazientì Oropher.
“Sei
adirato con me, papà?”.
“No,
Thranduil. Vorrei solo finire la
storia. Non vuoi sentirla?”.
“Ma
poi arrivano gli elfi, papà?”.
“Thranduil,
non tutte le storie
parlano di elfi. Perché è tanto
importante?”.
Gli occhi di
Thranduil divennero
grandissimi mentre rispondeva gioioso. “Perché
così posso pensare che tu sia
l’elfo che arriva e salva tutti, come fai sempre!”.
Oropher era
felice, sapeva che
diventando padre avrebbe certamente avuto modo di sentirsi orgoglioso
del
proprio figlio, ma che fosse una sensazione così intensa non
lo avrebbe mai
creduto.
“Allora,
riprendiamo”, disse
sorridendo. “C’era una volta una
creatura…”.
“Era
un elfo, papà?”.
Oropher sorrise,
sospirando. “Sì,
Thranduil era un elfo. Era un grande elfo…”.
“Sì,
sì. Lo sapevo che doveva essere
un elfo!”, strillettò contento il piccolo.
“Come si chiamava, papà?”.
“A
dire il vero,” rispose il grande
Re Oropher “a dire il vero, si chiamava Thranduil, come
te…”.
Thranduil
boccheggiò per un po’ d’aria e si
svegliò di soprassalto; la foresta lo aveva
svegliato per avvisarlo che qualcuno era in arrivo. Non poteva vedere
ma sentì
voci e tra le tante ne riconobbe una, e fu contento di sentirla.
“Stiamo
arrivando, già … stiamo proprio arrivando al
fuocherello, già, già…”.
Era Bolin,
lo avrebbe riconosciuto fra mille nani chiusi dentro una grotta.
Thranduil
provò a chiamare il nano ma la voce non volle saperne di
venirne fuori, e di
muoversi non se ne parlava nemmeno, ma niente di tutto ciò
fu importante perché
appena i quattro arrivarono al fuocherello notarono subito il sacco
buttato per
terra e dei capelli chiari che spuntavano di lato.
Scesero da
cavallo e Haldir si avvicinò al sacco, facendo cenno con la
mano a Celebrian di
star lontana caso mai si trattasse del padre. Invece spostato il sacco
videro
che si trattava di un elfo barbaramente legato, che indossava indumenti
logori
e laceri in diversi punti, ma soprattutto che era ferito.
Elrond
affianco Haldir. “Dobbiamo subito sciogliere questi
nodi” disse indicando la
corda che legava il collo alle caviglie.
Haldir prese
un pugnale ma Elrond lo fermò. “No,
così è troppo pericoloso”.
“Questi
nodi
non sono dei più semplici, io non ne ho mai visti di
simili”.
Bolin si
avvicinò e vide l’elfo e i nodi. “Ehi,
quelli sono nodi fatti alla maniera dei
nani!”.
“Li
sai
slegare, Bolin?”, chiese speranzoso Elrond.
“Sì,
certo”,
rispose il nano e in due mosse sciolse il nodo. La testa di Thranduil
scattò
indietro come fosse una molla e se non ci fosse stato Haldir a
tenergliela
sollevata, sicuramente avrebbe sbattuto con forza sulla nuda terra.
Haldir
invece sostenne la testa e tolse i capelli dal viso, con un
po’ d’acqua
avrebbero ripulito il viso dell’elfo pensò, ma si
accorse che il gelo era sceso
tutt’attorno. Non ne capiva il motivo, guardò in
faccia Elrond, Bolin e
Celebrian, poi si rivolse all’elfo che sorreggeva e riconobbe
i lineamenti del
nuovo Re di Boscoverde.
“Thranduil!
Oh, subito, sbrigatevi. Slegategli le mani e le caviglie!”
ordinò Elrond.
Haldir
girò
Thranduil, che giaceva nelle sue braccia a peso morto e Bolin con pochi
movimenti sciolse gli ultimi nodi. Era notte ormai, e la luce
scarseggiava
nonostante i quattro elfi ne emanassero un po’, ma quella
poca che il fuoco
riusciva a diffondere bastò perché tutti si
rendessero conto delle pessime
condizioni in cui giaceva il Re di Boscoverde.
Thranduil da
canto suo aveva gli occhi aperti e vedeva che Bolin, Elrond e altri due
elfi
stavano muovendosi attorno a lui per aiutarlo ma non aveva la forza di
parlare;
Elrond gli parlava, continuava a dirgli di stare fermo che avrebbero
sistemato
tutto, Bolin cercava di sdrammatizzare dicendogli che lo trovava sempre
in uno
stato penoso. Thranduil avrebbe voluto sorridergli ma rimase a fissarlo
senza
far altro.
Elrond era
già sfinito di suo, ma come ogni buon guaritore
non si sarebbe risparmiato e così con l’aiuto di
Bolin e Haldir iniziò a curare
il suo amico.
Finalmente
erano arrivati alla fortezza! Legolas era teso, non avrebbe voluto
confrontarsi
con Galion così presto, ma non aveva alternativa. Era felice
che Mithrandir
fosse al suo fianco, la foresta ne aveva ricevuto
un’impressione positiva e
tanto bastava perché Legolas si fidasse di lui.
Celeborn
osservò il grande portone dell’ingresso: era
aperto. Senza pensarci infilò la
mano in tasca e accarezzò l’anello che era stato
di Oropher, con quello avrebbe
potuto chiudere la fortezza agli estranei e indesiderati.
Quando
arrivarono, molte guardie salutarono Legolas, che sembrava un tantino
assente,
salutava e rispondeva a cenni. Mithrandir gli era accanto e osservava
tutto con
estrema attenzione. Nessun elfo pareva essere ostile al giovane
Legolas, eppure
qualcuno aveva complottato alle spalle della corona.
Celeborn
espresse alle guardie la sua volontà di parlare con Galion e
queste li
invitarono a spostarsi nella sala del trono. Era una grande sala,
niente di
eccessivo, il trono però era maestoso con dei bellissimi
intagli in legno a
forma di corna di cervo e dove in rilievo era inciso in spazi davvero
piccoli
delle scene di vita che raccontavano della famiglia reale, di come gli
elfi
Sindarin erano giunti con Oropher a Boscoverde e di come il regno si
fosse man
mano ampliato.
Affianco al
trono c’erano altre sedie decorate con molta
semplicità ma di un fascino
genuino, erano le sedie della regina e del principe in carica, dove
Thranduil
si era seduto fino ad allora. Legolas fissava le sedie e pensava che
ancora una
volta il posto della regina sarebbe stato libero e quello del principe
sarebbe
stato occupato da lui.
Non pensava
questo in termini di potere, pensava che lui si sarebbe seduto accanto
al padre
e che la madre invece non si sarebbe mai seduta al loro fianco.
Mithrandir
attendeva di conoscere Galion e quando questo fece il suo ingresso, il
saggio
anziano vide nei suoi occhi qualcosa che era molto ben nascosto, ma
cosa fosse
bisognava scoprirlo.
Galion
guardò Legolas e questo immediatamente lo assalì.
“Tu! Sei un assassino!”.
“Di
cosa
parli?” domandò stupito Galion.
Legolas non
poteva sopportarlo, l’elfo stava chiaramente negando.
Celeborn
intervenne. “Legolas afferma che tu abbia ucciso Wisterian.
Puoi negarlo?”.
Galion vide
il Signore del Bosco Dorato, stava cercando di prendere tempo, ma lui
sapeva
benissimo che non lo avrebbe tradito.
“Wisterian?
La sposa del principe Thranduil?”, chiese irrequieto lui.
“Certo,
e chi
altro sennò”, rispose Celeborn avvicinandosi al
trono.
Mithrandir
non mancò di vedere l’interesse che Celeborn
sembrava avere per quella “sedia
del potere”. Celeborn a mani aperte la stava accarezzando e
nei suoi occhi si
insinuò una luce chiaramente maligna.
“Come
si
sono svolti i fatti, dunque”, riprese Celeborn quasi a voce
bassa.
Galion
sorrise, questo era il complice che conosceva. “Non come
avevamo previsto, ma
il piano si può sempre perfezionare”.
In quel
momento Mithrandir ebbe la conferma che Galion e Celeborn erano in
combutta e
che lui e Legolas era caduti in una trappola ben orchestrata. I suoi
riflessi
però non furono abbastanza rapidi.
Con uno
schiocco delle mani Galion diede il segnale e due piccoli aghi di
ghiaccio
imbevuti di un potentissimo sonnifero colpirono il collo del vecchio e
di Legolas
facendoli stramazzare al suolo. L’arciere segreto
uscì allo scoperto. Nedhian
aveva uno sguardo più che soddisfatto, due tiri veloci e
consecutivi e due
centri perfetti.
Celeborn
sussultò aspettandosi forse una freccia anche per lui, ma
quando vide che
l’arciere aveva abbassato l’arco si
calmò. “Che storia è
questa?”, domandò.
Galion fece
si chinò verso l’uomo e Legolas e
controllò le pulsazioni: erano rallentate ma
andavano più che bene. “Non possiamo lasciare
andare via un possibile
pretendente al trono, né tantomeno un umano, che del resto
non avrebbe dovuto
neanche trovarsi all’interno di Boscoverde. Dobbiamo
sbarazzarcene ma in modo
pulito. Diremo che Legolas è impazzito e che per questo
è confinato nelle sue
camere. Dell’umano non chiederà nessuno”.
Celeborn non
era del tutto sicuro, c’era qualcosa in Galion che lo
preoccupava, che gli
faceva nascere dei dubbi, ma non disse nulla, ne avrebbero parlato in
privato.
Vedendo che
Celeborn non aveva niente da aggiungere, Galion ordinò a
Nedhian di prendere
Legolas mentre lui tirava per le caviglie l’umano.
“Dove
li
portate?” si informò Celeborn.
“Nelle
vecchie prigioni”, rispose con perfidia Galion
“dove nessuno potrà vederli o
sentirli”.
“E
come
farete a passare inosservati fino alle prigioni?”.
Nedhian
sollevò Legolas, il ragazzo era sempre stato magro ma a
sentirlo in braccio
sembrava proprio leggero. “Forse ci sarà bisogno
di un guaritore con noi. La
gente potrebbe trovare strano che nessun guaritore veda
l’erede al trono”.
“Ha
ragione”, disse Galion “non ci avevo
pensato”.
“Prendete
chi volete, basta che nessuno li cerchi”, rispose stanco
Celeborn. Prima che i
due se ne andassero, Celeborn domandò a Nedhian:
“Come si chiude il portone
della fortezza?”.
Nedhian era
stupito dalla domanda ma non aveva alcun motivo per non rispondere a
qualcosa
di tanto ovvio. “Si chiudono le due porte, e si gira la
chiave”.
Celeborn era
stizzito, però chiaramente Nedhian non lo stava prendendo in
giro,
evidentemente non sapeva dell’anello.
Una volta
che furono andati via, Celeborn uscì dalla Sala del trono e
si avviò verso il
portone. La fortezza sembrava essere pressoché disabitata, meglio così
pensò l’elfo meno
sono, più facile sarà governarli.
Il portone
era aperto e nessuno lo sorvegliava, Celeborn guardò oltre
la soglia, gli
arbusti che al suo ingresso erano verdi e rigogliosi cominciavano ad
appassirsi, questo lo rendeva nervoso. Cosa se ne sarebbe fatto di una
foresta
se questa fosse morta al suo passaggio?
Pensieroso,
tolse l’anello di Oropher dalla tasca e se lo
infilò al dito, c’era ancora un
po’ di sangue di Thranduil tra gli smeraldi verdi. Ci
passò un dito per cercare
di ripulirlo, poi chiuse un anta del cancello e di seguito la seconda,
infine
girò la chiave nella serratura. Provò ad aprire
il cancello e questo si aprì.
Non bastava
indossare l’anello nel momento in cui la chiave girava. Forse
bisognava
pronunciare a voce alta una formula. Perciò disse:
“Che per volontà del Re si
chiuda il cancello”, ma non accadde niente. “Ti
ordino di chiuderti”, disse con
voce imponente, ma il portone restò aperto.
Neanche
l’anello funzionava! Tutto era contro di lui! Preso
dall’ira, Celeborn riaprì il portone e con rabbia
scagliò lontano l’anello,
poi, giratosi si diresse nuovamente verso la Sala del trono, dove
avrebbe
parlato nuovamente con Galion, ma questa volta da solo.
Intanto da sopra
un albero,
Il riposo di
Thranduil non potè durare a lungo, eppure a lui due ore
sembrarono una lunga
notte. Elrond e Haldir lo avevano denudato dalla vita in
giù, era stata
un’operazione lenta perché i pantaloni erano
stracciati e incollati alla pelle
con il sangue e la sporcizia. Avevano cercato di ripulirlo alla luce
del
fuocherello, ma non si vedeva abbastanza.
Bisognava
aspettare la luce del giorno, nel frattempo Elrond gli trasmise parte
della sua
energia, il tanto perché potesse riprendersi senza
affaticarsi egli stesso. Un
lenzuolo, che Celebrian aveva messo nella sua sacca prima di partire,
avvolse
il Re di Boscoverde.
Celebrian
prese una brocca d’acqua e con un panno iniziò a
pulire in viso e i capelli di
Thranduil, mille pensieri scorrevano nella sua testa come un ruscelli
impetuosi
che si riversavano su un grande fiume costeggiato dal dubbio che forse,
davvero, era stato suo padre a fare del male a Thranduil, e prima
ancora a Gil-galad.
Gli occhi di
Celebrian si riempirono di lacrime che scesero sul suo viso per essere
asciugate dalle mani di Elrond. Lei alzò lo sguardo verso il
suo amato e scosse
la testa in segno di diniego. “Non può essere,
Elrond. Mio padre non lo farebbe
mai. Vero?”.
Elrond
l’abbracciò, ma non disse niente. Thranduil
intanto dava segni di volersi
svegliare, provò ad aprire gli occhi ma si accorse di non
riuscire ad aprirli
entrambi, uno era gonfio e pesto. La testa gli doleva, provò
a parlare ma la
bocca era contusa e le labbra spaccate.
Si
agitò, ma
venne tenuto fermo. Le mani che lo tenevano erano decise ma non gli
facevano
male. Lentamente Thranduil riuscì ad aprire un occhio e
guardarsi attorno.
“Chi
sei?”,
domandò stanco.
“Non
mi
riconosci?”, si sentì rispondere.
Guardò meglio e vide una lunga chioma nera e
un elfo che gli sorrideva. “Oh…
Elrond…”.
“Proprio
io”, confermò egli.
Thranduil
richiuse gli occhi, prese fiato e con un filo di voce disse:
“Elrond, Gil-galad
… tuo padre … mi spiace… è
morto. Celeborn ci ha … traditi…
tutti…”.
Celebrian si
portò le mani al volto e si allontanò di qualche
passo.
Elrond gli
posò la mano sul braccio e glielo strinse mostrandogli la
sua vicinanza. “Ho
trovato il suo tumulo a Dol-guldur”.
“C’era
un
tipo con un cap-puccio che …mi ha…
curato…”.
“Non
stancarti Thranduil,” disse una voce nuova “ci
racconterai tutto quando starai
meglio. Già”.
Thranduil
registrò la voce e provando a sorridere disse:
“Bolin! Hai trovato Elrond!”.
“Già”
confermò il nano.
“Già”
ripeté
ridendo Thranduil, ma presto la risata si trasformò in
tosse. Thranduil si
portò le braccia al petto, non riusciva a riprendere fiato,
la tosse era troppo
stancante. Subito Haldir porse un
tegamino con dell’acqua tiepida che aveva preparato sul
fuocherello ad Elrond
che ci sbriciolò dentro un po’ di erbe, le quali
in breve calmarono la tosse
dell’elfo.
Un lieve
venticello accarezzò gli alberi. “Sembra che la
foresta stia soffrendo”, notò
Elrond.
“E’
la
presenza di Celeborn” spiegò Thranduil.
“L’ho visto…, quando tocca gli
… alberi
e dove passa… la foresta ap-passi-sce
…”. Thranduil si dovette fermare perché
ancora la tosse lo bloccò.
Sentì
piangere e tentò di individuare la fonte del pianto, ma non
riusciva a
muoversi. Allora senza dir niente guardò Bolin e questo gli
rispose: “Si tratta
di Celebrian, l’innamorata di Elrond”.
Thranduil si
irrigidì spaventato. “Lei non è come il
padre”, disse Bolin: “secondo me
è una brava persona o non sono un
nano!”.
“Inoltre”,
aggiunse Bolin ricordandosi qualcosa di importante “aspetta
due elfi”.
“E chi
sono?”, chiese lui pensando che altri elfi del
Lothlòrien dovessero arrivare a
Boscoverde.
“Oh,
io non
lo so di sicuro. I nani non vedono il futuro… questa
è una storia di elfi…”.
Elrond
attirò l’attenzione di Thranduil, che subito si
fece attento. “Celebrian ed io
aspettiamo due elflings”.
“Due?
E’ una
cosa davvero rara”. Thranduil sospirò e
pensò a Legolas, a Oropher, a Gil-galad
e a Elrond che si trovava davanti ai suoi occhi, e anche alla povera
Celebrian
che non era responsabile del comportamento del padre. “Questo
ci dice quanto i
Valar vi amino… e consacrino la vostra unione con qualcosa
di eccezionale.
Elrond, … io … sono … felice per
voi”.
“Se
Celeborn
ha ucciso mio padre…”.
“Il
buio
avvolge tutto… tranne le stelle…, fatti guidare
da loro… e non scordarti che
occorre… il buio pesto …per vedere …le
stelle …più delicate. Forse …queste
due
nuove stelline … possono…
condurvi
lontano…, oltre la paura… l’odio
… e la disperazione e… e darvi un po’
di pace”.
Elrond
rimase in silenzio, quanto erano vere le parole del suo amico! A parte
la
visione che aveva avuto non c’era motivo reale per
allontanarsi da Celebrian,
anche ciò che gli aveva detto sembrava non far
più tanto male considerata la
situazione particolare in cui lei era esplosa.
Chiamò
Haldir per farsi aiutare ancora con Thranduil, ma
quest’ultimo si era nuovamente addormentato.
Le vecchie
prigioni erano decadenti e pericolanti per questo motivo Re Oropher
aveva dato
ordine di abbandonarle e di crearne delle nuove all’interno
della fortezza. Le
infiltrazioni d’acqua aveva reso instabile il terreno e i
muri, fatti di pietra
e argilla, durante le forti piogge si sgretolavano.
A Legolas
era stato proibito di andarvi, e nessuno né adulto
né giovane poteva entrarci.
La costruzione sarebbe dovuta essere stata smantellata prima del nuovo
inverno,
ma la guerra aveva portato via molti elfi e bloccato i lavori.
Galion e
Nedhian portarono i due prigionieri nelle loro celle, erano due celle
attigue
ma comunque separate.
“Celeborn,
sembra essere indifferente alle sorti di Legolas e
dell’umano”, affermò
Nedhian.
“Infatti
lo
è. E’ un elfo senza scrupoli, stacci molto
attento”, gli consigliò Galion.
Lasciarono i
due nelle prigioni e uscirono stando molto attenti a dove mettevano i
piedi,
infatti il terreno era scivoloso e alcune volte capitò loro
di doversi
mantenere in equilibrio per non cadere a terra.
Nedhian
tornò subito dentro la fortezza percorrendo un passaggio
segreto che Galion, di
nascosto da Oropher aveva costruito negli ultimi tempi, da quando era
in
combutta con Celeborn. Poiché egli non sapeva niente del
passaggio segreto di
Oropher e avendo bisogno di una via di fuga aveva ben pensato di
costruirsene
una da solo.
Mentre
camminava nel bosco attorno alla fortezza, Galion venne avvicinato da
qualcuno
incappucciato. “Non dovresti essere così
imprudente!”, esclamò Galion.
“Imprudente?
E’ notte fonda, nessuno ci vedrà. Ho visto
arrivare qualcuno. E per caso
Thranduil?”.
Galion
rispose subito: “No, è Legolas, è
rientrato con Celeborn e un umano”.
“Dove
sono?”, chiese l’incappucciato con gli occhi pieni
di speranza.
“Legolas
e
l’umano sono nelle vecchie prigioni, fra poco porteremo anche
un guaritore là
dentro per raffinare la copertura”.
“E’
un posto
pericoloso”, rifletté pensieroso l’altro.
“Per
loro è
più pericoloso stare accanto a Celeborn. Comunque hai
ragione, è ancora buio.
Hai del tempo. Porta loro da mangiare, io devo incontrarmi privatamente
con
Celeborn”, disse andando via.
“Ehi!
Galion!”, attirò la sua attenzione
l’altro “Ho visto un nano nelle
vicinanze…”.
Galion fece
cenno di assenso con la testa: “Bene, me lo
aspettavo. Alla fine si deve compiere tutto”. Poi voltatosi
si diresse verso la
fortezza, con il desiderio di tornare indietro e non aver commesso
errori che
ora lo conducevano verso un cammino molto più difficile da
compiere.
L’incappucciato
si diresse verso il suo nascondiglio nella
foresta, ma passando davanti al portone vide qualcosa di inaspettato.
Il
signore del Lothlòrien, Celeborn, stava chiudendo il
portone.
Aspettò
un po’ e il portone venne riaperto, il volto di
Celeborn era livido dalla rabbia, e con forza scaraventò
qualcosa nella
foresta. Poi vide Celeborn rientrare e velocemente scese
dall’albero e si
avvicinò all’oggetto lanciato, doveva essere
qualcosa di piccolo perché ne
aveva visto il luccichio ma non le dimensioni. La sua sorpresa fu
notevole
quando si ritrovò fra le mani l’anello di Oropher.
Lo
osservò con molta attenzione, era bellissimo anche se era
sporco di sangue. Con molto rispetto lo mise in tasca e si ripropose di
renderlo un giorno al suo legittimo proprietario.
Il mattino
non tardò ad arrivare. E con le prime luci anche la
loquacità di Bolin ritrovò
vigore.
“Io
pensavo
potresti chiamarlo semplicemente “elfo”, oppure
solamente “uomo”, o magari
“cavaliere” se ti sembra più
appropriato” propose Bolin a Celebrian.
“I
miei
figli saranno sia elfi che uomini, come il loro padre”.
“E
perciò?”.
“Bolin,
ci
vuole tempo… e poi anche Elrond deve prendere parte alla
decisione”.
“Sì,
è
vero”.
Celebrian
sospirò, le cose non stavano andando bene, poteva vederlo
bene anche lei.
Thranduil si era svegliato e Haldir con Elrond gli aveva impostato in
posizione
corretta sia la spalla che un un polso. Questo aveva causato molto
dolore a
Thranduil che era nuovamente svenuto. Gli avevano tolto la camicia,
ripulito e
fasciato il petto per tenere ferme le costole.
Fortunatamente
le tre costole rotte non avevano intaccato i polmoni, e rispetto alla
notte
prima sembrava che il Re di Boscoverde stesse autorigenerandosi.
“E’
la
foresta!”, spiegò Bolin, “Me lo ha detto
lui che la foresta lo avrebbe aiutato
a guarire”.
“Qua
ci
vuole ben più dell’aiuto della foresta”,
affermò Haldir. “Non ho mai visto
niente di simile. Insomma, a parte in guerra, anche se a questa non ho
potuto
prendere parte”.
Elrond
preparava un unguento da spalmare sui lividi di Thranduil ma non
poté non
sentire la delusione presente nelle parole dell’elfo del
Lothlòrien. “Non devi
sentirti triste, Haldir. Partecipare a una guerra non rende migliori;
avresti
visto grandi elfi cadere, tanti uomini morire, tanta disperazione e
magari
saresti caduto anche tu”.
“Eppure
sento di non aver fatto il mio dovere”.
“Il
tuo
dovere era stare nel Bosco Dorato e proteggere mia madre e me, e lo hai
fatto”,
gli fece notare Celebrian.
“Insomma,
non è che lo abbia fatto tanto bene… sei riuscita
a scappare…”, disse Bolin
mettendo un tegamino sul fuoco.
Haldir non
gliela fece passare. “Non mi è scappata, io stavo
partendo per una missione
datami da Dama Galadriel”.
Bolin
sollevò le spalle, in realtà non era per niente
interessato a questo elfo, era
noioso, troppo, troppo serio. “Quando tornerà
l’altro elfo?”.
“Chi?”,
chiese Celebrian.
Bolin si
mise in piedi e sollevando le braccia in alto e allungando le mani
quasi
volesse toccare il cielo con esse, spiegò: “Quello
alto, simpatico… quello
biondo che rideva … aveva una missione anche lui,
no?”.
“Ah,
Glorfindel”, azzeccò Haldir,
“… quello
simpatico…”continuò sarcastico.
Celebrian
rideva, si voltarono verso Elrond per sentire
qualche aneddoto sull’elfo più biondo di Imladris
e lo trovarono addormentato
con gli occhi chiusi, nelle mani una ciotola di legno dalla quale
colava
l’unguento appena preparato.
Quando
Legolas si svegliò, si accorse di essere sdraiato su
qualcosa di umido, poteva
sentire odore di
terra e muffa si alzò e
le mani affondarono in un terreno melmoso. Non riusciva a capire dove
si
trovasse. Si ricordava di Galion, di Celeborn e di un pizzico alla base
del
collo, ma come aveva fatto ad arrivare là, non lo sapeva.
Poi si ricordò di
Mithrandir e lo chiamò a mezza voce un po’
intimorito.
Mithrandir
si era già svegliato da un pezzo, in lui il sonnifero non
aveva avuto gli
stessi effetti, forse perché era stato fatto per stordire
degli elfi e non
degli uomini. “Legolas, sono qui. Credo nella cella accanto
alla tua”.
“In…u.u.na…ce..ce…ll.lla!”,
singhiozzò Legolas.
“Suvvia,
Legolas. Non temere, riusciremo a venir fuori da questa situazione, ma
tu devi
essere coraggioso. Va bene?”.
“Ho
p.p.pau..ra”.
“Non
ce n’è
motivo. Siamo qui, ma ti prometto, e quando io prometto mantengo sempre
le mie
promesse, che usciremo di qui”.
Legolas si
zittì, le sue orecchie potevano sentire dei passi. Qualcuno
stava avvicinandosi
alle loro celle. Chi poteva essere? Forse Celeborn era tornato per
ucciderlo,
perché chiaramente era d’accordo con Galion. Non
aveva alcuna possibilità di
fuggire e Mithrandir anche se molto coraggioso era pur sempre un umano.
Come
avrebbe potuto sconfiggere degli elfi?
Mithrandir
non udì i passi ma quando sentì dire:
“Confermo, Mithrandir mantiene sempre la
parola data”, non ebbe dubbi su chi poteva essere.
Un elfo che
indossava un lungo mantello logoro con cappuccio gli sorrise.
“Non so come tu
riesca a muoverti con questi abiti, mio caro amico, ma io non vedo
l’ora che
tutto sia finito per levarmeli di dosso e renderteli”.
Mithrandir
ricambiò il sorriso. “E io non vedo
l’ora di riprendermeli. Ma dimmi come stai?
Cosa ti porta qui? E perché non ci liberi subito?”.
L’elfo
prese
fiato. “Gli umani! Sempre molto curiosi e senza
pazienza”.
“Sai”,
spiegò Mithrandir, “noi non abbiamo
l’eternità davanti a noi”.
L’elfo
rise
sottovoce. “Per prima cosa sto bene. Sono qui per voi, per te
e un certo
elfling che però non vedo…”.
“E’
nella
cella affianco”, rispose Mithrandir.
L’elfo
sia
affacciò e guardò oltre le sbarre; Legolas era in
un angolo che fissava
spaventato verso il nuovo arrivato.
“Ciao,
Legolas”, salutò l’elfo senza ottenere
risposta.
“Ti
ricordi
di me?”.
L’elfo
si
affacciò verso Mithrandir, che gli disse: “Prima
parlava, credo sia solo
spaventato. Dai, su, liberaci”.
“Non
posso,
non adesso. Sono sicuro che Celeborn prima o poi verrà e
vorrà trovarvi qua. Ma
stai tranquillo, io vi sorveglierò e non vi
accadrà nulla”, disse passandogli
del cibo tra le sbarre.
Mithrandir
era dubbioso. “Galion, il compare di Celeborn, ci ha
rinchiusi qui dentro, ha
ucciso Wisterian e anche un altro elfo molto vicino alla
corona”.
“Ne
sono
consapevole. Pagherà ciò che deve, non temere.
Per ora però non opponetevi in
nessun modo a lui”.
L’elfo
abbassò lo sguardo, si poggiò alle sbarre e
guardando dritto in faccia l’Istari
chiese: “Hai avuto notizie?”.
Mithrandir
si fece serio. “Poco fa, appena mi sono ripreso. Non sta
bene”.
L’elfo
strinse le sbarre con tutta la forza che riuscì a mettere
nelle mani. “Non sa
ancora bene come usarlo e non si rende conto di quanto sia potente. Non
lo usa
per comunicare e come se fosse in attesa di qualcosa. Ho cercato di
contattarlo, ma ho trovato la sua aurea troppo debole e credo che poi
sia
svenuto”.
“Abbiamo
sbagliato, Mithrandir”.
“No,
abbiamo
fatto la cosa giusta per Arda. Non si tratta di me, ne di te, mio caro
amico.
Se Celeborn dovesse conquistare Boscoverde, la foresta morirebbe, gli
elfi
silvani morirebbero, tutti. Deve nascere qualcuno che
salverà Arda fra molti,
molti anni e allora dovrà trovare questa foresta e questi
elfi”. Poi con molta
dolcezza negli occhi e nella voce aggiunse: “E
avrà bisogno anche di grandi
Mezzelfi”.
“Adesso
vai”,
concluse l’Istari “è nelle vicinanze, lo
posso sentire”.
L’elfo
salutò Mithrandir, poi Legolas, che era ancora chiuso
nel suo mutismo e uscì, facendo molta attenzione a non
scivolare, e iniziò a
perlustrare la zona della foresta attorno alla vecchia prigione.
Anche Galion
era in perlustrazione, se l’incappucciato aveva visto un
nano, doveva trattarsi
chiaramente di Rhiaian venuto per la ricompensa di Neomat e per la
propria.
Nessun altro nano si sarebbe avventurato nella foresta, o almeno
così credeva lui.
L’incontro
con Celeborn era andato abbastanza bene. Il signore del
Lothlòrien era
infastidito per il coinvolgimento di Nedhian, e arrabbiato che Galion
non
avesse ucciso anche Legolas. Questo era un grandissimo problema, ma si
sarebbero sbarazzati anche di lui, magari facendo credere a tutti che
il
ragazzino si fosse spento, che fosse svanito per la tristezza. Era un
buon
piano.
Per quanto
riguardava il nano, avrebbero aspettato il suo arrivo e gli avrebbero
consegnato la spada di Oropher. Ciò che era giusto, era
giusto e certamente
Celeborn non voleva inimicarsi i nani di Moria. Così
Celeborn aveva consegnato
la spada a Galion dicendogli però di darla al nano solamente
dopo che lui fosse
salito sul trono in maniera legittima.
E mentre
ripensava a tutto questo Galion sentì il pesante passo di un
nano. I passi
degli elfi erano molto leggeri e Rhiaian ebbe un sussulto quando se lo
trovò
davanti.
“Identificati”,
gli ordinò Galion.
“Sono
un
nano di Moria. Rhiaian figlio di Thriaian”.
“Sono
Galion, e ti stavo aspettando”, rispose l’altro e
fattogli cenno di seguirlo, andarono verso il passaggio segreto della
fortezza.
Ciao
a
tutti. Eccovi il nuovo capitolo. Scusate tanto per il ritardo
… ormai credo di
scusarmi ad ogni aggiornamento, però faccio davvero del mio
meglio e il caldo,
esagerato e senza un filo d’aria, non mi rende il compito
molto facile.
Però
il capitolo è
molto importante, ormai siamo al punto di svolta, credo di essere
abbastanza
vicina alla conclusione, direi ancora quattro capitoli, ma forse
cinque…
diciamo che quattro è un numero indicativo.
Come
sempre, aspetto le
vostre recensioni… senza le quali sarebbe molto
più complicato andare avanti…
Spero
che la lettura vi
abbia divertito e vi appassionato.
Un
abbraccio,
Alida
|
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Capitolo 13 *** Per Arda ***
Salve
a tutti! Ecco un
aggiornamento… è un capitolo breve, ma non volevo
lasciarvi senza niente fino a
domenica. (Ok… sto fingendo di fare aggiornamenti in date
stabilite… suvvia,
almeno ci provo…).
Spero
vi piaccia.
A
presto, Alida
“Sono
un nano di Moria.
Rhiaian figlio di Thriaian”.
“Sono
Galion,
e ti stavo aspettando”, rispose l’altro e fattogli
cenno di seguirlo, andarono
verso il passaggio segreto della fortezza.
Cap 13
Rhiaian
venne accompagnato in una stanza, che sicuramente era stata adibita per
gli
ospiti, nella quale trovò tutti i comfort che desiderava,
ovvero un letto
morbido, un bagno personale e del cibo.
A parte
Galion e Celeborn nessuno era destinato a sapere della sua presenza, ma
siccome
l’odore dei nani era particolarmente forte per
l’olfatto degli elfi, era stato
sistemato in una zona poco frequentata della fortezza.
Per Rhiaian
comunque non faceva differenza, non si trovava lì in segno
di amicizia ma per
motivi d’affari, e voleva concludere assolutamente al
più presto l’intera
faccenda ed essere lontano miglia e miglia di distanza, da Boscoverde.
Celeborn non
aveva nessun interesse a condividere gli spazi con un nano adirato e
perciò era
andato nella sua stanza a rendergli omaggio; gli era costata non poca
fatica,
ma la diplomazia era d‘obbligo quando si trattava dei nani
scavatori, e lui era
disposto ad averla con chi aveva reso possibile la realizzazione del
proprio
piano.
“Quando
avrò
la spada?”, chiese senza indugio Rhiaian dopo i primi
convenevoli.
Celeborn
detestava essere affrontato di petto, lo fissò per un
po’ e posando lo sguardo
altrove parlo con fare distaccato. “Quando sarò
sicuro che non dovrai usarla
andando via dalla foresta. Voglio che il tuo rientro sia sicuro,
fintanto che
risiedi qua”.
“So
badare a
me stesso, e se il regno è tuo perché dovrei
essere attaccato?”.
Celeborn
ingoiò amaro, il nano stava andando ben oltre i suoi diritti
di ospite. “Il
Regno di Boscoverde sarà mio a breve, per ora non lo
è. Ma fra pochi giorni
sarà tutto sistemato. Fino ad allora starai qui, in questa
stanza e
possibilmente cerca di non far troppo rumore. L’udito degli
elfi è molto
sviluppato, non vorrei che qualcuno che non mi è devoto,
trovandoti all’interno
della fortezza fosse brusco con te”.
Rhiaian
intuì la minaccia, neanche tanto nascosta, che stava
dietro le parole di Celeborn e preferì lasciar cadere la
questione, ma
sicuramente Neomat ne sarebbe stato informato al suo rientro e se lo
sarebbe
legato al dito per affari futuri.
“Allora,
l’elfo si chiamava come me, Ada?” chiese il piccolo
Thranduil.
Oropher gli
sorrise. “Sì, si chiamava
Thranduil e aveva un amico…”.
“Era
un elfo, Ada?”.
“Sì,
ma era un po’ diverso dagli
altri elfi, anche se lo era”.
“In
che senso, Ada?”.
“Era
qualcuno che aveva scelto di
essere elfo, ma che, volendo, sarebbe potuto restare umano”.
Il piccolo
Thranduil si fece serio e
il mentre Oropher seppur non invecchiando, come si addice agli elfi,
assumeva
dei tratti di maturità e saggezza, il piccolo Thranduil
divenne elfling e poi
un elfo adulto.
“Come
si chiamava questo elfo, Ada?”,
chiese con voce greve.
Oropher si fece
da parte e dietro lui
comparve Elrond.
“Thranduil,
non puoi vivere nei tuoi
sogni, devi svegliarti”.
“Come
hai fatto a essere qui? Credevo
di dormire…”, obiettò Thranduil
incredulo e un po’ spaventato dall’evento.
“Sono
un guaritore, amico mio, e mio
padre mi ha affidato un anello, molto potente, che a quanto pare
amplifica le
mie capacità”.
“Vuoi
dire che potrai guarirmi più
velocemente?”.
“Non
lo so, però non credo. Io stesso
sto scoprendo questo dono giorno per giorno e non ho le risposte che
cerchi, né
quelle che vorrei”.
Oropher si fece
avanti. “Thranduil,
ascolta Elrond. E’ un buon amico, devi svegliarti e se anche
il dolore sarà
forte non devi più cedere al sonno”.
Thranduil
abbassò lo sguardo a terra.
“Io… avrei voluto… c’erano
ancora tante cose da dirci e da fare…, poi …
magari…
se aspetto… verrà anche Wisterian. Non
credi?”.
“Figlio
mio. Una volta entrati nelle
Sale di Mandos possiamo venire a salutarvi nei sogni, ma solo per
portarvi
consolazione e speranza. Come ti sentiresti se vedessi la tua
amata?”.
Thranduil stette
zitto. Come si
sarebbe sentito? Inutile, sicuramente, per non averla potuta salvare.
Stupido,
per non averle mai detto quanto la amasse veramente
e forse anche ingenuo per aver creduto che
davvero, anche loro, sarebbero entrambi salpati per Valinor assieme,
mentre
adesso non si sarebbero più potuti rivedere o abbracciare.
“Tu
l’hai vista?”, chiese Thranduil
“L’hai vista?”.
“Sì,
ma non ci siamo ancora parlati.
Ha bisogno di tempo per accettare di essere qui. Io sono morto in
battaglia e
avevo messo in conto la possibilità di morire, per lei
è diverso”.
A quel punto
Elrond non si trattenne.
“E mio padre, Gil-galad, l’hai visto?”.
Oropher
guardò il Mezzelfo con
costernazione. “No, Elrond. Perché mai
l’avrei dovuto vedere”.
“E’
morto. Abbiamo trovato il suo
tumulo”, affermò Elrond.
“Bhè,
gli elfi che muoiono vengono
tutti nelle Sale di Mandos. Se lui non c’è, allora
la spiegazione è solo una,
mentre per quel tumulo potrebbero essercene tante”.
“Adesso
andate”, ordinò Oropher a
entrambi. “Vai figlio mio, e prenditi cura di mio
nipote”, disse rivolgendosi a
Thranduil, poi guardò Elrond e gli rivolse queste parole:
“Voi due, a modo
vostro, sarete dei grandi elfi. Prenditi cura di mio figlio e di mio
nipote”.
“Sarò
anche un guaritore, ma per
Boscoverde non posso fare niente. La foresta sta morendo,
appassisce…”.
“E’
colpa mia”, confessò Oropher, “Ho
lanciato una maledizione su Celeborn e fintanto che lui
attraverserà il mio
regno, la foresta perirà. Adesso andate, e siate
fiduciosi”.
E in un attimo,
mentre ancora
Thranduil e Elrond lo fissavano e le loro menti erano attraversate da
nuove
domande, l’immagine sorridente di Oropher svanì.
Thranduil
allungò le mani nel
tentativo di fermarlo ma non servì. Era andato e adesso
forse non lo avrebbe
neanche più sognato. Era inutile dormire, suo padre aveva
compiuto il suo
dovere ed era andato anche più in là, ma non
sarebbe più riapparso.
“Thranduil,
amico mio, svegliati.
Devi essere cosciente per guarire, i miglioramenti che potevi trarre
dal sonno
li hai già avuti. Devi riprenderti, svegliati”.
E Thranduil
si svegliò, assieme a lui anche Elrond. Entrambi avevano dei
visi accigliati e
Bolin, Haldir e Celebrian non sapevano come interpretare questo
cambiamento.
“Pensavamo
fossi svenuto!”, disse Celebrian avvicinandosi a Elrond.
“E
forse
sono svenuto, non so di preciso cosa sia successo”, disse
tenendosi la testa
fra le mani e posando lo sguardo su Thranduil che con un cenno
confermò di aver
condiviso il sogno, se sogno poteva essere chiamato, con il suo amico.
“Il
lascito
di mio padre ha un grande potere”, disse a voce alta
più a se stesso che ad
altri.
“Sembri
molto stanco. Se vuoi aiutare Thranduil, devi essere in forma.
Sarà il caso che
mangi qualcosa”, disse Bolin prendendo un tegamino e
preparandosi a cucinare
qualcosa.
Haldir
alzò
lo sguardo al cielo, e sollevate le braccia in alto le
lasciò ricadere di peso
lungo i fianchi. “Questa sarà l’immagine
di te che porterò per sempre nei miei
ricordi. Anche fra mille o due mila anni ti vedrò sempre con
un tegamino pronto
a cuocere qualcosa!”.
Elrond
sorrise. Thranduil provò a mettersi seduto, ma non ci
riuscì. Inoltre la sua
nudità sotto il lenzuolo lo imbarazzava parecchio.
“Troveremo una sistemazione,
vedrai”, lo rassicurò Elrond.
“Comunque,
grazie”, disse rivolgendosi a Celebrian e indicando il
lenzuolo.
“Di
niente”,
rispose lei. “Vuoi un po’ di acqua?”, gli
domandò.
“Magari.
E’
da un paio di giorni che non bevo niente. Avevo dell’acqua
nella borraccia, ma
era sul mio cavallo”. Poi si dovette fermare
perché gli venne l’affanno.
Dormire era molto più confortante, e chissà
perché il padre non voleva.
“Ti
consiglio di non dare risposte troppo lunghe, per ora sì o
no basteranno”, gli
suggerì Elrond.
Thranduil
fece cenno di aver capito.
“Dov’è
Lùth?”, chiese il nano a Thranduil.
“Celeborn”,
fu la risposta.
Celebrian
sentì di avere un groppo in gola, ancora una volta sembrava
che suo padre
avesse avuto una parte non proprio lodevole nello svolgersi degli
avvenimenti.
“Uomo-elfo!
Elfuomo!”, disse Bolin guardando Elrond.
“Elrond,
va
bene. Al massimo Mezzelfo, se proprio ci tieni”,
specificò Elrond.
Bolin
scattò
in piedi con il tegamino in mano, correndo il rischio di rovesciare
tutto il
contenuto a terra. “Ma cosa hai capito! Dai, Elfuomo
è un possibile nome per un
bambino elfico. Non sarebbe bello?”.
Elrond fu
lapidale. “Non spetta a te scegliere il nome di uno dei miei
figli”.
“Ah,
ah!
Allora sappiamo che non ci saranno femminucce in famiglia!”,
rispose Bolin.
“Ottima
mossa, Mastro Nano. Ce ne vuole per cogliere in castagna mio
figlio!”.
Tutti si
voltarono verso la voce, assolutamente unica e inaspettata.
Gil-galad con un
vecchio mantello logoro e un cappuccio era
in piedi su un albero. Elrond lo vide e rimase pietrificato sul posto.
Celeborn con
aria di superiorità perlustrava la fortezza, gli elfi che lo
incrociavano vociavano
al suo passaggio. Se Oropher fosse stato presente probabilmente il
Signore del
Lothlòrien non avrebbe avuto tale atteggiamento, sebbene
avesse sempre guardato
dall’alto in basso gli elfi silvani e non avesse mai capito
fino in fondo cosa
ci trovasse di tanto speciale Oropher in loro.
Celeborn,
che era un elfo rancoroso, fissava in mente i volti degli elfi e delle
Elleth
che gli lanciavano sguardi ostili e presto, in qualche modo, si promise
di
fargliela pagare. Quegli elfi avrebbero dovuto sentirsi lusingati che
qualcuno
del suo rango si aggirasse per la fortezza, se non per altro almeno per
trarre
esempio sul portamento che un “buon elfo” avrebbe
dovuto avere.
Invece agli
occhi di Celeborn erano solo elfi rozzi e senza speranza. Dopo un
po’ che camminava
da solo, Celeborn venne avvicinato da Galion.
“Spero
che
ti senta a tuo agio, qui, all’interno della fortezza.
Nonostante sia creata sotto
la roccia, è pur sempre una bella casa. Non
trovi?”.
Celeborn
respirò pesantemente. “Credimi, è un
posto dignitoso, ma si poteva fare
decisamente di meglio”.
Il commento
lasciò amareggiato Galion, al quale la casa che Oropher
aveva fatto costruire
era sempre sembrata bellissima, seppur fosse impossibile osservare il
cielo
aperto e le stelle al suo interno.
“Dobbiamo
agire presto, amico mio”, riprese Celeborn, “prima
che la maggior parte degli
elfi silvani torni, dobbiamo prendere il potere”.
“E
Thranduil? Non abbiamo la certezza che sia morto”.
“Faremo
in
modo che i sudditi di suo padre abbiano un motivo per dubitare di
lui”, disse
sorridendo. “Bisogna organizzare al più presto una
riunione con i consiglieri
del regno. Quanti sono?”.
“A
dire il
vero, Oropher non aveva bisogno di tanti consiglieri. Io ero il suo
consigliere
personale e questo lo sai. Poi c’erano suo figlio e in
qualche misura anche sua
nuora Wisterian”, e pronunciandone il nome la sua voce ebbe
un calo.
“Ti
senti in
colpa?”, domandò Celeborn che faticava a capire il
motivo dell’emotività del
suo amico-collaboratore.
“No,
sto
solo pensando come organizzare il tutto. Di solito le decisioni
importanti si
svolgono in presenza di una decina di elfi, che non sono consiglieri ma
che
comunque esprimono i loro pareri e dunque le perplessità e
la posizione dei sudditi.
Non è semplice avere il consenso degli altri”,
concluse Galion.
Celeborn non
era interessato ad avere il consenso di tutti i sudditi, proprio non
gli
importava di loro. “Organizza come meglio credi, entro due
giorni voglio questa
riunione. Dobbiamo iniziare a fare qualche mossa decisa”.
“Ne
abbiamo
già fatto molte, e non vorrei che tutta questa fretta
rovinasse i nostri piani,
Celeborn”.
“Non
metto
in dubbio, che tu abbia fatto il possibile per portare a termine i
nostri
progetti, e due omicidi devono pesare, anche se in fondo si trattava di
due
elfi silvani, chiaramente un errore, un grosso errore dei Valar,
però non
dobbiamo cedere ora, Galion. Altrimenti per cosa li avresti
uccisi?”.
“Sicuramente
non per niente,” rispose Galion “non per
niente”, ripeté.
E mentre se ne
andava, gli ritornò alla mente la fretta con
la quale aveva cavalcato per raggiungere Boscoverde in tempo per
commettere un
crimine, per avere forse metà della foresta, per aver
potere, e in fin dei
conti niente.
Gil-galad
scese dall’albero con un salto da far invidia al
più giovane degli elfi, la
pugnalata di Celeborn era ormai guarita e nessun problema fisico che
gli
impediva di camminare, ma la distanza tra lui ed Elrond sembrava essere
chilometrica seppur si poteva contare in pochi passi.
Davanti a
sé
aveva il figlio che tanto aveva amato e che aveva ferito nel
più terribile dei
modi mettendo in scena la propria morte, a lui avrebbe dovuto dare
tante
spiegazioni, in realtà molto semplici e banali, tanto da
sembrare inconsistenti,
spiegazioni che poi si racchiudevano in un’unica parola:
Mithrandir.
Gil-galad
vide Haldir e Celebrian, quest’ultima lo guardava con
sospetto e sfida,
probabilmente avrebbe dovuto chiarirsi anche con lei, poi
c’era un nano, che
sembrava un pesce fuor d’acqua in quel contesto e che
però evidentemente doveva
aver avuto un ruolo importante, per terra giaceva Thranduil, il nuovo
Re di
Boscoverde, coperto con un lenzuolo e infine in piedi, immobile, Elrond.
Gil-galad
fece quei pochi passi che lo separavano dal figlio
e allungate le braccia posò le mani sulle
spalle del figlio. “Mi dispiace, figlio mio, ho lasciato un
grande peso sulle
tue spalle, ma non l’ho fatto senza averci riflettuto bene
prima. Credimi, se
fosse stato possibile…”.
Elrond aveva
lo sguardo puntato al petto del padre, non riusciva a guardarlo in
faccia. Era
adirato, deluso, non riusciva proprio a capire il perché di
tutto quello che
era successo avrebbe voluto abbracciare il padre senza pensarci su un
attimo,
ma lo sgomento era tale che rimase immobile. Gil-galad vide la
confusione nel
viso del figlio.
“Andiamo
per
ordine. Vuoi sentire cosa è accaduto?”.
Elrond
allora fece cenno di sì, ancora senza sollevare lo sguardo.
Gil-galad
sapeva che suo figlio non era l’unico ascoltatore,
però voleva subito
recuperare il rapporto con Elrond, sentiva infatti che fra loro, a
causa sua,
si era creata una frattura.
“Dopo
esser
partito con Celeborn alla ricerca di Thranduil, il viaggio
proseguì tranquillo
fino a Dol-guldur. Là Celeborn
tentò di uccidermi e nel tentativo uccise anche uno dei suoi
complici. Quando
mi lasciò per terra, sanguinante, era sicuro che nessuno mi
avrebbe trovato e
che sarei morto. Invece come sappiamo nella scacchiera della vita viene
sempre
mossa qualche pedina in maniera inaspettata, e così venni
raggiunto da
Mithrandir…”.
Nel sentire
quel nome Elrond alzò di scatto gli occhi verso il padre,
Gil-galad li osservò
un momento ma con estrema attenzione, suo figlio era debole, i cerchi
neri
attorno agli occhi ne erano la prova, ma più grave ancora,
la luce che
ricordava in essi sembrava essere molto più debole.
“Sì,
Elrond,
Mithrandir. Lui mi ha curato e quando ancora faticavo a stare in piedi
siamo
stati raggiunti da Thranduil che era in pessime condizioni,
ma…”, si interruppe
per dare un’occhiata al Re di Boscoverde,
“… ma comunque in condizioni migliori
di quelle in cui lo ritrovo”.
“Poi
cosa è
accaduto? Ho trovato un tumulo a Dol-guldur, Thranduil ha detto che eri
tu!”.
Gil-galad
abbassò ripetutamente la testa in segno di assenso.
“Sì, Mithrandir gli ha
fatto credere che fossi io, ma si trattava del complice che era
Celeborn aveva
ucciso per sbaglio…”.
“Ma
perché?
Perché fingere? Era necessario tanto dolore?”,
domandò triste Elrond stringendo
le braccia del padre.
Quello,
sentendo il contatto fisico che il figlio aveva creato con lui,
alzò gli occhi
al cielo, si morse il labbro inferiore e spiegò.
“Mithrandir disse che era
necessario, che se tu avessi saputo che ero ferito saresti corso a
cercarmi,
mentre era di primaria importanza che giungeste in fretta alla
fortezza, che tu
avessi un motivo per raggiungerla di corsa e non fermarti”.
“E
quale
sarebbe questo motivo tanto importante?”.
Ancora prima
di parlare Gil-galad sapeva che la risposta non sarebbe stata
soddisfacente,
perché avrebbe avuto senso solo col senno di poi, dopo
diversi secoli, ma il
motivo era quello.
“Il
motivo è
la salvezza di Arda, e che ci crediate o no…”,
disse a quel punto rivolgendosi
a tutti i presenti e dando uno sguardo interrogativo al nano che
ascoltava
interessato, “senza Boscoverde, il suo re e il suo principe,
non potrà
avvenire”.
“E mio
padre?”, chiese Celebrian.
“Mia
dolce
Celebrian”, rispose lui, “tuo padre ha compiuto
grandi torti in nome della
propria avidità, spetterà ai Valar decidere per
lui”.
Le gambe di
Celebrian cedettero e se accanto a lei non ci fosse stata Haldir
probabilmente
sarebbe caduta a terra. Elrond le corse vicino.
“Elrond,
figlio mio, non volevo farti soffrire…”.
All’improvviso
Elrond si sentì stanco e cominciò ad annaspare
per un po’ d’aria. “Prendilo”,
disse sfilandosi l’anello dal dito, “è
troppo per me, prendilo tu”.
Gil-galad
restò a debita distanza. “Lo diedi a te, e a te
deve rimanere”.
“Non
posso,
non posso fa-r-cela…”, disse mentre la vista gli
si oscurava. Poi però vide una
gran luce e un volto coperto di sangue, di un elfo dai capelli neri, si
formò
nella sua mente. Era disteso su un pavimento di pietra e si copriva il
viso con
una mano. Poteva sentire piangere e gridare e il rumore incessante
della
pioggia.
Ciò
che
sentì dopo era suo padre che gli parlava, si
ritrovò semi sdraiato con le
braccia di Gil-galad attorno. “Elrond, mi dispiace, mi
dispiace, davvero. Oh,
Valar, lasciatemelo, perdonatemi. Elrond!”.
Il Mezzelfo
aprì gli occhi, pensò che fosse alquanto strano,
non gli capitava mai di
svenire durante le visioni, ma Vilya lo stava davvero mettendo alla
prova.
Elrond fece
leva sulle braccia del padre e si mise seduto.
“Hai
avuto
una visione?”, domandò Celebrian.
Lui
raccontò
ciò che aveva visto. Bolin sembrava molto incuriosito dalla
straordinaria
capacità di vedere il futuro dell’elfo.
“Per ciò che ho visto io, non è che ci
siano molti elfi dai capelli neri”.
Tutti si
voltarono verso lui. “Voglio dire, o è lui oppure
è suo padre”.
Una risata
soft di Thranduil deviò l’attenzione degli elfi.
“Questa … è … la
… famo-sa …
sensi-bi-lità dei nani..”, disse concludendo con
un violento attacco di tosse.
In un attimo
Gil-galad fu al fianco di Thranduil, lo aiutò a sedersi e
gli tenne la testa.
Il corpo dell’elfo era terribilmente debole. Il Signore di
Imladris notò la
nudità del Re di Boscoverde.
“Provvederò a recuperarti dei vestiti dalla
fortezza, così starai più comodo”.
Thranduil
però non diede segno di aver sentito, si stava sforzando di
stare sveglio, ma
non aveva ancora piena consapevolezza del mondo attorno a
sé. A momenti gli
sembrava di essere lucido, sentire, capire, un attimo dopo il dolore
fisico e
mentale si impossessavano dei suoi sensi.
“Tu,
puoi
entrare dentro?”, chiese Elrond.
“Sì…”.
“Allora
dovrai procurarmi delle medicine”.
“Credo
sia
possibile”, affermò Gil-galad ricordandosi che un
guaritore sarebbe stato
portato nelle prigioni da Legolas.
Thranduil
era pesante nelle braccia di Gil-galad, il viso tumefatto, le labbra
secche e
spaccate, le braccia erano scorticate, in special modo nei polsi.
“Cosa
gli è
successo?”, domandò.
“Non
lo
sappiamo ancora. Lo abbiamo trovato legato, sotto un sacco”,
spiegò Haldir.
Toc-toc-toc…
Il rumore
richiamò l’attenzione di tutti, per un attimo
ognuno cercò di capire da che
parte arrivasse, ben presto si accorsero che erano delle gocce
d’acqua.
Stava
cominciando a piovere.
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Capitolo 14 *** Goccia a goccia ***
Oggi
è una bella giornata perciò ho voluto lasciarvi
con un sorriso. Un abbraccio a tutti.
Spero
che il capitolo vi piaccia.
Alida
Toc-toc-toc…
Il
rumore richiamò
l’attenzione di tutti, per un attimo ognuno cercò
di capire da che parte
arrivasse, ben presto si accorsero che erano delle gocce
d’acqua.
Stava
cominciando a piovere.
Cap 14
Erano trascorse due
ore e la pioggia non aveva mai smesso di cadere. Non era molto forte
però non
aveva dato un attimo di tregua, rendendo difficile la permanenza degli
elfi e
di Bolin all’aperto.
Gil-galad come promesso
era tornato con medicine, del cibo e
abiti per Thranduil, il quale era stato aiutato a vestirsi per
ritrovarsi con
vestiti sì integri ma bagnati e ora riposava seduto spalle
contro un albero.
Haldir aveva preso il cibo e una volta diviso in porzioni lo aveva
distribuito
fra tutti i presenti.
“Cosa
è questo?”, chiese Bolin tenendo in mano un pezzo
di
pane duro.
“Lembas”,
rispose Haldir.
Thranduil
tossì. “Non sarà buono
come la tua pancetta, però ci darà più
sostanza”.
Gil-galad osservava il
nano, tutti sembravano essere a loro
agio con lui e viceversa. “Vi conoscete da molto?”,
domandò a Thranduil e
Bolin.
“Da prima che
noi due ci incontrassimo alla vecchia
fortezza”, gli rispose Thranduil.
“Ci vuoi
raccontare?”, gli domandò Gil-galad
“Come sono
andati i fatti dopo Dol-guldur?”.
Thranduil
guardò Celebrian, non voleva sconvolgerla. In
primo luogo lei non era responsabile delle azioni del padre e poi, cosa
più
importante, aspettava due elfling e perciò doveva restare
tranquilla.
Lei sembrò
leggergli il pensiero. “Non preoccuparti,
Thranduil. Immagino già che non sarà facile per
me sentire ciò che hai da dire,
ma sono pronta ad ascoltarlo ugualmente”.
Elrond intervenne.
“Dovrebbe parlare il meno possibile, deve
riprendersi”.
Thranduil era stanco,
anche rigenerarsi costava fatica, i
pensieri erano confusi, si ricordava soltanto dolore
e preoccupazioni. “Mi ha
trascinato…”, iniziò
Thranduil respirando piano, “mi ha trascinato legato a
Lùth, i polsi e le
gambe… bruciavano… tiravano… Poi sono
fuggito … ma mi sono svegliato legato …
c’erano diverse voci…”.
“Thranduil, va
bene così. Rilassati, non è necessario
continuare”, lo interruppe Elrond avvicinandosi
all’amico e spezzando un po’ di
lembas per lui in modo che potesse mangiarlo da solo.
“Elrond,..Legolas
è… in pericolo. E Wisterian, credo …
che
lui l’abbia vista morire. Mio padre… oh, Elrond.
La sua spada! L’hai
ritrovata?”.
Elrond gli
sistemò i capelli bagnati, e aiutandolo a stare
seduto gli raccontò di Glorfindel. “Nelle sue mani
siamo al sicuro”, disse
Gil-galad.
Thranduil
sospirò, aveva fiducia in Glorfindel, sapeva che
era un elfo d’onore e se Elrond gli aveva dato una missione,
lui l’avrebbe
portata a termine.
“Cosa
c’entra la spada di Oropher?”, chiese Celebrian a
Elrond.
Elrond guardò
Bolin, non se la sentiva di raccontare a tutti
ciò che il nano gli aveva confidato, Gil-galad vedendolo
esitare rispose al suo
posto. “Ci sono due spade, me lo ha detto suo padre. Ma non
so per quale
motivo”.
Thranduil piegò
le gambe al petto, ma subito le riabbassò.
“Sembrava difettosa…”, disse fermandosi
prima di tossire. Si piegò in avanti,
ma perse l’equilibrio e cadde di lato. Elrond però
lo riportò velocemente in
posizione seduta.
“Basta parlare,
Thranduil”, gli disse con tono greve.
Il Re di Boscoverde
cominciò a respirare piano, il ricordo
di suo padre era doloroso; Gil-galad gli si avvicinò e
presagli la mano, gli
fece scivolare dentro l’anello di Oropher. “Questo
era di tuo padre ma ora è
tuo, giusto?”.
Thranduil
osservò l’anello e lo riconobbe.
“Come hai fatto
ad averlo? Quando abbiamo sepolto Oropher,
lui non l’aveva?”, gli chiese Elrond.
“E’
vero. L’ho trovato ieri. Qualcuno lo ha lanciato tra gli
alberi”, rispose Gil-galad.
Thranduil prese fiato:
“Qualcuno!”, disse sarcastico.
“Qualcuno… che credeva che
l’anello… potesse dargli…
chissà… quali poteri …”.
Thranduil chiuse la mano a
pugno con dentro l’anello,
sembrava un inestimabile tesoro, come quando da piccolo trovava qualche
pietrolina colorata e la conservava gelosamente credendola un gioiello.
“Ma il
Regno di Boscoverde… non è protetto…
da nessun anello…”, continuò con voce
tremante.
Elrond gli tenne le spalle
con le sue mani, poteva vedere la
tristezza e in una certa misura anche l’amarezza negli occhi
dell’amico.
“Thranduil, riposati…”.
Thranduil lo
guardò dritto in faccia e con stanchezza mista
a orgoglio terminò: “Eppure è
protetto… da elfi coraggiosi…
dall’amore per la
foresta… dalla dedizione e compassione del nostro
Re..”, ancora una volta si
rese conto di aver parlato come se Oropher fosse ancora vivo, vide
Elrond che
era senza parole e non sapeva come confortarlo, ma continuò:
“ e anche nudo e
strisciante lo proteggerò anche io, lo
proteggerò… e anche tutti gli elfi…
che
mi seguiranno… sempre… sempre
troveranno… una casa…
sicura…”.
Poi non ce la fece
più, si portò le mani al viso e nascose
quella che per lui era una debolezza, ma non lo era.
Elrond si voltò
verso suo padre, gli occhi di Gil-galad
erano lucidi. “Devi essere forte, Thranduil. Per il tuo regno
e per tuo
figlio”.
Legolas! Il pensiero di suo figlio era
costantemente nella testa di
Thranduil; avrebbe voluto contattarlo però aveva bisogno di
essere lasciato da
solo, perciò decise di darsi un paio di minuti di calma che
sarebbero bastati
per rassicurare Elrond e gli altri e poi avrebbe aperto il suo
collegamento con
Legolas.
Intanto nelle vecchie
prigioni in disuso era stato condotto
un guaritore. Galion lo mise nella stessa cella di Legolas e poi
andò via, non
voleva confrontarsi ancora con il giovane principe e rimase sconvolto
quando
Legolas non si mosse e non disse una parola.
Chissà cosa
aveva il principino? Non voleva avere sulla
coscienza anche la sanità mentale del giovane. Ah! Cosa
avrebbe dato per
tornare indietro, ma indietro non si torna mai.
Quando uscì
dalle prigioni pioveva. Galion si voltò
istintivamente verso la galleria, non era stata una buona mossa
lasciare lì
dentro i prigionieri. Se avesse continuato a piovere c’era il
problema che i
muri potessero franare e il suolo aprirsi creando fossati pericolosi.
Per
questo motivo le prigioni erano state spostate di luogo e posizionate
all’interno della fortezza nei sotterranei.
Un brivido percorse la
schiena dell’elfo, la pioggia
diventava sempre più forte e gli alberi sembravano diventare
più scuri e
ostili. Camminando i piedi gli si impigliavano in radici, cespugli,
erbe
spinose. La foresta non gli era più amica come un tempo,
perché i tempi
cambiano e con loro anche ciò che ci circonda, e quando si
diventa disincantati
sembra che anche le cose più pure siano corrotte.
Un fortissimo tuono
rimbombò nell’aria cogliendo alla
sprovvista Galion, che immediatamente si coprì le orecchie
con le mani, poi una
serie di fulmini caddero uno dopo l’altro fino a che non si
sentì un urlo. Allora
corse verso il luogo da cui proveniva la voce, non sembrava essere
troppo
distante e difatti dopo appena un centinaio di metri trovò
un grosso ramo
spezzato che copriva il corpo di un elfo.
Velocemente Galion
spostò il ramo e girò verso sé
l’elfo per
verificare l’entità della ferita che aveva
riportato, ma non
servì a niente. La testa dell’elfo, il
complice di Celeborn che lo aveva accompagnato dal Pian della Battaglia
fino a
Boscoverde, era mollemente attaccata al corpo, nella caduta il
poveretto si era
spezzato il collo.
Galion ebbe un sussulto,
la morte non avrebbe mai dovuto far
visita ai Primi nati, e confrontarsi con essa non era mai facile. Per
cosa
aveva superato la guerra questo poveretto? Per morire a Boscoverde
stando su un
albero a…
Galion esitò un
attimo. Cosa stava facendo l’elfo in quella
parte della foresta? Non c’era niente che potesse
interessargli. Celeborn era
nella fortezza, di Rhiaian non era stato informato. Che stesse
controllando da
lontano le prigioni? E per quale motivo? Che stesse seguendo lui?
Le gocce di pioggia
scendevano con maggiore violenza sul
viso di Galion e il dubbio che Celeborn non si fidasse poi
così tanto di lui
gli si insinuò nella mente. Certo, era consapevole di essere
uno strumento
nelle mani del Signore del Lothlòrien, lo aveva usato per
raggiungere alcuni
obiettivi comuni, ma che Celeborn non si fidasse di lui e che lo
facesse
pedinare, o peggio ancora che magari stesse cercando una scusa per
eliminarlo
non gli era mai passato per la testa. Almeno non fino ad allora.
Galion
aveva compiuto alcuni
errori nella sua vita, ma non per questo si sarebbe dimenticato di
mostrare un
po’ di pietà verso chi la vita non
l’aveva più. Con una mano chiuse gli occhi
dell’elfo, pregò i Valar di perdonare i suoi
errori e Mandos di mostrarsi
pietoso nei confronti di questa giovane vita, poi prese in braccio
l’elfo ormai
morto e lo condusse all’interno della fortezza con
l’intenzione di lavarlo,
rivestirlo con abiti puliti e assicurarsi che avesse una degna
sepoltura.
Il guaritore aveva cercato
di avvicinarsi a Legolas, ma questo
si era stretto a riccio e
aveva iniziato a singhiozzare. La pioggia non aiutava di certo, anzi
spaventava
di più il giovane elfo che poteva sentire ogni piccola mossa
del terreno sotto
e sopra lui.
I suoi sensi, a stretto
contatto con la natura, potevano sentire
la preoccupazione degli alberi, il timore che le loro radici non
riuscissero a
tenersi ancorate al terreno, che i fulmini colpissero qualcuno nella
foresta,
qualcuno che si era mostrato molte volte loro amico.
Pioveva il giorno che
nonno Oropher e suo padre erano
partiti. Era stato strano, c’era stato il sole fino al giorno
prima e poi
all’improvviso il cielo si era oscurato. Suo nonno gli aveva
sorriso e gli
aveva detto di non preoccuparsi di niente che non aveva intenzione di
entrare
nelle Sale di Mandos, che aveva altri progetti.
Lui era giovane, ma sapeva
che il nonno gli stava dicendo
una mezza bugia; suo padre invece non gli aveva promesso niente, non lo
aveva
rassicurato, gli aveva permesso di dormire con lui e la madre la notte
prima e
al momento della partenza lo aveva solo stretto a sé in un
abbraccio infinito.
Legolas poteva sentire
ancora la mano di suo padre che gli
massaggiava le spalle e formava dei centri nella schiena, era molto
rilassante,
però gli alberi non erano contenti, i pensieri si confusero
nella mente di
Legolas, l’agitazione della natura lo stordiva, era una
sensazione troppo forte
da poter gestire, doveva distaccarsene, suo padre glielo aveva detto:
“La foresta
è dotata di una forza senza misura e senza tempo, neanche un
elfo adulto può sentire
contemporaneamente i pensieri di tutti gli alberi, di tutti gli esseri
che
vivono in essa, né tantomeno assorbirne le
emozioni”.
Perciò decise
di concentrarsi su qualcos’altro. Ma cosa?
Forse poteva essere … sì, avrebbe pensato ai
fiori che avevano piantato nel
giardino e che sicuramente ora stavano iniziando a sbocciare. I fiori
andavano
bene, era un pensiero delicato, profumato e … e poi un
fortissimo tuono lo fece
trasalire e riprendere il contatto con la realtà.
“Pelhiat!”,
esclamò riconoscendo il guaritore.
“Oh, mio
principino! Cominciavo a pensare che non si sarebbe
più ripreso”, ricambiò il guaritore
avvicinandosi. “Per favore, mi permetta di
controllarlo”.
“Ci hanno
rinchiusi qua, ho paura”.
“Non si deve
preoccupare, Fidelhion non potrà più farle del
male. E’ morto”.
Legolas allargò
gli occhi in preda alla disperazione, sapeva
che Fidelhion era stato gravemente ferito, e da subito aveva immaginato
che
fosse morto, ma averne la certezza era comunque spaventoso, ancora di
più però
era pensare che gli altri credessero che gli aveva fatto del male.
Questo non
era vero e lui non avrebbe permesso che la sua memoria venisse oscurata
da tali
menzogne.
“Fidelhion, non
mi ha fatto del male”.
Pelhiat stava aprendo la
borsa con le attrezzatture mediche
a sua disposizione, lasciò tutto e alzò lo
sguardo verso Legolas.
“Mio principino,
non si ricorda? Fidelhion ha ucciso sua… voglio
dire, la principessa Wisterian…”.
Legolas si alzò
in piedi mantenendo una postura che
sicuramente aveva imparato dal nonno. Il petto in fuori, lo sguardo
fiero e
sicuro. “So cosa dico, Pelhiat. Fidelhion ha cercato di
salvarmi e di salvare
anche mia madre. E’ stato Galion a uccidere prima mia madre e
poi Fidelhion”.
Pelhiat non sapeva cosa
credere. Galion e il signore del
Lothlòrien Celeborn gli avevano detto che Legolas era uscito
di senno, che
confondeva la realtà con l’immaginazione.
Ciò che si era trovato di fronte era
un ragazzo sicuramente sconvolto e stanco, ma sembrava essere molto
lucido.
Non voleva contraddirlo,
per ora voleva solo assicurarsi che
fisicamente non avesse riportato alcun danno, poi gli sarebbe servito
un po’ di
tempo per capire se il principe stava dicendo la verità,
oppure se non era più
in grado di riconoscerla.
Così
visitò Legolas e non trovò alcun danno fisico.
Una
volta terminato per poco non gli venne un colpo, quando
sentì una voce
chiedere.
“Allora, come
sta Legolas, signor Pelhiat? Tutto a posto?”.
Il guaritore
saltò su due piedi, facendo scappare una risata
al principe. “Chi parla? Dove sei?”.
“Si calmi, per
cortesia. Sono nella cella affianco alla
vostra, mi chiamo Mithrandir, o almeno così mi chiamano e
sono un amico di
Legolas”.
“E’
vero”, confermò il principe.
“Ma io non ho
visto nessuno quando sono entrato!”, riprese
ancora un po’ spaventato.
“Perché
mi trovo nella cella successiva”.
“Certo, certo,
nella cella successiva”, ripeté tirando un
sospiro di sollievo Pelhiat. “Il principe Legolas sta bene,
almeno per quello
che posso vedere fisicamente. Comunque magari domani le
saprò dire di più”.
“Domani?”,
chiese Mithrandir.
“Bhè,
non credo che Galion mi lascerebbe qui, … in queste
…
vecchie prigioni. Io dovevo solo visitare il principe”, disse
pesando ogni
singola parola. Poi si rese conto della situazione in cui si trovava.
“Ma
perché siete qui? Voglio dire … sicuramente
c’erano delle stanze libere nella
fortezza”.
“Non ci aveva
pensato, vero?”.
“Come?”,
chiese il guaritore.
“Non credo che
Galion verrà a prenderla, non siamo ospiti,
siamo prigionieri, e nessuno verrà a portarla fuori di
qui”, gli spiegò
Mithrandir.
Pelhiat si
lasciò cadere a terra, affranto. Quando Galion
era andato a chiamarlo e a dirgli di seguirlo che il principe Legolas
aveva
bisogno del suo aiuto, lui non aveva pensato a niente, aveva raccolto
tutto il
necessario e lo aveva seguito. Vedendolo entrare nelle prigioni aveva
semplicemente pensato che forse il principe, spaventato dalla mancanza
del
padre e della madre era andato a nascondersi
in qualche improbabile nascondiglio e aveva finito col
ferirsi.
Non aveva assolutamente
fatto caso al fatto che Galion lo
aveva chiuso dentro la cella, perché la vista di Legolas lo
aveva scosso.
Galion! Pelhiat si voltò di scatto verso le grate,
ovviamente Galion non c’era
più.
“Che stupido!
Come sono stato stupido!”, disse a se stesso
mettendosi le mani tra i capelli.
Legolas
aveva smesso di ridere,
si era fatto serio e mentre le parole di Pelhiat si facevano lontane
sentì che
suo padre cercava di mettersi in contatto con lui.
Thranduil riposava, o
almeno così voleva far credere agli
altri. Non stava ancora bene, però era riuscito a recuperare
un po’ di energia.
Se fosse stato previdente se la sarebbe conservata per se stesso, ma lo
spirito
aveva bisogno di guarire quanto il corpo e forse molto di
più, perciò raccolte
le sue forze le incanalò nella sua mente e aprì
il suo spirito a suo figlio.
“Legolas,
mia piccola
foglia! Sono il tuo Ada, mi senti”.
E come nei giorni
migliori, quando bastava una chiamata a
voce per ottenere una risposta, la risposta inaspettatamente venne
subito.
“Ada!
Dove sei, Ada?”.
“Sono
a Boscoverde,
figlio mio”.
L’immagine
della
foresta si impresse nella mente di Legolas, che di ricambiò
inviò al padre
l’immagine delle vecchie prigioni.
“Sei
solo?”.
Legolas
creò
l’immagine di Mithrandir e di Pelhiat e poi quella di
Gil-galad. Thranduil
esitò, avrebbe chiesto chiarimenti.
“Tieni
duro, figlio
mio. Ti amo”.
“Ti
amo, sarò forte, Ada.
Sarò forte per te”.
La comunicazione si
interruppe bruscamente. Thranduil si
sentì scuotere fino a quando non riprese i sensi. Elrond lo
fissava
preoccupato. “Mi senti? Thranduil?”.
“S…s…sì”,
riuscì a dire il Re di Boscoverde con mezzo
sorriso.
“Perché
ride?”, domandò Bolin. “Ha preso un
colpo in
testa?”.
Elrond gli
regalò uno sguardo di sufficienza, ma non gli
diede la soddisfazione di una risposta.
“Le…g..las”,
farfugliò Thranduil, “bene…”.
“Hai comunicato
con Legolas?”, domandò stupito e incuriosito
Elrond. “Come hai fatto?”.
Thranduil sorrise, non
aveva la forza di spiegare tutto a
Elrond, e forse non voleva neanche farlo; era un dono speciale che i
Valar
avevano donato a lui e al figlio, e in cuor suo non voleva condividerlo
con
nessuno. E Elrond capì che la sua curiosità non
sarebbe mai stata soddisfatta.
“Davvero, Re di Boscoverde, sarai davvero un grande
Re”.
Detto ciò,
prese un altro pezzo di lembas e lo diede a
Thranduil. “Mangia”, gli ordinò,
“e non sprecare, anzi usare”, si corresse
immediatamente, “altre energie. Ti servono per guarire e
camminare sulle tue
gambe”.
“Dove
è … dove è
Gil-g..l…d?”, chiese con le poche forze che
aveva.
“Ci sono stati
un forte tuono, poi dei fulmini e un urlo,
non ti ricordi?”.
Thranduil fece cenno di
no.
“E’
andato per controllare. Tornerà entro stasera”.
Thranduil ebbe un brivido.
La giornata era lunga e la
sentiva sulla sua pelle goccia dopo goccia. Bolin gli si
accostò ancora di più,
mentre Elrond si avvicinava a Celebrian.
Il Re di Boscoverde
guardò la coppia, li conosceva da molto,
si sarebbero meritati molto di più di ciò che la
vita gli aveva dato, però si
ritrovò a pensare con due elfling
forse si potevano pareggiare
i conti.
“A cosa
pensi?”, gli chiese Bolin.
“Mi sto
chiedendo… se i figli… possono
davvero… sistemare
gli errori dei padri,… o le ingiustizie… da loro
subite”.
Bolin esitò, la
questione lo coinvolgeva più di quanto
Thranduil potesse immaginare. “Io spero di
sì”, rispose laconico.
Thranduil sentì
una certa titubanza nella voce del nano. “Ti
ricordi? Abbiamo in sospeso una discussione … sulla
… tua famiglia…?”, domandò
cercando di dare un timbro imponente alla propria voce, ma la sua gola,
già
parecchio sollecitata lo tradì e iniziò
nuovamente a tossire.
“Bolin!”,
chiamò stizzito Elrond.
“Non sono stato
io!”, si difese quello senza sapere bene
quali erano le accuse.
“Ho detto che
deve riposare”, continuò Elrond,
“significa
che non deve fare niente, non deve pensare, non deve ascoltare, non
deve
parlare e neanche tossire”.
Haldir rideva sopra un
albero, osservando la scena.
Bolin puntò il
dito contro Thranduil e ripetè, in realtà
scimmiottando Elrond, “… e neanche tossire.
Già”.
Thranduil
cominciò a ridere, ma ovviamente non ce la faceva,
tossiva e rideva, tossiva e rideva, poi cominciò a mancargli
il fiato. Elrond
gli fu accanto e preso un unguento cercò di placargli la
tosse spalmandoglielo
nel petto.
“Spostati!”,
ordinò a Bolin che da canto suo dopo aver detto
qualche gentile parola in nanico nei confronti di Elrond si sedette
accanto a
Celebrian.
Lei aveva il sorriso
stampato sulle labbra, vedere Elrond
agitato era sempre impagabile. “Secondo me si
diverte”, disse lei.
“Già”,
fece lui e con mezzo sorriso replicò, “anche
io”. Poi
la pioggia cominciò a cadere
ancora più copiosamente e l’atmosfera si fece
seria.
Haldir scese
dall’albero e si avvicinò ai due in tempo per
sentire Bolin chiedere a Celebrian. “Cosa farai quando ti
ritroverai faccia a
faccia con tuo padre?”.
Anche Elrond e Thranduil
potevano sentire la conversazione
grazie al loro formidabile udito. Entrambi erano curiosi di conoscere
la
risposta.
Celebrian
iniziò a tormentarsi le dita, ci aveva pensato
tante volte ma probabilmente lo avrebbe scoperto solo nel momento in
cui se lo
sarebbe trovato di fronte.
“Oh, Bolin! Cosa
potrei dirgli? Non capisco perché tanto
male, tanti inganni, però … nonostante
tutto… io…”.
“Se fosse
… mio padre… io… non lo
perdonerei” disse
Thranduil all’improvviso spiazzando tutti
“però, conti-nuerei… ad …
amarlo”.
Celebrian
scoppiò in lacrime giacché tali erano anche i
suoi
sentimenti, ma solo lei doveva affrontarli in prima persona.
“Celebrian non
piangere! I tuoi piccoli potrebbero soffrirne”, disse Bolin
riferendosi ai
gemelli.
“Elfling”,
lo corresse Elrond, “si dice elfling”.
Haldir
si fece più
attento, intuiva che qualcosa di divertente stava per accadere.
“Oh, scusatemi.
Dicevo, i tuoi piccoli elfling potrebbero…”.
“Non piccoli!
Basta elfling, elfling”, ripetè Elrond
“Va
bene”, disse scocciato Bolin mentre Haldir si nascondeva
a ridere dietro un albero, distraendo sia Celebrian che Thranduil dalle
loro
preoccupazioni e facendoli sorridere, “I tuoi elfling,elfling
potr…”.
Elrond sbuffò,
mentre Haldir sempre nascosto scoppiava in
una sonora risata.
“Cosa
c’è adesso?”, domandò
disorientato Bolin non riuscendo
realmente a capire la situazione.
Elrond non poteva
crederci! Questo nano lo stava mettendo a
dura prova però con lui non ci si poteva davvero annoiare.
“Allora, Mastro
Nano”, disse Elrond sorridendo sconfitto,
“Come vorrebbe che chiamassimo i due
piccoli-elfling?”.
Bolin si sentì
riempire d’orgoglio. Finalmente la questione
dei nomi veniva affrontata e lui ne era partecipe.
“Pensavo”,
iniziò “Pensavo a uomo-elfo, che riporti alla
mente la vostra origine, oppure visto che tutti andate a cavallo, in
maniera
formidabile intendo, anche uomo-cavaliere o elfo-cavaliere”.
Tutti erano in silenzio
mentre Elrond pensava, poi disse:
“Che in lingua elfica sarebbero…”.
“Elladan e
Elrohir!” completò Glorfindel scendendo da
cavallo. Tutti colti alla sprovvista rimasero a bocca aperta.
Solo Bolin
riuscì a parlare. “E’ tornato!
E’ tornato quello
simpatico!”, poi assumendo un’aria simpaticamente
di sfida domandò:” Ma la
spada l’hai trovata?”.
Glorfindel
guardò Elrond
interrogandolo sulla questione, ma non c’era niente che
potesse fare, il suo
amico rideva a più non posso.
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Capitolo 15 *** Il sangue non conta ***
Solo
Bolin riuscì a
parlare. “E’ tornato! E’ tornato quello
simpatico!”, poi assumendo un’aria
simpaticamente di sfida domandò:” Ma la spada
l’hai trovata?”.
Glorfindel
guardò Elrond interrogandolo sulla questione, ma non
c’era niente che potesse
fare, il suo amico rideva a più non posso.
Cap 15
“Buonasera,
Mastro Nano”, disse Glorfindel, “Sì,
sono tornato. Grazie ai Valar”.
L’elfo
si
diresse verso Elrond e lo abbraccio brevemente, gli fece un mezzo
sorriso per
rassicurarlo circa la riuscita della sua missione, della quale non
aveva
intenzione di parlare in pubblico, poi si avvicinò al
fuocherello e guardò
dentro il tegamino.
“Non
c’è
niente di pronto!”, esclamò constatando che
né coniglio, né minestra stavano
riscaldando.
“Lei
è
abituato troppo bene, signor Glorfindel”, disse Celebrian,
“La pioggia non ci
aiuta molto in faccende culinarie. Il fuoco si spegneva ogni due
secondi”.
Lui le
sorrise e raccogliendosi i capelli biondi diede loro una strizzatina.
“Ormai è
da un bel po’ che non incontro altro che pioggia.
Comunque… “riprese, cambiando
discorso “… darai alla luce due elfling, che
grande meraviglia e gioia è
concessa alle Elleth!”.
“Che
sarebbero?”, chiese Bolin.
“Le
donne
elfo”, spiego Elrond.
“Già!
Sapete, giusto per non perdere il filo del discorso”, disse
Bolin.
Celebrian
arrossì. “Due maschietti, se Elrond ha visto
bene”.
Glorfindel
rise felice. “Quando lo sapranno i vostri padri saranno pieni
di gioia!”, disse
rivolgendosi a Elrond e Celebrian.
Il gelo
cadde come una campana di vetro su loro e sembrò isolarli
dal resto del mondo
conosciuto. Glorfindel non capiva e gli altri elfi non volevano dare
spiegazioni. Fortunatamente c’era un nano fra loro che non
aveva remore a
spiegare con brevità gli eventi trascorsi.
“Dunque…”,
cominciò serio mentre Glorfindel ascoltava, “Il
padre di Celebrian…”
“Celeborn”,
disse Glorfindel.
“Sì,
Celeborn, ha cercato di uccidere il padre di Elrond!”,
continuò Bolin.
“Gil-galad!”,
esclamò Glorfindel.
Bolin si
massaggiò la barba. “Esatto, poi ha cercato di
uccidere il nuovo Re di
Boscoverde”.
Glorfindel
si girò verso il Re che giaceva a terra chiaramente ferito.
“Thr…”.
“Thranduil!”,
disse Bolin soddisfatto di esser stato più veloce di
Glorfindel, il quale
inarcò le sopracciglia chiaramente irritato, ma divertito.
“Ma non c’è
riuscito”.
Glorfindel
guardò Celebrian che si accarezzava la pancia, era
visibilmente provata e
triste. “E’ successo qualcos’altro in mia
assenza?”, domandò l’elfo.
Elrond
intervenne. “Sappiamo che Celeborn è nella
fortezza, ha imprigionato Legolas e
Mithrandir. Ti ricordi di lui? Era già venuto a
Imladris”.
“Sì,
ricordo
di un vecchio uomo, o qualcosa di simile…”, disse
restando sul vago Glorfindel,
“Che dire di Wisterian?”.
Ancora una
volta il silenzio scese fra la compagnia, e fu interrotto solo
dall’arrivo di
Gil-galad che portava con se del cibo e dell’acqua.
“Eccomi!”, disse facendosi
avanti tra gli alberi e scuotendosi un po’ d’acqua
di dosso, quando, senza
nessun preavviso, si trovò dinnanzi il suo più
caro amico: Glorfindel.
“Mellon
nin!
E’ fantastico rivederti. La tua presenza mi
rallegra”, disse Gil-galad
abbracciandolo.
“Mellon
nin,
a quanto pare sono io che dovrei essere super felice di vederti. Sei
partito
per trovare Thranduil e quasi morivi. Comunque chiedevo notizie di
Wisterian.
Tu puoi darmene?”.
“E’
morta!”,
disse Thranduil a mezza voce, “E’ stata
assassinata”.
“Chi
l’ha
uccisa?”, domandò sconvolta Celebrian pensando
fosse stato suo padre.
“E’
stato
Galion”, svelò Gil-galad.
“No…
non può
essere”, disse con voce delusa e triste Thranduil.
“E’ sempre stato fedele … a
mio padre. Non può …”. Il respiro di
Thranduil si fece pesante, cercò di alzare
il braccio per massaggiarsi la fronte, ma la spalla glielo
impedì. Ancora una
volta il dolore chiedeva il suo pedaggio.
“Ci
vuole
dell’acqua calda”, disse Elrond a sé
stesso.
Glorfindel,
che era quello più vicino al tegame, lo prese e glielo
porse.
“Bisogna
riscaldare dell’acqua e mettere dell’Athelas in
infusione”, continuò Elrond.
“Dove
lo
tieni?”, chiese Gil-galad vedendo Thranduil impallidire
sempre più.
“Nella
sacca, laggiù”.
“Io
non
riesco a capire…”, continuava Thranduil,
“Galion … oh Valar! A lui avrei
af-fidato chiunque-chiunque…”.
“Elrond,
qua
non c’è niente”, disse Gil-galad
frugando nella sacca.
“Guarda
bene; c’erano ancora un paio di foglie”, gli
rispose fremente il figlio.
Thranduil si
mise in ginocchio e cercò di alzarsi
facendo forza solo sulle gambe. Glorfindel lo sostenne
perché chiaramente
il nuovo Re di Boscoverde non poteva cammianre da solo.
“Thranduil,
accidenti. Devi stare seduto”, urlò Bolin con
tanta forza che tutti si girarono
verso lui. “Ma insomma, non ascolta proprio. E
già!”.
“Siediti,
siediti subito!”, rincarò la dose Elrond.
“Glorfindel, fallo stare seduto, deve
riprendersi”.
“E’
bagnato
fradicio, non si riprenderà mai così!”,
disse Glorfindel.
Elrond non
riusciva a trovare le erbe, vedeva che Thranduil non stava facendo
progressi e del
resto non poteva dar torto a Glorfindel. La pioggia non finiva e per
guarire
bisognava stare al caldo e all’asciutto.
“Potremmo
costruire un riparo con dei rami di foglie fresche, una sorta di
capanna”,
propose Haldir.
“La
pioggia
è molto forte…”, fece notare Bolin.
Glorfindel
estrasse la propria spada dal fodero. “Non sarà un
po’ di pioggia ha bloccare
un elfo…”.
Thranduil
però, nonostante la stanchezza e la voglia di star meglio,
non sembrava
d’accordo. “No, lasciate stare gli
alberi…”.
“Non
è il
caso di fare il sentimentale, pochi rami in meno nella foresta non la
distruggeranno di certo”, lo rimproverò Elrond.
“Lasciateli
sta…re, prendete i… i…i…
rami ca-duti…”, continuò mentre la voce
gli si
spegnava in gola.
“I
rami
caduti sono secchi e senza foglie, non si può costruire un
riparo con quelli”,
aggiunse Gil-galad, aiutandolo a sedersi nuovamente contro un albero.
“Cosa
è
stato?”, chiese poi guardandosi attorno con circospezione.
Tutti
stavano sull’attenti, c’era un fruscio alquanto
sinistro nella foresta, un
bisbiglio continuo. La pioggia era passata in secondo piano, era come
se una
voce aleggiasse nell’aria, ma non si riusciva a capire cosa
dicesse e da dove
provenisse. Dei presenti, solo un elfo poteva capirla appieno:
Thranduil.
“Non…
spaven..ta..te..vi…”, disse il nuovo Re di
Boscoverde.
La voce
cominciò a diventare frenetica, era una sorta di fischio
prolungato, una specie
di solletico che sollecitava i sensi, un messaggio inviato con il
fretta di
giungere a destinazione; gli elfi cercavano di individuarne la fonte ma
la voce
non partiva da nessun punto in particolare.
“Credo”,
azzardò Bolin “che si tratti di magia
elfica”.
“Noi
elfi
non abbiamo poteri magici…”, disse Elrond.
“Allora
se
non è magia sono i Valar che parlano per mezzo della
foresta…”, concluse il
nano.
“In
principio fu la musica dei Valar, con la quale essi componevano a
beneficio di Eru,
poi la musica prese forma di Eä,
l’Essere”, disse Elrond.
“E
dunque il
rumore che sentiamo, questo bisbiglio è la voce della
creazione? La voce della
Foresta, e dei Valar?”, chiese in soggezione Gil-galad, che
tanto avrebbe
voluto capire di Arda quanto suo figlio.
“Non
lo so
padre, però credo che Bolin abbia ragione quando dice che la
foresta parla…
cosa dica, non riesco a capirlo. Thranduil, tu puoi?”,
domandò Elrond.
Thranduil
aveva il viso appoggiato alla corteccia dell’albero, sembrava
essere in una
sorta di trance, non si muoveva e non parlava, il suo sguardo era fisso
in
avanti, e il suo respiro lento ma non pesante.
“Cos’ha?”,
chiese Haldir.
“Attenti!”,
urlò Celebrian indicando un punto in alto tra gli alberi.
Glorfindel si
inginocchiò accanto a Thranduil ma venne spostato con forza
di lato, cadendo di
spalle sul terreno fangoso.
“Oh,
Valar!”, sentì dire in coro mentre si rialzava
pronto a difendersi.
Ciò
che videro,
sul fare della sera, li lasciò meravigliati. Infatti ebbe
luogo un evento che
mai si sarebbe riproposto ai loro occhi e a cui mai avevano assistito
prima.
Non era qualcosa che si poteva comandare, né si poteva
pretendere, era puro
amore dei Valar alle loro creature, della Foresta al suo Re.
L’albero,
l’antico albero a cui Thranduil si era poggiato, aveva
piegato i suoi rami e,
intrecciandoli in una fitta rete, creato una sorta di capanna
semisferica entro
la quale neanche una goccia d’acqua sarebbe potuta penetrare.
E là
dentro
Re Thranduil di Boscoverde cominciò a brillare di luce
stellare e di energia
che gli alberi e la foresta gli trasmettevano, e la sua aurea si fece
più forte
per poi indebolirsi e ancora rafforzarsi e ciò diverse volte
per quasi un’ora.
E quando poi
l’aurea rimase costante l’albero sciolse
l’abbraccio dei suoi rami e Thranduil
sebbene non del tutto guarito, poiché molte erano le lesioni
che aveva subito,
apparve rinvigorito e in condizioni piuttosto discrete tanto che Elrond
colto
da meraviglia si dovette sedere e per tutta la notte nessuno ebbe il
coraggio
di parlare, ma lasciarono che Thranduil riposasse ancora e che il suo
stato di
trance arrivasse al suo completo compimento nella luce stellare che il
Re
emanava.
L’aria
era
fredda e pungente quando la mattina Galion, senza essere visto e
seguito da
nessuno, raggiunse le vecchie prigioni. Entrato dentro, a passo lento,
raggiunse le celle. Supero velocemente quella in cui erano rinchiusi
Legolas e
Pelhiat senza dare ascolto alle loro parole.
Si trattava
più che altro di accuse, tutte fondate, per azioni poco
pregevoli da lui
compiute; e tutto ciò che dicevano era vero, ma non aveva
tempo per spiegare
come e perché era arrivato a quel punto, e altre cose
urgevano maggiormente.
Si
avvicinò
perciò alla cella di Mithrandir e lo osservò con
attenzione. Sembrava un uomo,
niente di speciale ma Gil-galad glielo aveva indicato con particolare
enfasi,
dicendogli che non era una persona affrettata e che avrebbe fatto tutto
al
momento giusto.
Mithrandir
si alzò dall’angolo in cui era seduto per guardare
con maggior accuratezza
l’elfo che era riuscito a incastrarlo per bene e ancora vide
nei suoi occhi
qualcosa che stonava, pareva insicurezza o forse timore.
La paura fa
agire in modi imprevedibili.
“Venga,
si
avvicini”, gli ordinò Galion.
Mithrandir
fece qualche passo in avanti, ma rimase cauto. “Se non
sbaglio hai organizzato
tu tutto questo spettacolo”, disse indicando la cella umida.
“Mi
creda, è
il posto più sicuro per voi. Tenga”, disse
porgendogli una chiave.
Mithrandir
la guardò e perplesso chiese. “E’ la
chiave della cella?”.
“Certo.
E di
cosa sennò! Ma non la usi ora. Gil-galad ha detto che lei
non sarebbe stato
avventato nell’usarla, né tantomeno frettoloso. La
custodisca con cura, presto
le servirà”.
“Perché
lo
sta facendo?”.
“Da
qualche
parte si deve pure cominciare”, rispose Galion.
E come era
entrato se ne andò, lasciando Mithrandir solo con i suoi
pensieri.
Spesso la
verità sta nel mezzo, o almeno così si dice, ma
dove c’è l’onestà e il
rispetto
non può che esserci una sola verità. Galion non
era stato né onesto né
tantomeno rispettoso di ciò che la vita gli aveva offerto.
Non era poca
cosa vivere in un regno in cui i sovrani si preoccupavano sinceramente
del loro
popolo, in cui si veniva trattati da pari e ascoltati, in cui tutto era
di
tutti e anche le ricchezze accumulate erano a vantaggio di tutti.
L’amicizia
di Oropher non gli era mai mancata e così il rispetto di
Thranduil, chissà come
e chissà quando Galion aveva iniziato a pensare che
ciò che aveva non gli
bastava più, ora mentre entrava, per mezzo del passaggio
segreto che aveva
costruito lui stesso, dentro la fortezza non si ricordava
più esattamente come
si erano svolti i fatti.
Forse era stata
l’idea di avere di più. Più di cosa,
però?
Forse era
stata l’idea di comandare. Ma comandare chi?
Non lo sapeva, certo non gli elfi di Boscoverde che non si
facevano
comandare da nessuno, ma avevano scelto di seguire qualcuno, e non si
trattava
solo di una sfumatura di parole, era stato molto di più.
Gli elfi
silvani avevano visto in Oropher una guida, un capitano, qualcuno che
valeva la
pena seguire perché non li avrebbe mai lasciati da soli,
neanche di fronte al
più grande e temibile nemico. E difatti Oropher era caduto
come un umile elfo
silvano, come tanti di loro, al fianco di chi lo aveva scelto e mai si
era
risparmiato.
Una mano
sulla spalla fece trasalire Galion. “Che
c’è? Sembra tu abbia visto un
Balrog!”, gli disse Celeborn.
“Oh,
scusa.
Ero sovrappensiero”.
“L’ho
notato!”,
sbuffò il signore del Bosco Dorato. “Allora a
che punto sei con l’organizzazione della
riunione?”.
“Guarda,
siamo davvero in pochi. Cinque dei consiglieri erano partiti in guerra.
Rimangono cinque elfi ed io”.
“Bene,
in
mattinata vorrei parlare con loro”.
“Va
bene”,
rispose Galion.
La loro
attenzione venne attirata da Nedhian che si avvicinava a grandi passi.
“Signore”,
disse rivolgendosi a Galion, “la pioggia sta aumentando e sta
facendo danni. Il
tetto della scuderia è crollato e alcuni cavalli sono
scappati via”.
“Ah,
ci
mancava anche questa!”, esclamò Galion.
“Quanti ne mancano?”.
“Una
decina”.
“Galion,
dobbiamo organizzare al riunione!”, lo riprese Celeborn.
Nedhian
però
insistette: “Ma i cavalli? Non possiamo lasciarli girovagare
per la foresta.
Potrebbero …”.
Celeborn
alzò la voce. “Ho detto, che dobbiamo organizzare
una riunione!”.
Nedhian
chinò il capo. “Chiedo scusa non volevo
contraddirla”.
Galion fece
un sospiro, i cavalli avevano la priorità rispetto alla
riunione che, lui
sapeva già, non avrebbe risolto niente, anzi.
“Bene, bene. Allora facciamo così,
io organizzo questo incontro, e tu Nedhian prendi una squadra
…”.
“Una
squadra, signore?”, domandò Nedhian ben sapendo
che una squadra era solitamente
formata da dieci elfi di cui almeno sette con una preparazione completa.
“No,”
rifletté Galion, “non abbiamo una squadra al
completo. Però insomma organizza
un gruppo, dovete essere non meno di quattro però,
perché se qualcuno resta
ferito nella foresta ci deve essere chi può aiutarlo, e
recuperate questi
cavalli. Tutti, dal primo all’ultimo. Tornate solo se la
pioggia diventa una
tempesta”.
Nedhian sorrise,
non sarebbero tornati senza cavalli neanche
se fossero stati investiti da un ciclone e anche Galion lo sapeva.
Evidentemente
non lo voleva attorno, per il momento. Brevemente salutò e
andò a formare la
sua prima squadra di salvataggio.
E
così
arrivò il pomeriggio. Celeborn aveva fantasticato parecchio
sulla seduta che
avrebbe dovuto tenere e finiva sempre con gli elfi silvani a testa
bassa che
gli davano ragione, consapevoli che non sarebbero riusciti a governarsi
da
soli.
Ah! Quanto
può essere cieco chi si crede indispensabile. Su Arda
però non esiste nessuno
che possa fare tutto da solo, e prima lo si riconosce meglio
è.
La sala del
trono era grande, non lussuosa ma in ogni caso bellissima. Galion aveva
sistemato sette sedie attorno a un tavolo circolare;
Galion e i
cinque elfi, che più si avvicinavano alla figura di
consiglieri, si
accomodarono. Celeborn entrò e vedendo il tavolo tondo non
lo trovò di suo
gradimento, ma pensò che era una buona mossa strategica.
Doveva mostrarsi loro
amico e soprattutto gestire la questione con calma.
Si aspettava
che tutti si alzassero al suo ingresso ma, a parte Galion, nessuno si
mosse.
Si sedette,
la sedia era di legno, e nessun cuscino la rendeva più
morbida. Era difficile
starci comodi, alzò lo sguardo verso i consiglieri e prese subito la parola.
“Bene, non credo ci
sia bisogno di molte presentazioni. Tutti voi sapete chi
sono”.
“Certo”,
disse un consigliere,” il Signore del Bosco Dorato”.
“E
anche
cugino di Thranduil”, specificò Celeborn.
I
consiglieri annuirono. Conoscevano bene i rapporti di parentela
esistenti, ma
non capivano a cosa stesse parando il parente della famiglia di Oropher.
“Sono
qui
per portarvi delle notizie che avrei preferito risparmiarvi, ma in
quanto
parente diretto del vostro sovrano mi sono sentito in dovere di portare
a voce
queste informazioni”.
“Parlate,
signor Celeborn del Lothlòrien, senza troppi preamboli. La
guerra è terminata
da pochi giorni, come Galion ci ha riferito e molti pensieri e
preoccupazioni
occupano la nostra mente. Non si facciano giochi di parole e diteci
chiaramente
a cosa vi riferite”.
Celeborn
odiava le maniere rozze degli elfi silvani. Era chiedere troppo non
essere
interrotti mentre si parlava? E tutta questa fretta poi…
“Bene.
Come
chiedete”, disse facendo buon viso a cattivo gioco.
“Durante
la
guerra il vostro Re, Oropher , è morto”.
“Morto?”,
chiesero visibilmente scossi gli elfi, mentre Galion confermava in
silenzio.
“Sì,
i
nemici erano tanti e …”
“E gli
alleati dov’erano?”, chiese stizzoso un elfo
chiedendo chiaramente a Celeborn
perché non lo avessero aiutato.
“Gli
alleati
combattevano contro altri nemici!”, rispose a denti stretti
Celeborn, “Non potete
neanche immaginare quante forme avesse assunto il male in questa
guerra. I
nemici era numerosi, molte volte il nostro numero, però non
ci siamo tirati
indietro. Non lo ha fatto nessuno, purtroppo
però”, continuò insinuando il seme
del dubbio, “spesso i nostri nemici peggiori assumono le
vesti di amici e anche
parenti”.
Gli elfi
ascoltavano
con molta attenzione, forse c’era stato un tradimento nelle
linee amiche. Era
possibile?
“Ciò
che
dico, lo dico con tristezza, serietà e molto dolore. Il
vostro Re non sarebbe
caduto se qualcuno non avesse manomesso la sua spada”.
“Chi
è
stato? Ce lo deve dire! Abbiamo il diritto di sapere e di punire il
colpevole!”.
Pura gioia
zampillò nel cuore di Celeborn… “punire
il colpevole”, che parole meravigliose!
“Io”,
disse
piano Celeborn, “Io vidi Thranduil Oropherion maneggiare con
la spada di suo
padre e lo sentì pronunciare parole di invidia e di
desiderio”.
Gli elfi si
agitarono nelle loro sedie, non parlavano, stavano lì
pensando a cosa dire,
cercavano di elaborare la notizia.
“Ora,
la
situazione si fa molto difficile per voi e per tutta Boscoverde. Il
vostro Re è
morto, il principe vi ha traditi. Mio nipote, Legolas è
uscito di senno dopo
aver assistito all’uccisione della madre per mano del suo
amico Fidelhion, e
ora si trova sotto la cura del guaritore Pelhiat,
…”.
“Tutto
assieme?”, chiese un elfo notando la strana coincidenza degli
eventi. “E’
possibile che sia accaduto tutto in una volta?”.
“Talvolta
il
destino ci concede di compiersi un po’ alla volta, altre
volte piomba sulle
nostre teste con violenza. Ma voi non dovete preoccuparvi
più del necessario.
Io come cugino di Thranduil, e parente in linea di sangue dei vostri
sovrani,
mi farò carico di guidarvi avanti fintanto che ne avrete
bisogno, e se vorrete
diventerò il nuovo Re di questa splendida foresta”.
Un elfo, che
fino ad allora era stato in silenzio e aveva solo ascoltato, prese la
parola.
“Andiamoci piano, signor Celeborn del Lothlòrien.
Per prima cosa come facciamo
a sapere se Thranduil ha danneggiato la spada di Oropher? Dovremmo
analizzarla!”.
“La
spada è
sepolta con il suo Re. Vuole forse aprire il tumulo e
impossessarsene”.
Tutti fecero
cenno di no con la testa, era assolutamente impensabile.
“Comunque
prima di condannare il principe Thranduil dobbiamo ascoltare anche la
sua voce.
Dove si trova?”.
“Thranduil
è
scappato”.
“Questo
no!
Non posso crederlo, né ora né mai!”,
gridò l’elfo sbattendo la mano sul tavolo
in un impeto di rabbia.
Celeborn si
alzò, e puntandogli il dito contro disse: “Allora
mi dica lei dov’è. Oppure
vada al Pian della Battaglia e guardi ciò che resta dei
vostri guerrieri e
chiedete loro dove si trovi. Un Re o un principe dovrebbe stare con la
sua
gente”.
“E lei
perché non si trova con l’esercito del
Lothlòrien?”.
“Perché
io…”, disse abbassando la voce “Sono
stato inviato alla ricerca disperata di
mio cugino. Credevo di trovarlo qui quando sono arrivato,
perché lui è partito
almeno un giorno prima di me… invece qui non
c’è. Allora ho pensato che
Boscoverde e i suoi elfi meritassero di sapere cosa era successo ai
loro
sovrani, e invece di tornare dal mio popolo mi sono fermato”.
C’era
molto
su cui pensare e molte cose ancora da dire. Galion cercò di
smorzare i toni.
“Io credo, che l’offerta del signor Celeborn debba
quantomeno essere presa in
considerazione. La linea di sangue…”.
“Il
sangue
non conta”, disse un elfo.
Celeborn si
irrigidì. “Come sarebbe a dire che non conta?
Thranduil ha diritto al trono
perché è figlio di Oropher”.
“Esatto”,
confermò l’elfo per poi specificare “e
noi scegliemmo Oropher. Ma lei signor
Celeborn non è figlio di Oropher. E quando la linea diretta
di sangue sarà
terminata, allora sarà tempo di nuove elezioni”.
“Sì”,
confermò un altro elfo, “Se fosse vero che
Thranduil ha causato la morte del
padre, certamente non potrebbe governarci, ma potrebbe farlo il giovane
Legolas, sebbene non subito a causa della sua giovane età. E
nel frattempo
potremmo scegliere un sostituto”.
Celeborn
ingoiò amaro. Il sangue non contava! Avrebbero scelto!
Questo non se lo
aspettava, ma a tutto c’era rimedio.
“Allora
vorrei propormi”, disse chinando la testa verso gli elfi
silvani, e questo
gesto gli costò parecchio.
L’elfo,
che
aveva difeso dall’inizio alla fine i suoi sovrani,
chinò la testa a sua volta
in direzione di Celeborn. “La ringrazio della
proposta”, disse alzandosi, “ne
siamo onorati. Ma sono gli elfi silvani e sindarin di Boscoverde a
stilare la
lista di chi vorrebbero fosse la loro guida. Purtroppo non si accettano
candidature”.
E detto
ciò andò via. Gli altri quattro elfi si alzarono
subito dopo e seguirono il loro amico lanciando occhiate interrogative
a
Galion.
Eccomi qua!
Un altro capitolo è nato! Il prossimo sarà
decisivo, la storia è quasi al
termine e il confronto tra Celeborn e Thranduil è imminente.
Inoltre non ho
dimenticato certamente Rhiaian, avrà ancora un lavoretto
sporco da compiere… ma
meglio non anticipare niente.
Grazie a chi
legge, a chi recensisce e buona domenica a tutti.
Alida
|
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Capitolo 16 *** Giù, come un castello di carte ***
Cap 16
Ci fu un
tempo in cui Celeborn mai avrebbe immaginato di desiderare di essere
padrone di
una fortezza scavata nella pietra. Non si addiceva alla sua
personalità fragile
e scostante né tantomeno alla sua razza, gli elfi vivevano
all’aperto non
chiusi come i nani dentro la roccia.
Ma quel
tempo era passato molti secoli fa, lui non era più un
elfling e il Bosco Dorato
aveva perso smalto ai suoi occhi. La sua lucentezza non lo abbagliava
più del
suo splendore. Eppure la piccola foresta era rimasta sempre la stessa,
era lui
a essere cambiato.
Dentro lo
Specchio
di Galadriel si era visto vincente, quando prima di partire per la
guerra vi
aveva guardato dentro, ma interrogata la moglie sull’uso
dello Specchio questa
gli aveva detto che il futuro lo creiamo noi con le nostre mani guidati
dai Valar,
ma se si cambia strada non se ne possono conoscere le conseguenze.
Galadriel
però si riferiva alla guerra non certo ai progetti malvagi
del marito, di cui
non sapeva niente. E adesso le conseguenze imprevedibili erano chiare;
forse
l’uccisione di Wisterian era stata la goccia che aveva mosso
i Valar a non
assecondarlo più. Chissà!
Fatto sta
che gli elfi silvani in un modo o nell’altro avrebbero presto
imparato che con
Celeborn non si scherzava. Perché con o senza
l’appoggio dei Valar, lui sarebbe
diventato Re di Boscoverde.
Celeborn
camminava avanti e indietro nella sua stanza a passi leggeri e svelti.
Doveva
agire, cominciare a eliminare qualche ostacolo personalmente. Avrebbe
potuto
cominciare con una pedina importante ma facile da colpire: Legolas per
esempio.
L’idea
gli piacque subito, lo faceva sentire grande. Così
prese il suo pugnale con il manico finemente decorato e si diresse
verso le
vecchie prigioni.
Finalmente
la pioggia cominciò a farsi più leggera.
Glorfindel era stanco di quest’acqua
che non smetteva di cadere. Da quando aveva messo piede a Boscoverde
aveva
incontrato solo pioggia ma, come una volta gli aveva detto un anziano
umano che
aveva conosciuto a Imladris, “quando sarà ora che
smetta, smetterà da sola”.
Glorfindel
prese la spada di Oropher e la porse a Elrond. Era inutile fare le cose
di
nascosto o in maniera riservata, il piccolo gruppo non aveva segreti,
in
compenso aveva orecchie fini e occhi attentissimi.
“Ecco
a te.
Questo è ciò che mi avevi chiesto”.
Elrond tolse
il telo verde con il quale la spada era avvolta e questa si
mostrò in tutta la
sua bellezza. Era bella, veramente fatta bene. La guardò con
attenzione, gli
era già capitato di ammirare la spada di Oropher da vicino e
questa sembrava
proprio essere l’originale.
Anche Haldir
e Celebrian erano molto interessati alla spada, Bolin invece era
timoroso. Il
momento che aveva sperato non arrivasse mai, era dunque giunto.
“La
spada di
mio padre. Elrond, ci sei riuscito”, disse Thranduil.
“Ma
insomma,
Thranduil. Ci fai prendere uno spavento dopo
l’altro”, lo riprese Bolin sussultando
per lo stupore.
“Non
c’eravamo accorti che fossi sveglio, Re Thranduil”,
disse Glorfindel.
Thranduil
annuì. “Adesso, mi sono svegliato proprio adesso,
giusto in tempo per vedere la
spada”, rispose allungando la mano per prenderla.
Elrond
gliela passò. “Non è merito mio se
è qua. E’ stato Glorfindel a
recuperarla”.
Thranduil
sorrise e ringrazio Glorfindel.
“Perché
è
tanto importante questa spada?”, domandò
Glorfindel.
“Perché
è
tanto importante da prenderla da una bara?”, chiese Thranduil
all’elfo. “Perché
questa non è la spada di mio padre”.
“Come
è
possibile?”, domandò Haldir.
“Io
l’ho
presa dalle mani fredde di Oropher”, affermò
determinato Glorfindel.
“Non
lo
dubito”, riprese subito Thranduil “ma sono sicuro
di ciò che dico. Celeborn mi
ha puntato in faccia la spada di mio padre, e questa cicatrice che ho
nel collo
me l’ha fatta lui”.
Celebrian
era imbarazzata. “Mi dispiace, sono davvero
desolata”.
Elrond la
rassicurò: “Nessuno ti accusa di niente, amore
mio. Non è colpa tua ciò che è
successo”.
“Assolutamente”,
disse Thranduil “Ci sono due spade. Una deve essere
sicuramente falsa. Come
fare per riconoscere l’originale non saprei neanche
io”.
Bolin
capì
che quello era il momento giusto per parlare, non ci sarebbe stata una
seconda
occasione e aveva rimandato già tante volte.
Perciò facendosi coraggio avanzò
fino a sistemarsi in posizione centrale rispetto al gruppo, che finiva
sempre
per sistemarsi in circolo, e disse: “Io lo so”.
Thranduil si
alzò e la gamba cedette facendolo finire in ginocchio.
Glorfindel gli si
accostò. “Posso aiutare?”.
“Credevo
di
essere a posto”, spiegò il re di Boscoverde.
“Pensavi
di
guarire in una notte, vero?”, domandò divertito
Bolin. “Ahah! Ci vorrà un po’
di più, e già!”.
Gli elfi
sorrisero. “Mastro nano”, riprese mezzo serio e
mezzo divertito Thranduil “vuoi
dirci dunque come fare a distinguere le due spade?”.
Bolin si
fece serio. “Siediti Thranduil, ora spetta a me raccontarti
qualcosa della mia
vita”.
Thranduil si
sedette, il sorriso scomparve dal suo viso e con pazienza
cominciò ad ascoltare
e con lui tutti gli altri. Solo Elrond conosceva già la
storia, ma gli era
stata raccontata in tutta fretta e riascoltarla arricchita di nuovi
dettagli
non gli pesava di certo.
“Bene.
Da
dove posso cominciare?”, disse Bolin massaggiandosi la barba.
“Ecco … sì … dal
principio di tutto … suppongo che sia la cosa migliore da
fare. Bene…
Tutto
cominciò il giorno del mio quinto compleanno, e quel giorno
fu anche la fine di
tutto ciò che fino ad allora avevo conosciuto. Infatti fu
proprio quel giorno
che i miei genitori morirono. Capisco che non è un
bell’inizio, ma le cose
belle non sono mai arrivate nella mia vita… non che me ne
voglia lamentare,
spero che vengano in seguito… comunque…
I miei
genitori morirono, neanche a dirlo, in seguito al crollo di una grotta.
Assieme
ad altri otto nani stavano scavando la roccia per ampliare una delle
sale del Signore
di Moria, ma ahimè non si erano resi conto che la montagna
nel suo crescere
aveva creato una sorta di tunnel naturale, e questo colpito in quello
che ne
poteva essere il pavimento crollò di colpo.
La tristezza
fu tanta in quei giorni e per dieci lune Moria si fermò. Poi
la sala venne
sigillata e i lavori spostati in zone più sicure. Alcuni
bambini rimasero
orfani e vennero presi dai parenti. Io ero l’unico a non
avere nessuno. Ero
solo. Non sapevo che ne sarebbe stato di me e fu allora che la mia vita
cambiò.
Un nano, il
cui nome è Neomat mi prese a vivere a con sé. Io
mi sentivo in dovere di
assecondarlo e ringraziarlo, non volevo deluderlo. All’inizio
temevo che prima
o poi mi avrebbe abbandonato, che si sarebbe stancato di me, poi
cominciai ad
affezionarmi davvero.
Ero felice,
anche se mi rendevo conto che il comportamento che Neomat aveva nei
miei
confronti non era esattamente quello che un padre avrebbe dovuto tenere
nei
confronti di un figlio, però mi bastava, pensavo che stavo
desiderando più di
quello che mi spettava…”.
Mentre Bolin
parlava Gil-galad raggiunse il gruppo, ascoltò il nano
parlare e vide che
Elrond lo ascoltava con gli occhi chinati verso il basso. Subito lo
raggiunse e
gli circondò le spalle con un braccio. Elrond
sollevò lo sguardo e sorrise al
padre, che con un dito gli fece cenno di no, lui non si sarebbe mai
stancato di
averlo scelto come figlio.
“…
e chissà,
se i Valar hanno scelto così forse… Ma comunque.
I giorni passarono e così gli
anni. Con il tempo Neomat mi istruì nell’arte di
lavorare i metalli e quella fu
una salvezza per me, perché nel lavoro trovavo un modo
semplice di rendere
felice mio padre, e inoltre ho sempre amato creare con il
fuoco…
Iniziai con
le impugnature dei coltelli, con le rifiniture delle cornici, con cotte
di
maglia dei guerrieri e poi arrivarono sempre lavori più
impegnativi, e Neomat
pretendeva sempre la perfezione in ogni cosa, e perciò mi
vennero affidati
compiti sempre più difficili da portare a termine.
Alcune volte
erano lavori di cui non dovevo parlare con nessuno, perché
erano dei segreti. E
io mi sentivo lusingato che Neomat affidasse questi compiti a me. Oggi
mi rendo
conto che l’unico obiettivo che aveva era avere qualcuno
facile da manovrare,
qualcuno che facesse il lavoro sporco per lui, di modo da poter
scaricare le
colpe sugli altri in caso di necessità.
Un giorno venne
da noi un elfo. Non
ci disse il suo nome e io lo chiamai Il
Male, chiese a mio padre di riprodurre un’antica
spada elfica. Lui disse
che le spade dei nani non potevano essere forti, robuste ed eleganti
come
quelli fabbricate dagli elfi, e Il Male insistette nel dire che quella
riproduzione in particolare doveva essere identica
all’originale.
Io cominciai a
lavorare il metallo,
per renderla altrettanto fine e bella dovevamo usare materiali molto
più
fragili rispetto a quelli che l’elfo ci indicò.
Proseguivo il mio lavoro
impegnandomi al massimo e felice di ciò che stavo facendo.
Poi accadde
l’imprevisto. Sentì Il
Male parlare con Neomat e dirgli che quella spada sarebbe stata la
rovina di un
grande Re degli elfi…”.
Il silenzio
era sceso su Boscoverde, sembrava che anche gli alberi stessero
ascoltando, e
in realtà era proprio così. Thranduil, che era
seduto, non voleva credere a ciò
che stava sentendo. Possibile che Bolin fosse in qualche modo, anche se
non
direttamente, responsabile della morte di suo padre? E chi era questo
“Il
Male”? Forse Celeborn?
Ancora una
volta si fece attento e ascoltò ciò che Bolin
aveva ancora da dire.
“Questo Re viveva in una grande foresta e
conosceva benissimo la sua spada, non sarebbe stato facile
imbrogliarlo. Allora
Neomat chiese quale sarebbe stata la nostra ricompensa e Il Male gli
rispose
che ci avrebbe dato le gemme
incastonate nella spada
originale, al ché mio patrigno chiese come era
sicuro che il Re avrebbe
ceduto la sua spada e Il Male rise malignamente e poi rispose che il Re
non
avrebbe potuto opporre nessuna resistenza giacché sarebbe
stato morto…”.
Celebrian
non riuscì a trattenersi, questo elfo malvagio sarebbe
potuto essere suo padre!
Subito ebbe paura dei propri dubbi,
e si
rese conto che cominciava a vedere suo padre in maniera del tutto nuova
e
negativa. “Bolin, com’era quest’elfo? Di
che colore aveva i capelli? Forse un
po’ argentati?”.
“No,
no…”,
le rispose subito il nano “erano neri”.
Celebrian
tirò un sospiro di sollievo.
“Galion!”,
disse tristemente Thranduil.
“Temo
che tu
abbia indovinato, Thranduil”, gli rispose Gil-galad.
Tutti lo
guardarono incuriositi. “Diciamo che ho già
sentito una parte di questa storia,
anche se raccontata da un punto di vista diverso”,
spiegò Gil-galad.
Bolin prese
fiato e concluse: “Quando
l’elfo se ne
andò via io mi rifiutai di completare il manufatto. Non
volevo essere
responsabile della morte di nessuno. Restai a casa ancora per un
po’, ma Neomat
mi rinfacciò di avermi amato e di non aver avuto niente in
cambio da me se non
tante delusioni.
Una decina di
giorni dopo decisi che
me ne sarei andato via, andai a parlargli e lo vidi con Il Male,
stavano
discutendo. Il Male gli disse di non dover temere nessun tradimento,
che
avrebbe avuto la sua ricompensa e poi se ne andò.
Restato solo
Neomat parlò tra sé e sé
a voce alta e disse esattamente Le rune naniche
che incisi nell’oro sotto le gemme della
riproduzione saranno la mia
garanzia”.
“Perciò
se
questa spada è la riproduzione di cui parli, dovrebbe avere
delle rune naniche
incise nell’oro sotto le pietre preziose”,
affermò Haldir, “Dobbiamo guardare
subito”.
“Perché
tanta fretta?”, domandò Thranduil con voce amara.
“Del resto, mi pare che tutti
voi sappiate già abbastanza”.
Glorfindel
poteva vedere lo stupore negli occhi di tutti, ma in realtà
simpatizzava per
Thranduil. Gil-galad conosceva già la storia, a quanto
poteva intuire dallo
sguardo pacato che Elrond aveva mantenuto durante tutto il racconto,
anche lui
la conosceva già, Bolin ne era stato in qualche modo parte
attiva. Insomma,
sembrava che tutti sapessero già tutto e Thranduil era in
una posizione di
svantaggio.
“Thranduil,
capisco come ti senti…”, disse Glorfindel, ma il
Re di Boscoverde era ancora
sconvolto.
“Capisci?
Ma
davvero?!”.
Glorfindel
sembrò illuminarsi e apparve in tutta la sua magnificenza.
“Per essere
rimandati indietro da Mandos ci vuole molto di più che una
bella faccia!”.
Bolin
sorrise, ma subito tornò serio, Thranduil non era stato
ammorbidito dalla
battuta.
“Suppongo
che se Bolin avesse potuto ti avrebbe spiegato la situazione prima,
giusto?”,
chiese Glorfindel.
“Certo,
appena avrei trovato il coraggio”, specificò il
nano.
“Il
coraggio
per cosa? Non sono mai stato una minaccia per te. Anzi… sono
stato nelle tue
mani per la maggior parte del tempo”.
Bolin si
rattristì. “E credi che sia stato facile per me?
Appena ho capito chi eri, e
credimi l’ho capito in fretta, già sui Monti
dell’ Emyn Muin, ti ho curato,
volevo parlarti ma tu non eri mai completamente guarito. Poi ci siamo
diretti
al Lothlòrien e ancora avevi bisogno di sostegno non di
altri pensieri. Eri
sempre gentile con me, mi hai chiesto di venire a Boscoverde e io mi
sentivo un
verme perché anche se non avevo fatto materialmente niente
per uccidere tuo
padre, non ero riuscito a fare neanche niente per salvarlo, per
impedire che
mio padre producesse la spada. Mi spiace Thranduil, non hai incontrato
il nano
meraviglioso che credevi di aver trovato…”.
“Già”,
replicò
amaramente il Re di Boscoverde “sicuramente ti credevo
migliore”.
Il gelo
scese nella foresta e la pioggia cominciò a cadere
copiosamente. Thranduil
molto lentamente si allontanò dal gruppo, seguito da
Gil-galad.
Elrond, che
aveva sempre conosciuto Thranduil come un
principe compassionevole, non poteva credere alle proprie orecchie, ma
forse
l’elfo aveva bisogno soltanto di un po’ di tempo in
più per elaborare la
situazione.
I capelli di
Celeborn erano bagnati fradici e anche la tunica color senape che
indossava
aveva assunto un colore decisamente più scuro. Appena mise
piede nelle
prigioni, Celeborn poté sentire un odore sgradevole.
Chiaramente
i prigionieri non potevano uscire per espletare le proprie funzioni
corporee e
l’aria cominciava a farsi malsana. Inoltre le prigioni erano
delle grotte, che
probabilmente erano state la casa di alcuni animali
selvatici, dei quali ora si potevano vedere le
carcasse.
Arrivato
alla prima cella, Celeborn riconobbe subito Legolas e poi vide un altro
elfo.
“Chi
sei?”,
gli chiese sgarbatamente.
“Sono
Pelhiat,
il guaritore che doveva curare il giovane Legolas”, rispose
egli.
“Sì,
va
bene. Comunque non credo che il tuo operato sia necessario”.
“In
realtà
non ho ancora potuto fare niente per lui, perché non mi
è stato concesso di
portare né erbe mediche,
né…”.
Celeborn
sorrise malignamente. “Non serviranno comunque”.
Celeborn si
fece avanti di qualche passo, ma il terreno bagnato lo tradì
e scivolò sulle
ginocchia. “Maledizione!”, imprecò
sollevandosi.
“Attenzione
alle infiltrazioni”, disse Mithrandir affacciandosi dalle sue
sbarre.
Celeborn lo
fulminò con lo sguardo.
“Quale
sarebbe il motivo della sua visita?”, domandò
l’Istari.
“Penso”,
disse alzandosi Celeborn “che sarebbe il caso di iniziare a
risolvere qualche
problema o meglio ancora eliminare qualche ostacolo”.
Mithrandir
stava pensando se per caso non avrebbe fatto meglio a uscire dalla
cella con la
chiave che Galion gli aveva dato, oppure se fosse meglio restare
là.
Con
movimenti molto lenti Celeborn prese in mano la coppia di coltelli che
aveva
portato con sé.
“Cosa
vuole
fare con quelli?”, chiese Mithrandir.
“Voglio
cercare di capire quanto sono affilati”, disse sghignazzando,
“Dov’è il giovane
principe?”.
“Non
vedo
l’attinenza delle due cose”, rispose Pelhiat
spostandosi verso un angolo della
cella e proteggendo in questo modo Legolas che era rimasto immobile e
muto
rannicchiato contro la parete umida della cella.
“La
vedrai
presto”, sputò Celeborn quando
individuò l’elfling.
“Spostati”, ordinò a
Pelhiat “oppure sei disposto a morire per il tuo
principe?”.
Pelhiat
prese fiato, forse Celeborn era pazzo, forse era solamente malvagio, in
ogni
caso non avrebbe lasciato che nessuno facesse del male a Legolas.
“Non ho
alcuna intenzione di spostarmi, io vivo per curare gli altri non per
lasciare
che qualcuno faccia loro del male”.
“Non
so se tu sia coraggioso, dedito alla corona o soltanto
un ingrato che disprezza la vita concessagli dai Valar, ma per me
comunque non
sei niente!”, e velocemente lanciò i due coltelli.
“No!Nana!
Portami via! Nana! Portami via! Portami via!”,
Legolas strillò con tutto il fiato che aveva in gola quando
vide Pelhiat
colpito al petto. Perché? Perché stava succedendo
tutto questo? Perché chi gli
stava vicino veniva sempre ferito?
Come Legolas
iniziò a gridare, Celeborn indietreggiò colto di
sorpresa. La potenza delle urla dell’elfling lo
stordì e sentì la terra
tremare, era come se qualcosa si muovesse rabbiosamente sotto i suoi
piedi.
Velocemente
tornò sui suoi passi e a tratti scivolando, a
tratti inciampando, riuscì a uscire dalle prigioni per
essere sbattuto faccia
in terra da un tronco che si era spezzato da un albero.
Celeborn si
alzò e corse più velocemente che poté
dentro la
fortezza. Sentì dei cavalli nitrire in lontananza,
probabilmente Nedhian e la
sua squadra stavano recuperando quelli fuggiti dalle stalle.
Galion gli venne
incontro con fare serio, ma si fermò vedendo
l’elfo sporco in viso e negli abiti. “Cosa
succede?”.
“E’
morto. Il guaritore è morto. Quel principino sembra
essere molto caro a tutti!”.
Galion si
bloccò nell’udire quelle parole, pensava di aver
lasciato Legolas al sicuro, non capiva il motivo per cui Celeborn era
andato
là. Doveva avvisare Gil-galad di muoversi. Bisognava agire
in fretta.
“In
ogni caso, per cosa mi cercavi?”.
“Rhiaian
vuole la sua
ricompensa. Dice che è tempo che tu gli dia la spada. Che
ormai si è già
trattenuto troppo”.
Celeborn era
furioso, aveva spiegato al nano quanto fosse
necessario aspettare. No! Se lui non fosse riuscito a salire sul trono,
allora
i nani non avrebbero avuto la loro ricompensa.
Con una mano si
tolse un po’ di fango dalla faccia. “Digli
che deve aspettare, altrimenti può andarsene anche ora, ma
senza ricompensa”. “Celeborn!”,
lo riprese Galion “Non è una buona mossa mettersi
contro i nani di Moria”.
“Non
è una buona mossa neanche mettersi contro Celeborn del
Lothlòrien e di Boscoverde”, disse convinto che
prima o poi una corona di legno
avrebbe adornato il suo capo.
Gil-galad
aveva seguito Thranduil, un po’ per assicurarsi che non si
facesse del male
inciampando, poiché era ancora piuttosto instabile, un
po’ per
tranquillizzarlo. Thranduil era molto più calmo e saggio del
padre, però era
comunque un elfo ferito nei suoi sentimenti, che si ritrovava
improvvisamente a
essere solo.
“Cosa
vuoi?”, domandò Thranduil a Gil-galad
“Vuoi raccontarmi di come il migliore
amico di mio padre lo ha tradito? Di come ha ucciso mia moglie? Sembra
che voi
due siate molto vicini se ti ha raccontato della spada”.
Gil-galad
fece finta di non aver sentito l’acidità e il
sospetto nella voce di Thranduil.
“Sì, Galion mi ha raccontato tutto dal suo punto
di vista, abbiamo avuto molto
tempo per parlare durante la mia convalescenza. Posso solo dirti che la
follia
non offusca più la sua mente e che sta cercando di espiare
le sue colpe”.
Thranduil
gli lanciò un’occhiata terribile. La pioggia gli
bagnava il viso e il suo
sguardo non avrebbe potuto essere più tagliente.
“E come si può espiare la
colpa per l’uccisione di una Elleth che aveva ancora
l’eternità davanti a sé?
Come si può lasciare un popolo senza una guida? Come si
può pensare di uccidere
un elfling?”.
Gil-galad
non aveva risposte, però poteva rasserenare il nuovo Re.
“Thranduil, io ho
visto Legolas. E’ nelle prigioni. Credo che gli farebbe
piacere avere una prova
concreta del fatto che tu sia vivo”.
Thranduil
cercò di asciugarsi il viso. “Legolas è
nelle prigioni, si lo so. Non si
trovano lontano. Possiamo andarci”.
“No.
E’
meglio se tu stai qui, se prima affronti Celeborn”.
“Ma
Legolas
è da solo e io posso sentire la foresta preoccupata per il
suo principe”.
“Forse
sono
preoccupati per te”, tentò Gil-galad.
“La
Foresta
sa che io sono il nuovo Re, che mio padre è morto, e che
Legolas è il nuovo
principe”.
“Legolas
non
è solo. C’è Mithrandir con
lui…, è Mithrandir è un Istari inviato
dai Valar…
puoi stare tranquillo”.
Thranduil
espirò pesantemente, voleva far uscire dal proprio corpo
tutte le ansie e le
preoccupazioni, inoltre non stava ancora bene del tutto. La foresta lo
aveva
guarito per la maggior parte, ma le gambe erano deboli e le spalle
sembrava
volessero staccarsi dal suo corpo da un momento all’altro.
Ma il dolore
che in questo momento era più intenso era quello che Bolin
aveva aperto nel suo
cuore. Gil-galad poteva vederlo nei suoi occhi, era stato simile a
quello che
lui aveva provato quando Mithrandir gli aveva detto che avrebbe dovuto
fingere
la propria morte, e lui aveva capito che qualcuno che amava avrebbe
sofferto
molto.
Si era
sentito tradito, Mithrandir gli aveva chiesto molto: gli aveva chiesto
in
qualche modo di tradire suo figlio. E così Bolin,
nascondendogli la verità, gli
aveva chiesto di pensare che la morte di suo padre era un fatto
secondario.
“Bolin
non
ha colpe. Rifiutandosi di portare a termine il lavoro ha cercato di
impedire la
morte di tuo padre”.
“Avrebbe
dovuto assicurarsi che nessuno la producesse!”, disse
Thranduil.
“Non
poteva
controllare tutti i nani di Moria”.
“Allora
avrebbe dovuto denunciare Neomat al suo Re”.
“Con
quali
prove? Sarebbe stata la parola di uno contro uno, come si
può scegliere dove
sta la verità in questi casi?”.
“Avrebbe
dovuto fare qualcosa! Bisognava fare qualcosa!”,
urlò. “Sarebbe andato bene
qualsiasi cosa, qualsiasi cosa…”.
“Ma
cosa?”,
domandò Gil-galad “Cosa avresti potuto chiedere di
più a Bolin?”.
“Non
lo so”,
si agitò confusamente Thranduil “ma se lui fosse
riuscito a fermarli, forse
adesso mio padre sarebbe qui”.
“Bhè,
nessuno può giocare alla vita con i
“se”. “Inoltre come fai a sapere che se
tuo
padre avesse avuto la sua spada adesso sarebbe qui? E se lui, se
Oropher, fosse
ancora qui, cosa chiederebbe a Bolin?”.
Thranduil
conosceva la risposta. “Se fosse qui, non chiederebbe niente
a Bolin poiché
avendomi salvato la vita, non potrebbe chiedergli di
più”. Thranduil chinò il
capo. Era difficile. Lui aveva qualcosa da chiedere a Bolin, qualcosa
per cui
incolparlo solo perché lui non era stato in grado di
proteggere suo padre. Se
lui fosse stato vicino a Oropher in battaglia, il suo Re, suo padre,
non
sarebbe morto. O magari sì.
In ogni caso
non era colpa di Bolin. Doveva tornare indietro e chiedergli scusa. Era
concentrato al pensiero di ciò che gli avrebbe dovuto dire
quando l’eco di un
urlo si diffuse in tutta la foresta da albero ad albero.
Era una voce
che ripeteva sempre le stesse parole. Gil-galad tenne Thranduil in
piedi,
mentre il Re di Boscoverde respirava affannosamente. Non era difficile
capire
il perché di questo nuovo cedimento. L’eco era
chiaro: “Nana, portami via!”.
“Legolas”,
sospirò Thranduil cercando di farsi forza ma sentendo le
gambe farsi molli.
“Dobbiamo
dargli una prova che tu sei vivo. Lasciami l’anello di
Oropher. Glielo
porterò”.
“No,
andrò
io. Non posso andare avanti così”, disse Thranduil.
Gil-galad
però si oppose. “Prima devi affrontare
Celeborn!”.
“Perché?”.
“Legolas
e
Mithrandir hanno bisogno di tempo”.
Thranduil
crollò a terra, ancora una volta non poteva correre in
soccorso a suo figlio,
anche se sentiva che questo ne aveva un disperato bisogno. Prese
l’anello e lo
porse a Gil-galad. “Eccolo, portaglielo subito. Fai in
fretta, ti prego!”.
Gil-galad accompagnò
Thranduil dal resto del gruppo e lo affidò a Bolin,
assicurando Elrond che le
cure del nano sarebbero state sufficienti e li avvisò:
“Tenetevi pronti perché
in giornata incontrerete Celeborn. Credo che i tempi siano
maturi”.
Mithrandir
aveva trascorso una buona mezz’ora nel tentativo calmare
Legolas chiamandolo
per nome, dolcemente. Era riuscito in questo modo a farlo smettere di
gridare,
ma era consapevole del fatto che stare nella stessa cella con un morto
non lo
avrebbe aiutato e inoltre sentiva Legolas ansimare e muoversi, ma non
capiva
cosa stesse accadendo.
Tuttavia non
c’era altro da fare, non poteva correre il rischio di uscire
dalla cella,
quando c’era ancora il pericolo che Celeborn tornasse. Doveva
essere prudente e
aspettare. Perciò l’arrivo di Gil-galad gli tolse
un peso dal cuore.
Il signore
di Imladris rimase scioccato alla vista di Legolas. L’elfling
stava scavando
nella terra con le mani accanto alle sbarre, evidentemente con
l’intenzione di
passarci sotto. Il suo volto era rigato di lacrime e i capelli
incrostati di
fango. Per un attimo gli sembrò di trovarsi di fronte a
Thranduil nella
fortezza di Dol-guldur.
“Ehi,
ragazzo. Legolas”, gli disse piano Gil-galad, ma Legolas
continuò a scavare
senza dare alcuna attenzione all’elfo.
“Ho
una cosa
per te”.
Legolas non
era interessato a sentire le parole di nessuno. Doveva scavare e poi
una volta
fuggito, scappare. Pelhiat era morto. Fidelhion era morto. Sua madre
era morta
e anche suo nonno. Lui doveva fuggire, lontano dove la morte non lo
avrebbe
raggiunto.
Gil-galad
prese l’anello e tenendolo nel palmo della sua mano lo
avvicinò alle sbarre per
mostrarlo all’elfling. Legolas continuava a scavare, i
capelli cadevano sul
viso impedendogli di vedere nient’altro se non la terra.
Gil-galad gli toccò la
spalla e Legolas alzò improvvisamente gli occhi e finalmente
vide l’anello.
Come lo
vide, trattenne il respiro. Poi la tensione che aveva accumulato
scavando per
fuggire si sciolse in nuove lacrime, allungò la mano e prese
l’anello.
“Me lo
ha
dato tuo padre”, disse Gil-galad non potendo fare a meno di
notare le dita
insanguinate del giovane principe. “Mi ha detto di dirti che
qualsiasi cosa accade,
devi essere forte. Lui è al sicuro. Non è da solo
e entro oggi vi rivedrete, ma
tu devi restare con Mithrandir. Hai capito?”.
Legolas
piangeva mentre si portava l’anello al petto e singhiozzava.
Gil-galad avrebbe
voluto allungare la mano e accarezzarlo, ma non era sicuro se il gesto
sarebbe
stato gradito, così lasciò Legolas e si
avvicinò alla cella dell’Istari.
“Penso
che
sia arrivato il momento di usare questa chiave”, disse con
uno sguardo
soddisfatto MIthrandir.
“Non
ancora”,
obiettò l’elfo. “Tra non molto,
manderò Galion. Una volta che lui sarà andato
via, usa la chiave e ricordati: una volta che sei all’aperto
con Legolas non
opporti mai alla foresta”.
“Celeborn
è
venuto qui, voleva uccidere il ragazzo”.
Gil-galad
trasalì. “Quando?”.
“Poco
fa,
forse sei riuscito a sentire le urla di Legolas”.
L’elfo
annuì
con il capo. “E’ stato lui ha provocarle. Ha
lanciato i suoi coltelli contro il
povero guaritore e lo ha ucciso”.
Gil-galad si
affacciò nuovamente alla cella di Legolas e guardando meglio
riuscì a vedere un
corpo rannicchiato in un angolo. Forse Legolas lo aveva spostato, o
forse
chissà.
“Stai
attento Mithrandir”, gli consigliò
l’elfo. “In casi estremi, ricordati che sei
un Istari. Potrai pur fare qualche gioco di prestigio”.
Mithrandir
sorrise e dopo avere stretto la mano a Gil-galad lo lasciò
andar via.
“Legolas”,
chiamò Gil-galad senza ottenere risposta “Sta per
finire tutto. Ancora un po’ e
vedrai tuo padre, sii forte, ragazzo”.
Legolas
continuava
a dondolarsi e singhiozzare, una volta che Gil-galad se ne fu andato
riprese a
scavare, sentiva che Mithrandir gli stava parlando, ma non riusciva a
capire le
parole. C’era solo una cosa da fare, ovvero continuare a
scavare.
E
andò
avanti fino a quando la fossa non fu abbastanza profonda, poi
strisciò sotto.
Lo spazio non era sufficiente per riuscire a passare senza problemi, e
così si
graffiò la schiena in più punti, ma non si
lamentò, non emise una sola parola.
“Legolas
resta qua, non puoi andare da solo”, gli disse Mithrandir
credendo che volesse
scappare e invece rimase sorpreso quando Legolas si inginocchio accanto
alle
sbarre della sua cella e riprese a scavare.
Legolas
voleva liberarlo, non aveva chiavi e perciò
l’unico modo era scavare anche per
Mithrandir. Cosa avrebbe pensato il ragazzo se avesse saputo che lui
aveva la
chiave?
Mithrandir
allungò le mani e gli tenne le sue. “Fermati,
Legolas. Finirà tutto e questo
non è necessario. Credimi”.
Legolas
chinò
il capo di lato, mentre cercava di dare un senso alle parole
dell’anziano. Gli
aveva detto che doveva fermarsi, si guardò le mani e poi un
pensiero lo colpì
con violenza. E se ci fossero stati altri
prigionieri da salvare? Elfi o uomini come lui che Galion e Celeborn
aveva
imprigionato?
Non ci
pensò
su due volte. Si alzò e andò alla ricerca di
altre celle e di possibili
prigionieri.
“Legolas!
Torna indietro. Legolas!”.
All’uscita
dalle prigioni Gil-galad si diresse verso la fortezza. Doveva entrare
nel
passaggio segreto che Galion aveva costruito, ma ormai era pericoloso
poiché anche
Celeborn lo conosceva.
Per questo
bisognava essere prudenti. Abbassatosi il cappuccio, con molta
attenzione,
passo dopo passo, avanzò nel più completo
silenzio. Poi il suo udito elfico
sentì dei passi pesanti e il suo olfatto un odore
inconfondibile: nani!
“Sbrigati!”,
sentì dire Gil-galad.
“State
sbagliando. State facendo un grosso sbaglio. Noi nani abbiamo la
memoria lunga,
e questo tradimento non sarà gradito”.
“Non
posso
farci niente. Vi siete affidati all’elfo
sbagliato”.
Gil-galad
riconobbe la voce, era quella di Galion. Perciò quando si
trovò di fronte il
nano e l’elfo non si spaventò più di
tanto, invece Galion e Rhiaian saltarono
sui loro piedi.
“Chi
sei?
Mostrati!”, ordinò Rhiaian vedendo solo qualcuno
con un cappuccio sul viso.
Galion
però
intervenne subito. “Chi è, non è affar
tuo”.
“Questo
passaggio
è molto frequentato per essere segreto”, disse
Gil-galad a bassa voce.
Rhiaian
sghignazzò. “Non tutti i segreti restano tali per
sempre”.
Galion spinse il
nano in avanti e passando accanto a
Gil-galad udì le parole che aveva aspettato da giorni.
“Procedi come
organizzato”.
“Thranduil,
stai fermo. Stai guarendo, stai decisamente meglio, già, ma
sei ancora debole.
Forse Elrond ti potrebbe dare quell’unguento puzzolente per
il ginocchio”,
propose Bolin.
Elrond ebbe
un colpo di tosse nel sentire il nano disprezzare l’odore
dell’unguento.
Bolin si
lagnò. “Che c’è?! Funziona
certo, ma ha una puzza incredibile”.
Haldir gli
porse una piccola boccetta d’olio. “Anche questa
andrà bene, Bolin. Io la uso
sempre e nessuno mi ha mai detto che ho un cattivo odore”.
Thranduil
era stato in silenzio per tutto il tempo. Aveva voglia di chiedere
scusa al
nano, che era suo amico, ma non sapeva come fare. E perciò
l’unica cosa che
riuscì a dire fu: “Non ho intenzione di abbassarmi
i pantaloni di fronte a
tutti”.
Celebrian
rise tra le braccia di Elrond. “Ti ricordo che solo ieri eri
nudo sotto un
lenzuolo”.
Thranduil
sgranò gli occhi. “E tu mi hai visto?”,
poi rivolgendosi a Elrond chiese: “Hai
lasciato che mi vedesse?”.
Elrond rise
stringendosi al petto Celebrian: “Certo che no. Che senso
avrebbe? Stando con
me, ha già visto il meglio”.
“Uh!Uh!
Che
i Valar ci salvino!”, esclamò ridendo Glorfindel.
“Il meglio, e solo il meglio
è quello che i Valar rimandano indietro”, disse
indicando se stesso con le mani
e facendo un inchino.
Haldir rise,
ma non aggiunse niente. Bolin aveva la boccetta in mano e sembrava un
guaritore
alle sue prime armi. “Allora cosa hai deciso di
fare?”, chiese rivolgendosi a
Thranduil.
Il Re di
Boscoverde girò il viso di lato. “Allora tieniti
il dolore!”, lo rimproverò
Bolin.
“Quando
vivrai nel mio Regno, gradirei che non mi chiedessi di scendermi i
pantaloni di
fronte a tutti”, disse Thranduil a voce alta, senza
però rivolgere lo sguardo
al nano.
“Quello
era
un invito per un amico, sei sicuro che sia sempre valido?”.
“Bolin,
non
era tuo dovere proteggere mio padre. Non è colpa tua se io
non ci sono riuscito”.
Gli elfi
ascoltavano Thranduil parlare e potevano sentire il senso di colpa che
chiaramente portava per non essere riuscito a proteggere Oropher.
“Io
sono
sicuro che tu abbia fatto tutto il possibile. Non sei un
super-elfo!”, gli fece
notare Bolin.
Thranduil
abbozzò un sorriso. “Anche questo, gradirei non
fosse ripetuto davanti a tutti”.
Bolin
ricambiò il sorriso, la burrasca tra loro era passata, ci
sarebbe stato bisogno
di parlare ancora per molto, ma per ora poteva bastare.
Celebrian
sussultò e si tenne la pancia. “Come
va?”, domandò Elrond.
“Ho
paura.
Sto per vedere mio padre, e so che non è la persona che era
prima di partire”.
Bolin, che
sentiva, avrebbe voluto farle notare che Celeborn aveva organizzato
già tutto
prima di partire, perciò lei era stata cieca per molto tempo
prima.
“I
bambini
come stanno?”, domandò Elrond.
Celebrian
sorrise. “Chi? Elladan e Elrohir?”.
Elrond rise:
“Allora è già deciso. Per volere di un
nano e per gentile traduzione elfica di
un risorto, ahah!”.
Glorfindel
fece l’occhiolino a Bolin e quello rise compiaciuto.
“Stanno
bene, ogni tanto si muovono. Dovrebbero nascere tra circa due
mesi”.
Elrond
sollevò
il sopracciglio. “Non sembri così …
voglio dire… così…”.
“Incinta”,
lo aiutò Bolin. “Si dice incinta”.
Celebrian
rise. “Anche mia madre non era molto grossa, la sua pancia
era cresciuta a
dismisura negli ultimi due mesi”.
“Anche
Wisterian”, ricordò Thranduil, “e poi
l’ultimo mese fu
sorprendente. Era così bella!”.
Legolas
avanzava lentamente, aveva superato tre celle ma non c’era
nessuno. Però gli
sembrava di sentire piangere qualcuno, e perciò decise di
andare avanti. La
prigione era buia e scivolosa, dopo pochi passi Legolas cadeva a terra
e doveva
rialzarsi.
Più
avanzava
e più
prigione era in completo sfaccelo,
il soffitto in alcune parti aveva ceduto facendo entrare dei raggi di
luce, ma
comunque essendoci cattivo tempo, la luce era davvero esigua.
A un certo
punto Legolas sentì una voce: “Non
avanzare, torna indietro”.
Inizialmente
credette che fosse la voce di Mithrandir, ma non era la sua.
“Mio
principe, il futuro è alle tue
spalle. Tuo padre ti aspetta, non avanzare”.
I singhiozzi
aumentarono, e provenivano dalla voce che piangeva. Chi poteva essere.
Improvvisamente un ramo sfondo il soffitto facendo cadere fango e
pietre nella
prigione e aprendo una breccia nel muro lateralmente.
Legolas si
fermò spaventato, girò un paio di volte su se
stesso cercando di capire se era
da solo o se c’era qualcuno, perdendo in questo modo
l’orientamento.
La voce
continuava a parlargli: “Non
avanzare”. Legolas
capì che stava sentendo la voce degli alberi e decise di
tornare indietro, ma
ormai non capiva più qual era la direzione giusta da
prendere. Dove era il
dietro e dove il davanti?
Avanzò
verso
una direzione, ma prese quella sbagliata e così si
trovò davanti alla quarta
cella, e non poté credere ai suoi occhi: c’era un
altro prigioniero vestito di
verde disteso sul pavimento. Legolas provò ad aprire la
cella e si accorse che
la porta era aperta. Perciò entrò e scosse il
prigioniero per svegliarlo, ma
quello non si mosse.
Era rigido.
Lo tenne per le spalle e lo girò verso di sé.
Legolas si portò le mani alla
testa, voleva gridare ma la voce non gli usciva, voleva piangere ma
lacrime non
ne scendevano più. Cerco di sollevare il prigioniero, ma era
troppo pesante e
rigido. Il vestito verde era macchiato di sangue.
Legolas
passò la mano sul vestito per pulirlo, ma era impossibile
cancellare quelle
macchie. Il corpo senza vita del prigioniero era freddo, avrebbe voluto
riscaldarlo ma non aveva niente per coprirlo. Doveva portarlo fuori,
forse all’aperto
si sarebbe svegliato. E così, come poté lo
trascinò fuori attraverso la breccia,
sapendo che era morto, ma non volendo crederci.
Là,
sotto la
pioggia, Legolas si tenne stretto il prigioniero, e senza voce, senza
lacrime,
si dondolò avanti e indietro. Poteva solo pensare che doveva
stare tranquillo perché
presto sarebbe arrivato il suo Ada, e avrebbe riportato lui e la sua
Naneth a
casa.
Angolo autrice:
Si. Potete
mandarmi tante maledizioni. E’ un finale imprevisto. Vero?
Bhè in qualche modo
la storia doveva finire e ho pensato di terminarla con la scena ad
effetto,
come nei telefilm.
L’ultimo
episodio di una serie lascia sempre un grosso punto interrogativo. Cosa
succederà nella seconda serie? Riusciranno i nostri eroi a
vincere?
Bhè,
comunque
ho già in mente il continuo perciò non
preoccupatevi …
Ahahah!
No, non ce la
faccio a mentirvi… mi stavo solo divertendo un
po’… ahah!
Ovviamente questo
NON E’ IL CAPITOLO
CONCLUSIVO…
Però
sta per
arrivare… diciamo che nel prossimo si conclude quasi tutto,
ma credo che per
sistemare bene le cose prima di un eventuale
“sequel”, mi servano ancora due o
tre capitoli.
Ringrazio
tutti coloro che leggono, recensiscono,
inseriscono la storia tra le preferite e le seguite… non
siete tanti, ma siete
sicuramente i migliori. Forse Mandos ha rimandato indietro qualcuno?
Che ne
dite?
Vi
abbraccio, a presto, Alida
|
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Capitolo 17 *** Perdonami ***
Galion
spinse
il nano in avanti e passando accanto a Gil-galad udì le
parole che aveva
aspettato da giorni. “Procedi come organizzato”.
Cap 17
“Neomat
non
sarà contento!”, continuava a ripetere Rhiaian a
se stesso, mentre procedeva
nella foresta.
Galion lo
aveva mandato via, perché a quanto diceva, Celeborn, colui
per il quale avevano
fabbricato la spada, non aveva intenzione di pagare il tanto richiesto.
L’elfo,
avaro, si sarebbe tenuto per sé le gemme incastonate nella
spada.
Tuttavia
Neomat non era il nano migliore di Moria e aveva un pessimo
temperamento.
Celeborn non lo sapeva ma sarebbero giunti giorni in cui avrebbe
pregato i
Valar di non aver mai avuto a che fare con un nano come lui.
Appena
giunto a Moria Rhiaian gli avrebbe raccontato tutto e gli avrebbe anche
spifferato
del passaggio segreto. Oh, sì che lo avrebbe fatto.
“Si pentiranno di avermi
mandato via, e di non aver mantenuto la parola. Questi elfi la
pagheranno”,
continuava a ripetere.
Pioveva,
ancora, ma lui non si sarebbe fermato. Rhiaian si guardava attorno, la
pioggia
produceva mille rumori sospetti.
Sentì
dei
cavalli nelle vicinanze e non ne fu contento, non erano animali adatti
a un
nano, neanche per un passaggio. Il terreno era fangoso, doveva aver
piovuto
davvero tanto mentre lui era stato nella comoda stanza degli elfi.
Camminava da
quasi un’ora, l’acqua gli stava inzuppando i
vestiti, e il freddo penetrava
nelle ossa. Con un pizzico di nostalgia cominciò a pensare
alle fornaci nelle
quali aveva prestato servizio, che bel calduccio che c’era
là, finanche troppo
alle volte, ma sempre meglio del freddo.
“Ci
vorrebbe
un po’ di fuoco anche qua”, disse con un ghigno
malvagio.
Un lampo
fece la sua comparsa improvvisa e dopo alcuni istanti un tuono
violentissimo
scoppiò nel cielo. “Ah!”,
gridò il nano, “maledetta pioggia!”.
L’urlo
però
attirò l’attenzione di qualcuno che, ingenuamente,
credeva di aver ritrovato un
amico.
“Rhiaian!”.
Il nano
sentì chiamare il suo nome, ma non essendo pronto a dar peso
a ciò che aveva
sentito non riconobbe colui a cui apparteneva la voce finché
non si trovò
davanti niente di meno che Bolin!
“Vieni,
Rhiaian! Da questa parte, siamo tutti qui”, lo
spronò Bolin mentre lo
abbracciava. “Dove sono gli altri?”.
Intanto Haldir
e Glorfindel che avevano sentito Bolin parlare con qualcuno raggiunsero
il nano.
“Bolin!
Con
chi sei? Sarebbe meglio se a questo punto non ci allontanassimo troppo
l’un
dall’altro” gli disse Haldir.
“Sono
con un
amico”, rispose Bolin. “Vieni, ti presento a tutti
gli altri”, disse poi
rivolgendosi a Rhiaian.
“Non
fa
niente”, affermò Rhiaian, “Grazie
dell’invito Bolin, ma devo andare!”.
Bolin
però
sembrò non capire l’antifona. “Dai, su,
indovina con chi sono? Ti ricordi
l’elfo che incontrammo una volta attraversato
l’Anduin? C’è anche lui”.
“Ci
segua”,
disse Glorfindel con voce autorevole, “Non siamo lontani,
saranno solo una
cinquantina di metri”. Rhiaian non era come Bolin, dava
l’aria di essere inaffidabile.
Haldir fece
cenno di sistemarsi meglio la faretra sulle spalle, e Rhiaian alla
vista dei
due elfi, più che dell’amico, decise di
assecondarli. “Va bene, allora fatemi
strada”.
Così
poco dopo
raggiunsero gli altri, che avevano sistemato tutta la roba sui cavalli
ed erano
pronti a muoversi per raggiungere la fortezza.
“Glorfindel,
ci sono problemi?”, domandò Elrond.
“No,
Elrond.
Non abbiamo incontrato nessun ostacolo, possiamo andare avanti per
almeno
mezzora a piedi senza nessun problema”, rispose
l’elfo biondo.
“Ma
indovinate chi abbiamo incontrato nella foresta? Un amico!”,
disse allegramente
Bolin.
Rhiaian si
fece avanti, salutò e guardò ad uno ad uno gli
elfi che gli stavano attorno.
Quando i suoi occhi caddero su Thranduil, gli sembrò di
riconoscere in lui
l’elfo che avevano catturato e legato e istintivamente si
irrigidì.
“Che
c’è?
Sembra che lei abbia visto un Nazgul!”, disse Glorfindel.
“No,
non è
niente”, disse brevemente Rhiaian col volto scuro.
Anche
Thranduil si irrigidì sul posto, perché sebbene
non fosse riuscito a vedere in
faccia i suoi sequestratori, li aveva sentiti parlare e anche se non
era stato
molto lucido era sicuro di riconoscerne la voce.
“Thranduil,
tutto bene?”, domandò Bolin.
Thranduil
prese fiato. “Credo di aver già avuto modo di
conoscere il tuo amico. Non è
vero?”, domandò egli rivolgendosi a Rhiaian.
“Non
credo”,
fu la risposta “Forse mi confonde con qualcun
altro”.
Thranduil
però era sicuro del fatto suo e più lo sentiva
parlare più era sicuro. “Vorrei
sapere come mai si trova qui. E’ alquanto inusuale che un
nano attraversi
Boscoverde da solo”.
“Thranduil!”,
lo riprese Bolin non capendo perché l’elfo fosse
così scortese.
“Lascia
stare, Bolin. Forse il tuo amico ha le sue ragioni per essere
diffidente”,
disse Rhiaian. “Comunque, sono qui perché ero
stato invitato dal Re di
Boscoverde”, disse con un sorriso compiaciuto, ben sapendo
che questo avrebbe
potuto irritare qualsiasi elfo fedele al precedente re.
“Non
ricordo
che mio padre abbia mai invitato un nano a Boscoverde, né
tanto meno l’ho fatto
io”, ribatté Thranduil pieno di rabbia
“Chi sarebbe pertanto l’elfo che l’ha
invitata? Chi si è appropriato di questo titolo?”.
Rhiaian
assunse il volto più stupito e innocente che
poté. “Re Celeborn,
naturalmente!”.
Tuoni e
lampi si abbatterono improvvisamente e con violenza sulla foresta.
“Come osa?”,
urlò Thranduil. “Con che coraggio assume questo
titolo?!”, continuò a urlare.
Rhiaian era
soddisfatto. Tutti potevano vedere sul suo viso la sua malizia.
Thranduil
avanzò verso il nano, ma la gamba lo tradì ancora
una volta e questa volta fu
Elrond a impedire che cadesse al suolo. Intanto la pioggia si fece
nuovamente
forte. “Io ti riconosco!”, urlò
Thranduil, “Ho riconosciuto la tua voce! Tu mi
hai tenuto prigioniero legandomi con una corda nella
foresta!”.
Velocemente
Glorfindel e Haldir furono ai fianchi di Rhiaian, uno per lato. Il nano
cercò
di fuggire ma Haldir gli puntò una freccia in faccia e
Glorfindel sfoderò la
sua spada. “Non ti muovere, o sarà peggio per
te”.
“Rhiaian,
tu
hai davvero legato Thranduil? Ma perché? Non lo conosci
neanche!”.
Rhiaian non
aveva niente da perdere. Volevano la verità! Gliela avrebbe
data. “Non essere
sciocco, Bolin. Sai bene che ci sono interessi molto grandi dietro
Boscoverde”.
“Io?
Cosa
dovrei sapere?”, domandò sconvolto Bolin.
“Oh,
Valar!”, esclamò Rhiaian rendendosi conto fino in
fondo quanto ingenuo fosse il
figliastro di Neomat, “Tu davvero non avevi capito che io e
tuo padre eravamo
in affari?”.
Bolin era
stupefatto, quanto era stato stupido e sempliciotto. “Io
pensavo che …, tu
dovessi andare a Pontelagolungo!”.
“No,
era
solo una scusa per te e per tutti gli altri! Mi dovevo fermare qui a
Boscoverde
fin dall’inizio. Poi però, meraviglia delle
meraviglie, abbiamo visto un elfo
nei boschi e quest’elfo portava con sé
… indovina cosa? Una spada! Esattamente
uguale a quella che io e tuo padre falsificammo. O era il falso o
l’originale.
Ma come fare per averla? Non c’era modo. Se non
ché l’elfo che possedeva la spada
aveva con sé anche qualcos’altro, o meglio qualcun
altro: un elfo biondo legato
ad un cavallo. Non ne aveva molta cura, anzi direi che si era divertito
molto
con lui, viste le sue condizioni!”. Rhiaian rise e
rivolgendosi a Thranduil
continuò: “Eri un ammasso di sangue e fango, ma
all’altro elfo non importava
niente. Comunque fece un errore, non ti legò e
così, evidentemente riuscisti a
scappare. Io e i miei amici ce ne andammo per ritrovarti poi svenuto e
a quel
punto decidemmo di tenerti, perché magari avremmo potuto
scambiarti con la
spada qualora l’altro elfo fosse venuto a cercarti. Ma
… non venne e i miei
amici se ne andarono lasciandomi solo con te, e dopo un po’
me ne andai
anch’io”.
“Noi
però lo
abbiamo trovato legato e ferito”, disse Elrond accusando
implicitamente Rhiaian
delle sofferenze inflitte a Thranduil.
Rhiaian
però
non ci stava. “Mi creda, era già in condizioni
penose quando lo trovammo”.
“Questo
non
spiega perché dopo aver deciso di non usarlo più
come merce di scambio, lo
abbiate lasciato così, buttato per terra e
legato…”.
“Ho
avuto
paura!”, confessò il nano. “Anche gli
altri se ne andarono presi dalla paura,
perché lui cominciò a farsi luce,
cominciò a brillare di una luce accecante e
questo, questo ci spaventò”.
Gli sguardi
adesso furono tutti rivolti a Thranduil, che però non aveva
molti ricordi di
quel giorno, e neanche spiegazioni da dare. “Io non ricordo
bene, mi ricordo
solo delle voci, e tanto dolore. I polsi, le caviglie, le ginocchia, il
viso,
tutto era soltanto dolore, avevo sete, la gola bruciava, sentivo che
mio figlio
era in pericolo e poi provai un forte dolore alla testa e infine mi
sono
svegliato con voi”.
Elrond tenne
Thranduil. “Non affaticarti. Ti aspetta già una
prova importante. Ormai è
passato, dobbiamo guardare avanti”.
Glorfindel
tenne stretto Rhiaian. “Mi dispiace, messer Nano, ma non
potrai tornare nelle
tue terre. Appena tutto finisce dovrai comparire davanti ai giudici di
Boscoverde e difenderti dall’accusa di Sequestro e tentato
omicidio di Sua
Maestà Re Thranduil”.
Rhiaian
urlò
subito. “No, aspettate. Io non sapevo che fosse il nuovo
Re”.
“Questo
non
rende il crimine meno efferato. Nessuno ha il diritto di rapire, legare
e
colpire un essere vivente, tanto meno un Primo nato”.
Rhiaian stette
zitto, non aveva accettato la situazione, ma
pensò bene di non rendere noto il suo disappunto e scappare
al momento più
propizio.
Dopo aver
lasciato Rhiaian nella foresta, Galion era andato a parlare con
Celeborn. Il
signore del Lothlòrien si era fatto un bel bagno caldo per
rilassarsi e
prendere delle decisioni a mente fresca. Avrebbe organizzato una nuova
riunione
con i consiglieri per discutere su come organizzare il rientro dei
soldati dal
fronte. Non che gli interessasse farlo ma doveva far capire che lui
voleva
sedersi sul trono e perciò doveva essere interessato a tutti
gli elfi del suo
regno, e questo almeno fino a quando non si sarebbe realmente seduto su
quella
poltrona.
“Ah,
il mio
regno!”, disse ad alta voce.
Toc-toc!
“Celeborn,
sono Galion. Aprimi!”, ordinò bruscamente
l’elfo.
Celeborn che
sognava ad occhi aperti, tornò alla realtà.
Aprì la porta della camera e venne
spinto dentro dall’elfo, che richiudendo dietro
sé, cominciò a camminare
nervosamente.
“Si
può
sapere cosa ti prende?”.
Galion fece
cenno con la mano di lasciar perder che c’erano cose
più importanti a cui
pensare. “E’ arrivato!”, disse in fretta
continuando a camminare avanti e
indietro.
“Chi
è
arrivato?”.
“Thranduil!”,
gridò Galion.
“Abbassa
la
voce. Zitto, o ti sentiranno anche le talpe sotto terra!”.
Galion
procedette come concordato con Gil-galad. “Non capisci.
E’ troppo presto, non
riusciremmo mai ad avere in mano la situazione”.
“Taci,
taci.
Ce la faremo. Dimmi dov’è? E’
distante?”.
“Arriverà
all’incirca tra un’ora”.
“Ma
come hai
fatto a vederlo?”, domandò Celeborn.
“Ho
mandato
via Rhiaian; l’ho accompagnato per un tratto di strada e da
lì sono riuscito a
vederlo”.
“Rhiaian
è
andato via? Bene, e le gemme della spada? Gliele hai
consegnate?”.
“Sì,
certo.
Come d’accordo”, mentì Galion.
“Bene.
Allora, la spada finta è sepolta, e quella vera non esiste
più. Adesso possiamo
stare tranquilli”.
“Ma
perché
non dargli le gemme prima?”.
“Dovevo
prendere tempo”, rispose Celeborn, “Adesso
però, visto che sta arrivando Thranduil, è meglio
non avere più la spada in
mezzo ai piedi”.
“Comunque
sia”, continuò, “Organizza una seduta
nella sala del trono, chiama i
consiglieri e spiega loro che Thranduil è venuto, ed
è arrivato il momento di
un confronto diretto”.
Galion
assicurò che tutto sarebbe stato fatto, e che entro
un’ora avrebbero messo unagrande
ipoteca sul regno.
Poi se ne
andò a cercare i consiglieri. Era contento di esser
tornato sui suoi passi, ma ancor di più di poter agire
seguendo liberamente i
suoi pensieri. Spesso quando era con Celeborn si sentiva quasi
stregato, non
riusciva ad opporsi a quell’elfo. Diceva cose belle e
lusinghiere, salvo poi
uccidere chi gli stava in mezzo senza alcun problema.
Thranduil si
stava dirigendo verso la fortezza, Galion sistemava tutto
dall’interno e il
nano Rhiaian era stato mandato via. A questo punto Gil-galad aveva la
sua parte
da svolgere, ovvero andare alle prigioni e far uscire Mithrandir e
Legolas.
Non si
aspettava certo di trovare l’ingresso sbarrato da un grosso
albero e parte
della prigione crollata. Con molta difficoltà
riuscì a districarsi tra i fitti
rami e ad entrare. Non c’era neanche un filo di luce e
così avanzò con una mano
sul muro che lo aiutava ad orientarsi.
Aveva i
sensi in allerta per timore di essere colpito alle spalle da qualcuno,
ma
grazie ai Valar riuscì a vedere una piccola luce e si
diresse velocemente verso
quella, ma nel tragitto cadde. Subito la luce si diffuse con maggior
intensità
nella prigione.
“Chi
sei?”.
“Mithrandir,
sei tu?”, domandò rialzandosi e riconoscendo la
voce.
Mithrandir,
che teneva in mano il bastone con la luce del fuoco, annuì.
“Sì, c’è stato un
crollo poco fa”.
“Lo
vedo”,
rispose Gil-galad, “Dov’è
Legolas?”, chiese subito.
Mithrandir
sospirò e indicando un ammasso di terra, rami e fango disse.
“Oltre questo piccolo
ostacolo”.
“Non
riusciremmo mai a passare da questa parte, vieni. Dobbiamo uscire.
Forse si è
creata un’apertura esternamente”.
Mithrandir
non sembrava convinto. “Se Legolas è intrappolato
là, dovremmo raggiungerlo
subito”.
“Certo,
ma
se proviamo a smuovere questo ostacolo, rimarremmo intrappolati anche
noi e non
saremo di aiuto a nessuno”.
“Va
bene,
andiamo”, cedette infine l’Istari.
Così
i due
uscirono e percorrendo la prigione esternamente, dopo circa trecento
metri
trovarono Legolas. L’elfling però non era da solo,
stava abbracciando qualcuno.
Quando
Gil-galad si avvicinò, Legolas rimase tranquillo, non diede
alcun segno di
sentirsi a disagio, semplicemente teneva in braccio qualcuno
dondolandosi
avanti e indietro. Il signore di Imladris non impiegò molto
tempo a capire che
quello che l’elfling stava stringendo a sé era un
cadavere. Con delicatezza
spostò i capelli dal volto del poveretto e gli occhi gli si
riempirono di
lacrime quando riconobbe Wisterian.
Come sarebbe
riuscito il giovane Legolas a superare anche questo? Pensò a
Elrond che
sicuramente lo aveva pianto per morto a Dol-guldur, pensò al
dolore che gli
aveva provocato, e non poté fare a meno di mettere a posto i
capelli di
Legolas, che la pioggia gli aveva attaccato al viso, pensando di star
mettendo
in ordine lunghi capelli neri.
“Legolas,
dobbiamo andare via”.
Legolas lo
guardò e senza dire niente si alzò cercando di
sollevare anche il corpo della
madre, ma chiaramente era troppo pesante.
“Forse
potremmo lasciarla qui”, propose speranzoso, ma Legolas in
silenzio continuò
nel suo tentativo.
“Arriva
qualcuno”,
disse Mithrandir sentendo gli zoccoli di un cavallo.
I tre non si
potevano nascondere, perciò Mithrandir e Gil-galad si
disposero a scudo davanti
a Legolas e alla povera Wisterian. Lentamente avanzò un
cavallo solitario, uno
di quelli fuggiti dalle stalle.
“E’
solo un
cavallo”, disse Gil-galad.
“Non
un
cavallo qualsiasi”, replicò Mithrandir memore
della presentazione fatagli da
Legolas, “E’ il cavallo di Thranduil. Lo aveva con
sé Celeborn. Chissà come mai
è qui?”.
“Alcuni
cavalli sono fuggiti in seguito al crollo di una parte delle
stalle”.
“Sembra
che
Boscoverde crolli in mancanza del legittimo Re”,
notò Mithrandir, “Chi mi ha
mandato qui, sapeva il fatto suo. E del resto”,
specificò alzando un
sopracciglio, “non ne avevo il minimo dubbio”.
Lùth
avanzò
fino a Legolas e lo annusò, poi dopo aver sentito
l’odore di Wisterian nitrì di
dolore, si chinò sulle zampe anteriori e con
l’aiuto dei due elfi adulti fece
salire Legolas e il corpo rigido di Wisterian.
“Cerchiamo
un posto sicuro dove attendere la fine di
quest’incubo”, disse Gil-galad.
“Pensavo
volessi affrontare Celeborn assieme a Thranduil”.
“Quelle
erano le intenzioni, ma forse Thranduil, considerato la situazione,
sarebbe più
contento se stessi affianco a Legolas”.
“Ci
sono io
con il ragazzo”, sbottò Mithrandir bonariamente e
poi con voce greve aggiunse:
“Lui non è Elrond”.
Gl-galad
scattò di colpo. “Lo vedo bene”.
“Sei
ancora
adirato con me? Sai bene che era l’unica cosa da
fare”, affermò l’Istari.
Gil-galad
non aveva bisogno di ulteriori spiegazioni, sapeva a cosa si riferiva
l’amico.
“No, non sono mai stato adirato con te. Ero sempre e sono
ancora adirato con me
stesso. Era l’unica cosa da fare perché era
l’unica che ci fosse venuta in
mente. Forse avremmo dovuto continuare a pensare, e magari ci sarebbe
venuta in
mente un’idea migliore”.
“Forse
hai
ragione”.
Gil-galad si
tolse il mantello di dosso e lo avvolse attorno a Legolas per ripararlo
almeno
un pochino. “Ho senz’altro ragione. E con Legolas ci rimarrò
anch’io”.
Mithrandir
sorrise, questa era una battaglia che non poteva vincere. I Valar
avevano dato
una grande benedizione a Gil-galad dandogli Elrond, e a Thranduil
dandogli
Legolas, ma a lui l’avevano benedetto ancor di più
non dandogli nessuno.
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Non potevano
andare molto veloci, perché non c’erano cavalli a
disposizione per tutti, però
il folto gruppo di elfi e nani raggiunse comunque la fortezza in breve
tempo.
Celebrian era stata silenziosa al fianco di Elrond per tutto il
viaggio,
finalmente avrebbe visto suo padre e avrebbe potuto chiedergli
spiegazioni.
Ma da dove
cominciare? Dalle menzogne, dalla manomissione della spada, dal tentato
omicidio di Thranduil e Gil-galad, dall’omicidio seppur
fortuito dell’elfo a
Dol-guldur, dalle torture inflitte a Thranduil… erano
talmente tante le cose
che aveva da chiedere che non riusciva a realizzare fin dove il maligno
era
riuscito a insinuarsi in suo padre.
Forse
c’era
ancora una piccola speranza che Celeborn, di fronte a lei, a sua
figlia, tornasse
sui suoi passi, si prendesse le sue responsabilità e
affrontasse con lei e sua
madre la vita.
Celebrian
era sicura, se suo padre avesse chiesto a sua madre di seguirlo
lontano, lei ci
sarebbe andata. E se avesse chiesto a lei di perdonarlo, lei lo avrebbe
perdonato.
Diversi
erano i pensieri di Elrond, che non era disposto a perdonare
più di tanto chi
aveva cercato di uccidere suo padre, e ucciso Wisterian. Anche Haldir
non era
pronto al perdono, si sarebbe aspettato molto di più dal
Signore del Lothlòrien,
un errore era perdonabile ma un piano così diabolico era
tutta un’altra storia.
Bolin
rifletteva su Neomat e Rhiaian, era stato cieco oltre misura e la sua
stupidità
aveva causato tanto dolore, troppo, anche a persone innocenti. Si
vergognava di
se stesso e non sapeva se avrebbe avuto il coraggio di vivere a
Boscoverde, guardare
in faccia
Thranduil, che aveva superato tante prove con coraggio, e vivere nel
suo regno.
Thranduil
pensava soltanto di fare in fretta e di mettere una pietra su tutta
questa
faccenda per tornare ad abbracciare suo figlio e andare avanti.
Camminavano
sotto la pioggia incessante, sicuramente nei sentieri battuti da
Celeborn,
poiché gli alberi cominciavano ad avvizzirsi e le foglie a
cadere gialle,
quando avrebbero dovuto ancora essere di un verde brillante.
Ecco che
dunque apparve la strada di grosse pietre che conduceva al portone
della
fortezza. All’ingresso non c’era nessuno e il
gruppo entrò. Tutti si guardarono
attorno, Thranduil era sopraffatto dall’emozione. In diverse
occasioni aveva
davvero creduto di non rivedere mai più la sua casa. Quando
furono tutti
dentro, chiuse il portone di persona senza dire una sola parola.
Rhiaian
camminava tranquillo, sapeva bene che la fortezza era grande e ci si
poteva
perdere al suo interno, perciò era meglio scappare subito
che aspettare ancora.
Arrivati alla fine del lungo corridoio, giusto prima di voltare
l’angolo diede
un calcio agli stinchi di Glorfindel, che urlò di sorpresa e
dolore, e piccolo
com’era corse verso il portone.
Glorfindel
si lanciò per recuperarlo, gli sarebbero bastati pochi
passi, ma Thranduil lo
fermò posandogli una mano sulla spalla. “Lascialo
stare, non può andare da
nessuna parte. Il cancello è chiuso e a meno che non lo apra
io non potrà farlo
nessuno”.
Difatti come
Rhiaian raggiunse il portone tirò verso se la maniglia ma
non accadde niente,
provò verso l’esterno ma ugualmente non ci fu
nessun movimento. Il portone era
sigillato, e per fare questo era bastato che Thranduil in persona lo
chiudesse.
Davvero lui era il nuovo Re.
Il gruppo
proseguì e questa volta Glorfindel tenne gli occhi aperti.
Dopo poco,
incrociarono Nedhian che immediatamente si chinò di fronte
al suo re. “Mio Re!
Aspettavamo così tanto il suo arrivo, siamo felici che
infine siate giunto a
casa sano e salvo”.
Thranduil lo
ringrazio e chiese se per caso sapeva dove si trovava il signore del
Lothlòrien
Celeborn.
Nedhian un
po’ in imbarazzò confessò:
“Si trova nella Sala del Trono, la sta aspettando.
Ha chiamato in riunione i consiglieri e vuole un confronto diretto con
lei
davanti a tutti”.
Il sangue
ribollì nelle vene di Thranduil. Celeborn avrebbe avuto
ciò che desiderava di
più, nella Sala del suo Trono, gli avrebbe dimostrato cosa
significava essere
Re di Boscoverde.
“Cosa
mi
devo aspettare dai miei sudditi, Nedhian?”, chiese con voce
sicura ma sguardo
stanco Thranduil.
Nedhian
tenne lo sguardo sollevato e immediatamente, senza nessun dubbio,
rispose:
“Fedeltà, mio Signore”.
Glorfindel
si sentì orgoglioso al posto di Thranduil. Lui era sempre
stato un guerriero,
alle volte sotto il comando di qualcuno, altre volte al comando di
tanti e
aveva imparato a riconoscere l’amore, il rispetto e la
devozione verso qualcuno
o un’ideale, e Nedhian possedeva tutte queste
qualità nei confronti del suo Re.
Giunti alla
Sala del Trono, Nedhian alzò il braccio per bussare, ma
Thranduil glielo tenne.
“Non bussare quando entri a casa tua. Apri la porta e avanza
sicuro perché
questo è un tuo diritto. Non siamo ospiti qui”.
Nedhian
abbassò il capo. “Chiedo scusa, mio Re”.
Nedhian
aprì
la porta e fece
entrare il gruppo
inzuppato che sgocciolava sul pavimento. I consiglieri erano seduti al
tavolo
tondo, Galion si trovava al fianco di Celeborn.
I pensieri
di Celeborn correvano frenetici. Vide Thranduil entrare, era zuppo
d’acqua ma
non indossava i vestiti logori con cui l’aveva lasciato,
aveva una camicia
verde e dei leggins marroni con degli stivali a mezza gamba. Non
potè fare a
meno di notare che il passo dell’elfo non era ancora sicuro,
sicuramente non
era ancora guarito del tutto, anche se era in forma più che
presentabile.
Rimase
scioccato quando si accorse che Thranduil non era da solo,
c’erano altre
persone con lui. Al suo fianco poteva sentire Galion bloccare sul suo
viso un
mezzo sorriso. Cosa stava accadendo? Perché Galion non gli
aveva parlato di
tutti gli altri? E chi erano poi?
Per primo
vide Elrond, il maledetto mezzelfo, il maledetto mezzelfo
“orfano”. Sì,
almeno una cosa era andata a buon
fine, pensò soddisfatto.
Poi vide
Haldir, e capì che Galadriel aveva intuito qualcosa,
cominciò a respirare più
pesantemente, non voleva un confronto con la moglie, né con
qualcuno di così
vicino a lei. Al fianco di Haldir stava Glorfindel, il grande
guerriero. In
pratica c’erano i rappresentanti dei tre Regni elfici e un
guerriero.
Poi vide
anche due nani, e subito ne riconobbe uno:
Rhiaian. In quel momento capì che Galion stava
giocando sporco con lui,
eppure aveva collaborato per la spada, ucciso Wisterian e cercato di
eliminare
Legolas. Cosa pensava di fare? Non si poteva essere su due schieramenti
contemporaneamente. O si stava da una parte o dall’altra.
E
infine la goccia
che fece traboccare il
vaso e che lo sconvolse oltremodo: Celebrian. Il sangue gli
andò alla testa,
era completamente scioccato.
“Figlia
mia”, disse prima ancora che gli altri avessero modo di
parlare “Cosa ci fai
qui? Perché non sei nel Lothlòrien, al sicuro tra
le braccia di tua madre?”.
Celebrian
non si aspettava questa dimostrazione d’amore. Suo padre era
preoccupato per
lei. “Padre, ho lasciato il nostro regno per congiungermi a
Elrond”.
Celeborn
lanciò uno sguardo carico d’odio al genero:
“Tu! Maledetto! Hai lasciato che
mia figlia abbandonasse la sua casa sicura
e vivesse nel pericolo per soddisfare la tua
bramosità!”.
Elrond fece
un passo avanti e con calma rispose: “Non ho mai chiesto a
Celebrian di agire
in tal maniera. E certamente non posso comandare i suoi desideri
né le sue
azioni. Io venivo a cercare Thranduil assieme a Haldir e il nostro
amico Bolin”
disse indicando il nano “quando lei ci ha raggiunto e per non
tornare indietro
da sola, ha deciso di restare con noi”.
“Figlia
mia,
perché…”…
“Basta!”,
ordinò Thranduil richiamando l’attenzione,
“arriverà anche il momento dei
ricongiungimenti familiari, ma ahimè, non per tutti. Vero,
Celeborn?”.
Celeborn non
si fece intimidire, sapeva che i consiglieri avevano gli occhi puntati
su di
lui e voleva giocare le sue carte fino in fondo.
Intanto
Bolin si avvicinò più che poté a
Elrond e a bassa voce disse: “L’elfo. Quello vicino
a Celeborn, è lui “Il Male””.
Elrond, come
del resto tutti gli altri elfi nella sala, sentirono quelle parole.
Alcuni si
chiesero perché Galion fosse stato definito come
“Il Male”, ma tutti gli altri
già lo sapevano. Era dunque Galion ad avere contattato
Neomat a Moria e aver
gestito l’affare della spada.
“Suvvia
Thranduil, non mi pare il caso che adesso ti disperi per non poterti
ricongiungerti ai tuoi cari, quando tu, in prima persona hai agito
perché ciò
fosse possibile”.
I
consiglieri erano attentissimi, questo era il confronto tanto atteso.
“Come
ti
permetti di muovere queste accuse nei miei confronti?”,
urlò il giovane Re.
“Ho
visto
con quanto desiderio guardavi la spada di tuo padre, Thranduil. E ti ho
visto
maneggiare attorno a
quella prima della
guerra. E guarda caso, tuo padre è morto proprio tenendo in
mano quella spada.
Quella che mai l’aveva tradito prima, come invece hai fatto
tu!”.
“Io
non ho
mai tradito mio padre”, disse avanzando verso il tavolo tondo
dove erano seduti
i consiglieri. La gamba cominciò a pulsargli, aveva
camminato molto, e anche
andare a cavallo non gli aveva giovato poi tanto. Quel continuo
rimbalzare
aveva pressato molto sulla colonna vertebrale e sulle anche, e adesso
che la
rabbia e la tensione stavano uscendo fuori cominciava a sentirsi
svuotato di
tutto.
“Io
non ho
manomesso la sua spada, sei stato tu…tu che ne hai ordinato
una coppia di minor
fattura per poi scambiarla con quella vera”.
“Sono
bugie!”, urlò Celeborn.
“Bugie!
E’
una bugia anche che tu abbia cercato di uccidere Gil-galad, il Signore
di
Imladris?”.
Celeborn
ebbe un tentennamento. Cosa significava “cercato di
uccidere”? Era sicuro che
Gil-galad fosse morto. I consiglieri bisbigliavano, tutti conoscevano
Gil-galad, e l’uccisione di un elfo per mano di un altro elfo
era cosa
inaudita.
Celebrian
cominciò a piangere. “Non piangere amore mio, non
è vero niente, figlia mia”.
“Certo
che è
vero! Ed è anche vero che mi hai tenuto prigioniero, e che
stai tenendo
prigioniero mio figlio Legolas”.
La Sala del
trono divenne muta. Nessuno doveva far male a un elfling, per nessun
motivo. I
consiglieri guardarono Celeborn con sospetto, dimenticandosi delle
accuse
rivolte a Thranduil.
Celeborn si
sentì in trappola. “Sai usare bene le parole, ma
le parole tali sono e tali
rimangono. Dov’è la spada che dici io abbia fatto
riprodurre, dov’è la spada
originale?”.
Già,
senza
spade non c’erano prove solo un’infinità
di sospetti.
Elrond, da
sotto il mantello prese la spada che aveva in consegna e la porse a
Thranduil.
Questo la
sfilò dalla protezione e la posò sul tavolo.
“Ecco qua la spada che hai fatto
duplicare”, dicendo questo tolse le gemme
dall’incavo mostrando le rune incise,
“Questa era la garanzia del nano presso cui ti sei servito
per la
riproduzione”.
A questo
punto senza riuscire a guardare in faccia Thranduil, fu Galion a
intervenire:
“L’originale la potrete trovare nella stanza in cui
hai soggiornato, sotto il
letto. Proprio dove mi hai detto di nasconderla!”.
Celeborn
vide davanti a sé il Lothlòrien, Galadriel che lo
aspettava sorridente e la sua
piccola Celebrian. Non c’era niente da dire, niente da
aggiungere. Alla fine i
suoi piani gli si erano ritorti contro.
Thranduil
aveva ancora una domanda: “Adesso ti chiedo, Celeborn.
Dov’è mia moglie?!”.
“E’
stato
Fidelhion…”, disse tentando ancora una volta di
coprire le sue malefatte, poi
si voltò da Galion e tra sé pensò, no è
stato Galion, si stava per correggere quando si accorse che a
nessuno gli
avrebbe creduto, ormai lui era colpevole, colpevole di tutto.
Allargò
le braccia
per lasciarle cadere poi lungo i fianchi, a capo chino
superò lentamente
Thranduil, Elrond, raggiunse Celebrian e a mezza voce le disse:
“Perdonami”.
Celebrian
aveva già deciso di perdonarlo, era pronta ma ancora una
volta pagò la sua
ingenuità, infatti il padre le mise un braccio attorno al
collo e con la mano
libera le puntò alla gola un coltello.
Tutti
sussultarono. “Lasciala!”, urlò Elrond.
“Fatemi
passare, e non le succederà niente di male”.
“Padre,
padre, ti prego, lasciami andare! Padre!”, pianse lei
disperata, tenendosi la
pancia in un tentativo disperato di proteggere la vita che portava in
grembo.
Haldir,
Glorfindel
e Bolin si spostarono di lato, Rhiaian ne approfittò per
scappare. Nedhian era
scioccato. Celeborn si avvicinò alla porta e dopo aver dato
un bacio alla nuca
di Celebrian la buttò a terra correndo via. Celebrian
sbattè violentemente la
testa allo spigolo della porta, svenendo.
Thranduil fu
rapidissimo nel seguire Celeborn, assieme a
Galion e a Glorfindel, mentre Haldir e naturalmente Elrond rimanevano
nella
Sala per soccorrere la povera Celebrian. Bolin si guardava attorno
assolutamente sconcertato dalla rapidità con la quale si
erano svolti gli
eventi. La prima cosa che pensò fu che doveva trovare
Rhiaian.
Il vento
batteva forte sugli alberi del Lothlòrien facendo cadere
foglie dorate sul
fiume. Galadriel le osservava tristemente, sembravano anime perse nella
strada
verso Valinor. Il porto sicuro che avrebbe potuto sanare tutti i dolori
e le
ferite dell’anima, sarebbe diventato irraggiungibile per
coloro il cui cuore si
era fatto corrompere.
Lo Specchio
la chiamò. Lei prese la brocca e dopo averla riempita
d’acqua la verso nello
Specchio. Sapeva già cosa voleva conoscere, voleva la
verità su Celeborn e
voleva notizie della sua Celebrian.
Guardò
dentro e vide dolore, tanto dolore e disperazione. Galadriel cadde a
terra e
coprendosi le mani pianse tutte le lacrime che aveva.
Lentamente le
foglie dorate coprirono tutto lo Specchio.
Celeborn fu
rapidissimo e arrivato al portone tirò la maniglia verso
sé, ma cadde all’indietro.
Il portone era chiuso. “Com’è
possibile?”.
Galion, che
era stato il più veloce a raggiungerlo, gli rispose:
“Solo il legittimo Re può
aprirlo o sigillarlo”.
“Perché
mi
hai tradito, Galion? Ti avrei dato un terzo di Boscoverde, te lo avevo
promesso”.
“Ci
siamo
spinti troppo in là. Niente vale tanto quanto una vita, e
quante ne abbiamo
sacrificato noi?”, domandò l’elfo.
Celeborn era
furioso: “Non stavamo prendendo niente che non ci spettasse,
guarda quanto è
grande Boscoverde! Perché deve stare interamente sotto il
potere di uno solo?!”.
Intanto
Thranduil arrivò zoppicando affiancato da Glorfindel.
“Stai delirando,
Celeborn. Anche tu hai un regno!”.
“Io
voglio
il potere! Come hai fatto a chiudere questo dannato
portone?”, gridò
rabbiosamente, mentre guardava le mani di Thranduil.
Thranduil
capì subito cosa cercava il cugino. “Non ho nessun
anello, nessun oggetto del
potere. Gli elfi di Boscoverde mi hanno scelto, la foresta mi ha
scelto, il mio
potere sta nel mio sangue”.
“Bene”,
sibilò Celeborn, “Allora te lo toglierò
fuori”, e gli si lanciò addosso con lo
stesso coltello con cui aveva minacciato la figlia.
Thranduil
fece un passo indietro per scansare la minaccia ma era ancora debole e
le gambe
non lo ressero, ma fortunatamente Glorfindel gli era vicino e lo tenne
su.
Nello stesso
tempo Galion si mise in mezzo tenendo il polso nel quale Celeborn aveva
l’arma.
Allora spinto dalla rabbia per il tradimento di Galion e da una forza
incredibile che non pensava di avere, Celeborn si liberò
della presa del
complice e con un colpo netto lo pugnalò al petto.
Una volta
aiutato Thranduil a stare seduto per terra, Glorfindel si
gettò su Celeborn e
lo disarmò.
Thranduil si
avvicinò a Galion. Il vecchio amico di suo padre,
l’elfo con il quale aveva
trascorso gran parte della sua infanzia e che lo aveva aiutato a
crescere,
stava morendo.
Le lacrime
riempirono gli occhi del Re, era stanco, dolorante e provato da giorni
e giorni
di sofferenza, sapeva che Galion aveva ucciso sua moglie, ma non poteva
fare a
meno di provare dolore nel vederlo morire.
“Non
… non
pian..gere, mio Re. No..n meri…to le tu..e
la…la…crime”.
Thranduil
cercò di aprirgli la camicia per vedere quanto grave fosse
la ferita.“Chiamate
Elrond! Oh, Galion. Perché? Perché tutto
questo?”, pianse Thranduil.
Galion
respirava a fatica. “Io.. pensavo… poi
… mi è sfuggi…to di ma..no.
Tu…sara..i
un bu…on Re”.
“Non
mi
interessa! Non mi è mai interessato!”,
continuò a piangere il Re.
Galion
cominciò a tossire sempre più forte, il sangue
gli colava ai lati della bocca. “No,
ba…sta …”, disse spostando la mano di
Thranduil dal suo petto. “E’ giu…sto
co…sì”.
“Galion,
no!
Resisti, devi reagire…”.
“No…
Cel..orn cono…sce un mo…do per usci..re non
vis..visto. St…ai attento”.
“Aspetta,
aspetta ancora. Forse Elrond può
…Elrond!”, urlò Thranduil.
Galion non
credeva di meritarsi il perdono e la compassione di Thranduil, era
troppo
grande il male che gli aveva inflitto aiutando Celeborn a portargli via
il padre
e poi uccidendogli la moglie, eppure Thranduil era lì, che
gli reggeva la testa
e gridava perché un guaritore venisse a salvarlo.
Quanto si
vergognava di quel che aveva fatto, ma non si poteva tornare indietro e
così,
convinto di non meritare la compassione di nessuno e in special modo
del suo
Re, si coprì il viso con le mani ed emise gli ultimi rantoli.
Le sue mani
scivolarono
piano sul viso
coprendolo di sangue e rendendolo
quasi irriconoscibile. Le lacrime di Thranduil scesero copiose e senza
vergogna. Quando dopo pochi minuti alzò lo sguardo vide che
Elrond era giunto,
al suo fianco c’era Celebrian con una garza in testa e Haldir
che la
sorreggeva.
“Ecco”,
disse Elrond, “che il destino si compie svelandoci
ciò che non capiamo. Questo
è l’elfo della visione. L’elfo dai
capelli neri coperto di sangue”.
“Dovremmo
spostarlo, dove possiamo sistemarlo?”, domandò
Haldir.
“Penso
che le
stanze della guarigione siano la soluzione migliore”,
affermò Thranduil.
“Li
accompagno io”, disse con voce tremante Nedhian che aveva
seguito non visto gli
altri.
Thranduil lo
osservò attentamente, era dispiaciuto per il giovane,
credeva di conoscere
Galion e invece si era trovato di fronte un mostro. Avrebbe dovuto
parlare con
questo ragazzo, spiegargli tutto, anche se ciò che sapeva
era davvero poco, ma
forse sarebbe servito a lenire la sua anima tormentata.
Poi Elrond
realizzò che mancava qualcuno all’appello.
“Dove si trova Celeborn?”.
“Ho
sentito
che Glorfindel lo portava con sé per prendere la
spada”, disse Thranduil e poi
rivolgendo lo sguardo a Nedhian gli chiese se sapeva dove aveva
alloggiato l’elfo.
“Nella
stanza degli ospiti”, fu la risposta.
“Chiaramente”,
constatò Thranduil alzandosi faticosamente.
“Aspetta,
verrò con te”, disse Elrond “Non sei
nella condizione di andare da solo”.
Thranduil
non si oppose, si sentiva davvero stanco, e finché non
avrebbe trovato Legolas
non si sarebbe sentito meglio. Procedettero più in fretta
che potevano, stavano
arrivando quando videro un nano, Rhiaian , scappare seguito da un altro
nano,
Bolin.
I nani erano
usciti dalla stanza degli ospiti e perciò i due elfi
affrettarono il passo
ancora di più. Dentro la stanza trovarono Glorfindel
svenuto, nel collo
potevano vedere un piccolo foro, che al tatto sembrava essere
ghiacciato.
“Cosa
può
essergli accaduto?”, chiese Thranduil.
“Non
lo so”,
rispose Elrond “ma è ancora vivo”, disse
sentendogli le pulsazioni del cuore.
Thranduil si
passò le mani sulla fronte. “Dove può
essere andato Celeborn?”.
Elrond
sistemò un cuscino sotto la testa di Glorfindel, non aveva
idea di dove poteva
essere andato Celeborn. “Fammi pensare. Quali erano i suoi
progetti?”.
“Conquistare
Boscoverde!”, esclamò spazientito Thranduil.
“Voleva uccidere me e …”.
La realizzazione
di ciò che aveva in mente Celeborn gelò i due
elfi, che però assieme dissero:
“Legolas!”.
“Vieni
con
me. Dobbiamo raggiungere le prigioni in fretta”,
ordinò Thranduil dirigendosi
verso la sua stanza.
“L’uscita
è
dall’altra parte”, gli fece notare Elrond.
“Elrond”,
disse Thranduil fermandosi e mettendo le sue mani sulle spalle
dell’amico. “Quello
che ti sto per mostrare è un segreto che solo io e Legolas
conosciamo, confido
che tu sappia mantenere un segreto quando è di grande
importanza”.
“Assolutamente”,
rispose Elrond.
E
così i due
elfi attraversarono il passaggio segreto che li portò
direttamente all’esterno
della fortezza.
Salve a
tutti,
pensavo che
sarei riuscita ad andare avanti di più con la storia, ma
niente da fare. Comunque
non potete dire che i fatti non stanno arrivando alla loro naturale
conclusione. Io domani ho un esame di Interpretazione tedesca,
perciò non
riesco a scrivere di più. Mi raccomando, accendete una
candelina per me,
pregate i Valar o chi preferite…, e sperate che superi
l’esame altrimenti non
avrò tempo di scrivere nessun Sequel… Aiuto!!!!!
Ancora una
volta attendo le vostre recensioni. Grazie a tutti.
Baci, Alida
|
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Capitolo 18 *** Un mondo di silenzio ***
“Elrond”,
disse Thranduil
fermandosi e mettendo le sue mani sulle spalle dell’amico.
“Quello che ti sto
per mostrare è un segreto che solo io e Legolas conosciamo,
confido che tu
sappia mantenere un segreto quando è di grande
importanza”.
“Assolutamente”,
rispose
Elrond.
E
così i due elfi
attraversarono il passaggio segreto che li portò
direttamente all’esterno della
fortezza.
CAP 17
Bolin aveva
seguito Rhiaian appena lo aveva visto scappare dalla Sala del Trono e
poiché,
chiaramente, Rhiaian non conosceva la fortezza il suo era un procedere
fortuito
in un labirinto. Più volte era ritornato sui suoi passi, mai
accorgendosi di
essere seguito.
Avanzò
fino
a che non sentì qualcuno parlare minacciosamente, allora
rapidamente entrò
nella prima stanza che trovò aperta. Bolin lo vide entrare,
ma restò
tranquillo, non era intimorito dalla voce, sapeva che apparteneva a
Glorfindel.
Si
fermò su
due piedi e si rese conto di non saper gestire la situazione. Cosa
doveva fare?
Doveva entrare spalancando la porta, intimando Rhiaian
di arrendersi? E se quello lo avesse
colpito con qualche arma? Lui non era un grande combattente. Era
più un …
insomma … una persona che rifletteva prima di agire, come
dire … no… non un
vigliacco … un …
“Bolin”,
si
sentì chiamare il nano.
“Glorfindel!
Rhiaian è entrato in quella stanza”.
“E tu
hai
aspettato rinforzi qua fuori?”, chiese l’elfo
biondo spingendo in avanti
Celeborn.
“Eh…
già”,
rispose con un filo di voce, quasi vergognandosi il nano.
“Ottimo.
Saresti un grande stratega”, si complimentò
Glorfindel dandogli una pacca sulle
spalle.
Bolin
sorrise entusiasta.
Celeborn
invece era furioso. Tutto era andato storto e adesso avrebbe dovuto
rinunciare
per sempre a Boscoverde. “Bene, è proprio
là che dobbiamo entrare. Quella è la
mia stanza”.
“Allora
facci strada!”, lo spronò Glorfindel per niente
contento del tono di voce di
Celeborn.
Il signore
del Lothlòrien aprì la porta, ma non
c’era nessuno, tutto era come l’aveva
lasciato, a parte il copriletto che era un po’ rialzato.
Entrò nella stanza con
dietro di lui, Glorfindel e infine Bolin. Subito dopo Bolin si
sentì spingere
in avanti e cadde a terra aggrappandosi a Glorfindel che fini in
ginocchio.
Rhiaian era
sbucato da dietro la porta spingendo l’altro nano per poi
correre via!
Glorfindel gli gridò immediatamente: “Inseguilo,
Bolin”, e mentre questo
prendeva alla lettera l’ordine dell’elfo biondo,
Glorfindel sentì di una
puntura nel collo e in breve tutto divenne nero.
Celeborn era
stato rapido nei movimenti, da sopra il comodino aveva preso una
freccia
imbevuta del potente sonnifero di cui si era servito Nedhian
all’arrivo di
Mithrandir e Legolas, e l’aveva conficcata nel collo di
Glorfindel, facendolo
crollare all’istante.
Poi, avendo
paura di incontrare qualcuno all’interno della fortezza, era
uscito dalla
finestra per finire nei cortili interni e poi rientrare dentro,
raggiungere il
passaggio segreto costruito da Galion, che poi era quello che usava
sempre, e
uscire all’esterno.
Il futuro lo
aspettava, e questo futuro si chiamava “Legolas”.
Fu allora
che arrivarono Thranduil e Elrond, e dopo aver sistemato Glorfindel
uscirono
dalla fortezza tramite il passaggio segreto della camera personale del
Re.
E fuori,
all’aperto, tutti lottarono contro la pioggia che veniva
giù talmente forte che
sembrava volesse ripulire il mondo di tutti i mali che lo avevano
afflitto.
Arrivato
alle prigioni Celeborn vide l’ingresso ostruito ed
esultò di gioia! Era
crollato tutto e probabilmente Legolas era già morto,
dell’anziano mortale non
gli interessava minimamente, però non voleva correre il
rischio che aveva corso
con Thranduil.
Doveva
essere assolutamente sicuro che Legolas fosse passato nelle Sale di
Mandos.
Perciò, euforico e preso da quella forza che ci da la
disperazione e talvolta
la gioia, spostò il tronco che ostruiva
l’ingresso, e riuscì a passare.
Grande fu il
suo stupore nel vedere le celle quasi vuote. Solo il corpo senza vita
di
Pelhiat era presente, e Celeborn capì che ancora una volta
era stato fregato.
L’elfling era vivo.
Intanto a
metà strada Elrond e Thranduil furono costretti a separarsi.
Un urlo si era
diffuso in tutta la foresta superando la voce della pioggia, ed essi
trovarono
Bolin spaventato e tremante mentre Rhiaian giaceva a terra morto,
infilzato
dalla spada che era stata di Oropher e che lui aveva rubato da sotto il
letto
della camera di Celeborn.
Elrond
rimase ad assistere Bolin e Thranduil proseguì alle
prigioni. Una serie
infinita di fulmini illuminò la foresta a giorno e
fortissimi tuoni facevano
tremare gli alberi e sbriciolare lentamente i muri delle prigioni.
Quando
Thranduil arrivò all’ingresso vide che qualcuno
aveva spostato un grosso tronco
ed entrando si accorse di quanto fosse scivoloso il terreno e
pericolante la
struttura delle prigioni. Pregò i Valar di non farlo cadere
perché era davvero
molto stanco e sebbene fosse arrivato fin lì non era sicuro
di riuscire ad
andare molto oltre.
Poi mentre
proseguiva a passi lenti si trovò di fronte suo cugino e si
accorse di essere
capace di detestare qualcuno. “Dov’è
Legolas? Dove lo tieni? In quale cella?”,
gli urlò.
Celeborn
sorrise, non aveva la minima idea di dove fosse andato
l’elfling, ma di questo
Thranduil non ne era a conoscenza e perciò mise in atto la
sua ultima
cattiveria. “Si trova due celle più avanti, ma
è morto! Sei arrivato troppo
tardi”.
Thranduil si
sentì mancare, non poteva essere, non di nuovo, non era
pronto ad affrontare
anche questo. Le gambe cominciarono a tremargli. “Stai
mentendo!”.
“No,
è la
verità, caro cugino!”.
La terra
tremò violentemente ai loro piedi. Thranduil stava per
cadere ma riuscì a
mantenere l’equilibrio con un colpo di reni che
servì a bilanciare la sua
schiena e sostenere le gambe, ma che costò parecchio ai suoi
muscoli. Ansimò,
era troppo. Seppellire suo padre lo aveva messo in conto, Wisterian era
stato
un colpo al cuore, ma Legolas … era semplicemente devastante.
“Non
sei mai
riuscito a salvare nessuno di coloro che hai amato, e tuo figlio non ha
fatto
eccezione!”.
“Maledetto!”,
urlò Thranduil lanciandosi contro Celeborn.
Questo non
dovette far altro che spostarsi per
far
cadere Thranduil a faccia in giù. Il Re di Boscoverde
cercò di sollevarsi con
le sue poche forze, ma Celeborn gli tenne la testa premuta contro il
fango
impedendogli di respirare.
“Quello
che
non hanno fatto i cuscini giorni fa, lo farà bene il
fango”, disse cercando di
soffocarlo. Poi i muri cominciarono a crollare. Thranduil non li vide
sbriciolarsi, si dimenava nel tentativo di mettersi in ginocchio, ma la
presa
di Celeborn era troppo forte. Non riusciva proprio a liberarsi e poi
Celeborn
lo lasciò andare all’improvviso.
Probabilmente ha
avuto un
ripensamento, pensò
Thranduil, in fondo non era un bel modo di agire per un elfo. Ma le sue
congetture erano sbagliate e difatti Celeborn lo aveva lasciato andare
quando
si era reso conto che i rami di un grosso albero stavano crollando su
quella
parte delle prigioni.
Celeborn
fece giusto in tempo a spostarsi che i rami coprirono Thranduil. Ce
l’aveva
fatta! Infine Celeborn corse lungo il corridoio che portava
all’uscita, mentre
all’esterno altri rami si abbattevano contro la prigione
distruggendone la
struttura poco alla volta.
Celeborn
vide la fiocca luce dell’uscita e
avanzò correndo, facendo il più in fretta che
poteva. Aveva corso a cavallo per
raggiungere con Gil-galad la vecchia fortezza di Dol-guldur; era andato
di
fretta anche verso la fortezza del Re di Boscoverde, e correva ora.
Tutto gli
tornava alla mente mentre raggiungeva l’uscita.
Ma gli elfi
non sono gli unici su Arda ad avere memoria, e quando finalmente giunse
all’uscio, tra le saette, gli alberi e la pioggia che creava
un muro d’acqua
impenetrabile allo sguardo, avanzò Luth che sollevando le
zampe anteriori nitrì
di rabbia al ricordo delle sofferenze inflitte da Celeborn al suo
padrone, di
Legolas e Wisterian, e impedì
l’avanzata
dell’elfo, sul quale si abbatté un grosso tronco
che lo schiacciò uccidendolo
sul colpo.
Lùth
guardò
il signore del Lothlòrien ancora una volta, aveva gli occhi
aperti e lo sguardo
fisso nel vuoto, la bocca spalancata dalla quale scendeva del sangue.
Luth non
era un cavallo malvagio, però pensò che Celeborn
era morto troppo in fretta.
Troppo grande era stata la pietà dei Valar nei suoi
confronti dopo tutto il
male di cui era stato causa.
Così
finiva
la vita di un elfo che aveva desiderato tanto senza amare mai niente e
nessuno
se non il proprio desiderio, schiacciato da un albero, sprofondato nel
fango.
Lùth
sentì
qualcuno chiamare aiuto. Era una voce bella da sentire, era la voce del
suo
padrone. Il cavallo percorse esteriormente le prigioni fino a che non
raggiunse
la parete sgretolata sulla quale i rami della pianta cadendo avevano
protetto
Thranduil. Mai, ma la foresta avrebbe danneggiato il suo re.
Thranduil
era vivo, con l’aiuto del suo fedele amico riuscì a uscire da quella
difficile situazione. Il
cavallo senza che niente gli fosse chiesto si chinò e
permise al suo padrone di
salire. Thranduil si lasciò andare sul cavallo e a fatica
gli ordinò: “Portami
da Legolas, Lùth. Ti prego, fai in fretta”.
Mentre
Lùth
andava al trotto verso il rifugio improvvisato da Gil-galad, la pioggia
smise
di cadere e il cielo sopra Boscoverde tornò limpido.
Gil-galad aveva condotto
il principe di Boscoverde e Mithrandir nel suo nascondoglio, dove aveva
trascorso i giorni della sua guarigione. Si trattava di una grotta, non
troppo
grande ma comoda.
Arrivati,
Lùth si fermò e cominciò a brucare un
po’ d’erba. Thranduil scese dal cavallo e
subito sentì qualcuno che lo sosteneva. Era un anziano, un
uomo o forse
l’Istari che stava con Legolas, non lo sapeva ma in questo
momento l’unica cosa
importante era Legolas.
“Dov’è
mio
figlio?”.
Mithrandir
sospirò e chiamò Gil-galad. “Questo
è il nuovo Re di Boscoverde?”.
“Esatto,
è
lui”, gli rispose il signore di Imladris, “Vieni
Thranduil”, lo invitò
Gil-galad.
Thranduil si
accorse di non riuscire a camminare. “Io, credo di aver
bisogno di…”.
“Non
si
preoccupi, non sono così vecchio come potrebbe
sembrare”, poi ripensandoci
specificò: “Voglio dire, sono molto più
vecchio, ma sono in forze”.
Gil-galad
gli sorrise di comprensione. Assieme portarono Thranduil dentro la
grotta.
Legolas era seduto a gambe incrociate e teneva stretta a sé
la madre.
Prima che il
Thranduil lo vedesse Mithrandir gli disse: “Suo figlio ha
bisogno di lei, e ne
avrà bisogno per molto tempo”.
Thranduil
non riusciva a capire cosa intendesse dire l’anziano.
“Certo, e io ci sarò
sempre”.
“Tuttavia
arriverà qualcuno che avrà bisogno di lui,
qualcuno che potrà guarirlo”.
Era una
frase che avrebbe avuto bisogno di molte spiegazioni, ma Thranduil ne
voleva
solo una.
“Guarirlo?
Perché? Cos’ha? Ma poi …
c’è qui Elrond. Lui saprà
aiutarlo!”.
“Thranduil”,
disse Gil-galad guardando il Re di Boscoverde dritto negli occhi:
“Non è
giusto. Non sarebbe dovuto succedere e tu non avresti mai dovuto
vederlo… ma
non siamo riusciti a fargliela lasciar andare”.
“Cosa?
Chi?
Dov’è mio figlio?!”, urlò
spazientito.
Poi
sentì
Legolas che lo chiamava. Si guardò attorno e lo vide con il
viso rigato di
lacrime mentre stringeva il corpo di suo madre al petto.
“Oh,
Legolas!”, pianse Thranduil: “Figlio mio”.
Gil-galad e
Mithrandir lo aiutarono a sistemarsi accanto al figlio.
“Ada!
Ho
trovato Nana! Non si sveglia perché è morta, ma
non volevo che qualcuno la
portasse via e l’ho presa con me. Ho fatto bene? Ho fatto
bene, Ada?”.
“Hai
fatto
benissimo, mia piccola foglia. Hai fatto benissimo”, gli
rispose Thranduil
abbracciandolo e accarezzandogli la testa dolcemente, mentre le lacrime
scendevano sul suo viso sporco e provato. Le parole di Gil-galad erano
proprie
vere, non era giusto, non sarebbe dovuto succedere.
Mithrandir e
Gil-galad si scambiarono uno sguardo stupito e poi chiesero:
“Ha fatto bene a
far cosa?”.
Thranduil si
asciugò le lacrime con la manica della camicia. “A
prendere Wisterian. Lo ha
appena detto”.
“Noi
non
abbiamo sentito niente. L’ultima volta che Legolas ha parlato
è quando era
ancora nelle prigioni”.
Thranduil
osservò Legolas in cerca di una risposta.
“Legolas, adesso dobbiamo tornare
nella fortezza, devi lasciar andare la tua Nana”.
“Sì,
voglio
tornare a casa”.
Quelle parole
riempirono di gioia il cuore di Thranduil,
infatti aveva covato in lui il timore che Legolas avesse paura della
fortezza
dopo aver vissuto tanti momenti tristi là, ma lo colmarono
anche di una
profonda tristezza, perché le sue orecchie non le udirono.
Legolas comunicava
con lui attraverso la loro unione, e
la
sua voce melodiosa era celata a tutti gli altri.
Arrivarono
alla fortezza che ormai era notte fonda. Wisterian fu sistemata nelle
stanze
della guarigione, dove giacevano il suo assassino e Rhiaian. Per
recuperare il
corpo di Celeborn si sarebbe aspettato il mattino seguente.
Celebrian
intanto si era ripresa dal colpo alla testa, ma avvertiva che qualcosa
in sé
non andava bene. Infatti dal suo risveglio non aveva ancora sentito
muovere i
suoi bambini e Elrond la teneva sotto stretta sorveglianza.
Glorfindel
invece si era ripreso senza problemi, come avevano fatto
precedentemente
Mithrandir e Legolas quando erano stati colpiti dalle punte di ghiaccio
avvelenate.
Bolin, da
canto suo, aveva visto Rhiaian correre e venire infilzata dalla spada
di
Oropher mentre inciampava nella radice di un albero; era stato
scioccante per
il nano che ancora sedeva in silenzio avvolto in una coperta.
Thranduil e
Legolas fecero un bagno caldo. Ci volle un bel po’
perché terminassero, e al
termine Elrond volle visitarli. Legolas aveva nella schiena i segni di
alcuni
graffi profondi che si era fatto quando era uscito strisciando dalla
cella, ma
in quanto elfo sarebbe guarito in pochi giorni. Ciò che
preoccupava tutti era
il suo mutismo, il suo nascondersi al mondo, per guarire da quel
problema non
servivano medicine, doveva trovare la cura dentro di sé.
Thranduil
invece aveva bisogno di riprendersi, i problemi maggiori erano la
debolezza
delle gambe e la sua debole forza interiore, che lui senza negarlo mai,
trasmetteva a suo figlio nella speranza che potesse aiutarlo a guarire.
Fatti i dovuti
controlli, tutti, senza nessuna eccezione,
andarono a riposare in letti morbidi e puliti e rimandarono al giorno
dopo le
loro fatiche.
“Svegliati!
Bolin, su dai! Ti vuoi svegliare?!”.
“Cosa
c’è,
Haldir?”, domandò Glorfindel che divideva la
stanza con l’elfo del Bosco Dorato
e il nano.
“Voglio
che
si svegli!”.
Glorfindel
aveva già dormito tre ore buone e molto probabilmente non si
sarebbe
addormentato più prima della notte successiva. “Le
stelle ci terranno compagnia
per ancora due ore buone. Perché non lo lasci
dormire?”.
Haldir
scattò, isterico. “Perché vorrei
dormire anche io! Sta russando tutta la notte,
è peggio di un trombone. Ma come fa Moria a non crollare
sotto tutto questo
rimbombare? Almeno se lo sveglio, poi potrò dormire
io!”.
Glorfindel
rideva a bassa voce. “Haldir, credo che svegliare un nano sia
quasi
impossibile”.
“Ahhh!”,
si
lamentò il giovane nascondendo la testa sotto il cuscino. Il
russare però era
incessante, allora Haldir si alzò per uscire dalla stanza
ma, casualità delle
casualità, scivolò sul soffice tappetto accanto
al suo letto e fini col sedere
per terra, lanciando un urlo e svegliando Bolin.
“Per
le
orecchie degli elfi!”, strillò Bolin,
“Cosa è successo?”.
L’esclamazione
aveva fatto scoppiare dalle risate Glorfindel e innervosito ancora di
più
Haldir.
“Cosa
è
successo? Sono caduto …”.
“Incredibile.
Si dice che gli elfi siano creature silenziose…”.
“Creature?!”,
ripeté Haldr mentre Glorfindel cercava di respirare tra una
risata e un’altra.
“Già,
creature. Si dice anche che abbiate un equilibrio da far invidia. Ma
amico mio,
tu devi essere incrociato con qualcosa. Forse con un orco!”.
Haldir nel
frattempo si era alzato in piedi e non credeva alle sue orecchie.
“Con un
orco!?”.
“Già,
un
orco”, ripeté Bolin, e poi rivolgendosi a
Glorfindel con gli occhi mezzo chiusi
domandò: “Ma come mai non ci sente bene? Bisogna
ripetergli tutto!”.
Glorfindel
prese un pochino d’ossigeno e cercando di star serio
spiegò: “Credo che sia
perché ha dormito poco”.
“Ah!”,
esclamò il nano, “E’ notte, Haldir. E la
notte è fatta per dormire. Dovresti
riposare”.
Poi vedendo
che l’elfo era sempre più nervoso decise di
concludere la discussione: “Bene,
adesso riprendo a dormire. Tu, se ce la fai, cerca di non far troppo
rumore,
perché ho il sonno leggero”.
E
così,
quasi automaticamente Bolin si riaddormentò.
Haldir era
rimasto a bocca aperta, guardò Glorfindel che
teneva un sorriso contenuto sulle labbra e si accinse a dire qualcosa,
ma
l’unica cose che poté ripetere fu:
“Incrociato con un orco”.
E
così
arrivò la mattina e la fortezza prese vita anche se gli
elfi, ciascuno nelle
rispettive camere, si erano svegliati già da un pezzo.
Legolas aveva sul viso
quel sorriso senza prezzo che tutti i giovanissimi hanno, nonostante le
avversità della vita.
Thranduil se
lo guardava con gioia e ammirazione e si chiedeva se avrebbe saputo
ricambiarlo
di un sorriso altrettanto genuino, che in lui sentiva essere adombrato
dal
ricordo della triste morte di Wisterian.
“Legolas,
come ti senti oggi?”, domandò speranzoso Thranduil.
Legolas gli
sorrise e senza parlare gli rispose: “Sto bene, Ada. Voglio
restare vicino a
te. Posso?”.
Thranduil si
sedette nel letto mentre il figlio lo aiutava a sistemare il cuscino
per la
schiena. “Certo che puoi figlio mio. Però mi
piacerebbe così tanto sentire la
tua voce…”.
L’elfling
non si ritrasse, anzi si sistemò sul petto del padre.
“La mia voce non può
dirti niente che il mio cuore non ti dimostri”, gli
comunicò in silenzio.
Thranduil lo
strinse a sé, sentiva il cuore rimbombargli nel petto e
trattenne le lacrime
che sembrava volessero inondargli il viso. “Lo so, amore mio.
Il mio era il
desiderio di uno sciocco”.
Legolas
sollevò il viso e guardò dritto negli occhi il
padre. “No, Ada. Non sei uno
sciocco, è solo … che … non lo so,
Ada. Mi dispiace”.
Thranduil lo
baciò sulla fronte. “Non ti devi dispiacere,
vedrai che prima o poi riuscirai di nuovo a parlare. Fino ad allora per
me non
cambia niente, sei sempre la mia piccola foglia”.
Celebrian ed
Elrond aveva avuto modo finalmente di parlare durante tutta la nottata,
nella
quale non avevano chiuso occhio, nella speranza che i piccoli elfling
dessero
qualche segno di vita, e non furono delusi.
Erano circa
le sette del mattino quando Celebrian accusò un forte dolore
nel basso ventre.
Elrond la visitò e la disperazione crebbe nei suoi occhi.
Infatti sembrava
proprio che i suoi elfling avessero voglia di nascere a Boscoverde.
“Adaaaa!”,
urlò a gran voce Elrond.
Gil-galad a
cui era stata assegnata, assieme con Mithrandir, la stanza di fronte a
quella
del figlio, uscì ancora in vestaglia e spalancò
la porta della camera di
Elrond.
“Cosa
c’è?
Siete in pericolo?”, domandò preoccupato.
“Stanno
per
nascere. Cosa devo fare? Cosa devo fare?”.
“Figlio
mio,
io sono un guerriero. Sei tu il guaritore. Li devi far
uscire!”.
Intanto
l’urlo aveva richiamato anche tutti gli altri ospiti e anche
Thranduil con
Legolas. “I miei nipoti stanno per nascere”,
informò tutti Gil-galad.
Thranduil si
guardò attorno nella speranza che fosse accorso qualcuno di
Boscoverde e
naturalmente trovò Nedhian. “Presto chiama la
Maestra di Vita!”, gli ordinò.
Nedhian
corse subito per tornare poi con Cuilia, che era l’esperta
guaritrice per le
partorienti. Senza pensarci su, la donna elfo, fece uscire tutti dalla
stanza,
Elrond compreso.
“Voglio
assistere! Voglio vedere i miei figli nascere!”, si oppose.
“Sì,
sì, sì…
entrerà a tempo debito. Adesso non serve qua
dentro”, poi osservando tutti i
presenti scelse quello che sembrava essere il più modesto e
dunque il più
incline a prendere ordini e indicando Bolin disse:“Tu, vieni
dentro ad
aiutare!”.
Bolin si
guardò prima a destra poi a sinistra per essere sicuro che
la Maestra di Vita
stesse parlando con lui. “Dice a me?”,
domandò stupito.
E cosa
poté
rispondere Cuilia? “Già!
Proprio
te!”.
Tutti risero
facendo infastidire l’ignara guaritrice. “Non
c’è molto da ridere”, poi rivolgendosi
a Elrond lo esortò: “Lei si tenga
pronto!”, e chiuse la porta della camera.
Poi, quasi
fosse un’altra persona il suo tono di voce cambiò
per farsi dolce ma sicura.
“Allora,
quando doveva nascere questa nuova vita?”.
Celebrian
ebbe un’altra fitta di dolore e si tenne il basso ventre.
“Sono due elfling,
gli aspettavo fra due mesi circa”.
Il volto di
Cuilia si fece scuro. “Sarò sincera, non
è una gran bella notizia. Nascere in
anticipo è sempre difficile, quando poi sono due, tutto si
complica”.
Celebrian
iniziò a singhiozzare. “Eh, no,
Celebrian”, la riprese dolcemente Bolin, “Non
devi fare così. Dobbiamo essere ottimisti”.
“Ottimo
consiglio”, aggiunse Cuilia sorridente, “Adesso lei
mi porti dell’acqua calda”.
Bolin si
guardò attorno, non c’era fuoco né
acqua.
Cuilia se ne
accorse. “Vada a prenderla nelle cucine, là il
fuoco è sempre acceso”.
“Già!”,
gridò Bolin.
“Già!”,
gli
fece eco Cuila.
Il nano
uscì
di corsa e chiuse la porta sbattendola e facendo sobbalzare la Maestra
di Vita.
“Cosa
c’è?”,
domandò ansioso Elrond mentre guardava Bolin correre.
“Acqua
calda!”, fu la risposta urlata nel corridoio.
Elrond si
girò da Gil-galad. “Acqua calda, Elrond. Vai anche
tu!”.
“Giusto!”,
rispose lui e prese a correre dietro Bolin.
Intanto
nella stanza Celebrian era stata sistemata in una posizione comoda per
i
bambini, cioè in piedi a gambe divaricate, al momento
opportuno Cuilia avrebbe
fatto entrare Elrond che tenendola da dietro l’avrebbe
aiutata a inginocchiarsi
di modo che Celebrian dando le spinte avrebbe fatto nascere con maggior
facilità i piccoli.
“Ha
mai
fatto nascere dei gemelli?”, domandò la giovane.
“A dir
la
verità, no. I gemelli sono molto rari tra gli
elfi”.
“Sì,
Elrond
è un mezzelfo però, credo che abbiano preso dalla
sua parte”.
“Bhè,
non
credo che cambi molto. Elfi, mezzelfi, nani… nasciamo tutti
allo stesso modo.
Basta essere amati”.
Celebrian
sorrise felice. Bolin era rientrato assieme a Elrond con
dell’acqua calda. Il
mezzelfo era pronto a uscire dalla stanza ma Cuilia lo trattenne, ormai
erano
pronti.
Bolin
portò
asciugami, sistemò due copertine per avvolgere i piccoli e
diede una mano. Ci
vollero circa due ore, ma infine i due piccoli nacquero.
Il loro
pianto non eratanto forte, e loro erano davvero piccoli. Elrond volle
sentirne
il respiro, era un tantino debole e Cuilia lo informò che i
polmoni non erano
ancora del tutto formati, perciò non avrebbero potuto
spostarsi da Boscoverde
per almeno un paio di mesi, inoltre i bambini dovevano stare al caldo
come se
fossero ancora dentro la madre.
Celebrian li
guardava e gli sembrava di avere davanti gli elfi più belli
che avesse mai
visto. Bolin era felicissimo, e affascinato dalle piccole orecchiette a
punta
che accarezzava di continuo.
Poi furono
distratti da una voce ben nota: “Volete far uscire i miei
nipoti!”.
“Credo
che
tuo padre desideri vederli”, disse lei con le lacrime agli
occhi pensando a
Celeborn morto.
Lui la
strinse a sé, guardò i suoi elfling, entrambi
avevano i capelli neri. “Avresti
preferito che …”.
“No”,
lo
interruppe lei impedendogli di terminare la frase: “Li
desideravo proprio
così!”.
Quando la
porta si aprì c’erano tanti occhi puntati sui due
piccoli elfi, tutti erano
meravigliati della loro bellezza e ciascuno di essi istintivamente
allungò le
mani per prenderli in braccio.
Bolin,
facendosi orgoglioso, fece un passo avanti e tra i sorrisi generali
disse: “Vi
presento Elladan e Elrohir, figli di Elrond e Celebrian, Signori di
Imladris e
del Bosco Dorato”.
Haldir si
chiese cosa avrebbe detto Dama Galadriel dell’appellativo
dato ai suoi nipoti,
ma solo per un attimo perché poi come tutti
continuò a guardare estasiato i due
piccoli.
Legolas si
avvicinò ai bambini e
li accarezzò senza
però prenderli in braccio, poi corse da suo padre e lo
abbracciò e senza
rendersi conto di parlare disse a bassa voce: “Hai visto che
belli, Ada.
Elladan e Elrohir”.
Mithrandir
guardò Thranduil che stava abbracciando suo figlio
e poi Elrond che teneva i suoi. Gil-galad intuì subito che
chi poteva guarire
Legolas, chi avrebbe avuto bisogno di Legolas per guarire aveva appena
messo
piede su Arda.
Eccomi qua.
Questo era il capitolo
conclusivo, spero vi sia piaciuto. Vi ringrazio molto per aver letto la
mia storia
e per aver recensito… un grazie a tutti, ma uno ancora
più grande a Tina_Legolas
che è sempre stata presente.
Spero che il
finale non vi abbia
deluso, naturalmente qualcosa è stato lasciato aperto.
·
Che fine
farà il corpo di Oropher?
·
Che fine hanno
fatto i guerrieri di
Boscoverde che erano rimasti in attesa di Thranduil?
·
Come
reagirà Galadriel alla morte del
marito? Alla nascita dei nipoti?
·
Dove andranno
Elrond e Celebrian?
·
Che fine ha
fatto il corpo di
Celeborn?
·
Bolin
rimarrà a Boscoverde?
·
Neomat come
reagirà alla mancata
consegna delle gemme della spada?
·
Legolas
parlerà nuovamente con tutti?
·
Elladan e
Elrohir riusciranno a
riprendersi?
Tutto questo
sarà svelato nel Sequel…
che però non arriverà presto, già lo
dico.
Per scrivere lo
schema generale (non del
tutto rispettato) di questa storia ho impiegato circa due
mesi… perciò credo
che prima di Natale ci sarà al massimo un capitolo.
In ogni caso
spero di avervi
divertito, vi abbraccio tutti e magari potrei scrivere qualcosa di
più breve,
chissà!
A presto,
Alida
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