Non di solo potere

di alida
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Quali uccelli? ***
Capitolo 2: *** Canti di speranza ***
Capitolo 3: *** Ciò che non ti aspetti ***
Capitolo 4: *** Un nano diverso ***
Capitolo 5: *** Sguardo cieco sul futuro ***
Capitolo 6: *** Saluti e inviti ***
Capitolo 7: *** Una spada in due posti? ***
Capitolo 8: *** Messaggi arrivati ***
Capitolo 9: *** Il dolore colpisce all'improvviso ***
Capitolo 10: *** Perdersi ***
Capitolo 11: *** Tutto viene a galla ***
Capitolo 12: *** L'incappucciato ***
Capitolo 13: *** Per Arda ***
Capitolo 14: *** Goccia a goccia ***
Capitolo 15: *** Il sangue non conta ***
Capitolo 16: *** Giù, come un castello di carte ***
Capitolo 17: *** Perdonami ***
Capitolo 18: *** Un mondo di silenzio ***



Capitolo 1
*** Quali uccelli? ***


Ciao a tutti. Questa storia è la mia prima incursione nel mondo di Tolkien. Spero che possiate apprezzarla, e possiate divertirvi a leggerla così come io mi sono divertita a scriverla.

E’ una storia completa. Ciò significa che ho scritto già tutto lo scheletro della storia dall’inizio alla fine. E questa è la prima volta che lo faccio, solitamente invento mentre posto, ma siccome la mia ultima fanfiction (su Harry Potter) è rimasta incompiuta per vari motivi, ho deciso che pubblicherò storie lunghe a capitoli soltanto nel momento in cui ho avrò già deciso tutti i passaggi della storia, in pratica a trama sbrogliata.

E perciò, eccomi qua. Chiunque si sia tuffato su Arda, tra elfi, nani, hobbit, uomini ecc… saprà bene che il mondo che Tolkien ha creato è molto vasto, e le sue trame sono fitte e ben collegate, ma talvolta ci si ritrova ad avere delle nozioni discordanti, questo perché l’autore scriveva, correggeva, riscriveva e quando è morto il suo lavoro era tutt’altro che concluso. Io, sebbene abbia ben chiara la situazione generale, devo ancora fare tutti i collegamenti necessari per avere risposte immediate.

Da qui l’idea di scrivere una ff "What if", del resto perché non inserire delle varianti che possano far quadrare il cerchio? Ma comunque, mi sto dilungando troppo.

In breve, la storia è una What if, ciò che dovete necessariamente sapere per comprenderla appieno  è questo:

Siamo all’atto finale della guerra combattuta nel Dagorlad, in cui Isildur tagliò il dito a Sauron e decise subito di tenersi l’anello (senza recarsi sul Monte Fato con Elrond).

Esistono tre Regni elfici:

Boscoverde il Grande, guidato da Oropher che ha un figlio: Thranduil che è sposato con un’elfa silvan di nome Wisterian;  i due hanno un figlio di circa 15 anni umani che si chiama Legolas.

Oropher  nel momento in cui è diventato Re ha acquisito il potere di controllare il grande portone della sua fortezza, il quale può essere sigillato alla chiusura solo dal Re (se un elfo chiude il portone, chiunque può riaprirlo, ma se il portone è chiuso fisicamente o con un ordine vocale dal Re, questo si chiuderà e nessuno riuscirà ad aprirlo se non il Re fisicamente o con la voce). Il potere è noto a tutti, ma solo Oropher, Thranduil e Wisterian sanno che è un potere insito nel fatto di essere Re e che non è collegato a nessuno oggetto.

Imladris con a capo Gil-galad che possiede l’anello Vilya, e che ha un figlio adottivo, Elrond, che ama come suo. Elrond è innamorato di Celebrian.

Lothlòrien, guidato da Celeborn, cugino di Thranduil, e Dama Galadriel, la quale possiede l’anello Nenya. Celeborn è geloso di Thranduil e del fatto che un giorno lui erediterà Boscoverde il Grande.  I due hanno una figlia, Celebrian, innamorata di Elrond.

Gil-galad e Elrond sono gli unici che conoscono  Gandalf, da poco comparso sulla Terra di Mezzo. Avendo capito che è stato inviato dai Valar, Gil-galad affida a Gandalf l’anello Narya, perché per un elfo solo è difficile possedere due anelli così potenti e non restarne ammaliati.

Bene, questo è tutto ciò che è necessario sapere. Gli aggiornamenti avverranno una o due volte la settimana, dipende dal tempo che ho a disposizione per scrivere.  Vi auguro una buona lettura e spero di leggere presto le vostre impressioni e considerazioni..

Capitolo 1

Finalmente era arrivato il giorno tanto atteso, il male sarebbe stato sconfitto una volta per tutte e solo la pace avrebbe dimorato su Arda. Thranduil si chiedeva se davvero quel giorno si sarebbe concluso tutto, e come era possibile che il male sparisse dalla faccia della Terra in un batter d’occhio. Gli elfi, gli uomini e tutti gli esseri viventi, anche i Valar, avevano sempre vissuto combattendo il male, che trovava ogni volta la forza di rinascere e riproporsi in vesti diverse.

 I suoi pensieri scorrevano veloci mentre le sue mani accarezzavano la spada di suo padre; la lama era lucente, l’impugnatura solida e le gemme incastonate in essa brillavano, le lunghe dita del giovane Thranduil lentamente ne percorrevano i contorni. Quella spada aveva combattuto altre guerre, ma adesso davanti all’inesperienza del principe sembrava essere meno solida, era come se le gemme tremassero al pari dell’animo inquieto di colui che l’ammirava.

“Un giorno sarà tua” disse una voce sicura e dolce.

Thranduil appoggiò subito la spada sul tavolo. “Non ho fretta di possederla, padre”.

Oropher gli si avvicinò, gli lisciò i capelli, sistemandogli  dietro le orecchie le trecce da guerriero. Suo figlio era bellissimo, ma ancor di più era buono. “Non hai fretta, eppure un giorno sarà tua. E’ di ottima fattura”.

Le mani di Oropher indugiavano sulle spalle larghe del figlio, del suo unico figlio, che egli stesso aveva portato in guerra. Lo sguardo del re era severo, eppure sapeva anche riempirsi  di calore.

Thranduil conosceva la fierezza di suo padre, e sapeva che non avrebbe mai sentito parole dolci sussurrate in sottofondo, come quelle che lui invece dispensava a Legolas, però sapeva di essere amato, lo sentiva nel cuore, nell’animo e in quelle mani che ancora compivano dei movimenti circolari sulle sue spalle.

“Padre…” disse il principe inclinando il viso verso la spalla nel tentativo di cercare un contatto. Oropher avvicinò la mano e accarezzando la guancia di Thranduil tentò di rassicurarlo: “Ma dovrai aspettare a brandirla perché oggi torneremmo a casa insieme”.

Oropher abbassò le mani e fece per andarsene, ma due braccia forti la avvolsero in un disperato tentativo di fermare il tempo. La voce di Oropher si perse in fondo alla gola e lui con compostezza ricambio l’abbraccio.

All’esterno della tenda del Re, i soldati stavano finendo di prepararsi. Era ora di uscire e porre fine al potere di Sauron. L’esercito di Boscoverde il Grande era composto da elfi valorosi, anche se con poca esperienza. Erano pronti a seguire il loro re e a lottare per il regno; e così fecero quando arrivò il momento.

Lo scontro era già iniziato, l’esercito di Sauron già combatteva contro gli uomini di Gondor, le urla si diffondevano nella piana, le perdite erano ingenti ma gli uomini non demordevano,  se il male non avesse avuto fine allora neanche il bene ne avrebbe avuto.

Poi arrivò il segnale, non c’era alcuna possibilità di sbagliare, l’arrivo degli uccelli neri inviati da Celeborn del Lothlòrien indicava che bisognava andare all’attacco. Gli eserciti di Imladris e del Lothlòrien si sarebbero uniti a loro da li a poco.

L’esercito con divise verdi avanzò a passo deciso, ordinatamente. Thranduil guardò davanti a sé, una marea nemica avanzava verso loro. Si girò di lato per vedere l’arrivo degli eserciti alleati, ma non vide nessuno. Anche Oropher si voltò a cercare Celeborn e Gil-galad ma l’unica cosa che vide era il suo umile e fiducioso esercito, pronto a morire per lui. Possibile che gli alleati fossero caduti in un’imboscata? Era troppo strano. Possibile che Celeborn lo avesse  tradito? Il nipote era sempre stato invidioso della grandezza di Boscoverde, ma non avrebbe mai inviato il segnale in anticipo. O lo avrebbe fatto?

 “Ah, Celeborn” pensò il Re “qua affermo che il giorno in cui tu entrerai a Boscoverde con l’intenzione di dominarlo, la foresta diventerà buia e mai ti appoggerà” , poi guardò suo figlio ancora una volta e penso che forse era l’ultima volta che lo vedeva e ciò che vide lo riempì di orgoglio: un giovane principe, con il busto dritto e lo sguardo fiero che non mostrava paura ma determinazione.

Oropher si fece forza e gridò: “Andiamo a sconfiggere il nemico! Con forza e senza mai arrenderci, combatteremo fino all’ultimo elfo. Per Arda, per tutti gli elfi e per Boscoverde!”.

Senza pensarci su, gli elfi avanzarono spinti solo dal loro coraggio. Lo scontro fu violento, Thranduil con la spada in mano fronteggiava il nemico, gli alleati ancora non si vedevano. Suo padre combatteva con tenacia, eppure sembrava che per quanta forza ci mettesse la spada non lo assecondasse, era come se qualcosa non andasse bene. Oropher sentiva la spada pesante da gestire, più pesante del solito, la lama per quanto l’avesse affilata il giorno prima non era perfetta e quell’imperfezione gli fu fatale.

Thranduil vide il padre cadere a pochi metri da lui, il petto in sangue, le gambe che tremavano, il corpo che non stava più in piedi, che lentamente si accasciava al suolo e sullo sfondo di questo triste scenario le truppe di Imladris e del  Lothlòrien che finalmente arrivavano e si lanciavano contro il nemico.

Thranduil non fece in tempo a realizzare l’accaduto che una fitta di dolore si diffuse in tutta la spalla, e fu il suo turno di crollare un po’ alla volta mentre il mondo andava avanti nella sua pazzia e Isildur tagliava il dito di Sauron recuperando l’anello del potere.

Era confuso, a terra, e dolorante come non gli era mai capitato d’essere, eppure, ancora non lo sapeva, ma sarebbe stata una sensazione familiare ancora per molto tempo. Sentì una voce chiamare il suo nome, e un’altra domandare perché. Poi non sentì più niente, vide però alcuni elfi che gli si avvicinavano, parlavano a voce troppo bassa o forse era lui che per chissà quale ragione non sentiva più, le orecchie gli fischiavano fastidiosamente.

Si sentì sollevare, cercò di sollevare il braccio per spostare i capelli che erano appiccicati sulla guancia, ma la spalla gli fece troppo male e un urlo strozzato uscì dalla sua gola.

“Principe, piano…”.

Qualcuno parlava, lo chiamava principe. Lui era un principe, era figlio di Oropher che era il Re degli Elfi di Boscoverde… era in guerra contro le forze di Sauron e … le orecchie ripresero a ronzare. Perché quel ronzio non voleva passare?

Thranduil era stanco, e mentre lui era lì suo padre magari lo stava cercando, e poi non c’era nessuno che parlasse a voce alta.

“Portiamolo … tenda…”

“… il Mezzelfo… non … anche guarit…”

“Oropher … non serve… Mandos…”.

Il ronzio nelle orecchie di Thranduil aumentò vertiginosamente, stava male, sì, questo era certo ma quella parola, “Mandos”, l’aveva sentita bene, era stata accostata al nome di suo padre. Thranduil voltò il viso di lato, qualcuno sosteneva un elfo con una ferita al petto. Era una brutta ferita, molti sarebbero morti dopo aver preso un colpo del genere, sarebbero caduti a terra come …

Oh, Valar! Un’immagine gli passò davanti agli occhi: suo padre che scivolava verso il basso, suo padre che era stato ferito e che ora era giunto nelle sale di Mandos.

Thranduil non aveva forze ma, come poté, con un misto di angoscia e consapevolezza  gridò“ No, non può essere. Noo!”. Sentì delle mani gentili ma forti tenerlo.

“Thranduil devi restare calmo, ti stiamo togliendo l’armatura e poi curerò le tue ferite. Sei nella tenda del Re …” la voce si interruppe, sospirando. “Sei al sicuro”.

Il guaritore e gli aiutanti liberarono il nuovo Re dall’armatura e gli scoprirono il petto. La ferita era sanguinante, ma non grave. “Lord Elrond, cosa possiamo fare?”.

Elrond si guardò attorno, non c’era molto da fare lì. Thranduil era chiaramente sotto shock, ma la ferita alla spalla non era seria. “Non potete fare niente, andate fuori e soccorrete i feriti, al Re ci penserò io”.

I due aiutanti si scambiarono uno sguardo incuriosito. Vedendoli titubanti, Elrond li rassicurò: “Andate e non abbiate paura, il Re non è in pericolo di vita”.

Elrond di Imladris era un bravo guerriero, ma ancor di più era un eccellente guaritore, non restava altro da fare che obbedire ai suoi ordini per quanto fossero inaspettati, perciò i due elfi uscirono dalla tenda.

Thranduil prese fiato, aveva riconosciuto la voce finalmente. “Elrond…”.

“Sì, Thranduil, sono io. Sto ripulendo la ferita, non temere non è grave”.

“Mio padre…”.

“Stai calmo, non agitarti”.

“Gli uccelli sono arrivati troppo presto”.

Elrond pensò che Thranduil stesse delirando e posandogli il palmo della mano sulla fronte gli controllò la  temperatura.

“Gli uccelli? Quali uccelli?”chiese il guaritore.

“Gli ucc…” riprese a dire il Re cercando di alzarsi, ma il dolore alla spalla era troppo forte e così ricadde nel letto, chiudendo gli occhi.

La fronte era fresca, però era necessario che Thranduil bevesse una tisana calmante, doveva riposare  per riprendersi in tempi brevi. La tenda però non era organizzata come infermeria e a Elrond  mancava il necessario. Allora prese un lenzuolo, coprì il busto di Thranduil e lasciandolo sdraiato nel suo giaciglio, andò verso la sua tenda per recuperare delle erbe.

Dopo poco Thranduil riaprì gli occhi e si accorse di non essere solo nella stanza.

“Elrond?” chiese incerto.

Un elfo alto, robusto e biondo si accostò al suo letto. “No, caro cugino, non sono Elrond”.

Thranduil senti il sangue salirgli fino alla testa, come osava Celeborn venire nella sua tenda, così sfacciatamente, ben sapendo di aver inviato il segnale in anticipo. Forse se non lo avesse fatto suo padre non sarebbe morto. Sicuramente Oropher avrebbe avuto una possibilità in più.

Le uniche parole che riuscì a pronunciare furono: “Perché hai inviato gli uccelli in anticipo”.

Celeborn sollevò le sopracciglia e con un mezzo sorriso rispose: “Di quali uccelli stai parlando?”.

“Smettila! Sai bene di cosa parlo. Del segnale che …”

“Come? Cosa? Quale segnale, Thranduil?”.

Thranduil non riusciva a capire se Celeborn lo stesse facendo a posta o semplicemente stesse cercando di mantenerlo calmo perché era preoccupato per lui.

“Celeborn” disse con calma riprendendo fiato “Ero presente quando tu e mio padre vi siete accordati sul momento in cui Boscoverde sarebbe dovuto intervenire”.

“Già. C’eravamo solo noi tre e nessun altro” continuò l’altro sornione.

“Bene, allora ti ricordi!”.

“Se mi ricordo? Mi ricordo tante cose, cugino. Per esempio di come tuo padre si sia impossessato di un grande regno, mentre io mi sono dovuto accontentare di un piccolo bosco. Di come tu e lui vi siate allontanati sempre più da me e Galadriel e abbiate preferito stare con quei selvaggi silvani. Mi ricordo di tante cose, certo che ricordo” sputò con la lingua avvelenata.

“Ognuno fa le sue scelte, Celeborn. Né io, né mio padre ti abbiamo mancato di rispetto, abbiamo solo portato avanti il progetto di costruire un Regno di Elfi, come tu e Galadriel fatte nel Lothlòrien”.

“Sì, anche io ho dei progetti. Li vuoi conoscere?” domandò Celeborn dando le spalle a Thranduil e prendendo in mano un cuscino “Progetto di seppellirti accanto a tuo padre e di assumere il comando del tuo regno”.

Il cuore di Thranduil perse un battito, ma lui tentò di mantenere la calma. “Spiacente ma la mia ferita non è grave, e anche se lo fosse, io lascio un erede al trono”.

Era una risposta semplice e senza malizia ma Celeborn si sentì colpire al cuore, lui non aveva figli maschi, non ancora, e chiaramente dal suo punto di vista Thranduil aveva voluto evidenziarlo.

“Il piccolo Legolas,” disse con disgusto “non preoccuparti sistemerò anche lui con la tua bella mogliettina”.

Thranduil aveva sentito troppo, fece per alzarsi ma Celeborn fu molto più rapido e gli fu subito addosso spingendogli il cuscino sul viso. Thranduil lottò come se fosse ancora in battaglia, cercò di liberarsi ma un braccio era inutilizzabile e l’altro non poteva competere con la forza di Celeborn e tutto il suo peso. La schiena di Thranduil si inarcò, i pugni chiusi battevano sul materasso, le gambe si divincolavano  ma non c’era alcuna possibilità di fuga.

Il tessuto morbido sulla bocca non faceva passare l’aria e poco alla volta i polmoni smisero di lottare, il petto si abbassò e Thranduil rimase immobile. Celeborn mise a posto il cuscino e di fretta uscì dalla tenda.

 

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Capitolo 2
*** Canti di speranza ***


Capitolo 2

Un fresco venticello danzava sinuoso tra gli alberi, le foglie verdi ondeggiavano accompagnando la melodia a passi lenti. La luce che irradiava la foresta sembrava trascendere il reale e proiettava immagini sfuocate alla vista che soltanto altri elfi avrebbero potuto distinguere senza fatica.

Ma quello non era il momento di ciò che si vede con gli occhi, era ciò che si sentiva con il cuore, o si sarebbe voluto vedere, che soavemente  veniva cantato.

Coi forti archi - sono partiti

le lance a punta - hanno con loro.

Contro il nemico, - che il buio adora,

la loro luce - combatterà.

Le bionde chiome - legate a treccia,

aspettan quando - faran ritorno

e mani dolci, e dita lente

al chiar di luna - le scioglieranno.

“E’ un bel canto di speranza” disse Dama Galadriel.

Haldir fece per alzarsi dal tronco d’albero su cui era seduto, ma lei gli fece cenno di restare comodo. “E’ quello di cui abbiamo bisogno, Haldir: speranza”.

L’elfo abbassò gli occhi a terra. Non si sentiva a suo agio, e il Lothlòrien non era il posto in cui si sarebbe dovuto trovare. Lui era un guerriero e avrebbe dovuto lottare come tutti gli altri, ma Celeborn non lo aveva voluto. Non glielo aveva detto chiaramente, ma aveva espresso la volontà che qualcuno di fidato restasse accanto alla moglie e alla figlia, e meglio di Haldir non c’era nessuno.

“Haldir, cosa ti affligge? Vedo  pensieri pesare sulla tua mente rendendola cupa. Parliamone, forse poi ti sentirai  meglio”.

L’elfo era visibilmente in imbarazzo mentre accarezzava il muschio sul tronco. “Mia Signora, io sono felice di servirla, e darei la mia vita per lei e per sua figlia. Eppure in questo momento, ho l’impressione che dovrei essere nel Dargolad a combattere per distruggere Sauron”.

Dama Galadriel sapeva che Haldir aveva pienamente ragione, lui era un guerriero non da poco, e diverse volte aveva dato prova del suo valore, eppure Celeborn aveva insistito con lei fino allo sfinimento perché fosse proprio lui a restare nel Lothlòrien e a nulla erano valse le parole che  gli aveva detto pronunciandosi circa Venya e il potere racchiuso in esso, che era sufficiente per proteggere chi restava.

“Ci sono molti modi per lottare contro il male, e molti per difendere il bene. Se il destino ha voluto che proprio tu restassi qui, allora significa che ci deve qualche ragione a noi ancora poca chiara, ma che presto ci potrebbe essere svelata”.

“Lei riesce a vedere qualcosa?” domandò Haldir ben sapendo di muoversi su un terreno delicato, infatti Dama Galadriel non parlava volentieri con tutti delle sue visioni o di ciò che vedeva nello Specchio.

“Sento che qualcosa di deplorevole sta accadendo. Ma chi riguardi e dove porterà non mi è dato ancora di saperlo. Però posso dirti una cosa: chi insegue la verità, presto o tardi la trova e più spesso di quanto vorremmo ne resta deluso”.

Haldir era perplesso, non obiettava le parole della sua Signora ma non capiva bene come la sua inerzia avrebbe potuto essere proficua. Sospirò. Non c’era altro da fare che aspettare e cantare la speranza ancora una volta.

Come le onde - sulla battigia

che poi al mare - ritornano,

i nostri cari -  col cuore in petto

a braccia aperte – accoglierem…

Galadriel indietreggiò e lasciò Haldir ai suoi pensieri.

Camminando fra gli alberi poteva sentire che la foresta era in attesa come loro, come Celebrian che sognava di Elrond, di un futuro che sperava di poter realizzare, di un amore che avrebbe dovuto sfociare in una convivenza e poi in una famiglia. Restava solo da chiedersi se Elrond sarebbe tornato.

La battaglia era finita, ma quanta desolazione aveva lasciato! Gil-galad osservava ciò che era rimasto dell’esercito di Imladris; i suoi guerrieri si erano battuti con molta professionalità e ciò aveva limitato le perdite, tuttavia i morti erano numerosi.

Glorfindel, uno dei suoi migliori elementi, nonché suo grande amico e molto vicino a suo figlio Elrond, aiutava a trasportare i corpi, quando incrociò lo sguardo con quello del suo Signore. Non serviva parlare, e non ci si poteva fermare. Semplicemente spostò lo sguardo da Gil-galad a Elrond, che passava velocemente tra i feriti con in mano un sacchetto, e poi lo riposò su Gil-galad che annuì con la testa e accennò un mezzo sorriso.

Suo figlio era vivo, cos’altro avrebbe potuto chiedere di più ai Valar? Vedendolo camminare a passi svelti, lo affiancò e ne tenne il passo.

“Tutto bene? Dove vai di fretta?”.

Elrond ebbe un sussulto, “Padre…”, non si era reso conto di aver vicino il padre fino a quando questo non aveva parlato. “… sì, va tutto bene. Sto andando da Thranduil, è nella tenda di Re Oropher, e ha bisogno di queste erbe” rispose mostrandogli il sacchetto.

“Spero che non sia niente di grave. Boscoverde ha già perso molto, più del dovuto oserei dire”.

“E’ ferito. Non è niente di grave, però bisogna disinfettare la ferita e fasciargli la spalla perché non faccia infezione”.

“Certamente” concluse Gil-galad. Poi si fermò su due piedi e bloccò l’avanzare del figlio. “Elrond, avevi già visto tanto dolore e tanti morti, ma credo mai come questa volta. Non sei l’unico guaritore del campo, se vuoi fermarti…”.

“Grazie, ma non c’è bisogno che mi fermi, non vorrei che qualcuno che posso salvare muoia perché io mi sono fermato”.

“Sei proprio testardo, figlio mio”.

Elrond sorrise a quell’appellativo, lui amava Gil-galad come se fosse suo padre naturale, ma temeva sempre che un giorno il re si sarebbe reso conto che non valeva la pena amare lui. Gil-galad lo aveva rassicurato innumerevoli volte quando era un bambino, ma la sua insicurezza non scemò mai del tutto.

Gli era capitato spesso di sentire suo padre, durante le sue visite nel Lothlòrien, discutere con Celeborn e quest’ultimo invitarlo a rivedere la sua “adozione” del piccolo elfo-bastardo, poiché una somiglianza di occhi e capelli era poca cosa per giustificare il lascito di un regno come eredità.

L’unica risposta che Gil-galad dava era che suo figlio Elrond gli dava giorno dopo giorno molto più di quanto lui potesse mai lasciargli.

La divergenza di opinioni non si risanò mai, neanche quando Celebrian e Elrond decisero di essere fatti l’uno per l’altro e il re del Lothlòrien preferì non opporsi per non rischiare la dissolvenza della sua amata figlia.

Tuttavia era un boccone duro da mandar giù, riteneva che Celebrian meritasse di più e sperava di riuscire a farle cambiare idea con le buone. Gil-galad era stato paziente con Celeborn, ma una volta non poté a fare a meno di lanciare una freccia, che non fece sanguinare ma colpì nel segno, e disse al consuocero che i “suoi” nipoti sarebbero stati bellissimi, che avrebbero avuto un padre e una madre adorabili, peccato solo per qualche elfo altezzoso della famiglia che, benché si sapesse di chi era figlio, era proprio un gran bastardo.

“Non pensarci” disse il re di Imladris rivolgendosi a Elrond.

“Come fai a …” chiese Elrond.

“Sono tuo padre! Certe cose le capisco…” continuò sorridendo “Non pensarci, qualunque cosa fosse” puntualizzò, lasciando a Elrond il dubbio se veramente sapesse cosa stava pensando o no, “Inoltre… ah, ecco il tuo splendido suocero che arriva…”

“Ti stavo cercando Gil-galad. Ho saputo che Thranduil è stato ferito”.

“Sì, Elrond sta andando a portargli delle erbe. Vuoi venire con noi?” chiese Gil-galad.

Non poteva andare meglio, pensò tra sé e sé Celeborn. “Va bene, voglio sincerarmi delle sue condizioni di salute. Mio zio è morto e voglio essere sicuro che Boscoverde abbia ancora una guida”.

Elrond sollevò il sopracciglio destro al cielo, era davvero molto toccante quanto Celebrian fosse interessato a suo cugino… come si potesse essere così arrivisti non l’aveva ancora capito, ma ne aveva la dimostrazione sotto gli occhi ogni giorno.

Arrivati alla tenda, entrarono, ma di Thranduil neanche l’ombra. Gil-galad si guardò attorno, la tenda era vuota. Sul letto c’erano delle macchie di sangue, ma i vestiti di Thranduil mancavano.

“Non riesco a capire cosa possa essere accaduto. Era qui, nel letto che riposava…” disse Elrond stupito. 

“Ma dove può essere andato?” chiese Celeborn con voce tremante.

Gli altri due elfi si voltarono verso il Signore del Lothlòrien, Celeborn era realmente sconvolto. Che fosse davvero preoccupato?

“Non so, però se la ferita non era grave, magari ha deciso di andare dal suo esercito” affermò Gil-galad.

“Oppure…” propose Elrond “magari ha deciso di andare a salutare Oropher. Io lo avrei fatto”.

Celeborn non era per niente tranquillo. Pensava di trovare un cadavere e invece Thranduil non era nemmeno agonizzante, anzi sembrava essere in gran forma se era riuscito ad alzarsi e a sgattaiolare fuori. Bisognava trovarlo e lui prima degli altri, possibilmente per finire ciò che aveva iniziato.

“Allora dobbiamo cercarlo. Io mi dirigo verso le sale di guarigione” disse Gil-galad.

“Io andrò a vedere se sta salutando Oropher” si propose Celebrian.

“Va bene” disse Elrond “appena lo trovate, portatelo qui. Nel frattempo io preparerò la tisana”.

“Thranduil si può sapere che cosa stai combinando?” rimbombò una voce nella foresta.

Il ragazzino saltò sui suoi piedi, nascondendo qualcosa dietro la schiena.

“Tua madre è preoccupata. Ti sta cercando da quasi un’ora”.

Thranduil abbassò lo sguardo a terra, un po’ si vergognava di aver fatto preoccupare la madre ma c’erano cose che andavano fatte.

“Cosa è successo?”.

Nessuna risposta.

“ Hai perso la lingua?” continuò Oropher avvicinandosi al figlio.

Ancora nessuna risposta.

“Thranduil, sto perdendo la pazienza” lo avvisò il padre. “Fammi vedere cos’hai dietro la schiena”.

Thranduil indietreggiò. “Io, veramente…”.

“Thranduil…” lo riprese sbuffando Oropher “Fammi vedere cosa hai dietro la schiena!”.

Il ragazzino si arrese, non c’era molto da trattare quando il padre aveva quel tono di voce. Così mostrò al padre una scatoletta fatte di foglie intrecciate.

Oropher la guardò dubbioso poi la prese in mano. “Fai piano, per favore” gli chiese il figlio.

Il re pesò la scatoletta, era leggera e ben sigillata. “Cosa c’è dentro?”.

Thranduil stette zitto.

“Vuoi che apra?” chiese provocatoriamente.

“No, papà, per favore”rispose il principe sottovoce.

“Allora, cosa contiene?”.

“E’ solo un piccolo usignolo” disse con un sussurro Thranduil, e con mezzo singhiozzo aggiunse “è morto”.

Oropher si accostò al figlio e gli mise una mano nella spalla spingendolo verso il basso, contemporaneamente si chinò anche lui. Con le mani spostò il fogliame e scavò una piccola fossa, depose la scatoletta e poi ricopri tutto.

Le guance di Thranduil erano rigate di lacrime. Oropher gli sollevò il mento con un dito, poi gli asciugò le lacrime passandoci sopra il palmo della mano e gli disse: “Figlio mio, tutte le creature sono importanti, e anche un usignolo non è mai “solo” un usignolo. Ma che ti sia di lezione, prima di tutto contano i vivi. Una preghiera per chi non c’è più, un pensiero per chi manca lo puoi sempre avere, ma non trascurare i vivi per rendere omaggio ai morti. Mai, in nessun caso. E adesso vai da tua madre che è preoccupata”.

Thranduil sgranò gli occhi e prese a respirare in maniera convulsa. Celeborn non era nella tenda, forse pensava di averlo ucciso. Doveva parlare con Elrond, o meglio con Gil-galad, doveva raccontargli tutto. Sì, loro gli avrebbero creduto.

Si alzò dal letto e si vestì in fretta, nonostante la spalla gli facesse davvero male. Sarebbe andato da loro e gli avrebbe raccontato degli uccelli neri… di come Celeborn aveva tradito lui e il padre. Poi però si fermò di colpo.

Quali prove aveva del tradimento? Chi si era accorto di quegli uccelli? E poi nessuno era a conoscenza degli accordi presi.  Elrond aveva pensato stesse delirando quando gliene aveva accennato. E se avessero pensato che stesse uscendo di senno? Che la morte di Oropher lo aveva portato alla disperazione? Cosa avrebbero fatto?

Il suo pensiero corse a sua moglie e a suo figlio, loro gli avrebbero creduto? Loro…

Thranduil si ricordò della minaccia di Celeborn. Sua moglie Wisterian e Legolas erano in pericolo, doveva salvarli, ma doveva anche salutare il padre e seppellirlo. Non c’era tempo per tutto e i vivi erano più importanti dei morti.

Così una volta rivestitosi, prese una piccola sacca con del cibo e andò a vedere il padre, gli diede un bacio sulla fronte, avrebbe voluto restare lì ad abbracciarlo ancora per molto tempo. Se suo padre fosse stato vivo lo avrebbe già allontanato ridendo sotto i baffi e dicendogli che somigliava troppo a sua madre. Poi gli avrebbe accarezzato la nuca e gli avrebbe detto di cercare qualcosa di meglio da fare.

“Ah, padre. Davvero tu non sei stato “solo” un padre o “solo” un Re. Sei stato la mia guida, e ancora adesso seguo la tua voce. Possa Mandos aprire le porte delle sue sale e accoglierti in un mondo senza dolore”.

Gli diede ancora una bacio, gli sistemò i capelli e poi scappò via, senza voltarsi perché sapeva che altrimenti sarebbe tornato indietro, invece doveva andare avanti e salvare i vivi. Raggiunse il suo cavallo, quando si sentì chiamare.

“Principe Thranduil!”.

Era Galion, fedele amico di suo padre e comandante in seconda delle truppe. Subito abbassò lo sguardo e si corresse: “Re Thranduil, è ferito?”.

Thranduil guardò la camicia, il sangue cominciava a macchiarla all’altezza della spalla.

“Galion, non è niente di grave”.

“Mio Re, dove sta andando così…”.

Thranduil salì sul cavallo con un ghigno di dolore sul viso: “Devo correre a Boscoverde, mia moglie e mio figlio sono in pericolo”.

“Come? Cosa sta dicendo?” fece l’altro stupito.

“Mio cugino, Celeborn, ci ha traditi. Ha tentato di uccidermi e mi ha detto che vuole eliminare mia moglie e mio figlio. Temo che possa aver dato questo compito a un altro. Non credo che lui sia tanto imprudente da compiere questi crimini in prima persona…”.

Galion era spaventato, il suo re non sembrava essere pienamente in sé. “Forse dovrebbe riposare un po’…”.

Thranduil si rese conto che Galion non lo stava prendendo sul serio, ma doveva andare. Perciò semplicemente lo avvisò: “Galion, stai attento. Guardati le spalle, e non fidarti di Celeborn. Ti affido l’esercito, riporta i nostri guerrieri a casa”.

Poi il nuovo re di Boscoverde il Grande partì, con la speranza di salvare tutto ciò che restava della sua famiglia.  Galion lo vide andar via e automaticamente rispose: “Sarà fatto”.

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Capitolo 3
*** Ciò che non ti aspetti ***


Capitolo 3

Il cavallo correva veloce nella piana, il campo di battaglia si allontanava minuto dopo minuto, ma i ricordi dei momenti vissuti là non sarebbero andati via facilmente e anche lui che procedeva al massimo delle sue quattro gambe fuggiva volentieri da quel luogo.

 

Il suo padrone lo aveva sempre curato, protetto e amato. Tante volte aveva sentito mani esperte massaggiargli la base della criniera, spazzolargli il crine e avvicinargli al muso gustosi frutti. C’era anche una voce che gli parlava e talvolta cantava per lui.

 

Con quelle mani e quella voce aveva raggiunto una sintonia perfetta, Thranduil lo aveva chiamato Lùth, che in lingua comune significa “incantesimo”, perché se era vero che tra un elfo e il proprio cavallo poteva esserci un’affinità eccellente, era anche vero che Lùth sembrava avere un’empatia nei confronti del suo padrone al di sopra del normale, tale che solo un incantesimo avrebbe potuto giustificarlo.

 

Naturalmente nessun incantesimo aleggiava attorno all’animale, ma questo non diminuiva il legame tra lui e Thranduil.

 

Appena gli montò in groppa, il Re lo incitò a correre come il vento, ma Lùth sentiva anche il dolore e la spossatezza del suo padrone. A poco a poco le mani tirarono con minor forza le redini, il corpo si fece pesante e ondeggiò in modo insolito. Lùth rallentò l’andatura. Thranduil prese fiato e lo spronò: “Lùth, non mi abbandonare proprio ora. Devi correre, fallo per me”.

 

Il cavallo sentì il respiro affannoso del suo padrone, doveva essere ferito. Forse sarebbe stato meglio fermarsi e rifiutarsi di proseguire. “Lùth, prosegui … te ne prego” continuò il re barcollando con il corpo in avanti, fino a quando i suoi capelli non toccarono la criniera del suo destriero e la sua faccia si posò sul collo dell’animale.

 

Lùth si fermò mentre Thranduil infilò le sue dita nella criniera e strinse forte per aver un appiglio e non cadere a terra di peso. Il suo cavallo si era fermato perché aveva percepito il suo malessere e non sarebbe andato oltre. Cavallo testardo!

 

Un cavallo testardo per un elfo testardo! I Valar hanno visto bene quando te l’hanno affibbiato!” gli diceva sempre Oropher.

 

Ah! Come poteva essere imprevedibile la vita. L’inaspettato entrava nel percorso di ciascuno quando meno lo si aspettava. Talvolta era qualcosa di bello e per il quale si era disposti a mille sacrifici, altre volte era qualcosa di doloroso e angosciante. E in ogni caso non si era mai pronti ad affrontarlo.

 

L’inaspettato! Come avrebbero fatto Wisterian e Legolas se Celeborn, o qualcuno in sua vece, fosse giunto prima di lui? Era impensabile. Doveva comunicare con loro, anche se non era affatto semplice e richiedeva una certa quantità di energia.

 

Ma bisognava agire; così si aggrappò ancora più forte alla criniera e scese lentamente dal cavallo.

 “Ahhh…” si lamentò Thranduil della spalla.

 

Una volta a terra poggiò la schiena contro la gamba robusta di Lùth e raccolse tutte le energie che aveva. Dentro sé poteva sentire la sua mente cercare la strada verso Legolas, il suo adorato figlio con il quale fin da subito si era accorto di poter entrare in contatto anche a lunghe distanze.

 

 Certamente non potevano avere un dialogo mentale a distanza, però riuscivano a trasmettersi emozioni e immagini.

 

Più l'emozione provata era forte, più facilmente si sarebbe formata l'immagine nella mente dell'altro.

 

Legolas e Wisterian erano nel giardino privato quando il ragazzo percepì il tentativo del padre di entrare in contatto con lui.

 

Mamma” chiamò Legolas eccitato “Papà sta cercando di dirmi qualcosa”.

 

Subito Wisterian lasciò da parte le fresie che stava raccogliendo e avvicinatasi al figlio gli tenne le mani. “Concentrati, Legolas. Cerca di capire cosa vuole dirti”.

 

Legolas chiuse gli occhi e strinse le mani della madre, fu invaso da un forte senso di dolore e vide il volto del nonno, poi la paura si impossessò di lui e gli apparve chiaro il viso di Celeborn.

 

Legolas tremò e sgranò gli occhi in cerca di conforto. Wisterian lo ascoltò e anche lei fu presa da sgomento. Suo suocero era chiaramente morto, del marito in fin dei conti non sapeva niente perché come sempre Thranduil si era concentrato su loro, su di lei e sul loro figlio, gli aveva messi in guardia dai pericoli, da Celeborn, ma della sua condizione di salute neanche una parola.

 

Celeborn era un uomo pericoloso, lei lo aveva capito da subito, da quando le aveva chiesto come era riuscita ad accaparrarsi il regno elfico più grande. E poi quando era nato Legolas, lui e Galadriel erano andati a Boscoverde a conoscere il piccolo e mentre la signora del Lothlòrien aveva manifestato tutto l'amore che poteva nei confronti del bambino, lui molto freddamente aveva chiesto se avrebbero usato l'appellativo di “principe” per rivolgersi all'erede.

 

Potere e smania di grandezza erano un accostamento insano e lei più volte lo aveva detto a Thranduil che concordava, e assieme a Oropher avevano cercato di mettere una certa distanza tra i due regni elfici, ma il male trova sempre il momento di essere spalleggiato dal destino, e quando lo fa accadono cose terribili.

 

Wisterian si tenne stretto al petto Legolas e nel mentre pensava a un modo per proteggere suo figlio in caso lei avesse fallito.

 

Thranduil, da canto suo, giaceva a terra svenuto accanto a Lùth, svuotato di ogni forza che il contatto aveva risucchiato. La notte stava arrivando e la piana del Dagorlad cominciava a trasformarsi in un'immensa distesa di buio.

 

L'acqua era calda e il profumo delle erbe in infusione cominciava a diffondersi nella tenda, Elrond con un cucchiaino di legno spingeva dentro l'acqua le foglie appena gettate nella teiera.

Queste erbe erano davvero forti, bastava berne un po' per addormentarsi, e respirarle per rilassarsi.

 

Elrond chiuse gli occhi e inspirò e per un momento pensò che forse suo padre aveva ragione e un po' di riposo non sarebbe guastato, ma in quel momento entrò sbraitando Celeborn: “Thranduil se n'è andato!”.

 

Elrond divenne subito vigile. “Non può essere. Ma perchè?”.

 

Celeborn non rispose, i guardò attorno ma Gil-galad non c'era, e lui non aveva alcuno intenzione di parlare con quel bastardello, doveva fingere davanti alla figlia e … pazienza, ma quando erano da soli non ce n'era il motivo.

 

Elrond era abbastanza abituato a quel trattamento, ma lui era stanco il comportamento di Thranduil era troppo insolito, sbagliato.

 

Non riesco a capire cosa possa essergli successo. Forse la morte di Oropher lo ha sconvolto ancor più di quanto sembrasse”.

 

O forse per niente. Forse era proprio quello che voleva...” decise di risponder Celeborn pensando fosse il momento giusto per insinuare il seme del dubbio, anche se di certo non si aspettava la risposta che il genero gli diede.

 

O forse la guerra ha fatto uscire te di senno!”.

 

“Ma come puoi anche solo pensare ciò che hai detto. Pensi forse che tutti desiderino avere più potere come te? Thranduil amava suo padre!”.

 

Ma davvero?” domandò sarcastico Celeborn “Allora perché armeggiava accanto alla spada di Oropher poco prima della battaglia? Non mi sai rispondere? Come mai un guerriero esperto come Oropher è caduto dopo i primi colpi come uno alle prime armi?”.

 

Elrond prese subito fuoco.

 

Io non so perché …”stava rispondendo Elrond esasperato...

 

Te lo dico io perché, perché si è fidato di chi pensava non lo avrebbe mai tradito, del sangue del suo sangue. E se mio cugino ha fatto questo al padre, chissà cosa saresti disposto a fare tu a Gil-galad per acquisire il potere su Imladris”.

 

La tenda si aprì ed entrò Gil-galad che chiaramente aveva sentito il breve scambio di battute. Fissò dritto negli occhi Celeborn, nessuna emozione traspariva dal suo sguardo.

 

Thranduil non è nelle sale di guarigione a visitare i suoi guerrieri. Ma se quello che dici tu, riguardo a lui” specificò “è vero, allora bisogna trovarlo subito”.

 

Elrond avrebbe voluto interromperlo, ma lui gli fece cenno con la mano di tacere.

 

Celeborn con un ghigno di soddisfazione sul viso guardava compiaciuto i due. Forse il suo scopo non era andato a buon fine, ma aveva comunque ottenuto qualcosa: Gil-galad sembrava dargli ragione, e Elrond era stato zittito.

 

Allora partiamo subito. Galion mi ha riferito di aver visto partire a cavallo Thranduil non più di un'ora fa” disse Celeborn.

 

No” si oppose il signore di Imladris “Prima dobbiamo dare a Oropher una degna sepoltura. E poi è meglio viaggiare di giorno. Partiremo domani mattina, presto”.

 

Celeborn acconsentì, infatti aveva ancora qualche cosa da sistemare. Lasciò la tenda e andò di filato da Oropher. Lì ci trovò Galion che vegliava sul corpo senza vita di quello che per tanto tempo era stato un suo amico.

 

Non mi dire che ti sei pentito...”.

 

Galion non fu preso di sorpresa e rimase a fissare impassibile il suo Re. “No, non sono per niente pentito. Mi stupisco solo di quanto possa essere stato facile”.

 

La spada?” domandò Celeborn.

 

Tutto a posto”.

 

Bene, hai una nuova missione da compiere”.

 

E' quale sarebbe?”.

 

Devi tornare a Boscoverde e sbarazzarti di Wisterian e Legolas” disse con noncuranza Celeborn.

Galion stette zitto, Oropher era un ostacolo ma la regina e il ragazzino erano praticamene indifesi.

 

E' necessario farlo, Galion. Prima di Thranduil. Se vuoi la tua parte, è necessario”.

 

Un terzo di Boscoverde, pensò Galion, e non rimase molto a riflettere poiché già tante volte lo aveva fatto. “Quando devo partire?”.

 

In questo momento, prendi il cavallo e parti. Io e Gil-galad partiremo domattina alla ricerca di Thranduil. Mi farò accompagnare da due elfi fidati del mio regno, in caso ci siano sorprese”.

 

Galion sghignazzò. Celeborn aveva una mente diabolica, ma ormai non si poteva tornare indietro. Così si voltò e andò via. Celeborn rimase ancora un po' a fissare Oropher, e il suo sguardo si posò sull'anello che aveva al dito. Non era un anello del potere, uno di quelli forgiati da Celembribor e Sauron, eppure sicuramente qualche potere doveva averlo, anche se fosse solo quello di aprire il portone della fortezza. Così con un po' di forza glielo sfilò dal dito e lo mise in tasca.

 

Nel frattempo un altro anello, molto più importante se si vuole, passava da una mano a un 'altra: Vylia.

 

Gil-galad aveva deciso di andare alla ricerca di Thranduil con Celeborn perchè in realtà non si fidava di questo. Elrond non era contento, anzi.

 

Padre, sarete da soli. Il pericolo è troppo elevato. Fammi venire con te”.

 

No, Elrond. Tu devi riportare la nostra gente a Imladris. I nostri guerrieri hanno combattuto, sono stanchi e hanno desiderio di rivedere i loro cari. Curate i feriti per quel che potete e poi partite”.

Può farlo Glorfindel!”.

 

Gil-galad prese le spalle di Elrond tra le mani e pesando ogni singola parola disse: “No, Elrond. Tu, e solo tu sei mio figlio. Tu sei l'erede di Imladris. Glorfindel è un buon guerriero e a lui affiderei tutti gli eserciti del mondo, ma tu sei un elfo determinato e giusto, conosci la forza delle armi e sai quando non usarla, conosci la compassione delle arti mediche e sai quando e come applicarle, hai il potere di vedere il futuro e la saggezza di non manipolarlo a tuo piacimento. A te affido il nostro popolo” e sfilandosi l'anello dal dito aggiunse: “A te, affido Vylia”.

 

Elrond si ritrasse e coprendosi il volto con le mani iniziò a scuotere la testa a destra e sinistra. “No, non posso. Non voglio”.

 

Tu saprai come usarlo. Se quello che pensiamo è vero, se in questa storia c'è lo zampino di Celeborn allora è meglio che lo tenga tu perchè...”

 

Perchè? Papà. Perchè c'è il rischio che tu possa non tornare?” domandò Elrond che conosceva bene la risposta.

 

Elrond, se mi succedesse qualcosa vorresti forse che Celeborn avesse la possibilità di impossessarsi di Vylia?”.

 

Elrond continuava a scuotere la testa, non voleva crederci, non voleva affrontare la possibilità che accadesse qualcosa a suo padre. Avevano vinto la guerra, per cosa? Per ritrovarsi subito dopo a rischiare la vita? Non avevano diritto anche loro, anche lui, di tornare a casa e stare vicino ai propri cari? E chi erano questi cari? Lui aveva solo il padre. Certo, c'era anche Celebrian, ma non era pronto a rischiare la vita di Gil-galad, dell'unico padre che aveva avuto, dell'unico che avrebbe desiderato avere.

 

Elrond, Vylia ti servirà per proteggere Imladris. Qualunque cosa accada, costruisci lì il tuo futuro con Celebrian. A prescindere da che elfo ignobile sia Celeborn, da qualunque cosa abbia fatto o farà, avete la mia benedizione e che i Valar vi proteggano sempre”.

 

Le lacrime scesero lente sul viso di Elrond.

 

Tienilo con te, ma non indossarlo ancora. Mettilo al dito solo nel caso in cui io non dovessi...”

 

Ho capito. Basta” continuò Elrond, a viso basso, prendendo l'anello e infilandolo in tasca.

 

Gil-galad lo guardò con tristezza e rassegnazione. Stava dando al figlio un grosso fardello, un grande aiuto certo, ma avrebbe richiesto molta forza spirituale saperlo gestire. “Adesso diamo a Oropher una degna sepoltura”.

 

Così i due, affiancati da Celeborn, vestirono il Re di Boscoverde il Grande, gli fecero impugnare la spada e gliela posarono sul petto. Poi lo avvolsero in un telo e fatta una fossa lo seppellirono.

 

La notte era scesa, il buio pesto era rotto solo da qualche fulmine che si abbatté sulla piana assieme a una forte pioggia. Gli elfi dei tre Regni cantavano tristi melodie di cordoglio, ma a causa del buio nessuno poté leggere la frase incisa sulla lapide che diceva “Qui giace Oropher, primo Re di Boscoverde il Grande, che fu grande e giusto e con onore verrà ricordato”.

 

Ormai pioveva a dirotto. Così tanto acqua non si era mai vista da molto tempo e certamente dentro una grotta, una cava, una miniera o qualsivoglia buco sotto terra, acqua non ne arrivava di sicuro.

I cinque nani camminavano svelti nella speranza di trovare un riparo, ma sapevano benissimo, da ciò che avevano potuto vedere dalle carte geografiche, che la piana era davvero vasta e Boscoverde il Grande era lontano.

C’era la possibilità di tornare indietro, ma comunque ci avrebbero impiegato due giorni buoni per raggiungere il fiume Anduin, e magari la pioggia sarebbe durata solo un paio d’ore.

No, bisognava andare avanti, ma l’entusiasmo non era alle stelle.

“Non si vede niente!”.

“Ma siamo sicuri di star andando nella direzione giusta?”

“Rhiaian, quante volte sei stato nel Regno di Oropher?”.

“Abbastanza da sapere che questa è la strada giusta!” fece il nano seccato. “Camminate e zitti”.

I nani camminarono e andarono avanti come aveva detto Rhiaian, senza protestare anche se sapevano benissimo che, come loro, neanche Rhiaian era mai uscito dalle miniere di Moria.

Proseguirono fino a quando Bolin non sbattè contro qualcosa che per dispetto scalciò e nitrì ad alta voce.

I nani gridarono presi alla sprovvista.

 “Cosa c’è?”.

“Chi è?”.

“Mostrati e dici il tuo nome” ordinò Rhiaian, ma era buio e nessuno poteva mostrarsi.

Fortunatamente una serie di fulmini illuminò per qualche istante l’aria, giusto il tempo perché i nani potessero vedere un cavallo ai cui piedi giaceva privo di sensi un elfo.

 

 

Angolo autrice: ciao a tutti.

Ecco a voi un nuovo capitolo. La storia prosegue, e diciamo che con questo capitolo finisce l’introduzione che nel mio riassunto/schema contava 5 righe. Non credevo di aver tutte queste cose da dire e invece eccomi qui. Ciò che fino a qui è stato raccontato si è svolto tutto in una giornata: dalla mattina in cui Oropher è stato ucciso alla sera in cui è stato sepolto.

Spero che la storia non risulti troppo lenta o leziosa, se così fosse sarò felice di leggere le vostre opinioni e, fin tanto che riesco, provare a venirvi incontro.

Geograficamente i personaggi sono situati ancora tutti nel Dagorlad o Pian della Battaglia: Thranduil e i Nani sono abbastanza vicini ai monti Emyn Muil, Galion si dirige verso Boscoverde e lo fiancheggerà dal lato orientale. Se volete avere un’idea chiara dovreste consultare la Mappa presente nei “Racconti incompiuti” di Tolkien. Se cercate la cartina su Internet assicuratevi che faccia riferimento alla fine della terza era perché io ho usato quella.

Ringrazio tutti quelli che leggono, che seguono e che recensiscono. A presto, Alida

 

 

 

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Capitolo 4
*** Un nano diverso ***


 

Benissimo! Sono riuscita giusto poco fa a finire il capitolo e son felice di dire che è venuto abbastanza bene. Spero di aggiornare ancora un capitolo Domenica sera o al massimo lunedì mattina.

Ringrazio tutti coloro che seguono la mia ff, che l’hanno inserita tra le seguite e preferite, ma soprattutto (grandissimo sorriso) chi recensisce, sia perché fa sempre piacere, sia perché un riscontro, e anche una critica costruttiva, è sempre utile per capire dove è possibile far meglio.

Vi abbraccio e vi auguro buona lettura.

 

 

 

 

 

Fortunatamente una serie di fulmini illuminò per qualche istante l’aria, giusto il tempo perché i nani potessero vedere un cavallo ai cui piedi giaceva privo di sensi un elfo.

CAPITOLO 4

I nani, Rhiaian, Bolin, Farìm, Pimi e Bimi,  erano sbigottiti. Non capitava tutti i giorni di imbattersi in un elfo svenuto accanto al suo cavallo durante una tempesta. E grazie al cielo!

“Cosa facciamo adesso?” chiese Bolin.

“E cosa vorresti fare?” domandò Farìm.

“La strada è lunga e non possiamo fermarci” aggiunsero in coro i gemelli Pimi e Bimi.

Bolin però non era di quell’avviso. Anche se quest’elfo era un elfo e non un nano non potevano lasciarlo lì e proseguire come se nulla fosse. Era un essere vivente del resto! Non avrebbe lasciato un cavallo lì, tanto meno un elfo.

Farìm conosceva Bolin da tempo e sapeva che non sarebbe stato facile convincerlo a proseguire, ma tentò. “I Colli Ferrosi sono lontani, andiamo avanti, dai! Sicuramente non sarà da solo, gli elfi viaggiano sempre in gruppo di questi tempi”.

“A me non sembra che ci sia tanta gente che viaggi con lui” rispose Bolin guardandosi attorno. Ma ben poco si poteva vedere con la pioggia che veniva giù a catinelle.

Bolin si chinò verso l’elfo e stringendogli la spalla lo scosse energicamente nel tentativo di svegliarlo. Thranduil si lamentò del trattamento subito e Lùth scalcio dimostrando il suo disappunto.

“Maledetto cavallo” si lagnò Rhiaian colpito in viso dal fango “Quest’elfo non è un nostro problema, Bolin. E in realtà neanche tu lo sei, se vuoi continuare con noi, bene. In caso contrario le nostre strade si dividono qui”.

E già, perché se era vero che i cinque nani viaggiavano tutti assieme, era altrettanto vero che mentre Farìm, Pimi e Bimi erano diretti ai Colli Ferrosi e Rhiaian a Pontelagolungo, o così diceva, Bolin non era diretto da nessuna parte se non qualche luogo che fosse lontano da Moria.

E così si era unito agli altri per non fare la strada, verso chissà dove, da solo, ma con l’intenzione, e questa era scelta unanime, di attraversare Boscoverde, chiedendo naturalmente il permesso agli Elfi del luogo.

Bolin era ancora inginocchiato vicino all’elfo. Il suo cappotto era bagnato, i suoi pantaloni erano bagnati e anche la sua lunga barba era bagnata. Si alzò in piedi e guardò verso i suoi compagni di viaggio, ma ancora non sapeva cosa fare.

Si massaggiò il mento perché questo gesto lo aiutava a riflettere e un forte odore di ferro colpì le sue narici. La barba sembrava essere diventata un po’ appiccicosa, annusò le dita e chiarò giunse l’odore del sangue. Aveva la mano piena di sangue. Si chinò nuovamente e toccando la spalla dell’elfo sentì un liquido caldo.

“E’ ferito. L’elfo è ferito” disse con evidente preoccupazione.

“Peggio ancora” replicò Rhiaian “Io vado via. Se vuoi stare con lui, allora buona fortuna”.

Farìm, Pimi e Bimi lo appoggiarono subito, non voleva guai e la pioggia non aiutava la situazione.

Bolin si mise le mani in testa, non sapeva come avrebbe fatto ad aiutare l’elfo, ma in qualche modo si sarebbe arrangiato.

“Andate, io troverò la mia strada”.

Farìm si strinse forte al petto Bolin, facendolo sentire una sardina sotto vetro , e gli augurò tutto il bene del mondo. Bolin sentì i passi dei nani che si allontanavano, poco dopo un altro fulmine illuminò l’aria e gli parve di riconoscere, in una macchia che si muoveva nell’orizzonte, il gruppo dei suoi amici, ma probabilmente era solo un’illusione.

Molto più reale era l’elfo che dormiva per terra, e il cavallo che lui non sarebbe mai riuscito a cavalcare tanto era alto. Bolin cercò di sollevare l’elfo ma era troppo pesante, e inoltre era molto alto rispetto a lui. Provò a prendere le misure del cavallo per trovare un modo di raggiungere la sella, ma più ci ragionava sopra, più si convinceva che non ci sarebbe mai riuscito.

E poi dove avrebbe portato l’elfo?

Gli venne in mente solo un luogo che non distava troppo dalla piana: “Sì, ti condurrò là, nei Monti dell’Emyn Muil”.

Probabilmente Lùth lo trovò un ottimo piano perché al sentire quelle parole, di qualcuno disposto ad aiutare il suo padrone, subito si inginocchiò permettendo a Bolin di sistemare, seppur con qualche acrobazia, il suo padrone in sella e poi di salire egli stesso.

All’improbabile trio composto di un elfo svenuto, un cavallo accondiscendente e un nano bagnato senza meta, ci vollero circa quattro ore per raggiungere un riparo nell’Emyn Muil, e come si sistemarono la pioggia smise di cadere.

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La mattina non tardò ad arrivare, Celeborn preparò in fretta il suo bagaglio, in fin dei conti gli bastava poca roba. Gil-galad ugualmente era solito viaggiare leggero e poi sperava di riuscire a trovare Thranduil il prima possibile. La sua unica preoccupazione era Elrond che, sebbene avesse deciso di rispettare la scelta del padre di partire da solo, avrebbe voluto andare con lui.

“Tieniti stretto l’anello, Elrond”.

“E tu stai attento, e indossa sempre i guanti di pelle così…”

“Sì, Elrond” proseguì Gil-galad “così Celeborn non si accorgerà che io non lo indosso”.

Elrond restò a pensare un paio di minuti mentre il padre preparava la sua sacca. “Sai a cosa sto pensando?” domandò fissando la terra.

Gil-galad rispose schietto: “Non ne ho la più pallida idea”.

“A proposito di anelli… Dov’è finito l’anello di Oropher? Quando lo abbiamo sepolto non aveva nessun anello al dito”.

Gil-galad chiuse con uno strattone la sacca e facendo mente locale convenne con il figlio che in effetti nessun anello adornava le dita del defunto Re di Boscoverde. Non ci aveva fatto caso perché Oropher non custodiva nessun anello del potere, ma adesso sentendoselo dire sapeva che Elrond aveva ragione.

“Forse lo ha preso Thranduil” ipotizzò l’elfo.

Elrond si accigliò: “E perché mai? Non si tolgono i gioielli ai defunti, soprattutto se indicano il loro status”.

“Allora forse lo ha perso in battaglia” propose Gil-galad.

“Sì, certo. Non ci credi neanche tu che lo stai dicendo” gli rispose pensieroso il figlio.

Gil-galad si mise il sacco in spalla e salutò Elrond. “Figlio mio, non pensarci adesso. Troppe preoccupazioni fanno star male e tu hai bisogno di riposo e soprattutto di tornare a casa”.

“Papà, stai attento. Promettimi che non abbasserai mai la guardia”.

“Te lo prometto, Elrond”.

I due si abbracciarono, poi Gil-galad distanziò il figlio e guardandolo gli sorrise e gli disse: “Sai, alle volte ti guardo e mi dico, se i Valar mi avessero concesso un figlio naturale avrei voluto che fosse come te”.

Elrond sentì i suoi occhi inumidirsi, ma trattenne le lacrime.

“Ma poi pensò perché accontentarsi di qualcuno che ti somigli, se posso avere te? Tu, credimi figlio mio, non sei mai stato un ripiego per la vita che non ho avuto. Tu sei proprio la vita che avrei voluto avere”.

Le lacrime scesero libere sul viso di Elrond, Gil-galad lo abbracciò a sé più forte che poté.

“Papà …”

“Basta” disse  dolcemente Gil-galad “non aggiungere altro. Con questa parola hai già detto tutto ciò che desideravo sentire. Adesso resta qui, io vado e non voglio che tu mi veda partire. Ci rivedremo presto”.

Elrond rimase immobile, e seguendo il volere del padre non andò a salutarlo. Seppe poi, da Glorfindel, che due guardie del Lothlòrien avevano accompagnato Celeborn e suo padre nella ricerca di Thranduil. E subito si pentì di non aver preteso di partire anche lui.

 

Era già mattina inoltrata quando Bolin si svegliò. Il tempo era sereno, c’era ancora qualche nuvola ma più che altro il cielo era limpido, e il sole era piacevole sul viso. Non bisognava ingannarsi però, bastava un’ora perché il cielo diventasse buio e cominciasse nuovamente a piovere.

E i nani, si sa, sono bassi e la pioggia si abbatte con più ferocia su di loro, o almeno questo è ciò che sapeva Bolin.

“Già, è proprio così. Pioggia di sera, il nano si dispera. Pioggia di mattina, il nano sta in cucina” ripeteva a voce alta, parlando a se stesso, mentre con qualche rametto cercava di accendere un fuoco.

Lùth nitrì. “Bè, cosa c’è? Non ti piace il mio proverbio? Non credo che tu lo passa apprezzare pienamente. Prima dovresti conoscere per bene la vita di un nano, e dovresti sapere che vivendo noi spesso dentro le miniere, ben poco ci interessa se piove o meno. E perciò se piove di mattina possiamo starcene tranquillamente nella nostra casa a mangiare. Però se piove la notte, chi può dire cosa accadrà? Potrebbero esserci infiltrazioni nelle rocce e la grotta crollarci addosso! “ spiegò Bolin come se stesse parlando con qualcuno che non fosse un cavallo.

“Mentre a voi cosa interessa? Ve ne state nelle stalle coccolati e vezzeggiati dai vostri proprietari, mentre il mondo… Oh per la miseria!” si bloccò Bolin “Parlo con un cavallo! Peggio che parlare da solo!”.

Poi guardò nuovamente Lùth, che però non gli dedicava nessuna attenzione.

“Chissà! Magari mi capisci”.

“Certo che ti capisce” rispose una voce debole ma chiara.

Bolin fece un giro su se stesso per capire da dove arrivasse la voce. C’erano forse degli spettri in queste montagne?

“Però” disse a Lùth “Mi era sembrato di sentire qualcuno”.

“Certo che hai sentito qualcuno, hai sentito me!” replicò una voce stizzita.

Bolin si fermò su se stesso, la voce era vera, ma da chi poteva arrivare!

“L’elfo!” esclamò a voce alta spostando la sua attenzione sul Thranduil. “Scusa, mi ero dimenticato di te” si giustificò.

Thranduil cercò di sedersi ma il braccio non si muoveva. Si guardò la spalla e vide che era stata fasciata alla bene meglio.

“Ho cercato di sistemarti, però non sono un guaritore”.

Thranduil lo guardò con sospetto. Il nano continuò. “Però ho fatto del mio meglio. Ho ripulito con un po’ di acqua, e poi ho fasciato la spalla. Chissà magari troveremo delle erbe…”.

“E se le trovassimo, tu sapresti cosa fare?” chiese l’altro.

“No, ma magari lo sai tu che sei un elfo. Voglio dire, ho sentito che alcuni di voi hanno grandi conoscenze in materia di cure, medicine, erbe…”

“E’ vero” disse il Re di Boscoverde “Ma io non sono uno di quelli. Un mio amico lo è”.

Bolin prirese in mano i legnetti e accese un fuocherello, nel mentre continuò a parlare per non fare addormentare nuovamente l’elfo.

“Davvero? E come si chiama?”.

“Come si chiama chi?” domandò Thranduil, i cui occhi cominciavano a socchiudersi.

“Il tuo amico” rispose Bolin quando, voltandosi, notò lo stato dell’elfo “Ehi, ehi… non addormentarti. Devi stare sveglio. Adesso ti preparo la colazione così potrai mangiare e riprendere un po’ di forze per … bè, per andare dove stavi andando…”.

“Allora, dimmi, come si chiama il tuo amico che  conosce le arti mediche?”.

Thranduil si sforzò di tenere gli occhi aperti, il nano aveva ragione doveva riprendersi e raggiungere in fretta Boscoverde.

“Si chiama Elrond. E’ un ottimo guaritore, un grande amico e per me è sempre stato come un fratello. Però non gliel’ho mai detto”.

“E come mai?”.

“Perché … ma cosa stai cucinando?” cambiò discorso Thranduil.

“Pancetta di maiale”.

“Ha un buon profumo”.

“Sì, hai ragione. Ho imparato a cucinarlo da… bè ma che importanza ha” disse con un velo di tristezza negli occhi “O ha importanza?”.

Thranduil rispose come Oropher gli rispondeva sempre: “Ogni cosa ha importanza, alcune di meno, altre di più, ma tutte ne hanno in qualche misura”.

“Già” riflettè il nano “bè, è stato Nàlim, mio pad… sì, il nano che mi ha cresciuto, è stato lui  a insegnarmelo. Tuo padre non ti ha insegnato a cucinare?”.

Thranduil rise leggermente. “No, però mi ha insegnato a bere vino”.

“Questa è bella!” rise Bolin di ricambio togliendo il cibo dal fuoco, poi accompagnandolo con un pezzo di pane lo porse a Thranduil.

 “Prego, mangia pure”.

Thranduil allungò il braccio sano e prese il cibo. Guardò il nano, era … un nano. Lui non aveva nessun problema con i nani, anche se suo padre ne aveva avuto, però questo sembrava diverso dagli altri. Non esteticamente, per quello no, però tutti i nani che aveva conosciuto erano stati duri nei suoi confronti, ostili. Invece questo nano era aperto e socievole.

Bolin preparò la sua porzione di pancetta e addentò il pane, era buono come sempre, non c’era niente di meglio per iniziare la giornata.

“Come mai sono qui?” chiese il Re di Boscoverde “Come ho fatto ad arrivare fin qui?”.

“Ti ci ho portato io qua. Ti abbiamo trovato nella piana, svenuto vicino al tuo cavallo, nel bel mezzo della tempesta di ieri notte”.

Thranduil acuì l’udito, non poteva sentire nient’altro se non i suoni della natura. “E dove sono tutti gli altri? Gli altri con cui mi hai trovato”.

“Ah” fece Bolin “Non se la sono sentiti di impegnarsi con te” continuò cercando di trattenere le risate “insomma, sei un elfo, e voglio dire … eri anche ferito, magari morivi e poi cosa avrebbero dovuto fare?”.

“Tu ti sei comportato diversamente da loro. Non mi hai lasciato laggiù”.

“Io non conto” rispose Bolin con un pizzico di amarezza “Non conto poi molto”.

Thranduil masticava l’ultimo pezzetto di pancetta, si sentiva stanco, accaldato e infreddolito allo stesso tempo, alcune gocce di sudore gli si formarono sulla fronte.

Inspirò un po’ di aria fresca; nani, elfi, uomini e forse ogni creatura su Arda doveva affrontare la vita, che spesso sembrava remare contro.

“E … senti. Come ti chiami. Insomma mi hai salvato la vita, vorrei poter ringraziarti come i Valar comandano”.

Il nano era in ginocchio accanto al fuoco sistemando bene i nuovi ramoscelli appena aggiunti. Senza neanche guardare in faccia l’elfo si presentò: “Mi chiamo Bolin”.

“Solo Bolin?”.

Il nano strofinò le grosse mani sui pantaloni. “Esatto, e tu come ti chiami?”.

“Io sono Thranduil Oropherion di Boscoverde”.

Bolin si alzò in piedi e guardò l’elfo stupito. “Thranduil di Boscoverde! Ma allora sei un elfo silvano! Accidenti è proprio a Boscoverde che sto andando. Secondo te il tuo Re… come si chiama… aspetta, aspetta, Oropher. Ecco, secondo te Re Oropher mi farebbe entrare nel suo regno per starci un po’?”

Thranduil si rese subito conto che Bolin non era a conoscenza del fatto che lui fosse il figlio di Oropher, e neanche del fatto che Oropher fosse morto.

Con poca voce e tanta stanchezza sul viso, guardando verso un punto indefinito nell’orizzonte, Thranduil rispose: “Sì, ti farebbe entrare”.

“Allora gli piacciono i Nani!”.

“Per niente”.

Bolin scosse la testa, non riusciva a capire. “Ma…”.

“Non gli piacciono i Nani, ma a te farebbe entrare, ti ringrazierebbe e probabilmente ti darebbe tutto ciò che vorresti, se potesse farlo. Ma non può farlo”.

“Non capisco” continuò Bolin.

Thranduil prese fiato e lentamente, pensando al padre che non c’era più, spiegò: “Non può farlo perché è stato ucciso giusto ieri in battaglia, e ti darebbe tutto quello che vuoi perché hai salvato la vita a suo figlio”.

Bolin fu congelato da ciò che aveva sentito, quest’elfo era il figlio di Oropher, perciò il nuovo Re di Boscoverde e lui gli aveva preparato della pancetta, ad averlo saputo prima avrebbe aggiunto anche qualche patata.

E adesso, pensò Bolin, come dovrò chiamarlo? Re, Thranduil, Oropherion?

Girò il viso verso Thranduil, ma lui si era già addormentato. Bolin vide il sudore sul viso del Re, gli toccò la fronte e si accorse che era molto calda.

 

Subito dopo la partenza di Gil-galad, Elrond aveva visitato i feriti, per lo più erano elfi con ferite curabili in breve tempo, solo una decina erano veramente gravi. Tutti chiedevano di partire al più presto, anche quelli che versavano in condizioni peggiori.

Non era solo il ricordo della battaglia, dei morti e dei funerali, era anche l’aria che si respirava che rendeva difficile la loro guarigione. Gli orchi erano stati bruciati e ci sarebbero voluti giorni, forse settimane perché il fetore si dileguasse.

Sicuramente respirare quest’aria non era salutare, perciò Elrond aveva chiesto che venissero costruite dieci portantine su cui sistemare i malati più gravi. Questi poi sarebbero stati sistemati sui carri adibiti a trasportare il cibo, che però erano stati già alleggeriti durante le settimane precedenti.

Glorfindel si stava occupando che tutto fosse pronto per il primo pomeriggio, sapeva che Elrond voleva partire quel giorno stesso. Aveva calcolato che sarebbero arrivati a Imladris in circa 20 giorni di duro cammino, più realisticamente un mese, perché certo con i malati non si sarebbe potuto correre.

E poi avrebbe dovuto aspettare Gil-galad per sistemare gli affari del Regno e infine, solo dopo tutto questo, sarebbe potuto andare nel Lothlòrien per vedere la sua Celebrian.

Mentre attraversa il campo di battaglia, si chiese cosa avrebbero fatto i guerrieri di Boscoverde, il loro Re era morto, il nuovo era scomparso, Galion non si trovava. Chi si sarebbe preso cura di loro?

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 5
*** Sguardo cieco sul futuro ***


Buongiorno a tutti. Chiedo umilmente scusa per il ritardo, ma impegni di studio e problemi di salute non mi hanno permesso di aggiornare prima. Inoltre quello che leggerete è un capitolo di passaggio, certamente necessario ma un tantino corto perché altrimenti se avessi fatto un passo in più su tutti i fronti e con tutti i personaggi, allora sarebbe dovuto diventare lungo almeno il triplo e ciò significava aggiornare fra una settimana buona. Perciò ho preferito postare questo piuttosto che niente.

Spero che troviate il tempo di lasciare una minuscola, piccola recensione… sempre gradita, e magari qualche osservazione … mi interesserebbe sapere se secondo voi i personaggi sono ben definiti o se la storia pecca nella loro caratterizzazione.

A presto, e buona lettura.

 

 

Cap 6

Nel Bosco Dorato il tempo sembrava essersi fermato da secoli e anche se l’anello della Signora del Bosco infondeva armonia e serenità, gli animi erano irrequieti. Non erano solo gli elfi guerrieri a sentirsi nel posto sbagliato, ma anche le donne elfo che aspettavano con impazienza l’arrivo dei propri compagni.

Tra queste ce n’era una in particolare che insisteva più del dovuto con Dama Galadriel perché guardasse dentro il suo Specchio e le sue insistenze erano perdonate per un semplice motivo: la donna elfo rispondeva al nome di Celebrian ed era la figlia di Galadriel e Celeborn.

Aveva continuato a chiedere alla madre il permesso di guardare lei stessa, ma questo gli era stato negato. Avrebbe voluto essere appoggiata nella sua decisione di lasciare il Bosco Dorato per andare incontro a Elrond e salutarlo durante il passaggio dell’esercito di Imladris, ma la Signora del Bosco era irremovibile, nessuno sarebbe andato incontro agli eserciti alleati.

“Madre, perché ti comporti così. Il mio cuore è in pensiero e le mie notti sono insonni. Se non vuoi che io guardi nello Specchio posso capire perché il futuro può rivelarsi un peso difficile da sopportare, ma quante volte tu stessa ti sei affidata a lui? E questa volta ti chiedo di guardarlo per una causa giusta…”.

“Mia cara Celebrian, ogni elfo qui nel Lothlòrien ha una giusta causa, ciascuno di noi attende l’arrivo di qualcuno, io stessa attendo tuo padre”.

Celebrian abbassò lo sguardo vergognandosi di non aver pensato a suo padre, ma doveva riconoscere che da quando amava Elrond, e visto come il suo amato veniva trattato dal suocero, era questo che occupava un posto privilegiato nel suo cuore.

Dama Galadriel le si avvicinò e abbracciandola la tenne stretta a sé. “Non vergognarti di amare Elrond. L’amore che provi per lui è molto forte e sicuramente ami molto anche tuo padre…” poi sorrise e guardando negli occhi la figlia concluse: “… a ciascuna donna il suo uomo, a tuo padre ci penso già abbastanza io”.

Celebrian sorrise, sapeva che i suoi genitori si amavano ma pensarli come due innamorati, come lei con Elrond, la imbarazzava.

“Non penserai che solo perché abbiamo qualche millennio in più di te…”

Celebrian si tappò le orecchie con le mani: “Mamma, va bene, ho capito… non continuare”.

Fu la volta di Galadriel di ridere.

“Però” aggiunse la giovane con un pizzico di malizia negli occhi: “Potresti guardare dentro lo Specchio, così per vedere in generale come stanno andando le cose. No?”.

A quel punto la Signora del Bosco si arrese. “E va bene, guarderò, ma non cercherò nessuno in particolare, vedrò soltanto ciò che vorrà mostrarmi”.

“Sono d’accordo,” disse Celebrian “andiamo”.

Così le due donne elfo si diressero verso lo Specchio. Celebrian rimase a distanza, era affascinata da quello strumento ma nel contempo impaurita. Conoscere in anticipo ciò che doveva ancora avvenire, soprattutto quando non era chiaro e andava interpretato, aveva i suoi rischi.

Anche il suo compagno, Elrond, poteva vedere il futuro ma solo quando questo gli si presentava volontariamente. Egli possedeva il dono della preveggenza e a suo dire poteva essere molto rischioso diffondere notizie apprese in tal modo.

Dama Galadriel prese una brocca e la riempì di acqua, poi lentamente la svuotò nello Specchio. L’acqua fuoriuscendo dal suo contenitore sembrava che cantasse a voce bassa, che bisbigliasse storie tra magia e realtà.

Galadriel si sporse in avanti e con curiosità guardò dentro il piccolo laghetto d’acqua, pensò alla guerra, a tutti gli elfi che erano partiti in battaglia, e lentamente si formarono delle immagini.

I colori partivano dai bordi dello specchio d’acqua per poi unirsi al centro ed espandersi in maniera circoncentrica, mentre i cerchi pian piano svanivano andava a formarsi l’immagine … e ciò che Dama Galadriel vide la fece indietreggiare velocemente  e cadere a terra.

Celebrian, spaventata, chiamò sua madre e quando non ottenne risposta gridò a voce alta perché qualcuno corresse in suo aiuto.

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Sdraiato nel suo letto a pancia in giù con le mani sotto il cuscino e il mento poggiato in corrispondenza delle nocche Legolas si concentrava nel tentativo di collegarsi con il padre. Qualcosa però non andava nel verso giusto, poteva sentire che il padre non rispondeva, ma questo non era normale. Mai, nemmeno una volta Thranduil aveva rifiutato di comunicare con il figlio.

Poteva essere stanco ma trovava le energie, poteva essere occupato ma trovava il tempo. Ora però non rispondeva. Il giovane elfo sospirò, si alzò in piedi e andò nel terrazzo della sua camera. Gli alberi parlavano tra loro e si mostravano in pensiero per il giovane erede che iniziò a cantare per placare la loro angoscia.

Continuava a cantare, quando udì la presenza di qualcuno alle sue spalle, si voltò e il sorriso gli nacque sulle labbra.

“Mi sono permessa di entrare perché hai lasciato la porta socchiusa”.

“Non c’è problema, mamma. Puoi entrare quando vuoi”.

Wisterian sorrise. “Fra un paio d’anni non la penserai così, ma per ora grazie”.

Legolas la abbracciò. La madre poggiò le sue mani a coppa nelle sue guance e con molta calma disse: “Legolas, devo parlarti e purtroppo devo farlo come se tu fossi un adulto. Solo i Valar sanno se io e tuo padre avremmo voluto risparmiarti questo momento, però occorre che tu sappia”.

Legolas si fece serio, prese le mani della madre e le strinse con calore. “Mamma, cosa devi dirmi? Sai qualcosa dello stato di salute di papà che io non so? E’ ferito anche lui?”.

Wisterian negò con la testa. “No, purtroppo non so ancora niente di tuo padre. Si tratta di un’altra cosa, di qualcosa che tuo nonno Oropher e tuo padre avevano pensato quando hanno fatto costruire questa fortezza”.

“Di cosa si tratta?” chiese con curiosità il ragazzo.

“Qui, all’interno della fortezza c’è un passaggio segreto che conduce all’esterno” rispose la madre sussurrando tale era la paura che qualcuno potesse sentirla.

Legolas era sì incuriosito, ma ancor di più affascinato, eppure capiva il peso delle parole che sua madre stava usando.

“L’ingresso al passaggio sta nella camera matrimoniale mia e di tuo padre, il passaggio conduce per alcuni metri sotto terra e poi fino alla foresta”.

Il giovane elfo era attentissimo, non voleva perdere neanche una piccola frase di ciò che gli veniva confidato.

“Appena uscito all’aperto troverai un sentiero, lo dovrai percorrere tutto ma non per terra, seguilo passando da albero ad albero, alla fine arriverai  all’Antica strada silvana, continua a percorrerla saltando tra gli alberi. Da dove la strada finisce potrai vedere l’Anduin”.

“Il grande fiume!” esclamò Legolas.

“Esattamente. Bene, lo dovrai attraversare…”

Legolas si bloccò. “Attraversarlo? Ma come?”. E subito dopo, rendendosi conto che sua madre non includeva se stessa in ciò che diceva, aggiunse: “Dovrò attraversarlo da solo? E tu? Dove sarai?”.

Wisterian trattenne il respiro, suo figlio era giovane però anche molto perspicace. Prese fiato e con dolcezza gli spiegò: “Se arriverà il giorno in cui dovrai usare il passaggio, significa che né io né tuo padre saremo con te, figlio mio”.

Legolas si rabbuiò, adesso la segretezza della situazione non gli sembrava più tanto entusiasmante.

Wisterian andò avanti. “Attraversato l’Anduin dovrai attraversare le Montagne Nebbiose…”.

“No, non ce la farò mai … è troppo lontano, è troppo difficile”.

“… e una volta attraversate le Montagne dovrai raggiungere Imladris, vai da Gil-galad e Elrond. Fidati solo di loro” concluse la donna.

Legolas aveva gli occhi pieni di lacrime, semmai si fosse trovato in una situazione tanto estrema era convinto che non sarebbe mai riuscito a raggiungere gli amici dei suoi genitori.

Wisterian era preoccupata, capiva i dubbi del figlio e in parte li condivideva, ma quali alternative aveva? A chi poteva chiedere di aiutare il figlio? Gli elfi valorosi, i guerrieri erano tutti partiti, ne era rimasta solo una manciata a difesa della fortezza.

Doveva trattarsi di qualcuno che desse fiducia a Legolas, che fosse sia suo amico che di Thranduil, qualcuno a cui avrebbero potuto confidare del passaggio segreto senza timore.

E quel qualcuno, senza che loro lo chiamassero bussò alla porta in quel momento.

Legolas si asciugò gli occhi.

“Avanti” disse Wisterian.

Un elfo entrò nella stanza. “Signora, giungono notizie dal confine meridionale di Boscoverde. E’ stato avvistato l’esercito di Imladris, sembrano diretti a casa”.

Wisterian annuì, ma forse non capì fino in fondo cosa sentì. Andò dritta verso la porta e la chiuse.

“L’esercito di Imladris? Solo quello? E il nostro esercito?” chiese Legolas.

“Mio caro Legolas, del nostro esercito non ci sono ancora notizie”.

Wisterian sospirò. “Questa, in tutta sincerità, non è una buona notizia”.

“Concordo” replicò l’elfo.

“Ma ora ci sono cose più importanti a cui pensare” disse con voce greve la Regina.

L’elfo si irrigidì e con un tono sprezzante domandò: “Più importanti, mia Signora?”.

“Dipende” disse lei “da quanto è importante per te la vita del principe Legolas”.

L’elfo sobbalzò appena, Legolas non era ancora principe, lo sarebbe stato appena Thranduil fosse diventato Re, ma non lo era. Oropher era il Re di Boscoverde.

“Come Principe Legolas? Io pensavo che questo titolo spettasse a suo marito!”.

“Se mio figlio fosse il principe, la sua vita sarebbe importante per te, Fidelhion? Sarebbe più importante di tutto l’esercito di Boscoverde?”.

Fidelhion sentì la fragilità di una madre preoccupata nella voce di Wisterian. Lui conosceva Legolas da quando era nato, così come conosceva Thranduil dalla sua nascita. Egli era uno degli elfi silvani che avevano proposto che fosse Oropher a guidare Boscoverde, lo apprezzava e rispettava, e ancor di più sentiva per suo figlio e suo nipote. Perciò senza pensarci un attimo e con decisione rispose: “La vita di Legolas sarebbe più importante di tutto l’esercito di Boscoverde, persino di Boscoverde stesso, anche se ne fosse principe”.

Queste erano esattamente le parole che Wisterian avrebbe voluto sentirsi dire, così prese la mano a suo figlio e rivolgendosi a Fidelhion disse: “Bene, allora sappi che ho un compito importante per te”.

Erano trascorsi sei giorni interi da quando Celeborn e Gil-galad erano partiti alla ricerca di Thranduil, avevano attraversato tutta la Piana del Dargolad  e entrati a Boscoverde, si ritrovavano a fissare il Dol Guldur.

Gil-galad osservava con disprezzo la costruzione nella quale il male si era insediato e dalla quale erano partiti ordini di morte. L’aria era pesante e sembrava che la foresta fosse malata, che fosse piena di rabbia e dolore.

I cavalli erano stanchi, avevano bevuto dalle pozzanghere e mangiato erba, però ora non riuscivano proprio ad andare oltre.

“Celeborn, dobbiamo fermarci, i cavalli sono stremati”.

Il Signore del Lothlòrien era d’accordo. “Allora fermiamoci, ma cerchiamo un riparo” rispose semplicemente.

“Intendi nella costruzione diroccata?”.

“Esattamente, perché ci sono problemi?”.

Gil-galad non era del tutto soddisfatto. Avrebbero potuto trovare riparo tra gli alberi, anche se la natura infondeva tristezza, era sempre meglio che là dove anche le mura gridavano odio.

“Forse potremmo sistemarci sugli alberi”.

“Senti, Gil-galad, io sono davvero stanco, se dovesse piovere saremmo più riparati da una costruzione di pietre e rocce piuttosto che da un albero”.

“Non sembri nemmeno un elfo” gli rispose il Signore di Imladris.

“Bhè, tu sei abituato con i Mezzelfi!” sbottò Celeborn.

Gil-galad fece finta di non sentire, erano tutti troppo stanchi e litigare non avrebbe portato da nessuna parte, la guerra era conclusa e lui desiderava stare in pace.

“Chissà che strada ha preso Thranduil!” disse cambiando discorso.

“Visto che noi non lo abbiamo incontrato, probabilmente sta costeggiando l’Anduin”.

“Allora forse dovremmo lasciare Boscoverde e dirigerci verso il fiume!” propose Gil-galad.

“No!” replicò immediatamente Celeborn che non voleva assolutamente lasciare la foresta. “Penso che sarebbe meglio se andassimo direttamente alla fortezza, del resto potremmo non essere in grado di intercettare Thranduil se partissimo ora per  il grande fiume.”.

Gil-galad restò inizialmente sorpreso dall’enfasi usata dal consuocero nel rispondergli, ma poi non potè che concordare. “Già, il fiume è molto grande e lungo. Chissà dove sarà?”.

“Non lo so, ma non vedo l’ora di incontrarlo. Deve darci molte spiegazioni! Comunque adesso è meglio riposare, lasciare che i cavalli riprendano un po’ di forze e poi ripartire. Sarà meglio dormire”.

“Sì, sicuramente non ci farà male” concluse Gil-galad scendendo da cavallo e salendo su albero.

Se Celeborn aveva voglia di comportarsi come un uomo che facesse pure, lui era un elfo e da elfo avrebbe vissuto. Chissà poi perché non voleva salire su un albero? Era insolito.

Una volta raggiunta la posizione desiderata, cioè quella con abbastanza ramificazioni che potessero fare da materasso, Gil-galad si accomodò. Prima però diede un’occhiata a Celeborn e lo vide mentre controllava i propri bagagli in groppa al cavallo.

L’animale era stanco e pareva che una zampa gli facesse male, ma Celeborn non sembrava accorgersene, continuò a controllare la sua roba e poi, dopo aver legato il cavallo si diresse verso quella che era stata la fortezza del male.

Gil-galad lo stava ancora osservando e ebbe una sensazione negativa e quasi ebbe vergogna dei propri pensieri, ma non potè fare a meno di notare come Celeborn e la fortezza del Dol Guldur sembrassero un tutt’uno.

Passò un secondo e Haldir si trovò al fianco di Celebrian che, china accanto alla madre e con gli occhi pieni di lacrime, raccontò all’elfo cosa era accaduto.

Haldir non era un guaritore ma gli era capitato di vedere la Signora del Lothlòrien in quelle condizioni altre due volte e non c’erano mai stati sviluppi positivi.

Celebrian sollevò la madre e la mise seduta, Haldir strappò dell’erba “melissa” e aperta la bocca di Galadriel gliene mise una foglia sotto la lingua. Dopo pochi minuti l’erba fece il suo effetto e la Signora del Lothlòrien riprese i sensi.

Galadriel posò lo sguardo sull’elfo biondo e poi sulla figlia. “Sto bene, Celebrian” disse con voce squillante e seria, come se niente fosse successo, adesso vai. Devo parlare con Haldir”.

Celebrian sapeva di non dover opporsi alla madre, soprattutto in questi momenti, era curiosa e voleva sapere ma tanto non avrebbe avuto le risposte che desiderava. Sapeva che Haldir era disorientato dal comportamento della madre, ma non lo avrebbe mai mostrato per non preoccuparla.

Perciò non le restò che rispondere: “Come desideri”.

Haldir fece cenno di assenso con la testa e la ringraziò, Celebrian però non aveva intenzione di cedere così facilmente e dopo essersi allontanata, salì su un albero e si avvicinò il tanto necessario per poter sentire e … origliò.

“Haldir, se solo potessi dire a parole ciò che ho visto”.

“A me può dire tutto mia Signora, qualsiasi cosa, la mia fedeltà non verrà mai meno”.

“Lo so, ma non si tratta di questo. Ci sono cose che non andrebbero mai dette, mai nemmeno pensate, eppure occorre che qualcuno le veda forse per prevenirle” disse con lo sguardo fisso sullo Specchio.

“O forse perché l’inevitabile presente possa sembrare più chiaro a posteriori” ipotizzò Haldir aiutando Galadriel a sollevarsi in piedi.

“Sei molto saggio, mio caro amico”.

Haldir annuì. Celebrian poteva sentire il dubbio e la tensione nello scambio di parole. Cosa aveva visto la madre? Perché non voleva parlarne?

Galadriel si avvicinò allo Specchio, ma non ci guardò dentro. “Haldir, ciò che ho visto è il sangue di un amico sulla spada di un altro amico”.

“A chi apparteneva la spada? E di chi era il sangue?”.

Galadriel mantenne la sua posizione: “Non riesco a pronunciare i loro nomi, forse ho timore che così facendo ciò che ho visto diventi più reale. Ma comunque non c’è tempo da perdere. Preparati subito, appena pronto dovrai partire e intercettare l’esercito di Imladris, e dovrai consegnare un biglietto a  Elrond”.

“A Elrond? Non a Gil-galad?” domandò titubante Haldir.

“Hai capito bene, Haldir. Ora vai, non c’è tempo da perdere”.

Haldir immediatamente andò. Celebrian, che aveva sentito tutto e niente, in due secondi progettò il suo piano: avrebbe preso giusto due cose, le avrebbe sistemate in una sacca e avrebbe seguito a distanza Haldir.

Se lui poteva andare incontro a Elrond, poteva farlo anche lei.

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 6
*** Saluti e inviti ***


Ciao a tutti. Ecco il nuovo capitolo. Chiedo scusa per il ritardo ma con le feste in mezzo avevo fatto male i conti. Il prossimo capitolo arriverà domenica o lunedì prossimo (preparo degli esami e non ho molto tempo a disposizione).

Ringrazio tutti coloro che leggono e ancor di più chi recensisce.

A presto e buona lettura. Alida

 

 

 

 

Mentre attraversa il campo di battaglia, si chiese cosa avrebbero fatto i guerrieri di Boscoverde, il loro Re era morto, il nuovo era scomparso, Galion non si trovava. Chi si sarebbe preso cura di loro?

CAP 5

Il pomeriggio era iniziato nel peggiore dei modi: due dei feriti gravi di Imladris erano morti. Ciò aveva affrettato ancora di più la scelta di Elrond di partire, infatti nel campo non c’erano abbastanza medicine per tutti. Avrebbero dovuto fare una sosta nel Lothlòrien e chiedere a Dama Galadriel un aiuto.

Certamente gli elfi di Imladris erano numerosi, circa 800, e non avrebbero potuto soggiornare nel Bosco Dorato, però nessuno avrebbe rifiutato loro erbe mediche, garze e magari il soggiorno dei feriti gravi.

Gli elfi del Lothlòrien sarebbero partiti un paio di giorni dopo, quelli di Boscoverde ancora più tardi. Si sentivano in colpa per aver sepolto il loro Re lì, nella piana, e volevano portarne a casa il feretro. Ma nessuno se la sentiva di dissotterrare la bara. Avrebbero aspettato Thranduil, e tutti erano convinti che sarebbe tornato, che non li avrebbe lasciati lì da soli e che se si era allontanato doveva esserci un motivo molto importante.

Elrond aveva spiegato loro che ci sarebbero voluto giorni per arrivare a Boscoverde e che le loro scorte scarseggiavano ma gli elfi silvani erano orgogliosi e testardi come i loro re e a niente erano valse le parole dei guaritori e dei guerrieri degli altri regni.

Così con il cuore appesantito Elrond, affiancato da Glorfindel, e il suo popolo, presero la strada per casa. Una domanda ronzava nella testa del Mezzelfo: “Come faremo a sapere se mio padre ha trovato Thranduil?”.

Glorfindel vide il suo amico pensieroso ma non disse nulla, alle volte il silenzio era ciò di cui si aveva più bisogno. Tutti salutarono la partenza del Regno di Imladris con auspici di buona fortuna. Gli elfi del Lothlòrien decisero di aspettare ancora qualche giorno il ritorno di Celeborn e poi sarebbero partiti anche loro, ma diedero messaggi e rassicurazioni da portare ai loro parenti.

Quando l’accampamento divenne una macchia lontana e indistinguibile, gli elfi di Imladris cominciarono a cantare della guerra, di chi non c’era più e di chi avrebbero presto rivisto.

 

“Già”.

“Bene, bene”.

“Forse…”.

“No, non funziona…”.

Bolin sbuffò. Ancora una volta si ritrovava a parlare da solo, quest’elfo doveva avergli lanciato una qualche maledizione che gli impediva di star zitto o semplicemente di formulare una frase intera. Anche se questo problemino, quello cioè di lasciare le frasi a metà o comunque iniziarle e non finirle lo aveva sempre avuto.

Il problema era chiaro: il Re silvano stava male e la ferita andava curata. Bolin aveva sentito dire che per sterilizzare e chiudere una ferita bastava sigillarla con il fuoco, ma credeva che non fosse una cosa simpatica da fare, soprattutto non mentre il Re era addormentato.

Perciò mise a bollire un po’ di acqua, fece un leggerissimo tè e lo fece ingoiare a Thranduil che era ancora inconscio, ma che bevette per istinto un po’ di te alla volta.

Passarono i minuti e un po’ alla volta anche le ore, era già notte inoltrata quando Thranduil si svegliò, Bolin gli era accanto, sveglio ma molto assonnato. Tuttavia, seppur senza fretta, si propose di cucinare qualcosa.

“No, grazie” rispose con un filo di voce l’elfo.

Bolin però era di parere diverso: “Dovrebbe mangiare qualcosa, mio caro Re silvano”.

Thranduil con molta serenità lo corresse: “Non sono un Re silvano, io sono un Sindar”.

“Come fai a essere un Sindar se il tuo popolo è silvano?”.

“Bella domanda, che meriterebbe una risposta lunga e articolata, che in questo momento non ho la forza di darti. Diciamo che ci siamo uniti agli Elfi Silvani perché mio padre riteneva che dovessimo avvicinarci maggiormente alla natura, a come i Valar ci volevano in origine. E devo dire che a me non dispiace per niente. In un certo senso sebbene sia Sindar di nascita, mi sento anche un po’ elfo silvano, e di sicuro lo è mio figlio”.

“Ha un figlio? Davvero? E come si chiama?” chiese incuriosito il nano mentre toglieva un pezzo di pane e di formaggio dalla sacca.

“Si chiama Legolas, è molto giovane e come ogni Elfling è esuberante e pieno di energia. Gli piace stare in mezzo alla natura  e parlare con gli alberi della foresta. Lui è un elfo silvano nello spirito, proprio come sua madre”.

Bolin passò il cibo a Thrandui, che lo prese senza protestare. Non ne aveva le forze e inoltre sentiva di avere lo stomaco vuoto.

“Ma lei…” iniziò il nano.

Thranduil lo bloccò all’istante: “Per favore, Bolin, chiamami Thranduil e non darmi del lei. Sono un Re, è vero, ma se non fosse per te probabilmente sarei un Re morto, e perciò non mi sembra il caso di sollevare queste barriere”.

Il nano era sconcertato e rimase immobile, fissando l’elfo. Era la prima volta che incontrava qualcuno che non voleva sollevare barriere. “Dicci sul serio?”.

“Certamente” rispose Thranduil guardandosi attorno. Poi chiese: “Di preciso dove ci troviamo?”.

“Nei monti dell’Emyn Muil”.

“Accidenti, ci siamo allontanati da Boscoverde!”.

Bolin sembrò offendersi un tantino. Certamente dalla piana a Boscoverde ci sarebbe voluto molto di più che un paio d’ore. Thranduil si rese conto di aver usato un tono di voce inadeguato.

“Scusa, Bolin, ti ringrazio davvero molto di avermi portato al sicuro, e solo che io ho molta fretta di raggiungere la mia casa, e i miei cari”.

“Suppongo che tu sia stato in guerra? Vero? Ho sentito parlare dello scontro che ci sarebbe dovuto essere contro Sauron. Si chiama così, giusto?”.

Thranduil prese fiato. “Sì, ho combattuto e Sauron è stato sconfitto anche se credo che il male troverà altri modi per agire”.

“Il Male” ripetè Bolin.

“Ma la mia fretta nasce in primo luogo dalla necessità di mettere al sicuro Legolas e Wisterian, mia moglie”.

Bolin non credeva alle sue orecchie. Perché mai un ragazzino e una donna dovevano trovarsi in pericolo nella loro casa. “Ma come è possibile? Non sono al sicuro? A casa?”.

“E’ possibile perché, vedi, dopo la morte di mio padre, io sono il nuovo Re, se io morissi mio figlio salirebbe al trono, ma se non ci fosse nessuno, il trono sarebbe libero…” spiegò l’elfo.

Bolin, che sapeva come si muovono i fili della vita, chiese: “Libero per chi?”.

Un sorriso amaro si formò sul viso di Thranduil. “Libero per mio cugino Celeborn, che appena ieri ha minacciato di uccidere la mia famiglia e ha poi tentato di uccidere me”.

“Allora, bisogna fare qualcosa. Dobbiamo agire!” strillò il nano.

“Per essere un nano, sei molto interessato ai problemi di un elfo”.

“Scusa, non voglio interferire, voglio solo aiutare” chiarì Bolin.

“Secondo me tu non sei un nano, devi essere di qualche altra razza di cui non sapevamo niente”.

“Perché mai?”.

“Sei troppo diverso” si giustificò Thranduil.

“Questo è vero! Primo non mi piacciono le grotte. Secondo non mi piace mangiare in quantità eccessive, come tutti gli altri nani però amo lavorare i metalli, e … mi piace anche l’oro. Però ho conosciuto solo nani e tutti mi hanno sempre dato ordini, nessuno che volesse semplicemente chiacchierare con me, e forse questo mi rende diverso”.

“E i tuoi genitori?”.

“Sono morti, molto tempo addietro. Talmente tanto che non me li ricordo neanche più. Non saprei neanche descriverteli, non mi è rimasta neanche una foto di loro”.

Thranduil era in silenzio, non voleva essere irrispettoso.

“E chi ti ha cresciuto?”.

“Un nano che credevo fosse una brava persona, ma che invece si è dimostrata ignobile”.

Thranduil era incuriosito. Bolin lo guardò è sorrise. “Adesso riposa Re Sil… no, Re Sind..”.

“Re di Boscoverde” disse Thranduil “Se proprio vuoi chiamarmi Re, va bene Re di Boscoverde”.

Il nano lo guardò in faccia, il Re era pallidissimo, gli occhi erano cerchiati di grigio e il respiro affannoso.

“Domani chiacchiereremo un altro po’, ma ora è tempo per tutti e due di dormire. Domani decideremo cosa fare”.

Solitamente Thranduil avrebbe protestato a un ordine diretto, ma in realtà non aveva la forza neanche di controbattere, così chiuse gli occhi e pensando a Wisterian e Legolas si addormentò.

La luce del sole sarebbe arrivata da lì a poco e bisognava riposare.

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Una notte e un giorno intero cavalcando velocissimo, come spinto dal vento e assecondato dal destino, Galion continuava ad avanzare senza sosta. Il suo cavallo era abituato a lunghe sfaticate e sarebbe trascorso ancora un giorno intero prima che i due si fermassero a riposare.

Galion aveva del lembas con sé e un po’ di acqua, ma la fame non era il primo dei suoi pensieri. Un solo pensiero gli ronzava nella mente e cioè quel terzo di Boscoverde che sarebbe diventato suo. Quale parte avrebbe potuto chiedere a Celeborn?

La parte a nord dell’Antica via silvana? Oppure metà della parte meridionale? Dove avrebbe costruito la sua casa? Sicuramente ovunque fosse non avrebbe vissuto in una fortezza sottoterra come aveva fatto Oropher.

Tutte queste domande avrebbero trovato risposta con il tempo, per prima cosa bisognava giungere a Boscoverde. Secondo i suoi calcoli sarebbe arrivato al lato occidentale del Bosco la mattina successiva e lì tra gli alberi avrebbe riposato qualche ora prima di riprendere il cammino percorrendo la foresta esternamente.

Tutto si sarebbe sistemato, bisognava solo dare tempo al tempo.

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Lùth nitrì rumorosamente e spinse il muso sulla schiena del nano addormentato, e continuò fino a quando Bolin non si fu svegliato.

“Accidenti a te, si può sapere cosa c’è?” chiese sbadigliando.

Lùth, Bolin lo vide bene anche se non volle crederci, gli nitrì contro e poi guardò in direzione del sole che sorgeva.

“Lo so benissimo anche io che abbiamo fretta e prima partiamo prima arriviamo, ma non per questo ti spingo a colpi di testa!” lo riprese burbero.

Thranduil aprì gli occhi e vide che il nano parlava con qualcuno, attorno però non c’era anima viva. “Con chi ce l’hai questa volta? Sempre con Lùth?”.

“Con chi?”.

“Con il mio cavallo. Si chiama Lùth, che significa “incantesimo””.

Bolin si alzò in piedi: “Incantesimo, eh… però, hai scelto un nome impegnativo, Re di Boscoverde”.

Thranduil aveva gli occhi sgranati, si guardò attorno come se cercasse qualcuno. “Si può … sapere … con chi… stai … parlando?”. Faceva molta fatica a parlare, e per ogni parola era necessario che riprendesse fiato.

“Con te” rispose Bolin “O non è vero che sei il Re di Boscoverde?”.

Thranduil si fermò a pensare, la sua mente gli stava giocando brutti scherzi, doveva subito prendere qualche medicina per far diminuire l’infezione e far abbassare la temperatura. Si sentiva caldo in fronte ma aveva  freddo in tutta la persona.

“Sì, certo che sono il nuovo Re. Ahi…” continuò tenendosi la spalla con il braccio sano. “Forse però non mi sento ancora pronto per essere chiamato così. Scusa, Bolin. E solo che … credo che stessi cercando mio padre… mi dispiace, davvero”.

“E va bene, Thranduil. Non preoccuparti, adesso dobbiamo partire, dobbiamo raggiungere Boscoverde”.

“No” lo interruppe l’elfo “Io raggiungerò Boscoverde, tu però, se vorrai aiutarmi, dovrai raggiungere il Lothlòrien”.

“Dove dovrei andare? Io ero diretto a Boscoverde… non vuoi viaggiare con me? E poi io non ti lascio viaggiare da solo nelle condizioni in cui ti trovi…”.

“Aspetta”. Thranduil prese fiato: “Se partiamo adesso in mattinata raggiungeremo il fiume Anduin e poi proseguiremo insieme fino al Lothlòrien, una volta lì io proseguirò con Lùth verso Boscoverde, mentre tu, se vorrai ancora aiutarmi, dovrai consegnare un messaggio alla Dama del Bosco Dorato, Dama Galadriel. Cosa ne pensi?”.

Bolin non si tirò indietro. “E se non volesse ricevermi?”.

Thranduil ci riflettè un po’ su, era una possibilità. Se Galadriel avesse rifiutato di parlargli?

“Allora dovrai tornare verso la piana e consegnare il biglietto a un altro elfo: Gil-galad di Imladris oppure suo figlio Elrond”.

“Gil-galad o Elrond di Imladris” ripetè Bolin “Sono tuoi amici?”.

“Sono elfi giusti e buoni. Adesso che non c’è più mio padre, se mio figlio dovesse restare orfano, sarebbero  gli unici a cui lo affiderei”.

Bolin rimase colpito da quelle parole. Thranduil stava male, ma l’unico pensiero che aveva in testa era la sua famiglia.

Thranduil guardò dentro di sé e cercò il collegamento con Legolas, era forte, ciò significava che non era in pericolo e che stava bene. Era ancora troppo debole, ma entro un paio di giorni avrebbe dovuto contattarlo di nuovo.

Bolin si preparò, aiutò Thranduil a salire a cavallo e poi ci salì anche lui. Lùth non diede segni di disagio, capiva che la situazione era grave e che avrebbe dovuto cavalcare per un bel pezzo senza lamentarsi. Sentiva anche che il suo amato padrone era stanco e ferito, ma ancora di più preoccupato.

Se solo avesse potuto fare di più! Ma di più non poteva fare, perciò iniziò la sua cavalcata verso l’Anduin dove avrebbe potuto dissetarsi e dare un po’ di ristoro anche ai suoi passeggeri a cui era rimasta soltanto una piccola borraccia d’acqua.

E la mancanza d’acqua si fece sentire dopo poche ore. Thranduil,  già duramente provato, faceva fatica a stare in sella, non si lamentava ma la vista cominciava a farsi appannata. I suoi sensi, sempre all’erta, non riuscivano più a percepire chiaramente il mondo circostante.

Bolin che sedeva dietro Thranduil poteva sentire il calore del corpo dell’elfo, la febbre non era diminuita, “e come avrebbe potuto” pensava il nano “l’infezione alla spalla non è passata”.

Avanzarono comunque senza sosta, e benché Bolin avesse più volte desiderato di fermarsi per mangiare un boccone, i due avevano concordato che la prima sosta sarebbe stata presso il grande fiume.

E finalmente giunsero all’Anduin. Il fiume scorreva calmo, dopo le forti piogge anche lui desiderava un tranquillo riposo. Il suono dell’acqua che scorreva fu  balsamo per le orecchie di Thranduil che sospirò ad occhi chiusi e inspirò il profumo dei fiori che generoso si diffondeva nell’aria.

Bolin aveva attraversato l’Anduin solo una volta con Rhiaian e i suoi compagni di viaggio,  e si ritrovò a pensare che sarebbe stato bello se lo avessero visto ora, in tutta la sua grandezza e serenità mentre loro lo avevano conosciuto irruento e colpito dalla pioggia.

I due scesero da cavallo. Thranduil era stanchissimo e in breve si ritrovò a dormire ad occhi chiusi.

Bolin sapeva che non era una cosa buona perché “Se un Elfo chiusi ha chiusi gli occhi, è trappola per allocchi”, però non era questo il suo caso, Thranduil non fingeva e perciò doveva star proprio male. Bolin gli si avvicinò e gli passò la mano davanti agli occhi, ma non successe niente, non ci fu nessuna reazione. Allora con molta cautela gli tolse la camicia e le bende, e con un po’ d’acqua ripulì la ferita.

Poi mise a bollire l’acqua in un pentolino e dopo aver lavato le bende le immerse nel pentolino per disinfettarle. Infine lavò la camicia. Quando, dopo circa due ore, lo rivestì, Thranduil si svegliò.

“Attenzione,” disse Bolin seriamente “ti ho appena sistemato delle garze pulite e la camicia è messa alla bene meglio, però sempre meglio di niente”.

Thranduil non aveva parole di ringraziamento per tutto quello che Bolin stava facendo per lui, poteva solo sperare che un giorno avrebbe potuto ricompensarlo a dovere. Ma cosa poteva offrirgli? Gli doveva la vita e niente poteva essere abbastanza.

“Quando tutto questo sarà finito, vorrei che tu prendessi in considerazione l’idea di venire a vivere a Boscoverde”.

Bolin era sorpreso, il suo sguardo si rattristì e non pensò neppure un momento che un Re elfico potesse fargli quell’offerta seriamente. Gli porse un bicchiere d’acqua e l’elfo lo bevette avidamente. In quel momento l’acqua sembrava essere la cosa più bella che esistesse su Arda.

Prese fiato e continuò: “Ti piacerebbe, gli alberi sono rigogliosi e i fiori molto profumati, il cielo e limpido e, a parte alcuni problemi che stiamo avendo al sud della foresta, all’interno del regno di mio padre ci si può muovere in tutta sicurezza”.

Thranduil sospirò, ancora una volta il ricordo di suo padre era venuto inaspettato. Era normale parlare di Boscoverde come il Regno di suo padre, lui lo aveva fondato e sarebbe rimasto suo per sempre, ma era meglio non indugiare su argomenti tristi.

“Allora cosa ne dici, ti piacerebbe?”.

Bolin si massaggiò il mento con le sue grossa dita. “Andiamo Re Thranduil, non possiamo attardarci qui. E poi vedrai che quando tutto sarà sistemato, e tu sarai a casa con la tua dolce moglie e il tuo figliolo, il nano Bolin non sarà più nei tuoi pensieri. Ti dimenticherai di me, e io non mi aspetto niente di diverso”.

Thranduil trasalì alle parole del nano. “Mai e poi mai mi dimenticherò di te, anche se di te so veramente poco. Una cosa la so: la memoria degli Elfi è molto lunga”.

“Speriamo allora che sia più lunga della vita di un nano” affermò Bolin.

Lùth si avvicinò al suo padrone e delicatamente gli si strofinò accanto. Thranduil ricambiò le tenerezze, poi prese un pezzo di pergamena dalla sua sacca e una matita e dopo averci scritto sopra un messaggio lo consegnò a Bolin. Nella sua mente poteva vedere ancora Oropher cadere, e le gemme della spada che aveva accarezzato, tremare.                                                                     Doveva essere sicuro che il destino avesse portato via suo padre e non qualcos’altro. Non c’era altro modo, ma lui non poteva tornare indietro. Aveva bisogno dell’aiuto di qualcuno.

“Tieni, Bolin. Questo è il messaggio che dovrai consegnare”.

Bolin lo prese senza aggiungere altre parole. Chinò la testa in segno di assenso, portò il biglietto al cuore e poi se lo mise in tasca. Ancora una volta aiutò Thranduil a salire su Lùth e ancora una volta il cavallo elfico partì.

A molti chilometri di distanza da Bolin e Thranduil, e lontano anche da Elrond che con il suo popolo lentamente proseguiva verso casa, i quattro nani viaggiavano velocemente su un carro di uomini.

Li avevano incontrati strada facendo e questi uomini avevano acconsentito di portarli fino al confine meridionale di Boscoverde in cambio di un po’ di monete d’oro.

Si erano anche proposti di condurli oltre, ma i nani, tirchi per natura, non vollero sborsare altri soldi, e così quando arrivarono a Boscoverde era già notte inoltrata, ma non cambiarono idea e dopo aver pagato e salutato si inoltrarono nella foresta più grande della Terra di mezzo.

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 7
*** Una spada in due posti? ***


Eccomi qua, mie care lettrici e lettori…

Spero che il capitolo vi soddisfi talmente tanto che deciderete di lasciare impresse le vostre opinioni magari sotto forma di “recensione”!

Non è una richiesta, è semplicemente un forte desiderio di conoscenza. Ahahah!

Va bene, i fatti si stanno sviluppando, e da ora in poi ci sarà solo da dire: Povero Thranduil… non ci credete, continuate a seguirmi nei prossimi aggiornamenti e vi ricrederete!

Ora vi auguro buona lettura.

Prima però ringrazio tutti, ma davvero tutti, quelli che recensiscono, leggono, inseriscono la storia tra seguite e preferite. Miei cari angeli silenziosi, vi abbraccio tutti.

 

Sindarin-Italiano

 

·         Elfling: elfo giovane (fino ai 15 anni umani credo)

·         Ada: papà

·         Fae: anima, spirito

 

 

 

 

 

 

Haldir immediatamente andò. Celebrian, che aveva sentito tutto e niente, in due secondi progettò il suo piano: avrebbe preso giusto due cose, le avrebbe sistemate in una sacca e avrebbe seguito a distanza Haldir.

Se lui poteva andare incontro a Elrond, poteva farlo anche lei.

 

CAP 7

Ad Haldir bastò un’ora per prepararsi, tuttavia Dama Galadriel non gli aveva ancora dato l’ordine diretto di partire. Infatti la Signora del Bosco Dorato era indecisa sul da farsi, ciò che lo Specchio le aveva mostrato era piuttosto inquietante. 

Se avesse impresso la visione avuta sulla carta e il biglietto fosse malauguratamente caduto nelle mani sbagliate avrebbe potuto creare più disastri della realizzazione della visione stessa.

Riferire a voce la visione ad Haldir avrebbe significato metterlo in pericolo; lui certamente non si sarebbe tirato indietro, del resto aveva compiuto missioni più pericolose e benché non fossero ancora giunte conferme, sentiva dentro sé che la guerra era conclusa e dunque i pericoli per il suo amico fidato non erano elevati.

Decise perciò di raccontare la sua visione.

Haldir si presentò alla Signora del Bosco pronto per la partenza, lei lo ringraziò per la celerità con la quale si era preparato e con un filo di voce, appena percepibile all’orecchio elfico gli confidò: “Non c’è nessun biglietto da consegnare, amico mio, ma un messaggio da riferire. Sii cauto e astuto e non fallire l’obiettivo. Il sangue che vidi sulla spada era del Signore di Imladris Gil-galad, e la spada apparteneva al Re di Boscoverde Oropher”.

Haldir sgranò gli occhi per lo stupore, perdendo la maschera di impassibilità che normalmente indossava. Ecco spiegata la necessità che il messaggio arrivasse a Elrond! Non era un messaggio dalla Signora del Lothlòrien al Signore di Imladris, era il messaggio da un elfo con grandi poteri magici ad un altro dello stesso livello, poiché così Elrond veniva sempre definito da Galadriel “un elfo che ancora non sa di avere tanti poteri quanti ne possiedo io”.

“E’ imperativo” continuò Galadriel “che il messaggio giunga in fretta. Non fermarti mai e per nessun motivo. In te ripongo la mia fiducia”.

Haldir si ricompose, salutò la sua Signora e partì. Non sapeva, e tantomeno lo sapeva Galadriel, che Celebrian, fatta scorta di lembas e acqua, lo stava seguendo saltando di ramo in ramo.

Chiaramente poteva usufruire degli alberi fintanto che Haldir attraversava il Bosco Dorato e per questo motivo aveva inviato il suo cavallo, Gwaew, ai margini del bosco. Da lì avrebbero proseguito assieme.

Però non aveva fatto i conti con la fretta che sembrava essersi impossessata dell’elfo e sebbene avesse visto la madre che parlava con Haldir non era riuscita a sentire ciò era stato detto.

 

Intanto la luce del giorno cominciava a calare e ci si volgeva verso le prime ore della sera, e mentre Haldir si avvicinava a tutta velocità al limite del Bosco Dorato, là dove il bosco costeggia l’Anduin,  Thranduil e Bolin giungevano nella riva opposta.

La ferita di Thranduil non sanguinava più ma l’infezione persisteva come la febbre. Bolin cercava di sorreggerlo ma l’elfo era troppo pesante e perciò spettava a Lùth cercare l’andatura più consona affinché nessuno cascasse.

“Appena arriveremo a destinazione ti daremo come premio una bella mela, caro Lùth” diceva il nano “e anche degli zuccherini, ma solo se ti comporti bene. Vero Re di Boscoverde?” .

“Mh…” rispose il Re.

“Già…” aggiunse pensieroso Bolin.

Gli accordi erano che raggiunto il punto stabilito, Thranduil e Lùth proseguissero verso Boscoverde e Bolin si dirigesse a piedi verso il Lothlòrien, il quale si poteva già vedere dalla loro posizione.

Ma il Re di Boscoverde era proprio al limite delle sue forze. Come avrebbe fatto a cavarsela da solo in mezzo alla foresta? Come avrebbe raggiunto la sua fortezza? Sarebbe riuscito a salvare sua moglie e suo figlio?

Bolin si massaggiava la barba osservando gli alberi verdi di quello che per lui poteva essere qualsiasi cosa.

 “Thranduil, è quello Boscoverde?”.

Thranduil si drizzò e, guardando gli alberi che sembrano pronti al riposo con il calar della notte, sorrise e disse: “No, mio caro Bolin. Questo è il Lothlòrien”.

“Già…”.

Il Re di Boscoverde gliene aveva parlato durante tutto il viaggio a cavallo, o almeno mentre era stato vigile, si trattava di un luogo fatato, dove il tempo scorreva in modo diverso che altrove e il male non penetrava in esso, poiché un grande potere lo proteggeva.

Sarebbe stato bello fermarsi là un pochettino, e  vivere la sensazione che il tempo scorresse secondo leggi diverse da quelle conosciute.

“Ma secondo te, in questo Lothlòrien si può anche tornare indietro nel tempo?”.

Appena Bolin fece la domanda si accorse che era una stupidaggine, però non era riuscito a trattenersi dal porla tale era il suo desiderio di cambiare il proprio passato.

Thranduil sapeva che era impossibile, altrimenti avrebbe subito approfittato di quell’opportunità per salvare suo padre, ma aveva sentito nella voce roca del nano un filo di speranza e anche di disincanto e non voleva in alcun modo essere brusco.

“No-non credo… sia possibile… purtroppo”.

“Già…” constatò il nano.

Thranduil sospirò, mal celando la sua noia, e per alleggerire il momento domandò: “E’ tipico dei nani dire sempre –già-?”.

Bolin arrossì di vergogna. Che bisogno c’era di mettere in evidenza questo suo piccolo difetto “personale”?

“Penso di no” rispose acidamente.

Thranduil capì che non aveva migliorato la situazione, adesso invece di sentirsi giù di corda, Bolin era adirato, cercò comunque di salvare il salvabile.

“No, perché tu lo dici sempre…” tentò di spiegare al nano, i cui peli della barba cominciavano a rizzarsi dal nervoso.

“Così io lo direi sempre?”.

“Sì, diciamo che lo dici spesso”.

Ancora una volta Bolin non si trattenne: “E già”.

Thranduil rimase immobile sul cavallo, convinto che anche un piccolo spostamento avrebbe rivelato che stava per scoppiare dal ridere.

Anche il nano si accorse della situazione e, colpendo la testa del Re con la propria mano, rise contagiando anche l’altro che finalmente si lasciò andare.

Poi entrambi divennero seri. Il Lothlòrien era alla loro sinistra, Thranduil indicò a Bolin la sua destra. “Quello è il mio Regno. Il Regno che fu di mio padre e, che se i Valar lo consentiranno, sarà di mio figlio”.

Bolin, la cui visuale era coperta dalla schiena del Re, si piegò di lato e vide Boscoverde in tutta la sua grandezza.

“Dunque siamo arrivati al momento della separazione” disse Thranduil.

Bolin era agitato. “Non vorrai mica che ci separiamo adesso?! Ti rendi conto che sei ferito, che hai la febbre, potrebbe succederti qualsiasi cosa…”.

Thranduil scosse la testa. “Non mi succederà nulla. Appena giungerò a Boscoverde, la foresta mi aiuterà a guarire. Per me è meglio andare piuttosto che restare qui. Tu però devi raggiungere Dama Galadriel”.

Bolin, con suo grande stupore acconsentì. Doveva andare, si erano messi d’accordo, lui voleva aiutare Thranduil e doveva pareggiare i conti. Di quali conti ne avrebbero discusso in seguito, quando Bolin avrebbe avuto il coraggio di parlarne, se mai ne avesse avuto il coraggio.

“Allora ci lasciamo qui” concluse Bolin “Spero che questa Dama mi ascolti”.

Dunque scese dal cavallo e accarezzò Lùth. “Mi raccomando, stai attento al tuo padrone”.

Lùth nitrì e strofinò il suo muso nella testa del nano. “Però!” esclamò Bolin: “Sei proprio simpatico!”.

“Ricordati del mio invito, Bolin. Se non dovessi venire, verrò a cercarti”.

“Già…”.

Thranduil sollevò gli occhi al cielo. “Già …” disse anche lui sorridendo.

“Bene, io vado”.

“Attraversa il fiume qui, che l’acqua è bassa, poi dopo al massimo un’ora di camminata raggiungerai il Bosco dorato. Sicuramente ci saranno degli elfi al confine, chiedi  a loro il permesso di incontrare la signora del Bosco”.

Bolin ascoltava attentamente, vedeva che Thranduil era stanco, che non era sicuro di farcela ma che non aveva alternativa, che doveva provare ad andare avanti nonostante la spalla gli facesse sempre più male, nonostante non riuscisse a stare in equilibrio e stesse iniziando a chiudere gli occhi. Il suo viaggio verso casa era faticoso ma non si sarebbe fermato, e lui non lo avrebbe deluso.

I due infine si salutarono e le loro strade si separarono.

Glorfindel era sempre stato un elfo molto attivo, praticamente incapace di restare fermo più di due minuti e anche ora manteneva alta la sua reputazione aiutando chiunque poteva, dando anche una mano coi cavalli e facendo tutto ciò che era utile.

Ancora una volta gli elfi si erano dovuti fermare per assistere qualche malato e dar loro un po’ di conforto; Glorfindel si guardò attorno, vide la stanchezza diffondersi tra i suoi amici e compagni, il viaggio proseguiva lentamente, ma nessuno se ne lamentava apertamente.

Elrond apprezzava la pazienza del suo popolo ed egli stesso ne era testimonianza.

“Siamo indietro nel viaggio rispetto ai nostri programmi” constatò Glorfindel.

Elrond sospirò. “In effetti avremmo già dovuto raggiungere il Lothlòrien, ma non ne siamo troppo lontani”.

“Credo che ci vorrà almeno un altro giorno” fece l’altro.

Elrond lo guardò con occhi perplessi.

“Un giorno senza soste, intendo” specificò allora il guerriero.

“E questo è praticamente un sogno, amico mio. Occorre fare almeno due brevi soste al giorno, senza tener conto degli imprevisti che si possono verificare. E’ il minimo”.

Glorfindel riprese a parlare, calcolando ad alta voce le distanze, le varie tappe, il tempo che avrebbero impiegato fino a quando si rese conto che Elrond non gli prestava più attenzione.

“Elrond, mi senti?” chiese allora guardando il figlio del suo amico più caro.

Ma Elrond non sentì, era immobile, e respirava pianissimo a bocca aperta. Glorfindel gli fu accanto in un attimo e gli posò una mano sulla spalla. 

“Ehi, tutto bene?” riprovò il guerriero.

Lo sguardo di Elrond era puntato verso il basso, sulla nuda terra, dove non c’era niente da osservare ma Glorfindel capì a cosa stava assistendo: Elrond stava avendo una premonizione. In quel momento si pentì di aver creato un contatto con l’amico poggiandogli sopra la mano perché sapeva bene che in tali situazioni era necessario non essere disturbati, la mente dell’elfo doveva essere libera da qualsiasi pressione.

Ormai il gioco era fatto e perciò Glorfindel attese immobile fino a quando Elrond non si scosse e prese fiato nuovamente piegandosi sulle ginocchia e contemporaneamente stringendo il braccio dell’amico.

“Elrond, cosa hai visto?” domandò serio il guerriero.

Elrond piegato in avanti tossì e tossì ancora, l’aria di cui aveva tanto bisogno e che sembrava essergli mancata durante tutta la visione sembrava non volesse più arrivargli ai polmoni. Glorfindel lo aiutò a sollevare il petto e posizionandosi dietro l’elfo più giovane gli tenne la fronte con la mano mentre questo riprendeva fiato.

Una volta che si fu calmato, Elrond rispose: “Come hai già certamente intuito ho avuto una premonizione, ma Glorfindel, quanto vorrei che fosse solo la stanchezza, o la mia ansia,  ad avermi fatto vedere ciò che ho visto”.

Glorfindel era più curioso che mai. “E’ qualcosa che puoi dirmi?”.

“Solo se mi prometti che se non si dovesse avverare, mio padre non verrà mai a saperlo”.

L’elfo non era molto favorevole a questa condizione ma sapeva anche che tanto in un modo o nell’altro prima o poi Gil-galad l’avrebbe scoperto da sé. “Va bene” rispose.

“Ho visto lo stemma di Imladris  coperto di sangue e di foglie secche. E ho sentito urlare, un urlo disperato e prolungato…”.

Glorfindel si accigliò, non era la prima visione che Elrond aveva avuto nella sua vita e, benché ciò che vedeva andasse sempre interpretato, tutte le sue premonizioni si erano sempre avverate.

“Glorfindel, cosa vuol dire tutto questo?” domandò con voce tremante. “Tu pensi che mio padre sia in pericolo, o che il male segua il nostro popolo lungo la strada di casa?”.

“Secondo me significa solo che sei  stanco e visto e considerato che lo sarai ancora per un bel po’ ti consiglio di non dare troppo peso a ciò che hai visto”.

Glorfindel mentiva, spudoratamente ed Elrond lo sapeva. Era consapevole che l’amico stava facendo il possibile per tranquillizzarlo, ma lui conosceva bene i suoi poteri e sentiva che l’anello che ora portava in tasca stava amplificandoli, e rafforzandoli.

Istintivamente si tolse l’anello di tasca e lo tenne fra le dita. Glorfindel lo riconobbe subito, Gil-galad gliene aveva parlato e spiegato i poteri, vederlo in mano a Elrond poneva questioni importanti e urgenti.

“Come mai lo hai tu?” chiese pacatamente.

“Me lo ha dato mio padre, temeva che se gli fosse accaduto qualcosa l’anello sarebbe potuto finire in mani sbagliate”.

“Nelle mani di Celeborn” pensò Glorfindel. Se Gil-galad aveva dato l’anello al figlio significava che credeva nella possibilità di non poter più tornare a casa. Glorfindel guardò Elrond e forse per la prima volta lo vide con occhi nuovi.

Quello che si trovava davanti, era sì un giovane elfo e come tutti aveva bisogno di sostegno, ma era soprattutto il suo nuovo Signore, il Signore di tutto il popolo di Imladris, un guerriero, un guaritore, un grande elfo con il dono della preveggenza e la consapevolezza di dover e di poter guidare la sua gente.

“Perché dovrebbe accadergli qualcosa? Teme forse Thranduil?”.

Elrond sorrise e puntando l’indice al viso di Glorfindel gli disse: “Non sarebbe meglio, almeno fra di noi, dire sempre ciò che si pensa? Ci eviterebbe un sacco di giri di parole”.

Glorfindel spostò il dito di Elrond dal suo viso e offrendogli uno sguardo compiaciuto disse: “Allora, Elrond Gil-galadion, perché tuo padre teme Celeborn?”.

Elrond divenne serio e a voce bassa ma chiara spiegò: “Perché potrebbe essere la causa della fuga di Thranduil e forse di un grave tradimento…”

“Tradimento?” domandò il guerriero.

“Sì, il tradimento che portò alla morte di Re Oropher”.

Glorfindel era sconvolto, era un’accusa molto seria, certamente non fatta con leggerezza. Si portò le mani ai capelli e immediatamente disse: “Devo andare a cercare Gil-galad. Lo devo trovare. Celeborn aveva con sé due elfi e…”.

“No,” lo fermò Elrond “se mio padre ti avesse voluto con lui, ti avrebbe chiesto di andare”.

Glorfindel si sentì il sangue ribollire nelle vene: “Mi stai dicendo che lui non mi voleva attorno, io sono il suo migliore amico e…”.

“… e forse per questo ha voluto che restassi con me” concluse Elrond con uno sguardo triste “Forse ha giudicato più importante la mia sicurezza rispetto alla sua, forse ha sbagliato…”.

“No, perdonami Elrond” lo interruppe Glorfindel strofinandosi il viso con le mani callose. “Hai ragione tu, tuo padre mi voleva con te. E aveva ragione lui, tu sei molto importante. Non te accorgi ma sei molto più forte e potente di quanto credi, o forse stai cominciando a capirlo proprio in questi giorni”.

Elrond non rispose niente a quelle affermazioni, troppo grande era l’elfo che aveva di fronte a sé per ergersi come nuovo Signore o come grande elfo, inoltre il Signore  di Imladris, suo padre, era vivo e sperava lo sarebbe stato ancora per molti e molti secoli.

Celebrian saltò di ramo in ramo, di albero in albero più velocemente che poté, ma non riuscì a tenere il passo di Haldir, che a cavallo e di fretta era praticamente irraggiungibile.

Riuscì però a raggiungere il confine del Bosco Dorato e senza più fiato si fermò a riposare su un ramo. Cosa avrebbe fatto ora? Sarebbe tornata indietro dalla madre oppure avrebbe proseguito a cavallo?

Uscire da sola, oltre il bosco conosciuto, era piuttosto pericoloso, e lei aveva sempre avuto una scorta o quantomeno compagnia. Da una parte c’era la sua casa, dall’altra il suo amore.

Ah … se solo avesse ricevuto un qualche messaggio da Elrond, forse le sarebbe bastato o forse no. Lei doveva parlargli, doveva raccontargli di ciò che era successo, di ciò di cui si era resa conto in sua assenza e di cui non aveva parlato a nessuno. Era un segreto, un bel segreto che però non riusciva più a nascondere.

La sua avventatezza avrebbe potuto compromettere la situazione ma in fondo si sarebbe trattato solo di uno o due giorni di viaggio a cavallo. Sicuramente gli eserciti stavano tornando a casa.

Una lacrima scese sul viso della giovane. Cosa sarebbe accaduto se le fosse successo qualcosa? Quale angoscia avrebbe dovuto vivere Elrond? E se fosse svanito?

Celebrian era quasi decisa a tornare indietro quando sentì un gruppo di elfi a cavallo: erano la pattuglia di confine e sembrava si stessero dirigendo verso un elfling. Celebrian guardò con più attenzione, non si trattava di un elfling ma di un nano!

La giovane avanzò ancora fino a che non riuscì ad essere abbastanza vicina per sentire ciò che veniva detto.

“In nome della Signora e del Signore del Bosco Dorato vi ordino di fermarvi!”.

Il nano si fermò.

“Di grazia, mi chiamo Bolin e chiedo il permesso di incontrare la Dama del Bosco Galadriel”.

Gli elfi risero.

“L’ingresso al Bosco è concesso solo agli elfi, nessun altro, né umano, né nano, né altra specie può entrare. La preghiamo dunque di tornare indietro”.

Bolin sbuffò. “Senta, gentilissimo elfo, io devo assolutamente incontrare la vostra Signora. Ho un messaggio per lei da parte del Re di Boscoverde”.

“Ma davvero?” chiesero increduli gli elfi. “Noi sappiamo per certo che il Re di Boscoverde, Oropher, non ha grande simpatia per la tua specie. Perché mai avrebbe consegnato a te un messaggio per la nostra Signora, quando ha un esercito completo a sua disposizione”.

“Oh, ma io non mi riferisco a Re Oropher, il quale in caso non lo sappiate è morto in battaglia. Io parlo di Re Thranduil di Boscoverde”.

Gli elfi ebbero un sussulto nel sentire della presunta morte di Oropher, si guardarono in faccia sbigottiti. “Ciò non cambia la situazione. Se lei non è un elfo non può entrare. Ora, gentilmente, dovrebbe tornare sui suoi passi” disse sfilando una freccia dalla faretra e tenendola in mano.

Bolin non si stupì della situazione, lui e Thranduil avevano previsto questa possibilità, e comunque non c’era tempo da perdere.

“Allora vorrà dire che andrò incontro al Signore di Imladris, forse gli elfi di quel Regno sono più socievoli di voi” sbottò e girati i tacchi se ne andò.

Celebrian non poté credere a ciò che aveva sentito, questo nano andava incontro all’esercito di Imladris. Doveva seguirlo, se davvero Oropher era morto e il nano conosceva Thranduil probabilmente ci si poteva fidare.

Aspettò che la pattuglia si allontanasse, poi fischiò e poco dopo giunse Gwaew. Montò a cavallo e al trotto prese la strada già percorsa da Bolin.

Era buio ormai Celeborn riposava nel vecchio castello di Dol-Guldur. I suoi uomini stavano girovagando là attorno, la foresta sembrava soffrire. Gli alberi bisbigliavano tra loro parole che soltanto alcuni elfi Silvan e la famiglia reale di Boscoverde potevano capire.

Gil-galad si svegliò dopo aver dormito un paio d’ore. Sognò Thranduil che era fuggito ferito e Elrond  che aspettava il suo ritorno.

Ma una volta sveglio aveva sempre in mente Celeborn che controllava scrupolosamente il suo bagaglio. Decise perciò di scoprire cosa nascondeva il Signore del Lothlòrien.

Silenziosamente scese dall’albero e si avviò verso i cavalli. Erano tutti tranquilli, la notte era stellata e serena, non si sentiva un solo rumore.

Gil-galad riconobbe subito il suo cavallo e lo accarezzò dolcemente, poi si avvicinò a quello di Celeborn e iniziò ad osservare ciò che portava addosso finché qualcosa attirò la sua attenzione.

Si trattava di qualcosa di lungo avvolto in una tela pesante. Gil-galad si guardò attorno, non vide nessuno e allora sciolse i laccetti e srotolò la tela. Ciò che vide lo lasciò senza fiato: la spada di Oropher brillava, anche al buio, in tutta la sua bellezza.

Gil-galad si guardò attorno ancora una volta, e ancora una volta non vide nessuno. Osservò la spada. Perché Celeborn l’aveva con sé? Lui era sicurissimo di averla deposta nel sepolcro di Oropher, di avergliela vista sistemata sul petto. Come era possibile?

Se era qui, questa era la prova che Celeborn stava complottando qualcosa. Subito cominciò a riavvolgerla  quando una voce lo fece trasalire.

“Gil-galad, perché tanta fretta? Prendi pure tutto il tempo che vuoi per osservarla. Non trovi anche tu che sia bellissima?”.

Gil-galad strizzò gli occhi per vedere meglio, ma non c’era bisogno di vedere per riconoscere a chi apparteneva la voce. “Celeborn,” disse prendendo in mano la spada “perché hai con te la spada di Oropher? Come è possibile che sia qui, quando l’abbiamo deposta sul petto del suo proprietario?”.

Celeborn fece un passo in avanti e contemporaneamente i suoi due uomini raggiunsero Gil-galad alle spalle e puntarono i loro coltelli alla gola del Signore di Imladris.

“Ah, mio caro Gil-galad, hai perso un po’ della tua velocità. A forza di stare con mezzi-elfi hai finito per diventare più debole”.

“Non credevo di dovermi difendere da te”.

“Oh, suvvia! Non essere così falso!” sputò di rabbia Celeborn “Hai sempre saputo di doverti difendere da me, da quando hai adottato quella feccia di tuo figlio … mi fa schifo soltanto pronunciare quella parola. Secondo te, dovrei lasciare che gli umani contamino il nostro mondo?”.

“Cosa c’entra questo con la spada di Oropher? Con Thranduil?”.

“Ognuno di voi, ciascuno a modo proprio, ha cercato di umiliarmi. Quei due volevano un Regno più grande del mio, e se lo sono presi. Io e mia moglie abbiamo avuto una figlia femmina, e tu ti sei adottato un bastardo sì, ma un maschio”.

Gil-galad era incredulo. “Ma cosa stai dicendo? Celebrian è intelligente, bellissima, dovresti essere fiero di lei”.

“Lo sono, ma non è il maschio che avrei voluto” sbottò lui.

“Maschio o femmina che differenza fa?”.

“Tu però ti sei scelto un maschio!”.

“Io ho preso con me un elfling spaventato dagli orrori visti, piangeva sul corpo della madre, mentre quello del padre lo fissava con occhi aperti ma ormai spenti. Ho preso un piccolo elfo, un mezzo-elfo, è vero, che accettò solo la mia mano tesa, fra tutte quelle che cercarono di aiutarlo. Lo strinsi a me e per un giorno intero non si volle staccare dal mio petto, e quando lo fece fu solo per chiedermi se ero il suo nuovo Ada.  Cosa avrei dovuto rispondergli? Avrei dovuto rifiutarlo? No, non potei farlo e non me ne pentì mai, e mai lo farò”.

“Commovente” lo sbeffeggiò Celeborn.

I suoi uomini sfilarono la spada di Oropher dalle mani di Gil-galad e la passarono a Celeborn.

Egli la tenne in mano, la guardò con lussuria.

“Tu desideri Boscoverde, vero? E per questo che vuoi la spada?” chiese Gil-galad.

“Io,” rispose freddamente l’elfo “desidero il potere” e detto ciò infilò la spada nello stomaco del Signore di Imladris.

Gil-galad gemette di dolore e cadde a terra mentre Celeborn gli sfilava la spada dallo stomaco e ne ripuliva la lama sulle vesti della sua vittima. Poi avvicinò la lama agli occhi di Gil-galad e gli disse: “Una spada non può essere nello stesso posto in due momenti”.

Gil-galad boccheggiò con la bocca piena di sangue e come poté disse: “Allora ci devono essere due spade”.

“Intelligente” rispose Celeborn. “Peccato che la tua scoperta non sarà di nessuna utilità, perché resterà tra te e le stelle”.

Appena Celeborn si voltò, Gil-galad con le sue ultime forze cercò di mettersi a sedere e agganciargli una gamba  ma  uno degli elfi del Lothlòrien tentò di bloccarlo chinandosi e mettendo un ginocchio sulla mano del ferito.

Celeborn non si accorse di lui e voltandosi infilzò chi credeva fosse il suo nemico, uccidendolo sul colpo davanti a Gil-galad.

“Cosa hai fatto?” chiese allora l’altro elfo del Lothlòrien.

Celeborn non si scompose. “Adesso la parte che ti spetta è più sostanziosa. Seppelliscilo e poi andiamo”.

L’elfo prese il suo compagno ormai morto e lo portò via.

Gil-galad era ancora vivo, gravemente ferito, ma vivo. “Non può bastarti”.

“Che cosa?” chiese Celeborn, chinandosi e sfilando i guanti dalle mani di Gil-galad.

“Non può bastarti il potere per vivere, non può bastare a nessuno” disse e poi tutto divenne nero ai suoi occhi, le sue orecchie non sentivano più, ma la sua fae era ancora in lui, sebbene alla vista sembrava l’avesse abbandonato.

Celeborn cercò l’anello del potere di Gil-galad, ma le sue dita erano spoglie, niente le adornava. Solo il segno dell’anello mancante formava un perfetto cerchio nel suo dito indice.

L’urlo di rabbia che lanciò Celeborn fu tale che anche i Valar lo sentirono.

 

 

 

 

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Capitolo 8
*** Messaggi arrivati ***


Ciao! Eccovi un altro capitolo!

Io cerco di non scoraggiarmi, anche se devo dire che un po’ mi state mettendo alla prova. Se volete, se gradite ecc… alla fine del capitolo potete lasciare una recensione per dire tutto quello che volete (nel limite dell’educazione, grazie).

 

Dizionario Sindarin-Italiano

Fae: anima, spirito

Elfling: elfo giovane (non più di 15 anni umani)

Mae govannen: Ben arrivato

 

Celeborn cercò l’anello del potere di Gil-galad, ma le sue dita erano spoglie, niente le adornava. Solo il segno dell’anello mancante formava un perfetto cerchio nel suo dito indice.

L’urlo di rabbia che lanciò Celeborn fu tale che anche i Valar lo sentirono.

 

CAP 8

“Dobbiamo aiutarlo!”.

“Sbrighiamoci!”.

“Non può resistere a lungo, se non facciamo qualcosa!”.

“Non è il nostro signore! Non ci riguarda!”.

“E’ un elfo, e dalla forza che emana la sua fae deve trattarsi di un grande elfo”.

“Non abbiamo nessun legame con lui”.

“Il nostro Re pose una maledizione sull’altro, noi dobbiamo ostacolarlo e salvare lui, che invece tentò di combatterlo!”.

“Dobbiamo essere fedeli al nostro Re!”.

Così discorrevano gli alberi secolari del maestoso Boscoverde il Grande. Gil-galad era ferito gravemente, ma forse per lui c’era ancora qualche speranza.

Era mattina presto quando Bolin si ritrovò sulla riva dell’Anduin. I fiumi gli piacevano ma cominciava a stancarsi di questo in particolare.

Attraversarlo con la pioggia, senza la pioggia, di sera, la mattina non faceva differenza, in ogni modo si sarebbe bagnato e sarebbe rimasto in ammollo a lungo e l’umidità sarebbe penetrata nelle sue ossa  facendolo sentire vecchio come quel vecchio nano che quando era lui era piccolo gli raccontava le sue avventure nelle grotte sotto i mari, dove per andare bisognava salire su una barchetta e sdraiarcisi dentro mentre questa entrava nel grande buco sott’acqua. Una volta entrati il soffitto della grotta diventava più alto e si poteva godere uno spettacolo meraviglioso di stalattiti e stalagmiti.

Ma qui non c’erano meraviglie da osservare, a parte il fiume in sé, e inoltre Bolin non riusciva a comprendere quando profondo potesse essere il fiume, se era prudente attraversarlo in quel punto o se dovesse andare più avanti. 

Quando a un certo punto, “Buongiorno, buon nano” strillò una voce poco distante facendo sobbalzare e cadere di spalle nel fiume.

Bolin cominciò ad annaspare, il respiro gli venne meno, sentiva che l’acqua iniziava a coprirgli il viso e le gambe sbattevano ferocemente per restare a galla.

“Si calmi,” continuò la voce ridendo “non si è accorto di essere proprio sulla riva?”.

Bolin si fermò, le gambe avevano sbattuto contro i ciottoli della sponda del fiume e l’acqua che gli arrivava in faccia la stava sollevando lui stesso a forza di muoversi in maniera forsennata.

La ragazza-elfo scese da cavallo e gli allungò una mano in segno d’aiuto. Egli la tenne e, rosso in viso, disse: “Me ne ero accorto. Ma grazie lo stesso, signora elfo”.

La ragazza-elfo rise ancora.

“Signorina-elfo…” si corresse Bolin facendola ridere ancora di più.

“Signora elfica…” ritentò.

“Va bene, va bene tutto. Ma lei mi può chiamare Celebrian, e per favore diamoci del tu visto che dovremmo fare un pezzo di strada assieme”.

“Come sarebbe?” chiese lui. “Che ne sai dove sto andando?”.

“Ho sentito che parlavi con degli elfi ieri notte e hai detto loro che saresti andato incontro all’esercito di Imladris. Bene, ci sto andando anche io”.

“Io viaggio da solo” disse lui fieramente.

Lei però era molto furba. “Io, no;  viaggio con il mio cavallo”.

Eh sì, un cavallo sarebbe stato molto utile, però era appunto uno, non due.

Celebrian capì a cosa stava pensando il nano. “Però assieme a me può portare anche un nano”.

“Se io fossi una ragazza elfica non mi fiderei del primo nano che incontro per la strada”.

Lei sospirò: “Non lo farei neanche io, ma hai detto di dover raggiungere il Signore di Imladris”.

“Esattamente, il signor Gil-galad o il signor Elrond” spiegò lui compiaciuto “Ho una missione da compiere”.

“Bhè, si dia il caso che sono rispettivamente mio suocero e il mio compagno, e se fossi in te non direi alla prima ragazza elfica che incontro con chi devo parlare e quale ne è il motivo” ribatté con un pizzico di astuzia negli occhi.

Bhè” pensò Bolin “Almeno avrò qualcuno con cui parlare”.

“Vorrà dire che continuerò il viaggio con un altro elfo” disse rassegnato. “Ah … dimenticavo, chiamami pure Bolin”.

Celebrian sorrise, era stato molto facile trovare un po’ di compagnia per il viaggio, sperava di non doversene pentire, ma la sensazione che provava nei confronti di Bolin le faceva dire che era un buon nano.

Thranduil era felice che il suo fosse un cavallo ubbidiente, era bastato che gli dicesse: “Portami a Boscoverde” che Lùth lo aveva accontentato.

Per primo avevano costeggiato l’Anduin, le cui sponde erano fiorite e i cui pesci e erano abbondanti, poi il cavallo, di testa sua, aveva tagliato dritto per la foresta di casa.

Gli alberi erano in festa e parlavano della nascita di un nuovo principe, che si diceva avrebbe avuto molta più affinità con la natura rispetto a suo padre e suo nonno perché per metà era un Silvan.

Thranduil ascoltava con interesse chiedendosi di cosa mai stessero parlando gli alberi, quando da lontano qualcuno lo salutò e prese a venirgli incontro.

Inizialmente non lo riconobbe ma poi il suo viso divenne inconfondibile.

“Padre, cosa ci fai qui?”.

Oropher gli sorrise ma non aprì bocca.

“Dovresti essere morto”.

Il Re sospirò. Allora Thranduil lo invitò ad andare con lui, ma Oropher gli fece cenno di no. Poi con voce amorevole chiese: “Figlio mio, perché sei qui?”.

“Questo è Boscoverde, è il nostro regno” spiegò lui “Dove dovrei essere?”.

Oropher lo guardò con compassione. Troppo grande era il peso che aveva lasciato sulle spalle del figlio, ma non aveva avuto scelta.

“Questo è il Boscoverde del passato, di quanto tu e Wisterian eravate uniti e nasceva il piccolo Legolas, di quando io piangevo di gioia. Questo Boscoverde è quello che porti nel cuore…”.

Thranduil era stordito, cosa stava succedendo?

“Ma tu sei qui…” disse a mezza voce.

Oropher allargò le braccia per accogliere in sé il figlio e lasciandosi andare domandò: “E dove dovrei essere se non nel cuore di chi mi ama?”.

“Oh, padre…” sussurrò Thranduil facendosi avvolgere da quelle braccia forti ma delicate. Fu un attimo e quelle braccia non c’erano più.

 Thranduil aprì gli occhi di scatto e fu investito da un dolore lancinante.  La ferita nella spalla si era riaperta a causa del continuo sbattere sul collo del cavallo, sul quale egli aveva praticamente dormito durante tutto il viaggio.

Il sangue della spalla si era asciugato e il liquido giallastro dell’infezione faceva da collante tra tessuto e pelle. Dovevano fermarsi e riposare. Thranduil pensava a dove poter sostare quando si accorse che Lùth non stava percorrendo la strada che attraversavano in caso di emergenza.

Gli alberi della foresta erano in fermento e non solo per l’arrivo del Re ferito, parlavano di un grande elfo che stava morendo e Lùth lo portava proprio da lui. Thranduil chiuse gli occhi, Lùth andava al trotto, ma al suo cavaliere sembrava che stesse andando ancora più lentamente.

Ogni piccolo passo, ogni sassolino, veniva percepito come una grande fatica. Un sasso e il fiato veniva meno, una radice troppo sporgente e un forte senso di nausea invadeva il suo corpo. Thranduil strinse i denti e senza avere la forza di controllarsi iniziò a singhiozzare.

“Padre, padre …”, queste erano le uniche parole che riuscì a pronunciare prima di svenire nuovamente.

Arrivati a Dol Guldur, Thranduil era ancora svenuto. Qualcuno gli si avvicinò e lo aiutò a scendere da cavallo, lo sdraiò per terra e, dopo averlo spogliato della camicia, esaminò la ferita. La cicatrizzazione era stata interrotta più volte, e attorno al taglio aveva chiazze viola e gialle. Gli elfi guarivano velocemente però potevano morire a causa delle infezioni.

Senza pensarci due volte, qualcuno prese un coltello, ne riscaldò la lama per disinfettarla e poi riaprì la ferita. Thranduil si svegliò di soprassalto e urlò dal dolore, era come se lo stomaco gli stesse salendo su per la gola e poi si riabbassasse bruscamente.

Aveva voglia di vomitare ma era da un po’ che non mangiava e non c’era niente da buttar fuori, la testa gli girava e con essa tutto il mondo circostante, poi sentì qualcuno tenergli la testa in basso spingendogli la fronte e cercando di rassicurarlo che tutto stava andando per il meglio.

Thranduil aveva gli occhi sbarrati, davanti a sé c’era una persona, ma non riusciva a capire chi potesse essere poiché questa indossava un cappuccio.

Si sentì premere sulla ferita con il palmo della mano, probabilmente il suo aiutante misterioso stava facendo fuoriuscire tutto il pus e, quando il sangue fu rosso vivo, riscaldo nuovamente la lama del coltello e gliela appoggiò sulla ferita chiudendogliela.

Ancora una volta Thranduil urlò, una mano gli stava accarezzando i capelli nel tentativo di calmarlo, la foresta attorno a sé era in fibrillazione; la figura che aveva innanzi si alzò in piedi.

“Aspetta. Chi sei? Fatti riconoscere” disse il Re di Boscoverde con la bocca impastata, ma non ottenne nessuna risposta e anche se la ottenne non la seppe mai perché in breve perse coscienza.

Poco dopo, però, si svegliò di soprassalto. Boccheggiò un po’ per l’aria quando gli vennero i connati di vomito a vuoto. In fretta si girò di lato e cercò di assecondare il suo corpo, ma era molto doloroso. Sentì una mano tenergli la fronte e allontanargli i lunghi capelli biondi dalla bocca.

“Tuo padre non vorrebbe che ti sporcassi i capelli in questo modo” disse lentamente un elfo dai capelli neri.

“Elrond!” esclamò Thranduil cercando di mettere a fuoco l’immagine di chi aveva innanzi.

“Ah, no… fortunatamente per lui, no” rispose piegandosi su se stesso.

Thranduil si mise seduto e osservò meglio l’elfo. I capelli neri lo aveva indotto all’errore, si trattava di Gil-galad. Ma cosa ci facesse a Dol-Guldur proprio non riusciva a immaginarlo. Poi il suo viso si posò sullo stomaco del Signore di Imladris, e subito notò la sua ferita.

“Chi è stato?” chiese mordendosi le labbra dal dolore.

“Lo sai. E lo sapeva bene anche Elrond, che mi mise in guardia dicendomi di non fidarmi di- di lui”.

“Celeborn” concluse Thranduil.

“Sì. Thranduil ti devo le mie scuse, se ho dubitato di te, ma sappi …Gil-galad si dovette interrompere, parlare era molto pesante e il fiato veniva meno sempre più in fretta, ” sappi che Elrond ha sempre creduto in te…”.

“Grazie. Ma non devi scusarti. Adesso riposa, poi ti porterò alla fortezza, non ci sarà Elrond ma … ah!” il dolore lo fece zittire.

Gil-galad gli venne vicino, ma gli doleva lo stomaco. La foresta avrebbe voluto curarlo, ma non ne aveva il potere… egli non era il Signore o Re di Boscoverde!

Chinando il capo cominciò anche lui a tossire, e la sua bocca si macchiò di sangue.

Thranduil si spaventò e, seppur dolorante, cercò di dare una mano. Non sarebbero morti, entrambi si sarebbero salvati. Celeborn non avrebbe vinto. Così, retto solo dalla sua forza di volontà, tenne Gil-galad per le spalle e lo fece sollevare.

Il Signore di Imladris sentiva la sua fine vicina e stretto il polso di Thranduil per attirarne l’attenzione ulteriormente, disse boccheggiando: “Thranduil. Celeborn… lui… aveva… la spada… la spada di tuo… padre… con… con… sé. Lui ha detto… che… che ci… sono…due … spade”.

Thranduil si bloccò, non sapeva se preoccuparsi di più per le parole appena sentite o per il sangue che non smetteva di scendere  dalla bocca di Gil-galad.

Il Signore di Imladris cedette, cadde con il viso sulle ginocchia di Thranduil che cercò di svegliarlo ma senza riuscirci. Thranduil avrebbe voluto sollevarlo e stringerselo al petto ma non ce la fece. Nel tentativo di sollevarlo sentì uno strappo nella spalla, la ferita si era riaperta e ancora una volta vide tutto buio.

Allora  il misterioso aiutante sistemò Thranduil nel modo più comodo possibile continuò a scavare la fossa, che già aveva iniziato prima.

“Mio caro amico, non credevo che un giorno saremmo arrivati a tanto”.

“Ne-an-che, nean-che io” si sforzò di rispondere l’altro. “F-for-forse -non dovre-s-sti  f-farlo…” aggiunse con l’ultimo filo di voce tremante che gli era rimasto.

“Non dovrei, ma è la cosa più giusta da fare”.

 

Così dicendo depose dentro l’elfo morto. Lo ricoprì di terra e di grosse pietre e dopo aver pregato Mandos di accoglierne l’anima vi depose sopra lo stendardo di Imladris.

“C-co-cosa ab-abbia-mo f-fa-t-to! Non me l-lo p-per-perdonerò m-mai”.

“Non dire così, Elrond Gil-galadion sarà un ottimo Signore di Imladris”.

“Se-sempre ch-che n-non sv-svani-sca pr-prima”.

Il chiasso e il chiacchierio fece riprendere i sensi a Thranduil, la persona incappucciata aveva ancora la pala in mano. Il Re di Boscoverde non si accorse dell’altra persona che velocemente si era riparata dalla sua vista dietro un albero. Però vide la fossa e vide lo stendardo di Imladris.

Il respiro si fece accelerato, gli occhi del giovane re si riempirono di lacrime, un po’ perché era stanco, debole e ferito, un po’ perché temeva di conoscere la risposta alla sua domanda.

“Chi? Chi è sepolto lì?”.

L’incappucciato sospirò è rispose: “Un grande elfo. Il Signore di Imladris  Gil-galad”.

Thranduil non si rese conto che le lacrime avevano iniziato a scendere sul suo viso, gli occhi erano diventati pesanti e senza nessuna forza per ribattere, gli chiuse e attese che il dolore passasse.

Quando gli riaprì attorno a sé non c’era nessuno, solo una tomba sopra la quale pregare, piangere e far finta che il mondo fosse quello di quando, ancora elfling,  credeva che tutto sarebbe andato per il meglio.

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“Elrond, vedi anche tu quello che vedo io?” chiese Glorfindel fissando un cavallo che correva verso la loro direzione.

“Sì, è riconosco anche chi è”.

Glorfindel sbuffò apertamente. “Io non lo avrei fatto notare ad un elfo più anziano di me”.

Elrond rise: “Mio caro Glorfindel, con tutto il rispetto non conosco su tutta la Terra di Mezzo qualcuno più vecchio di te”.

“Non crederai che tuo padre sia di tanto più giovane di me?”.

“Ma non più vecchio” ribadì Elrond. “Bene, quello che sta arrivando è…”.

“Haldir del Lothlòrien” completò Glorfindel con un sorriso compiaciuto. “A questa distanza vedo bene anche io”.

“Va molto veloce” notò Elrond.

Haldir aveva identificato già da un bel po’ l’esercito di Imladris grazie agli stendardi che i guerrieri, orgogliosamente, tenevano ancora in piedi. Il messaggio da portare era urgente e lui non si era fermato neanche per riposare un momento.

“Buongiorno Signor Elrond di Imladris. Buongiorno capitano Glorfindel” salutò Haldir.

Mae govannen, Haldir del Lothlòrien, o meglio buon pomeriggio sarebbe il caso di dire. Cosa ti porta fino al nostro esercito?” chiese Elrond.

Haldir diede un’occhiata a Glorfindel che, da canto suo, lo fissava con curiosità.

“Preferirei parlarle da solo, se posso. Ho un messaggio per lei dalla Dama del Bosco dorato”.

Elrond e Glorfindel si scambiarono uno sguardo preoccupato, poi il più anziano girò il cavallo e si avvicinò agli altri elfi per controllare se avessero bisogno di qualcosa.

“Dimmi pure, Haldir” lo incitò Elrond.

“La Signora del Bosco ha avuto una visione mentre interrogava lo Specchio. Ciò che vide la spaventò a tal punto che cadde a terra quasi svenuta. Ho avuto il compito di riferire la visione a lei e a nessun altro”.

“Parla, Haldir. Cosa vide Dama Galadriel?”.

Haldir prese fiato e con un filo di voce riferì: “Vide la spada di Re Oropher di Boscoverde il Grande bagnata del sangue del Signore di Imladris Gil-galad, suo padre”.

Elrond restò senza fiato, barcollò in avanti sul cavallo, che subito nitrì. Glorfindel vide il suo giovane amico che dava l’aria di essere stordito, prendere le briglie del suo cavallo nel tentativo di riassumere una posizione di equilibrio.

“Perché a me? Perché il messaggio non era indirizzato a mio padre?”.

“Credo, se posso fare supposizioni, che sia perché anche lei, Elrond, ha il dono di vedere ciò che a gli altri è negato. E forse la mia signora ha pensato che lei avrebbe saputo gestire meglio il messaggio rispetto a suo padre”.

Elrond emise un profondo respiro, bisognava che restasse calmo. Si voltò in cerca di qualcuno e notò, rassicurato, che Glorfindel non lo aveva perso di vista. Guardò il suo popolo che procedeva verso casa. Cosa avrebbe dovuto fare adesso? Cosa si aspettava Galadriel? Avrebbe dovuto lasciare la sua gente e partire alla ricerca del padre?

I feriti andavano curati.

“Haldir, credi che i feriti più gravi potrebbero trovare ristoro nel Bosco Dorato?”.

“Ne sono certo” rispose senza esitazione. “Cosa mi puoi dire degli elfi del Lothlòrien, del mio popolo, del mio Signor Celeborn?”.

Elrond avrebbe voluto spiattellargli in faccia tutti i suoi dubbi, la sua rabbia ma non sarebbe stato giusto. Haldir non aveva nessuna colpa e lui non aveva nessuna certezza. Perciò ancora una volta la sua pazienza la fece da padrona.

“I fatti sono molto più complessi di quanto potrei dirti su due piedi. Ti basti sapere per ora che Celeborn è andato alla ricerca di Thranduil di Boscoverde, il quale era molto scosso dopo la morte di suo padre in battaglia. Gli elfi del Bosco Dorato si sono trattenuti qualche giorno in più nel Dagorlad rispetto a noi, che li abbiamo lasciati sei giorni fa, ma dovrebbero già essere in viaggio verso casa ormai”.

“Sinceramente, la sua spiegazione fa sorgere in me nuove domande e dubbi”.

“Mi stupirei se  fosse il contrario. Ora però dobbiamo riprendere il viaggio. Purtroppo non c’è modo di comunicare con mio padre, e francamente non so neanche in quale direzione siano andati”.

“Se permette, farò il viaggio con voi”.

“Naturalmente. Mi farà piacere avere un po’ di compagnia e ti prego Haldir, chiamami pure Elrond e dammi del tu”.

“Come preferisci, Elrond” annuì Haldir. Elrond gli era sempre stato simpatico, e provava molto rispetto per il mezzelfo come Galadriel. Inoltre aveva visto maturare l’amore che legava il giovane signore di Imladris con Celebrian e non poteva che esserne lieto.

La elleth  era sempre stata molto spensierata ed Elrond cercava con tutti i mezzi di proteggere intatto questo suo genuino e semplice amore per la vita.

Il gruppo cavalcò un paio d’ore, ormai si potevano vedere in lontananza sia Boscoverde sia il Lothlòrien e l’umore degli elfi stava pian piano migliorando. Certo le Montagne nebbiose e Imladris erano lontane ma l’idea di un bosco nel quale riposare faceva star meglio il loro animo.

“Allora da quanti giorni sei in viaggio, Haldir?” domandò Glorfindel che nel frattempo si era riaffiancato a Elrond.

“Da ieri sera”.

“Vuoi dire che ci hai raggiunto in meno di ventiquattr’ore?”.

“Andavo di fretta, capitano Glorfindel”.

“Come sta Galadriel?”.

“La Signora del Bosco sta bene nei limiti della situazione”.

Glorfindel alzò gli occhi al cielo, possibile che Haldir dovesse essere sempre così diplomatico?

“E Celebrian come sta? Scommetto che non vede l’ora di riabbracciare questo Mezzelfo qua. Vero?”.

Haldir sorrise imbarazzato, Elrond invece non rispose niente alla domanda provocatoria dell’anziano amico. Era più interessato a capire chi fosse che gli andava incontro a cavallo.

“Sembra che oggi sia giorno di visite” disse Glorfindel .

Haldir, che in fatto di vista non aveva certo problemi, esclamò. “Non posso crederci! Ma come ha fatto?!”.

“Chi? Chi è?” domandò ancora il capitano della guardia di Imladris.

Elrond però non aveva bisogno di una risposta, avrebbe riconosciuto quel cavallo e la sua cavallerizza a miglia e miglia di distanza. “E’ Celebrian!”.

“Ma chi c’è con lei? Un elfling?”.

Haldir lanciò uno sguardo di disapprovazione a Glorfindel: “Per quanto azzardata possa essere stata la scelta di Celebrian, non avrebbe mai messo in pericolo un elfling portandolo fuori dal Bosco Dorato in un periodo come questo”.

“Azzardata è a dir poco” disse Elrond pieno di preoccupazione.

Intanto i tre aumentarono il passo per raggiungere l’elleth, e rimasero tutti e tre di sasso quando videro che Celebrian viaggiava con un nano.

“Celebrian!” esclamò Elrond scendendo da cavallo.

“Oh, Elrond” rispose lei scendendo a sua volta da Gwaew.

Bolin subitò si lanciò dal cavallo, praticamente rotolando per terra e urlò come se stesse lanciando un grido di battaglia. “Fermi, fermi tutti. Ho una missione da compiere”.

Elrond lo guardò divertito: “Mastro nano, quale che sia la sua missione, faccia attenzione o non basterà tutta la mia arte medica per guarirla”.

Glorfindel era spazientito, ci mancavano solo i nani, i quali non avevano voluto combattere contro Sauron ma si erano rinchiusi nelle loro caverne, miniere o in qualsiasi modo le chiamassero.

“Allora” sbuffò Glorfindel “Quale missione deve compiere un nano? La missione più grande contro Sauron, temo l’abbiate già saltata!”.

Bolin non si fece scoraggiare da queste parole ostili e tolto il pezzo di pergamena dalla tasca lo porse a Elrond.

“Questo è per lei, Signore Elrond di Imladris, grande elfo e guaritore. O no? Forse mi ha detto grande guaritore e elfo… Va bè, non ricordo esattamente. Ma comunque… tenga, da parte di Re Thranduil di Boscoverde il Grande”.

“Da parte di Re Thranduil?” domandò Elrond incredulo.

Bolin lo guardò serio e ripetè: “Re  Thranduil…” poi indicando la foresta in lontananza e ammiccando aggiunse: “… di Boscoverde il Grande, già”.

Celebrian rise, questo nano le era troppo simpatico, inoltre le espressioni di Elrond, Haldir e Glorfindel erano impagabili.

Elrond non sapeva come interpretare i modi del nano però prese la pergamena e aprendola domandò: “Di preciso quando, dove e come hai conosciuto Thranduil?”.

Bolin si massaggiò la barba e spremute le meningi raccontò: “L’ho conosciuto vicino, se vogliamo, al luogo dove è stata combattuta la grande battaglia contro il Male, nella quale Thranduil mi riferì che è morto suo padre. Lui era ferito alla spalla e io mi sono fermato per dargli un po’ di assistenza. Già. Diciamo pure che dopo aver chiacchierato un po’, ed esserci conosciuti meglio… e io, badate bene, ho fatto amicizia anche con Lùth, il suo cavallo, mi ha chiesto di portare questo messaggio alla Dama del Bosco del Lothlòrien, quel Bosco Dorato… anche se io ci sono stato e badate, gli alberi sono alberi verdi non d’oro! Comunque … elfi davvero strani e poco simpatici quelli là, non mi hanno fatto entrare perché non sono un elfo … ahah! Per le orecchie avrei anche potuto darmi un’aggiustatina ma crescere ormai non cresco più…”

“Mi pare evidente! Anche io sono un elfo del Lothlòrien” lo interruppe Haldir gelidamente, ma Bolin non si scompose.

“Eh… e difatti sei un tantino come loro”.

Glorfindel era assolutamente divertito da questo nano e gli fece cenno con la mano di non far caso a ciò che diceva Haldir e di continuare a parlare.

“Comunque io non resto dove non sono gradito, e Thranduil mi aveva detto “Se là non ti fanno passare, vai incontro all’esercito di Imladris e chiedi di Gil-galad oppure Elrond e consegna a loro questo messaggio”. Ora, io sono qui, il messaggio lo hai tu. Missione compiuta!”.

Elrond gli sorrise e infine aprì la pergamena e lesse: “Se credi in me, recupera la spada di mio padre. E’ di vitale importanza! Il tuo amico, Thranduil”.

Tutti erano curiosi di sapere cosa dicesse il messaggio, ma Elrond con un sorriso di circostanza ripiegò il biglietto e lo mise in tasca.

“Mastro nano…”.

“Bolin, mi chiami Bolin, per favore”.

“Bolin, quando è l’ultima volta che hai visto Thranduil? Sai dove stava andando?”.

“Certo, certo. Ci siamo separati ieri pomeriggio, sul tardi e lui era diretto a Boscoverde, aveva premura di arrivare in fretta alla sua fortezza. Ma essendo ferito mi disse che sarebbe passato all’interno della foresta, che l’avrebbe aiutato a guarire”.

“In che modo?” domandò Haldir.

“Questo non lo so, ma lui ne era convinto” spiegò Bolin.

 “Bene, allora i piani sono cambiati” disse Elrond. “Per prima cosa,” disse dando la pergamena a Glorfindel “affido a te questo incarico. Sii più veloce che puoi e raggiungici alla fortezza di Boscoverde”.

Glorfindel aprì la pergamena, lesse a sua volta il biglietto e dopo aver assicurato Elrond che sarebbe stato più veloce che poteva andò via.

Gli altri restarono a bocca aperta, tutti volevano conoscere il contenuto del messaggio, ma Elrond non aveva alcuna intenzione di svelarlo. “Poi noi andremmo avanti e Bolin, tu mi indicherai il punto preciso nel quale vi siete separati con Thranduil. Là i feriti verranno portati nel Lothlòrien, dove si fermeranno anche Haldir e Celebrian”.

“Io non mi fermo là. Io sono venuta per stare con te… tu non puoi capire come mi sento lontano da te…”.

“Se lei resta, resto anche io” aggiunse Haldir che non voleva lasciare la figlia di Galadriel da sola.

Elrond sospirò.

“A questo punto, però dovrai dirmi perché tuo padre Gil-galad e il signor del Lothlòrien Celeborn, stanno cercando Thranduil!”.

“Celeborn! Il cugino di Thranduil?” chiese spaventato Bolin

Elrond guardò minacciosamente Bolin. “Esattamente lui. Ma tu, cosa sai di Celeborn?”.

Bolin si pentì di non aver saputo frenare la lingua, ma ormai era accaduto e ora avrebbe dovuto dare a tutti le giuste spiegazioni.

“Si è azzoppato! Non può andare avanti o rischierà di doverlo uccidere!”.

“Maledetto cavallo!” si lagnò Celeborn. “Abbiamo fretta e questo si azzoppa! Ah! Valar!”.

Celeborn smontò da cavallo, certamente non poteva proseguire a cavallo, ma neanche a piedi. Prese la borraccia d’acqua, qualcosa da mangiare e la spada di Oropher e li sistemò sull’altro cavallo.

“Sta pensando di andare a piedi? O vuole camminare sugli alberi?”.

Celeborn era sdegnato. “Non sono un silvan, per camminare tra gli alberi”.

L’elfo non gli fece notare che, per quanto lui ne sapeva, anche la figlia Celebrian camminava e correva tra gli alberi e lo invitò a montare anche lui sul suo cavallo.

Celeborn stava per accettare, quando sentì il trottare di un cavallo. Lui e il fedele elfo del suo regno si nascosero e aspettarono di vedere chi arrivava. Ed ecco che Celeborn lo vide! Che bello! Sarebbe stato facilissimo! Sapeva cosa fare! Ci aveva pensato sopra durante tutta la cavalcata con Gil-galad, come fare ad attirare Wisterian e Legolas se Galion non fosse riuscito a portare a termine il suo compito? Gli serviva un esca! Ed ecco proprio lì sotto i suoi occhi: Thranduil di Boscoverde a cavallo.

Con un balzo i due elfi furono sul re, facendolo cadere. Thranduil che si stava appena riprendendo grazie all’energia trasmessagli dalla foresta, cadendo batte la testa giusto il tanto di perdere i sensi.

 

 

 

 

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Capitolo 9
*** Il dolore colpisce all'improvviso ***


Con grande ritardo, ecco a voi il nuovo capitolo. Però è un bel capitolo, spero che vi appassioni. A presto, Alida

 

 

Con un balzo i due elfi furono sul re, facendolo cadere. Thranduil che si stava appena riprendendo grazie all’energia trasmessagli dalla foresta, cadendo batte la testa giusto il tanto di perdere i sensi.

 

Cap 9

Quanto può pesare la preoccupazione per chi si ama? E’ un continuo stillicidio del cuore che niente può interrompere se non la certezza che chi si ama è al sicuro e indenne. Talvolta può essere d’aiuto aprirsi e raccontare, a qualcuno capace di ascoltare, le ansie che si vivono.

Così cantava dolcemente il giovane Legolas nel giardino privato di famiglia:

“Betulle argentate che lente ondeggiate

la brezza del vento vi culla d’amor.

L’usignolo fra i rami cinguetta contento

ma il mio cuore è in fermento. Quando si placherà?

Chi aspetto non parla, non sogna e si nega,

le porte al mio spirito ha chiuso e io prego.

Ah, Valar! Prendete i miei occhi e portateli a lui

ch’io veda che bene il suo corpo riposi,

che riprenda le forze e al mio animo acceda

e canti parole, parole d’amor.

Oh, Mandos! Mio nonno accogliesti,

lasciami il padre che tanto mi amò.

Risparmia al mio cuore un altro dolore,

tutto sopporto ma questo mai, no.

Betulle argentate che lente ondeggiate

la brezza del vento vi culla d’amor,

io sono una foglia e lento cammino

il suo dolce ricordo mi culla nel cuor”.

“Legolas, non dovresti preoccuparti così tanto, sono sicuro che tuo padre sta bene. E’ con gli altri elfi, e se sta male lo cureranno” disse Fidelhion sedendosi accanto al ragazzo.

“Come fai a dirlo?”.

“Come fai a dire il contrario?” chiese dolcemente l’elfo che non conosceva assolutamente la capacità che Legolas e Thranduil avevano di comunicare a distanza.

Legolas sorvolò: “E’ un presentimento!”.

“Anche io ho un presentimento,” disse Fidelhion “ e cioè che se continui a buttarti giù di corda, quale che sia il tuo destino non riuscirai ad affrontarlo”.

Legolas lo guardò dritto negli occhi, nei quali poteva leggere la verità delle parole appena pronunciate. Se suo padre fosse tornato ferito, avrebbe dovuto essere forte e aiutarlo come suo padre faceva con lui quando ne aveva bisogno; se si fosse trovato nella situazione di dover percorrere il passaggio segreto, addirittura senza sua madre, di forza gliene sarebbe servita molta di più.

“Vedrai che ce la farà e poi ricordati sempre che non è solo”.

Legolas gli rivolse uno sguardo interrogativo. “Per esempio?”.

Fidelhion rise, tale padre, tale figlio! Sempre molto concreti. “Per esempio Galion”.

“Già, Galion!” esclamò il giovane elfo sentendosi improvvisamente rassicurato. Il padre gli aveva mostrato il volto di Celeborn, lui era l’uomo da temere, ma Galion sicuramente l’avrebbe protetto. Egli infatti era stato un grande amico del nonno. Era bello, pensò Legolas, potersi fidare di qualcuno.

Thranduil era a terra, con il viso che annaspava per un po’ di ossigeno tra le foglie secche. Chissà mai perché gli alberi stanno perdendo le foglie… non siamo in autunno pensò Thranduil, quando venne raggiunto da un calcio alle gambe, e poi uno al petto e un altro e un altro ancora.

Cercò di proteggersi con le braccia ma si rese conto che qualcuno gliele aveva legate dietro la schiena.

“Svegliati, bel principino”.

“Bel Re, bisogna dire… ormai è un Re… anche se lo sarà per poco” sghignazzò una voce che aveva un non so ché di familiare. Thranduil ci pensò su e poi capì a chi appartenesse quella voce: Celeborn.

“Assassino!” riuscì a dire Thranduil.

Celeborn gli tenne il colletto della camicia e tirò a sé il viso del re di Boscoverde. “E chi avrei ucciso? Sentiamo!”.

Thranduil tossi. “Gil-galad!”.

“Ah, mi è dispiaciuto moltissimo” rispose Celeborn buttando nuovamente a terra Thranduil.          “Naturalmente avrei preferito che fosse Elrond, ma che vuoi farci… alla fine anche lui va benissimo”.

“Che cosa vuoi, Celeborn? Possibile che … che non ti sei ancora reso conto che non riuscirai ad avere ciò che vuoi?” chiese Thranduil cercando di mettersi a sedere; parlava velocemente, perché il fiato era sempre più corto e anche se qualche parola non gli usciva proprio bene, voleva comunque dire tutto ciò che aveva da dire.

Celeborn era furente; anche se legato e ferito il cugino non si dava per vinto, cercava in tutti i modi di averla vinta. Presto però avrebbe capito chi avrebbe trionfato e allora si sarebbe dovuto arrendere. Lui non gli avrebbe lasciato niente per cui valesse la pena di vivere e così sarebbe svanito.

Senza alcun preavviso Celeborn diede un calcio ai reni del povero Thranduil che fece il possibile per trattenere un urlo, ma non poté nascondere la smorfia di dolore che gli si stampò sul viso sudato.

“E’ facile prendere a calci qualcuno che è legato e ferito. Ma è sempre stato così. Ti devi accontentare di poco”.

“Zitto, zitto!” strillò di rabbia Celeborn, mentre con forza gli scagliava contro ancora un altro calcio.

Thranduil prese fiato, una foglia secca gli entrò in bocca e lui la risputò fuori tossendo. “Cosa vuoi fare? Mi vuoi uccidere?”.

Celeborn si chinò all’altezza del cugino, gli sorrise e cercò di sistemargli i capelli mentre lo guardava con finta compassione. “No, cuginetto, lo sai che ti voglio bene”.

Thranduil spostò di scatto la testa. “Non mi toccare, mi fai schifo”.

Un forte schiaffo colpì in viso Thranduil facendogli girare la testa e per un attimo non seppe più dove si trovava. Aprì la bocca per respirare e si accorse di averla piena di sangue, ne sputò  un po’ per terra e poi cercò con lo sguardo Celeborn.

Stava lì, in piedi e lo sovrastava ridendo. “Ah, ah.. Hai provato un po’ di dolore, vero?”.

Thranduil non rispose.

“Anche io lo avrei provato se  fossi stato colpito da questo” disse mostrandogli l’anello infilato nel dito indice. Era un anello d’oro bianco in filigrana con piccoli diamanti che formavano una foglia le cui venature erano di smeraldi verdi.

Gli occhi di Thranduil si riempirono di lacrime, che però  non lasciò cadere; il suo volto da sgomento passò in un attimo ad essere pura espressione di disprezzo verso Celeborn.

“Quell’anello è di mio padre. Del Re di Boscoverde il Grande, tu non lo meriti. Non ti appartiene!”.

“Un oggetto appartiene a chi lo possiede” rispose Celeborn.

“Prendi questa foglia” continuò strappandola da un ramo “è sulla mia mano e dunque è mia”.

I tre elfi posarono gli occhi sulla foglia per un attimo, ma tanto bastò per vederla raggrinzire. Thranduil, si asciugò il sangue che lentamente scendeva dal labbro al mento, un pizzico di soddisfazione apparve nel suo viso. “Come vedi neanche la Foresta ti vuole!”.

Un altro colpo investì la testa di Thranduil, che non riuscì da che parte fosse provenuto il colpo, forse era stato un pugno, più probabilmente un calcio, e in un attimo tutto divenne nero.

“Non è che stavo annegando…”.

“Certo che no, eri sulla sponda!”.

Elrond e Haldir ascoltavano divertiti il primo incontro tra Bolin e Celebrian, il viaggio stava proseguendo con velocità. I feriti venivano curati, e i meno gravi ormai erano quasi guariti del tutto, grazie alle straordinarie capacità di autoguarigione della loro specie.

“A cosa pensi, Elrond? Sei preoccupato?” domandò Celebrian.

Elrond alzò lo sguardo verso la sua amata, la vedeva diversa, forse la guerra lo aveva cambiato, forse il nuovo Elrond non sarebbe piaciuto a Celebrian. Ma non voleva parlare di cose private davanti a tutti e perciò disse: “Penso a Glorfindel. Spero che riesca a compiere al più presto la missione che gli ho affidato e torni presto da noi”.

“Lo speriamo tutti” concordò Haldir.

“Già!” concluse Bolin.

Celebrian sorrise a Elrond, doveva parlargli, spiegargli il motivo per cui aveva lasciato la sua casa e gli era andata incontro. Era stata mossa dal desiderio di vederlo, ma non era solo questo. C’era qualcos’altro, di molto importante. Si era ripromessa di confidargli tutto appena incontrato, ma con Bolin e Haldir costantemente al loro fianco non se la sentiva. Avrebbe aspettato e poi quando si sarebbero trovati da soli gli avrebbe detto tutto.

Nel frattempo il tempo passava, il sole divenne alto in cielo e il caldo afoso aumentò. L’Anduin era sereno e gli elfi godevano del canto del fiume.

“Stiamo andando piuttosto veloci. Non trovate?” domandò Bolin.

“Haldir ha impiegato meno di 24 ore per raggiungerci” disse Elrond, “Non penso che saremo altrettanto rapidi, però sarebbe l’ideale se giungessimo al punto in cui ti separasti da Thranduil entro la sera”.

Il silenzio ripiombò sul gruppo per qualche ora. Elrond sentiva tutto il peso dell’anello che portava; aveva poca importanza che lo tenesse in tasca o legato al collo, il suo potere era notevole. Mentre cavalcava sentì una voce Gil-galad, stai attento! Il pericolo incombe su di te! Ho visto la scura ombra del Dol-guldur sovrastare il tuo viso. Spero di non essere in ritardo.

Elrond si voltò per individuare da dove venisse la voce, ma solo il suo esercito stava alle sue spalle. Celebrian lo guardò e poi abbassò lo sguardo alla tasca dei pantaloni di Elrond, qualcosa brillava al suo interno.

Anche lui si accorse del bagliore e senza che Haldir o Bolin se ne accorgessero, infilò la mano in tasca e estrasse appena appena l’anello, di modo che Celebrian lo vedesse e si rassicurasse che niente di grave stava accadendo.

Celebrian sussultò e a voce bassa domandò: “Sta brillando. Mia madre ti ha contattato?”.

Elrond fece cenno di sì con la testa e rinfilò l’anello in tasca. Celebrian gli sorrise.

“Dobbiamo andare più veloci, è necessario raggiungere in fretta Dol-guldur!” disse Elrond, “Darò ordini su chi deve guidare l’esercito fino al Lothlòrien e poi fino a casa, e aumenterò l’andatura del mio cavallo. Chi vuole seguirmi, dovrà andare veloce. Non ho intenzione di aspettare nessuno” concluse posando il suo sguardo sul nano.

“Uffh! Certamente non sarò io a rallentare il gruppo!” rispose indignato Bolin.

“Proprio quello che volevo sentire!” rispose Elrond.

Così fecero e verso le otto di sera, Elrond, Celebrian, Haldir e Bolin  giunsero a Dol-guldur.

Lùth aveva assistito impotente al pestaggio del suo padrone, aveva cercato di divincolarsi e colpire con gli zoccoli Celeborn ma l’altro elfo glielo aveva impedito. Quando poi aveva provato ad alzare le gambe anteriori e colpire Celeborn in fronte, Thranduil lo aveva dissuaso, poiché temeva, e con ragione, la reazione del cugino. “Non temere, sopporterò. Ti prego, non ribellarti!” gli aveva detto prima di svenire per l’ennesima volta.

Lùth cercò di avvicinarsi con il muso per annusarlo e scuoterlo, ma Thranduil non dava segni di essere cosciente. Allora Celeborn gli sciolse le mani che erano legate dietro la schiena, e gliele legò in avanti, poi lo legò con una fune lunga circa due metri alla sella, e dopo essere salito sopra al cavallo partirono al trotto.

Lùth  nitrì di preoccupazione e angoscia, sentiva il peso del suo padrone che veniva trascinato nella foresta, cercò di evitare fossi, radici molto grosse, tronchi caduti e massi, ma in ogni caso era Celeborn che lo guidava e a lui non importava niente del nuovo Re di Boscoverde.

Celeborn sapeva che i cavalli avevano un cuore, un’anima e anche un cervello, ma sottovalutava enormemente la loro capacità di ricordare. Ignorava che la memoria di Lùth, un giorno, gli avrebbe presentato il conto.

Avanzavano senza sosta, a tratti Thranduil riprendeva i sensi e chiamava Celeborn, pregava i Valar che tutto finisse in fretta. La fune era stretta ai polsi e sfregava la pelle, ogni passo di Lùth era un sobbalzo che tirava polsi e spalle.

Thranduil aveva provato più volte a mettersi in piedi ma non aveva forze, i pantaloni erano ormai a brandelli, le ginocchia insanguinate, così come le cosce. Cercava di sollevarsi ma come le ginocchia cedevano, cadeva a peso morto e ormai anche la camicia era solo un ricordo e i capelli un pasticcio di terra, sangue e sudore.

Celeborn si fermò all’improvviso. Era ancora arrabbiato, il tempo stava diventando nuvoloso, alzò lo sguardo al cielo ma non vide altro che un mare di foglie, era come se la foresta si stesse chiudendo in sé, nascondendo anche la bellezza del cielo.

Scese da cavallo e preso Thranduil per le spalle lo sollevò e lo sbatté su Lùth, poi gli tirò i capelli facendogli dondolare la testa avanti e indietro. Thranduil non sapeva perché si erano fermati. Forse Celeborn non voleva più trascinarlo con sé, forse lo voleva abbandonare nella foresta, forse voleva eliminarlo definitivamente.

“Cosa facciamo? Ci fermiamo?” chiese l’elfo complice.

“Sì, credo che sia la cosa migliore da fare. Inoltre ho una strana sensazione. E’ come se ci fosse qualcuno nelle vicinanze”.

“Chi potrebbe essere? Forse qualche elfo silvano”.

“No, sono tutti nel Dagorlad, e quelli rimasti nella Foresta staranno nascosti nella fortezza. Certamente non se vanno in giro… E tu sollevati!” urlò a Thranduil che lentamente scivolava verso terra.

“Non ce la fa! Ahah!”.

“Vediamo se così ci riesce”, sputò fuori Celeborn prendendo la spada di Oropher e puntandogliela alla gola.

Thranduil non era stupito, Gil-galad lo aveva avvisato, tuttavia gli fece impressione. Mai e poi mai aveva associato l’anello del padre o la sua spada ad una sofferenza personale, la mano di Oropher con indosso l’anello gli aveva accarezzato le guance paffute quando era stato un piccolo elfo, la spada era sempre stato il mezzo con il quale il padre lo avrebbe difeso dai mali del mondo e ora sembravano essere diventati strumenti di dolore.

Ma non sono gli oggetti che causano sofferenza, sono le persone, e Thranduil stava perfezionando la lezione che la vita aveva già avuto modo di spiegargli.

La lama della spada fece pressione alla gola. Thranduil trattenne il respiro e poco dopo Celeborn premette giusto il tanto perché una linea di sangue, l’ennesima, venisse disegnata nel corpo martoriato dell’elfo.

Poi appuntò la lama su un tronco e spinto Thranduil a terra lo trascinò fino all’albero più vicino. “Stai buono lì, e non ti legherò anche le caviglie. Dobbiamo riposare e poi ripartiremo”.

Thranduil non disse una parola. Voleva riprendere le forze, dare sollievo al suo corpo, starsene a contatto con l’albero che avrebbe potuto guarirlo un po’, riposare, magari contattare Legolas e anche tante cose che però non riuscì neanche a pensare, perché il sonno lo avvolse con dolcezza in brevissimo tempo.

Celeborn e il complice si poggiarono a un masso e copertisi con un mantello si addormentarono. Nessuno dei tre elfi, presi dalla loro situazione, si era reso conto che qualcuno aveva visto la scena: Thranduil legato, Celeborn che gli puntava la spada, la bellissima spada, simile ad una vista tempo prima, e anzi doveva essere proprio quella.

I nani di Rhiaian erano stati immobili, avevano trattenuto il respiro e osservato tutto. Rhiaian non era coraggioso, era certamente avido ma non imprudente, e comparire così all’improvviso non era nei suoi piani, tanto meno poteva essere utile, inoltre i suoi quattro compari dovevano restare all’oscuro di tutto. Però quella spada faceva gola anche a loro, chiunque ne sarebbe stato affascinato, quanto più un nano.

Decisero però, una volta che gli elfi si erano addormentati, di proseguire, senza indugi. Il destino aveva mostrato loro un interessante quadretto e non era detto che non si sarebbero più incontrati.

Fecero silenzio, ma non abbastanza. Thranduil, che dormiva, ma i cui sensi erano sul chi va là, aprì gli occhi per scoprire la causa del rumore, o almeno tentò di farlo. L’occhio destro infatti non volle collaborare e restò chiuso, Thranduil lo toccò con le dita e nonostante queste avessero  poca sensibilità riuscì comunque a capire che era gonfio come tutto il lato destro del suo viso.

Il dolore lo invase, si dimenticò dei rumori sentiti e cercò di guardarsi attorno. Vide Celeborn e il complice addormentati. Lui aveva le mani legate ma non le gambe, provò ad alzarsi e senza chiederlo ricevette un aiuto insperato.

L’albero chinò i suoi rami e avvolgendolo lo aiutò a stare in piedi, lentamente Thranduil riuscì a fare un passo alla volta allontanandosi sempre più, quando il ramo non fu più della lunghezza sufficiente gli si sostituì un altro ramo e un altro ancora e così per diverse centinaia di metri la foresta portò in braccio il suo Re.

Lo fece con grande amore e dedizione fino a quando Thranduil non ce la fece più neanche così e, lasciandosi cadere a terra, riprese a dormire.

Finalmente poteva vederlo: l’ingresso della fortezza di Oropher, Re di Boscoverde. Finalmente, pensò Galion, il futuro è vicino.

L’elfo nascose la sua perfidia al mondo e assumendo un atteggiamento triste e desolato si spinse in avanti, scese dal cavallo e si accorse che laddove si sarebbe aspettato di vedere diverse guardie non c’era nessuno.

Se il Re lo sapesse! pensò Galion, e questo pensiero gli diede fastidio. Era lì per compiere una missione: eliminare Wisterian e Legolas, e il suo pensiero più spontaneo era rivolto al suo ex-Re, il quale era morto anche grazie a lui.

Portò il cavallo nelle stalle e poi entrò nella fortezza. Dopo pochi passi venne accolto da una guardia. “Capitano! Sono felice di vederla rientrare” disse l’elfo salutandolo, “Ma mi dica, dove sono tutti gli altri?” chiese aspettandosi di vedere qualcuno al suo seguito.

Galion gli sorrise: “Nedhian, è un piacere essere a casa. Sono da solo e purtroppo porto tristi notizie. Vorrei parlare immediatamente con la moglie del principe Thranduil e se possibile anche con il giovane Legolas”.

Nedhian si rattristì, vedeva che il suo capitano portava un peso nel cuore e nello spirito e credeva sinceramente che fosse stata la guerra a renderlo triste, non sapeva che le azioni malvagie che compiamo avvelenano il nostro spirito e appassiscono i nostri cuori.

Subito il giovane fece chiamare Wisterian e Legolas, che vennero accompagnati da Fidelhion fino alla sala del trono.

Appena Legolas vide Galion avanzò verso lui e dopo avergli dato un tenero abbraccio, chiese subito del padre. Wisterian gli disse di calmarsi e dare la parola all’amico fedele del nonno.

“Porto notizie funeste. Purtroppo il Re Oropher è caduto in battaglia”.

Wisterian e Legolas lo sapevano già, ma poiché nessuno sapeva della capacità che Thranduil e il figlio avevano di comunicare, dovettero manifestare una certa sorpresa. Era comunque una notizia devastante perché confermava ciò che speravano non fosse vero.

Il grande Oropher era morto. Gli occhi di Wisterian si riempirono di lacrime, Fidelhion era sconvolto. Galion aveva solo un’idea in testa: liberarsi di Wisterian, ma la presenza di Fidelhion rendeva tutto più complicato.

“Continua, Galion. Dimmi pure di mio marito” lo incitò la donna elfo.

Galion tossì. “Potrei parlarle in privato?” domandò mostrandosi a disagio davanti a Legolas.

“Io voglio sentire” si puntò Legolas. “Sono abbastanza grande, mamma. Voglio sapere di mio padre”.

“Parla pure, Galion”.

“Bene, mi dispiace dirvelo, ma non ho scelta. La battaglia è stata dura per tutti, molti elfi, tra cui in nostro amato Re, sono entrati nelle Sale di Mandos. Il dolore e l’orrore dilagavano nella grande piana. In quello scenario di sangue e terrore anche vostro marito” disse rivolgendosi a Wisterian e rivolgendosi a Legolas “e vostro padre è rimasto gravemente ferito”.

Legolas scosse la testa. “Non è vero!”.

“Vorrei che non lo fosse” tentò di convincerlo Galion.

“Stai mentendo! Mio padre non sta male!”.

“Legolas, stai calmo. Probabilmente non è grave” provò a tranquillizzarlo Wisterian.

“Mamma, quello che dice non è vero! Sta mentendo!”. Legolas era sicuro di ciò che diceva, suo padre forse non stava benissimo ma non era rimasto ferito gravemente in battaglia altrimenti non avrebbe mai avuto la forza di mettersi in contatto con lui.

Lo stesso pensiero lo ebbe anche Wisterian, ma del resto perché non avrebbe dovuto fidarsi di Galion, che era stato fedele amico di Oropher, suo consigliere, e guida di Thranduil durante la sua crescita quando, per ragioni di stato, Oropher non aveva potuto?

Ora l’importante era mantenere la calma e poi tutto si sarebbe chiarito. “Legolas, forse faresti meglio a lasciarmi sola con Galion. Fidelhion, prenditi cura di lui”.

“Ma… mamma!” si lamentò il ragazzo.

Wisterian lo accarezzò in viso e ancora una volta gli disse di uscire. Legolas uscì dalla sala accompagnato da Fidelhion. Nel corridoio non c’era nessuno. “Andiamo, Legolas” lo invitò Fidelhion.

“Io non mi muovo da nessuna parte” rispose Legolas avvicinando l’orecchio alla porta.

Fidelhion lo riprese. “Il tuo comportamento non si addice a un membro della casa reale”.

“Allora fai conto che sia un semplice elfo” disse cercando di ascoltare la conversazione dentro la stanza.

“Se fossi un semplice elfo, ti avrei già preso per la punta delle orecchie e…”.

“Sh! Fidelhion, non sento!”.

“Oh, Valar! Tua madre non mi perdonerà mai…”.

“Fidelhion, per favore…”.

L’elfo si mise le mani fra i capelli, doveva cedere, Legolas era troppo testardo.

Dentro Galion portava avanti la sua sceneggiata. “Gli orchi erano centinaia, mia Signora. Re Oropher è caduto combattendo e Thranduil assistette alla sua morte, lo vide accasciarsi al suolo e fu colpito a sua volta da un orco. La scimitarra nera si è abbattuto sul petto di Thranduil. Lui ha provato a resistere ma il dolore era troppo intenso”.

Wisterian piangeva al pensiero del marito ferito; non era importante se fosse vero o meno, il solo immaginarlo sanguinante la faceva star male. Però l’idea di suo suocero che si faceva sopraffare da un orco era davvero incredibile.

“Come è caduto Oropher? Mi sembra così strano…” domandò volendo sinceramente capire.

Galion rispose immediatamente: “Lui era forte, ma era come se la spada non lo assecondasse”. Fu un passo falso, e Galion se ne rese conto. “Forse il destino che i Valar hanno deciso per lui…”.

“Aspetta,” lo interruppe lei “cosa centra la spada? E’ una spada elfica! Non avrebbe mai potuto tradirlo”.

Galion infilò la mano nella tasca interna della giacca dove un pugnale era stato sistemato precedentemente. “Mia Signora, in battaglia tutto può succedere”.

“Galion,” domandò Wisterian “Come è stato ferito di preciso Oropher?”.

Galion era infastidito, perché Wisterian chiedeva del suocero e non del marito? Non le bastava ciò che le aveva detto?

“Cosa devo dire a Legolas? Lui vorrà sapere” insistette lei.

“Ah, Wisterian! Cosa vuoi dirgli!” sbottò lui prendendo il pugnale e mostrandolo a Wisterian“Digli solo che suo nonno ha avuto ciò che si meritava” .

“Oh, Valar!” urlò lei vedendogli l’arma in mano. “Galion, cosa vuoi fare?”.

Legolas sentì la madre gridare.

“E anche tu avrai quello che ti meriti!” continuò Galion agitando il pugnale in faccia a Wisterian che  a quel punto chiamò aiuto.

A quel punto Fidelhion e Legolas entrarono nella Sala del trono, sfondando praticamente la porta e cadendo per terra. Legolas si alzò in un secondo spinto dal desiderio di proteggere la madre, ma Fidelhion non avrebbe lasciato che succedesse qualcosa a giovane elfo, lo aveva promesso a Wisterian dopo che lei gli aveva mostrato il passaggio segreto.

Galion prese lo slanciò e con forza pugnalò Wisterian allo stomaco.

Legolas si lanciò su Galion, ma troppo tardi; il sangue di Wisterian bagnò tutta la sua tunica verde chiaro. “No!” si disperò Legolas di fronte alla madre sanguinante.

Fidelhion gli fu addosso in un attimo e lo prese di peso allontanandolo da Galion. “Scappa! Legolas, scappa!”.

Galion, con il pugnale in mano, si buttò contro Legolas, ma Fidelhion non glielo permise, frapponendosi fra l’arma e il giovane elfo.

“Sca-…ppa, Le…” la fine rimase in gola a Fidelhion dove Galion spinse il pugnale.

Legolas corse via, più velocemente che poté. Dove doveva andare? Dove poteva andare? Che strada doveva prendere? Le lacrime gli scendevano sul viso mentre correva. Senza sapere come arrivò davanti alla porta della sua stanza, stava per entrarci quando si ricordo del passaggio segreto nella stanza dei suoi genitori.

Piangendo e singhiozzando cambiò direzione e in breve si trovò nel buio passaggio segreto. Corse, corse  e corse ancora fino a che non si ritrovò all’esterno con il vento freddo sul viso.

Non si accorse che Galion lo aveva seguito, e poi perso di vista prima di arrivare davanti alla porta della sua camera.

Non vide Fidelhion che si stringeva il collo nel tentativo di fermare l’emorragia mentre Wisterian con il suo ultimo respiro lo ringraziava per aver fatto tutto il possibile per proteggere il suo unico e adorato figlio.

 

 

 

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Capitolo 10
*** Perdersi ***


Non si accorse che Galion lo aveva seguito, e poi perso di vista prima di arrivare davanti alla porta della sua camera.

Non vide Fidelhion che si stringeva il collo nel tentativo di fermare l’emorragia mentre Wisterian con il suo ultimo respiro lo ringraziava per aver fatto tutto il possibile per proteggere il suo unico e adorato figlio.

 

CAPITOLO 10

 

Dol-guldur non era un posto piacevole. Sebbene ora fosse libera, sembrava ancora che dovesse svolgere un ruolo importante nell’eterna battaglia tra il Bene e il Male.

La prima cosa che attirò l’attenzione dei quattro viaggiatori fu l’oscurità. Là il buio era il respiro del male. Il suo alito che ancora permeava l’aria. Bolin si guardava attorno con circospezione; nelle grotte c’era buio, ma quello della notte faceva più paura.

Da quando aveva lasciato Thranduil e portato a termine la sua missione, si era sentito un nano falso, un traditore. Aveva nascosto la verità  o comunque l’aveva omessa; adesso portava addosso il peso della sua vigliaccheria, e si sarebbe preso il merito per aver dato a Elrond il biglietto.

Ah! Bolin non avrebbe mai voluto questo, ma ancora una volta la vita non era andata secondo i suoi desideri.

Haldir salì su un albero per riposare qualche ora, Celebrian e Elrond si misero in disparte a parlare e Bolin si sdraiò per terra accanto a un cespuglio dove, poco dopo,  si addormentò: sognò il nano che l’aveva cresciuto, una grande, grandissima spada elfica ricoperta di ogni sorta di pietre preziose, sognò Thranduil che triste piangeva e sognò un Bolin bambino che cercava di nascondersi il viso con le mani.

Era mattina quando Bolin si svegliò, guardò in alto tra gli alberi  nel caso in cui gli elfi non stessero riposando là, ma non vide nessuno. Allora decise di fare un giro lì attorno alla ricerca di bacche selvatiche.

Non trovò bacche ma tre elfi inginocchiati davanti a un ammasso di pietre . Elrond, Celebrian e Haldir avevano trovato la lapide di Gil-galad. Bolin rimase lontano, in disparte, non voleva invadere il loro spazio, entrare con prepotenza  in quel cerchio di sofferenza che si apriva con un cumulo di pietre e si chiudeva con le lacrime senza fine di un figlio che piangeva il padre.

Il pianto inconsolabile di Elrond sembrava volesse parlare con gli alberi tanto era il silenzio con il quale si sfogava. Celebrian lo circondò con le sue braccia e gli sussurrò parole rassicuranti. Haldir non aveva fiato per parlare, non voleva crederci.

Che cosa era potuto succedere? Come era morto Gil-galad? Dov’era la spada di Oropher che Dama Galadriel aveva visto nello Specchio e soprattutto che fine aveva fatto Celeborn? Perché non era tornato indietro ad avvisarli? Era ancora vivo o forse era morto anche lui?

Elrond pose una mano sulla lapide, con l’altra si tolse l’anello di tasca, infine se lo infilò al dito. Una forte luce lo investì, era come se la forza stesse uscendo dal suo corpo per poi rimmergersi dentro, ancora più a fondo. Poté guardare dentro se stesso fino ad una dimensione che non aveva mai immaginato, poteva sentire la sua anima staccata dal suo corpo, che viaggiava nella sua mente e ripercorrere in essa tutto il suo passato, ritrovando ambienti che erano la rappresentazione dei propri sentimenti.

Vedeva la sua anima triste e sconsolata in un sottobosco buio e senza aria, non c’erano profumi particolari e sembrava che il fiato stesse per mancargli da un momento all’altro. Poi sentì qualcuno che lo chiamava e il sottobosco divenne più luminoso; si rese contò allora di poter indirizzare la propria anima dove preferiva e perciò  seguì la voce fino a che, scuotendosi, ritornò ad avere coscienza di Boscoverde il Grande e di Celebrian, a cui apparteneva la voce sentita.

“Gli anelli hanno un grande potere. Permettono di comunicare con gli altri possessori degli anelli, ma ancora più importante permettono di capire se stessi, di conoscersi a fondo e di riuscire a entrare in contatto con le altre anime” disse Celebrian al suo amato.

Elrond annuì. Evidentemente Dama Galadriel aveva spiegato alla figlia molte più cose dell’anello che possedeva rispetto a quanto Gil-galad avesse fatto con lui.

Elrond accarezzava la lapide, non riusciva a staccarsene, le lacrime scendevano libere. Non c’era vergogna nel dolore, era un sentimento puro e lui non lo avrebbe negato. Haldir intonò una canzone di cordoglio. Bolin si avvicinò e in maniera molto discreta depositò un mazzo di fiori selvatici.

Elrond lo ringraziò. Poi rivolse ancora uno sguardo alla lapide. Quanto amore gli aveva dato suo padre, quanta consolazione nelle notti in cui non si sentiva all’altezza delle aspettative del mondo, quando essere un mezzelfo aveva davvero significato essere solo metà di qualcosa che non sarebbe stato mai.

Eppure le sue paure erano sempre state dissipate da Gil-galad, e Imladris era stata davvero una casa accogliente per lui. Adesso invece come avrebbe potuto ritornare là e dichiararsi “Signore” di Imladris? Chi lo avrebbe accettato? E soprattutto come poteva far accettare al suo popolo Celebrian?

Già, perché Elrond non aveva dubbi, se Gil-galad era morto allora doveva essere stato per forza Celeborn ad averlo ucciso. Ma come dirlo alla dolce Celebrian?

Da canto suo Celebrian non sospettava niente dei dubbi di Elrond. Anzi, credeva che egli dubitasse di Thranduil e, sapendo che era un suo amico stava zitta perché non voleva causargli altro dolore.

Fu Haldir a prendere la parola per iniziare ad avere dei chiarimenti, qualche indizio che potesse indirizzare meglio verso la comprensione degli eventi. “Bolin” disse l’elfo “ forse è ora che spieghi la tua reazione di ieri”.

“Io? Di quale reazione parli?” domandò il nano che ben sapeva a cosa si riferisse l’elfo.

“Di quella che hai avuto quando hai sentito il nome di Celeborn. Cosa sai di lui?”.

Bolin era agitato. “Perché? Che  importanza vuoi che abbia?”.

Elrond e Celebrian erano attentissimi. “Ha importanza per tutti noi” fece Haldir indicando anche gli altri due elfi.

Bolin si sentiva a disagio, cominciò a massaggiarsi la barba, doveva essere sincero per iniziare a pagare le sue colpe. Non era un elfo però sapeva nascondere i suoi sentimenti quando voleva, ma non aveva fatto i conti con la grande perspicacia di Elrond che seppe leggere nel suo viso un certo rimorso, del quale successivamente avrebbe certo chiesto spiegazioni.

“Thranduil mi disse che …” Bolin tentennò e guardò Celebrian. L’aveva conosciuta da poco ma le era già molto affezionato, non voleva ferirla ma non aveva altra scelta. “Thranduil mi disse che suo cugino Celeborn aveva tentato di ucciderlo e che aveva intenzione di uccidere, o far uccidere, anche sua moglie Wisterian e suo figlio Legolas”.

“Non è vero!” scattò Celebrian. “Elrond, diglielo che non è vero! Che non può essere vero!”.

Celebrian non riusciva a capire perché Bolin avesse detto una cattiveria del genere, sicuramente stava mentendo. Eppure Bolin le era sembrato un nano per bene, anche simpatico.

Elrond l’abbraccio. “Va tutto bene, Celebrian. Calma”.

“Non va tutto bene, Elrond. Bolin sta dicendo che mio padre ha cercato di uccidere Thranduil! Che vuole uccidere un elfling!”.

“E perciò che forse ha ucciso anche Gil-galad” aggiunse Haldir.

Bolin era muto. Elrond non parlava, in realtà lui era disposto a credere al nano, ma era difficile deludere Celebrian.

“Diglielo, Elrond! Diglielo che secondo te è innocente!” lo sollecitò lei. Aveva bisogno di sapere che il suo amato credeva nell’innocenza del padre, che sapeva in cuor suo che Celeborn era un elfo buono. Però Elrond non diceva niente e questo aumentava la sua ansia.

“Elrond, perché non dici niente?”.

“Io… io credo che Bolin ci stia dicendo la verità” disse lui a bassa voce stringendola a sé.

Celebrian si distanziò di colpo. Il suo sguardo era confuso, come era possibile che Elrond fosse così facile da convincere circa la colpevolezza di suo padre? Questo era l’elfo che amava? Uno che non dava neanche una possibilità al suocero? Come poteva credere a Bolin così velocemente e a tutto ciò che questo implicava?

Celebrian piangeva e singhiozzava dal nervoso, dal timore di non riconoscere più Elrond, o dalla paura che lui potesse avere ragione, non voleva credere che tutto questo stava capitando a lei. Forse avrebbe fatto meglio a restare nel Lothlòrien.

“Celebrian, ti prego, ascoltami”.

“Non voglio - sentire niente!”.

“Aspetta…”.

“Aspetta cosa? Come puoi solo pensare che mio padre sia un assassino?”.

“Ci sono avvenimenti che non conosci a fondo…”

“Ma conosco mio padre! E so che lui non farebbe mai del male a una mosca”.

“Tuo padre è sempre stato geloso della grandezza di Boscoverde, lo sai anche tu”.

“Elrond, stiamo parlando di mio padre! Sì, è vero! E’ geloso di Boscoverde, delle ricchezze che Oropher e Thranduil hanno accumulato… e forse è deluso anche dal fatto che io non sia nata maschio, ma lui mi ama e ama mia madre e non ci farebbe mai questo! Non ci darebbe mai un dolore così grande!”.

Elrond tese le braccia verso Celebrian. “Vieni. Possiamo superarlo…”.

“No!” affermò determinata ricacciando dentro un singhiozzo. “Stammi lontano, Elrond”.

“Ma Celebrian, sii ragionevole”.

“Tu non capisci quanto le tue parole mi feriscano, Elrond” disse ricomponendosi.  “Se solo avessi avuto un attimo di perplessità, invece no! Sei stato subito disposto a condannare mio padre!” e poi, senza volerlo, solo spinta dal dolore irragionevole che sentiva nel cuore, disse qualcosa che mai pensava avrebbe detto: “Forse ha ragione mio padre, forse davvero i Mezzelfi non sono sensibili come gli Elfi! Siete sempre disposti a tradire chi vi ama. Forse davvero non siete al nostro pari”.

Haldir, che assieme a Bolin aveva assistito a tutta la discussione, fece un cenno con la mano a Elrond di non dar peso alle parole di Celebrian, ma ormai la frase era stata detta e il cuore di Elrond era già stato colpito.

“Forse è così! Forse avete ragione tu e tuo padre! Certamente io sono un Mezzelfo, sicuramente meno intelligente di un Elfo” continuò sarcastico, ma con il groppo in gola,“e difatti sono io che ho le braccia aperte verso te, stupidamente pronto ad amarti nonostante tuo padre potrebbe aver ucciso il mio!”.

“Ah!” continuò lei ancora arrabbiata “Non era neanche il tuo vero padre…”.

“Basta!” urlò Elrond portandosi le mani agli occhi per coprire le lacrime. “Era comunque tutto ciò che avevo. Tutto quello che avevo, tutto quello che avevo” continuò a dire tra i singhiozzi, mentre le gambe gli cedevano e cadeva davanti alla tomba del padre.

Celebrian avanzò verso lui istintivamente, ma Haldir gli si frappose e nel modo più gentile che conosceva le disse che ci avrebbe pensato lui.

“Tu a chi credi, Haldir?” gli domandò lei, sperando in una parola di conforto.

“Io credo che gli orrori della guerra possano indurre chiunque  a vedere il mondo in una prospettiva diversa, a dire e fare cose che normalmente non si farebbero. E credo che ora sia il momento di smetterla di parlare e iniziare a pensare bene a ciò che si dice”.

Elrond era ancora inginocchiato, singhiozzava ma lacrime non gliene scendevano più, continuava a ripetere che Gil-galad era tutto ciò che aveva. Haldir si sedette al suo fianco aspettando che si calmasse.

Era difficile credere che Celeborn avesse tentato di uccidere Thranduil, avesse ucciso Gil-galad e avesse ancora intenti omicidi. Ma era altrettanto difficile non credere a Bolin, il cui animo seppure irrequieto sembrava essere sincero. Elrond inoltre era sempre riuscito a leggere molto bene dentro l’anima degli altri, aveva il dono della preveggenza e indossava uno degli anelli del potere, ciò significava che poteva vedere meglio degli altri, e le sue intuizioni erano senz’altro più precise.

Inoltre Dama Galadriel l’aveva messo in guardia: qualcosa di deplorevole stava accadendo, e chi inseguiva la verità presto o tardi l’avrebbe trovata e più spesso di quanto avrebbe voluto ne sarebbe rimasto deluso.

 

Correva veloce, senza fermarsi, senza pensare, senza ascoltare. Correva con gli occhi gonfi e rossi per il troppo piangere. Se fosse stato un uomo avrebbe dovuto districarsi tra rami d’alberi e rovi di frutta selvatica, ma Legolas era un elfo con un legame particolarmente stretto con la natura e gli alberi e i rovi si facevano da parte al suo passaggio per non ferirlo, per non farlo soffrire ulteriormente.

Correva veloce senza guardare avanti forte della complicità di Boscoverde, quando a un certo punto si scontrò contro qualcosa e cadde a terra. Stava alzandosi quando sentì due mani forti che gli tenevano le braccia.

“Lasciami, lasciami!” gridò con davanti ancora l’immagine di sua madre sanguinante e Fidelhion con il pugnale in gola.

Alzò lo sguardo e vide un vecchio con lunghi capelli grigi e un mantello logoro che gli sorrideva teneramente. “Tranquillo, giovane amico. Non voglio farti del male”.

Legolas era impaurito dal vecchio, chiaramente non era un elfo, ma cosa poteva essere? Lui non aveva mai visto altro che elfi. Lo guardò bene, le sue mani erano forti però sembrava si reggesse appena sul suo bastone. Forse, se ne avesse avuto bisogno, avrebbe saputo difendersi.

Poi il consiglio della madre gli ritornò in mente! Avrebbe dovuto prendere la via sugli alberi e non percorrere la strada. Se ne era dimenticato! Chissà se era importante. “Chi- chi sei?” domandò timidamente.

“Sono tanti, ma per gli Elfi sono Mithrandir”.

Legolas inclinò la testa di lato. “E che cosa è un Mithrandir?”.

“Come cosa è un Mithrandir?” lo rimbeccò l’altro perplesso. “E tu chi sei? E cosa sei? Mio giovane amico”.

“Io sono Legolas e sono un Elfo” spiegò con semplicità l’elfling.

Mithrandir scoppiò a ridere. “Bene, ora ho capito! Io sono un Uomo, se così vogliamo dire, o comunque gli assomiglio molto, e i miei amici elfi mi chiamano Mithrandir”.

“Un Uomo! Non ne ho mai visto uno. Ma cosa ci fai nel Regno di mio nonno? E chi sono i tuoi amici elfi?”.

Mithrandir corrugò la fronte; quest’elfo era davvero curioso, quasi come uno hobbit. “E tu perché stavi correndo veloce come un fulmine?”.

Legolas si zittì. Se voleva sapere, doveva anche raccontare qualcosa, ma aveva paura, troppa. Mithrandir osservò l’elfling, il suo viso era rigato di lacrime, sapeva già che non avrebbe ottenuto nessuna risposta e perciò decise di darne lui.

“I miei amici elfi vivono a Imladris, al di là delle Montagne Nebbiose. Sono il signore di Imladris Gil-galad e suo figlio Elrond”.

Gli occhi di Legolas si illuminarono. Lui doveva raggiungere proprio Imladris, così gli aveva detto sua madre.

L’anziano continuò. “Sono qui, perché dovevo raggiungere la fortezza e parlare con Re di Boscoverde Oropher. Non ho trovato lui, ma penso di aver davanti suo nipote Legolas Thranduilion. Giusto?”.

Legolas annuì e una lacrima gli scese sul viso. “Suvvia, mio giovane amico. Cosa c’è da piangere?”.

“Mio nonno, il Re, è morto in battaglia” disse tirando su con il naso.

“Sì, sono stato informato”.

“Da chi?”.

“Da alcuni guerrieri che ho incontrato un paio di giorni di fa”.

“E di mio padre, sa qualcosa?”.

“So che è stato ferito e me ne dispiace. Di più non so che dire”.

“Cosa voleva da mio nonno?”.

Mithrandir si tenne al bastone. “Dovevo parlargli di affari, dei quali in mancanza di tuo nonno, avrei discusso con tuo padre, e in sua mancanza probabilmente con tua madre”.

Legolas ebbe un fremito, e gli occhi si riempirono di lacrime che però fece tutto il possibile per non far cadere. “Magari potresti accompagnarmi alla fortezza e portarmi da lei, cosa ne dici?”.

Legolas era appena un elfling, aveva circa 40 anni, più o meno 15 secondo il conteggio degli uomini e il peso che portava nel cuore era troppo pesante da gestire. “Non posso tornare indietro, non posso. E’ troppo pericoloso per me. Mia madre ha detto di andare a Imladris”.

L’anziano ascoltava, Legolas nascondeva qualcosa di brutto, doveva aver assistito ad eventi terribili. “Ma tua madre, dov’è?”.

Legolas si portò la mano al petto, all’altezza del cuore, e strinse la sua maglia ma non disse nulla.

“Va bene, amico mio. Se non vuoi parlarne, non fa niente. Me lo racconterai quando te la senti”.

Legolas udì gli alberi parlare: “Fidati, è un amico. Non temere”, ma era una risposta troppo difficile da dare.

“Dove vai? Posso venire con te?” chiese innocentemente.

Mithrandir sorrise. “Se qui non c’è nessuno, torno a Imladris. E chiaramente puoi venire con me”.

“Va bene, però… io vorrei camminare sugli alberi” specificò Legolas.

“Come preferisci, per me non c’è problema”.

Così Legolas salì sull’albero mentre Mithrandir camminava a piedi lungo l’Antica via Silvana poggiandosi al bastone. Sugli alberi, nascosto, qualcuno incappucciato aveva visto tutto e, soddisfatto di come si erano svolti i fatti, decise di proseguire verso la fortezza di Re Thranduil.

“Andiamo, su!”.

“Stiamo andando veloci, Rhiaian. Perché tanta fretta?” domandò Pimi.

“Hai affari così urgenti a Pontelagolungo?” aggiunse Bimi.

Rhiaian non volle rispondere, i suoi affari erano per l’appunto suoi. “Sbrigatevi, camminare la mattina presto è sempre meglio che la notte. Muovetevi!”.

Farìm proseguiva in silenzio, si guardava attorno perché aveva sempre l’impressione che qualcuno parlasse o bisbigliasse, aveva anche pensato che fossero gli alberi, ma non era disposto a crederci. Poi notò qualcuno disteso sul suolo.

“C’è qualcuno, Rhiaian. Là per terra, c’è qualcuno!” disse indicando un corpo accanto a un cespuglio.

I nani si avvicinarono e guardarono con attenzione. Lo  riconobbero  subito: si trattava dell’elfo che avevano visto maltrattare strada facendo. “Chissà perché l’hanno lasciato andare?” si domandò Pimi.

“Non credo che l’abbiano liberato, deve essere scappato” rispose Fàrim muovendo l’elfo con il piede per vedere se reagiva.

“Magari lo stanno cercando!” esclamò Pimi.

“Magari sarebbero disposti a pagarci un riscatto per averlo” riflettè Rhiaian, “magari ci darebbero la spada!”.

Fàrim non ne sembrava convinto. “Mi sembra che tu stia sognando a occhi aperti”.

Rhiaian rimuginò fra sé e sé. “Può darsi, ma tanto vale tentare. Che ne dite. Quella spada, anche senza le gemme ci frutterebbe un bel po’ di denaro!”.

Gli altri tre nani erano indecisi, la spada avrebbe fruttato denaro facile, però mettersi negli affari degli elfi non era mai una scelta intelligente. “Tentiamo, ma se diventa troppo rischioso, ti molliamo!” disse sinceramente Fàrim, anche a nome di Pimi e Bimi.

“Ci sto” accettò Rhiaian. “Adesso dobbiamo legarlo, per bene, perché se è riuscito a liberarsi ieri, certamente avrà bisogno di essere legato meglio. Se tengo un ostaggio non voglio scoprire che è sparito all’improvviso”.

Perciò i quattro nani legarono Thranduil per bene: le mani le legarono assieme dietro la schiena, con un’altra corda bloccarono le caviglie e poi  passarono la corda attorno al collo. Thranduil poteva stare seduto, ma non sollevare la testa. Quelle poche forze che stava riuscendo a conservare e quel poco che era riuscito a riprendersi tutta la sera a contatto con gli alberi era stato per lo più vanificato da questa nuova tortura.

Il complice di Celeborn era stupito quando, dopo essersi svegliato la mattina presto, non trovò Thranduil accanto all’albero. Si chiese come aveva fatto il nuovo Re a fuggire e perché gli alberi e i cespugli avvizzivano al loro passaggio.

Forse aveva ragione il re di Boscoverde, forse la foresta non voleva l’intruso: Celeborn. Che fosse un segno dei Valar? L’elfo si stava facendo mille domande ma non aveva nessuna risposta. Da canto suo il signore del Lothlòrien era furioso!

Avrebbe dovuto legare suo cugino, ma come poteva immaginare che sarebbe riuscito a scappare quando a mala pena si reggeva in piedi? I due elfi si misero a cercare Thranduil ma non lo trovarono, era come se fosse svanito nel nulla, perso dentro un labirinto. O magari erano loro a essere intrappolati in quella foresta che sembrava non gradire la loro presenza.

“Va bene!” disse Celeborn infastidito “riprendiamo il nostro cammino, portiamo a termine il piano originario. Dobbiamo arrivare in fretta alla fortezza e vedere a che punto è Galion”.

“Cosa facciamo se Thranduil arriva prima di noi?”.

“Non lo farà! Noi abbiamo i cavalli, lui è a piedi ed è ferito! Magari sta marcendo in qualche fosso di questa maledetta foresta!”.

Lùth cercò di liberarsi ma Celeborn lo tirò per le briglia. “Stai buono, altrimenti perderò tutta la mia gentilezza!”.

Il cavallo si calmò, ogni cosa sarebbe stata risolta a suo tempo, lui doveva essere fedele al suo padrone che gli aveva ordinato di non ribellarsi, e così avrebbe fatto. Gli alberi parlavano, non solo di un Re ferito che avrebbero dovuto guarire, ma anche di un giovane principino che si portava avanti nella foresta accompagnato da un amico degli elfi.

Lùth decise che se aveva dovuto lasciare il Re, allora sarebbe andato incontro al principe, e una volta che Celeborn gli salì in groppa, fingendo di assecondare il suo fantino, lo condusse dove voleva lui.

 

Passarono i minuti, il sole si alzò in alto nel cielo, le ore trascorrevano e i nani cominciavano a pensare che forse quell’elfo non era poi tanto prezioso come credevano e che forse nessuno sarebbe venuto a chiederne il riscatto.

Rhiaian aveva gli occhi puntati su Thranduil, che non aveva ancora ripreso i sensi.  Lo guardava con ferocia e curiosità, si domandava se per caso era lui l’elfo  che sarebbe dovuto cadere per mano di una spada e se quello che aveva visto la sera prima era quello che Bolin, figlio adottivo di Noemat, chiamava “Il Male”.

Forse era quella la spada che avrebbe dovuto recuperare per conto di Noemat, una spada con dei bellissimi gioielli incastonati alla perfezione, ricompensa per la loro arte di riproduzione dei manufatti e per la loro avidità.

Povero, sciocco Bolin! pensava Rhiaian, farsi tanti scrupoli per degli elfi! Opporsi alla volontà di Neomat e non rendersi conto degli sguardi, dei sottintesi, dei piani progettati sotto il suo naso tra lui e il patrigno!

Intanto Pimi e Bimi cominciavano a cambiare idea, non erano poi tanto convinti che tenere un elfo per ottenere un riscatto fosse una buona idea.

“Se fosse venuto qualcuno a cercarlo, Rhiaian, allora sarebbe stato diverso”.

“Sono già diverse ore che aspettiamo, ma non viene nessuno!”.

“Allora cosa volete fare?” domandò direttamente Rhiaian ai suoi compagni di viaggio.

Fàrim si fece avanti. “Se nel pomeriggio non arriva nessuno, direi di andarcene via e lasciarlo qui”.

“Arriverà!” affermò Rhiaian più per convincere se stesso che gli altri.

Thranduil era ancora immobile, ma la sua fae era in subbuglio, qualcuno stava cercando di smuoverlo, non fisicamente, ma spiritualmente; qualcuno voleva comunicare con lui…

 Dopo alcune ore di cammino Mithrandir e Legolas si fermarono. L’uomo era stanco e voleva mangiare, ma il giovane elfo sembrava non avere appetito.

“Mangia pure, Mithrandir. Io riposerò un po’” aveva detto Legolas risalendo sull’albero.

Provò a chiudere gli occhi ma davanti a sé compariva sempre sua madre nel suo bel vestito verde coperto di sangue. Legolas scosse la testa per mandar via il pensiero. Sua madre era morta. Non ci sarebbe stato un domani per lei, nessun giorno avvenire per loro.

Era strano pensare che quando tutto sarebbe finito, comunque andasse, sua madre non sarebbe ricomparsa. Non era nascosta al sicuro in una stanza, non c’era nessun elfo amico a proteggerla, il povero Fidelhion aveva pagato cara la sua fedeltà, ma almeno lui, pensò Legolas, sarebbe stato con Wisterian per l’eternità.

Era diventato  orfano  … di madre, e suo padre chissà che fine aveva fatto.

Mithrandir  stava finendo di bere una strana miscela marrone, e perciò il giovane colse l’occasione per tentare una veloce comunicazione con il padre.

Chiuse gli occhi, inalò il profumo della corteccia e lasciò che il vento lo dondolasse per un po’, e poi si concentrò richiamando alla mente l’immagine del padre e inviando la sua fae alla ricerca del padre. Aveva un migliao di cose da raccontargli ma più di ogni altra cosa doveva sapere di Wisterian e di Fidelhion.

Non sperava in un successo considerati gli ultimi fallimenti, ma la forza della disperazione lo fece agire.

Si concentrò sul padre, né ricordò il profumo, le risa, i profondi occhi azzurri e finalmente lo trovò. Poteva sentire la presenza del padre, così Legolas continuò a ripetere dentro sé il nome del padre fino a quando lo spirito di Thranduil si fece sempre più forte.

Allora Legolas gli mostrò Fidelhion con il pugnale in gola e Wisterian ricoperta di sangue. Poi gli mostrò il passaggio segreto e infine Mithrandir. La sua preoccupazione e le sue paure non vennero trasmesse filtrate, infatti Legolas era troppo giovane per riuscire a gestire sentimenti così forti, perciò il dolore e la disperazione colpirono Thranduil con tutta la loro forza facendolo svegliare all’improvviso.

Thranduil cerco subito di stirarsi ma si ritrovò legato, non poteva alzare la testa per via della corda, non poteva muovere ne le mani, ne tantomeno le gambe. Il suo viso era gonfio e livido, le gambe incrostate di sangue secco e foglie.

Si chiese come avesse fatto Celeborn a trovarlo così in fretta, ma poi sentì delle voci, non appartenevano a degli elfi e non sembrava appartenessero neanche a degli amici.

 

 

 

Angolo autrice:

chiedo infinitamente scusa per il ritardo, ma ho avuto una settimana impegnatissima, e ieri ho fatto cinque ore di fila dal veterinario perché la mia Sophie non respirava bene…

spero che il capitolo vi piaccia. Doveva essere più lungo ma … pazienza… cercherò di aggiornare presto…

un abbraccio a tutti, Alida

 

 

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Capitolo 11
*** Tutto viene a galla ***


Thranduil cerco subito di stirarsi ma si ritrovò legato, non poteva alzare la testa per via della corda, non poteva muovere né le mani, né tantomeno le gambe. Il suo viso era gonfio e livido, le gambe incrostate di sangue secco e foglie.

Si chiese come avesse fatto Celeborn a trovarlo così in fretta, ma poi sentì delle voci, non appartenevano a degli elfi e non sembrava appartenessero neanche a degli amici.

 

Lembas = Pan di Via

Elfling = giovane elfo, fino ai 15 anni più o meno

Mellon nin = amico mio

Cap 11

Morti. Thranduil sentiva parlare attorno a sé, ma la sua attenzione, quella poca che riusciva ad avere nelle sue condizioni, era indirizzata alle immagini che Legolas gli aveva mostrato. Un giovane elfo del suo regno e la sua dolce, amata moglie morti.

Sembrava surreale, aveva sempre creduto che nel momento in cui Wisterian fosse morta lui avrebbe sentito una lama trafiggergli il cuore, invece non aveva sentito niente. Adesso che sapeva, soffriva, ma prima di sapere non aveva intuito niente.

Le voci attorno si facevano più forti, quasi prepotenti e insistenti. Il capo gli doleva, quanto dolore stava provando? E per cosa poi? Sua moglie era morta e se suo figlio era riuscito a trasmettergli un’immagine così chiara e definita significava che l’aveva vista in prima persona.

Il suo piccolo Legolas che aveva assistito all’omicidio di sua madre! Oh Elbereth! Aveva fallito in tutto. Non era riuscito a proteggere la sua famiglia.

Le gambe pulsavano, i polsi erano legati strettissimi e con la testa legata e impossibilitata a sollevarsi, i muscoli delle spalle tiravano. Aveva sete e la gola sembrava essere in fiamme. Però non poteva concentrarsi completamente sul proprio dolore, doveva avere maggior confidenza con la sua foresta che sicuramente lo avrebbe aiutato.

E perciò incurante di ciò che gli avveniva attorno, cercò di riaddormentarsi.

I cavalli proseguivano a buon passo, non erano velocissimi ma, del resto, gli alberi di Boscoverde erano troppo fitti per poter permettere una corsa sostenuta. L’Antica via Silvana era lontana e soltanto lì si poteva procedere spediti.

Celebrian cavalcava affiancata da Haldir, e Bolin stava accanto a Elrond. Per tutta la mattina avanzarono senza aprir bocca, troppe assurdità, o troppe cose vere, erano state dette. Fecero una piccola sosta di appena cinque minuti, giusto il tempo per mangiare un boccone di lembas, e poi ripreso il cammino.

Nel pomeriggio però si dovettero fermare, Celebrian non stava bene. “Forse avresti fatto bene a rimanere con tua madre. Non che la tua presenza non sia gradita, ma il nostro procedere sembra essere più pericoloso di quanto potessimo anche solo immaginare” le disse con affetto e preoccupazione Haldir.

Celebrian aveva il fiatone, e prese delle grandi boccate d’aria. Poi sentì una fitta nello stomaco e si strinse le braccia attorno alla vita. Elrond la guardava con ansia, era adirato e deluso ma l’amava.

Le si avvicinò, lei gli girò la faccia. “Sono pur sempre un guaritore” spiegò lui.

Celebrian piangeva, tutti pensavano che fosse ancora perché Elrond dubitava di Celeborn o perché si sentiva in colpa per come aveva trattato Elrond, ma lei aveva altri motivi, ben più urgenti di piangere.

“Celebrian, per favore” disse Elrond “permettimi di controllarti”.

Bolin intervenne. “Celebrian, solo perché hai bisticciato con lui, non vuol dire che devi trascurare la tua salute”.

“Ha ragione” lo sostenne Haldir.

“Non sto così male” rispose lei tenendosi la pancia.

Elrond cominciava a spazientirsi. “Ho visto molti malati che non ho potuto curare, non lascerò che la tua testardaggine mi impedisca di salvarne un altro”.

“Allora è questo che sono per te? Solo un paziente?”.

“In questo momento sì! Sei un paziente, testardo vorrei aggiungere. Guarda come ti tieni lo stomaco! Forse hai mangiato poco e sono solo avvisaglie della fame”.

“Allora basterà che mangi un altro po’ di lembas” disse lei.

Elrond con tono di voce che non lasciava spazio ad altri commenti rispose: “Io sono il guaritore e io deciderò cosa è bene per un mio paziente; nessun altro”.

Celebrian cedette, spostò le mani lasciando la pancia libera per essere controllata. Elrond era in ansia, se si trattava di fame, allora erano nei guai perché cibo ne avevano poco e la foresta non offriva molto. Avrebbero dovuto cacciare e poi cucinare. Bolin aveva con sé lo stretto necessario per cuocere piccole prede ma difficilmente un coniglio o una lepre avrebbero sfamato tre elfi e un nano.

Il problema però non era la fame. Come Elrond posò le mani sulla pancia di Celebrian un’immagine inequivocabile gli si proiettò nella mente: due piccoli elfling giocavano su un prato, erano identici e ridevano e andavano incontro al nonno.

Elrond allontanò immediatamente la mano da Celebrian, che già sapeva della vita che portava in grembo, e che si rese conto in quel momento che anche Elrond ne era venuto a conoscenza.

“Cos’ha?” domandò preoccupato Haldir.

“Puoi chiederlo direttamente a lei” rispose Elrond “sicuramente lo sa già da un po’ di tempo”.

Celebrian sospirò e con voce tenue, rivolgendosi al suo amato, spiegò: “E’ questo il motivo per cui sono venuta a cercarti, volevo che tu sapessi direttamente da me, che fossi felice con me, con noi. Speravo davvero che tutto sarebbe andato bene e che questo fosse l’incoronazione di un giorno perfetto, ma mi sbagliavo. E adesso mi chiedo, quale futuro ci attende”.

Haldir e Bolin erano confusi, forse Celebrian stava male e aveva raggiunto Elrond per paura di non riuscire a vederlo prima di scomparire. Questi erano i loro pensieri e tanto fu lo stupore quando Celebrian spiegò: “Dentro me cresce una nuova vita, e con la benedizione dei Valar fra pochi mesi vedrà risplendere le stelle alte in cielo”.

Elrond era cupo in viso, gli occhi puntati verso la nuda terra. “Non sei felice?” gli chiese Celebrian.

Lui trasalì. “Oh, Celebrian, sono molto felice. Non potrei provare una gioia più grande di questa. Ho visto non una vita, ma due piccoli elfling che ridevano felici”.

“Due?” lo interruppe Bolin “Credevo che sono gli Uomini potessero farne due alla volta”.

Haldir mise una mano di conforto e orgoglio sulla spalla di Elrond e amichevolmente lo provocò. “Gli Uomini, certo. Ma basta anche un Mezzuomo“.

Celebrian sorrise. Elrond però rimase serio. “Quel che ho visto però mi lascia sgomento. I piccoli giocavano, ridevano e andavano incontro a … a Gil-galad”.

Tutti trattennero il fiato. Per nessun motivo al mondo, Elfo o Mezzelfo che fosse Elrond, innocente o colpevole che fosse Celeborn, da qualsiasi parte si schierasse Celebrian, mai e poi mai qualcuno avrebbe desiderato che due elfling passassero alle Sale di Mandos.

“Non è stata una buona idea, per niente” disse Pimi.

Bimi concordò con il fratello portando in avanti e indietro la testa come fosse una molla. Fàrim faceva dieci passi avanti e poi tornava indietro per ammazzare il tempo che però non passava mai. “I Colli Ferrosi sono ancora lontani e forse stiamo ritardando la partenza per niente”.

“Abbiate pazienza. Verranno. Altrimenti perché mai lo avrebbero tenuto in vita. Avrebbero benissimo potuto ucciderlo” disse Rhiaian.

L’idea però sconvolse gli altri tre nani. “Ma cosa stai dicendo? Ucciderlo?” gridò Bimi. La sola idea di qualcuno che compisse un gesto simile lo faceva rabbrividire, infatti non erano nani malvagi.

Rhiaian sputò per terra. “Forse non hai visto bene come lo trattavano”.

“Suvvia, suvvia… nessuno ha ucciso nessuno” proruppe Fàrim tentando di alleggerire l’atmosfera.

Thranduil intanto dormiva e non sognava niente di bello. La sua mente gli mostrava Wisterian morta e coperta di sangue, la vedeva avanzare con la sua bella veste verde che a ogni passo diventava sempre più rossa. Vedeva il suo viso spegnersi e la pelle cadere, e mentre avanzava il suo corpo si decomponeva e diventava man mano parte della foresta.

Il suo sonno era agitato così come egli stesso. I nani lo videro muoversi e dimenarsi, emettere strani mugolii. Pimi e Bimi si alzarono di scatto ed ebbero lo stesso pensiero: dovevano coprirlo per non vederlo più. Così gli buttarono addosso un vecchio sacco che portavano appresso.

Passò un’altra ora e Thranduil riprese i sensi. Non solo non poteva muoversi ma gli era stato gettato qualcosa sopra, forse una coperta, forse un sacco. Sì, doveva trattarsi di un sacco perché poteva vedere qualche filo di luce passare dalle larghe maglie del tessuto.

Inoltre sentiva un fuocherello scoppiettare e il suo calore accarezzargli la schiena e le mani dopo aver trapassato la stoffa che lo copriva.

Non parlò, rimase immobile aspettando di ricevere qualche indizio circa l’identità dei suoi aguzzini. Ingoiò un po’ di saliva, la gola faceva male e la lingua era impastata. Neanche in guerra aveva avuto mai tanta sete, infatti i rifornimenti non erano mai mancati.

Si sentiva le labbra asciutte e screpolate, aveva bisogno d’aiuto. Ma chi poteva aiutarlo? Era solo. Avrebbe avuto bisogno di Oropher, ogni figlio nel momento del bisogno doveva poter contare sul proprio padre. Subito l’immagine di Oropher fu sostituita da quella di Legolas.

Doveva contattarlo, spettava a lui, non poteva lasciare il suo giovane elfling nello sconforto. Perciò si concentrò ancora una volta e bussò al cuore di Legolas.

Mithrandir avanzava a passo svelto, ma non veloce come Legolas che proseguiva in avanti sugli alberi e poi si fermava per aspettare il vecchio Uomo amico degli elfi.

La luce del giorno stava scemando e gli alberi proiettavano ombre poco rassicuranti, Mithrandir aveva un presentimento infausto. Era sicuro che di lì a poco avrebbero incontrato qualcuno che li avrebbe messi nei guai.

Quando raggiunse Legolas, che lo aspettava guardandolo dalla sua posizione in alto sui rami, vide l’elfling lanciarsi dal ramo e cadere agilmente su due piedi. “Non sono sicuro che dovremmo continuare, la foresta dice cose che mi fanno paura”.

“La foresta ti parla?” domandò stupito Mithrandir.

“Certo” rispose tranquillamente Legolas. “Io sono il suo nuovo principe, però mi parlava anche prima quando non lo ero”.

“Questo è un bene. O almeno lo credo. E cosa dicono gli alberi al giovane Thranduilion?”.

Legolas si fece pensoso. “Dicono che il suolo della foresta è calpestato da qualcuno malvagio  e che i nuovi sovrani soffrono. Dicono … che dal loro sangue nascerà la salvezza di tutti gli elfi”.

Mithrandir ascoltava in silenzio, queste parole avevano un significato difficile da interpretare. “Ascolta meglio, mellon nin”, lo incoraggiò il vecchio, “le tue orecchie e il tuo cuore possono sentire misteri e segreti che io non potrò mai udire”.

Legolas inspirò profondamente e premette i palmi delle mani sulla nuda corteccia di un albero; l’albero lo mise in guardia, un amico e un nemico si stavano avvicinando assieme, colui che parlava non avrebbe mai avuto l’appoggio della foresta e la sua presenza era causa di grande dolore e sofferenza.

Legolas si chinò per terra, le mani sulle ginocchia. Stava per parlare quando, in quello stato di assoluta concentrazione, poté sentire suo padre che cercava di contattarlo. Ancora una volta chiuse gli occhi in attesa di vedere quale avviso il padre voleva inviargli. Forse c’era un nuovo pericolo in agguato, forse aveva bisogno di aiuto.

Aprì il suo cuore e poté vedere alcune immagini a lui già note e altre nuove, che ancora non conosceva: Thranduil che gli sorrideva donandogli il suo primo arco, Thranduil che lo abbracciava mentre gli cantava una canzone e infine sua madre, Wisterian, che lo teneva in braccio appena nato.

Suo padre lo aveva contattato solo per dirgli che lo amava. Legolas si sentì sopraffare dall’emozione…

L’energia che Thranduil stava consumando per comunicare con il figlio era notevole, ormai non era più la sua, era quella che la foresta gli stava trasmettendo e che lui stava risucchiando avidamente per dar forza a Legolas.

Benché il suo corpo fosse debole la sua aurea si rafforzava e Thranduil cominciò a brillare, una forte luce argentata si espanse attorno a lui, facendo trasalire i nani.

“Cosa succede?” domandò impaurito Bimi.

“Il sacco brilla! Deve essere qualche magia elfica!” strillò Fàrim di risposta.

Rhiaian non capiva cosa accadesse ma sapeva che gli elfi non erano esseri magici, però alcuni avevano grandi poteri.

“Andiamocene! E’ arrivato il momento!” disse Pimi.

Rhiaian provò a tranquillizzarli ma non ci fu verso di farli cambiare idea.

 “Noi ce ne andiamo verso i Colli Ferrosi, amico mio. Tu prosegui verso Pontelagolungo e che possa trovare ciò che cerchi” disse Fàrim salutando Rhiaian.

“Sei stato un buon compagno di viaggio, ma le nostre strade si dividono qua” continuò Bimi.

“Però se vuoi venire con noi e lasciare quest’elfo qui, sei il benvenuto. Anzi ci piacerebbe continuare il viaggio con te”.

Rhiaian avrebbe voluto ancora un po’ di compagnia ma in realtà che fossero gli altri ad andarsene fu un colpo di fortuna, e l’occasione giusta per portare avanti il suo programma.

“Andate pure, io ho i miei affari da sbrigare e voglio aspettare ancora un paio d’ore prima di abbandonare la possibilità di guadagnare un po’ di soldi da questa situazione”.

“Buona fortuna!” dissero in coro i tre nani e poi se ne andarono lanciando occhiatacce al sacco che copriva Thranduil, dal quale proveniva una luce sempre più intensa.

A Legolas non era mai capitato di sentire una tale energia provenire dal padre, così vibrante e diretta, così loquace. Di solito aveva dovuto interpretare le immagini che vedeva, ma questa volta era come se  avesse udito delle parole accompagnare ciò che vide, era come se la foresta avesse comunicato attraverso Thranduil.

Questo diverso modo di comunicare impensierì l’elfling. Che bisogno c’era di modificare l’abituale metodo, perché il padre lo aveva cambiato. Forse che non aveva abbastanza forza? La solo idea sconvolse Legolas; Mithrandir gli fu al fianco e passandogli la mano sulla schiena con movimenti circolari cercò di rasserenare il giovane.

Ma il toccò dell’Uomo fece rabbrividire Legolas che indietreggiò spaventato. Thranduil percepì la paura e lo spavento e gridò, agitandosi e scuotendosi senza pensare al male che faceva a se stesso.

Rhiaian vide la luce diffondersi maggiormente, dunque si avvicinò e scoprì l’elfo proprio nel momento in cui Thranduil gridava. Istintivamente prese ciò che aveva vicino, cioè un tronco d’albero e colpì violentemente la testa dell’elfo, il quale immediatamente cessò ogni movimento.

Nel suo procedere spedito verso la meta Glorfindel compì solo due brevissime soste di pochi minuti: la prima per salutare gli elfi del Lothlòrien che tornavano a casa e poi un gruppo di elfi di Boscoverde che rientrava con i feriti.

Quando giunse nel Dagorlad si rattristò profondamente. Davanti ai suoi occhi vide quanti pochi erano i sopravvissuti di Boscoverde, la battaglia gli aveva più che dimezzati e nei loro occhi erano impresse le fiamme con le quali avevano dato l’ultimo saluto ad amici e talvolta congiunti. Non solo gli elfi maschi combattevano, anche le donne elfo avevano risposto alla chiamata della guerra e tanti elflings non avrebbero più rivisto né il padre né la madre.

Chi rimaneva però doveva trovare in sé la forza di andare avanti per mantenere vivo il ricordo dell’amato e tornare dai piccoli elfi che attendevano a casa.

I corpi dei defunti erano stati bruciati, le loro ceneri sparse nel campo di battaglia che in ultimo li aveva visti vittoriosi. Ai restanti era spettata la scelta, difficile ma impossibile da rimandare, se lasciare il corpo di Oropher sepolto nella Piana o portarlo a Boscoverde.

Avevano scelto di non disturbare la sua pace, ma allontanarsi sembrava loro impossibile. Glorfindel disse loro che aveva un compito, ingrato ma necessario da compiere, per ordine di Elrond di Imladris a cui Thranduil aveva inviato un biglietto con una richiesta.

Gli elfi silvani vollero leggere il biglietto, poiché sebbene Glorfindel fosse un elfo di grande valore e indubbio onore, la richiesta del grande elfo era alquanto insolita, togliere dal sepolcro la spada di un re pareva ingiusto.

“Thranduil, il vostro nuovo Re, lo richiede. I Valar non vogliano che il vostro interferire gli costi non solo il regno ma anche la sua stessa vita”.

Sentendo questo e percependo la sincerità nell’animo di Glorfindel, gli elfi non si opposero  e così l’elfo dalla chioma dorata si impossessò della spada. Non la guardò neanche, la avvolse velocemente in un telo verde con rifiniture di filo d’oro che un elfo silvano volle dargli scusandosi di non avere niente di maggior valore, e risalito sul suo bel cavallo ripartì.

Gli elfi lo guardarono correre via, il suo corpo brillava e il suo elmo luccicava benché il sole stesse calando e il buio cominciasse timidamente a farsi avanti.

In men che non si dica Boscoverde abbracciò il buio, le piante e la vegetazione crescevano rigogliose e si rinvigorivano anche grazie alle ombre e all’oscurità che con chiarezza mostrava le stelle brillare in cielo.

Elrond propose di fermarsi e trascorrere la notte accampati. “Possiamo riposare anche a cavallo” disse Celebrian, “Non c’è la necessità di rallentare, io non sto così male”.

Haldir scese da cavallo e sorrise alla giovane. “Riposare un po’ non farà male a nessuno e certamente non staremo fermi tutta la notte. Partiremo allo spuntar del sole”.

Bolin si buttò giù dal cavallo e rimessosi in piedi prese il suo sacco e vi frugò dentro alla ricerca di qualcosa da mangiare.

Elrond si sistemò su una roccia, dalla quale Celebrian stette ben lontana. Bolin trovò una mela raggrinzita in fondo al sacco e l’addentò. Elrond lo guardava torvo. “Non è così male come sembra, è molto più dolce di quelle fresche” spiegò il nano.

L’elfo gli sorrise e gli fece cenno di sedersi accanto a lui. “ Allora Mastro Nano, cosa ti porta a compiere un viaggio solitario lontano da Moria?”.

Bolin masticò lentamente la mela, questo era il momento buono per togliersi parte del suo peso di dosso. “Io … io sono andato via da una situazione insostenibile e che non avevo alcuna speranza di cambiare”.

Elrond era incuriosito. “Ci sono molte cose che vorremo cambiare ma non possiamo”.

“Ah! Scometto che la vita di un elfo è molto più tranquilla di quella di un nano! Specialmente se quel nano sono io”.

“Non si dovrebbe giudicare gli altri prima di conoscerli. E anche dopo averli conosciuti bisognerebbe mostrare maggiore cautela”.

“Io” iniziò Bolin “non sono stato cresciuto dai miei genitori, ma da un altro nano. Il suo nome è Neomat”.

“Anche io non sono cresciuto con i miei genitori, ma da un altro elfo”.

“Gil-galad” affermò Bolin.

“Esattamente” sospirò Elrond.

Bolin era triste, la tristezza dell’elfo era contagiosa. “In ogni caso ho fatto di tutto per tutta la mia vita per renderlo fiero di me. Inizialmente lo rendevo orgoglioso, lavoravo bene i metalli e lui mi lodava. Questo mi faceva sentir bene. Poi un po’ alla volta le cose cambiarono. Mi chiedeva di portare a termine progetti segreti e io ingenuamente ero felice perché credevo di essere stato scelto grazie alle mie abilità… con il tempo ho capito che fui scelto perché potevo essere manovrato, e usato”.

Elrond ascoltava in silenzio. Bolin riprese: “Un giorno venne da noi un elfo. Non ci disse il suo nome e io lo chiamai Il Male, chiese a mio padre di riprodurre un’antica spada elfica. Lui disse che le spade dei nani non potevano essere forti, robuste ed eleganti come quelli fabbricate dagli elfi, e Il Male insistette nel dire che quella riproduzione in particolare doveva essere identica all’originale.

Io cominciai a lavorare il metallo, per renderla altrettanto fine e bella dovevamo usare materiali molto più fragili rispetto a quelli che l’elfo ci indicò. Proseguivo il mio lavoro impegnandomi al massimo e felice di ciò che stavo facendo.

Poi accadde l’imprevisto. Sentì Il Male parlare con Noemat e dirgli che quella spada sarebbe stata la rovina di un grande Re degli elfi…”.

Elrond trattenne il fiato, aveva ascoltato il discorso di Bolin ma solo ora capiva che si trattava di qualcosa che li interessava in prima persona.

“Questo Re viveva in una grande foresta e conosceva benissimo la sua spada, non sarebbe stato facile imbrogliarlo. Allora Noemat chiese quale sarebbe stata la nostra ricompensa e Il Male gli rispose che avrebbe dato loro le gemme incastonate nella spada originale, al ché mio patrigno chiese come era sicuro che il Re avrebbe ceduto la sua spada e Il Male rise malignamente e poi rispose che il Re non avrebbe potuto opporre nessuna resistenza giacché sarebbe stato morto”.

“Mi stai dicendo che tu fabbricasti una spada per un Re elfico e …”.

“No… io non volli farlo. Quando l’elfo se ne andò via io mi rifiutai di completare il manufatto. Restai ancora a casa ma Neomat non mi rivolgeva la parola, mi rinfacciò di avermi amato e di non aver avuto niente in cambio da me se non tante delusioni. Una decina di giorni dopo decisi che me ne sarei andato via, andai a parlargli e lo vidi con Il Male, stavano discutendo. Il Male gli disse di non dover temere nessun tradimento, che avrebbe avuto la sua ricompensa e poi se ne andò. Restato solo Neomat parlò tra sé e sé a voce alta e disse esattamente Le rune naniche  che incisi nell’oro sotto le gemme della riproduzione saranno la mia garanzia” .

Elrond era stato attento e adesso cercava di tirare le somme. Forse, con molta probabilità, il patrigno di Bolin aveva duplicato la spada di Oropher, e chissà come Thranduil aveva intuito che era indispensabile recuperarla.

“Cosa disse Thranduil quando gli raccontasti la storia?” chiese Elrond.

“Non gliela raccontai. Non ne ebbi il coraggio… e tu sei molto veloce a fare due più due Messer Elfo”.

Elrond sorrise. “Bolin, le tue azioni non sono state malvage, mai. Sei fuggito via, è questo non è stato molto coraggioso ma ti sei rifiutato di prendere parte ad un’azione ignobile e omicida. Non c’è colpevolezza in te. Un buon padre sarebbe orgoglioso del tuo comportamento”.

Bolin sospirò, le parole di Elrond lo rassicuravano e allo stesso tempo lo agitavano. Lui aveva capito, chissà cosa avrebbe fatto Thranduil.

“Sento di aver tradito la fiducia di Thranduil, mi sento sporco!”.

“Non dire così. Probabilmente soccorrendolo gli hai salvato la vita. Lui è un elfo buono, e saprà guardare nel tuo cuore”.

Il viso di Bolin era bagnato di lacrime, aveva fatto bene a sfogarsi con qualcuno, sperava solo che anche il nuovo Re di Boscoverde avrebbe saputo capire.

Intanto mentre Haldir riposava Celebrian si guardava attorno, non amava particolarmente il buio, ma fu grazie all’oscurità della sera che poté vedere il lontananza una luce, un fuocherello.

“Guardate! Ci deve essere qualcuno laggiù!”.

Otto occhi scrutarono in lontananza. “Io non vedo niente” disse Bolin.

“Mastro Nano, i tuoi occhi non sono allenati a dovere e i nostri vedono ben più oltre di dove Uomo, Nano o qualsiasi altra razza possa”.

“Allora dobbiamo andare” fece il nano intrepido “Se lo vedete significa che è un buon segno. Ormai son passate due ore, chi era stanco si è riposato?” chiese per curiosità.

Gli elfi risero dei modi di Bolin, dunque si risistemarono sui cavalli e partirono per andare incontro al piccolo fuocherello che vedevano in lontananza.

“Speriamo sia Thranduil e che ci dia buone notizie sulla sua cara moglie e il suo giovane figliolo” disse il nano.

“Speriamo sia mio padre” disse fiduciosa Celebrian.

“L’importante è che sia qualcuno che ci dia delle risposte” concluse saggiamente Haldir lasciando a Elrond la possibilità di non esprimersi.

Passata mezzora circa incrociarono un cavallo solitario senza cavaliere. “Chi mai lascerebbe un cavallo tanto bello da solo?”, domandò Bolin.

“Nessuno” gli rispose Elrond.

Celebrian guardò meglio verso l’animale. “E’ il cavallo di mio padre!”.

Haldir scese subito dal suo destriero e avvicinandosi all’animale lo riconobbe. “Hai ragione, Celebrian. E’ il cavallo del Signore del Bosco dorato, ma … è zoppo”.

“Perché è da solo? Non credo che mio padre lo avrebbe abbandonato solo perché è diventato zoppo”, disse Celebrian che dentro sé cominciava a porsi domande.

Elrond controllò la zampa dell’animale, poi prese dalla sua sacca delle erbe e dopo averle masticate e ammorbidite con la saliva mise l’intruglio sulla zampa lesa. “Il succo delle erbe penetrerà nella pelle e rilasserà il muscolo. Di più non posso fare”. Poi sussurrò alle orecchie del cavallo parole elfiche  e questo gli strofinò il muso sulla guancia.

“Secondo voi cosa è successo?” domandò Celebrian.

Nessuno rispose e Celebrian capì cosa avrebbero voluto dire.

E’ ferito.

E’ legato.

Cosa possiamo fare?

Dobbiamo chiamare aiuto!

Più di quello che stiamo facendo non possiamo fare niente.

Diffondiamo la notizia cosi che tutta la foresta sappia.

Forse qualcuno potrebbe sentirci.

E qualcuno sentì.

“Legolas, dobbiamo andare verso Imladris. Così ha detto tua madre” gli ricordò Mithrandir.

Il ricordo di sua madre lo fece esplodere. “Cosa ne sai di mia madre! Come ti permetti di darmi ordini! Tu non sai niente! Mio padre è ferito e ha bisogno di aiuto! Subito! E tu non mi fermerai!”.

Mithrandir tenne stretto il lungo bastone su cui si reggeva, raddrizzò al schiena e il suo volto divenne severo. Improvvisamente l’uomo sembrò diventare più alto e un’ombra scura gli si formò attorno. “Non c’è bisogno di gridare, io non sono tuo nemico”.

Legolas era impressionato ma non si mosse di un passo, l’uomo non lo spaventava anche se sicuramente non era un uomo normale.

“Io ti voglio aiutare,” continuò riportando luce attorno a sé,  “ma non posso farlo se ci addentriamo nella foresta. Cose poco chiare avvengono sotto le foglie di questa immensa foresta”.

“Mio padre … non posso abbandonarlo”, disse lentamente e con le lacrime agli occhi Legolas.

“Mio giovane amico” disse con dolcezza Legolas “parli sempre di tuo padre, non sei preoccupato per tua madre?”.

Legolas si coprì il viso con le mani e pianse. Mithrandir aspetto che l’elfo si calmasse e poi ascoltò con attenzione tutto ciò che Legolas gli disse. I fatti erano peggiori di quanto immaginasse. Wisterian era morta, Thranduil era ancora ferito e molto debole.

“Adesso spetta a te” disse Legolas rivolgendosi all’uomo. “Io sono stato sincero, adesso devi esserlo tu. Cosa mi nascondi?”.

Mithrandir sorrise. “Sei molto sveglio per la tua età. Bene, pochi giorni fa ho incontrato tuo padre. Lui era ferito, ma l’ho aiutato a risistemarsi un pochino. Speravo che riuscisse ad arrivare alla fortezza senza incontrare ulteriori pericoli, ma mi sbagliavo. Adesso dobbiamo intervenire, tua madre ci perdonerà se deviamo dal suo itinerario, ma credo che in fin dei conti tu abbia ragione, dobbiamo raggiungere tuo padre”.

“E se incontriamo Celeborn?”, domandò spaventato Legolas.

“In tal caso, non dobbiamo opporci a lui. Facciamo finta di non sapere la verità, ciò ci sarà utile in seguito. Il cugino di tuo padre è fin troppo spietato, non esiterebbe a farci del male se gliene dessimo occasione”.

Legolas riconobbe la verità nelle parole dell’uomo e lo appoggiò. Proprio come lui temeva, dopo una mezzora che seguivano le voci degli alberi incontrarono Celeborn.

“Legolas!” chiamò Celeborn con stupore, giacché pensava che Galion lo avesse già ucciso, “Cosa fai qua, in giro per la foresta?”.

L’elfling si irrigidì, davanti a sé aveva la causa della morte di sua madre, forse anche di suo nonno, che montava Lùth, il cavallo di suo padre. Improvvisamente ebbe il desiderio di accusare Celeborn di tutto il male che aveva combinato ma non lo fece, si mantenne al piano di Mithrandir.

“Celeborn, Signore del Lothlòrien, è una gioia immensa vederla. Sono qui, perché fuggo dalla fortezza di mio nonno e di mio padre, a causa del tradimento di un fedele amico della mia famiglia che si è macchiato le mani del sangue di mia madre Wisterian e del mio tutore Fidelhion”.

Dentro sé Celeborn era molto soddisfatto, Galion era riuscito  almeno in parte a portare avanti il piano, Wisterian era stata elimanata! Le sue mani cercarono l’anello di Oropher nella sua tasca, già si vedeva mentre infilandosi l’anello al dito apriva e serrava il grande e possente cancello della fortezza.

“Quali parole di sventura odono le mie orecchie. Il mondo sta cambiando e gli amici assumono vesti di agnelli per mostrarsi poi lupi ferocissimi al calar della notte”.

Poi Celeborn spostò lo sguardo sull’uomo. “Come mai un Uomo viaggia in questa foresta, accompagnando mio nipote?”.

Mithrandir si poggiò sul bastone, usandolo appunto come appoggio. “In realtà, sire, non sono io che accompagno il giovane, bensì il contrario. Mi persi nella foresta tre giorni fa e pocanzi incontrai questo gentilissimo ragazzo”.

“Gli ho promesso che mi sarei preso cura di lui e lo avrei condotto a casa mia appena possibile” disse Legolas.

Celeborn guardò l’umano, ai suoi occhi era solo un vecchio malvestito con un bastone, niente di pericoloso, perciò non si pose nessun problema.

“Bene, Legolas. Direi che è il caso di tornare alla fortezza e affrontare il traditore. Se vuoi, l’Umano potrà venire con te”.

“Certamente non avrei chiesto il permesso di condurre un amico in casa mia, in quanto a te se vuoi ospiterò anche il tuo amico” sbottò Legolas indicando l’elfo che affiancava lo zio.

Celeborn ingoiò amaro, il piccolo ostentava il suo potere di discendente della casa di Oropher davanti a lui! Presto se ne sarebbe pentito.

“Non era mio volere offenderti, né assumere un ruolo che non mi compete. Spero, mio caro nipote, che non me ne voglia. Non è comune vedere un Uomo in un Regno elfico e io ero sinceramente preoccupato per te”.

Bugiardo e infame, pensò Legolas. “Scusami tu, zio. Sono molto stanco”.

“Vieni, torniamo alla fortezza” gli disse Celeborn e rivolgendosi a Mithrandir continuò: “Anche lei, ci segua, divideremo assieme le ansie fino alla casa di Oropher”.

Lùth sbuffò e guardò velocemente verso Legolas, sembrava stare bene e per quanto riguardava l’umano che era stato chiamato Mithrandir, se lo ricordava benissimo: era lui che aveva curato il suo padrone Thranduil presso Dol-guldur. Il principe Legolas era in mani sicure.

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Che fosse vivo o morto a Rhiaian non gli interessava per niente. Senza pensarci, coprì nuovamente Thranduil con il sacco e se ne andò.

La sua meta non era Pontelagolungo come aveva fatto credere ai suoi compagni ma la fortezza di Re Oropher, dove avrebbe dovuto incontrare un elfo di nome Galion, così aveva detto di chiamarsi a Neomat il giorno che andò a Moria per ritirare la spada duplicata.

La ricompensa di Neomat era vicina e così la sua. L’idea di una bellissima gemma nelle sue mani era straordinaria, lui avrebbe portato le gemme a Moria e poi, presa la sua parte, sarebbe davvero andato a Pontelagolungo per venderla agli uomini del posto o ai nani che ancora vivevano nella Montagna Solitaria.

Avrebbe voluto fare un po’ di soldi anche dalla cattura, o ritrovamento, di Thranduil ma nessuno era andato a cercarlo e forse la spada che aveva visto era proprio quella da cui sarebbero state prese le sue gemme preziose.

Eccomi qua.

Un bel capitolo, che ancora una volta non racconta tutto ciò che mi ero prefissata, ma è più difficile di quanto credessi far andare avanti la storia su più piani.

Spero che tutto sia di vostro gradimento. Ringrazio chi legge, chi recensisce, chi mette la storia tra le seguite e tra le preferite.

 Vi abbraccio tutti e vi lascio qualche indicazione per orientarvi:

·        Galion è nella Fortezza di Oropher.

·        Celeborn e il suo complice, assieme a Legolas e Mithrandir si dirigono verso la fortezza (sono a poche ore di distanza).

·        Rhiaian ha lasciato Thranduil e si dirige verso la fortezza (è a circa un giorno, poco meno, di distanza).

·        Thranduil è legato e impossibilitato di muoversi (si trova a un giorno di distanza dalla fortezza).

·        Elrond, Bolin, Haldir e Celebrian sono a un paio d’ore di distanza da Thranduil.

·        Glorfindel ha recuperato la spada e si dirige verso Boscoverde. 

 

 

 

 

 

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Capitolo 12
*** L'incappucciato ***


“Allora dobbiamo andare” fece il nano intrepido “Se lo vedete significa che è un buon segno. Ormai son passate due ore, chi era stanco si è riposato?” chiese per curiosità.

Gli elfi risero dei modi di Bolin, dunque si risistemarono sui cavalli e partirono per andare incontro al piccolo fuocherello che vedevano in lontananza.

 

 

 

Dizionario Sindarin-Italiano

Elrond : Volta stellata

 

 

Cap 12

La luce del fuoco in lontananza si faceva sempre più fiocca e Bolin temeva che alla loro velocità non sarebbero arrivati prima che essa si spegnesse.

“Mastro Nano,” disse Haldir intuendo i timori del compagno di viaggio “se non sarà la vista del fuoco a condurci laggiù, sarà quella del fumo”.

“Già”, rispose Bolin pensieroso.

Il viaggio continuò ancora un po’ prima che Bolin sospirasse al venticello che trovava la sua strada tra le foglie degli alberi maestosi.

“Elrond e Celebrian” bisbigliò il nano.

I due elfi risposero contemporaneamente: “Sì”. L’occasione strappò loro un sorriso.

“Però che udito! Niente, mi stavo chiedendo che cosa significassero i vostri nomi nella lingua comune”.

“Perché tanto interesse, Bolin?”, domandò Celebrian.

“Bhè, non sarò io a sceglierli, però stavo pensando a due nomi per i nascituri. Ma, Elrond, hai visto se erano maschi o femmine?”.

L’elfo guardava avanti, era stanco, aveva preso troppi colpi tutti assieme. Quanto erano duri i suoi giorni e quanto lo sarebbero stati in seguito.

“Che importanza ha? Erano con mio padre…”.

“Amore mio,” disse Celebrian “sai bene che le tue visioni non si realizzano sempre”.

Haldir la sostenne. “Non pensarci; vedrai, nasceranno, diventeranno grandi e forti. Non gli accadrà nulla, staremo attenti che siano sempre al sicuro”.

Elrond però non li sentì parlare. Bolin poteva vedere lo sguardo del Mezzelfo sempre più cupo, meno luminoso, sembrava che si stesse spegnendo davanti ai loro occhi.

Nel suo cuore Elrond risentiva la voce del padre che cantava del cielo azzurro, delle nuvole leggere, della poesia delle stelle e della volta stellata, e infine quando la musica ebbe termine le stelle caddero, divennero pietre e si ammucchiarono creando un tumulo che man mano si sgretolò mostrando il suo cuore spento e sanguinante.

“C’era una volta una creatura…”

“Era un elfo, papà?”.

“No, Thranduil, non era un elfo”.

“… che viveva nei boschi…”

“Sei sicuro che non fosse un elfo, papà?”.

“Sì, sono sicuro. Fammi continuare, dai. La creatura aveva lunghi capelli che soleva raccogliere in una treccia…”

“Come gli elfi, papà?”.

“Sì, come gli elfi Thranduil”.

“Però non era un elfo. Vero, papà?”.

“No, Thranduil, è vero. Non era un elfo!” si spazientì Oropher.

“Sei adirato con me, papà?”.

“No, Thranduil. Vorrei solo finire la storia. Non vuoi sentirla?”.

“Ma poi arrivano gli elfi, papà?”.

“Thranduil, non tutte le storie parlano di elfi. Perché è tanto importante?”.

Gli occhi di Thranduil divennero grandissimi mentre rispondeva gioioso. “Perché così posso pensare che tu sia l’elfo che arriva e salva tutti, come fai sempre!”.

Oropher era felice, sapeva che diventando padre avrebbe certamente avuto modo di sentirsi orgoglioso del proprio figlio, ma che fosse una sensazione così intensa non lo avrebbe mai creduto.

“Allora, riprendiamo”,  disse sorridendo. “C’era una volta una creatura…”.

“Era un elfo, papà?”.

Oropher sorrise, sospirando. “Sì, Thranduil era un elfo. Era un grande elfo…”.

“Sì, sì. Lo sapevo che doveva essere un elfo!”, strillettò contento il piccolo. “Come si chiamava, papà?”.

“A dire il vero,” rispose il grande Re Oropher “a dire il vero, si chiamava Thranduil, come te…”.

Thranduil boccheggiò per un po’ d’aria e si svegliò di soprassalto; la foresta lo aveva svegliato per avvisarlo che qualcuno era in arrivo. Non poteva vedere ma sentì voci e tra le tante ne riconobbe una, e fu contento di sentirla.

“Stiamo arrivando, già … stiamo proprio arrivando al fuocherello, già, già…”.

Era Bolin, lo avrebbe riconosciuto fra mille nani chiusi dentro una grotta. Thranduil provò a chiamare il nano ma la voce non volle saperne di venirne fuori, e di muoversi non se ne parlava nemmeno, ma niente di tutto ciò fu importante perché appena i quattro arrivarono al fuocherello notarono subito il sacco buttato per terra e dei capelli chiari che spuntavano di lato.

Scesero da cavallo e Haldir si avvicinò al sacco, facendo cenno con la mano a Celebrian di star lontana caso mai si trattasse del padre. Invece spostato il sacco videro che si trattava di un elfo barbaramente legato, che indossava indumenti logori e laceri in diversi punti, ma soprattutto che era ferito.

Elrond affianco Haldir. “Dobbiamo subito sciogliere questi nodi” disse indicando la corda che legava il collo alle caviglie.

Haldir prese un pugnale ma Elrond lo fermò. “No, così è troppo pericoloso”.

“Questi nodi non sono dei più semplici, io non ne ho mai visti di simili”.

Bolin si avvicinò e vide l’elfo e i nodi. “Ehi, quelli sono nodi fatti alla maniera dei nani!”.

“Li sai slegare, Bolin?”, chiese speranzoso Elrond.

“Sì, certo”, rispose il nano e in due mosse sciolse il nodo. La testa di Thranduil scattò indietro come fosse una molla e se non ci fosse stato Haldir a tenergliela sollevata, sicuramente avrebbe sbattuto con forza sulla nuda terra.

Haldir invece sostenne la testa e tolse i capelli dal viso, con un po’ d’acqua avrebbero ripulito il viso dell’elfo pensò, ma si accorse che il gelo era sceso tutt’attorno. Non ne capiva il motivo, guardò in faccia Elrond, Bolin e Celebrian, poi si rivolse all’elfo che sorreggeva e riconobbe i lineamenti del nuovo Re di Boscoverde.

“Thranduil! Oh, subito, sbrigatevi. Slegategli le mani e le caviglie!” ordinò Elrond.

Haldir girò Thranduil, che giaceva nelle sue braccia a peso morto e Bolin con pochi movimenti sciolse gli ultimi nodi. Era notte ormai, e la luce scarseggiava nonostante i quattro elfi ne emanassero un po’, ma quella poca che il fuoco riusciva a diffondere bastò perché tutti si rendessero conto delle pessime condizioni in cui giaceva il Re di Boscoverde.

Thranduil da canto suo aveva gli occhi aperti e vedeva che Bolin, Elrond e altri due elfi stavano muovendosi attorno a lui per aiutarlo ma non aveva la forza di parlare; Elrond gli parlava, continuava a dirgli di stare fermo che avrebbero sistemato tutto, Bolin cercava di sdrammatizzare dicendogli che lo trovava sempre in uno stato penoso. Thranduil avrebbe voluto sorridergli ma rimase a fissarlo senza far altro.

Elrond era già sfinito di suo, ma come ogni buon guaritore non si sarebbe risparmiato e così con l’aiuto di Bolin e Haldir iniziò a curare il suo amico.

Finalmente erano arrivati alla fortezza! Legolas era teso, non avrebbe voluto confrontarsi con Galion così presto, ma non aveva alternativa. Era felice che Mithrandir fosse al suo fianco, la foresta ne aveva ricevuto un’impressione positiva e tanto bastava perché Legolas si fidasse di lui.

Celeborn osservò il grande portone dell’ingresso: era aperto. Senza pensarci infilò la mano in tasca e accarezzò l’anello che era stato di Oropher, con quello avrebbe potuto chiudere la fortezza agli estranei e indesiderati.

Quando arrivarono, molte guardie salutarono Legolas, che sembrava un tantino assente, salutava e rispondeva a cenni. Mithrandir gli era accanto e osservava tutto con estrema attenzione. Nessun elfo pareva essere ostile al giovane Legolas, eppure qualcuno aveva complottato alle spalle della corona.

Celeborn espresse alle guardie la sua volontà di parlare con Galion e queste li invitarono a spostarsi nella sala del trono. Era una grande sala, niente di eccessivo, il trono però era maestoso con dei bellissimi intagli in legno a forma di corna di cervo e dove in rilievo era inciso in spazi davvero piccoli delle scene di vita che raccontavano della famiglia reale, di come gli elfi Sindarin erano giunti con Oropher a Boscoverde e di come il regno si fosse man mano ampliato.

Affianco al trono c’erano altre sedie decorate con molta semplicità ma di un fascino genuino, erano le sedie della regina e del principe in carica, dove Thranduil si era seduto fino ad allora. Legolas fissava le sedie e pensava che ancora una volta il posto della regina sarebbe stato libero e quello del principe sarebbe stato occupato da lui.

Non pensava questo in termini di potere, pensava che lui si sarebbe seduto accanto al padre e che la madre invece non si sarebbe mai seduta al loro fianco. Mithrandir attendeva di conoscere Galion e quando questo fece il suo ingresso, il saggio anziano vide nei suoi occhi qualcosa che era molto ben nascosto, ma cosa fosse bisognava scoprirlo.

Galion guardò Legolas e questo immediatamente lo assalì. “Tu! Sei un assassino!”.

“Di cosa parli?” domandò stupito Galion.

Legolas non poteva sopportarlo, l’elfo stava chiaramente negando.

Celeborn intervenne. “Legolas afferma che tu abbia ucciso Wisterian. Puoi negarlo?”.

Galion vide il Signore del Bosco Dorato, stava cercando di prendere tempo, ma lui sapeva benissimo che non lo avrebbe tradito.

“Wisterian? La sposa del principe Thranduil?”, chiese irrequieto lui.

“Certo, e chi altro sennò”, rispose Celeborn avvicinandosi al trono.

Mithrandir non mancò di vedere l’interesse che Celeborn sembrava avere per quella “sedia del potere”. Celeborn a mani aperte la stava accarezzando e nei suoi occhi si insinuò una luce chiaramente maligna.

“Come si sono svolti i fatti, dunque”, riprese Celeborn quasi a voce bassa.

Galion sorrise, questo era il complice che conosceva. “Non come avevamo previsto, ma il piano si può sempre perfezionare”.

In quel momento Mithrandir ebbe la conferma che Galion e Celeborn erano in combutta e che lui e Legolas era caduti in una trappola ben orchestrata. I suoi riflessi però non furono abbastanza rapidi.

Con uno schiocco delle mani Galion diede il segnale e due piccoli aghi di ghiaccio imbevuti di un potentissimo sonnifero colpirono il collo del vecchio e di Legolas facendoli stramazzare al suolo. L’arciere segreto uscì allo scoperto. Nedhian aveva uno sguardo più che soddisfatto, due tiri veloci e consecutivi e due centri perfetti.

Celeborn sussultò aspettandosi forse una freccia anche per lui, ma quando vide che l’arciere aveva abbassato l’arco si calmò. “Che storia è questa?”, domandò.

Galion fece si chinò verso l’uomo e Legolas e controllò le pulsazioni: erano rallentate ma andavano più che bene. “Non possiamo lasciare andare via un possibile pretendente al trono, né tantomeno un umano, che del resto non avrebbe dovuto neanche trovarsi all’interno di Boscoverde. Dobbiamo sbarazzarcene ma in modo pulito. Diremo che Legolas è impazzito e che per questo è confinato nelle sue camere. Dell’umano non chiederà nessuno”.

Celeborn non era del tutto sicuro, c’era qualcosa in Galion che lo preoccupava, che gli faceva nascere dei dubbi, ma non disse nulla, ne avrebbero parlato in privato.

Vedendo che Celeborn non aveva niente da aggiungere, Galion ordinò a Nedhian di prendere Legolas mentre lui tirava per le caviglie l’umano.

“Dove li portate?” si informò Celeborn.

“Nelle vecchie prigioni”, rispose con perfidia Galion “dove nessuno potrà vederli o sentirli”.

“E come farete a passare inosservati fino alle prigioni?”.

Nedhian sollevò Legolas, il ragazzo era sempre stato magro ma a sentirlo in braccio sembrava proprio leggero. “Forse ci sarà bisogno di un guaritore con noi. La gente potrebbe trovare strano che nessun guaritore veda l’erede al trono”.

“Ha ragione”, disse Galion “non ci avevo pensato”.

“Prendete chi volete, basta che nessuno li cerchi”, rispose stanco Celeborn. Prima che i due se ne andassero, Celeborn domandò a Nedhian: “Come si chiude il portone della fortezza?”.

Nedhian era stupito dalla domanda ma non aveva alcun motivo per non rispondere a qualcosa di tanto ovvio. “Si chiudono le due porte, e si gira la chiave”.

Celeborn era stizzito, però chiaramente Nedhian non lo stava prendendo in giro, evidentemente non sapeva dell’anello.

Una volta che furono andati via, Celeborn uscì dalla Sala del trono e si avviò verso il portone. La fortezza sembrava essere pressoché disabitata, meglio così  pensò l’elfo meno sono, più facile sarà governarli.

Il portone era aperto e nessuno lo sorvegliava, Celeborn guardò oltre la soglia, gli arbusti che al suo ingresso erano verdi e rigogliosi cominciavano ad appassirsi, questo lo rendeva nervoso. Cosa se ne sarebbe fatto di una foresta se questa fosse morta al suo passaggio?

Pensieroso, tolse l’anello di Oropher dalla tasca e se lo infilò al dito, c’era ancora un po’ di sangue di Thranduil tra gli smeraldi verdi. Ci passò un dito per cercare di ripulirlo, poi chiuse un anta del cancello e di seguito la seconda, infine girò la chiave nella serratura. Provò ad aprire il cancello e questo si aprì.

Non bastava indossare l’anello nel momento in cui la chiave girava. Forse bisognava pronunciare a voce alta una formula. Perciò disse: “Che per volontà del Re si chiuda il cancello”, ma non accadde niente. “Ti ordino di chiuderti”, disse con voce imponente, ma il portone restò aperto.

Neanche l’anello funzionava! Tutto era contro di lui! Preso dall’ira, Celeborn riaprì il portone e con rabbia scagliò lontano l’anello, poi, giratosi si diresse nuovamente verso la Sala del trono, dove avrebbe parlato nuovamente con Galion, ma questa volta da solo.

Intanto da sopra un albero,

Il riposo di Thranduil non potè durare a lungo, eppure a lui due ore sembrarono una lunga notte. Elrond e Haldir lo avevano denudato dalla vita in giù, era stata un’operazione lenta perché i pantaloni erano stracciati e incollati alla pelle con il sangue e la sporcizia. Avevano cercato di ripulirlo alla luce del fuocherello, ma non si vedeva abbastanza.

Bisognava aspettare la luce del giorno, nel frattempo Elrond gli trasmise parte della sua energia, il tanto perché potesse riprendersi senza affaticarsi egli stesso. Un lenzuolo, che Celebrian aveva messo nella sua sacca prima di partire, avvolse il Re di Boscoverde.

Celebrian prese una brocca d’acqua e con un panno iniziò a pulire in viso e i capelli di Thranduil, mille pensieri scorrevano nella sua testa come un ruscelli impetuosi che si riversavano su un grande fiume costeggiato dal dubbio che forse, davvero, era stato suo padre a fare del male a Thranduil, e prima ancora a  Gil-galad.

Gli occhi di Celebrian si riempirono di lacrime che scesero sul suo viso per essere asciugate dalle mani di Elrond. Lei alzò lo sguardo verso il suo amato e scosse la testa in segno di diniego. “Non può essere, Elrond. Mio padre non lo farebbe mai. Vero?”.

Elrond l’abbracciò, ma non disse niente. Thranduil intanto dava segni di volersi svegliare, provò ad aprire gli occhi ma si accorse di non riuscire ad aprirli entrambi, uno era gonfio e pesto. La testa gli doleva, provò a parlare ma la bocca era contusa e le labbra spaccate.

Si agitò, ma venne tenuto fermo. Le mani che lo tenevano erano decise ma non gli facevano male. Lentamente Thranduil riuscì ad aprire un occhio e guardarsi attorno.

“Chi sei?”, domandò stanco.

“Non mi riconosci?”, si sentì rispondere. Guardò meglio e vide una lunga chioma nera e un elfo che gli sorrideva. “Oh… Elrond…”.

“Proprio io”, confermò egli.

Thranduil richiuse gli occhi, prese fiato e con un filo di voce disse: “Elrond, Gil-galad … tuo padre … mi spiace… è morto. Celeborn ci ha … traditi… tutti…”.

Celebrian si portò le mani al volto e si allontanò di qualche passo.

Elrond gli posò la mano sul braccio e glielo strinse mostrandogli la sua vicinanza. “Ho trovato il suo tumulo a Dol-guldur”.

“C’era un tipo con un cap-puccio che …mi ha… curato…”.

“Non stancarti Thranduil,” disse una voce nuova “ci racconterai tutto quando starai meglio. Già”.

Thranduil registrò la voce e provando a sorridere disse: “Bolin! Hai trovato Elrond!”.

“Già” confermò il nano.

“Già” ripeté ridendo Thranduil, ma presto la risata si trasformò in tosse. Thranduil si portò le braccia al petto, non riusciva a riprendere fiato, la tosse era troppo stancante. Subito Haldir porse  un tegamino con dell’acqua tiepida che aveva preparato sul fuocherello ad Elrond che ci sbriciolò dentro un po’ di erbe, le quali in breve calmarono la tosse dell’elfo.

Un lieve venticello accarezzò gli alberi. “Sembra che la foresta stia soffrendo”, notò Elrond.

“E’ la presenza di Celeborn” spiegò Thranduil. “L’ho visto…, quando tocca gli … alberi e dove passa… la foresta ap-passi-sce …”. Thranduil si dovette fermare perché ancora la tosse lo bloccò.

Sentì piangere e tentò di individuare la fonte del pianto, ma non riusciva a muoversi. Allora senza dir niente guardò Bolin e questo gli rispose: “Si tratta di Celebrian, l’innamorata di Elrond”.

Thranduil si irrigidì spaventato. “Lei non è come il padre”, disse Bolin: “secondo me  è una brava persona o non sono un nano!”.

“Inoltre”, aggiunse Bolin ricordandosi qualcosa di importante “aspetta due elfi”.

“E chi sono?”, chiese lui pensando che altri elfi del Lothlòrien dovessero arrivare a Boscoverde.

“Oh, io non lo so di sicuro. I nani non vedono il futuro… questa è una storia di elfi…”.

Elrond attirò l’attenzione di Thranduil, che subito si fece attento. “Celebrian ed io aspettiamo due elflings”.

“Due? E’ una cosa davvero rara”. Thranduil sospirò e pensò a Legolas, a Oropher, a Gil-galad e a Elrond che si trovava davanti ai suoi occhi, e anche alla povera Celebrian che non era responsabile del comportamento del padre. “Questo ci dice quanto i Valar vi amino… e consacrino la vostra unione con qualcosa di eccezionale. Elrond, … io … sono … felice per voi”.

“Se Celeborn ha ucciso mio padre…”.

“Il buio avvolge tutto… tranne le stelle…, fatti guidare da loro… e non scordarti che occorre… il buio pesto …per vedere …le stelle …più delicate. Forse …queste due nuove stelline … possono…  condurvi lontano…, oltre la paura… l’odio … e la disperazione e… e darvi un po’ di pace”.

Elrond rimase in silenzio, quanto erano vere le parole del suo amico! A parte la visione che aveva avuto non c’era motivo reale per allontanarsi da Celebrian, anche ciò che gli aveva detto sembrava non far più tanto male considerata la situazione particolare in cui lei era esplosa.

Chiamò Haldir per farsi aiutare ancora con Thranduil, ma quest’ultimo si era nuovamente addormentato.

Le vecchie prigioni erano decadenti e pericolanti per questo motivo Re Oropher aveva dato ordine di abbandonarle e di crearne delle nuove all’interno della fortezza. Le infiltrazioni d’acqua aveva reso instabile il terreno e i muri, fatti di pietra e argilla, durante le forti piogge si sgretolavano.

A Legolas era stato proibito di andarvi, e nessuno né adulto né giovane poteva entrarci. La costruzione sarebbe dovuta essere stata smantellata prima del nuovo inverno, ma la guerra aveva portato via molti elfi e bloccato i lavori.

Galion e Nedhian portarono i due prigionieri nelle loro celle, erano due celle attigue ma comunque separate.

“Celeborn, sembra essere indifferente alle sorti di Legolas e dell’umano”, affermò Nedhian.

“Infatti lo è. E’ un elfo senza scrupoli, stacci molto attento”, gli consigliò Galion.

Lasciarono i due nelle prigioni e uscirono stando molto attenti a dove mettevano i piedi, infatti il terreno era scivoloso e alcune volte capitò loro di doversi mantenere in equilibrio per non cadere a terra.

Nedhian tornò subito dentro la fortezza percorrendo un passaggio segreto che Galion, di nascosto da Oropher aveva costruito negli ultimi tempi, da quando era in combutta con Celeborn. Poiché egli non sapeva niente del passaggio segreto di Oropher e avendo bisogno di una via di fuga aveva ben pensato di costruirsene una da solo.

Mentre camminava nel bosco attorno alla fortezza, Galion venne avvicinato da qualcuno incappucciato. “Non dovresti essere così imprudente!”, esclamò Galion.

“Imprudente? E’ notte fonda, nessuno ci vedrà. Ho visto arrivare qualcuno. E per caso Thranduil?”.

Galion rispose subito: “No, è Legolas, è rientrato con Celeborn e un umano”.

“Dove sono?”, chiese l’incappucciato con gli occhi pieni di speranza.

“Legolas e l’umano sono nelle vecchie prigioni, fra poco porteremo anche un guaritore là dentro per raffinare la copertura”.

“E’ un posto pericoloso”, rifletté pensieroso l’altro.

“Per loro è più pericoloso stare accanto a Celeborn. Comunque hai ragione, è ancora buio. Hai del tempo. Porta loro da mangiare, io devo incontrarmi privatamente con Celeborn”, disse andando via.

“Ehi! Galion!”, attirò la sua attenzione l’altro “Ho visto un nano nelle vicinanze…”.

Galion fece cenno di assenso con la testa: “Bene, me lo aspettavo. Alla fine si deve compiere tutto”. Poi voltatosi si diresse verso la fortezza, con il desiderio di tornare indietro e non aver commesso errori che ora lo conducevano verso un cammino molto più difficile da compiere.

L’incappucciato si diresse verso il suo nascondiglio nella foresta, ma passando davanti al portone vide qualcosa di inaspettato. Il signore del Lothlòrien, Celeborn, stava chiudendo il portone.

Aspettò un po’ e il portone venne riaperto, il volto di Celeborn era livido dalla rabbia, e con forza scaraventò qualcosa nella foresta. Poi vide Celeborn rientrare e velocemente scese dall’albero e si avvicinò all’oggetto lanciato, doveva essere qualcosa di piccolo perché ne aveva visto il luccichio ma non le dimensioni. La sua sorpresa fu notevole quando si ritrovò fra le mani l’anello di Oropher.

Lo osservò con molta attenzione, era bellissimo anche se era sporco di sangue. Con molto rispetto lo mise in tasca e si ripropose di renderlo un giorno al suo legittimo proprietario.

Il mattino non tardò ad arrivare. E con le prime luci anche la loquacità di Bolin ritrovò vigore.

“Io pensavo potresti chiamarlo semplicemente “elfo”, oppure solamente “uomo”, o magari “cavaliere” se ti sembra più appropriato” propose Bolin a Celebrian.

“I miei figli saranno sia elfi che uomini, come il loro padre”.

“E perciò?”.

“Bolin, ci vuole tempo… e poi anche Elrond deve prendere parte alla decisione”.

“Sì, è vero”.

Celebrian sospirò, le cose non stavano andando bene, poteva vederlo bene anche lei. Thranduil si era svegliato e Haldir con Elrond gli aveva impostato in posizione corretta sia la spalla che un un polso. Questo aveva causato molto dolore a Thranduil che era nuovamente svenuto. Gli avevano tolto la camicia, ripulito e fasciato il petto per tenere ferme le costole.

Fortunatamente le tre costole rotte non avevano intaccato i polmoni, e rispetto alla notte prima sembrava che il Re di Boscoverde stesse autorigenerandosi.

“E’ la foresta!”, spiegò Bolin, “Me lo ha detto lui che la foresta lo avrebbe aiutato a guarire”.

“Qua ci vuole ben più dell’aiuto della foresta”, affermò Haldir. “Non ho mai visto niente di simile. Insomma, a parte in guerra, anche se a questa non ho potuto prendere parte”.

Elrond preparava un unguento da spalmare sui lividi di Thranduil ma non poté non sentire la delusione presente nelle parole dell’elfo del Lothlòrien. “Non devi sentirti triste, Haldir. Partecipare a una guerra non rende migliori; avresti visto grandi elfi cadere, tanti uomini morire, tanta disperazione e magari saresti caduto anche tu”.

“Eppure sento di non aver fatto il mio dovere”.

“Il tuo dovere era stare nel Bosco Dorato e proteggere mia madre e me, e lo hai fatto”, gli fece notare Celebrian.

“Insomma, non è che lo abbia fatto tanto bene… sei riuscita a scappare…”, disse Bolin mettendo un tegamino sul fuoco.

Haldir non gliela fece passare. “Non mi è scappata, io stavo partendo per una missione datami da Dama Galadriel”.

Bolin sollevò le spalle, in realtà non era per niente interessato a questo elfo, era noioso, troppo, troppo serio. “Quando tornerà l’altro elfo?”.

“Chi?”, chiese Celebrian.

Bolin si mise in piedi e sollevando le braccia in alto e allungando le mani quasi volesse toccare il cielo con esse, spiegò: “Quello alto, simpatico… quello biondo che rideva … aveva una missione anche lui, no?”.

“Ah, Glorfindel”, azzeccò Haldir, “… quello simpatico…”continuò sarcastico.

Celebrian rideva, si voltarono verso Elrond per sentire qualche aneddoto sull’elfo più biondo di Imladris e lo trovarono addormentato con gli occhi chiusi, nelle mani una ciotola di legno dalla quale colava l’unguento appena preparato.

Quando Legolas si svegliò, si accorse di essere sdraiato su qualcosa di umido, poteva sentire  odore di terra e muffa si alzò e le mani affondarono in un terreno melmoso. Non riusciva a capire dove si trovasse. Si ricordava di Galion, di Celeborn e di un pizzico alla base del collo, ma come aveva fatto ad arrivare là, non lo sapeva. Poi si ricordò di Mithrandir e lo chiamò a mezza voce un po’ intimorito.

Mithrandir si era già svegliato da un pezzo, in lui il sonnifero non aveva avuto gli stessi effetti, forse perché era stato fatto per stordire degli elfi e non degli uomini. “Legolas, sono qui. Credo nella cella accanto alla tua”.

“In…u.u.na…ce..ce…ll.lla!”, singhiozzò Legolas.

“Suvvia, Legolas. Non temere, riusciremo a venir fuori da questa situazione, ma tu devi essere coraggioso. Va bene?”.

“Ho p.p.pau..ra”.

“Non ce n’è motivo. Siamo qui, ma ti prometto, e quando io prometto mantengo sempre le mie promesse, che usciremo di qui”.

Legolas si zittì, le sue orecchie potevano sentire dei passi. Qualcuno stava avvicinandosi alle loro celle. Chi poteva essere? Forse Celeborn era tornato per ucciderlo, perché chiaramente era d’accordo con Galion. Non aveva alcuna possibilità di fuggire e Mithrandir anche se molto coraggioso era pur sempre un umano. Come avrebbe potuto sconfiggere degli elfi?

Mithrandir non udì i passi ma quando sentì dire: “Confermo, Mithrandir mantiene sempre la parola data”, non ebbe dubbi su chi poteva essere.

Un elfo che indossava un lungo mantello logoro con cappuccio gli sorrise. “Non so come tu riesca a muoverti con questi abiti, mio caro amico, ma io non vedo l’ora che tutto sia finito per levarmeli di dosso e renderteli”.

Mithrandir ricambiò il sorriso. “E io non vedo l’ora di riprendermeli. Ma dimmi come stai? Cosa ti porta qui? E perché non ci liberi subito?”.

L’elfo prese fiato. “Gli umani! Sempre molto curiosi e senza pazienza”.

“Sai”, spiegò Mithrandir, “noi non abbiamo l’eternità davanti a noi”.

L’elfo rise sottovoce. “Per prima cosa sto bene. Sono qui per voi, per te e un certo elfling che però non vedo…”.

“E’ nella cella affianco”, rispose Mithrandir.

L’elfo sia affacciò e guardò oltre le sbarre; Legolas era in un angolo che fissava spaventato verso il nuovo arrivato.

“Ciao, Legolas”, salutò l’elfo senza ottenere risposta.

“Ti ricordi di me?”.

L’elfo si affacciò verso Mithrandir, che gli disse: “Prima parlava, credo sia solo spaventato. Dai, su, liberaci”.

“Non posso, non adesso. Sono sicuro che Celeborn prima o poi verrà e vorrà trovarvi qua. Ma stai tranquillo, io vi sorveglierò e non vi accadrà nulla”, disse passandogli del cibo tra le sbarre.

Mithrandir era dubbioso. “Galion, il compare di Celeborn, ci ha rinchiusi qui dentro, ha ucciso Wisterian e anche un altro elfo molto vicino alla corona”.

“Ne sono consapevole. Pagherà ciò che deve, non temere. Per ora però non opponetevi in nessun modo a lui”.

L’elfo abbassò lo sguardo, si poggiò alle sbarre e guardando dritto in faccia l’Istari chiese: “Hai avuto notizie?”.

Mithrandir si fece serio. “Poco fa, appena mi sono ripreso. Non sta bene”.

L’elfo strinse le sbarre con tutta la forza che riuscì a mettere nelle mani. “Non sa ancora bene come usarlo e non si rende conto di quanto sia potente. Non lo usa per comunicare e come se fosse in attesa di qualcosa. Ho cercato di contattarlo, ma ho trovato la sua aurea troppo debole e credo che poi sia svenuto”.

“Abbiamo sbagliato, Mithrandir”.

“No, abbiamo fatto la cosa giusta per Arda. Non si tratta di me, ne di te, mio caro amico. Se Celeborn dovesse conquistare Boscoverde, la foresta morirebbe, gli elfi silvani morirebbero, tutti. Deve nascere qualcuno che salverà Arda fra molti, molti anni e allora dovrà trovare questa foresta e questi elfi”. Poi con molta dolcezza negli occhi e nella voce aggiunse: “E avrà bisogno anche di grandi Mezzelfi”.

“Adesso vai”, concluse l’Istari “è nelle vicinanze, lo posso sentire”.

L’elfo salutò Mithrandir, poi Legolas, che era ancora chiuso nel suo mutismo e uscì, facendo molta attenzione a non scivolare, e iniziò a perlustrare la zona della foresta attorno alla vecchia prigione.

Anche Galion era in perlustrazione, se l’incappucciato aveva visto un nano, doveva trattarsi chiaramente di Rhiaian venuto per la ricompensa di Neomat e per la propria. Nessun altro nano si sarebbe avventurato nella foresta, o almeno così credeva lui.

L’incontro con Celeborn era andato abbastanza bene. Il signore del Lothlòrien era infastidito per il coinvolgimento di Nedhian, e arrabbiato che Galion non avesse ucciso anche Legolas. Questo era un grandissimo problema, ma si sarebbero sbarazzati anche di lui, magari facendo credere a tutti che il ragazzino si fosse spento, che fosse svanito per la tristezza. Era un buon piano.

Per quanto riguardava il nano, avrebbero aspettato il suo arrivo e gli avrebbero consegnato la spada di Oropher. Ciò che era giusto, era giusto e certamente Celeborn non voleva inimicarsi i nani di Moria. Così Celeborn aveva consegnato la spada a Galion dicendogli però di darla al nano solamente dopo che lui fosse salito sul trono in maniera legittima.

E mentre ripensava a tutto questo Galion sentì il pesante passo di un nano. I passi degli elfi erano molto leggeri e Rhiaian ebbe un sussulto quando se lo trovò davanti.

“Identificati”, gli ordinò Galion.

“Sono un nano di Moria. Rhiaian figlio di Thriaian”.

“Sono Galion, e ti stavo aspettando”, rispose l’altro e fattogli cenno di seguirlo, andarono verso il passaggio segreto della fortezza.

 

 

 

  Ciao a tutti. Eccovi il nuovo capitolo. Scusate tanto per il ritardo … ormai credo di scusarmi ad ogni aggiornamento, però faccio davvero del mio meglio e il caldo, esagerato e senza un filo d’aria, non mi rende il compito molto facile.

Però il capitolo è molto importante, ormai siamo al punto di svolta, credo di essere abbastanza vicina alla conclusione, direi ancora quattro capitoli, ma forse cinque… diciamo che quattro è un numero indicativo.

Come sempre, aspetto le vostre recensioni… senza le quali sarebbe molto più complicato andare avanti…

Spero che la lettura vi abbia divertito e vi appassionato.

Un abbraccio,

Alida

 

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Capitolo 13
*** Per Arda ***


Salve a tutti! Ecco un aggiornamento… è un capitolo breve, ma non volevo lasciarvi senza niente fino a domenica. (Ok… sto fingendo di fare aggiornamenti in date stabilite… suvvia, almeno ci provo…).

Spero vi piaccia.

A presto, Alida

 

 

 

“Sono un nano di Moria. Rhiaian figlio di Thriaian”.

“Sono Galion, e ti stavo aspettando”, rispose l’altro e fattogli cenno di seguirlo, andarono verso il passaggio segreto della fortezza.

Cap 13

Rhiaian venne accompagnato in una stanza, che sicuramente era stata adibita per gli ospiti, nella quale trovò tutti i comfort che desiderava, ovvero un letto morbido, un bagno personale e del cibo.

A parte Galion e Celeborn nessuno era destinato a sapere della sua presenza, ma siccome l’odore dei nani era particolarmente forte per l’olfatto degli elfi, era stato sistemato in una zona poco frequentata della fortezza.

Per Rhiaian comunque non faceva differenza, non si trovava lì in segno di amicizia ma per motivi d’affari, e voleva concludere assolutamente al più presto l’intera faccenda ed essere lontano miglia e miglia di distanza, da Boscoverde.

Celeborn non aveva nessun interesse a condividere gli spazi con un nano adirato e perciò era andato nella sua stanza a rendergli omaggio; gli era costata non poca fatica, ma la diplomazia era d‘obbligo quando si trattava dei nani scavatori, e lui era disposto ad averla con chi aveva reso possibile la realizzazione del proprio piano.

“Quando avrò la spada?”, chiese senza indugio Rhiaian dopo i primi convenevoli.

Celeborn detestava essere affrontato di petto, lo fissò per un po’ e posando lo sguardo altrove parlo con fare distaccato. “Quando sarò sicuro che non dovrai usarla andando via dalla foresta. Voglio che il tuo rientro sia sicuro, fintanto che risiedi qua”.

“So badare a me stesso, e se il regno è tuo perché dovrei essere attaccato?”.

Celeborn ingoiò amaro, il nano stava andando ben oltre i suoi diritti di ospite. “Il Regno di Boscoverde sarà mio a breve, per ora non lo è. Ma fra pochi giorni sarà tutto sistemato. Fino ad allora starai qui, in questa stanza e possibilmente cerca di non far troppo rumore. L’udito degli elfi è molto sviluppato, non vorrei che qualcuno che non mi è devoto, trovandoti all’interno della fortezza fosse brusco con te”.

Rhiaian intuì la minaccia, neanche tanto nascosta, che stava dietro le parole di Celeborn e preferì lasciar cadere la questione, ma sicuramente Neomat ne sarebbe stato informato al suo rientro e se lo sarebbe legato al dito per affari futuri.

“Allora, l’elfo si chiamava come me, Ada?” chiese il piccolo Thranduil.

Oropher gli sorrise. “Sì, si chiamava Thranduil e aveva un amico…”.

“Era un elfo, Ada?”.

“Sì, ma era un po’ diverso dagli altri elfi, anche se lo era”.

“In che senso, Ada?”.

“Era qualcuno che aveva scelto di essere elfo, ma che, volendo, sarebbe potuto restare umano”.

Il piccolo Thranduil si fece serio e il mentre Oropher seppur non invecchiando, come si addice agli elfi, assumeva dei tratti di maturità e saggezza, il piccolo Thranduil divenne elfling e poi un elfo adulto.

“Come si chiamava questo elfo, Ada?”, chiese con voce greve.

Oropher si fece da parte e dietro lui comparve Elrond.

“Thranduil, non puoi vivere nei tuoi sogni, devi svegliarti”.

“Come hai fatto a essere qui? Credevo di dormire…”, obiettò Thranduil incredulo e un po’ spaventato dall’evento.

“Sono un guaritore, amico mio, e mio padre mi ha affidato un anello, molto potente, che a quanto pare amplifica le mie capacità”.

“Vuoi dire che potrai guarirmi più velocemente?”.

“Non lo so, però non credo. Io stesso sto scoprendo questo dono giorno per giorno e non ho le risposte che cerchi, né quelle che vorrei”.

Oropher si fece avanti. “Thranduil, ascolta Elrond. E’ un buon amico, devi svegliarti e se anche il dolore sarà forte non devi più cedere al sonno”.

Thranduil abbassò lo sguardo a terra. “Io… avrei voluto… c’erano ancora tante cose da dirci e da fare…, poi … magari… se aspetto… verrà anche Wisterian. Non credi?”.

“Figlio mio. Una volta entrati nelle Sale di Mandos possiamo venire a salutarvi nei sogni, ma solo per portarvi consolazione e speranza. Come ti sentiresti se vedessi la tua amata?”.

Thranduil stette zitto. Come si sarebbe sentito? Inutile, sicuramente, per non averla potuta salvare. Stupido, per non averle mai detto quanto la amasse veramente  e forse anche ingenuo per aver creduto che davvero, anche loro, sarebbero entrambi salpati per Valinor assieme, mentre adesso non si sarebbero più potuti rivedere o abbracciare.

“Tu l’hai vista?”, chiese Thranduil “L’hai vista?”.

“Sì, ma non ci siamo ancora parlati. Ha bisogno di tempo per accettare di essere qui. Io sono morto in battaglia e avevo messo in conto la possibilità di morire, per lei è diverso”.

A quel punto Elrond non si trattenne. “E mio padre, Gil-galad, l’hai visto?”.

Oropher guardò il Mezzelfo con costernazione. “No, Elrond. Perché mai l’avrei dovuto vedere”.

“E’ morto. Abbiamo trovato il suo tumulo”, affermò Elrond.

“Bhè, gli elfi che muoiono vengono tutti nelle Sale di Mandos. Se lui non c’è, allora la spiegazione è solo una, mentre per quel tumulo potrebbero essercene tante”.

“Adesso andate”, ordinò Oropher a entrambi. “Vai figlio mio, e prenditi cura di mio nipote”, disse rivolgendosi a Thranduil, poi guardò Elrond e gli rivolse queste parole: “Voi due, a modo vostro, sarete dei grandi elfi. Prenditi cura di mio figlio e di mio nipote”.

“Sarò anche un guaritore, ma per Boscoverde non posso fare niente. La foresta sta morendo,  appassisce…”.

“E’ colpa mia”, confessò Oropher, “Ho lanciato una maledizione su Celeborn e fintanto che lui attraverserà il mio regno, la foresta perirà. Adesso andate, e siate fiduciosi”.

E in un attimo, mentre ancora Thranduil e Elrond lo fissavano e le loro menti erano attraversate da nuove domande, l’immagine sorridente di Oropher svanì.

Thranduil allungò le mani nel tentativo di fermarlo ma non servì. Era andato e adesso forse non lo avrebbe neanche più sognato. Era inutile dormire, suo padre aveva compiuto il suo dovere ed era andato anche più in là, ma non sarebbe più riapparso.

“Thranduil, amico mio, svegliati. Devi essere cosciente per guarire, i miglioramenti che potevi trarre dal sonno li hai già avuti. Devi riprenderti, svegliati”.

E Thranduil si svegliò, assieme a lui anche Elrond. Entrambi avevano dei visi accigliati e Bolin, Haldir e Celebrian non sapevano come interpretare questo cambiamento.

“Pensavamo fossi svenuto!”, disse Celebrian avvicinandosi a Elrond.

“E forse sono svenuto, non so di preciso cosa sia successo”, disse tenendosi la testa fra le mani e posando lo sguardo su Thranduil che con un cenno confermò di aver condiviso il sogno, se sogno poteva essere chiamato, con il suo amico.

“Il lascito di mio padre ha un grande potere”, disse a voce alta più a se stesso che ad altri.

“Sembri molto stanco. Se vuoi aiutare Thranduil, devi essere in forma. Sarà il caso che mangi qualcosa”, disse Bolin prendendo un tegamino e preparandosi a cucinare qualcosa.

Haldir alzò lo sguardo al cielo, e sollevate le braccia in alto le lasciò ricadere di peso lungo i fianchi. “Questa sarà l’immagine di te che porterò per sempre nei miei ricordi. Anche fra mille o due mila anni ti vedrò sempre con un tegamino pronto a cuocere qualcosa!”.

Elrond sorrise. Thranduil provò a mettersi seduto, ma non ci riuscì. Inoltre la sua nudità sotto il lenzuolo lo imbarazzava parecchio. “Troveremo una sistemazione, vedrai”, lo rassicurò Elrond.

“Comunque, grazie”, disse rivolgendosi a Celebrian e indicando il lenzuolo.

“Di niente”, rispose lei. “Vuoi un po’ di acqua?”, gli domandò.

“Magari. E’ da un paio di giorni che non bevo niente. Avevo dell’acqua nella borraccia, ma era sul mio cavallo”. Poi si dovette fermare perché gli venne l’affanno. Dormire era molto più confortante, e chissà perché il padre non voleva.

“Ti consiglio di non dare risposte troppo lunghe, per ora sì o no basteranno”, gli suggerì Elrond.

Thranduil fece cenno di aver capito.

“Dov’è Lùth?”, chiese il nano a Thranduil.

“Celeborn”, fu la risposta.

Celebrian sentì di avere un groppo in gola, ancora una volta sembrava che suo padre avesse avuto una parte non proprio lodevole nello svolgersi degli avvenimenti.

“Uomo-elfo! Elfuomo!”, disse Bolin guardando Elrond.

“Elrond, va bene. Al massimo Mezzelfo, se proprio ci tieni”, specificò Elrond.

Bolin scattò in piedi con il tegamino in mano, correndo il rischio di rovesciare tutto il contenuto a terra. “Ma cosa hai capito! Dai, Elfuomo è un possibile nome per un bambino elfico. Non sarebbe bello?”.

Elrond fu lapidale. “Non spetta a te scegliere il nome di uno dei miei figli”.

“Ah, ah! Allora sappiamo che non ci saranno femminucce in famiglia!”, rispose Bolin.

“Ottima mossa, Mastro Nano. Ce ne vuole per cogliere in castagna mio figlio!”.

Tutti si voltarono verso la voce, assolutamente unica e inaspettata.

Gil-galad con un vecchio mantello logoro e un cappuccio era in piedi su un albero. Elrond lo vide e rimase pietrificato sul posto.

Celeborn con aria di superiorità perlustrava la fortezza, gli elfi che lo incrociavano vociavano al suo passaggio. Se Oropher fosse stato presente probabilmente il Signore del Lothlòrien non avrebbe avuto tale atteggiamento, sebbene avesse sempre guardato dall’alto in basso gli elfi silvani e non avesse mai capito fino in fondo cosa ci trovasse di tanto speciale Oropher in loro.

Celeborn, che era un elfo rancoroso, fissava in mente i volti degli elfi e delle Elleth che gli lanciavano sguardi ostili e presto, in qualche modo, si promise di fargliela pagare. Quegli elfi avrebbero dovuto sentirsi lusingati che qualcuno del suo rango si aggirasse per la fortezza, se non per altro almeno per trarre esempio sul portamento che un “buon elfo” avrebbe dovuto avere.

Invece agli occhi di Celeborn erano solo elfi rozzi e senza speranza. Dopo un po’ che camminava da solo, Celeborn venne avvicinato da Galion.

“Spero che ti senta a tuo agio, qui, all’interno della fortezza. Nonostante sia creata sotto la roccia, è pur sempre una bella casa. Non trovi?”.

Celeborn respirò pesantemente. “Credimi, è un posto dignitoso, ma si poteva fare decisamente di meglio”.

Il commento lasciò amareggiato Galion, al quale la casa che Oropher aveva fatto costruire era sempre sembrata bellissima, seppur fosse impossibile osservare il cielo aperto e le stelle al suo interno.

“Dobbiamo agire presto, amico mio”, riprese Celeborn, “prima che la maggior parte degli elfi silvani torni, dobbiamo prendere il potere”.

“E Thranduil? Non abbiamo la certezza che sia morto”.

“Faremo in modo che i sudditi di suo padre abbiano un motivo per dubitare di lui”, disse sorridendo. “Bisogna organizzare al più presto una riunione con i consiglieri del regno. Quanti sono?”.

“A dire il vero, Oropher non aveva bisogno di tanti consiglieri. Io ero il suo consigliere personale e questo lo sai. Poi c’erano suo figlio e in qualche misura anche sua nuora Wisterian”, e pronunciandone il nome la sua voce ebbe un calo.

“Ti senti in colpa?”, domandò Celeborn che faticava a capire il motivo dell’emotività del suo amico-collaboratore.

“No, sto solo pensando come organizzare il tutto. Di solito le decisioni importanti si svolgono in presenza di una decina di elfi, che non sono consiglieri ma che comunque esprimono i loro pareri e dunque le perplessità e la posizione dei sudditi. Non è semplice avere il consenso degli altri”, concluse Galion.

Celeborn non era interessato ad avere il consenso di tutti i sudditi, proprio non gli importava di loro. “Organizza come meglio credi, entro due giorni voglio questa riunione. Dobbiamo iniziare a fare qualche mossa decisa”.

“Ne abbiamo già fatto molte, e non vorrei che tutta questa fretta rovinasse i nostri piani, Celeborn”.

“Non metto in dubbio, che tu abbia fatto il possibile per portare a termine i nostri progetti, e due omicidi devono pesare, anche se in fondo si trattava di due elfi silvani, chiaramente un errore, un grosso errore dei Valar, però non dobbiamo cedere ora, Galion. Altrimenti per cosa li avresti uccisi?”.

“Sicuramente non per niente,” rispose Galion “non per niente”, ripeté.

E mentre se ne andava, gli ritornò alla mente la fretta con la quale aveva cavalcato per raggiungere Boscoverde in tempo per commettere un crimine, per avere forse metà della foresta, per aver potere, e in fin dei conti niente.

Gil-galad scese dall’albero con un salto da far invidia al più giovane degli elfi, la pugnalata di Celeborn era ormai guarita e nessun problema fisico che gli impediva di camminare, ma la distanza tra lui ed Elrond sembrava essere chilometrica seppur si poteva contare in pochi passi.

Davanti a sé aveva il figlio che tanto aveva amato e che aveva ferito nel più terribile dei modi mettendo in scena la propria morte, a lui avrebbe dovuto dare tante spiegazioni, in realtà molto semplici e banali, tanto da sembrare inconsistenti, spiegazioni che poi si racchiudevano in un’unica parola: Mithrandir.

Gil-galad vide Haldir e Celebrian, quest’ultima lo guardava con sospetto e sfida, probabilmente avrebbe dovuto chiarirsi anche con lei, poi c’era un nano, che sembrava un pesce fuor d’acqua in quel contesto e che però evidentemente doveva aver avuto un ruolo importante, per terra giaceva Thranduil, il nuovo Re di Boscoverde, coperto con un lenzuolo e infine in piedi, immobile, Elrond.

Gil-galad fece quei pochi passi che lo separavano dal figlio  e allungate le braccia posò le mani sulle spalle del figlio. “Mi dispiace, figlio mio, ho lasciato un grande peso sulle tue spalle, ma non l’ho fatto senza averci riflettuto bene prima. Credimi, se fosse stato possibile…”.

Elrond aveva lo sguardo puntato al petto del padre, non riusciva a guardarlo in faccia. Era adirato, deluso, non riusciva proprio a capire il perché di tutto quello che era successo avrebbe voluto abbracciare il padre senza pensarci su un attimo, ma lo sgomento era tale che rimase immobile. Gil-galad vide la confusione nel viso del figlio.

“Andiamo per ordine. Vuoi sentire cosa è accaduto?”.

Elrond allora fece cenno di sì, ancora senza sollevare lo sguardo.

Gil-galad sapeva che suo figlio non era l’unico ascoltatore, però voleva subito recuperare il rapporto con Elrond, sentiva infatti che fra loro, a causa sua, si era creata una frattura.

“Dopo esser partito con Celeborn alla ricerca di Thranduil, il viaggio proseguì  tranquillo fino a Dol-guldur. Là Celeborn tentò di uccidermi e nel tentativo uccise anche uno dei suoi complici. Quando mi lasciò per terra, sanguinante, era sicuro che nessuno mi avrebbe trovato e che sarei morto. Invece come sappiamo nella scacchiera della vita viene sempre mossa qualche pedina in maniera inaspettata, e così venni raggiunto da Mithrandir…”.

Nel sentire quel nome Elrond alzò di scatto gli occhi verso il padre, Gil-galad li osservò un momento ma con estrema attenzione, suo figlio era debole, i cerchi neri attorno agli occhi ne erano la prova, ma più grave ancora, la luce che ricordava in essi sembrava essere molto più debole.

“Sì, Elrond, Mithrandir. Lui mi ha curato e quando ancora faticavo a stare in piedi siamo stati raggiunti da Thranduil che era in pessime condizioni, ma…”, si interruppe per dare un’occhiata al Re di Boscoverde, “… ma comunque in condizioni migliori di quelle in cui lo ritrovo”.

“Poi cosa è accaduto? Ho trovato un tumulo a Dol-guldur, Thranduil ha detto che eri tu!”.

Gil-galad abbassò ripetutamente la testa in segno di assenso. “Sì, Mithrandir gli ha fatto credere che fossi io, ma si trattava del complice che era Celeborn aveva ucciso per sbaglio…”.

“Ma perché? Perché fingere? Era necessario tanto dolore?”, domandò triste Elrond stringendo le braccia del padre.

Quello, sentendo il contatto fisico che il figlio aveva creato con lui, alzò gli occhi al cielo, si morse il labbro inferiore e spiegò. “Mithrandir disse che era necessario, che se tu avessi saputo che ero ferito saresti corso a cercarmi, mentre era di primaria importanza che giungeste in fretta alla fortezza, che tu avessi un motivo per raggiungerla di corsa e non fermarti”.

“E quale sarebbe questo motivo tanto importante?”.

Ancora prima di parlare Gil-galad sapeva che la risposta non sarebbe stata soddisfacente, perché avrebbe avuto senso solo col senno di poi, dopo diversi secoli, ma il motivo era quello.

“Il motivo è la salvezza di Arda, e che ci crediate o no…”, disse a quel punto rivolgendosi a tutti i presenti e dando uno sguardo interrogativo al nano che ascoltava interessato, “senza Boscoverde, il suo re e il suo principe, non potrà avvenire”.

“E mio padre?”, chiese Celebrian.

“Mia dolce Celebrian”, rispose lui, “tuo padre ha compiuto grandi torti in nome della propria avidità, spetterà ai Valar decidere per lui”.

Le gambe di Celebrian cedettero e se accanto a lei non ci fosse stata Haldir probabilmente sarebbe caduta a terra. Elrond le corse vicino.

“Elrond, figlio mio, non volevo farti soffrire…”.

All’improvviso Elrond si sentì stanco e cominciò ad annaspare per un po’ d’aria. “Prendilo”, disse sfilandosi l’anello dal dito, “è troppo per me, prendilo tu”.

Gil-galad restò a debita distanza. “Lo diedi a te, e a te deve rimanere”.

“Non posso, non posso fa-r-cela…”, disse mentre la vista gli si oscurava. Poi però vide una gran luce e un volto coperto di sangue, di un elfo dai capelli neri, si formò nella sua mente. Era disteso su un pavimento di pietra e si copriva il viso con una mano. Poteva sentire piangere e gridare e il rumore incessante della pioggia.

Ciò che sentì dopo era suo padre che gli parlava, si ritrovò semi sdraiato con le braccia di Gil-galad attorno. “Elrond, mi dispiace, mi dispiace, davvero. Oh, Valar, lasciatemelo, perdonatemi. Elrond!”.

Il Mezzelfo aprì gli occhi, pensò che fosse alquanto strano, non gli capitava mai di svenire durante le visioni, ma Vilya lo stava davvero mettendo alla prova.

Elrond fece leva sulle braccia del padre e si mise seduto.

“Hai avuto una visione?”, domandò Celebrian.

Lui raccontò ciò che aveva visto. Bolin sembrava molto incuriosito dalla straordinaria capacità di vedere il futuro dell’elfo. “Per ciò che ho visto io, non è che ci siano molti elfi dai capelli neri”.

Tutti si voltarono verso lui. “Voglio dire, o è lui oppure è suo padre”.

Una risata soft di Thranduil deviò l’attenzione degli elfi. “Questa … è … la … famo-sa … sensi-bi-lità dei nani..”, disse concludendo con un violento attacco di tosse.

In un attimo Gil-galad fu al fianco di Thranduil, lo aiutò a sedersi e gli tenne la testa. Il corpo dell’elfo era terribilmente debole. Il Signore di Imladris notò la nudità del Re di Boscoverde. “Provvederò a recuperarti dei vestiti dalla fortezza, così starai più comodo”.

Thranduil però non diede segno di aver sentito, si stava sforzando di stare sveglio, ma non aveva ancora piena consapevolezza del mondo attorno a sé. A momenti gli sembrava di essere lucido, sentire, capire, un attimo dopo il dolore fisico e mentale si impossessavano dei suoi sensi.

“Tu, puoi entrare dentro?”, chiese Elrond.

“Sì…”.

“Allora dovrai procurarmi delle medicine”.

“Credo sia possibile”, affermò Gil-galad ricordandosi che un guaritore sarebbe stato portato nelle prigioni da Legolas.

Thranduil era pesante nelle braccia di Gil-galad, il viso tumefatto, le labbra secche e spaccate, le braccia erano scorticate, in special modo nei polsi.

“Cosa gli è successo?”, domandò.

“Non lo sappiamo ancora. Lo abbiamo trovato legato, sotto un sacco”, spiegò Haldir.

Toc-toc-toc…

Il rumore richiamò l’attenzione di tutti, per un attimo ognuno cercò di capire da che parte arrivasse, ben presto si accorsero che erano delle gocce d’acqua.

Stava cominciando a piovere.

 

 

 

 

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Capitolo 14
*** Goccia a goccia ***


Oggi è una bella giornata perciò ho voluto lasciarvi con un sorriso. Un abbraccio a tutti.

Spero che il capitolo vi piaccia.

Alida

 

 

Toc-toc-toc…

Il rumore richiamò l’attenzione di tutti, per un attimo ognuno cercò di capire da che parte arrivasse, ben presto si accorsero che erano delle gocce d’acqua.

Stava cominciando a piovere.

Cap 14

Erano trascorse  due ore e la pioggia non aveva mai smesso di cadere. Non era molto forte però non aveva dato un attimo di tregua, rendendo difficile la permanenza degli elfi e di Bolin all’aperto.

Gil-galad come promesso era tornato con medicine, del cibo e abiti per Thranduil, il quale era stato aiutato a vestirsi per ritrovarsi con vestiti sì integri ma bagnati e ora riposava seduto spalle contro un albero. Haldir aveva preso il cibo e una volta diviso in porzioni lo aveva distribuito fra tutti i presenti.

“Cosa è questo?”, chiese Bolin tenendo in mano un pezzo di pane duro.

“Lembas”, rispose Haldir.

Thranduil tossì. “Non sarà buono come la tua pancetta, però ci darà più sostanza”.

Gil-galad osservava il nano, tutti sembravano essere a loro agio con lui e viceversa. “Vi conoscete da molto?”, domandò a Thranduil e Bolin.

“Da prima che noi due ci incontrassimo alla vecchia fortezza”, gli rispose Thranduil.

“Ci vuoi raccontare?”, gli domandò Gil-galad “Come sono andati i fatti dopo Dol-guldur?”.

Thranduil guardò Celebrian, non voleva sconvolgerla. In primo luogo lei non era responsabile delle azioni del padre e poi, cosa più importante, aspettava due elfling e perciò doveva restare tranquilla.

Lei sembrò leggergli il pensiero. “Non preoccuparti, Thranduil. Immagino già che non sarà facile per me sentire ciò che hai da dire, ma sono pronta ad ascoltarlo ugualmente”.

Elrond intervenne. “Dovrebbe parlare il meno possibile, deve riprendersi”.

Thranduil era stanco, anche rigenerarsi costava fatica, i pensieri erano confusi, si ricordava soltanto dolore  e preoccupazioni. “Mi ha trascinato…”, iniziò Thranduil respirando piano, “mi ha trascinato legato a Lùth, i polsi e le gambe… bruciavano… tiravano… Poi sono fuggito … ma mi sono svegliato legato … c’erano diverse voci…”.

“Thranduil, va bene così. Rilassati, non è necessario continuare”, lo interruppe Elrond avvicinandosi all’amico e spezzando un po’ di lembas per lui in modo che potesse mangiarlo da solo.

“Elrond,..Legolas è… in pericolo. E Wisterian, credo … che lui l’abbia vista morire. Mio padre… oh, Elrond. La sua spada! L’hai ritrovata?”.

Elrond gli sistemò i capelli bagnati, e aiutandolo a stare seduto gli raccontò di Glorfindel. “Nelle sue mani siamo al sicuro”, disse Gil-galad.

Thranduil sospirò, aveva fiducia in Glorfindel, sapeva che era un elfo d’onore e se Elrond gli aveva dato una missione, lui l’avrebbe portata a termine.

“Cosa c’entra la spada di Oropher?”, chiese Celebrian a Elrond.

Elrond guardò Bolin, non se la sentiva di raccontare a tutti ciò che il nano gli aveva confidato, Gil-galad vedendolo esitare rispose al suo posto. “Ci sono due spade, me lo ha detto suo padre. Ma non so per quale motivo”.

Thranduil piegò le gambe al petto, ma subito le riabbassò. “Sembrava difettosa…”, disse fermandosi prima di tossire. Si piegò in avanti, ma perse l’equilibrio e cadde di lato. Elrond però lo riportò velocemente in posizione seduta.

“Basta parlare, Thranduil”, gli disse con tono greve.

Il Re di Boscoverde cominciò a respirare piano, il ricordo di suo padre era doloroso; Gil-galad gli si avvicinò e presagli la mano, gli fece scivolare dentro l’anello di Oropher. “Questo era di tuo padre ma ora è tuo, giusto?”.

Thranduil osservò l’anello e lo riconobbe.

“Come hai fatto ad averlo? Quando abbiamo sepolto Oropher, lui non l’aveva?”, gli chiese Elrond.

“E’ vero. L’ho trovato ieri. Qualcuno lo ha lanciato tra gli alberi”, rispose Gil-galad.

Thranduil prese fiato: “Qualcuno!”, disse sarcastico. “Qualcuno… che credeva che l’anello… potesse dargli… chissà… quali poteri …”.

Thranduil chiuse la mano a pugno con dentro l’anello, sembrava un inestimabile tesoro, come quando da piccolo trovava qualche pietrolina colorata e la conservava gelosamente credendola un gioiello. “Ma il Regno di Boscoverde… non è protetto… da nessun anello…”, continuò con voce tremante.

Elrond gli tenne le spalle con le sue mani, poteva vedere la tristezza e in una certa misura anche l’amarezza negli occhi dell’amico. “Thranduil, riposati…”.

Thranduil lo guardò dritto in faccia e con stanchezza mista a orgoglio terminò: “Eppure è protetto… da elfi coraggiosi… dall’amore per la foresta… dalla dedizione e compassione del nostro Re..”, ancora una volta si rese conto di aver parlato come se Oropher fosse ancora vivo, vide Elrond che era senza parole e non sapeva come confortarlo, ma continuò: “ e anche nudo e strisciante lo proteggerò anche io, lo proteggerò… e anche tutti gli elfi… che mi seguiranno… sempre… sempre troveranno… una casa… sicura…”.

Poi non ce la fece più, si portò le mani al viso e nascose quella che per lui era una debolezza, ma non lo era.

Elrond si voltò verso suo padre, gli occhi di Gil-galad erano lucidi. “Devi essere forte, Thranduil. Per il tuo regno e per tuo figlio”.

Legolas! Il pensiero di suo figlio era costantemente nella testa di Thranduil; avrebbe voluto contattarlo però aveva bisogno di essere lasciato da solo, perciò decise di darsi un paio di minuti di calma che sarebbero bastati per rassicurare Elrond e gli altri e poi avrebbe aperto il suo collegamento con Legolas.

Intanto nelle vecchie prigioni in disuso era stato condotto un guaritore. Galion lo mise nella stessa cella di Legolas e poi andò via, non voleva confrontarsi ancora con il giovane principe e rimase sconvolto quando Legolas non si mosse e non disse una parola.

Chissà cosa aveva il principino? Non voleva avere sulla coscienza anche la sanità mentale del giovane. Ah! Cosa avrebbe dato per tornare indietro, ma indietro non si torna mai.

Quando uscì dalle prigioni pioveva. Galion si voltò istintivamente verso la galleria, non era stata una buona mossa lasciare lì dentro i prigionieri. Se avesse continuato a piovere c’era il problema che i muri potessero franare e il suolo aprirsi creando fossati pericolosi. Per questo motivo le prigioni erano state spostate di luogo e posizionate all’interno della fortezza nei sotterranei.

Un brivido percorse la schiena dell’elfo, la pioggia diventava sempre più forte e gli alberi sembravano diventare più scuri e ostili. Camminando i piedi gli si impigliavano in radici, cespugli, erbe spinose. La foresta non gli era più amica come un tempo, perché i tempi cambiano e con loro anche ciò che ci circonda, e quando si diventa disincantati sembra che anche le cose più pure siano corrotte.

Un fortissimo tuono rimbombò nell’aria cogliendo alla sprovvista Galion, che immediatamente si coprì le orecchie con le mani, poi una serie di fulmini caddero uno dopo l’altro fino a che non si sentì un urlo. Allora corse verso il luogo da cui proveniva la voce, non sembrava essere troppo distante e difatti dopo appena un centinaio di metri trovò un grosso ramo spezzato che copriva il corpo di un elfo.

Velocemente Galion spostò il ramo e girò verso sé l’elfo per verificare l’entità della ferita che aveva riportato,  ma non servì a niente. La testa dell’elfo, il complice di Celeborn che lo aveva accompagnato dal Pian della Battaglia fino a Boscoverde, era mollemente attaccata al corpo, nella caduta il poveretto si era spezzato il collo.

Galion ebbe un sussulto, la morte non avrebbe mai dovuto far visita ai Primi nati, e confrontarsi con essa non era mai facile. Per cosa aveva superato la guerra questo poveretto? Per morire a Boscoverde stando su un albero a…

Galion esitò un attimo. Cosa stava facendo l’elfo in quella parte della foresta? Non c’era niente che potesse interessargli. Celeborn era nella fortezza, di Rhiaian non era stato informato. Che stesse controllando da lontano le prigioni? E per quale motivo? Che stesse seguendo lui?

Le gocce di pioggia scendevano con maggiore violenza sul viso di Galion e il dubbio che Celeborn non si fidasse poi così tanto di lui gli si insinuò nella mente. Certo, era consapevole di essere uno strumento nelle mani del Signore del Lothlòrien, lo aveva usato per raggiungere alcuni obiettivi comuni, ma che Celeborn non si fidasse di lui e che lo facesse pedinare, o peggio ancora che magari stesse cercando una scusa per eliminarlo non gli era mai passato per la testa. Almeno non fino ad allora.

Galion aveva compiuto alcuni errori nella sua vita, ma non per questo si sarebbe dimenticato di mostrare un po’ di pietà verso chi la vita non l’aveva più. Con una mano chiuse gli occhi dell’elfo, pregò i Valar di perdonare i suoi errori e Mandos di mostrarsi pietoso nei confronti di questa giovane vita, poi prese in braccio l’elfo ormai morto e lo condusse all’interno della fortezza con l’intenzione di lavarlo, rivestirlo con abiti puliti e assicurarsi che avesse una degna sepoltura.

 

Il guaritore aveva cercato di avvicinarsi a Legolas, ma questo si era stretto a riccio e aveva iniziato a singhiozzare. La pioggia non aiutava di certo, anzi spaventava di più il giovane elfo che poteva sentire ogni piccola mossa del terreno sotto e sopra lui.

I suoi sensi, a stretto contatto con la natura, potevano sentire la preoccupazione degli alberi, il timore che le loro radici non riuscissero a tenersi ancorate al terreno, che i fulmini colpissero qualcuno nella foresta, qualcuno che si era mostrato molte volte loro amico.

Pioveva il giorno che nonno Oropher e suo padre erano partiti. Era stato strano, c’era stato il sole fino al giorno prima e poi all’improvviso il cielo si era oscurato. Suo nonno gli aveva sorriso e gli aveva detto di non preoccuparsi di niente che non aveva intenzione di entrare nelle Sale di Mandos, che aveva altri progetti.

Lui era giovane, ma sapeva che il nonno gli stava dicendo una mezza bugia; suo padre invece non gli aveva promesso niente, non lo aveva rassicurato, gli aveva permesso di dormire con lui e la madre la notte prima e al momento della partenza lo aveva solo stretto a sé in un abbraccio infinito.

Legolas poteva sentire ancora la mano di suo padre che gli massaggiava le spalle e formava dei centri nella schiena, era molto rilassante, però gli alberi non erano contenti, i pensieri si confusero nella mente di Legolas, l’agitazione della natura lo stordiva, era una sensazione troppo forte da poter gestire, doveva distaccarsene, suo padre glielo aveva detto: “La foresta è dotata di una forza senza misura e senza tempo, neanche un elfo adulto può sentire contemporaneamente i pensieri di tutti gli alberi, di tutti gli esseri che vivono in essa, né tantomeno assorbirne le emozioni”.

Perciò decise di concentrarsi su qualcos’altro. Ma cosa? Forse poteva essere … sì, avrebbe pensato ai fiori che avevano piantato nel giardino e che sicuramente ora stavano iniziando a sbocciare. I fiori andavano bene, era un pensiero delicato, profumato e … e poi un fortissimo tuono lo fece trasalire e riprendere il contatto con la realtà.

“Pelhiat!”, esclamò riconoscendo il guaritore.

“Oh, mio principino! Cominciavo a pensare che non si sarebbe più ripreso”, ricambiò il guaritore avvicinandosi. “Per favore, mi permetta di controllarlo”.

“Ci hanno rinchiusi qua, ho paura”.

“Non si deve preoccupare, Fidelhion non potrà più farle del male. E’ morto”.

Legolas allargò gli occhi in preda alla disperazione, sapeva che Fidelhion era stato gravemente ferito, e da subito aveva immaginato che fosse morto, ma averne la certezza era comunque spaventoso, ancora di più però era pensare che gli altri credessero che gli aveva fatto del male. Questo non era vero e lui non avrebbe permesso che la sua memoria venisse oscurata da tali menzogne.

“Fidelhion, non mi ha fatto del male”.

Pelhiat stava aprendo la borsa con le attrezzatture mediche a sua disposizione, lasciò tutto e alzò lo sguardo verso Legolas.

“Mio principino, non si ricorda? Fidelhion ha ucciso sua… voglio dire, la principessa Wisterian…”.

Legolas si alzò in piedi mantenendo una postura che sicuramente aveva imparato dal nonno. Il petto in fuori, lo sguardo fiero e sicuro. “So cosa dico, Pelhiat. Fidelhion ha cercato di salvarmi e di salvare anche mia madre. E’ stato Galion a uccidere prima mia madre e poi Fidelhion”.

Pelhiat non sapeva cosa credere. Galion e il signore del Lothlòrien Celeborn gli avevano detto che Legolas era uscito di senno, che confondeva la realtà con l’immaginazione. Ciò che si era trovato di fronte era un ragazzo sicuramente sconvolto e stanco, ma sembrava essere molto lucido.

Non voleva contraddirlo, per ora voleva solo assicurarsi che fisicamente non avesse riportato alcun danno, poi gli sarebbe servito un po’ di tempo per capire se il principe stava dicendo la verità, oppure se non era più in grado di riconoscerla.

Così visitò Legolas e non trovò alcun danno fisico. Una volta terminato per poco non gli venne un colpo, quando sentì una voce chiedere.

“Allora, come sta Legolas, signor Pelhiat? Tutto a posto?”.

Il guaritore saltò su due piedi, facendo scappare una risata al principe. “Chi parla? Dove sei?”.

“Si calmi, per cortesia. Sono nella cella affianco alla vostra, mi chiamo Mithrandir, o almeno così mi chiamano e sono un amico di Legolas”.

“E’ vero”, confermò il principe.

“Ma io non ho visto nessuno quando sono entrato!”, riprese ancora un po’ spaventato.

“Perché mi trovo nella cella successiva”.

“Certo, certo, nella cella successiva”, ripeté tirando un sospiro di sollievo Pelhiat. “Il principe Legolas sta bene, almeno per quello che posso vedere fisicamente. Comunque magari domani le saprò dire di più”.

“Domani?”, chiese Mithrandir.

“Bhè, non credo che Galion mi lascerebbe qui, … in queste … vecchie prigioni. Io dovevo solo visitare il principe”, disse pesando ogni singola parola. Poi si rese conto della situazione in cui si trovava. “Ma perché siete qui? Voglio dire … sicuramente c’erano delle stanze libere nella fortezza”.

“Non ci aveva pensato, vero?”.

“Come?”, chiese il guaritore.

“Non credo che Galion verrà a prenderla, non siamo ospiti, siamo prigionieri, e nessuno verrà a portarla fuori di qui”, gli spiegò Mithrandir.

Pelhiat si lasciò cadere a terra, affranto. Quando Galion era andato a chiamarlo e a dirgli di seguirlo che il principe Legolas aveva bisogno del suo aiuto, lui non aveva pensato a niente, aveva raccolto tutto il necessario e lo aveva seguito. Vedendolo entrare nelle prigioni aveva semplicemente pensato che forse il principe, spaventato dalla mancanza del padre e della madre era andato a nascondersi  in qualche improbabile nascondiglio e aveva finito col ferirsi.

Non aveva assolutamente fatto caso al fatto che Galion lo aveva chiuso dentro la cella, perché la vista di Legolas lo aveva scosso. Galion! Pelhiat si voltò di scatto verso le grate, ovviamente Galion non c’era più.

“Che stupido! Come sono stato stupido!”, disse a se stesso mettendosi le mani tra i capelli.

Legolas aveva smesso di ridere, si era fatto serio e mentre le parole di Pelhiat si facevano lontane sentì che suo padre cercava di mettersi in contatto con lui.

Thranduil riposava, o almeno così voleva far credere agli altri. Non stava ancora bene, però era riuscito a recuperare un po’ di energia. Se fosse stato previdente se la sarebbe conservata per se stesso, ma lo spirito aveva bisogno di guarire quanto il corpo e forse molto di più, perciò raccolte le sue forze le incanalò nella sua mente e aprì il suo spirito a suo figlio.

“Legolas, mia piccola foglia! Sono il tuo Ada, mi senti”.

E come nei giorni migliori, quando bastava una chiamata a voce per ottenere una risposta, la risposta inaspettatamente venne subito.

“Ada! Dove sei, Ada?”.

“Sono a Boscoverde, figlio mio”.

L’immagine della foresta si impresse nella mente di Legolas, che di ricambiò inviò al padre l’immagine delle vecchie prigioni.

“Sei solo?”.

Legolas creò l’immagine di Mithrandir e di Pelhiat e poi quella di Gil-galad. Thranduil esitò, avrebbe chiesto chiarimenti.

“Tieni duro, figlio mio. Ti amo”.

“Ti amo, sarò forte, Ada. Sarò forte per te”.

La comunicazione si interruppe bruscamente. Thranduil si sentì scuotere fino a quando non riprese i sensi. Elrond lo fissava preoccupato. “Mi senti? Thranduil?”.

“S…s…sì”, riuscì a dire il Re di Boscoverde con mezzo sorriso.

“Perché ride?”, domandò Bolin. “Ha preso un colpo in testa?”.

Elrond gli regalò uno sguardo di sufficienza, ma non gli diede la soddisfazione di una risposta.

“Le…g..las”, farfugliò Thranduil, “bene…”.

“Hai comunicato con Legolas?”, domandò stupito e incuriosito Elrond. “Come hai fatto?”.

Thranduil sorrise, non aveva la forza di spiegare tutto a Elrond, e forse non voleva neanche farlo; era un dono speciale che i Valar avevano donato a lui e al figlio, e in cuor suo non voleva condividerlo con nessuno. E Elrond capì che la sua curiosità non sarebbe mai stata soddisfatta. “Davvero, Re di Boscoverde, sarai davvero un grande Re”.

Detto ciò, prese un altro pezzo di lembas e lo diede a Thranduil. “Mangia”, gli ordinò, “e non sprecare, anzi usare”, si corresse immediatamente, “altre energie. Ti servono per guarire e camminare sulle tue gambe”.

“Dove è … dove è Gil-g..l…d?”, chiese con le poche forze che aveva.

“Ci sono stati un forte tuono, poi dei fulmini e un urlo, non ti ricordi?”.

Thranduil fece cenno di no.

“E’ andato per controllare. Tornerà entro stasera”.

Thranduil ebbe un brivido. La giornata era lunga e la sentiva sulla sua pelle goccia dopo goccia. Bolin gli si accostò ancora di più, mentre Elrond si avvicinava a Celebrian.

Il Re di Boscoverde guardò la coppia, li conosceva da molto, si sarebbero meritati molto di più di ciò che la vita gli aveva dato, però si ritrovò a pensare con due elfling forse si potevano pareggiare i conti.

“A cosa pensi?”, gli chiese Bolin.

“Mi sto chiedendo… se i figli… possono davvero… sistemare gli errori dei padri,… o le ingiustizie… da loro subite”.

Bolin esitò, la questione lo coinvolgeva più di quanto Thranduil potesse immaginare. “Io spero di sì”, rispose laconico.

Thranduil sentì una certa titubanza nella voce del nano. “Ti ricordi? Abbiamo in sospeso una discussione … sulla … tua famiglia…?”, domandò cercando di dare un timbro imponente alla propria voce, ma la sua gola, già parecchio sollecitata lo tradì e iniziò nuovamente a tossire.

“Bolin!”, chiamò stizzito Elrond.

“Non sono stato io!”, si difese quello senza sapere bene quali erano le accuse.

“Ho detto che deve riposare”, continuò Elrond, “significa che non deve fare niente, non deve pensare, non deve ascoltare, non deve parlare e neanche tossire”.

Haldir rideva sopra un albero, osservando la scena.

Bolin puntò il dito contro Thranduil e ripetè, in realtà scimmiottando Elrond, “… e neanche tossire. Già”.

Thranduil cominciò a ridere, ma ovviamente non ce la faceva, tossiva e rideva, tossiva e rideva, poi cominciò a mancargli il fiato. Elrond gli fu accanto e preso un unguento cercò di placargli la tosse spalmandoglielo nel petto.

“Spostati!”, ordinò a Bolin che da canto suo dopo aver detto qualche gentile parola in nanico nei confronti di Elrond si sedette accanto a Celebrian.

Lei aveva il sorriso stampato sulle labbra, vedere Elrond agitato era sempre impagabile. “Secondo me si diverte”, disse lei.

“Già”, fece lui e con mezzo sorriso replicò, “anche io”.  Poi la pioggia cominciò a cadere ancora più copiosamente e l’atmosfera si fece seria.

Haldir scese dall’albero e si avvicinò ai due in tempo per sentire Bolin chiedere a Celebrian. “Cosa farai quando ti ritroverai faccia a faccia con tuo padre?”.

Anche Elrond e Thranduil potevano sentire la conversazione grazie al loro formidabile udito. Entrambi erano curiosi di conoscere la risposta.

Celebrian iniziò a tormentarsi le dita, ci aveva pensato tante volte ma probabilmente lo avrebbe scoperto solo nel momento in cui se lo sarebbe trovato di fronte.

“Oh, Bolin! Cosa potrei dirgli? Non capisco perché tanto male, tanti inganni, però … nonostante tutto… io…”.

“Se fosse … mio padre… io… non lo perdonerei” disse Thranduil all’improvviso spiazzando tutti “però, conti-nuerei… ad … amarlo”.

Celebrian scoppiò in lacrime giacché tali erano anche i suoi sentimenti, ma solo lei doveva affrontarli in prima persona. “Celebrian non piangere! I tuoi piccoli potrebbero soffrirne”, disse Bolin riferendosi ai gemelli.

“Elfling”, lo corresse Elrond, “si dice elfling”.

 Haldir si fece più attento, intuiva che qualcosa di divertente stava per accadere.

“Oh, scusatemi. Dicevo, i tuoi piccoli elfling potrebbero…”.

“Non piccoli! Basta elfling, elfling”, ripetè Elrond

“Va bene”, disse scocciato Bolin mentre Haldir si nascondeva a ridere dietro un albero, distraendo sia Celebrian che Thranduil dalle loro preoccupazioni e facendoli sorridere, “I tuoi elfling,elfling potr…”.

Elrond sbuffò, mentre Haldir sempre nascosto scoppiava in una sonora risata.

“Cosa c’è adesso?”, domandò disorientato Bolin non riuscendo realmente a capire la situazione.

Elrond non poteva crederci! Questo nano lo stava mettendo a dura prova però con lui non ci si poteva davvero annoiare.

“Allora, Mastro Nano”, disse Elrond sorridendo sconfitto, “Come vorrebbe che chiamassimo i due piccoli-elfling?”.

Bolin si sentì riempire d’orgoglio. Finalmente la questione dei nomi veniva affrontata e lui ne era partecipe.

“Pensavo”, iniziò “Pensavo a uomo-elfo, che riporti alla mente la vostra origine, oppure visto che tutti andate a cavallo, in maniera formidabile intendo, anche uomo-cavaliere o elfo-cavaliere”.

Tutti erano in silenzio mentre Elrond pensava, poi disse: “Che in lingua elfica sarebbero…”.

“Elladan e Elrohir!” completò Glorfindel scendendo da cavallo. Tutti colti alla sprovvista rimasero a bocca aperta.

Solo Bolin riuscì a parlare. “E’ tornato! E’ tornato quello simpatico!”, poi assumendo un’aria simpaticamente di sfida domandò:” Ma la spada l’hai trovata?”.

Glorfindel guardò Elrond interrogandolo sulla questione, ma non c’era niente che potesse fare, il suo amico rideva a più non posso.

 

 

 

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Capitolo 15
*** Il sangue non conta ***


Solo Bolin riuscì a parlare. “E’ tornato! E’ tornato quello simpatico!”, poi assumendo un’aria simpaticamente di sfida domandò:” Ma la spada l’hai trovata?”.

Glorfindel guardò Elrond interrogandolo sulla questione, ma non c’era niente che potesse fare, il suo amico rideva a più non posso.

Cap 15

“Buonasera, Mastro Nano”, disse Glorfindel, “Sì, sono tornato. Grazie ai Valar”.

L’elfo si diresse verso Elrond e lo abbraccio brevemente, gli fece un mezzo sorriso per rassicurarlo circa la riuscita della sua missione, della quale non aveva intenzione di parlare in pubblico, poi si avvicinò al fuocherello e guardò dentro il tegamino.

“Non c’è niente di pronto!”, esclamò constatando che né coniglio, né minestra stavano riscaldando.

“Lei è abituato troppo bene, signor Glorfindel”, disse Celebrian, “La pioggia non ci aiuta molto in faccende culinarie. Il fuoco si spegneva ogni due secondi”.

Lui le sorrise e raccogliendosi i capelli biondi diede loro una strizzatina. “Ormai è da un bel po’ che non incontro altro che pioggia. Comunque… “riprese, cambiando discorso “… darai alla luce due elfling, che grande meraviglia e gioia è concessa alle Elleth!”.

“Che sarebbero?”, chiese Bolin.

“Le donne elfo”, spiego Elrond.

“Già! Sapete, giusto per non perdere il filo del discorso”, disse Bolin.

Celebrian arrossì. “Due maschietti, se Elrond ha visto bene”.

Glorfindel rise felice. “Quando lo sapranno i vostri padri saranno pieni di gioia!”, disse rivolgendosi a Elrond e Celebrian.

Il gelo cadde come una campana di vetro su loro e sembrò isolarli dal resto del mondo conosciuto. Glorfindel non capiva e gli altri elfi non volevano dare spiegazioni. Fortunatamente c’era un nano fra loro che non aveva remore a spiegare con brevità gli eventi trascorsi.

“Dunque…”, cominciò serio mentre Glorfindel ascoltava, “Il padre di Celebrian…”

“Celeborn”, disse Glorfindel.

“Sì, Celeborn, ha cercato di uccidere il padre di Elrond!”, continuò Bolin.

“Gil-galad!”, esclamò Glorfindel.

Bolin si massaggiò la barba. “Esatto, poi ha cercato di uccidere il nuovo Re di Boscoverde”.

Glorfindel si girò verso il Re che giaceva a terra chiaramente ferito. “Thr…”.

“Thranduil!”, disse Bolin soddisfatto di esser stato più veloce di Glorfindel, il quale inarcò le sopracciglia chiaramente irritato, ma divertito. “Ma non c’è riuscito”.

Glorfindel guardò Celebrian che si accarezzava la pancia, era visibilmente provata e triste. “E’ successo qualcos’altro in mia assenza?”, domandò l’elfo.

Elrond intervenne. “Sappiamo che Celeborn è nella fortezza, ha imprigionato Legolas e Mithrandir. Ti ricordi di lui? Era già venuto a Imladris”.

“Sì, ricordo di un vecchio uomo, o qualcosa di simile…”, disse restando sul vago Glorfindel, “Che dire di Wisterian?”.

Ancora una volta il silenzio scese fra la compagnia, e fu interrotto solo dall’arrivo di Gil-galad che portava con se del cibo e dell’acqua. “Eccomi!”, disse facendosi avanti tra gli alberi e scuotendosi un po’ d’acqua di dosso, quando, senza nessun preavviso, si trovò dinnanzi il suo più caro amico: Glorfindel.

“Mellon nin! E’ fantastico rivederti. La tua presenza mi rallegra”, disse Gil-galad abbracciandolo.

“Mellon nin, a quanto pare sono io che dovrei essere super felice di vederti. Sei partito per trovare Thranduil e quasi morivi. Comunque chiedevo notizie di Wisterian. Tu puoi darmene?”.

“E’ morta!”, disse Thranduil a mezza voce, “E’ stata assassinata”.

“Chi l’ha uccisa?”, domandò sconvolta Celebrian pensando fosse stato suo padre.

“E’ stato Galion”, svelò Gil-galad.

“No… non può essere”, disse con voce delusa e triste Thranduil. “E’ sempre stato fedele … a mio padre. Non può …”. Il respiro di Thranduil si fece pesante, cercò di alzare il braccio per massaggiarsi la fronte, ma la spalla glielo impedì. Ancora una volta il dolore chiedeva il suo pedaggio.

“Ci vuole dell’acqua calda”, disse Elrond a sé stesso.

Glorfindel, che era quello più vicino al tegame, lo prese e glielo porse.

“Bisogna riscaldare dell’acqua e mettere dell’Athelas in infusione”, continuò Elrond.

“Dove lo tieni?”, chiese Gil-galad vedendo Thranduil impallidire sempre più.

“Nella sacca, laggiù”.

“Io non riesco a capire…”, continuava Thranduil, “Galion … oh Valar! A lui avrei af-fidato chiunque-chiunque…”.

“Elrond, qua non c’è niente”, disse Gil-galad frugando nella sacca.

“Guarda bene; c’erano ancora un paio di foglie”, gli rispose fremente il figlio.

Thranduil si mise in ginocchio e cercò di alzarsi  facendo forza solo sulle gambe. Glorfindel lo sostenne perché chiaramente il nuovo Re di Boscoverde non poteva cammianre da solo.

“Thranduil, accidenti. Devi stare seduto”, urlò Bolin con tanta forza che tutti si girarono verso lui. “Ma insomma, non ascolta proprio. E già!”.

“Siediti, siediti subito!”, rincarò la dose Elrond. “Glorfindel, fallo stare seduto, deve riprendersi”.

“E’ bagnato fradicio, non si riprenderà mai così!”, disse Glorfindel.

Elrond non riusciva a trovare le erbe, vedeva che Thranduil non stava facendo progressi e del resto non poteva dar torto a Glorfindel. La pioggia non finiva e per guarire bisognava stare al caldo e all’asciutto.

“Potremmo costruire un riparo con dei rami di foglie fresche, una sorta di capanna”, propose Haldir.

“La pioggia è molto forte…”, fece notare Bolin.

Glorfindel estrasse la propria spada dal fodero. “Non sarà un po’ di pioggia ha bloccare un elfo…”.

Thranduil però, nonostante la stanchezza e la voglia di star meglio, non sembrava d’accordo. “No, lasciate stare gli alberi…”.

“Non è il caso di fare il sentimentale, pochi rami in meno nella foresta non la distruggeranno di certo”, lo rimproverò Elrond.

“Lasciateli sta…re, prendete i… i…i… rami ca-duti…”, continuò mentre la voce gli si spegnava in gola.

“I rami caduti sono secchi e senza foglie, non si può costruire un riparo con quelli”, aggiunse Gil-galad, aiutandolo a sedersi nuovamente contro un albero.

“Cosa è stato?”, chiese poi guardandosi attorno con circospezione.

Tutti stavano sull’attenti, c’era un fruscio alquanto sinistro nella foresta, un bisbiglio continuo. La pioggia era passata in secondo piano, era come se una voce aleggiasse nell’aria, ma non si riusciva a capire cosa dicesse e da dove provenisse. Dei presenti, solo un elfo poteva capirla appieno: Thranduil.

“Non… spaven..ta..te..vi…”, disse il nuovo Re di Boscoverde.

La voce cominciò a diventare frenetica, era una sorta di fischio prolungato, una specie di solletico che sollecitava i sensi, un messaggio inviato con il fretta di giungere a destinazione; gli elfi cercavano di individuarne la fonte ma la voce non partiva da nessun punto in particolare.

“Credo”, azzardò Bolin “che si tratti di magia elfica”.

“Noi elfi non abbiamo poteri magici…”, disse Elrond.

“Allora se non è magia sono i Valar che parlano per mezzo della foresta…”, concluse il nano.

“In principio fu la musica dei Valar, con la quale essi componevano a beneficio di Eru, poi la musica prese forma di Eä, l’Essere”, disse Elrond.

“E dunque il rumore che sentiamo, questo bisbiglio è la voce della creazione? La voce della Foresta, e dei Valar?”, chiese in soggezione Gil-galad, che tanto avrebbe voluto capire di Arda quanto suo figlio.

“Non lo so padre, però credo che Bolin abbia ragione quando dice che la foresta parla… cosa dica, non riesco a capirlo. Thranduil, tu puoi?”, domandò Elrond.

Thranduil aveva il viso appoggiato alla corteccia dell’albero, sembrava essere in una sorta di trance, non si muoveva e non parlava, il suo sguardo era fisso in avanti, e il suo respiro lento ma non pesante.

“Cos’ha?”, chiese Haldir.

“Attenti!”, urlò Celebrian indicando un punto in alto tra gli alberi. Glorfindel si inginocchiò accanto a Thranduil ma venne spostato con forza di lato, cadendo di spalle sul terreno fangoso.

“Oh, Valar!”, sentì dire in coro mentre si rialzava pronto a difendersi.

Ciò che videro, sul fare della sera, li lasciò meravigliati. Infatti ebbe luogo un evento che mai si sarebbe riproposto ai loro occhi e a cui mai avevano assistito prima. Non era qualcosa che si poteva comandare, né si poteva pretendere, era puro amore dei Valar alle loro creature, della Foresta al suo Re.

L’albero, l’antico albero a cui Thranduil si era poggiato, aveva piegato i suoi rami e, intrecciandoli in una fitta rete, creato una sorta di capanna semisferica entro la quale neanche una goccia d’acqua sarebbe potuta penetrare.

E là dentro Re Thranduil di Boscoverde cominciò a brillare di luce stellare e di energia che gli alberi e la foresta gli trasmettevano, e la sua aurea si fece più forte per poi indebolirsi e ancora rafforzarsi e ciò diverse volte per quasi un’ora.

E quando poi l’aurea rimase costante l’albero sciolse l’abbraccio dei suoi rami e Thranduil sebbene non del tutto guarito, poiché molte erano le lesioni che aveva subito, apparve rinvigorito e in condizioni piuttosto discrete tanto che Elrond colto da meraviglia si dovette sedere e per tutta la notte nessuno ebbe il coraggio di parlare, ma lasciarono che Thranduil riposasse ancora e che il suo stato di trance arrivasse al suo completo compimento nella luce stellare che il Re emanava.

 

L’aria era fredda e pungente quando la mattina Galion, senza essere visto e seguito da nessuno, raggiunse le vecchie prigioni. Entrato dentro, a passo lento, raggiunse le celle. Supero velocemente quella in cui erano rinchiusi Legolas e Pelhiat senza dare ascolto alle loro parole.

Si trattava più che altro di accuse, tutte fondate, per azioni poco pregevoli da lui compiute; e tutto ciò che dicevano era vero, ma non aveva tempo per spiegare come e perché era arrivato a quel punto, e altre cose urgevano maggiormente.

Si avvicinò perciò alla cella di Mithrandir e lo osservò con attenzione. Sembrava un uomo, niente di speciale ma Gil-galad glielo aveva indicato con particolare enfasi, dicendogli che non era una persona affrettata e che avrebbe fatto tutto al momento giusto.

Mithrandir si alzò dall’angolo in cui era seduto per guardare con maggior accuratezza l’elfo che era riuscito a incastrarlo per bene e ancora vide nei suoi occhi qualcosa che stonava, pareva insicurezza o forse timore.

La paura fa agire in modi imprevedibili.

“Venga, si avvicini”, gli ordinò Galion.

Mithrandir fece qualche passo in avanti, ma rimase cauto. “Se non sbaglio hai organizzato tu tutto questo spettacolo”, disse indicando la cella umida.

“Mi creda, è il posto più sicuro per voi. Tenga”, disse porgendogli una chiave.

Mithrandir la guardò e perplesso chiese. “E’ la chiave della cella?”.

“Certo. E di cosa sennò! Ma non la usi ora. Gil-galad ha detto che lei non sarebbe stato avventato nell’usarla, né tantomeno frettoloso. La custodisca con cura, presto le servirà”.

“Perché lo sta facendo?”.

“Da qualche parte si deve pure cominciare”, rispose Galion.

E come era entrato se ne andò, lasciando Mithrandir solo con i suoi pensieri.

Spesso la verità sta nel mezzo, o almeno così si dice, ma dove c’è l’onestà e il rispetto non può che esserci una sola verità. Galion non era stato né onesto né tantomeno rispettoso di ciò che la vita gli aveva offerto.

Non era poca cosa vivere in un regno in cui i sovrani si preoccupavano sinceramente del loro popolo, in cui si veniva trattati da pari e ascoltati, in cui tutto era di tutti e anche le ricchezze accumulate erano a vantaggio di tutti.

L’amicizia di Oropher non gli era mai mancata e così il rispetto di Thranduil, chissà come e chissà quando Galion aveva iniziato a pensare che ciò che aveva non gli bastava più, ora mentre entrava, per mezzo del passaggio segreto che aveva costruito lui stesso, dentro la fortezza non si ricordava più esattamente come si erano svolti i fatti.

Forse era stata l’idea di avere di più. Più di cosa, però?

Forse era stata l’idea di comandare. Ma comandare chi?  Non lo sapeva, certo non gli elfi di Boscoverde che non si facevano comandare da nessuno, ma avevano scelto di seguire qualcuno, e non si trattava solo di una sfumatura di parole, era stato molto di più.

Gli elfi silvani avevano visto in Oropher una guida, un capitano, qualcuno che valeva la pena seguire perché non li avrebbe mai lasciati da soli, neanche di fronte al più grande e temibile nemico. E difatti Oropher era caduto come un umile elfo silvano, come tanti di loro, al fianco di chi lo aveva scelto e mai si era risparmiato.

Una mano sulla spalla fece trasalire Galion. “Che c’è? Sembra tu abbia visto un Balrog!”, gli disse Celeborn.

“Oh, scusa. Ero sovrappensiero”.

“L’ho notato!”, sbuffò il signore del Bosco Dorato. “Allora a  che punto sei con l’organizzazione della riunione?”.

“Guarda, siamo davvero in pochi. Cinque dei consiglieri erano partiti in guerra. Rimangono cinque elfi ed io”.

“Bene, in mattinata vorrei parlare con loro”.

“Va bene”, rispose Galion.

La loro attenzione venne attirata da Nedhian che si avvicinava a grandi passi.

“Signore”, disse rivolgendosi a Galion, “la pioggia sta aumentando e sta facendo danni. Il tetto della scuderia è crollato e alcuni cavalli sono scappati via”.

“Ah, ci mancava anche questa!”, esclamò Galion. “Quanti ne mancano?”.

“Una decina”.

“Galion, dobbiamo organizzare al riunione!”, lo riprese Celeborn.

Nedhian però insistette: “Ma i cavalli? Non possiamo lasciarli girovagare per la foresta. Potrebbero …”.

Celeborn alzò la voce. “Ho detto, che dobbiamo organizzare una riunione!”.

Nedhian chinò il capo. “Chiedo scusa non volevo contraddirla”.

Galion fece un sospiro, i cavalli avevano la priorità rispetto alla riunione che, lui sapeva già, non avrebbe risolto niente, anzi. “Bene, bene. Allora facciamo così, io organizzo questo incontro, e tu Nedhian prendi una squadra …”.

“Una squadra, signore?”, domandò Nedhian ben sapendo che una squadra era solitamente formata da dieci elfi di cui almeno sette con una preparazione completa.

“No,” rifletté Galion, “non abbiamo una squadra al completo. Però insomma organizza un gruppo, dovete essere non meno di quattro però, perché se qualcuno resta ferito nella foresta ci deve essere chi può aiutarlo, e recuperate questi cavalli. Tutti, dal primo all’ultimo. Tornate solo se la pioggia diventa una tempesta”.

Nedhian sorrise, non sarebbero tornati senza cavalli neanche se fossero stati investiti da un ciclone e anche Galion lo sapeva. Evidentemente non lo voleva attorno, per il momento. Brevemente salutò e andò a formare la sua prima squadra di salvataggio.

E così arrivò il pomeriggio. Celeborn aveva fantasticato parecchio sulla seduta che avrebbe dovuto tenere e finiva sempre con gli elfi silvani a testa bassa che gli davano ragione, consapevoli che non sarebbero riusciti a governarsi da soli.

Ah! Quanto può essere cieco chi si crede indispensabile. Su Arda però non esiste nessuno che possa fare tutto da solo, e prima lo si riconosce meglio è.

La sala del trono era grande, non lussuosa ma in ogni caso bellissima. Galion aveva sistemato sette sedie attorno a un tavolo circolare;

Galion e i cinque elfi, che più si avvicinavano alla figura di consiglieri, si accomodarono. Celeborn entrò e vedendo il tavolo tondo non lo trovò di suo gradimento, ma pensò che era una buona mossa strategica. Doveva mostrarsi loro amico e soprattutto gestire la questione con calma.

Si aspettava che tutti si alzassero al suo ingresso ma, a parte Galion, nessuno si mosse.

Si sedette, la sedia era di legno, e nessun cuscino la rendeva più morbida. Era difficile starci comodi, alzò lo sguardo verso i consiglieri e  prese subito la parola. “Bene, non credo ci sia bisogno di molte presentazioni. Tutti voi sapete chi sono”.

“Certo”, disse un consigliere,” il Signore del Bosco Dorato”.

“E anche cugino di Thranduil”, specificò Celeborn.

I consiglieri annuirono. Conoscevano bene i rapporti di parentela esistenti, ma non capivano a cosa stesse parando il parente della famiglia di Oropher.

“Sono qui per portarvi delle notizie che avrei preferito risparmiarvi, ma in quanto parente diretto del vostro sovrano mi sono sentito in dovere di portare a voce queste informazioni”.

“Parlate, signor Celeborn del Lothlòrien, senza troppi preamboli. La guerra è terminata da pochi giorni, come Galion ci ha riferito e molti pensieri e preoccupazioni occupano la nostra mente. Non si facciano giochi di parole e diteci chiaramente a cosa vi riferite”.

Celeborn odiava le maniere rozze degli elfi silvani. Era chiedere troppo non essere interrotti mentre si parlava? E tutta questa fretta poi…

“Bene. Come chiedete”, disse facendo buon viso a cattivo gioco.

“Durante la guerra il vostro Re, Oropher , è morto”.

“Morto?”, chiesero visibilmente scossi gli elfi, mentre Galion confermava in silenzio.

“Sì, i nemici erano tanti e …”

“E gli alleati dov’erano?”, chiese stizzoso un elfo chiedendo chiaramente a Celeborn perché non lo avessero aiutato.

“Gli alleati combattevano contro altri nemici!”, rispose a denti stretti Celeborn, “Non potete neanche immaginare quante forme avesse assunto il male in questa guerra. I nemici era numerosi, molte volte il nostro numero, però non ci siamo tirati indietro. Non lo ha fatto nessuno, purtroppo però”, continuò insinuando il seme del dubbio, “spesso i nostri nemici peggiori assumono le vesti di amici e anche parenti”.

Gli elfi ascoltavano con molta attenzione, forse c’era stato un tradimento nelle linee amiche. Era possibile?

“Ciò che dico, lo dico con tristezza, serietà e molto dolore. Il vostro Re non sarebbe caduto se qualcuno non avesse manomesso la sua spada”.

“Chi è stato? Ce lo deve dire! Abbiamo il diritto di sapere e di punire il colpevole!”.

Pura gioia zampillò nel cuore di Celeborn… “punire il colpevole”, che parole meravigliose!

“Io”, disse piano Celeborn, “Io vidi Thranduil Oropherion maneggiare con la spada di suo padre e lo sentì pronunciare parole di invidia e di desiderio”.

Gli elfi si agitarono nelle loro sedie, non parlavano, stavano lì pensando a cosa dire, cercavano di elaborare la notizia.

“Ora, la situazione si fa molto difficile per voi e per tutta Boscoverde. Il vostro Re è morto, il principe vi ha traditi. Mio nipote, Legolas è uscito di senno dopo aver assistito all’uccisione della madre per mano del suo amico Fidelhion, e ora si trova sotto la cura del guaritore Pelhiat, …”.

“Tutto assieme?”, chiese un elfo notando la strana coincidenza degli eventi. “E’ possibile che sia accaduto tutto in una volta?”.

“Talvolta il destino ci concede di compiersi un po’ alla volta, altre volte piomba sulle nostre teste con violenza. Ma voi non dovete preoccuparvi più del necessario. Io come cugino di Thranduil, e parente in linea di sangue dei vostri sovrani, mi farò carico di guidarvi avanti fintanto che ne avrete bisogno, e se vorrete diventerò il nuovo Re di questa splendida foresta”.

Un elfo, che fino ad allora era stato in silenzio e aveva solo ascoltato, prese la parola. “Andiamoci piano, signor Celeborn del Lothlòrien. Per prima cosa come facciamo a sapere se Thranduil ha danneggiato la spada di Oropher? Dovremmo analizzarla!”.

“La spada è sepolta con il suo Re. Vuole forse aprire il tumulo e impossessarsene”.

Tutti fecero cenno di no con la testa, era assolutamente impensabile.

“Comunque prima di condannare il principe Thranduil dobbiamo ascoltare anche la sua voce. Dove si trova?”.

“Thranduil è scappato”.

“Questo no! Non posso crederlo, né ora né mai!”, gridò l’elfo sbattendo la mano sul tavolo in un impeto di rabbia.

Celeborn si alzò, e puntandogli il dito contro disse: “Allora mi dica lei dov’è. Oppure vada al Pian della Battaglia e guardi ciò che resta dei vostri guerrieri e chiedete loro dove si trovi. Un Re o un principe dovrebbe stare con la sua gente”.

“E lei perché non si trova con l’esercito del Lothlòrien?”.

“Perché io…”, disse abbassando la voce “Sono stato inviato alla ricerca disperata di mio cugino. Credevo di trovarlo qui quando sono arrivato, perché lui è partito almeno un giorno prima di me… invece qui non c’è. Allora ho pensato che Boscoverde e i suoi elfi meritassero di sapere cosa era successo ai loro sovrani, e invece di tornare dal mio popolo mi sono fermato”.

C’era molto su cui pensare e molte cose ancora da dire. Galion cercò di smorzare i toni. “Io credo, che l’offerta del signor Celeborn debba quantomeno essere presa in considerazione. La linea di sangue…”.

“Il sangue non conta”, disse un elfo.

Celeborn si irrigidì. “Come sarebbe a dire che non conta? Thranduil ha diritto al trono perché è figlio di Oropher”.

“Esatto”, confermò l’elfo per poi specificare “e noi scegliemmo Oropher. Ma lei signor Celeborn non è figlio di Oropher. E quando la linea diretta di sangue sarà terminata, allora sarà tempo di nuove elezioni”.

“Sì”, confermò un altro elfo, “Se fosse vero che Thranduil ha causato la morte del padre, certamente non potrebbe governarci, ma potrebbe farlo il giovane Legolas, sebbene non subito a causa della sua giovane età. E nel frattempo potremmo scegliere un sostituto”.

Celeborn ingoiò amaro. Il sangue non contava! Avrebbero scelto! Questo non se lo aspettava, ma a tutto c’era rimedio.

“Allora vorrei propormi”, disse chinando la testa verso gli elfi silvani, e questo gesto gli costò parecchio.

L’elfo, che aveva difeso dall’inizio alla fine i suoi sovrani, chinò la testa a sua volta in direzione di Celeborn. “La ringrazio della proposta”, disse alzandosi, “ne siamo onorati. Ma sono gli elfi silvani e sindarin di Boscoverde a stilare la lista di chi vorrebbero fosse la loro guida. Purtroppo non si accettano candidature”.

E detto ciò andò via. Gli altri quattro elfi si alzarono subito dopo e seguirono il loro amico lanciando occhiate interrogative a Galion.

 

Eccomi qua! Un altro capitolo è nato! Il prossimo sarà decisivo, la storia è quasi al termine e il confronto tra Celeborn e Thranduil è imminente. Inoltre non ho dimenticato certamente Rhiaian, avrà ancora un lavoretto sporco da compiere… ma meglio non anticipare niente.

Grazie a chi legge, a chi recensisce e buona domenica a tutti.

Alida

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Capitolo 16
*** Giù, come un castello di carte ***


Cap 16

Ci fu un tempo in cui Celeborn mai avrebbe immaginato di desiderare di essere padrone di una fortezza scavata nella pietra. Non si addiceva alla sua personalità fragile e scostante né tantomeno alla sua razza, gli elfi vivevano all’aperto non chiusi come i nani dentro la roccia.

Ma quel tempo era passato molti secoli fa, lui non era più un elfling e il Bosco Dorato aveva perso smalto ai suoi occhi. La sua lucentezza non lo abbagliava più del suo splendore. Eppure la piccola foresta era rimasta sempre la stessa, era lui a essere cambiato.

Dentro lo Specchio di Galadriel si era visto vincente, quando prima di partire per la guerra vi aveva guardato dentro, ma interrogata la moglie sull’uso dello Specchio questa gli aveva detto che il futuro lo creiamo noi con le nostre mani guidati dai Valar, ma se si cambia strada non se ne possono conoscere le conseguenze.

Galadriel però si riferiva alla guerra non certo ai progetti malvagi del marito, di cui non sapeva niente. E adesso le conseguenze imprevedibili erano chiare; forse l’uccisione di Wisterian era stata la goccia che aveva mosso i Valar a non assecondarlo più. Chissà!

Fatto sta che gli elfi silvani in un modo o nell’altro avrebbero presto imparato che con Celeborn non si scherzava. Perché con o senza l’appoggio dei Valar, lui sarebbe diventato Re di Boscoverde.

Celeborn camminava avanti e indietro nella sua stanza a passi leggeri e svelti. Doveva agire, cominciare a eliminare qualche ostacolo personalmente. Avrebbe potuto cominciare con una pedina importante ma facile da colpire: Legolas per esempio.

L’idea gli piacque subito, lo faceva sentire grande. Così prese il suo pugnale con il manico finemente decorato e si diresse verso le vecchie prigioni.

Finalmente la pioggia cominciò a farsi più leggera. Glorfindel era stanco di quest’acqua che non smetteva di cadere. Da quando aveva messo piede a Boscoverde aveva incontrato solo pioggia ma, come una volta gli aveva detto un anziano umano che aveva conosciuto a Imladris, “quando sarà ora che smetta, smetterà da sola”.

Glorfindel prese la spada di Oropher e la porse a Elrond. Era inutile fare le cose di nascosto o in maniera riservata, il piccolo gruppo non aveva segreti, in compenso aveva orecchie fini e occhi attentissimi.

“Ecco a te. Questo è ciò che mi avevi chiesto”.

Elrond tolse il telo verde con il quale la spada era avvolta e questa si mostrò in tutta la sua bellezza. Era bella, veramente fatta bene. La guardò con attenzione, gli era già capitato di ammirare la spada di Oropher da vicino e questa sembrava proprio essere l’originale.

Anche Haldir e Celebrian erano molto interessati alla spada, Bolin invece era timoroso. Il momento che aveva sperato non arrivasse mai, era dunque giunto.

“La spada di mio padre. Elrond, ci sei riuscito”, disse Thranduil.

“Ma insomma, Thranduil. Ci fai prendere uno spavento dopo l’altro”, lo riprese Bolin sussultando per lo stupore.

“Non c’eravamo accorti che fossi sveglio, Re Thranduil”, disse Glorfindel.

Thranduil annuì. “Adesso, mi sono svegliato proprio adesso, giusto in tempo per vedere la spada”, rispose allungando la mano per prenderla.

Elrond gliela passò. “Non è merito mio se è qua. E’ stato Glorfindel a recuperarla”.

Thranduil sorrise e ringrazio Glorfindel.

“Perché è tanto importante questa spada?”, domandò Glorfindel.

“Perché è tanto importante da prenderla da una bara?”, chiese Thranduil all’elfo. “Perché questa non è la spada di mio padre”.

“Come è possibile?”, domandò Haldir.

“Io l’ho presa dalle mani fredde di Oropher”, affermò determinato Glorfindel.

“Non lo dubito”, riprese subito Thranduil “ma sono sicuro di ciò che dico. Celeborn mi ha puntato in faccia la spada di mio padre, e questa cicatrice che ho nel collo me l’ha fatta lui”.

Celebrian era imbarazzata. “Mi dispiace, sono davvero desolata”.

Elrond la rassicurò: “Nessuno ti accusa di niente, amore mio. Non è colpa tua ciò che è successo”.

“Assolutamente”, disse Thranduil “Ci sono due spade. Una deve essere sicuramente falsa. Come fare per riconoscere l’originale non saprei neanche io”.

Bolin capì che quello era il momento giusto per parlare, non ci sarebbe stata una seconda occasione e aveva rimandato già tante volte. Perciò facendosi coraggio avanzò fino a sistemarsi in posizione centrale rispetto al gruppo, che finiva sempre per sistemarsi in circolo, e disse: “Io lo so”.

Thranduil si alzò e la gamba cedette facendolo finire in ginocchio. Glorfindel gli si accostò. “Posso aiutare?”.

“Credevo di essere a posto”, spiegò il re di Boscoverde.

“Pensavi di guarire in una notte, vero?”, domandò divertito Bolin. “Ahah! Ci vorrà un po’ di più, e già!”.

Gli elfi sorrisero. “Mastro nano”, riprese mezzo serio e mezzo divertito Thranduil “vuoi dirci dunque come fare a distinguere le due spade?”.

Bolin si fece serio. “Siediti Thranduil, ora spetta a me raccontarti qualcosa della mia vita”.

Thranduil si sedette, il sorriso scomparve dal suo viso e con pazienza cominciò ad ascoltare e con lui tutti gli altri. Solo Elrond conosceva già la storia, ma gli era stata raccontata in tutta fretta e riascoltarla arricchita di nuovi dettagli non gli pesava di certo.

“Bene. Da dove posso cominciare?”, disse Bolin massaggiandosi la barba. “Ecco … sì … dal principio di tutto … suppongo che sia la cosa migliore da fare. Bene…

Tutto cominciò il giorno del mio quinto compleanno, e quel giorno fu anche la fine di tutto ciò che fino ad allora avevo conosciuto. Infatti fu proprio quel giorno che i miei genitori morirono. Capisco che non è un bell’inizio, ma le cose belle non sono mai arrivate nella mia vita… non che me ne voglia lamentare, spero che vengano in seguito… comunque…

I miei genitori morirono, neanche a dirlo, in seguito al crollo di una grotta. Assieme ad altri otto nani stavano scavando la roccia per ampliare una delle sale del Signore di Moria, ma ahimè non si erano resi conto che la montagna nel suo crescere aveva creato una sorta di tunnel naturale, e questo colpito in quello che ne poteva essere il pavimento crollò di colpo.

La tristezza fu tanta in quei giorni e per dieci lune Moria si fermò. Poi la sala venne sigillata e i lavori spostati in zone più sicure. Alcuni bambini rimasero orfani e vennero presi dai parenti. Io ero l’unico a non avere nessuno. Ero solo. Non sapevo che ne sarebbe stato di me e fu allora che la mia vita cambiò.

Un nano, il cui nome è Neomat mi prese a vivere a con sé. Io mi sentivo in dovere di assecondarlo e ringraziarlo, non volevo deluderlo. All’inizio temevo che prima o poi mi avrebbe abbandonato, che si sarebbe stancato di me, poi cominciai ad affezionarmi davvero.

Ero felice, anche se mi rendevo conto che il comportamento che Neomat aveva nei miei confronti non era esattamente quello che un padre avrebbe dovuto tenere nei confronti di un figlio, però mi bastava, pensavo che stavo desiderando più di quello che mi spettava…”.

Mentre Bolin parlava Gil-galad raggiunse il gruppo, ascoltò il nano parlare e vide che Elrond lo ascoltava con gli occhi chinati verso il basso. Subito lo raggiunse e gli circondò le spalle con un braccio. Elrond sollevò lo sguardo e sorrise al padre, che con un dito gli fece cenno di no, lui non si sarebbe mai stancato di averlo scelto come figlio.

“… e chissà, se i Valar hanno scelto così forse… Ma comunque. I giorni passarono e così gli anni. Con il tempo Neomat mi istruì nell’arte di lavorare i metalli e quella fu una salvezza per me, perché nel lavoro trovavo un modo semplice di rendere felice mio padre, e inoltre ho sempre amato creare con il fuoco…

Iniziai con le impugnature dei coltelli, con le rifiniture delle cornici, con cotte di maglia dei guerrieri e poi arrivarono sempre lavori più impegnativi, e Neomat pretendeva sempre la perfezione in ogni cosa, e perciò mi vennero affidati compiti sempre più difficili da portare a termine.

Alcune volte erano lavori di cui non dovevo parlare con nessuno, perché erano dei segreti. E io mi sentivo lusingato che Neomat affidasse questi compiti a me. Oggi mi rendo conto che l’unico obiettivo che aveva era avere qualcuno facile da manovrare, qualcuno che facesse il lavoro sporco per lui, di modo da poter scaricare le colpe sugli altri in caso di necessità.

Un giorno venne da noi un elfo. Non ci disse il suo nome e io lo chiamai Il Male, chiese a mio padre di riprodurre un’antica spada elfica. Lui disse che le spade dei nani non potevano essere forti, robuste ed eleganti come quelli fabbricate dagli elfi, e Il Male insistette nel dire che quella riproduzione in particolare doveva essere identica all’originale.

Io cominciai a lavorare il metallo, per renderla altrettanto fine e bella dovevamo usare materiali molto più fragili rispetto a quelli che l’elfo ci indicò. Proseguivo il mio lavoro impegnandomi al massimo e felice di ciò che stavo facendo.

Poi accadde l’imprevisto. Sentì Il Male parlare con Neomat e dirgli che quella spada sarebbe stata la rovina di un grande Re degli elfi…”.

Il silenzio era sceso su Boscoverde, sembrava che anche gli alberi stessero ascoltando, e in realtà era proprio così. Thranduil, che era seduto, non voleva credere a ciò che stava sentendo. Possibile che Bolin fosse in qualche modo, anche se non direttamente, responsabile della morte di suo padre? E chi era questo “Il Male”? Forse Celeborn?

Ancora una volta si fece attento e ascoltò ciò che Bolin aveva ancora da dire.

Questo Re viveva in una grande foresta e conosceva benissimo la sua spada, non sarebbe stato facile imbrogliarlo. Allora Neomat chiese quale sarebbe stata la nostra ricompensa e Il Male gli rispose che ci avrebbe dato le gemme incastonate nella spada originale, al ché mio patrigno chiese come era sicuro che il Re avrebbe ceduto la sua spada e Il Male rise malignamente e poi rispose che il Re non avrebbe potuto opporre nessuna resistenza giacché sarebbe stato morto….

Celebrian non riuscì a trattenersi, questo elfo malvagio sarebbe potuto essere suo padre! Subito ebbe paura dei propri dubbi,  e si rese conto che cominciava a vedere suo padre in maniera del tutto nuova e negativa. “Bolin, com’era quest’elfo? Di che colore aveva i capelli? Forse un po’ argentati?”.

“No, no…”, le rispose subito il nano “erano neri”.

Celebrian tirò un sospiro di sollievo.

“Galion!”, disse tristemente Thranduil.

“Temo che tu abbia indovinato, Thranduil”, gli rispose Gil-galad.

Tutti lo guardarono incuriositi. “Diciamo che ho già sentito una parte di questa storia, anche se raccontata da un punto di vista diverso”, spiegò Gil-galad.

Bolin prese fiato e concluse: “Quando l’elfo se ne andò via io mi rifiutai di completare il manufatto. Non volevo essere responsabile della morte di nessuno. Restai a casa ancora per un po’, ma Neomat mi rinfacciò di avermi amato e di non aver avuto niente in cambio da me se non tante delusioni.

Una decina di giorni dopo decisi che me ne sarei andato via, andai a parlargli e lo vidi con Il Male, stavano discutendo. Il Male gli disse di non dover temere nessun tradimento, che avrebbe avuto la sua ricompensa e poi se ne andò.

Restato solo Neomat parlò tra sé e sé a voce alta e disse esattamente Le rune naniche  che incisi nell’oro sotto le gemme della riproduzione saranno la mia garanzia”.

“Perciò se questa spada è la riproduzione di cui parli, dovrebbe avere delle rune naniche incise nell’oro sotto le pietre preziose”, affermò Haldir, “Dobbiamo guardare subito”.

“Perché tanta fretta?”, domandò Thranduil con voce amara. “Del resto, mi pare che tutti voi sappiate già abbastanza”.

Glorfindel poteva vedere lo stupore negli occhi di tutti, ma in realtà simpatizzava per Thranduil. Gil-galad conosceva già la storia, a quanto poteva intuire dallo sguardo pacato che Elrond aveva mantenuto durante tutto il racconto, anche lui la conosceva già, Bolin ne era stato in qualche modo parte attiva. Insomma, sembrava che tutti sapessero già tutto e Thranduil era in una posizione di svantaggio.

“Thranduil, capisco come ti senti…”, disse Glorfindel, ma il Re di Boscoverde era ancora sconvolto.

“Capisci? Ma davvero?!”.

Glorfindel sembrò illuminarsi e apparve in tutta la sua magnificenza. “Per essere rimandati indietro da Mandos ci vuole molto di più che una bella faccia!”.

Bolin sorrise, ma subito tornò serio, Thranduil non era stato ammorbidito dalla battuta.

“Suppongo che se Bolin avesse potuto ti avrebbe spiegato la situazione prima, giusto?”, chiese Glorfindel.

“Certo, appena avrei trovato il coraggio”, specificò il nano.

“Il coraggio per cosa? Non sono mai stato una minaccia per te. Anzi… sono stato nelle tue mani per la maggior parte del tempo”.

Bolin si rattristì. “E credi che sia stato facile per me? Appena ho capito chi eri, e credimi l’ho capito in fretta, già sui Monti dell’ Emyn Muin, ti ho curato, volevo parlarti ma tu non eri mai completamente guarito. Poi ci siamo diretti al Lothlòrien e ancora avevi bisogno di sostegno non di altri pensieri. Eri sempre gentile con me, mi hai chiesto di venire a Boscoverde e io mi sentivo un verme perché anche se non avevo fatto materialmente niente per uccidere tuo padre, non ero riuscito a fare neanche niente per salvarlo, per impedire che mio padre producesse la spada. Mi spiace Thranduil, non hai incontrato il nano meraviglioso che credevi di aver trovato…”.

“Già”, replicò amaramente il Re di Boscoverde “sicuramente ti credevo migliore”.

Il gelo scese nella foresta e la pioggia cominciò a cadere copiosamente. Thranduil molto lentamente si allontanò dal gruppo, seguito da Gil-galad.

Elrond, che aveva sempre conosciuto Thranduil come un principe compassionevole, non poteva credere alle proprie orecchie, ma forse l’elfo aveva bisogno soltanto di un po’ di tempo in più per elaborare la situazione.

I capelli di Celeborn erano bagnati fradici e anche la tunica color senape che indossava aveva assunto un colore decisamente più scuro. Appena mise piede nelle prigioni, Celeborn poté sentire un odore sgradevole.

Chiaramente i prigionieri non potevano uscire per espletare le proprie funzioni corporee e l’aria cominciava a farsi malsana. Inoltre le prigioni erano delle grotte, che probabilmente erano state la casa di alcuni animali  selvatici, dei quali ora si potevano vedere le carcasse.

Arrivato alla prima cella, Celeborn riconobbe subito Legolas e poi vide un altro elfo.

“Chi sei?”, gli chiese sgarbatamente.

“Sono Pelhiat, il guaritore che doveva curare il giovane Legolas”, rispose egli.

“Sì, va bene. Comunque non credo che il tuo operato sia necessario”.

“In realtà non ho ancora potuto fare niente per lui, perché non mi è stato concesso di portare né erbe mediche, né…”.

Celeborn sorrise malignamente. “Non serviranno comunque”.

Celeborn si fece avanti di qualche passo, ma il terreno bagnato lo tradì e scivolò sulle ginocchia. “Maledizione!”, imprecò sollevandosi.

“Attenzione alle infiltrazioni”, disse Mithrandir affacciandosi dalle sue sbarre.

Celeborn lo fulminò con lo sguardo.

“Quale sarebbe il motivo della sua visita?”, domandò l’Istari.

“Penso”, disse alzandosi Celeborn “che sarebbe il caso di iniziare a risolvere qualche problema o meglio ancora eliminare qualche ostacolo”.

Mithrandir stava pensando se per caso non avrebbe fatto meglio a uscire dalla cella con la chiave che Galion gli aveva dato, oppure se fosse meglio restare là.

Con movimenti molto lenti Celeborn prese in mano la coppia di coltelli che aveva portato con sé.

“Cosa vuole fare con quelli?”, chiese Mithrandir.

“Voglio cercare di capire quanto sono affilati”, disse sghignazzando, “Dov’è il giovane principe?”.

“Non vedo l’attinenza delle due cose”, rispose Pelhiat spostandosi verso un angolo della cella e proteggendo in questo modo Legolas che era rimasto immobile e muto rannicchiato contro la parete umida della cella.

“La vedrai presto”, sputò Celeborn quando individuò l’elfling. “Spostati”, ordinò a Pelhiat “oppure sei disposto a morire per il tuo principe?”.

Pelhiat prese fiato, forse Celeborn era pazzo, forse era solamente malvagio, in ogni caso non avrebbe lasciato che nessuno facesse del male a Legolas. “Non ho alcuna intenzione di spostarmi, io vivo per curare gli altri non per lasciare che qualcuno faccia loro del male”.

“Non so se tu sia coraggioso, dedito alla corona o soltanto un ingrato che disprezza la vita concessagli dai Valar, ma per me comunque non sei niente!”, e velocemente lanciò i due coltelli.

“No!Nana! Portami via! Nana! Portami via! Portami via!”, Legolas strillò con tutto il fiato che aveva in gola quando vide Pelhiat colpito al petto. Perché? Perché stava succedendo tutto questo? Perché chi gli stava vicino veniva sempre ferito?

Come Legolas iniziò a gridare, Celeborn indietreggiò colto di sorpresa. La potenza delle urla dell’elfling lo stordì e sentì la terra tremare, era come se qualcosa si muovesse rabbiosamente sotto i suoi piedi.

Velocemente tornò sui suoi passi e a tratti scivolando, a tratti inciampando, riuscì a uscire dalle prigioni per essere sbattuto faccia in terra da un tronco che si era spezzato da un albero.

Celeborn si alzò e corse più velocemente che poté dentro la fortezza. Sentì dei cavalli nitrire in lontananza, probabilmente Nedhian e la sua squadra stavano recuperando quelli fuggiti dalle stalle. 

Galion gli venne incontro con fare serio, ma si fermò vedendo l’elfo sporco in viso e negli abiti. “Cosa succede?”.

“E’ morto. Il guaritore è morto. Quel principino sembra essere molto caro a tutti!”.

Galion si bloccò nell’udire quelle parole, pensava di aver lasciato Legolas al sicuro, non capiva il motivo per cui Celeborn era andato là. Doveva avvisare Gil-galad di muoversi. Bisognava agire in fretta.

“In ogni caso, per cosa mi cercavi?”.

 “Rhiaian vuole la sua ricompensa. Dice che è tempo che tu gli dia la spada. Che ormai si è già trattenuto troppo”.

Celeborn era furioso, aveva spiegato al nano quanto fosse necessario aspettare. No! Se lui non fosse riuscito a salire sul trono, allora i nani non avrebbero avuto la loro ricompensa.

Con una mano si tolse un po’ di fango dalla faccia. “Digli che deve aspettare, altrimenti può andarsene anche ora, ma senza ricompensa”. “Celeborn!”, lo riprese Galion “Non è una buona mossa mettersi contro i nani di Moria”.

“Non è una buona mossa neanche mettersi contro Celeborn del Lothlòrien e di Boscoverde”, disse convinto che prima o poi una corona di legno avrebbe adornato il suo capo.

 

 

Gil-galad aveva seguito Thranduil, un po’ per assicurarsi che non si facesse del male inciampando, poiché era ancora piuttosto instabile, un po’ per tranquillizzarlo. Thranduil era molto più calmo e saggio del padre, però era comunque un elfo ferito nei suoi sentimenti, che si ritrovava improvvisamente a essere solo.

“Cosa vuoi?”, domandò Thranduil a Gil-galad “Vuoi raccontarmi di come il migliore amico di mio padre lo ha tradito? Di come ha ucciso mia moglie? Sembra che voi due siate molto vicini se ti ha raccontato della spada”.

Gil-galad fece finta di non aver sentito l’acidità e il sospetto nella voce di Thranduil. “Sì, Galion mi ha raccontato tutto dal suo punto di vista, abbiamo avuto molto tempo per parlare durante la mia convalescenza. Posso solo dirti che la follia non offusca più la sua mente e che sta cercando di espiare le sue colpe”.

Thranduil gli lanciò un’occhiata terribile. La pioggia gli bagnava il viso e il suo sguardo non avrebbe potuto essere più tagliente. “E come si può espiare la colpa per l’uccisione di una Elleth che aveva ancora l’eternità davanti a sé? Come si può lasciare un popolo senza una guida? Come si può pensare di uccidere un elfling?”.

Gil-galad non aveva risposte, però poteva rasserenare il nuovo Re. “Thranduil, io ho visto Legolas. E’ nelle prigioni. Credo che gli farebbe piacere avere una prova concreta del fatto che tu sia vivo”.

Thranduil cercò di asciugarsi il viso. “Legolas è nelle prigioni, si lo so. Non si trovano lontano. Possiamo andarci”.

“No. E’ meglio se tu stai qui, se prima affronti Celeborn”.

“Ma Legolas è da solo e io posso sentire la foresta preoccupata per il suo principe”.

“Forse sono preoccupati per te”, tentò Gil-galad.

“La Foresta sa che io sono il nuovo Re, che mio padre è morto, e che Legolas è il nuovo principe”.

“Legolas non è solo. C’è Mithrandir con lui…, è Mithrandir è un Istari inviato dai Valar… puoi stare tranquillo”.

Thranduil espirò pesantemente, voleva far uscire dal proprio corpo tutte le ansie e le preoccupazioni, inoltre non stava ancora bene del tutto. La foresta lo aveva guarito per la maggior parte, ma le gambe erano deboli e le spalle sembrava volessero staccarsi dal suo corpo da un momento all’altro.

Ma il dolore che in questo momento era più intenso era quello che Bolin aveva aperto nel suo cuore. Gil-galad poteva vederlo nei suoi occhi, era stato simile a quello che lui aveva provato quando Mithrandir gli aveva detto che avrebbe dovuto fingere la propria morte, e lui aveva capito che qualcuno che amava avrebbe sofferto molto.

Si era sentito tradito, Mithrandir gli aveva chiesto molto: gli aveva chiesto in qualche modo di tradire suo figlio. E così Bolin, nascondendogli la verità, gli aveva chiesto di pensare che la morte di suo padre era un fatto secondario.

“Bolin non ha colpe. Rifiutandosi di portare a termine il lavoro ha cercato di impedire la morte di tuo padre”.

“Avrebbe dovuto assicurarsi che nessuno la producesse!”, disse Thranduil.

“Non poteva controllare tutti i nani di Moria”.

“Allora avrebbe dovuto denunciare Neomat al suo Re”.

“Con quali prove? Sarebbe stata la parola di uno contro uno, come si può scegliere dove sta la verità in questi casi?”.

“Avrebbe dovuto fare qualcosa! Bisognava fare qualcosa!”, urlò. “Sarebbe andato bene qualsiasi cosa, qualsiasi cosa…”.

“Ma cosa?”, domandò Gil-galad “Cosa avresti potuto chiedere di più a Bolin?”.

“Non lo so”, si agitò confusamente Thranduil “ma se lui fosse riuscito a fermarli, forse adesso mio padre sarebbe qui”.

“Bhè, nessuno può giocare alla vita con i “se”. “Inoltre come fai a sapere che se tuo padre avesse avuto la sua spada adesso sarebbe qui? E se lui, se Oropher, fosse ancora qui, cosa chiederebbe a Bolin?”.

Thranduil conosceva la risposta. “Se fosse qui, non chiederebbe niente a Bolin poiché avendomi salvato la vita, non potrebbe chiedergli di più”. Thranduil chinò il capo. Era difficile. Lui aveva qualcosa da chiedere a Bolin, qualcosa per cui incolparlo solo perché lui non era stato in grado di proteggere suo padre. Se lui fosse stato vicino a Oropher in battaglia, il suo Re, suo padre, non sarebbe morto. O magari sì.

In ogni caso non era colpa di Bolin. Doveva tornare indietro e chiedergli scusa. Era concentrato al pensiero di ciò che gli avrebbe dovuto dire quando l’eco di un urlo si diffuse in tutta la foresta da albero ad albero.

Era una voce che ripeteva sempre le stesse parole. Gil-galad tenne Thranduil in piedi, mentre il Re di Boscoverde respirava affannosamente. Non era difficile capire il perché di questo nuovo cedimento. L’eco era chiaro: “Nana, portami via!”.

“Legolas”, sospirò Thranduil cercando di farsi forza ma sentendo le gambe farsi molli.

“Dobbiamo dargli una prova che tu sei vivo. Lasciami l’anello di Oropher. Glielo porterò”.

“No, andrò io. Non posso andare avanti così”, disse Thranduil.

Gil-galad però si oppose. “Prima devi affrontare Celeborn!”.

“Perché?”.

“Legolas e Mithrandir hanno bisogno di tempo”.

Thranduil crollò a terra, ancora una volta non poteva correre in soccorso a suo figlio, anche se sentiva che questo ne aveva un disperato bisogno. Prese l’anello e lo porse a Gil-galad. “Eccolo, portaglielo subito. Fai in fretta, ti prego!”.

Gil-galad  accompagnò Thranduil dal resto del gruppo e lo affidò a Bolin, assicurando Elrond che le cure del nano sarebbero state sufficienti e li avvisò: “Tenetevi pronti perché in giornata incontrerete Celeborn. Credo che i tempi siano maturi”.

Mithrandir aveva trascorso una buona mezz’ora nel tentativo calmare Legolas chiamandolo per nome, dolcemente. Era riuscito in questo modo a farlo smettere di gridare, ma era consapevole del fatto che stare nella stessa cella con un morto non lo avrebbe aiutato e inoltre sentiva Legolas ansimare e muoversi, ma non capiva cosa stesse accadendo.

Tuttavia non c’era altro da fare, non poteva correre il rischio di uscire dalla cella, quando c’era ancora il pericolo che Celeborn tornasse. Doveva essere prudente e aspettare. Perciò l’arrivo di Gil-galad gli tolse un peso dal cuore.

Il signore di Imladris rimase scioccato alla vista di Legolas. L’elfling stava scavando nella terra con le mani accanto alle sbarre, evidentemente con l’intenzione di passarci sotto. Il suo volto era rigato di lacrime e i capelli incrostati di fango. Per un attimo gli sembrò di trovarsi di fronte a Thranduil nella fortezza di Dol-guldur.

“Ehi, ragazzo. Legolas”, gli disse piano Gil-galad, ma Legolas continuò a scavare senza dare alcuna attenzione all’elfo.

“Ho una cosa per te”.

Legolas non era interessato a sentire le parole di nessuno. Doveva scavare e poi una volta fuggito, scappare. Pelhiat era morto. Fidelhion era morto. Sua madre era morta e anche suo nonno. Lui doveva fuggire, lontano dove la morte non lo avrebbe raggiunto.

Gil-galad prese l’anello e tenendolo nel palmo della sua mano lo avvicinò alle sbarre per mostrarlo all’elfling. Legolas continuava a scavare, i capelli cadevano sul viso impedendogli di vedere nient’altro se non la terra. Gil-galad gli toccò la spalla e Legolas alzò improvvisamente gli occhi e finalmente vide l’anello.

Come lo vide, trattenne il respiro. Poi la tensione che aveva accumulato scavando per fuggire si sciolse in nuove lacrime, allungò la mano e prese l’anello.

“Me lo ha dato tuo padre”, disse Gil-galad non potendo fare a meno di notare le dita insanguinate del giovane principe. “Mi ha detto di dirti che qualsiasi cosa accade, devi essere forte. Lui è al sicuro. Non è da solo e entro oggi vi rivedrete, ma tu devi restare con Mithrandir. Hai capito?”.

Legolas piangeva mentre si portava l’anello al petto e singhiozzava. Gil-galad avrebbe voluto allungare la mano e accarezzarlo, ma non era sicuro se il gesto sarebbe stato gradito, così lasciò Legolas e si avvicinò alla cella dell’Istari.

“Penso che sia arrivato il momento di usare questa chiave”, disse con uno sguardo soddisfatto MIthrandir.

“Non ancora”, obiettò l’elfo. “Tra non molto, manderò Galion. Una volta che lui sarà andato via, usa la chiave e ricordati: una volta che sei all’aperto con Legolas non opporti mai alla foresta”.

“Celeborn è venuto qui, voleva uccidere il ragazzo”.

Gil-galad trasalì. “Quando?”.

“Poco fa, forse sei riuscito a sentire le urla di Legolas”.

L’elfo annuì con il capo. “E’ stato lui ha provocarle. Ha lanciato i suoi coltelli contro il povero guaritore e lo ha ucciso”.

Gil-galad si affacciò nuovamente alla cella di Legolas e guardando meglio riuscì a vedere un corpo rannicchiato in un angolo. Forse Legolas lo aveva spostato, o forse chissà.

“Stai attento Mithrandir”, gli consigliò l’elfo. “In casi estremi, ricordati che sei un Istari. Potrai pur fare qualche gioco di prestigio”.

Mithrandir sorrise e dopo avere stretto la mano a Gil-galad lo lasciò andar via.

“Legolas”, chiamò Gil-galad senza ottenere risposta “Sta per finire tutto. Ancora un po’ e vedrai tuo padre, sii forte, ragazzo”.

Legolas continuava a dondolarsi e singhiozzare, una volta che Gil-galad se ne fu andato riprese a scavare, sentiva che Mithrandir gli stava parlando, ma non riusciva a capire le parole. C’era solo una cosa da fare, ovvero continuare a scavare.

E andò avanti fino a quando la fossa non fu abbastanza profonda, poi strisciò sotto. Lo spazio non era sufficiente per riuscire a passare senza problemi, e così si graffiò la schiena in più punti, ma non si lamentò, non emise una sola parola.

“Legolas resta qua, non puoi andare da solo”, gli disse Mithrandir credendo che volesse scappare e invece rimase sorpreso quando Legolas si inginocchio accanto alle sbarre della sua cella e riprese a scavare.

Legolas voleva liberarlo, non aveva chiavi e perciò l’unico modo era scavare anche per Mithrandir. Cosa avrebbe pensato il ragazzo se avesse saputo che lui aveva la chiave?

Mithrandir allungò le mani e gli tenne le sue. “Fermati, Legolas. Finirà tutto e questo non è necessario. Credimi”.

Legolas chinò il capo di lato, mentre cercava di dare un senso alle parole dell’anziano. Gli aveva detto che doveva fermarsi, si guardò le mani e poi un pensiero lo colpì con violenza. E se ci fossero stati altri prigionieri da salvare? Elfi o uomini come lui che Galion e Celeborn aveva imprigionato?

Non ci pensò su due volte. Si alzò e andò alla ricerca di altre celle e di possibili prigionieri.

“Legolas! Torna indietro. Legolas!”.

All’uscita dalle prigioni Gil-galad si diresse verso la fortezza. Doveva entrare nel passaggio segreto che Galion aveva costruito, ma ormai era pericoloso poiché anche Celeborn lo conosceva.

Per questo bisognava essere prudenti. Abbassatosi il cappuccio, con molta attenzione, passo dopo passo, avanzò nel più completo silenzio. Poi il suo udito elfico sentì dei passi pesanti e il suo olfatto un odore inconfondibile: nani!

“Sbrigati!”, sentì dire Gil-galad.

“State sbagliando. State facendo un grosso sbaglio. Noi nani abbiamo la memoria lunga, e questo tradimento non sarà gradito”.

“Non posso farci niente. Vi siete affidati all’elfo sbagliato”.

Gil-galad riconobbe la voce, era quella di Galion. Perciò quando si trovò di fronte il nano e l’elfo non si spaventò più di tanto, invece Galion e Rhiaian saltarono sui loro piedi.

“Chi sei? Mostrati!”, ordinò Rhiaian vedendo solo qualcuno con un cappuccio sul viso.

Galion però intervenne subito. “Chi è, non è affar tuo”.

“Questo passaggio è molto frequentato per essere segreto”, disse Gil-galad a bassa voce.

Rhiaian sghignazzò. “Non tutti i segreti restano tali per sempre”.

Galion spinse il nano in avanti e passando accanto a Gil-galad udì le parole che aveva aspettato da giorni. “Procedi come organizzato”.

“Thranduil, stai fermo. Stai guarendo, stai decisamente meglio, già, ma sei ancora debole. Forse Elrond ti potrebbe dare quell’unguento puzzolente per il ginocchio”, propose Bolin.

Elrond ebbe un colpo di tosse nel sentire il nano disprezzare l’odore dell’unguento.

Bolin si lagnò. “Che c’è?! Funziona certo, ma ha una puzza incredibile”.

Haldir gli porse una piccola boccetta d’olio. “Anche questa andrà bene, Bolin. Io la uso sempre e nessuno mi ha mai detto che ho un cattivo odore”.

Thranduil era stato in silenzio per tutto il tempo. Aveva voglia di chiedere scusa al nano, che era suo amico, ma non sapeva come fare. E perciò l’unica cosa che riuscì a dire fu: “Non ho intenzione di abbassarmi i pantaloni di fronte a tutti”.

Celebrian rise tra le braccia di Elrond. “Ti ricordo che solo ieri eri nudo sotto un lenzuolo”.

Thranduil sgranò gli occhi. “E tu mi hai visto?”, poi rivolgendosi a Elrond chiese: “Hai lasciato che mi vedesse?”.

Elrond rise stringendosi al petto Celebrian: “Certo che no. Che senso avrebbe? Stando con me, ha già visto il meglio”.

“Uh!Uh! Che i Valar ci salvino!”, esclamò ridendo Glorfindel. “Il meglio, e solo il meglio è quello che i Valar rimandano indietro”, disse indicando se stesso con le mani e facendo un inchino.

Haldir rise, ma non aggiunse niente. Bolin aveva la boccetta in mano e sembrava un guaritore alle sue prime armi. “Allora cosa hai deciso di fare?”, chiese rivolgendosi a Thranduil.

Il Re di Boscoverde girò il viso di lato. “Allora tieniti il dolore!”, lo rimproverò Bolin.

“Quando vivrai nel mio Regno, gradirei che non mi chiedessi di scendermi i pantaloni di fronte a tutti”, disse Thranduil a voce alta, senza però rivolgere lo sguardo al nano.

“Quello era un invito per un amico, sei sicuro che sia sempre valido?”.

“Bolin, non era tuo dovere proteggere mio padre. Non è colpa tua se io non ci sono riuscito”.

Gli elfi ascoltavano Thranduil parlare e potevano sentire il senso di colpa che chiaramente portava per non essere riuscito a proteggere Oropher.

“Io sono sicuro che tu abbia fatto tutto il possibile. Non sei un super-elfo!”, gli fece notare Bolin.

Thranduil abbozzò un sorriso. “Anche questo, gradirei non fosse ripetuto davanti a tutti”.

Bolin ricambiò il sorriso, la burrasca tra loro era passata, ci sarebbe stato bisogno di parlare ancora per molto, ma per ora poteva bastare.

Celebrian sussultò e si tenne la pancia. “Come va?”, domandò Elrond.

“Ho paura. Sto per vedere mio padre, e so che non è la persona che era prima di partire”.

Bolin, che sentiva, avrebbe voluto farle notare che Celeborn aveva organizzato già tutto prima di partire, perciò lei era stata cieca per molto tempo prima.

“I bambini come stanno?”, domandò Elrond.

Celebrian sorrise. “Chi? Elladan e Elrohir?”.

Elrond rise: “Allora è già deciso. Per volere di un nano e per gentile traduzione elfica di un risorto, ahah!”.

Glorfindel fece l’occhiolino a Bolin e quello rise compiaciuto.

“Stanno bene, ogni tanto si muovono. Dovrebbero nascere tra circa due mesi”.

Elrond sollevò il sopracciglio. “Non sembri così … voglio dire… così…”.

“Incinta”, lo aiutò Bolin. “Si dice incinta”.

Celebrian rise. “Anche mia madre non era molto grossa, la sua pancia era cresciuta a dismisura negli ultimi due mesi”.

“Anche Wisterian”, ricordò Thranduil, “e poi l’ultimo mese fu sorprendente. Era così bella!”.

Legolas avanzava lentamente, aveva superato tre celle ma non c’era nessuno. Però gli sembrava di sentire piangere qualcuno, e perciò decise di andare avanti. La prigione era buia e scivolosa, dopo pochi passi Legolas cadeva a terra e doveva rialzarsi.

Più avanzava  e più prigione era in completo sfaccelo, il soffitto in alcune parti aveva ceduto facendo entrare dei raggi di luce, ma comunque essendoci cattivo tempo, la luce era davvero esigua.

A un certo punto Legolas sentì una voce: “Non avanzare, torna indietro”.

Inizialmente credette che fosse la voce di Mithrandir, ma non era la sua.

“Mio principe, il futuro è alle tue spalle. Tuo padre ti aspetta, non avanzare”.

I singhiozzi aumentarono, e provenivano dalla voce che piangeva. Chi poteva essere. Improvvisamente un ramo sfondo il soffitto facendo cadere fango e pietre nella prigione e aprendo una breccia nel muro lateralmente.

Legolas si fermò spaventato, girò un paio di volte su se stesso cercando di capire se era da solo o se c’era qualcuno, perdendo in questo modo l’orientamento.

La voce continuava a parlargli: “Non avanzare”. Legolas capì che stava sentendo la voce degli alberi e decise di tornare indietro, ma ormai non capiva più qual era la direzione giusta da prendere. Dove era il dietro e dove il davanti?

Avanzò verso una direzione, ma prese quella sbagliata e così si trovò davanti alla quarta cella, e non poté credere ai suoi occhi: c’era un altro prigioniero vestito di verde disteso sul pavimento. Legolas provò ad aprire la cella e si accorse che la porta era aperta. Perciò entrò e scosse il prigioniero per svegliarlo, ma quello non si mosse.

Era rigido. Lo tenne per le spalle e lo girò verso di sé. Legolas si portò le mani alla testa, voleva gridare ma la voce non gli usciva, voleva piangere ma lacrime non ne scendevano più. Cerco di sollevare il prigioniero, ma era troppo pesante e rigido. Il vestito verde era macchiato di sangue.

Legolas passò la mano sul vestito per pulirlo, ma era impossibile cancellare quelle macchie. Il corpo senza vita del prigioniero era freddo, avrebbe voluto riscaldarlo ma non aveva niente per coprirlo. Doveva portarlo fuori, forse all’aperto si sarebbe svegliato. E così, come poté lo trascinò fuori attraverso la breccia, sapendo che era morto, ma non volendo crederci.

Là, sotto la pioggia, Legolas si tenne stretto il prigioniero, e senza voce, senza lacrime, si dondolò avanti e indietro. Poteva solo pensare che doveva stare tranquillo perché presto sarebbe arrivato il suo Ada, e avrebbe riportato lui e la sua Naneth a casa.

 

Angolo autrice:

Si. Potete mandarmi tante maledizioni. E’ un finale imprevisto. Vero? Bhè in qualche modo la storia doveva finire e ho pensato di terminarla con la scena ad effetto, come nei telefilm.

L’ultimo episodio di una serie lascia sempre un grosso punto interrogativo. Cosa succederà nella seconda serie? Riusciranno i nostri eroi a vincere?

Bhè, comunque ho già in mente il continuo perciò non preoccupatevi …

Ahahah!

No, non ce la faccio a mentirvi… mi stavo solo divertendo un po’… ahah!

Ovviamente questo NON E’ IL CAPITOLO CONCLUSIVO

Però sta per arrivare… diciamo che nel prossimo si conclude quasi tutto, ma credo che per sistemare bene le cose prima di un eventuale “sequel”, mi servano ancora due o tre capitoli.

Ringrazio tutti coloro che leggono, recensiscono, inseriscono la storia tra le preferite e le seguite… non siete tanti, ma siete sicuramente i migliori. Forse Mandos ha rimandato indietro qualcuno? Che ne dite?

Vi abbraccio, a presto, Alida

 

 

 

 

 

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Capitolo 17
*** Perdonami ***


Galion spinse il nano in avanti e passando accanto a Gil-galad udì le parole che aveva aspettato da giorni. “Procedi come organizzato”.

Cap 17

“Neomat non sarà contento!”, continuava a ripetere Rhiaian a se stesso, mentre procedeva nella foresta.

Galion lo aveva mandato via, perché a quanto diceva, Celeborn, colui per il quale avevano fabbricato la spada, non aveva intenzione di pagare il tanto richiesto. L’elfo, avaro, si sarebbe tenuto per sé le gemme incastonate nella spada.

Tuttavia Neomat non era il nano migliore di Moria e aveva un pessimo temperamento. Celeborn non lo sapeva ma sarebbero giunti giorni in cui avrebbe pregato i Valar di non aver mai avuto a che fare con un nano come lui.

Appena giunto a Moria Rhiaian gli avrebbe raccontato tutto e gli avrebbe anche spifferato del passaggio segreto. Oh, sì che lo avrebbe fatto. “Si pentiranno di avermi mandato via, e di non aver mantenuto la parola. Questi elfi la pagheranno”, continuava a ripetere.

Pioveva, ancora, ma lui non si sarebbe fermato. Rhiaian si guardava attorno, la pioggia produceva mille rumori sospetti.

Sentì dei cavalli nelle vicinanze e non ne fu contento, non erano animali adatti a un nano, neanche per un passaggio. Il terreno era fangoso, doveva aver piovuto davvero tanto mentre lui era stato nella comoda stanza degli elfi.

Camminava da quasi un’ora, l’acqua gli stava inzuppando i vestiti, e il freddo penetrava nelle ossa. Con un pizzico di nostalgia cominciò a pensare alle fornaci nelle quali aveva prestato servizio, che bel calduccio che c’era là, finanche troppo alle volte, ma sempre meglio del freddo.

“Ci vorrebbe un po’ di fuoco anche qua”, disse con un ghigno malvagio.

Un lampo fece la sua comparsa improvvisa e dopo alcuni istanti un tuono violentissimo scoppiò nel cielo. “Ah!”, gridò il nano, “maledetta pioggia!”.

L’urlo però attirò l’attenzione di qualcuno che, ingenuamente, credeva di aver ritrovato un amico.

“Rhiaian!”.

Il nano sentì chiamare il suo nome, ma non essendo pronto a dar peso a ciò che aveva sentito non riconobbe colui a cui apparteneva la voce finché non si trovò davanti niente di meno che Bolin!

“Vieni, Rhiaian! Da questa parte, siamo tutti qui”, lo spronò Bolin mentre lo abbracciava. “Dove sono gli altri?”.

Intanto Haldir e Glorfindel che avevano sentito Bolin parlare con qualcuno raggiunsero il nano.

“Bolin! Con chi sei? Sarebbe meglio se a questo punto non ci allontanassimo troppo l’un dall’altro” gli disse Haldir.

“Sono con un amico”, rispose Bolin. “Vieni, ti presento a tutti gli altri”, disse poi rivolgendosi a Rhiaian.

“Non fa niente”, affermò Rhiaian, “Grazie dell’invito Bolin, ma devo andare!”.

Bolin però sembrò non capire l’antifona. “Dai, su, indovina con chi sono? Ti ricordi l’elfo che incontrammo una volta attraversato l’Anduin? C’è anche lui”.

“Ci segua”, disse Glorfindel con voce autorevole, “Non siamo lontani, saranno solo una cinquantina di metri”. Rhiaian non era come Bolin, dava l’aria di essere inaffidabile.

Haldir fece cenno di sistemarsi meglio la faretra sulle spalle, e Rhiaian alla vista dei due elfi, più che dell’amico, decise di assecondarli. “Va bene, allora fatemi strada”.

Così poco dopo raggiunsero gli altri, che avevano sistemato tutta la roba sui cavalli ed erano pronti a muoversi per raggiungere la fortezza.

“Glorfindel, ci sono problemi?”, domandò Elrond.

“No, Elrond. Non abbiamo incontrato nessun ostacolo, possiamo andare avanti per almeno mezzora a piedi senza nessun problema”, rispose l’elfo biondo.

“Ma indovinate chi abbiamo incontrato nella foresta? Un amico!”, disse allegramente Bolin.

Rhiaian si fece avanti, salutò e guardò ad uno ad uno gli elfi che gli stavano attorno. Quando i suoi occhi caddero su Thranduil, gli sembrò di riconoscere in lui l’elfo che avevano catturato e legato e istintivamente si irrigidì.

“Che c’è? Sembra che lei abbia visto un Nazgul!”, disse Glorfindel.

“No, non è niente”, disse brevemente Rhiaian col volto scuro.

Anche Thranduil si irrigidì sul posto, perché sebbene non fosse riuscito a vedere in faccia i suoi sequestratori, li aveva sentiti parlare e anche se non era stato molto lucido era sicuro di riconoscerne la voce.

“Thranduil, tutto bene?”, domandò Bolin.

Thranduil prese fiato. “Credo di aver già avuto modo di conoscere il tuo amico. Non è vero?”, domandò egli rivolgendosi a Rhiaian.

“Non credo”, fu la risposta “Forse mi confonde con qualcun altro”.

Thranduil però era sicuro del fatto suo e più lo sentiva parlare più era sicuro. “Vorrei sapere come mai si trova qui. E’ alquanto inusuale che un nano attraversi Boscoverde da solo”.

“Thranduil!”, lo riprese Bolin non capendo perché l’elfo fosse così scortese.

“Lascia stare, Bolin. Forse il tuo amico ha le sue ragioni per essere diffidente”, disse Rhiaian. “Comunque, sono qui perché ero stato invitato dal Re di Boscoverde”, disse con un sorriso compiaciuto, ben sapendo che questo avrebbe potuto irritare qualsiasi elfo fedele al precedente re.

“Non ricordo che mio padre abbia mai invitato un nano a Boscoverde, né tanto meno l’ho fatto io”, ribatté Thranduil pieno di rabbia “Chi sarebbe pertanto l’elfo che l’ha invitata? Chi si è appropriato di questo titolo?”.

Rhiaian assunse il volto più stupito e innocente che poté. “Re Celeborn, naturalmente!”.

Tuoni e lampi si abbatterono improvvisamente e con violenza sulla foresta. “Come osa?”, urlò Thranduil. “Con che coraggio assume questo titolo?!”, continuò a urlare.

Rhiaian era soddisfatto. Tutti potevano vedere sul suo viso la sua malizia. Thranduil avanzò verso il nano, ma la gamba lo tradì ancora una volta e questa volta fu Elrond a impedire che cadesse al suolo. Intanto la pioggia si fece nuovamente forte. “Io ti riconosco!”, urlò Thranduil, “Ho riconosciuto la tua voce! Tu mi hai tenuto prigioniero legandomi con una corda nella foresta!”.

Velocemente Glorfindel e Haldir furono ai fianchi di Rhiaian, uno per lato. Il nano cercò di fuggire ma Haldir gli puntò una freccia in faccia e Glorfindel sfoderò la sua spada. “Non ti muovere, o sarà peggio per te”.

“Rhiaian, tu hai davvero legato Thranduil? Ma perché? Non lo conosci neanche!”.

Rhiaian non aveva niente da perdere. Volevano la verità! Gliela avrebbe data. “Non essere sciocco, Bolin. Sai bene che ci sono interessi molto grandi dietro Boscoverde”.

“Io? Cosa dovrei sapere?”, domandò sconvolto Bolin.

“Oh, Valar!”, esclamò Rhiaian rendendosi conto fino in fondo quanto ingenuo fosse il figliastro di Neomat, “Tu davvero non avevi capito che io e tuo padre eravamo in affari?”.

Bolin era stupefatto, quanto era stato stupido e sempliciotto. “Io pensavo che …, tu dovessi andare a Pontelagolungo!”.

“No, era solo una scusa per te e per tutti gli altri! Mi dovevo fermare qui a Boscoverde fin dall’inizio. Poi però, meraviglia delle meraviglie, abbiamo visto un elfo nei boschi e quest’elfo portava con sé … indovina cosa? Una spada! Esattamente uguale a quella che io e tuo padre falsificammo. O era il falso o l’originale. Ma come fare per averla? Non c’era modo. Se non ché l’elfo che possedeva la spada aveva con sé anche qualcos’altro, o meglio qualcun altro: un elfo biondo legato ad un cavallo. Non ne aveva molta cura, anzi direi che si era divertito molto con lui, viste le sue condizioni!”. Rhiaian rise e rivolgendosi a Thranduil continuò: “Eri un ammasso di sangue e fango, ma all’altro elfo non importava niente. Comunque fece un errore, non ti legò e così, evidentemente riuscisti a scappare. Io e i miei amici ce ne andammo per ritrovarti poi svenuto e a quel punto decidemmo di tenerti, perché magari avremmo potuto scambiarti con la spada qualora l’altro elfo fosse venuto a cercarti. Ma … non venne e i miei amici se ne andarono lasciandomi solo con te, e dopo un po’ me ne andai anch’io”.

“Noi però lo abbiamo trovato legato e ferito”, disse Elrond accusando implicitamente Rhiaian delle sofferenze inflitte a Thranduil.

Rhiaian però non ci stava. “Mi creda, era già in condizioni penose quando lo trovammo”.

“Questo non spiega perché dopo aver deciso di non usarlo più come merce di scambio, lo abbiate lasciato così, buttato per terra e legato…”.

“Ho avuto paura!”, confessò il nano. “Anche gli altri se ne andarono presi dalla paura, perché lui cominciò a farsi luce, cominciò a brillare di una luce accecante e questo, questo ci spaventò”.

Gli sguardi adesso furono tutti rivolti a Thranduil, che però non aveva molti ricordi di quel giorno, e neanche spiegazioni da dare. “Io non ricordo bene, mi ricordo solo delle voci, e tanto dolore. I polsi, le caviglie, le ginocchia, il viso, tutto era soltanto dolore, avevo sete, la gola bruciava, sentivo che mio figlio era in pericolo e poi provai un forte dolore alla testa e infine mi sono svegliato con voi”.

Elrond tenne Thranduil. “Non affaticarti. Ti aspetta già una prova importante. Ormai è passato, dobbiamo guardare avanti”.

Glorfindel tenne stretto Rhiaian. “Mi dispiace, messer Nano, ma non potrai tornare nelle tue terre. Appena tutto finisce dovrai comparire davanti ai giudici di Boscoverde e difenderti dall’accusa di Sequestro e tentato omicidio di Sua Maestà Re Thranduil”.

Rhiaian urlò subito. “No, aspettate. Io non sapevo che fosse il nuovo Re”.

“Questo non rende il crimine meno efferato. Nessuno ha il diritto di rapire, legare e colpire un essere vivente, tanto meno un Primo nato”.

Rhiaian stette zitto, non aveva accettato la situazione, ma pensò bene di non rendere noto il suo disappunto e scappare al momento più propizio.

Dopo aver lasciato Rhiaian nella foresta, Galion era andato a parlare con Celeborn. Il signore del Lothlòrien si era fatto un bel bagno caldo per rilassarsi e prendere delle decisioni a mente fresca. Avrebbe organizzato una nuova riunione con i consiglieri per discutere su come organizzare il rientro dei soldati dal fronte. Non che gli interessasse farlo ma doveva far capire che lui voleva sedersi sul trono e perciò doveva essere interessato a tutti gli elfi del suo regno, e questo almeno fino a quando non si sarebbe realmente seduto su quella poltrona.

“Ah, il mio regno!”, disse ad alta voce.

Toc-toc!

“Celeborn, sono Galion. Aprimi!”, ordinò bruscamente l’elfo.

Celeborn che sognava ad occhi aperti, tornò alla realtà. Aprì la porta della camera e venne spinto dentro dall’elfo, che richiudendo dietro sé, cominciò a camminare nervosamente.

“Si può sapere cosa ti prende?”.

Galion fece cenno con la mano di lasciar perder che c’erano cose più importanti a cui pensare. “E’ arrivato!”, disse in fretta continuando a camminare avanti e indietro.

“Chi è arrivato?”.

“Thranduil!”, gridò Galion.

“Abbassa la voce. Zitto, o ti sentiranno anche le talpe sotto terra!”.

Galion procedette come concordato con Gil-galad. “Non capisci. E’ troppo presto, non riusciremmo mai ad avere in mano la situazione”.

“Taci, taci. Ce la faremo. Dimmi dov’è? E’ distante?”.

“Arriverà all’incirca tra un’ora”.

“Ma come hai fatto a vederlo?”, domandò Celeborn.

“Ho mandato via Rhiaian; l’ho accompagnato per un tratto di strada e da lì sono riuscito a vederlo”.

“Rhiaian è andato via? Bene, e le gemme della spada? Gliele hai consegnate?”.

“Sì, certo. Come d’accordo”, mentì Galion.

“Bene. Allora, la spada finta è sepolta, e quella vera non esiste più. Adesso possiamo stare tranquilli”.

“Ma perché non dargli le gemme prima?”.

“Dovevo prendere tempo”, rispose Celeborn,  “Adesso però, visto che sta arrivando Thranduil, è meglio non avere più la spada in mezzo ai piedi”.

“Comunque sia”, continuò, “Organizza una seduta nella sala del trono, chiama i consiglieri e spiega loro che Thranduil è venuto, ed è arrivato il momento di un confronto diretto”.

Galion assicurò che tutto sarebbe stato fatto, e che entro un’ora avrebbero messo unagrande ipoteca sul regno.

Poi se ne andò a cercare i consiglieri. Era contento di esser tornato sui suoi passi, ma ancor di più di poter agire seguendo liberamente i suoi pensieri. Spesso quando era con Celeborn si sentiva quasi stregato, non riusciva ad opporsi a quell’elfo. Diceva cose belle e lusinghiere, salvo poi uccidere chi gli stava in mezzo senza alcun problema.

Thranduil si stava dirigendo verso la fortezza, Galion sistemava tutto dall’interno e il nano Rhiaian era stato mandato via. A questo punto Gil-galad aveva la sua parte da svolgere, ovvero andare alle prigioni e far uscire Mithrandir e Legolas.

Non si aspettava certo di trovare l’ingresso sbarrato da un grosso albero e parte della prigione crollata. Con molta difficoltà riuscì a districarsi tra i fitti rami e ad entrare. Non c’era neanche un filo di luce e così avanzò con una mano sul muro che lo aiutava ad orientarsi.

Aveva i sensi in allerta per timore di essere colpito alle spalle da qualcuno, ma grazie ai Valar riuscì a vedere una piccola luce e si diresse velocemente verso quella, ma nel tragitto cadde. Subito la luce si diffuse con maggior intensità nella prigione.

“Chi sei?”.

“Mithrandir, sei tu?”, domandò rialzandosi e riconoscendo la voce.

Mithrandir, che teneva in mano il bastone con la luce del fuoco, annuì. “Sì, c’è stato un crollo poco fa”.

“Lo vedo”, rispose Gil-galad, “Dov’è Legolas?”, chiese subito.

Mithrandir sospirò e indicando un ammasso di terra, rami e fango disse. “Oltre questo piccolo ostacolo”.

“Non riusciremmo mai a passare da questa parte, vieni. Dobbiamo uscire. Forse si è creata un’apertura esternamente”.

Mithrandir non sembrava convinto. “Se Legolas è intrappolato là, dovremmo raggiungerlo subito”.

“Certo, ma se proviamo a smuovere questo ostacolo, rimarremmo intrappolati anche noi e non saremo di aiuto a nessuno”.

“Va bene, andiamo”, cedette infine l’Istari.

Così i due uscirono e percorrendo la prigione esternamente, dopo circa trecento metri trovarono Legolas. L’elfling però non era da solo, stava abbracciando qualcuno.

Quando Gil-galad si avvicinò, Legolas rimase tranquillo, non diede alcun segno di sentirsi a disagio, semplicemente teneva in braccio qualcuno dondolandosi avanti e indietro. Il signore di Imladris non impiegò molto tempo a capire che quello che l’elfling stava stringendo a sé era un cadavere. Con delicatezza spostò i capelli dal volto del poveretto e gli occhi gli si riempirono di lacrime quando riconobbe Wisterian.

Come sarebbe riuscito il giovane Legolas a superare anche questo? Pensò a Elrond che sicuramente lo aveva pianto per morto a Dol-guldur, pensò al dolore che gli aveva provocato, e non poté fare a meno di mettere a posto i capelli di Legolas, che la pioggia gli aveva attaccato al viso, pensando di star mettendo in ordine lunghi capelli neri.

“Legolas, dobbiamo andare via”.

Legolas lo guardò e senza dire niente si alzò cercando di sollevare anche il corpo della madre, ma chiaramente era troppo pesante.

“Forse potremmo lasciarla qui”, propose speranzoso, ma Legolas in silenzio  continuò nel suo tentativo.

“Arriva qualcuno”, disse Mithrandir sentendo gli zoccoli di un cavallo.

I tre non si potevano nascondere, perciò Mithrandir e Gil-galad si disposero a scudo davanti a Legolas e alla povera Wisterian. Lentamente avanzò un cavallo solitario, uno di quelli fuggiti dalle stalle.

“E’ solo un cavallo”, disse Gil-galad.

“Non un cavallo qualsiasi”, replicò Mithrandir memore della presentazione fatagli da Legolas, “E’ il cavallo di Thranduil. Lo aveva con sé Celeborn. Chissà come mai è qui?”.

“Alcuni cavalli sono fuggiti in seguito al crollo di una parte delle stalle”.

“Sembra che Boscoverde crolli in mancanza del legittimo Re”, notò Mithrandir, “Chi mi ha mandato qui, sapeva il fatto suo. E del resto”, specificò alzando un sopracciglio, “non ne avevo il minimo dubbio”.

Lùth avanzò fino a Legolas e lo annusò, poi dopo aver sentito l’odore di Wisterian nitrì di dolore, si chinò sulle zampe anteriori e con l’aiuto dei due elfi adulti fece salire Legolas e il corpo rigido di Wisterian.

“Cerchiamo un posto sicuro dove attendere la fine di quest’incubo”, disse Gil-galad.

“Pensavo volessi affrontare Celeborn assieme a Thranduil”.

“Quelle erano le intenzioni, ma forse Thranduil, considerato la situazione, sarebbe più contento se stessi affianco a Legolas”.

“Ci sono io con il ragazzo”, sbottò Mithrandir bonariamente e poi con voce greve aggiunse: “Lui non è Elrond”.

Gl-galad scattò di colpo. “Lo vedo bene”.

“Sei ancora adirato con me? Sai bene che era l’unica cosa da fare”, affermò l’Istari.

Gil-galad non aveva bisogno di ulteriori spiegazioni, sapeva a cosa si riferiva l’amico. “No, non sono mai stato adirato con te. Ero sempre e sono ancora adirato con me stesso. Era l’unica cosa da fare perché era l’unica che ci fosse venuta in mente. Forse avremmo dovuto continuare a pensare, e magari ci sarebbe venuta in mente un’idea migliore”.

“Forse hai ragione”.

Gil-galad si tolse il mantello di dosso e lo avvolse attorno a Legolas per ripararlo almeno un pochino. “Ho senz’altro ragione. E con Legolas  ci rimarrò anch’io”.

Mithrandir sorrise, questa era una battaglia che non poteva vincere. I Valar avevano dato una grande benedizione a Gil-galad dandogli Elrond, e a Thranduil dandogli Legolas, ma a lui l’avevano benedetto ancor di più non dandogli nessuno.

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Non potevano andare molto veloci, perché non c’erano cavalli a disposizione per tutti, però il folto gruppo di elfi e nani raggiunse comunque la fortezza in breve tempo. Celebrian era stata silenziosa al fianco di Elrond per tutto il viaggio, finalmente avrebbe visto suo padre e avrebbe potuto chiedergli spiegazioni.

Ma da dove cominciare? Dalle menzogne, dalla manomissione della spada, dal tentato omicidio di Thranduil e Gil-galad, dall’omicidio seppur fortuito dell’elfo a Dol-guldur, dalle torture inflitte a Thranduil… erano talmente tante le cose che aveva da chiedere che non riusciva a realizzare fin dove il maligno era riuscito a insinuarsi in suo padre.

Forse c’era ancora una piccola speranza che Celeborn, di fronte a lei, a sua figlia, tornasse sui suoi passi, si prendesse le sue responsabilità e affrontasse con lei e sua madre la vita.

Celebrian era sicura, se suo padre avesse chiesto a sua madre di seguirlo lontano, lei ci sarebbe andata. E se avesse chiesto a lei di perdonarlo, lei lo avrebbe perdonato.

Diversi erano i pensieri di Elrond, che non era disposto a perdonare più di tanto chi aveva cercato di uccidere suo padre, e ucciso Wisterian. Anche Haldir non era pronto al perdono, si sarebbe aspettato molto di più dal Signore del Lothlòrien, un errore era perdonabile ma un piano così diabolico era tutta un’altra storia.

Bolin rifletteva su Neomat e Rhiaian, era stato cieco oltre misura e la sua stupidità aveva causato tanto dolore, troppo, anche a persone innocenti. Si vergognava di se stesso e non sapeva se avrebbe avuto il coraggio di vivere a Boscoverde,  guardare in faccia Thranduil, che aveva superato tante prove con coraggio, e vivere nel suo regno.

Thranduil pensava soltanto di fare in fretta e di mettere una pietra su tutta questa faccenda per tornare ad abbracciare suo figlio e andare avanti. Camminavano sotto la pioggia incessante, sicuramente nei sentieri battuti da Celeborn, poiché gli alberi cominciavano ad avvizzirsi e le foglie a cadere gialle, quando avrebbero dovuto ancora essere di un verde brillante.

Ecco che dunque apparve la strada di grosse pietre che conduceva al portone della fortezza. All’ingresso non c’era nessuno e il gruppo entrò. Tutti si guardarono attorno, Thranduil era sopraffatto dall’emozione. In diverse occasioni aveva davvero creduto di non rivedere mai più la sua casa. Quando furono tutti dentro, chiuse il portone di persona senza dire una sola parola.

Rhiaian camminava tranquillo, sapeva bene che la fortezza era grande e ci si poteva perdere al suo interno, perciò era meglio scappare subito che aspettare ancora. Arrivati alla fine del lungo corridoio, giusto prima di voltare l’angolo diede un calcio agli stinchi di Glorfindel, che urlò di sorpresa e dolore, e piccolo com’era corse verso il portone.

Glorfindel si lanciò per recuperarlo, gli sarebbero bastati pochi passi, ma Thranduil lo fermò posandogli una mano sulla spalla. “Lascialo stare, non può andare da nessuna parte. Il cancello è chiuso e a meno che non lo apra io non potrà farlo nessuno”.

Difatti come Rhiaian raggiunse il portone tirò verso se la maniglia ma non accadde niente, provò verso l’esterno ma ugualmente non ci fu nessun movimento. Il portone era sigillato, e per fare questo era bastato che Thranduil in persona lo chiudesse. Davvero lui era il nuovo Re.

Il gruppo proseguì e questa volta Glorfindel tenne gli occhi aperti. Dopo poco, incrociarono Nedhian che immediatamente si chinò di fronte al suo re. “Mio Re! Aspettavamo così tanto il suo arrivo, siamo felici che infine siate giunto a casa sano e salvo”.

Thranduil lo ringrazio e chiese se per caso sapeva dove si trovava il signore del Lothlòrien Celeborn.

Nedhian un po’ in imbarazzò confessò: “Si trova nella Sala del Trono, la sta aspettando. Ha chiamato in riunione i consiglieri e vuole un confronto diretto con lei davanti a tutti”.

Il sangue ribollì nelle vene di Thranduil. Celeborn avrebbe avuto ciò che desiderava di più, nella Sala del suo Trono, gli avrebbe dimostrato cosa significava essere Re di Boscoverde.

“Cosa mi devo aspettare dai miei sudditi, Nedhian?”, chiese con voce sicura ma sguardo stanco Thranduil.

Nedhian tenne lo sguardo sollevato e immediatamente, senza nessun dubbio, rispose: “Fedeltà, mio Signore”.

Glorfindel si sentì orgoglioso al posto di Thranduil. Lui era sempre stato un guerriero, alle volte sotto il comando di qualcuno, altre volte al comando di tanti e aveva imparato a riconoscere l’amore, il rispetto e la devozione verso qualcuno o un’ideale, e Nedhian possedeva tutte queste qualità nei confronti del suo Re.

Giunti alla Sala del Trono, Nedhian alzò il braccio per bussare, ma Thranduil glielo tenne. “Non bussare quando entri a casa tua. Apri la porta e avanza sicuro perché questo è un tuo diritto. Non siamo ospiti qui”.

Nedhian abbassò il capo. “Chiedo scusa, mio Re”.

Nedhian aprì la porta  e fece entrare il gruppo inzuppato che sgocciolava sul pavimento. I consiglieri erano seduti al tavolo tondo, Galion si trovava al fianco di Celeborn.

I pensieri di Celeborn correvano frenetici. Vide Thranduil entrare, era zuppo d’acqua ma non indossava i vestiti logori con cui l’aveva lasciato, aveva una camicia verde e dei leggins marroni con degli stivali a mezza gamba. Non potè fare a meno di notare che il passo dell’elfo non era ancora sicuro, sicuramente non era ancora guarito del tutto, anche se era in forma più che presentabile.

Rimase scioccato quando si accorse che Thranduil non era da solo, c’erano altre persone con lui. Al suo fianco poteva sentire Galion bloccare sul suo viso un mezzo sorriso. Cosa stava accadendo? Perché Galion non gli aveva parlato di tutti gli altri? E chi erano poi?

Per primo vide Elrond, il maledetto mezzelfo, il maledetto mezzelfo “orfano”. Sì, almeno una cosa era andata a buon fine, pensò soddisfatto.

Poi vide Haldir, e capì che Galadriel aveva intuito qualcosa, cominciò a respirare più pesantemente, non voleva un confronto con la moglie, né con qualcuno di così vicino a lei. Al fianco di Haldir stava Glorfindel, il grande guerriero. In pratica c’erano i rappresentanti dei tre Regni elfici e un guerriero.

Poi vide anche due nani, e subito ne riconobbe uno:  Rhiaian. In quel momento capì che Galion stava giocando sporco con lui, eppure aveva collaborato per la spada, ucciso Wisterian e cercato di eliminare Legolas. Cosa pensava di fare? Non si poteva essere su due schieramenti contemporaneamente. O si stava da una parte o dall’altra.

E infine  la goccia che fece traboccare il vaso e che lo sconvolse oltremodo: Celebrian. Il sangue gli andò alla testa, era completamente scioccato.

“Figlia mia”, disse prima ancora che gli altri avessero modo di parlare “Cosa ci fai qui? Perché non sei nel Lothlòrien, al sicuro tra le braccia di tua madre?”.

Celebrian non si aspettava questa dimostrazione d’amore. Suo padre era preoccupato per lei. “Padre, ho lasciato il nostro regno per congiungermi a Elrond”.

Celeborn lanciò uno sguardo carico d’odio al genero: “Tu! Maledetto! Hai lasciato che mia figlia abbandonasse la sua casa sicura  e vivesse nel pericolo per soddisfare la tua bramosità!”.

Elrond fece un passo avanti e con calma rispose: “Non ho mai chiesto a Celebrian di agire in tal maniera. E certamente non posso comandare i suoi desideri né le sue azioni. Io venivo a cercare Thranduil assieme a Haldir e il nostro amico Bolin” disse indicando il nano “quando lei ci ha raggiunto e per non tornare indietro da sola, ha deciso di restare con noi”.

“Figlia mia, perché…”…

“Basta!”, ordinò Thranduil richiamando l’attenzione, “arriverà anche il momento dei ricongiungimenti familiari, ma ahimè, non per tutti. Vero, Celeborn?”.

Celeborn non si fece intimidire, sapeva che i consiglieri avevano gli occhi puntati su di lui e voleva giocare le sue carte fino in fondo.

Intanto Bolin si avvicinò più che poté a Elrond e a bassa voce disse: “L’elfo. Quello vicino a Celeborn, è lui “Il Male””.

Elrond, come del resto tutti gli altri elfi nella sala, sentirono quelle parole. Alcuni si chiesero perché Galion fosse stato definito come “Il Male”, ma tutti gli altri già lo sapevano. Era dunque Galion ad avere contattato Neomat a Moria e aver gestito l’affare della spada.

“Suvvia Thranduil, non mi pare il caso che adesso ti disperi per non poterti ricongiungerti ai tuoi cari, quando tu, in prima persona hai agito perché ciò fosse possibile”.

I consiglieri erano attentissimi, questo era il confronto tanto atteso.

“Come ti permetti di muovere queste accuse nei miei confronti?”, urlò il giovane Re.

“Ho visto con quanto desiderio guardavi la spada di tuo padre, Thranduil. E ti ho visto maneggiare attorno  a quella prima della guerra. E guarda caso, tuo padre è morto proprio tenendo in mano quella spada. Quella che mai l’aveva tradito prima, come invece hai fatto tu!”.

“Io non ho mai tradito mio padre”, disse avanzando verso il tavolo tondo dove erano seduti i consiglieri. La gamba cominciò a pulsargli, aveva camminato molto, e anche andare a cavallo non gli aveva giovato poi tanto. Quel continuo rimbalzare aveva pressato molto sulla colonna vertebrale e sulle anche, e adesso che la rabbia e la tensione stavano uscendo fuori cominciava a sentirsi svuotato di tutto.

“Io non ho manomesso la sua spada, sei stato tu…tu che ne hai ordinato una coppia di minor fattura per poi scambiarla con quella vera”.

“Sono bugie!”, urlò Celeborn.

“Bugie! E’ una bugia anche che tu abbia cercato di uccidere Gil-galad, il Signore di Imladris?”.

Celeborn ebbe un tentennamento. Cosa significava “cercato di uccidere”? Era sicuro che Gil-galad fosse morto. I consiglieri bisbigliavano, tutti conoscevano Gil-galad, e l’uccisione di un elfo per mano di un altro elfo era cosa inaudita.

Celebrian cominciò a piangere. “Non piangere amore mio, non è vero niente, figlia mia”.

“Certo che è vero! Ed è anche vero che mi hai tenuto prigioniero, e che stai tenendo prigioniero mio figlio Legolas”.

La Sala del trono divenne muta. Nessuno doveva far male a un elfling, per nessun motivo. I consiglieri guardarono Celeborn con sospetto, dimenticandosi delle accuse rivolte a Thranduil.

Celeborn si sentì in trappola. “Sai usare bene le parole, ma le parole tali sono e tali rimangono. Dov’è la spada che dici io abbia fatto riprodurre, dov’è la spada originale?”.

Già, senza spade non c’erano prove solo un’infinità di sospetti.

Elrond, da sotto il mantello prese la spada che aveva in consegna e la porse a Thranduil.

Questo la sfilò dalla protezione e la posò sul tavolo. “Ecco qua la spada che hai fatto duplicare”, dicendo questo tolse le gemme dall’incavo mostrando le rune incise, “Questa era la garanzia del nano presso cui ti sei servito per la riproduzione”.

A questo punto senza riuscire a guardare in faccia Thranduil, fu Galion a intervenire: “L’originale la potrete trovare nella stanza in cui hai soggiornato, sotto il letto. Proprio dove mi hai detto di nasconderla!”.

Celeborn vide davanti a sé il Lothlòrien, Galadriel che lo aspettava sorridente e la sua piccola Celebrian. Non c’era niente da dire, niente da aggiungere. Alla fine i suoi piani gli si erano ritorti contro.

Thranduil aveva ancora una domanda: “Adesso ti chiedo, Celeborn. Dov’è mia moglie?!”.

“E’ stato Fidelhion…”, disse tentando ancora una volta di coprire le sue malefatte, poi si voltò da Galion e tra sé pensò, no è stato Galion, si stava per correggere quando si accorse che a nessuno gli avrebbe creduto, ormai lui era colpevole, colpevole di tutto.

Allargò le braccia per lasciarle cadere poi lungo i fianchi, a capo chino superò lentamente Thranduil, Elrond, raggiunse Celebrian e a mezza voce le disse: “Perdonami”.

Celebrian aveva già deciso di perdonarlo, era pronta ma ancora una volta pagò la sua ingenuità, infatti il padre le mise un braccio attorno al collo e con la mano libera le puntò alla gola un coltello.

Tutti sussultarono. “Lasciala!”, urlò Elrond.

“Fatemi passare, e non le succederà niente di male”.

“Padre, padre, ti prego, lasciami andare! Padre!”, pianse lei disperata, tenendosi la pancia in un tentativo disperato di proteggere la vita che portava in grembo.

Haldir, Glorfindel e Bolin si spostarono di lato, Rhiaian ne approfittò per scappare. Nedhian era scioccato. Celeborn si avvicinò alla porta e dopo aver dato un bacio alla nuca di Celebrian la buttò a terra correndo via. Celebrian sbattè violentemente la testa allo spigolo della porta, svenendo.

Thranduil fu rapidissimo nel seguire Celeborn, assieme a Galion e a Glorfindel, mentre Haldir e naturalmente Elrond rimanevano nella Sala per soccorrere la povera Celebrian. Bolin si guardava attorno assolutamente sconcertato dalla rapidità con la quale si erano svolti gli eventi. La prima cosa che pensò fu che doveva trovare Rhiaian.

Il vento batteva forte sugli alberi del Lothlòrien facendo cadere foglie dorate sul fiume. Galadriel le osservava tristemente, sembravano anime perse nella strada verso Valinor. Il porto sicuro che avrebbe potuto sanare tutti i dolori e le ferite dell’anima, sarebbe diventato irraggiungibile per coloro il cui cuore si era fatto corrompere.

Lo Specchio la chiamò. Lei prese la brocca e dopo averla riempita d’acqua la verso nello Specchio. Sapeva già cosa voleva conoscere, voleva la verità su Celeborn e voleva notizie della sua Celebrian.

Guardò dentro e vide dolore, tanto dolore e disperazione. Galadriel cadde a terra e coprendosi le mani pianse tutte le lacrime che aveva.

Lentamente le foglie dorate coprirono tutto lo Specchio.

Celeborn fu rapidissimo e arrivato al portone tirò la maniglia verso sé, ma cadde all’indietro. Il portone era chiuso. “Com’è possibile?”.

Galion, che era stato il più veloce a raggiungerlo, gli rispose: “Solo il legittimo Re può aprirlo o sigillarlo”.

“Perché mi hai tradito, Galion? Ti avrei dato un terzo di Boscoverde, te lo avevo promesso”.

“Ci siamo spinti troppo in là. Niente vale tanto quanto una vita, e quante ne abbiamo sacrificato noi?”, domandò l’elfo.

Celeborn era furioso: “Non stavamo prendendo niente che non ci spettasse, guarda quanto è grande Boscoverde! Perché deve stare interamente sotto il potere di uno solo?!”.

Intanto Thranduil arrivò zoppicando affiancato da Glorfindel. “Stai delirando, Celeborn. Anche tu hai un regno!”.

“Io voglio il potere! Come hai fatto a chiudere questo dannato portone?”, gridò rabbiosamente, mentre guardava le mani di Thranduil.

Thranduil capì subito cosa cercava il cugino. “Non ho nessun anello, nessun oggetto del potere. Gli elfi di Boscoverde mi hanno scelto, la foresta mi ha scelto, il mio potere sta nel mio sangue”.

“Bene”, sibilò Celeborn, “Allora te lo toglierò fuori”, e gli si lanciò addosso con lo stesso coltello con cui aveva minacciato la figlia.

Thranduil fece un passo indietro per scansare la minaccia ma era ancora debole e le gambe non lo ressero, ma fortunatamente Glorfindel gli era vicino e lo tenne su.

Nello stesso tempo Galion si mise in mezzo tenendo il polso nel quale Celeborn aveva l’arma. Allora spinto dalla rabbia per il tradimento di Galion e da una forza incredibile che non pensava di avere, Celeborn si liberò della presa del complice e con un colpo netto lo pugnalò al petto.

Una volta aiutato Thranduil a stare seduto per terra, Glorfindel si gettò su Celeborn e lo disarmò.

Thranduil si avvicinò a Galion. Il vecchio amico di suo padre, l’elfo con il quale aveva trascorso gran parte della sua infanzia e che lo aveva aiutato a crescere, stava morendo.

Le lacrime riempirono gli occhi del Re, era stanco, dolorante e provato da giorni e giorni di sofferenza, sapeva che Galion aveva ucciso sua moglie, ma non poteva fare a meno di provare dolore nel vederlo morire.

“Non … non pian..gere, mio Re. No..n meri…to le tu..e la…la…crime”.

Thranduil cercò di aprirgli la camicia per vedere quanto grave fosse la ferita.“Chiamate Elrond! Oh, Galion. Perché? Perché tutto questo?”, pianse Thranduil.

Galion respirava a fatica. “Io.. pensavo… poi … mi è sfuggi…to di ma..no. Tu…sara..i un bu…on Re”.

“Non mi interessa! Non mi è mai interessato!”, continuò a piangere il Re.

Galion cominciò a tossire sempre più forte, il sangue gli colava ai lati della bocca. “No, ba…sta …”, disse spostando la mano di Thranduil dal suo petto. “E’ giu…sto co…sì”.

“Galion, no! Resisti, devi reagire…”.

“No… Cel..orn cono…sce un mo…do per usci..re non vis..visto. St…ai attento”.

“Aspetta, aspetta ancora. Forse Elrond può …Elrond!”, urlò Thranduil.

Galion non credeva di meritarsi il perdono e la compassione di Thranduil, era troppo grande il male che gli aveva inflitto aiutando Celeborn a portargli via il padre e poi uccidendogli la moglie, eppure Thranduil era lì, che gli reggeva la testa e gridava perché un guaritore venisse a salvarlo.

Quanto si vergognava di quel che aveva fatto, ma non si poteva tornare indietro e così, convinto di non meritare la compassione di nessuno e in special modo del suo Re, si coprì il viso con le mani ed emise gli ultimi rantoli.

Le sue mani scivolarono piano sul  viso coprendolo di sangue e rendendolo quasi irriconoscibile. Le lacrime di Thranduil scesero copiose e senza vergogna. Quando dopo pochi minuti alzò lo sguardo vide che Elrond era giunto, al suo fianco c’era Celebrian con una garza in testa e Haldir che la sorreggeva.

“Ecco”, disse Elrond, “che il destino si compie svelandoci ciò che non capiamo. Questo è l’elfo della visione. L’elfo dai capelli neri coperto di sangue”.

“Dovremmo spostarlo, dove possiamo sistemarlo?”, domandò Haldir.

“Penso che le stanze della guarigione siano la soluzione migliore”, affermò Thranduil.

“Li accompagno io”, disse con voce tremante Nedhian che aveva seguito non visto gli altri.

Thranduil lo osservò attentamente, era dispiaciuto per il giovane, credeva di conoscere Galion e invece si era trovato di fronte un mostro. Avrebbe dovuto parlare con questo ragazzo, spiegargli tutto, anche se ciò che sapeva era davvero poco, ma forse sarebbe servito a lenire la sua anima tormentata.

Poi Elrond realizzò che mancava qualcuno all’appello. “Dove si trova Celeborn?”.

“Ho sentito che Glorfindel lo portava con sé per prendere la spada”, disse Thranduil e poi rivolgendo lo sguardo a Nedhian gli chiese se sapeva dove aveva alloggiato l’elfo.

“Nella stanza degli ospiti”, fu la risposta.

“Chiaramente”, constatò Thranduil alzandosi faticosamente.

“Aspetta, verrò con te”, disse Elrond “Non sei nella condizione di andare da solo”.

Thranduil non si oppose, si sentiva davvero stanco, e finché non avrebbe trovato Legolas non si sarebbe sentito meglio. Procedettero più in fretta che potevano, stavano arrivando quando videro un nano, Rhiaian , scappare seguito da un altro nano, Bolin.

I nani erano usciti dalla stanza degli ospiti e perciò i due elfi affrettarono il passo ancora di più. Dentro la stanza trovarono Glorfindel svenuto, nel collo potevano vedere un piccolo foro, che al tatto sembrava essere ghiacciato.

“Cosa può essergli accaduto?”, chiese Thranduil.

“Non lo so”, rispose Elrond “ma è ancora vivo”, disse sentendogli le pulsazioni del cuore.

Thranduil si passò le mani sulla fronte. “Dove può essere andato Celeborn?”.

Elrond sistemò un cuscino sotto la testa di Glorfindel, non aveva idea di dove poteva essere andato Celeborn. “Fammi pensare. Quali erano i suoi progetti?”.

“Conquistare Boscoverde!”, esclamò spazientito Thranduil. “Voleva uccidere me e …”.

La realizzazione di ciò che aveva in mente Celeborn gelò i due elfi, che però assieme dissero: “Legolas!”.

“Vieni con me. Dobbiamo raggiungere le prigioni in fretta”, ordinò Thranduil dirigendosi verso la sua stanza.

“L’uscita è dall’altra parte”, gli fece notare Elrond.

“Elrond”, disse Thranduil fermandosi e mettendo le sue mani sulle spalle dell’amico. “Quello che ti sto per mostrare è un segreto che solo io e Legolas conosciamo, confido che tu sappia mantenere un segreto quando è di grande importanza”.

“Assolutamente”, rispose Elrond.

E così i due elfi attraversarono il passaggio segreto che li portò direttamente all’esterno della fortezza.

 

Salve a tutti,

pensavo che sarei riuscita ad andare avanti di più con la storia, ma niente da fare. Comunque non potete dire che i fatti non stanno arrivando alla loro naturale conclusione. Io domani ho un esame di Interpretazione tedesca, perciò non riesco a scrivere di più. Mi raccomando, accendete una candelina per me, pregate i Valar o chi preferite…, e sperate che superi l’esame altrimenti non avrò tempo di scrivere nessun Sequel… Aiuto!!!!!

Ancora una volta attendo le vostre recensioni. Grazie a tutti.

Baci, Alida

 

 

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Capitolo 18
*** Un mondo di silenzio ***


“Elrond”, disse Thranduil fermandosi e mettendo le sue mani sulle spalle dell’amico. “Quello che ti sto per mostrare è un segreto che solo io e Legolas conosciamo, confido che tu sappia mantenere un segreto quando è di grande importanza”.

“Assolutamente”, rispose Elrond.

E così i due elfi attraversarono il passaggio segreto che li portò direttamente all’esterno della fortezza.

CAP 17

Bolin aveva seguito Rhiaian appena lo aveva visto scappare dalla Sala del Trono e poiché, chiaramente, Rhiaian non conosceva la fortezza il suo era un procedere fortuito in un labirinto. Più volte era ritornato sui suoi passi, mai accorgendosi di essere seguito.

Avanzò fino a che non sentì qualcuno parlare minacciosamente, allora rapidamente entrò nella prima stanza che trovò aperta. Bolin lo vide entrare, ma restò tranquillo, non era intimorito dalla voce, sapeva che apparteneva a Glorfindel.

Si fermò su due piedi e si rese conto di non saper gestire la situazione. Cosa doveva fare? Doveva entrare spalancando la porta, intimando  Rhiaian di arrendersi? E se quello lo avesse colpito con qualche arma? Lui non era un grande combattente. Era più un … insomma … una persona che rifletteva prima di agire, come dire … no… non un vigliacco … un …

“Bolin”, si sentì chiamare il nano.

“Glorfindel! Rhiaian è entrato in quella stanza”.

“E tu hai aspettato rinforzi qua fuori?”, chiese l’elfo biondo spingendo in avanti Celeborn.

“Eh… già”, rispose con un filo di voce, quasi vergognandosi il nano.

“Ottimo. Saresti un grande stratega”, si complimentò Glorfindel dandogli una pacca sulle spalle.

Bolin sorrise entusiasta.

Celeborn invece era furioso. Tutto era andato storto e adesso avrebbe dovuto rinunciare per sempre a Boscoverde. “Bene, è proprio là che dobbiamo entrare. Quella è la mia stanza”.

“Allora facci strada!”, lo spronò Glorfindel per niente contento del tono di voce di Celeborn.

Il signore del Lothlòrien aprì la porta, ma non c’era nessuno, tutto era come l’aveva lasciato, a parte il copriletto che era un po’ rialzato. Entrò nella stanza con dietro di lui, Glorfindel e infine Bolin. Subito dopo Bolin si sentì spingere in avanti e cadde a terra aggrappandosi a Glorfindel che fini in ginocchio.

Rhiaian era sbucato da dietro la porta spingendo l’altro nano per poi correre via! Glorfindel gli gridò immediatamente: “Inseguilo, Bolin”, e mentre questo prendeva alla lettera l’ordine dell’elfo biondo, Glorfindel sentì di una puntura nel collo e in breve tutto divenne nero.

Celeborn era stato rapido nei movimenti, da sopra il comodino aveva preso una freccia imbevuta del potente sonnifero di cui si era servito Nedhian all’arrivo di Mithrandir e Legolas, e l’aveva conficcata nel collo di Glorfindel, facendolo crollare all’istante.

Poi, avendo paura di incontrare qualcuno all’interno della fortezza, era uscito dalla finestra per finire nei cortili interni e poi rientrare dentro, raggiungere il passaggio segreto costruito da Galion, che poi era quello che usava sempre, e uscire all’esterno.

Il futuro lo aspettava, e questo futuro si chiamava “Legolas”.

Fu allora che arrivarono Thranduil e Elrond, e dopo aver sistemato Glorfindel uscirono dalla fortezza tramite il passaggio segreto della camera personale del Re.

E fuori, all’aperto, tutti lottarono contro la pioggia che veniva giù talmente forte che sembrava volesse ripulire il mondo di tutti i mali che lo avevano afflitto.

Arrivato alle prigioni Celeborn vide l’ingresso ostruito ed esultò di gioia! Era crollato tutto e probabilmente Legolas era già morto, dell’anziano mortale non gli interessava minimamente, però non voleva correre il rischio che aveva corso con Thranduil.

Doveva essere assolutamente sicuro che Legolas fosse passato nelle Sale di Mandos. Perciò, euforico e preso da quella forza che ci da la disperazione e talvolta la gioia, spostò il tronco che ostruiva l’ingresso, e riuscì a passare.

Grande fu il suo stupore nel vedere le celle quasi vuote. Solo il corpo senza vita di Pelhiat era presente, e Celeborn capì che ancora una volta era stato fregato. L’elfling era vivo.

Intanto a metà strada Elrond e Thranduil furono costretti a separarsi. Un urlo si era diffuso in tutta la foresta superando la voce della pioggia, ed essi trovarono Bolin spaventato e tremante mentre Rhiaian giaceva a terra morto, infilzato dalla spada che era stata di Oropher e che lui aveva rubato da sotto il letto della camera di Celeborn.

Elrond rimase ad assistere Bolin e Thranduil proseguì alle prigioni. Una serie infinita di fulmini illuminò la foresta a giorno e fortissimi tuoni facevano tremare gli alberi e sbriciolare lentamente i muri delle prigioni.

Quando Thranduil arrivò all’ingresso vide che qualcuno aveva spostato un grosso tronco ed entrando si accorse di quanto fosse scivoloso il terreno e pericolante la struttura delle prigioni. Pregò i Valar di non farlo cadere perché era davvero molto stanco e sebbene fosse arrivato fin lì non era sicuro di riuscire ad andare molto oltre.

Poi mentre proseguiva a passi lenti si trovò di fronte suo cugino e si accorse di essere capace di detestare qualcuno. “Dov’è Legolas? Dove lo tieni? In quale cella?”, gli urlò.

Celeborn sorrise, non aveva la minima idea di dove fosse andato l’elfling, ma di questo Thranduil non ne era a conoscenza e perciò mise in atto la sua ultima cattiveria. “Si trova due celle più avanti, ma è morto! Sei arrivato troppo tardi”.

Thranduil si sentì mancare, non poteva essere, non di nuovo, non era pronto ad affrontare anche questo. Le gambe cominciarono a tremargli. “Stai mentendo!”.

“No, è la verità, caro cugino!”.

La terra tremò violentemente ai loro piedi. Thranduil stava per cadere ma riuscì a mantenere l’equilibrio con un colpo di reni che servì a bilanciare la sua schiena e sostenere le gambe, ma che costò parecchio ai suoi muscoli. Ansimò, era troppo. Seppellire suo padre lo aveva messo in conto, Wisterian era stato un colpo al cuore, ma Legolas … era semplicemente devastante.

“Non sei mai riuscito a salvare nessuno di coloro che hai amato, e tuo figlio non ha fatto eccezione!”.

“Maledetto!”, urlò Thranduil lanciandosi contro Celeborn.

Questo non dovette far altro che spostarsi  per far cadere Thranduil a faccia in giù. Il Re di Boscoverde cercò di sollevarsi con le sue poche forze, ma Celeborn gli tenne la testa premuta contro il fango impedendogli di respirare.

“Quello che non hanno fatto i cuscini giorni fa, lo farà bene il fango”, disse cercando di soffocarlo. Poi i muri cominciarono a crollare. Thranduil non li vide sbriciolarsi, si dimenava nel tentativo di mettersi in ginocchio, ma la presa di Celeborn era troppo forte. Non riusciva proprio a liberarsi e poi Celeborn lo lasciò andare all’improvviso.

Probabilmente ha avuto un ripensamento, pensò Thranduil, in fondo non era un bel modo di agire per un elfo. Ma le sue congetture erano sbagliate e difatti Celeborn lo aveva lasciato andare quando si era reso conto che i rami di un grosso albero stavano crollando su quella parte delle prigioni.

Celeborn fece giusto in tempo a spostarsi che i rami coprirono Thranduil. Ce l’aveva fatta! Infine Celeborn corse lungo il corridoio che portava all’uscita, mentre all’esterno altri rami si abbattevano contro la prigione distruggendone la struttura poco alla volta.

 Celeborn vide la fiocca luce dell’uscita e avanzò correndo, facendo il più in fretta che poteva. Aveva corso a cavallo per raggiungere con Gil-galad la vecchia fortezza di Dol-guldur; era andato di fretta anche verso la fortezza del Re di Boscoverde, e correva ora. Tutto gli tornava alla mente mentre raggiungeva l’uscita.

Ma gli elfi non sono gli unici su Arda ad avere memoria, e quando finalmente giunse all’uscio, tra le saette, gli alberi e la pioggia che creava un muro d’acqua impenetrabile allo sguardo, avanzò Luth che sollevando le zampe anteriori nitrì di rabbia al ricordo delle sofferenze inflitte da Celeborn al suo padrone, di Legolas e Wisterian, e  impedì l’avanzata dell’elfo, sul quale si abbatté un grosso tronco che lo schiacciò uccidendolo sul colpo.

Lùth guardò il signore del Lothlòrien ancora una volta, aveva gli occhi aperti e lo sguardo fisso nel vuoto, la bocca spalancata dalla quale scendeva del sangue. Luth non era un cavallo malvagio, però pensò che Celeborn era morto troppo in fretta. Troppo grande era stata la pietà dei Valar nei suoi confronti dopo tutto il male di cui era stato causa.

Così finiva la vita di un elfo che aveva desiderato tanto senza amare mai niente e nessuno se non il proprio desiderio, schiacciato da un albero, sprofondato nel fango.

Lùth sentì qualcuno chiamare aiuto. Era una voce bella da sentire, era la voce del suo padrone. Il cavallo percorse esteriormente le prigioni fino a che non raggiunse la parete sgretolata sulla quale i rami della pianta cadendo avevano protetto Thranduil. Mai, ma la foresta avrebbe danneggiato il suo re.

Thranduil era vivo, con l’aiuto del suo fedele amico riuscì  a uscire da quella difficile situazione. Il cavallo senza che niente gli fosse chiesto si chinò e permise al suo padrone di salire. Thranduil si lasciò andare sul cavallo e a fatica gli ordinò: “Portami da Legolas, Lùth. Ti prego, fai in fretta”.

Mentre Lùth andava al trotto verso il rifugio improvvisato da Gil-galad, la pioggia smise di cadere e il cielo sopra Boscoverde tornò limpido. Gil-galad aveva condotto il principe di Boscoverde e Mithrandir nel suo nascondoglio, dove aveva trascorso i giorni della sua guarigione. Si trattava di una grotta, non troppo grande ma comoda.

Arrivati, Lùth si fermò e cominciò a brucare un po’ d’erba. Thranduil scese dal cavallo e subito sentì qualcuno che lo sosteneva. Era un anziano, un uomo o forse l’Istari che stava con Legolas, non lo sapeva ma in questo momento l’unica cosa importante era Legolas.

“Dov’è mio figlio?”.

Mithrandir sospirò e chiamò Gil-galad. “Questo è il nuovo Re di Boscoverde?”.

“Esatto, è lui”, gli rispose il signore di Imladris, “Vieni Thranduil”, lo invitò Gil-galad.

Thranduil si accorse di non riuscire a camminare. “Io, credo di aver bisogno di…”.

“Non si preoccupi, non sono così vecchio come potrebbe sembrare”, poi ripensandoci specificò: “Voglio dire, sono molto più vecchio, ma sono in forze”.

Gil-galad gli sorrise di comprensione. Assieme portarono Thranduil dentro la grotta. Legolas era seduto a gambe incrociate e teneva stretta a sé la madre.

Prima che il Thranduil lo vedesse Mithrandir gli disse: “Suo figlio ha bisogno di lei, e ne avrà bisogno per molto tempo”.

Thranduil non riusciva a capire cosa intendesse dire l’anziano. “Certo, e io ci sarò sempre”.

“Tuttavia arriverà qualcuno che avrà bisogno di lui, qualcuno che potrà guarirlo”.

Era una frase che avrebbe avuto bisogno di molte spiegazioni, ma Thranduil ne voleva solo una.

“Guarirlo? Perché? Cos’ha? Ma poi … c’è qui Elrond. Lui saprà aiutarlo!”.

“Thranduil”, disse Gil-galad guardando il Re di Boscoverde dritto negli occhi: “Non è giusto. Non sarebbe dovuto succedere e tu non avresti mai dovuto vederlo… ma non siamo riusciti a fargliela lasciar andare”.

“Cosa? Chi? Dov’è mio figlio?!”, urlò spazientito.

Poi sentì Legolas che lo chiamava. Si guardò attorno e lo vide con il viso rigato di lacrime mentre stringeva il corpo di suo madre al petto.

“Oh, Legolas!”, pianse Thranduil: “Figlio mio”.

Gil-galad e Mithrandir lo aiutarono a sistemarsi accanto al figlio.

“Ada! Ho trovato Nana! Non si sveglia perché è morta, ma non volevo che qualcuno la portasse via e l’ho presa con me. Ho fatto bene? Ho fatto bene, Ada?”.

“Hai fatto benissimo, mia piccola foglia. Hai fatto benissimo”, gli rispose Thranduil abbracciandolo e accarezzandogli la testa dolcemente, mentre le lacrime scendevano sul suo viso sporco e provato. Le parole di Gil-galad erano proprie vere, non era giusto, non sarebbe dovuto succedere.

Mithrandir e Gil-galad si scambiarono uno sguardo stupito e poi chiesero: “Ha fatto bene a far cosa?”.

Thranduil si asciugò le lacrime con la manica della camicia. “A prendere Wisterian. Lo ha appena detto”.

“Noi non abbiamo sentito niente. L’ultima volta che Legolas ha parlato è quando era ancora nelle prigioni”.

Thranduil osservò Legolas in cerca di una risposta. “Legolas, adesso dobbiamo tornare nella fortezza, devi lasciar andare la tua Nana”.

“Sì, voglio tornare a casa”.

Quelle parole riempirono di gioia il cuore di Thranduil, infatti aveva covato in lui il timore che Legolas avesse paura della fortezza dopo aver vissuto tanti momenti tristi là, ma lo colmarono anche di una profonda tristezza, perché le sue orecchie non le udirono. Legolas comunicava con lui attraverso la loro unione,  e la sua voce melodiosa era celata a tutti gli altri.

Arrivarono alla fortezza che ormai era notte fonda. Wisterian fu sistemata nelle stanze della guarigione, dove giacevano il suo assassino e Rhiaian. Per recuperare il corpo di Celeborn si sarebbe aspettato il mattino seguente.

Celebrian intanto si era ripresa dal colpo alla testa, ma avvertiva che qualcosa in sé non andava bene. Infatti dal suo risveglio non aveva ancora sentito muovere i suoi bambini e Elrond la teneva sotto stretta sorveglianza.

Glorfindel invece si era ripreso senza problemi, come avevano fatto precedentemente Mithrandir e Legolas quando erano stati colpiti dalle punte di ghiaccio avvelenate.

Bolin, da canto suo, aveva visto Rhiaian correre e venire infilzata dalla spada di Oropher mentre inciampava nella radice di un albero; era stato scioccante per il nano che ancora sedeva in silenzio avvolto in una coperta.

Thranduil e Legolas fecero un bagno caldo. Ci volle un bel po’ perché terminassero, e al termine Elrond volle visitarli. Legolas aveva nella schiena i segni di alcuni graffi profondi che si era fatto quando era uscito strisciando dalla cella, ma in quanto elfo sarebbe guarito in pochi giorni. Ciò che preoccupava tutti era il suo mutismo, il suo nascondersi al mondo, per guarire da quel problema non servivano medicine, doveva trovare la cura dentro di sé.

Thranduil invece aveva bisogno di riprendersi, i problemi maggiori erano la debolezza delle gambe e la sua debole forza interiore, che lui senza negarlo mai, trasmetteva a suo figlio nella speranza che potesse aiutarlo a guarire.

Fatti i dovuti controlli, tutti, senza nessuna eccezione, andarono a riposare in letti morbidi e puliti e rimandarono al giorno dopo le loro fatiche.

“Svegliati! Bolin, su dai! Ti vuoi svegliare?!”.

“Cosa c’è, Haldir?”, domandò Glorfindel che divideva la stanza con l’elfo del Bosco Dorato e il nano.

“Voglio che si svegli!”.

Glorfindel aveva già dormito tre ore buone e molto probabilmente non si sarebbe addormentato più prima della notte successiva. “Le stelle ci terranno compagnia per ancora due ore buone. Perché non lo lasci dormire?”.

Haldir scattò, isterico. “Perché vorrei dormire anche io! Sta russando tutta la notte, è peggio di un trombone. Ma come fa Moria a non crollare sotto tutto questo rimbombare? Almeno se lo sveglio, poi potrò dormire io!”.

Glorfindel rideva a bassa voce. “Haldir, credo che svegliare un nano sia quasi impossibile”.

“Ahhh!”, si lamentò il giovane nascondendo la testa sotto il cuscino. Il russare però era incessante, allora Haldir si alzò per uscire dalla stanza ma, casualità delle casualità, scivolò sul soffice tappetto accanto al suo letto e fini col sedere per terra, lanciando un urlo e svegliando Bolin.

“Per le orecchie degli elfi!”, strillò Bolin, “Cosa è successo?”.

L’esclamazione aveva fatto scoppiare dalle risate Glorfindel e innervosito ancora di più Haldir.

“Cosa è successo? Sono caduto …”.

“Incredibile. Si dice che gli elfi siano creature silenziose…”.

“Creature?!”, ripeté Haldr mentre Glorfindel cercava di respirare tra una risata e un’altra.

“Già, creature. Si dice anche che abbiate un equilibrio da far invidia. Ma amico mio, tu devi essere incrociato con qualcosa. Forse con un orco!”.

Haldir nel frattempo si era alzato in piedi e non credeva alle sue orecchie. “Con un orco!?”.

“Già, un orco”, ripeté Bolin, e poi rivolgendosi a Glorfindel con gli occhi mezzo chiusi domandò: “Ma come mai non ci sente bene? Bisogna ripetergli tutto!”.

Glorfindel prese un pochino d’ossigeno e cercando di star serio spiegò: “Credo che sia perché ha dormito poco”.

“Ah!”, esclamò il nano, “E’ notte, Haldir. E la notte è fatta per dormire. Dovresti riposare”.

Poi vedendo che l’elfo era sempre più nervoso decise di concludere la discussione: “Bene, adesso riprendo a dormire. Tu, se ce la fai, cerca di non far troppo rumore, perché ho il sonno leggero”.

E così, quasi automaticamente Bolin si riaddormentò.

Haldir era rimasto a bocca aperta, guardò Glorfindel che teneva un sorriso contenuto sulle labbra e si accinse a dire qualcosa, ma l’unica cose che poté ripetere fu: “Incrociato con un orco”.

E così arrivò la mattina e la fortezza prese vita anche se gli elfi, ciascuno nelle rispettive camere, si erano svegliati già da un pezzo. Legolas aveva sul viso quel sorriso senza prezzo che tutti i giovanissimi hanno, nonostante le avversità della vita.

Thranduil se lo guardava con gioia e ammirazione e si chiedeva se avrebbe saputo ricambiarlo di un sorriso altrettanto genuino, che in lui sentiva essere adombrato dal ricordo della triste morte di Wisterian.

“Legolas, come ti senti oggi?”, domandò speranzoso Thranduil.

Legolas gli sorrise e senza parlare gli rispose: “Sto bene, Ada. Voglio restare vicino a te. Posso?”.

Thranduil si sedette nel letto mentre il figlio lo aiutava a sistemare il cuscino per la schiena. “Certo che puoi figlio mio. Però mi piacerebbe così tanto sentire la tua voce…”.

L’elfling non si ritrasse, anzi si sistemò sul petto del padre. “La mia voce non può dirti niente che il mio cuore non ti dimostri”, gli comunicò in silenzio.

Thranduil lo strinse a sé, sentiva il cuore rimbombargli nel petto e trattenne le lacrime che sembrava volessero inondargli il viso. “Lo so, amore mio. Il mio era il desiderio di uno sciocco”.

Legolas sollevò il viso e guardò dritto negli occhi il padre. “No, Ada. Non sei uno sciocco, è solo … che … non lo so, Ada. Mi dispiace”.

Thranduil lo baciò sulla fronte. “Non ti devi dispiacere, vedrai che prima o poi riuscirai di nuovo a parlare. Fino ad allora per me non cambia niente, sei sempre la mia piccola foglia”.

Celebrian ed Elrond aveva avuto modo finalmente di parlare durante tutta la nottata, nella quale non avevano chiuso occhio, nella speranza che i piccoli elfling dessero qualche segno di vita, e non furono delusi.

Erano circa le sette del mattino quando Celebrian accusò un forte dolore nel basso ventre. Elrond la visitò e la disperazione crebbe nei suoi occhi. Infatti sembrava proprio che i suoi elfling avessero voglia di nascere a Boscoverde.

“Adaaaa!”, urlò a gran voce Elrond.

Gil-galad a cui era stata assegnata, assieme con Mithrandir, la stanza di fronte a quella del figlio, uscì ancora in vestaglia e spalancò la porta della camera di Elrond.

“Cosa c’è? Siete in pericolo?”, domandò preoccupato.

“Stanno per nascere. Cosa devo fare? Cosa devo fare?”.

“Figlio mio, io sono un guerriero. Sei tu il guaritore. Li devi far uscire!”.

Intanto l’urlo aveva richiamato anche tutti gli altri ospiti e anche Thranduil con Legolas. “I miei nipoti stanno per nascere”, informò tutti Gil-galad.

Thranduil si guardò attorno nella speranza che fosse accorso qualcuno di Boscoverde e naturalmente trovò Nedhian. “Presto chiama la Maestra di Vita!”, gli ordinò.

Nedhian corse subito per tornare poi con Cuilia, che era l’esperta guaritrice per le partorienti. Senza pensarci su, la donna elfo, fece uscire tutti dalla stanza, Elrond compreso.

“Voglio assistere! Voglio vedere i miei figli nascere!”, si oppose.

“Sì, sì, sì… entrerà a tempo debito. Adesso non serve qua dentro”, poi osservando tutti i presenti scelse quello che sembrava essere il più modesto e dunque il più incline a prendere ordini e indicando Bolin disse:“Tu, vieni dentro ad aiutare!”.

Bolin si guardò prima a destra poi a sinistra per essere sicuro che la Maestra di Vita stesse parlando con lui. “Dice a me?”, domandò stupito.

E cosa poté rispondere Cuilia? “Già! Proprio te!”.

Tutti risero facendo infastidire l’ignara guaritrice. “Non c’è molto da ridere”, poi rivolgendosi a Elrond lo esortò: “Lei si tenga pronto!”, e chiuse la porta della camera.

Poi, quasi fosse un’altra persona il suo tono di voce cambiò per farsi dolce ma sicura.

“Allora, quando doveva nascere questa nuova vita?”.

Celebrian ebbe un’altra fitta di dolore e si tenne il basso ventre. “Sono due elfling, gli aspettavo fra due mesi circa”.

Il volto di Cuilia si fece scuro. “Sarò sincera, non è una gran bella notizia. Nascere in anticipo è sempre difficile, quando poi sono due, tutto si complica”.

Celebrian iniziò a singhiozzare. “Eh, no, Celebrian”, la riprese dolcemente Bolin, “Non devi fare così. Dobbiamo essere ottimisti”.

“Ottimo consiglio”, aggiunse Cuilia sorridente, “Adesso lei mi porti dell’acqua calda”.

Bolin si guardò attorno, non c’era fuoco né acqua.

Cuilia se ne accorse. “Vada a prenderla nelle cucine, là il fuoco è sempre acceso”.

“Già!”, gridò Bolin.

“Già!”, gli fece eco Cuila.

Il nano uscì di corsa e chiuse la porta sbattendola e facendo sobbalzare la Maestra di Vita.

“Cosa c’è?”, domandò ansioso Elrond mentre guardava Bolin correre.

“Acqua calda!”, fu la risposta urlata nel corridoio.

Elrond si girò da Gil-galad. “Acqua calda, Elrond. Vai anche tu!”.

“Giusto!”, rispose lui e prese a correre dietro Bolin.

Intanto nella stanza Celebrian era stata sistemata in una posizione comoda per i bambini, cioè in piedi a gambe divaricate, al momento opportuno Cuilia avrebbe fatto entrare Elrond che tenendola da dietro l’avrebbe aiutata a inginocchiarsi di modo che Celebrian dando le spinte avrebbe fatto nascere con maggior facilità i piccoli.

“Ha mai fatto nascere dei gemelli?”, domandò la giovane.

“A dir la verità, no. I gemelli sono molto rari tra gli elfi”.

“Sì, Elrond è un mezzelfo però, credo che abbiano preso dalla sua parte”.

“Bhè, non credo che cambi molto. Elfi, mezzelfi, nani… nasciamo tutti allo stesso modo. Basta essere amati”.

Celebrian sorrise felice. Bolin era rientrato assieme a Elrond con dell’acqua calda. Il mezzelfo era pronto a uscire dalla stanza ma Cuilia lo trattenne, ormai erano pronti.

Bolin portò asciugami, sistemò due copertine per avvolgere i piccoli e diede una mano. Ci vollero circa due ore, ma infine i due piccoli nacquero.

Il loro pianto non eratanto forte, e loro erano davvero piccoli. Elrond volle sentirne il respiro, era un tantino debole e Cuilia lo informò che i polmoni non erano ancora del tutto formati, perciò non avrebbero potuto spostarsi da Boscoverde per almeno un paio di mesi, inoltre i bambini dovevano stare al caldo come se fossero ancora dentro la madre.

Celebrian li guardava e gli sembrava di avere davanti gli elfi più belli che avesse mai visto. Bolin era felicissimo, e affascinato dalle piccole orecchiette a punta che accarezzava di continuo.

Poi furono distratti da una voce ben nota: “Volete far uscire i miei nipoti!”.

“Credo che tuo padre desideri vederli”, disse lei con le lacrime agli occhi pensando a Celeborn morto.

Lui la strinse a sé, guardò i suoi elfling, entrambi avevano i capelli neri. “Avresti preferito che …”.

“No”, lo interruppe lei impedendogli di terminare la frase: “Li desideravo proprio così!”.

Quando la porta si aprì c’erano tanti occhi puntati sui due piccoli elfi, tutti erano meravigliati della loro bellezza e ciascuno di essi istintivamente allungò le mani per prenderli in braccio.

Bolin, facendosi orgoglioso, fece un passo avanti e tra i sorrisi generali disse: “Vi presento Elladan e Elrohir, figli di Elrond e Celebrian, Signori di Imladris e del Bosco Dorato”.

Haldir si chiese cosa avrebbe detto Dama Galadriel dell’appellativo dato ai suoi nipoti, ma solo per un attimo perché poi come tutti continuò a guardare estasiato i due piccoli.

Legolas si avvicinò ai bambini  e li accarezzò senza però prenderli in braccio, poi corse da suo padre e lo abbracciò e senza rendersi conto di parlare disse a bassa voce: “Hai visto che belli, Ada. Elladan e Elrohir”.

Mithrandir guardò Thranduil che stava abbracciando suo figlio e poi Elrond che teneva i suoi. Gil-galad intuì subito che chi poteva guarire Legolas, chi avrebbe avuto bisogno di Legolas per guarire aveva appena messo piede su Arda.

 

Eccomi qua. Questo era il capitolo conclusivo, spero vi sia piaciuto. Vi ringrazio molto per aver letto la mia storia e per aver recensito… un grazie a tutti, ma uno ancora più grande a Tina_Legolas che è sempre stata presente.

Spero che il finale non vi abbia deluso, naturalmente qualcosa è stato lasciato aperto.

·         Che fine farà il corpo di Oropher?

·         Che fine hanno fatto i guerrieri di Boscoverde che erano rimasti in attesa di Thranduil?

·         Come reagirà Galadriel alla morte del marito? Alla nascita dei nipoti?

·         Dove andranno Elrond e Celebrian?

·         Che fine ha fatto il corpo di Celeborn?

·         Bolin rimarrà a Boscoverde?

·         Neomat come reagirà alla mancata consegna delle gemme della spada?

·         Legolas parlerà nuovamente con tutti?

·         Elladan e Elrohir riusciranno a riprendersi?

Tutto questo sarà svelato nel Sequel… che però non arriverà presto, già lo dico.

Per scrivere lo schema generale (non del tutto rispettato) di questa storia ho impiegato circa due mesi… perciò credo che prima di Natale ci sarà al massimo un capitolo.

In ogni caso spero di avervi divertito, vi abbraccio tutti e magari potrei scrivere qualcosa di più breve, chissà!

A presto,

Alida

 

 

 

 

 

 

 

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