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Guardava il paesaggio fuori dal finestrino scorrere sempre più
velocemente, senza vedere realmente ciò che aveva davanti.
Era assurdo quello che gli era successo, assurdo il fatto che
avesse dovuto accettare quell'imposizione a 19 anni.
Suo padre l'aveva avuta vinta alla fine, aveva giocato su dei
sentimenti che credeva sopiti sotto la facciata da “menefreghista”: compassione
e, non lo avrebbe mai ammesso nemmeno sotto tortura davanti ad altri, amore.
Perché era inutile e sciocco credere di non provare affetto per sua madre.
Affetto, mischiato ad odio per quella madre che se n'era andata quando era
ancora piccolo. Quella madre che non vedeva più da sei anni, che si faceva
sentire sempre più raramente e solo in occasioni particolari.
-Daniel, ti prego.- La voce di suo padre uscì
smorzata; gli costava molto tutto quello, gli costava molto, tutto sommato,
separarsi dal suo unico figlio per qualche mese.
-Fallo per me, per lei.- Proseguì distogliendo un
attimo lo sguardo dalla strada per puntarlo sul ragazzo.
Daniel scosse la testa, sorridendo amaramente; i capelli castani
ondeggiarono lievemente a quel movimento.
Non capiva. Nessuno capiva come si sentiva. Deluso, amareggiato,
incazzato. Incazzato con lei per il suo non esserci mai stata,
incazzato con se stesso per averla scostata e allontanata sempre di più dalla
sua vita e incazzato con quella...cosa che ora rischiava di
portargli via un pezzo della sua vita, un pezzo che lui aveva cercato di
rinnegare con tutte le sue forze ma che c'era. C'era e si faceva dannatamente
sentire.
Non si dissero più niente per tutto il resto del viaggio, fino
all'arrivo. Un arrivo che Daniel volle considerare solo come un punto di
partenza; non vedeva già l'ora di andarsene di lì, di tornarsene nella topaia
schifosa che era l'appartamento di suo padre, di tornarsene alla sua vita di
sempre.
Suo padre lo abbandonò su quel vialetto senza
dire niente, accennando appena un saluto con la mano. Non c'era molto da dire,
non si erano mai detti molto. La conversazione più lunga l'avevano avuta appena
una settimana prima, quando lui l'aveva convinto ad andare a casa della madre
per alcuni mesi. Per quanto tempo si sarebbe dilungata la sua permanenza non si
sapeva, dipendeva tutto dalle condizioni di sua madre.
Imprecò un paio di volte fra i denti prima di trovare il coraggio
di suonare al campanello.
In quei pochi secondi di attesa, si accorse di essere ansioso come
non lo era da tempo. Il suo cervello valutò l'ipotesi di scappare; se sua madre
fosse stata diversa da come la ricordava, più spenta a causa
della malattia, non avrebbe saputo cosa fare, come reagire. A dire il vero non
sapeva comunque come reagire, cosa dire...dopo tutto quel tempo...
Ad aprire la porta fu proprio lei: era come la
ricordava, pensò Daniel con un certo sollievo. Solo un po' dimagrita, ma sempre
con quel sorriso...materno dipinto in faccia.
-Daniel...- Mormorò con occhi lucidi, prima di correre ad
abbracciarlo con forza. Una forza che un corpo così magro non sembrava essere
in grado di generare.
Lui non si mosse, rimase impassibile davanti a quello che gli
sembrava solo un chiaro gesto d'apparenza, di facciata. Non era mai stata una
vera madre, non aveva mai azzardato nemmeno una carezza per quanto ricordava.
Solo botte. E parole cattive, più taglienti di una lama.
Maledetto il giorno in cui sei nato, ti odio!
Chiuse gli occhi e fece un respiro profondo; ancora si chiedeva
che cosa diavolo ci facesse lì.
Dopo aver adempito al suo “compito” di madre, si spostò di lato
per farlo entrare, tutta entusiasta di mostrargli la casa.
Nessuno osò sfiorare l'argomento “tumore”, né lei, né tantomeno
Daniel.
-Le valigie lasciale pure qui, voglio prima mostrarti una cosa.-
Il ragazzo la guardò incerto, chiedendosi che cosa potesse rendere
la madre così radiosa. La sua presenza forse? Ne dubitava. Ricordava di averla
vista sempre e comunque indifferente. La seguì con lo sguardo mentre si
avvicinava al camino e prendeva un portafoto.
-Ecco, questo è Richard. È un uomo meraviglioso Dan, sono sicura
che andrete d'amore e d'accordo.-
Perché glielo stava dicendo con tutto quel trasporto? Cosa gliene
importava a lui?
Daniel prese in mano la foto, giusto per non lasciarla cadere in
terra, non perché realmente interessato a vedere l'uomo che faceva brillare gli
occhi di sua madre.
Tanto poi tradirai pure lui, come hai fatto con papà, pensò con cattiveria.
-E questa...- Sua madre esitò, sorridendogli maliziosa nel
porgergli un'altra foto, -È Judith, sua figlia.- Sembrava ancora più
elettrizzata se possibile.
Dan scrollò le spalle e, dopo aver depositato l'altra foto, prese
ad osservare quella fra le mani della madre.
Non vi prestò nemmeno troppa cura nell'esaminare la ragazzina
dall'aria perfetta raffigurata, solo il vestito bianco e confettoso che
indossava lo aveva disgustato ancor prima di arrivare al viso.
Si limitò ad annuire, mordendosi il labbro per risparmiarsi
qualche battuta stronza, degna di lui.
Un fidanzato perfetto. Una figlia femmina perfetta.
Sua madre aveva tutto quello che aveva sempre desiderato, constatò stringendo
le mani a pugno. Di nuovo si chiese che diavolo ci fosse andato a fare lui lì.
Il ragazzo ribelle e strano che a soli diciannove anni aveva deciso di andare a
lavorare senza laurearsi in qualche college prestigioso, di sicuro stonava in
quella casa.
-Vieni, ti faccio vedere la tua stanza.- Quel silenzio doveva
essere diventato parecchio imbarazzante per la donna, che non sapendo bene che
cosa stesse passando per la testa del figlio, cambiò argomento.
Daniel la seguì, neanche troppo interessato a vedere la stanza dove
si sarebbe rinchiuso ed isolato in quei mesi. Perché una cosa era certa: non
avrebbe mai assecondato quella stronzata, non avrebbe mai giocato alla
famigliola felice con quei tizi, non ne aveva nessuna voglia.
Sua madre si arrestò titubante, davanti ad una porta dove la
scritta “Non disturbare” spiccava sfacciata. La aprì con un gesto veloce ma
debole, tanto che la porta non si spalancò del tutto.
-Questa sarebbe la camera di Jude.- La donna aggrottò la fronte,
chinando il capo di lato, -Purtroppo non abbiamo una camera per gli ospiti. Lei
dormirà in camera con noi durante la tua permanenza qui.- Spiegò tutto d'un
fiato, stupendo sempre di più il ragazzo che non riusciva a credere a quello
che sentiva. Gli avrebbero lasciato la camera della figlioletta perfetta? A
lui? L'avrebbero sfrattata dalla sua stanza...per lui? Immaginava di dover
dormire sul divano o in uno stanzino più simile ad una specie di soffitta, di
certo non in una camera munita di tutti i comfort possibili. Televisione, Pc,
stereo. Certo, era tutto decisamente troppo femminile per i
suoi gusti, ma avrebbe anche potuto sopportare il rosa in cambio di una
televisione al plasma e di un pc d'ultima generazione.
-E alla tipa sta bene?- Non riuscii a fermare il sopracciglio, che
si alzò e confermò lo scetticismo presente nella voce. Troppo strano che la Barbie avesse acconsentito
a lasciargli la sua stanza così.
-A Jude?- Sua madre calcò non poco il nome della ragazza, -Certo
che sì. Te l'ho detto, è una ragazza d'oro e...-
-Sé sé.- Fece scocciato, interrompendola con un gesto brusco della
mano.
-Le tue cose te le porterà su Richard, se vuoi riposare adesso...-
Quella frase lo fece scattare come un felino contro la sua preda,
-Assolutamente no.- Sibilò gelido, uscendo dalla stanza con l'intento di
prendere da solo le sue valigie. Non voleva nessun favore da parte di
quell'uomo.
Le afferrò con stizza, risalendo rabbioso le scale ed ignorando i
richiami flebili di sua madre.
-Dan...-
La ignorò di nuovo, richiudendosi con un gesto secco la porta della
stanza alle sue spalle. Appoggiò le sue cose vicino al letto e vi si sdraiò
sopra esausto. Storse il naso non appena si accorse di quell'odore
così...nauseante che aleggiava nella stanza. Cazzo, i suoi vestiti avrebbero
assorbito quella puzza di...fragola e...qualcosa di dolce non ancora definito.
-Ceniamo alle sette,- Riprese sua madre da dietro la porta, dopo
un sospiro rassegnato, -Cerca di essere puntuale, per favore.-
Per favore. Gli chiedeva pure per favore! Con quel tono da povera madre
maltrattata e ferita! Avrebbe voluto mandarla più che volentieri in un posto,
ma si morse la lingua e rimase zitto, voltandosi dall'altra parte senza dire
nulla.
Non si accorse che, pian piano, stanco e provato dal viaggio, finì
per addormentarsi.
Una macchina bianca si fermò appena due ore dopo davanti allo
stesso vialetto. Al suo interno erano ben visibili due sagome: una più
imponente, robusta e marcata; l'altra più esile, fine e delicata.
-Per Delia è molto importante.- Ribadì con voce autoritaria
l'uomo, spegnendo il motore e restando in silenzo, in attesa di sentire una
risposta che non tardò ad arrivare.
-Papà...- La voce, nonostante il tono basso, era decisa, pulita e
seria. -Lo so che è importante per te la felicità di Delia e lo è anche per me,
credimi.- Posò la sua piccola mano su quella del padre, ancora appoggiata al
volante, -Specie in questi mesi.- Quella stessa voce, perse un po' della sua
sicurezza e si incrinò. -Ma...- Sospirò, cercando di non far trapelare il suo
disappunto in modo troppo brusco, -Non sono d'accordo con questa vostra
decisione. Io ho bisogno della mia stanza per tutto. Ci sono tutte le mie cose
lì! E dove potrò studiare poi? Lo sai che ho bisogno di un posto tranquillo
dove concentrarmi!- La ragazza riprese fiato e si spostò i lunghi e ricci
capelli neri irritata: si era ripromessa di non aggredire troppo il padre, non
dopo tutto quello che stava passando, ma non era proprio riuscita a
trattenersi.
-Questo è l'anno del diploma...- Piagnucolò poi, in tono quasi
implorante.
-Lo so cucciola, lo so. Ma Delia ci tiene. Lo sai, è un suo
desiderio. Vuole trascorrere del tempo con suo figlio e noi non possiamo essere
così crudeli da impedirglielo.- L'uomo scese dalla macchina, seguito dalla
figlia, e si avviò a grande falcate verso la sua abitazione.
-Sì, ma non c'era alcun bisogno di dargli la mia stanza!- Sbottò
ancora una volta lei, odiando il fatto che uno stupido, puzzolente e
cavernicolo maschio avrebbe intaccato la sua preziosa e piccola dimora
personale.
-Non puoi mica lasciarlo dormire sul divano. È questo il tuo
concetto di ospitalità? È così che vuoi trattare il figlio della mia donna?- La
guardò con rimprovero, prima di infilare la chiave nella serratura della porta.
-No, ma...- Sbuffò, incrociando le braccia al petto contrita. Le
avrebbe dato fastidio la presenza di una ragazza estranea in camera sua,
figuriamoci di un ragazzo! Chissà quali porcate avrebbe potuto fare in camera
sua, sul suo letto!
-È solo per poco.- La voce del padre si addolcì, insieme ai lineamenti del suo
viso.
Avrebbe voluto ribattere con un acido “Lo spero”, ma se lo avesse
detto, avrebbe involontariamente augurato una possibile e veloce morte alla
povera Delia, a cui lei comunque teneva molto. E quello, ne era certa, avrebbe
ucciso di rimando anche suo padre. Sarebbe uscito distrutto da tutta quella
faccenda.
Doveva rassegnarsi al fatto che quell'essere malefico mandato
dall'Inferno come punizione per qualche stronzata che doveva aver fatto,
avrebbe vissuto con loro fino...alla morte o alla guarigione di Delia.
Note dell'autrice
Non so che cosa mi stesse passando per la
testa mentre scrivevo questa cosa. Ho talmente tante altre
cose da scrivere, non ho proprio tempo per questa...eppure non sono riuscita ad
impedirmi di farlo, in quel momento l'ispirazione mi è venuta e non ho saputo
chiuderle la porta in faccia...
Ci tengo a precisare che non
trascurerò nessuna storia per questa. Probabilmente
questa la continuerò a scuola sul quaderno o nei momenti in cui il mio pc non è
a portata di mano.
Questa storia potrà sembrare scontata,
banale, monotona e simile alle altre che ho scritto, lo so. Però...era da un
po' di tempo che volevo provare a scrivere qualcosa del genere -non solo in
terza persona-; mi è arrivata più di una critica riguardo i sentimenti della
protagonista di Kidnapped by Love (altra mia storia per chi non la conoscesse),
mi han detto che i suoi sentimenti ed il suo modo di agire non sembrano reali e
coerenti. Ebbene, con questa storia ci riprovo a scrivere qualcosa di reale.
Non sarà semplice descrivere i sentimenti di Daniel, non sarà semplice
descrivere un qualcosa che non ho mai vissuto grazie al cielo e che si distacca
completamente dalla mia vita. Non sarà come descrivere la sofferenza in amore
di Alice (Tra l'odio e l'amore), non sarà come descrivere la paura di Allison
dopo essere stata rapita (Kidnapped)...si tratterà di descrivere la rabbia ed
il dolore di un figlio. La storia non ruota attorno alla madre però, questa è
una storia d'amore.
Non vi spaventate quindi! Ci saranno
litigi, scene comiche/demenziali e -più avanti- romantiche fra Dan e Jude,
dopotutto, questa è una storia romantica. Anche se sarà dura
far combaciare questi due! xD
Non so ogni quanto riuscirò ad aggiornare,
non molto spesso purtroppo...spero solo che vi possa piacere ed interessare :)
Grazie a chiunque abbia letto e a chiunque commenterà =)
Un bacione grande! Bec
PS: Ci tengo tantissimo a ringraziare
Sharon (vampistrella) per aver trovato un titolo perfetto a questa storia!
Grazie mille carissima! :)
Salutò frettolosamente Delia, troppo
intenta a guardare le sue telenovelas per fermarla e parlarle, e corse al piano
di sopra.
Fece per aprire la porta della sua stanza
e gettare la borsa sul letto come d'abitudine, quando si ricordò che per un
indeterminato periodo di tempo non avrebbe più potuto farlo. Non senza bussare.
Sbuffando stizzita, si diresse a passo di
gorilla verso la camera di Delia e suo padre, dove constatò con rabbia che i
suoi vestiti invernali fossero già stati spostati nell'armadio di Delia.
Sfrattata.
Quella parola si insinuava sempre di più
dentro di lei, scorreva nelle sue vene proprio come il veleno del morso di un
serpente.
Un non tanto lieve rumore la distrasse dai
suoi pensieri e la costrinse a ritornare in corridoio. Dalla sua camera
proveniva della...musica? Il ritornello di una canzone rock, punk, o quello che
era...Probabilmente prima non ci aveva fatto caso perché i toni della canzone
erano più bassi.
Si gonfiò come un pescepalla, pronta ad
entrare nella sua stanza e ad insultare il perfetto idiota sconosciuto che
aveva osato toccare il suo stereo.
Proprio quando aveva deciso di esplodere
tutto d'un botto e di fargli una bella ramanzina, si sgonfiò lentamente come un
palloncino bucato ricordando le parole del padre. Doveva sopportare.
Ospitalità.
Giusto. Annuì da sola, prima di girare i
tacchi per andarsene.
Ad un passo dalle scale, però, si fermò e
fece nuovamente dietrofront. Ospitalità o no, quello non poteva permettersi di
toccare il suo stereo! Avrebbe potuto rovinarglielo! E poi nessuno gli aveva
insegnato a chiedere quantomeno il permesso?
Sporse la mano per afferrare la maniglia,
ma appena la toccò la ritrasse indecisa. In che modo avrebbe potuto dirglielo?
Gentilmente? Del resto non aveva idea di che razza di persona fosse il figlio
di Delia, poteva sempre essere un tossico-dipendente violento! E poi...avrebbe
dovuto presentarsi prima? Dicendo cosa?
Incrociò le braccia al petto e si prese
qualche secondo per pensarci su.
-Ok.- Disse fra sé e sé, finalmente decisa
a farsi rispettare in un modo o nell'altro. Aprì la porta lentamente e diede
una lieve sbirciatina al suo interno.
-Cerchi uno psichiatra?-
Cacciò fuori un ridicolo urletto stridulo
dallo spavento ed indietreggiò per constatare da dove fosse arrivata quella
voce.
Stava già per dare l'allarme e gridare “al
maniaco”, quando si ricordò nuovamente di quella presenza estranea e sgradita
in casa. Presenza che si era materializzata a pochi passi da lei, con solo un
paio di jeans slacciati addosso.
Sgranò gli occhi sorpresa e disorientata;
Daniel King era decisamente...diverso da come lo aveva immaginato.
Aveva visto una sua foto di qualche anno
prima e lo aveva trovato solo un bamboccio con ancora la bocca sporca di latte,
ma...davanti non aveva di certo lo sfigatello che pensava di ospitare,
aveva...un uomo a tutti gli effetti!
Era appoggiato al muro del corridoio e la
fissava curioso; dedusse dall'asciugamano che aveva in mano e dai capelli
bagnati che fosse appena uscito dal bagno dopo essersi fatto una doccia
probabilmente, ma...da quanto tempo era lì?
Si irrigidì non appena comprese che tutta
la sua scenetta patetica davanti alla porta aveva avuto un pubblico.
Ricapitolando, era andata avanti e indietro come una scema, aveva parlato ed
annuito da sola e...altro?
Divertente comunque il tipo. Come il
pizzico di un granchio sul fondoschiena. Lo aveva pure provato a cinque anni ed
era tutt'altro che divertente, giusto per precisare ulteriormente.
Inghiottì la reale risposta che avrebbe
voluto propinargli, per nulla ospitale e poco, poco fine, e si
presentò, cercando di non ringhiare come il peggiore dei cani.
-Tu devi essere Daniel.- Sperò con tutta
se stessa di averlo almeno spaventato un pochino con quel sorriso omicida, -Io
sono Jude.-
Si sforzò di non mostrarsi per nulla a
disagio, anche se, dovette ammetterlo, fu comunque molto difficile concentrarsi
sul viso del suo interlocutore e non sulla parte sprovvista di maglietta. La
cosa la irritò ancora di più perché si rese ben presto conto del fatto che il
corpo del ragazzo fosse fastidiosamente magnetico. Ma non abbassò lo stesso lo
sguardo, no, non si soffermò sugli addominali di Daniel, piuttosto che dare
quella soddisfazione al nemico, avrebbe preferito bere il vomito di un gatto.
Presa com'era dai suoi pensieri, non si
accorse del fatto che lui si fosse avvicinato. Arretrò di poco…per sicurezza,
non per paura.
-Ti immaginavo più piccola.- Commentò lui,
limitandosi ad alzare un sopracciglio. Difficile dire se fosse divertito o
irritato. -E con un tutù.- Svelato il mistero; era chiaramente divertito.
Capì immediatamente a che cosa si riferisse
l'idiota che aveva davanti: la foto in salotto, quella che raffigurava il suo
saggio di danza classica qualche anno prima. Non tollerava il fatto che Delia
l'avesse mostrata a chiunque era entrato in casa, postino compreso.
-Quella foto è di cinque anni fa.- Essere
gentile era molto più difficile di quanto pensasse.
In genere lei non si sforzava mai di esserlo, se una persona non le andava a
genio lo diceva senza farsi troppi problemi. E quel Daniel non le andava a
genio proprio per niente.
Lui si limitò ad alzare le spalle e a
sorpassarla come se non avesse parlato, gesto che le mandò ulteriormente il
sangue al cervello. Odiava essere ignorata, raramente qualcuno usava quel
genere di trattamento con lei e quando succedeva...Jude diventava decisamente fastidiosa.
Perché lei era contorta: se qualcuno le riservava troppe attenzioni, lo
cacciava via infastidita, se qualcuno la ignorava, invece, faceva di tutto per
farsi notare.
-Senti un po'!-
Oh
cazzo, la voce di questa ragazzina è a dir poco insopportabile.
Così stridula, pungente, sarcastica...non
aveva avvertito un briciolo di gentilezza nemmeno quando si era presentata,
doveva starle proprio antipatico.
Non che la cosa gli desse fastidio, meno
ci parlava con quella meglio era...già gli stava venendo il mal di testa dopo
appena pochi minuti di conversazione.
Entrò nella sua camera e si girò; non poté
fare a meno di ghignare non appena notò l'espressione sconcertata di lei. Finalmente
si era zittita.
Chissà come sarebbe esplosa non appena
avrebbe realizzato OGNI cambiamento alla sua stanza. Si accorse di attendere
stranamente impaziente e curioso la sua reazione; una ragazza così strana non
poteva che avere una reazione strana.
Prese una delle tante sue magliette sparse
per terra -decisamente non era ordinato- e se la infilò, sotto lo sguardo
sempre più sbigottito di lei.
-Tu...cosa? Dove?- Boccheggiò per qualche
secondo, portandosi teatralmente una mano alla fronte. Quante scenate!
-Puccy!- Sbraitò poi, correndo verso la
sua scrivania ed accucciandosi per terra, -Tu hai buttato Puccy nel cestino?!-
La ragazza gli puntò contro in modo quasi minaccioso il suo “Puccy”, che altro
non era che un enorme tigrotto di peluche.
-Era fastidioso. A momenti mi soffocavo
con tutto quel pelo.- Dan si accigliò, ricordando ancora il suo “dolce”
risveglio con la faccia nel ventre del peluche ed i suoi peli in bocca.
-Io...dormo con Puccy da anni!- Strillò
quella isterica, per nulla imbarazzata dalla sua stessa confessione.
Lui si sdraiò sul letto disinteressato,
senza togliere le scarpe, cosa che fece scattare all'insù il sopracciglio della
ragazza. -Mi sembra ora di crescere.- Commentò ironico, portando poi le braccia
dietro la testa.
Il labbro di Jude tremò pericolosamente
per parecchi secondi prima di fermarsi. Chissà quanti insulti stava
trattenendo, si disse Dan.
-E la bambola che c'era lì?-
Dan schioccò la lingua seccato,
-Spostata.- Rispose semplicemente.
La bambola di porcellana a cui si riferiva
era a dir poco ingombrante, oltre che inquietante. E poi lui doveva far spazio
alle sue cose.
-Dove?- Non aspettò nemmeno la risposta,
subito riprese ad aggredirlo, -Hai fumato! Qui c'è odore di fumo! Tu hai fumato
nella mia stanza?!-
Non era mai stato un tipo troppo loquace,
né paziente...odiava parlare, specie con le persone che lo innervosivano. E
quella Jude iniziava a seccarlo davvero.
-Senti, carina, finché io sono qui, questa
stanza è mia.- Si alzò e la vide, non senza un certo orgoglio personale,
indietreggiare come poco prima, -Perciò vedi di metterti l'anima in pace e di
non rompere i coglioni.- Socchiuse gli occhi e la fissò truce. Non bastava il
fatto che si fosse trasferito in quello schifo di posto controvoglia, non bastava
il fatto che fosse lontano da casa sua, dai suoi amici, dal suo lavoro...doveva
pure aggiungersi quella rompicoglioni?
Lui voleva solo essere lasciato in pace,
voleva solo che quei mesi passassero il prima possibile, non vedeva l'ora che
fosse tutto finito. Così, si sarebbe messo l'animo in pace,
così sarebbe potuto tornare alla vita di sempre, così avrebbe potuto far finta
di niente...
-Questo non ti dà il diritto di fare
quello che ti pare con le mie cose.-
Dio, ma quella tipa aveva sempre la
risposta pronta?
-Se mi rompi o perdi qualcosa...- e gli
puntò il dito al petto, -Sappi che te la farò pagare.-
La rabbia scemò in un attimo nel vedere
quell'espressione così incazzosa. Evitò di scoppiarle a ridere in faccia solo
perché non voleva che riprendesse a parlare di nuovo con la sua vocetta odiosa,
ma trattenersi fu davvero difficile per lui. Specie perché la sua faccia
imbronciata da “grande donna vissuta”, che secondo lei avrebbe dovuto
incutergli chissà quale paura, ricordava più quella di una bambina offesa per
qualche torto fatto al suo ridicolo peluche.
Dopo quel terribile avvertimento, se ne
uscì dalla stanza come una furia, portando Puccy con sé, ma lasciandosi dietro
un ragazzo, suo malgrado, divertito da quel comportamento bizzarro.
La sua amica Maggie non aveva smesso
nemmeno per un attimo di ridere e la cosa, a lungo andare, aveva iniziato ad
irritarla.
-Meg!- La rimproverò accigliata.
-Scusa! Solo...è che sono contenta per te
Jude!- Rispose quella, fra una risata e l'altra.
-Che c'è da essere contenta! Avresti
dovuto vedere la mia stanza Meg...- Piagnucolò ripensando a tutte le sue cose
buttate a destra e a manca, -Uno schifo. E c'era un odore di fumo!- Arricciò
involontariamente il naso: proprio non riusciva a sopportarla quella puzza.
-Ma io non mi riferivo alla stanza! Mi
riferivo a lui...- Il tono dell'amica si fece improvvisamente malizioso, cosa
che non sfuggì a Jude.
-In che senso?- Domandò, immaginando già
che l'amica avrebbe sparato qualche cavolata.
-Non capisci? Vivi sotto il suo stesso
tetto, sotto lo stesso tetto di un bel ragazzo, beata te!-
-Ah, sono proprio fortunatissima guarda!-
Fece Jude ironica, -E poi come fai a sapere che è bello, scusa?- Si morse la
lingua quando si rese conto di aver appena confermato alla sua amica che sì,
effettivamente Daniel era bello.
Pff,
bello, insomma…non è malaccio, ecco!
-Perché hai detto che ti sei sentita attratta
da lui, no?- Replicò candidamente l’amica.
-Ma certo che no!- Aumentò la stretta sul
telefono sbalordita, -Non ho detto niente del genere io! Ho detto solo che...-
-Che è stato difficile non
guardarlo...aspetta che lo sappia Molly! La smetterà di dire che sei strana
perché non ti interessa nessun ragazzo!-
Jude sospirò, lasciandosi ricadere
indietro su quello che era il suo nuovo letto...o brandina.
La sua amica non lo sapeva, ma c'era un
ragazzo che le faceva battere il cuore, che la faceva andare a fuoco solo
guardandola e che la faceva sorridere da sola nel buio della sua stanza come
una patetica bambina alla sua prima cotta ogni notte; suo fratello Evan. Ma
come avrebbe potuto dirlo a lei che era sua sorella? O anche solo a qualcuno?
Evan aveva 29 anni e un matrimonio alle porte con la sua storica fidanzata. Lei
era solo una bambina per lui, la “piccola” Jude cresciuta insieme alla sua
sorellina.
Continuava a sperare che un giorno si
accorgesse di lei…pian piano si stava trasformando, stava diventando una donna
e presto sarebbe andata al college. Cos’aveva in meno rispetto alla sua
fidanzata Michelle? Nulla, era anche più giovane e carina.
Non aveva mai nemmeno avuto un ragazzo a
causa di quell'amore impossibile. Non faceva che ripetersi che andava bene
così, che in fondo un ragazzo idiota, pervertito ed immaturo non le serviva,
che a lei importava solo uscire con le amiche ed andare bene a scuola. Certo,
tutto vero, solo che...si sentiva spesso sbagliata, a volte sentiva che c'era
qualcosa che non andava in lei. Era sempre scontrosa ed antipatica con i suoi
coetanei maschi, proprio non riusciva ad andare d'accordo con il sesso opposto.
Evan era una rara eccezione, ma solo perché più grande e maturo.
Era carina e desiderata da più di un
ragazzo nella sua scuola, il problema era che nessuno di loro la entusiasmava,
nessuno di loro le aveva mai scatenato una qualche...reazione ormonale? Niente.
E quindi finiva per essere antipatica con chiunque ci provasse.
Meg le aveva più volte detto che poteva
essere perché lei partiva prevenuta, pensando che tutti i ragazzi della loro
età fossero degli emeriti cretini...cosa che in effetti si ritrovava a pensare
sempre più spesso. Per lei sarebbe andato bene un ragazzo molto più grande,
forse sui trenta...tipo Evan.
-Non mi importa di cosa pensa Molly, lo
sai...- Borbottò nervosa. Quell'oca poteva pure pensare quello che voleva, di
certo il suo pensiero non l'avrebbe scalfita.
-Lo so, lo so...Però...Jude c'è da
festeggiare!- Niente da fare, niente avrebbe tolto il buon umore a Meg, -Questo
Daniel dev'essere proprio da stupro se è riuscito ad imbarazzarti e a
zittirti!-
-Ma se non l'ho neanche guardato!- Aveva
accuratamente evitato di soffermarsi sul suo petto nudo, sentendosi stranamente
nervosa. Era vero, in genere non lo era, aveva visto più di un ragazzo a petto
nudo durante le feste in piscina a casa della sopraccitata oca Molly, e nessuno
di loro l'aveva fatta mai sentire a disagio...però quello non significava
assolutamente nulla, per così poco! Forse proprio perché si era ritrovata
davanti un perfetto sconosciuto si era sentito un attimino disorientata
nell'affrontare un “campo” che non conoscesse. Tutto lì però.
-Descrivilo su! Com'è, biondo, moro…?-
-Blu.-
-Jude! Seriamente…com’è? Così tanto figo?-
-Molto, guarda.- Alzò gli occhi al cielo,
-Come il culo di un asino.- Ed ecco la finezza di Jude. Quando si
innervosiva...
-Gli asini sono carini tutto sommato!
Quindi la prendo come una conferma, è molto figo.- Ovviamente Meg interpretava
le sue uscite a modo suo.
-Certo, certo...vedrai che impazzirò Meg
in questi mesi..- Si lamentò rassegnata...doveva sopportare, poteva solo
sopportare. Per Delia e per suo padre, si disse.
-Hey Jude, don't make it bad, take a sad song
and make it better...-
-Meg...- La richiamò lei sorridendo,
ascoltando assorta il suo canticchiare. Adorava quella canzone e non solo
perché era come se nominasse lei ogni volta, ma anche perché la calmava e le
dava al tempo stesso una carica pazzesca. Poco importava che i Beatles
l'avessero dedicata ad un ragazzo, quella per lei restava la sua canzone.
-Remember, to let her into your heart...Hey
Jude, don't be afraid...-
-Non ti ricordi le parole!- La accusò Jude
ridacchiando. Aveva saltato più di una strofa.
-Eh va beh! Solo tu la ricordi a memoria!-
-Ovvio, è la mia canzone!-
Dopo aver parlato un altro po' di scuola
ed altre cose, mise giù un po' più tranquilla e, giusto per rilassarsi ancora
di più, mise le cuffiette e schiacciò play sulla sua canzone del cuore. Cantata
dai Beatles era decisamente meglio.
Chiuse gli occhi rasserenata ed in pace
con il mondo. Aveva bisogno di tutta la quiete possibile prima di affrontare
l'imminente cena con il nuovo membro “provvisorio” della sua famiglia. Una quiete
che solo la sua canzone poteva darle.
*Note dell'autrice*
Beh questo essendo il primo capitolo è un
po' cortino...diciamo che è un'altra prova, per vedere se questa storia ha o no
un futuro...
Il capitolo è dedicato al personaggio di
Jude come penso si sia capito...nello scorso avevamo capito qualcosa in più sul
carattere di Dan: menefreghista, di poche parole e sprezzante verso la madre.
In questo si conosce meglio Jude. Sono
dell'opinione che o la si ama o la si odia.
La canzone Hey Jude è dei Beatles ;)
Per quanto riguarda Dan...pian piano si
scoprirà meglio anche lui nei prossimi capitoli e soprattutto si spiegherà
meglio il perché del suo odio verso la madre...
Spero di avervi incuriosite e fatto
sorridere almeno un po' con questo capitolo :)
Vi ringrazio tantissimo per i commenti e
per i preferiti/seguiti/ricordate*_* Grazie mille per la fiducia e per i
complimenti!
Una pesante atmosfera aleggiava nella sala da pranzo di casa
Parker: a rompere il silenzio, solo il rumore delle posate e dell'acqua versata
dalla brocca nei bicchieri.
Richard Parker era astemio da anni e non tollerava nessun tipo di
bevanda alcolica in casa sua, per la “gioia” di Dan che invece sentiva proprio
il bisogno di buttare giù un bel bicchierino di Vodka.
-Io sono vegetariana, sai?- Fu lavocettairritante di Judith a fargli
rimpiangere quel bruciore in gola che solo qualcosa di alcolico avrebbe potuto
procurargli.
A Dan non era affatto sfuggita l'occhiata silenziosa che Richard
aveva lanciato alla figlia per esortarla a parlare, così, indispettito, evitò
volutamente di risponderle.
Non voleva parlare con nessuno, ma, soprattutto, non voleva che
nessuno si sentisse obbligato a coinvolgerlo in patetiche quanto inutili
conversazioni. Stava bene chiuso nel suo mutismo, non vedeva semplicemente
l'ora di ritornarsene in camera “sua”.
-Ti piacciono gli animali,Daniel?-
La ragazza parlò ancora più controvoglia di prima se possibile e pronunciò il
suo nome come il peggiore degli insulti.
Non considerava Dan degno di tante attenzioni, per lei era solo un
fastidioso intruso; avrebbe tanto voluto che se ne andasse di sopra a mangiare,
lasciandola libera di poter raccontare la sua giornata al padre.
Dan, dal canto suo, quasi si strozzò con l'acqua a quella domanda.
No, decisamente non li sopportava proprio gli animali. Forse non era il caso di
raccontare di quando una volta, da piccolo con i suoi amici, aveva lanciato dei
petardi contro dei gatti randagi.
-Non molto.- Rispose, suo malgrado, impietosito dallo sguardo
implorante e stanco della madre.
Il silenzio ripiombò nella stanza e questa volta nemmeno le
occhiate di Richard servirono a far parlare Jude.
-Ti piace il baseball, Daniel?- Esasperato dalla figlia, fu l'uomo
a prendere le redini della conversazione.
-No.-Le sue risposte erano sempre
monosillabiche o il più corte possibile, specie se era quell'uomo a parlargli.
Forse era un comportamento immaturo e infantile, ma del resto, chi erano quelle
persone per giudicarlo? Sua madre era praticamente un'estranea, dubitava
persino che si ricordasse il nome della scuola da lui frequentata. Non sapeva
nulla di suo figlio, probabilmente conosceva meglio Judith.
-Lui...preferisce il basket.- Intervenne Delia, esitante.
Il ragazzo spostò velocemente lo sguardo su di lei sorpreso: se lo
ricordava. Come poteva, dopo tutto quel tempo?
-Giocava nella squadra del suo liceo.- Concluse sorridendogli
amorevolmente.
Daniel distolse lo sguardo con la stessa velocità di poco prima,
infastidito da quello che era riuscito a leggere negli occhi della madre.
Giocava,
appunto. Si parlava di un anno prima, si parlava di un passato più lontano di quanto
sembrasse, di una speranza di vita migliore, di un futuro migliore. Prima che
rifiutasse di andare al college, prima che iniziasse a lavorare per potersi
comprare quello che voleva e per aiutare il padre a pagare l'affitto.
A lasciarlo ancora più basito, però, fu la reazione della ragazza
seduta di fronte a lui che iniziò a tossire convulsamente.
Ecco perché! È destino!Si disseJude, dopo essersi ripresa ed aver bevuto un po' d'acqua.
Lei li aveva sempre odiati i giocatori di basket, odiava l'intera
squadra della sua scuola, a partire dal capitano: Edward Russo.
Da mesi quel poveretto ci provava disperatamente con lei senza
successo, da mesi, ogni mattina, salutava Judecantandole canzoni d'amore, ogni
giorno una diversa. Era passato da “It'sgonnabelove” a “BleedingLove”,
dove le faceva capire, poggiandosi una mano sul cuore, quanto stesse male per i
suoi continui rifiuti. E ogni volta lei, prontamente, gli rispondeva sempre
alla stessa maniera: “Vai a cantarla da un’altra parte, idiota”.
AJudequelle
continue dichiarazioni pubbliche avevano sempre dato fastidio, trovava Edward
solo rozzo e fastidioso.
Era l'unica ragazza della scuola a pensarlo, ovviamente. Edward si
era trasferito dall'Italia qualche mese prima ed era il pettegolezzo più ghiotto
dell'intero istituto. Giocava a Milano prima, nella squadra giovanile di basket
dell'Armani Jeans, motivo per cui molte ragazze lo avevano adocchiato ancor
prima che entrasse nella squadra del liceo.
-Oh basket!- Fece entusiasta suo padre, sperando così, si vedeva,
di risultare almeno un briciolo più simpatico agli occhi del figlio della donna
che amava.
Povero papà,pensò amaramente. Non sarebbe mai riuscito
nel suo intento, si vedeva lontano un miglio che a Daniel non importava andare
d'accordo con loro, né voleva conoscerli. Stranamente, riusciva a capirlo. In
fondo, sua madre...era malata, quindi il suo mutismo poteva anche essere
normale e giustificato, probabile che a modo suo stesse soffrendo. Non era
comunque giustificata la sua scortesia.
-Jude, tesoro...- Ecco che la interpellava di nuovo, -Perché non
mostri a Daniel la città domani? Sono sicuro che gli piacerà, ci sono molti bei
negozi e...- Nient'altro. Non si poteva nemmeno definire una città la loro, era
un buco. DueStarbucks,
quattro boutique di vestiti in croce, un negozio di elettronica, qualche altro
inutile di cianfrusaglie varie, un McDonald's, qualche ristorante, un cinema solo, due
supermercati e due licei, rivali fra di loro, ovviamente. E tante, tante case.
-Non c'è niente da vedere, non c'è nemmeno bisogno che lo
accompagni.- Lo interruppe bruscamente lei. Non avrebbe fatto da balia al
moccioso, aveva di meglio da fare. Il fatto che il “moccioso” fosse più grande
di lei di un anno era solo un dettaglio, lei non voleva assolutamente averci a
che fare. Più stava lontana da lui e dalla sua camera -la sua povera camera!
Non voleva assolutamente sapere come l'avrebbe ridotta-, meglio era.
-Jude!- Odiava quello sguardo indignato. -È un ospite!-
-Non fa niente, lasci stare.-
Si ritrovò silenziosamente a ringraziare il ragazzo, anche se
mantenne ostinatamente la sua precedente espressione sprezzante.
-Me la caverò meglio da solo.- Si alzò da tavola, senza nemmeno
aspettare che sua madre avesse finito di mangiare. Che maleducato!
-D-Dan...- Povera donna, stava cercando con lo
sguardo di fargli capire che non era educazione comportarsi in quel modo.
-Se non vi dispiace me ne vado in cameramia.- Non solo ignorò la madre,
ma ghignò in sua direzione nel pronunciare l'ultima parola della frase! Lasuacamera?! Ma come osava?!
Non ebbe il tempo di ribattere perché il ragazzo le diede le
spalle subito dopo, ma si appuntò di farlo non appena lo avrebbe incontrato di
nuovo il giorno dopo a colazione.
Aveva già limitato i suoi incontri con lui a tre volte al giorno;
colazione, pranzo, cena. Avrebbe fatto il possibile per evitarlo per tutto il
resto della giornata, a costo di restare fuori con i suoi amici tutti i
pomeriggi.
Finirono di mangiare, più serenamente e senza conversazioni
forzate, pensòJude, una mezz'oretta dopo.
Aveva raccontato l'intera giornata a suo padre fra un frutto e
l'altro, come faceva ogni sera. Le piaceva vederlo sorridere, le piaceva
tirarlo su di morale, le piaceva distrarlo dal pensiero della malattia di
Delia. Così come le piaceva che anche Delia la ascoltasse e intervenisse
pacatamente, preoccupandosi di non essere ingombrante nel loro rapporto.
Era piacevole quella situazione e le sarebbe dispiaciuto che…se
Delia fosse morta, non avrebbero più potuto rivivere quello scenario familiare.
E la irritava il fatto che ci fosse Daniel in quella casa, lo vedeva come una
“pecora nera”, una macchia che sporcava la sua quiete, la sua routine
giornaliera, le sue cene tranquille in famiglia.
Finito di mangiare,Judeaiutò a
sparecchiare e lavò i piatti; aveva imparato a cavarsela con le faccende
domestiche e a prendersi cura di suo padre molto prima dell'arrivo di Delia,
per quello non sentiva ragioni quando la donna si offriva di aiutarla a fare
qualcosa.
Suo malgrado, non riusciva a smettere di pensare a Daniel e al suo
modo di fare. Conosceva parecchie persone così, l'esperienza le insegnava che
quel modo di fare serviva solo a proteggersi dal mondo esterno, ad estraniarsi.
Eppure, per quanto da una parte avrebbe voluto essere più comprensiva e
gentile, dall'altra non riusciva a fare a meno di pensare a quanto fosse odioso
e maleducato. Insomma, avrebbe almeno potuto sforzarsi di comportarsi
civilmente, per sua madre se non altro!
A passo strascicato e stanco, si diresse verso la sua nuova stanza,
che poi di nuovo non aveva proprio nulla. L'idea di fare la terza incomoda e di
assistere a patetiche smancerie fra Delia e suo padre la disgustava, ma sapeva
di dover imparare a conviverci.
Passando davanti alla porta socchiusa della sua stanza, si bloccò
pensierosa: dopotutto, avrebbe potuto dare il buon esempio al nuovo arrivato,
non costava nulla augurargli una buonanotte. Magari avrebbe cercato di non
distruggere le sue cose se fosse stata un pochino più gentile.
Diede una sbirciatina al suo interno e si accorse stranita che la
camera fosse vuota. Aprì del tutto la porta con una mano ed esaminò inorridita
i vestiti e le scarpe del ragazzo sparse a terra. Era un porcile!
Quando rischiò di rompersi l'osso del collo per dribblare quegli
insulsi stracci, alzò lo sguardo infuriata, pronta a rimproverare quella beota
scimmia del paleolitico.
-Ma che...!- Fu tutto quello che le sue labbra riuscirono a dire.
Si era bloccata nel momento esatto in cui lo aveva visto, sdraiato sulsuoletto, gli occhi chiusi, un
braccio abbandonato sulla fronte, l'altro a penzoloni giù dal materasso, le
cuffiette dell'Ipod all'orecchio e le labbra socchiuse. A rompere il silenzio
prima e dopo la sua mezza frase, solo il rumore della musica troppo alta e del
suo respiro leggero e regolare.
Oh.Non riuscì a pensare ad altro.
Rimase impalata al centro della stanza, indecisa sul da farsi.
Per qualche strano motivo, non riusciva a distogliere lo sguardo
come sarebbe stato giusto fare.
Doveva ammetterlo almeno a sé stessa, Daniel King riusciva quasi ad essere carino quando dormiva.
Nessun broncio, nessun sorrisetto odioso, nessuna smorfia altezzosa. Solo...un
bel viso rilassato.Finalmenterilassato.
Eppure non era solo il suo viso a catturare la sua attenzione,
c'era anche dell'altro: la ciocca di capelli che ribelle gli copriva la fronte,
il petto che si alzava ed abbassava lentamente, gli addominali perfetti
lasciati scoperti dalla maglietta, le gambe lunghe, snelle e muscolose da
giocatore di basket...nel complesso, si ritrovò con vergogna a pensare che Meg
avesse ragione: Daniel non le dispiaceva affatto dal punto di vista fisico. Ed
era la prima volta che le succedeva, in genere un corpo della sua stessa età
non aveva mai attirato il suo interesse, tendeva sempre a guardare uomini più
maturi. Anzi,unuomo più maturo,Evan. L’uomo
della sua vita, l’uomo di cui si era innamorata da quando aveva dodici anni.
Sbuffò: ok, Daniel poteva anche non essere male fisicamente,
peccato però che avesse l'intelligenza di una nocciolina ed i modi di fare di
una scimmia, doveva essere ancora rimasto all'età della pietra con il
cervello.
-Sai, dovresti imparare a bussare.- La voce del ragazzo la fece
sobbalzare e quelle labbra che prima-ahimé-si
era fermata ad esaminare, si piegarono in un sorrisetto molesto.
-Sai, dovresti imparare a leggere; questa è la mia stanza.- Indicò
con il pollice il cartello sulla porta che mostrava sfacciato il nome della
proprietaria della camera.
Dan si slanciò con le gambe per sedersi, fissandola con un misto
di irritazione e divertimento, -Non finché qui ci sonoio.-
Si morse il labbro con stizza, diventando rossa per la rabbia. Non
poteva ribattere a quella frase, sapeva che lui aveva ragione.
-Bene.- Sbottò alzando il mento, -Dato che io sono una personaeducata, sono venuta solo per
augurarti una buonanotte.- Aveva perso con onore se non altro.
Lui sollevò il mento a sua volta, soddisfatto e vittorioso: gli
aveva appena offerto una risposta con i fiocchi. -Dato che sei una persona
educata...impara a bussare, tesoro. A meno che tu non venga per intrattenermipiacevolmente, in quel caso
saresti comunque la benvenuta.-
Era più forte di lui: avrebbe voluto evitare tutti in quella casa,
starsene per conto suo e parlare il meno possibile...ma con lei proprio non ci
riusciva, vedere le diverse tonalità di rosso che stava assumendo il suo viso
era quanto di più stuzzicante e divertente avesse visto negli ultimi mesi.
Senza contare che era stata lei ad entrare nella sua stanza, era stata lei a
cercarlo, lei lo aveva fissato in silenzio per almeno un minuto buono. Lei lo
stava provocando, stava stuzzicando il can che dormiva.
Lui? Lui le rispondeva e basta.
-Lo prendo come un invito, cavarti gli occhi dalle orbite con un
cacciavite mentre dormi sarà senza alcun dubbio unpiacevolepassatempo.-
Lei sorrise dell'espressione stupita di Dan e, con un piccolo
inchino chiaramente derisorio, si congedò ed uscì dalla stanza.
Però, pensò
il ragazzo una volta rimasto solo,ha
sempre la risposta pronta la bimba.
Si sfilò le scarpe annoiato, pensando tuttavia cheforseera meglio dormire con un occhio
aperto per sicurezza. Mai dubitare delle parole di una pazza del resto.
*
La mattina dopo,Judesi alzò
presto nonostante fosse domenica, decisa a pulire –igienizzare- la sua stanza e
a mettere in lavatrice i suoi vestiti.
Esitò un attimo davanti al cartello “Non disturbare” appeso da lei
stessa sulla porta della sua camera, poi, dopo aver sospirato profondamente,
entrò a passo spedito.
Si era aspettata di trovare la stanza al buio, un odore nauseante
di sudore e piedi –l’odore che lei ormai aveva associato a qualsiasi uomo- ad
aleggiare nell’aria e i vestiti ancora sparsi per terra; invece trovò la
finestra spalancata, la tapparella alzata, i vestiti riposti –male- sulla sedia
e l’aria fresca e gradevole del mattino a pizzicarle il viso. E il letto vuoto.
Mosse incerta qualche passo fino a calpestare il tappeto al centro
della stanza.
Doveva ammettere che Daniel era riuscito a stupirla: si era alzato
prima di lei. E probabilmente stava gironzolando già per casa.
Storse il naso irritata: non era abituata a vivere con qualcuno
che la precedesse la mattina, era abituata ad essere la prima, a pulire tutto
quanto senza nessuno fra le scatole, a preparare la colazione prima che suo
padre e Delia si svegliassero.
Abbandonò il suo proposito di lavare in terra quando sentì la
porta d’ingresso sbattere. Era uscito? O rientrato?
-Potresti evitare di sbattere la porta, c’è gente che dorme!-
Sbraitò scendendo di corsa al piano di sotto.
Lo trovò ai piedi delle scale, lo sguardo stralunato di chi non
aveva capito una parola di quello che gli avevano appena detto, le guance
arrossate, la fronte imperlata di sudore e i capelli scarmigliati.
AJudebastò
lanciare una rapida occhiata alla tuta da ginnastica che indossava per
ipotizzare che fosse andato a correre.
Questo ragazzo è veramente strano…si alza presto la domenica
mattina per andare a correre e oltretutto ci va…d’inverno?
-Che cosa?- Daniel si sfilò le cuffiette dell’ipod e la guardò
dubbioso.
-La porta.- Spiegò più tranquilla di quanto fosse, -Hai sbattuto
la porta e ci sono mio padre e tua madre che stanno dormendo di sopra.-
Il ragazzo scrollò le spalle noncurante, prima di sorpassarla per
salire al piano di sopra.
-Vedi di far meno rumore la prossima volta, o la porta te la
sbatto in faccia, capito?-
Di nuovo, lui non le prestò nessun tipo di attenzione, proseguì
tranquillo fino a quando non sparì del tutto dalla sua visuale.
Juderinghiò peggio di un felino selvatico,
-Dove credi di andare, sto parlando con te!- Si aggrappò alla ringhiera e salì
a sua volta le scale, a passo pesante e furioso.
Non poteva ignorarla così, ma chi si credeva di essere? Lei era
stata la padrona di casa per mesi, lei si era occupata di gestirla da quando
sua madre se n’era andata, lei aveva sgridato suo padre quando le sporcava il
pavimento di fango o quando le rompeva i piatti, e nemmeno Delia aveva mai
messo in discussione la sua autorità da quando era arrivata, nemmeno Delia si
era mai permessa di ignorarla.
Lo raggiunse un attimo prima che aprisse la porta del bagno per
entrarci, probabilmente per farsi una doccia o per fare Dio solo sapeva cosa.
Stava per gridargli contro che non si doveva più permettere di
comportarsi in quel modo, quando Daniel si girò e, dopo aver sorriso in un modo
che non le piacque per nulla, le posò un dito sulla bocca.
Sussultò e si sentì andare a fuoco le guance. Per qualche strano
motivo, non riuscì a spostarsi, né a tirargli un ceffone sulla mano per
allontanarlo.
Non riusciva a muoversi, sentiva soloqualcosadi indefinito svolazzare –e anche
piuttosto freneticamente- dentro il suo stomaco.
È per lo schifo,si disse.
-Shh! Tuo padre e mia madre dormono…-
Il suo sorriso a così pochi centimetri dalla sua faccia, ebbe su
di lei lo stesso effetto del vino rosso che aveva bevuto una volta a Natale, le
fece girare la testa e sentire caldo dappertutto.
Ma non era solo quello ad averle tolto la sua solita e acida
risposta pronta: aveva ancora quel dito sulle labbra, e un’infimissima e
minuscola parte di lei immaginò come sarebbe stato schiuderle e assaporare...Oh
Dio…
Juderabbrividì per il disgusto. Che
dannatissimo scherzo della sua mente era mai quello? Che diavolo le prendeva?
Lasciarsi sfottere così da quel deficiente senza reagire!
Irritata da sé stessa, alzò di scatto la mano destra e colpì con
forza il polso di lui per scansarlo, -Primo: se ti alzi prima delle dieci in
questa casa devi fare SILENZIO, lo capisci o il tuo cervello non ci arriva?-
Lui sollevò un sopracciglio divertito, senza tuttavia ribattere.
Gli conviene,pensòJudefuriosa.
-Secondo: io pulisco, io cucino, io lavo e stiro, quindi, a meno
che tu non sia capace da solo di fare tutto questo…e non credo,-
Sottolineò con un orgoglio tutto femminile quelle ultime tre parole, -Ti conviene
fare quello che ti dico se non vuoi restare senza cena e con i vestiti
sporchi…anche se non penso che questa seconda cosa ti turberà più di tanto,
potresti persino trovarti a tuoagio.-Sfoderò
la migliore espressione da stronza del suo repertorio.
Nemmeno quella, però, servì a scalfirlo. Continuava a fissarla
dall’alto in basso con un’espressione annoiata che la faceva andare su tutte le
furie, probabilmente non la stava nemmeno ascoltando.
Credeva davvero che non sarebbe stata capace di mettere in atto le
sue minacce?
Oh, ma chi voleva prendere in giro, luisapevabenissimo che le sue erano solo
parole al vento, Delia sarebbe stata sempre e comunque dalla parte di suo
figlio, non lo avrebbe mai lasciato a digiuno.
-Terzo,- Digrignò i denti e strinse le mani a pugno, -Prova ancora
a toccarmi e ti prendo a calci nei coglioni, capito?- Sorridere le costò un
certo sforzo, specie ricordando le reazioni avute dal suo stesso corpo poco
prima. Era decisamente frustrante, maledizione.
Daniel fece roteare gli occhi per la stanza, prima di soffermarsi
di nuovo su di lei, -Posso andare a farmi una doccia, o hai intenzione di
seguirmi anche lì?- Una luce maliziosa accese gli occhi del ragazzo che,
nonostante lo schiaffo sulla mano, non si era allontanato ancora di un
millimetro da lei.
Solo in quel momento, infatti,Juderealizzò
quanto Daniel fosse effettivamente vicino, così tanto che le sarebbe bastato
allungare un braccio per toccarlo. La cosa sconvolgente era che il pensiero non
la schifava per niente, come invece avrebbe dovuto.
Prima che il suo cervello potesse dare altri segni di squilibrio,
indietreggiò e annuì piano, -S-sì, muoviti. Puzzi.- Finse un’espressione
nauseata e si portò una mano al naso per nascondere in realtà un altro
allarmante rossore. Non più allarmante del passo in avanti che fece Daniel un
attimo dopo però.
-Comunque, per la cronaca…-
Avvertì le dita del ragazzo fare lievemente pressione su una sua
guancia per spingerla a guardarlo bene in viso.
Bastardo, mi sta volutamente toccando di nuovo per provocarmi, in
barba a quanto gli ho appena intimato di non fare.
-Io non mi faccio dire da nessuno quello che posso o non posso
fare…-
Judefece per scansarsi, ma non appena ci
provò, la presa di Daniel si fece leggermente più forte, giusto quanto bastava
per evitare che lei si spostasse.
O chescappasse?
-Sono un ospite qui,- Fece un mezzo sorriso sfrontato, -E non ho
intenzione di rispettare il punto uno o il punto due…- La lasciò andare di
colpo nel momento in cuiJudecercò di
morderlo.
Sembrò riflettere per un attimo su qualcosa, poi ghignò e si
voltò, aggiungendo, come se nulla fosse, -E nemmeno il punto tre.-
Idiota.
-A tuo rischio e pericolo.- Ribatté prontamente Judith, mentre
posava, senza essere vista, una mano sul petto per cercare di regolarizzare il
battito impazzito del suo cuore.
Merda, era nervosa. Grazie al cielo non aveva balbettato, sembrava
più sicura di quanto in realtà non lo fosse.
Quel ragazzo era un degno rivale, non le era mai capitato di
trovarsi così in difficoltà nel rimettere al suo posto un poppante.
-Io starei attento ai “gioielli di famiglia”.- Lo avvertì con tono
petulante.
In risposta le arrivò una sonora risata, sovrastata dal rumore di
una porta che si chiudeva alle sue spalle.
*
L’acqua scivolava sinuosamente sul suo corpo da almeno una buona
decina di minuti e aveva formato, nonostante le porte scorrevoli in plastica,
una bella pozza fuori, sul pavimento.
Daniel si passò una mano sui capelli per tirare indietro un fastidioso
ciuffo ricadutogli sulla fronte, appoggiandosi, con l’altra mano, sulla
maniglia della doccia per interrompere il getto.
Sulla sua pelle si erano formate tante piccole increspature dovute
al freddo, ma lui non se ne curò.
Era abituato al freddo di New York, al freddo della città e al
freddo della sua casa senza riscaldamento. O meglio, c’era il riscaldamento, ma
era sempre stato rigorosamente spento.
-Ho avuto qualche problema questo mese…-si giustificava sempre suo padre, grattandosi la testa, -Per
il prossimo dovrei riuscire a pagare la bolletta.-
Ovviamente quel “prossimo” non era mai arrivato. Finito il liceo,
era dovuto andare a lavorare lui, se non altro per poter fare la spesa e pagare
almeno l’affitto.
Si chiese inevitabilmente come se la stesse cavando suo padre
senza i suoi soldi.
Allungò una mano per afferrare il primo asciugamano che gli capitò
a tiro ed incominciare a frizionarsi i capelli.
Sicuramente bene, Thomas King era il tipo di persona che sarebbe
sopravvissuta anche in mezzo ad una tempesta di neve. Esattamente come lui e a
differenza di sua madre.
Lei era più il tipo da casa calda e accogliente, esattamente come
quella in cui si era andata a rifugiare dopo averli abbandonati.
Ricordava ancora quando lo prendeva in braccio da piccolo per
coccolarlo:
-Ma sei un piccolo rettile!-Esclamava
sempre, ad occhi sgranati, quando si accorgeva delle sue mani perennemente
fredde.
Strinse con forza l’asciugamano e lo buttò nel cesto dei capi da
lavare con stizza. Odiava ricordare il passato, ricordare sua madre con quel
sorriso amorevole e materno…prima che se ne andasse e lo lasciasse da solo, con
un padre completamente incapace di occuparsi di lui.
Non aveva avuto il coraggio di chiederle nulla dello stato della
malattia, né quante probabilità ci sarebbero state di guarire. Non voleva
sapere nulla, non era pronto ad affrontare un discorso del genere.
Uscì dalla doccia senza ricordarsi di quella pozza d’acqua ai suoi
piedi e finì con il pestarla in pieno.
‘Fanculo.
Imprecò più volte a bassa voce. Chi l’avrebbe più sentita quella
noiosa e petulante rompiballe se avesse lasciato delle impronte per casa?
Si sporse per afferrare un secondo asciugamano dal mobiletto lì
accanto e se lo passò su tutto il corpo per evitare di gocciolare.
Porco cazzo, qui è tutto così…rosa.
Pensò schifato, sollevando la salvietta con un dito per esaminarla
meglio. Se avesse dedicato un secondo in più di attenzione al pezzo di stoffa,
probabilmente si sarebbe accorto di quella “J” ricamataci sopra.
Scrollò le spalle e se lo legò in vita, guardandosi intorno con
l’intento di trovare qualcosa di adatto ad asciugare tutta quell’acqua.
Optò per il tappetino al centro della stanza; lo prese e lo buttò
letteralmente sulla pozza.
Al diavolo, andava bene così, chissene importava della riccia
schizzata, aveva già fatto anche troppo.
Anche se…doveva ammettere che stuzzicarla era diventato
probabilmente il suo passatempo più divertente in quella casa.
Quando le aveva poggiato quel dito sulla bocca e l’aveva vista
sussultare ad occhi sgranati…non avrebbe saputo dire se fosse maggiore la
voglia di scoppiarle a ridere in faccia o quella di fare una leggera pressione
con l’indice per farle schiudere le labbra.
Avrebbe di sicuro visto quegliocchionicolor
nocciola spalancarsi ancora di più e avrebbe avvertito il calore e l’umidità di
quella piccola cavità sul polpastrello.
Il solo pensiero lo fece fremere violentemente e fu abbastanza
certo del fatto che non c’entrasse nulla il freddo quella volta.
Non riusciva ancora a spiegarsi il perché di quell’ultima sua
precisazione…
-Non ho intenzione di rispettare il punto uno o il punto due…E
nemmeno il punto tre.-
Cosa importava, in fondo, a lui di toccare quella schizofrenica
del cavolo?
Si sarebbe solo rimediato un bel calcio nei coglioni oltretutto,
non ne valeva decisamente la pena.
Probabilmente era stata solo la voglia di precisare che lui non si
faceva di certo comandare da una petulante ragazzina uscita da chissà quale
manga per ragazze, a fargli rispondere in quel modo. Non faceva più quello che
gli dicevano da quando aveva all’incirca 13 anni.
Scosse appena la testa sorridendo: non era più statosgridatoin quel modo da quando aveva 13 anni.
Non aveva ancora smesso di sorridere una volta uscito dal bagno,
ma un urlo agghiacciante e una ciabatta dritta sul naso, furono sufficienti a
distrarlo da quel pensiero e a farlo sbraitare con un: “Ma che cazzo…?!”
-Levati subito il mio asciugamano di dosso, schifoso maniaco!-
Judesi portò le mani fra i capelli disperata
ed incominciò a snocciolare una serie di infiniti: “Che schifo! Che schifo! Che
schifo!” fra sé e sé.
La rabbia per la ciabatta lanciatagli poco prima passò in secondo
piano, Daniel era nuovamente in procinto di riderle in faccia.
Quella ragazza se ne usciva con frasi maliziose senza nemmeno
accorgersene.
Vuole che me lo tolga? E va bene…
Sbuffò e alzò gli occhi al cielo, portando con nonchalance le mani
all’estremità superiore dell’unico pezzo di stoffa che lo ricopriva,
-D’accordo, come vuoi.-
-No!- Quello strillo, oltre a spaccargli i timpani, fece uscire
allarmati anche Richard e Delia dalla stanza accanto.
Judearrossì violentemente e scosse la testa
scoraggiata,-N-Niente,
io…io non intendevo dire quello!- Stava per avere un esaurimento nervoso,
poveraprincipessina, -Non
azzardarti a togliere quel coso e brucialo quando hai finito di usarlo!-
Si congedò così, voltandosi dall’altra parte e scendendo a passo
svelto le scale per dirigersi al piano di sotto.
-La ciabatta, Cenerentola!- Le gridò contro divertito, ma di lei
non vide più nemmeno l’ombra.
Sua madre e Richard ancora lo guardavano interrogativi e lui, dopo
essersi stretto nelle spalle, se ne andò tranquillo in camera sua a cambiarsi.
Che famiglia di psicopatici lo ospitava…eppure non ricordava di
essersi divertito così tanto da…un bel po’.
*Note dell’autrice*
Dopo più di un anno eccomi qui, mi
dispiace tantissimo per questo immenso ritardo, non c’è nessuna giustificazione
che possa discolparmi.
Vi ricordate ancora di Daniel eJude? Spero
di sì, perché ho ripreso a scrivere di loro e non ho intenzione di smettere
tanto presto :)
Sono di corsissima, ma avevo detto
nel gruppo difacebookche avrei postato oggi e così eccomi
qui.
Non sono riuscita a rispondere
alle recensioni ma, come per la nuova storia “TheunexpectedlifeofEmmaWimsey”, lo farò man mano. Sarò lentissima probabilmente,
ma non disperate, arriverò a ringraziarvi singolarmente perché è una cosa a cui
tengo.
Vi lascio con un immenso,
gigantesco GRAZIE per l’affetto dimostrato a questa storia solo agli inizi,
l’ho apprezzato tantissimo.
La convivenza con Daniel le stava causando più problemi del
previsto.
Contava di passare le giornateadignorarlo,
salutarlo solo se strettamente necessario ed augurargli una forzata buonanotte
la sera.
Aveva purtroppo capito che sarebbe stato più difficile del
previsto, specie se Daniel continuava a farle saltare in quel modo i nervi.
Era lì da solo un giorno e mezzo e già lei non ne poteva più di
quel suo modo strafottente di fare e dei suoi sorrisi sfacciati.
Oltretutto…quel pervertito schifoso avevaosatotoccare il suo bellissimo e
preziosissimo asciugamano ricamato!
Non sarebbe bastato lavarlo per pulirlo dalloschifo, avrebbe dovuto
buttarlo, e tutto perché Daniel-faccio-quello-che-mi-pare aveva sentitol’improvviso
bisogno di lavarsi e di utilizzare, fra tutti gli altri asciugamani presenti,
proprio il suo!
La mattina dopo, uscita dalla doccia, Jude fu costretta ad
avvolgersi nell’orribile e vecchio accappatoio color topo di sua nonna, morta
dodici lunghi anni prima. Quello la diceva lunga su quanto tempo quel pezzo di
stoffa fosse stato chiuso nell’armadio.
Poteva ballarci la samba lì dentro, era talmente largo da coprirle
interamente le mani.
Sospirò affranta e tirò su il cappuccio per frizionarsi i capelli
umidi: l’orologio segnava le sei e venti, così, avvolta nel calduccio di quel
tessuto così odiato, scese al piano di sotto con l’intento di mettere a
scaldare del latte per lei e Delia e preparare un buon caffé a suo padre.
Cacciò un urlo tremendo quando si accorse che la cucina non fosse
vuota; il suo peggior incubo –Dio, quale adolescente disoccupato si alzava così
presto la mattina?!- stava sfogliando il giornale del
giorno prima e sorseggiava tranquillo una tazza di…qualcosa di scuro che Jude
classificò come “ignoto”, caffé probabilmente.
Quando la sentì urlare in quel modo, alzò lo sguardo per
squadrarla infastidito, -Sbaglio o sei stata proprio tu a dire che bisogna fare
silenzio la mattina?-
Jude ringraziò tutti i suoi santi protettoriper il fatto cheil ragazzo non avesse fatto qualche
battuta di cattivo gusto sul suo ridicolo abbigliamento da Puffo. Ci mancava
solo quello, era colpa sua se si trovava quelcosospelacchiato di sua nonna addosso!
-Che cavolo ci fai alzato a quest’ora?- Sbottò punta sul vivo,
abbassando il cappuccio per rendersi, per quanto possibile, un tantino più
presentabile. Non che le importasse di apparire più carina ai suoi occhi, lo
avrebbefatto
anche seavesse avuto
Delia di fronte.
Lui indicò ironicamente il giornale, -Secondo te? Ho intenzione di
uscire e di cercarmi un lavoro, non ci tengoadessere
mantenuto da tuo padre.-
Il sopracciglio di Jude si arcuò, mentre le sue mani lottavano
contro le maniche troppo lunghe dell’accappatoio, -Quello è di ieri.- Disse
semplicemente, riferendosi al giornale.
La verità era che era rimasta piuttosto sorpresa dalla risposta
del ragazzo, non lo faceva così…in gamba.
Avrebbe potuto vivere a scrocco in casa di sua madre –perché Delia
era proprietaria di quella casa almeno quanto suo padre-, invece si stava già
dando da fare per dipendere il meno possibile da loro.
Con sommo disappunto, si trovò a pensare che fosse un
comportamento da ammirare il suo.
Si chiese, inevitabilmente, perché Daniel, più grande di lei di un
anno e quindi già diplomato, non si fosse informato per frequentare qualche
college, visto econsiderato chenon
le sembrava affatto stupido. Odioso magari, ma non stupido.
Ne conosceva lei di ragazzi stupidi, conversare con loro era come
parlareadun bambino di due anni, non capivano
metà di ciò che lei diceva. Senza contare che i loro arguti discorsi senza
senso vertevano sempre sulle stesse parole volgari, ripetute e biascicate
almeno una volta in ogni frase, come se ometterle fosse stato un crimine.
-Loso.-Daniel tornò a sfogliare le pagine del
quotidiano con meticolosa attenzione, per non perdersi nessuna allettante
proposta d’impiego, -Ma quello di oggi non l’hanno ancora recapitato e io ho
intenzione di uscire prima che si sveglino i tuoi.-
La ragazza sbattéle palpebre allibita: aveva detto ituoi. Era come se…se lui sifosseappena dissociato da tutti loro,
persino da sua madre, era come se si sentisse un completo estraneo lì.
-Unlavoro.- Solo quando richiuse la bocca di
scatto si accorse di averla spalancata alla rivelazione di poco prima, -Stai
cercando un lavoro, il secondo giorno che sei qui, su un giornale vecchio,
alle…- controllò l’orologio di sfuggita, -sei e mezza del mattino? Sai di non
essere normale?-
Lui la guardò di sottecchi divertito, -Sono abbastanza sicuro di
essere più normale di te, anche se non è una vera e propria rassicurazione.-
La ragazza decise per una volta di lasciar correre quella
provocazione bella e buona, dopotutto era stata leiadinsinuare per prima che lui avesse
qualche problemino mentale, -Non troverai un lavoro qui, è tutto desolatamente
deserto.- Non c’erano locali per giovani, cinema, centri commerciali…era una
piccola cittadina con il minimo indispensabile, non sarebbe riuscito a trovare
tanto facilmente un’occupazione.
Daniel fece una smorfia e si alzò, -Ci sarà un bar che ha bisogno
di aiuto a gestire i tavoli, no?- Sciacquò la sua tazza nel lavandino e
sorpassò la giovane per dirigersi all’ingresso.
Jude lo seguì conlo sguardo pensierosa; era abbastanza certa del fatto che,
se anche ci fosse stato qualche posto disponibile, avrebbero di sicuro dato la
precedenza ai disoccupati del posto, non ad un ragazzo che se ne sarebbe andato
nel giro di qualche mese.
-Non credo, ma puoi sempre chiedere allo spacciatore qui in fondo
alla strada se ha bisogno di un collega.- Fece ironica, aggrottando appena le
sopracciglia.
Lui si voltò e le regalò il primoverosorriso da quando era lì, cosa che per
un attimo ladestabilizzò.
Maledetto Daniel King, che diavolo di sorriso da pubblicità del
dentifricio aveva?!
-Vuoi dire che la droga è arrivata anche in questo buco di posto?-
Il suo tono di voce fintamente incredulo la fece ridere suo malgrado. Quando se
ne accorse, smise subito e si schiarì la voce imbarazzata, -Incredibilmente sì,
i ragazzi l’hanno scoperta la settimana scorsa insieme al fuoco, è la novità
del momento.-
No, un attimo,fermitutti.
Stava davveroscherzandocon lui? Dov’era finita l’acidità?
Doveva riprendersiil prima possibile!
Il ragazzo le restituì un’occhiata compiaciuta che durò qualche
secondo di troppo e Jude iniziò a sentirsi vagamentea disagio.
Perché mai la stava fissando in quel modo? Aveva forse qualcosa di
strano addosso –accappatoio ridicolo a parte s’intendeva-? Stava per
incavolarsi di nuovo e gridargli contro che fissare le persone era da
maleducati, quando lui distolse lo sguardo e scosse la testa sorridendo,
-Divertiti a scuolaJudith.-
…Judith?
Judeaprì la bocca per dire qualcosa, ma si
ritrovò a boccheggiare come un pesce, in cerca di una replica che il suo
cervello non le suggerì.
Si riscosse da quello stato di trance solo quando vide una bassa
ragazzetta dai capelli rossi finire addosso a Daniel, che nel frattempo aveva
aperto la porta di casa per uscire.
-Oddio, scusa!-
La sua migliore amica, Maggie, aveva portato le manial viso rossaper la vergogna, gesto che compiva
sempre quando era nervosa.
-Ehi, nessun problema,tranquilla.- Daniel scrollò le spalle e accennò un mezzo
sorriso, prima di scansare la sua esile figura e riprendere a camminare.
Con una piccola notadiirritazione,
Jude si rese conto che un sorriso così gentile non lo aveva praticamente mai
rivolto a lei, nemmeno quando si era presentata a lui educatamente. Che cavolo
di problema aveva con lei?
-Ok, chi era quello?- Maggie riprese a respirare a faticaedindicò la porta appena richiusa ad
occhi sbarrati.
Non fosse stata la sua migliore amica, Jude l’avrebbe definita
patetica.
La guardò scettica, prima di sbuffare un po’ scocciata, -Secondo
te?-
Era assurdo, illogico e stupido, ma…era irritata dalla presenza diMeg.Non tanto perché, come al solito, era
arrivata quarantacinque minuti prima per scroccare da lei la colazione, quanto
per il fatto che, in parte per colpa del suo arrivo anticipato, non aveva
potuto rispondere nulla a Daniel. Anche se…a dire il veronon è chefosse sul punto di farlo, Meg le aveva
solo evitato di continuare a boccheggiare come una scema in cerca di qualsiasi
cosa da dirgli.
Grazie? Buona fortuna per il lavoro?
Non era riuscita a capire se il tono in cui aveva pronunciato il
suo nome era derisorio o semplicemente…amichevole.
Divertiti a scuola Judith.
Le era sembrato più la seconda, ma non lo avrebbe comunque dato
per certo.
-Quelloè il
figlio di Delia?- La sua amica era a dir poco sconvolta.
-No, guarda, era il postino…l’ho fatto entrare per farmi sbattere
sul tavolo, sai…- Sispostòi
capelli indietro e si fece aria con una mano fingendo un’improvvisa vampata di
calore, -Certo che era il figlio di Delia, Meg! Quale altro idiota potrebbe
uscire da casa mia a quest’ora del mattino?!-
Era quasi certa di aver perso la sua amica a metà del discorso,
non aveva smesso per un attimo di fissare la porta, -Oh porca miseria, non
scherzavi quando dicevi che era figo, per forza hai gli ormoni a mille!-
Strillò Meg estasiata, coprendosi la bocca con una mano. Per asciugarsi la
bava? Probabile, pensòJude.
Storse il naso contrariata, -Quali ormoni a mille? L’unica in
calore qui sei tu.- Sidiressein
cucina per mettere a scaldare del latte per lei e per Delia e Maggie la seguì
senza smettere di fare domande.
-Che vi siete detti fino ad ora? Quanti anni ha? Da dove viene?Ma…-
Finalmente si era fermata! Jude sollevò lo sguardo al cielo e
ringraziò chiunque fosse stato così generoso da aiutarla.
-Jude, ti sei fatta vedere così?- Meg spalancò la bocca e la
indicò con un indice piuttosto tremolante.
Ok, l’accappatoio di sua nonna non era bello e setoso come il suo
prezioso asciugamano rosa ricamato, ma non faceva nemmeno così schifo da
meritare una reazione del genere!
-Così come?- Abbassòlo sguardo stranita e soloin
quel momento si rese conto dellatragedia.
-Oh…merda!- Fu tutto ciò che riuscì a dire, mentre guardava
terrorizzata il blu del suo reggiseno fare capolino dall’orrendo tessuto grigio
topo che indossava.
Non aveva stretto abbastanza bene l’accappatoio in vita e quel
misero nodo fatto frettolosamente in bagnosi era pian piano allentato,
lasciandole scoperta buona parte delle gambe e i bordini in pizzo del
reggiseno.
Maledizione, ecco perché aveva sempre odiato gli accappatoi! Ed
ecco perché…oddio, ecco perché Daniel l’aveva fissata tanto a lungo prima di
uscire! E non aveva detto niente il bastardo, si era goduto in silenzio lo
spettacolo!
-Ammazzami.- Si schiaffeggiò la fronte da sola per la sua
scemenza, -Chissà quanto ci riderà su quello stronzo.- Mugolò avvampando al
solo pensiero.
Meg si sedette sullo sgabello di fronte a lei e si lasciò scappare
una risatina, -Su su, non essere così melodrammatica. Scommetto invece che cipenseràsu parecchio, avrà poco da
ridere.- La rossa sospirò sognante e appoggiò il mento al palmo della mano,
-Cosadareiper avere anche io un fisico come il
tuo…di te i ragazzi non ridono, ci fossi stata io al tuo posto avrebbe riso
sì.-
-Piantala di dire le tue solite idiozie.- Non le piaceva quando
Meg si autocriticava così, era una bella ragazza ma era troppo, troppo
insicura. –Vorrei averle io le tue forme, sono piatta come una tavola, di che
ti lamenti tu?!- Giacché faceva bella mostra di sé,Judeindicò eloquentemente il suo reggisenomolto imbottito. Merito di quel
meraviglioso push up se la sua seconda scarsa sembrava quasi unasecondapiena.
-Potresti fare la modella…- Borbottò semplicemente l’amicainrisposta.
Judith sbuffò, già stanca di quel discorso da bambini delle
elementari su chi fosse messa meglio fisicamente, molto simile all’infinito
“no, ti amo di più io” di due fidanzatini schifosamente smielati.
-Lasciamo perdereva.-Schioccò la lingua rassegnata, -Allora,
che ti faccio stamattina?- Ormai era diventata una specie di bar di fiducia per
Meg; i suoi genitori non facevano che litigare dalla mattina alla sera, per
questo lei, appena poteva, scappava a casa della sua migliore amicaJude, anche
la mattina presto per fare una colazione decente e in santa pace.
-Lefrittelle.-Maggiesporse il labbro come una bambina
piccola, -Lo sai che le adoro.-
Juderidacchiò divertita, mentre scuoteva la
testa davanti alla golosità della sua amica, -Lo so, loso. Frittelle
in arrivo!-
***
Non lo credeva possibile, eppure non era riuscita a sentire
neanche una parola della lezione di geografia, non aveva smesso nemmeno per un
secondo di pensare a…coso. Si rifiutava categoricamente di pensare
persino al suo nome, chiamarlo “coso” la faceva sentire meno stupida.
Chissà se aveva trovato un lavoro…nonce lovedeva sinceramente a contatto con i
clienti, in un negozio come commesso o in un bar a servire ai tavoli. Anche
se…quando voleva –raramente- sapeva essere gentile tutto
sommato, se avesse sorriso spontaneamente e con la stessa dolcezza
riservata aMaggiequella mattina, la clientela femminile
sarebbe di sicuro impazzita.
Si appoggiò al suo armadietto e sospirò scocciata; assurdo che
quell’essere avesse occupato per un’ora intera la sua mente, doveva pensare ad
altro!
-Jude!-
L’aveva proprio chiamata lasfiga: il suo secondo incubo personale.
Un momento, ma da quando quello scocciatore di Edward Russo era
diventatosecondo?
Da quando al primo posto c’ècoso.
-Chevuoi,Russo?-
Mantenere le distanze sempre e comunque con un ragazzo più appiccicoso di una
cozza.
Lui le passò un braccio intorno alle spalle e sorrise sornione,
-La tua canzone!-
Judefu quasi tentata di staccarglielo a morsi
quell’ingombrante e pesante arto superiore,-Edward…- Si portòle dita alle tempie esasperata, -Non
le voglio sentire le tue dannatissime canzoni d’amore, lo vuoi capire?!-
Lui nonl’ascoltò nemmeno, come sempre del resto, -Questa è
italiana, probabilmente non la capirai, ma poi ti spiego che dice!-
Odiava quel ragazzo, le sembrava di parlare al vento quandoparlavacon lui. Lo odiava da quando, durante
la prima lezione di francese, le aveva detto “Jet’aime” davanti a tutta la classe, facendo scoppiare a ridere
persino l’insegnante.
Judesi era vergognata come mai in vita sua,
era diventata rossa come i capelli diMaggiee lo
aveva colpito sulla schiena con l’obeso(credeteci, lo era) e immenso
“Dizionario per Studenti di francese” per vendicarsi.
Non sopportava certe scenette plateali, non sopportava qualsiasi
forma di romanticismo che la mettesse al centro
dell’attenzione.
Probabilmente, seadun ragazzo
fosse venuta labrillanteidea di cantarle una canzone sotto
casa come nei film, lei gli avrebbe scaraventato contro il suo televisore ed il
suo stereo pur di ferirlo e farlo smettere.
-Sì, certo, perché non vai a cantarla a ClaireMcGallagher?
Mi sembra un tantino scontenta questa mattina.- Propose lei speranzosa,
indicando con il mento la ragazza che la stava trucidando con lo sguardo
dall’altra parte del corridoio.
Logico che Claire fosse scontenta; quellatroiettaaveva fin da subito puntato gli occhi
su Edward e il fatto che lui avesse il suo braccio da scimmia poggiato su di
lei non rendeva particolarmente entusiasta la bionda e pateticacheerleader.
Edward la ignorò di nuovo, si mise una mano sul cuore e iniziò a
cantarle, più stonato che mai, -E svegliarsi la mattina, ah…tuturuturututu, con la voglia di parlare, solo conteee!-La indicò convintoedammiccò, mentreJudesi guardava intorno imbarazzata.
Mio Dio, questa è purepeggiodelle
altre!
Non voleva nemmeno sapere che diceva, non le serviva la
traduzione, ne aveva già abbastanza, -Ed, Ed, Ed!- Lo interruppe in fretta,
prima che intorno a loro si formasse un cerchio di curiosi impiccioni,-Tralasciando il fatto
cheè orrenda, ti
suggerisco di andare a cantarla a qualcun’altra se non vuoi ricevere un pugno
dritto sui denti.-
Ed eccolo ancora lì, come ogni mattina, sempre la stessa identica
storia: Edward cercava di conquistarla, nemmeno lei sapeva il perché, con
un’altra canzone d’amore.
All’inizio aveva pensato che fosse il suo orgoglio da maschio
respinto spingerloadumiliarsi
così per corteggiarla: lei era una delle poche che non sbavava dietro a quel
bel fisichetto da giocatore di basket che si ritrovava, quindi aveva ipotizzato
che lui volesse conquistarla semplicemente per dimostrare a sé stesso e a tutta
la scuola che nessuna ragazza potesse resistergli.
Poi però la cosa era diventata fin troppo insistente e sospetta,
tanto che Meg aveva iniziatoadinsinuarle
il dubbio che Edward potesse davvero essersi preso una cotta per lei. Il motivo
di quell’interesse così duraturoJudenon era
ancorariuscitaa capirlo, probabilmente Edward aveva
chiare tendenze suicide.
Non che lei si considerasse così brutta da non poter attirare
l’attenzione di un ragazzo, tutt’altro, era piuttosto sicura di sé e si piaceva
fisicamente, ma era anche abbastanza intelligente da fiutare qualcosa di
sospetto nel comportamento del ragazzo.
Solitamente i ragazzia cuiaveva
dato un due di picche si erano arresi subito ed erano andati altrove a cercare
qualcuna disposta a darla su un piatto d’argento, Edward invece continuava
senza sosta da quasi un anno.
Perché con tutte le ragazze carine che gli ronzavano intorno, lui
perdeva tempo con lei? Che aveva fatto per beccarsi quella piaga?
-Non ti piace?- Lui non se la prese, era abituato al suo modo
scontroso di fare. –Vuoi sapere che dice?- Le sorrise a due centimetri dal viso
e fece per avvicinarsi ulteriormente…-AH! Ahia!- Con il risultato che la sua
crestina bionda da deficientevenneafferrata
con forza dalla mano della sua bella.
-Vuoi sparire o no, idiota?!- Provò un
sadico piacere nel dirlo, mentre tirava con decisione quei patetici ed ingellatipeletti che aveva in testa.
-Va bene,vabene, va
bene!- Si arrese lui, implorandola con lo sguardo di lasciarlo andare.
Le dispiacque quasi rilasciarlo, era un piacevole antistress
maltrattarlo.
-Accidenti piccola, sei veramente violenta!-Edil modo in cui lo disse, così
ammiccante, le fece venir voglia di mostrarsi ancora più aggressiva.
-Fila alezione cretino, la campanella è già suonata!- Ormai non
sapeva più che fare con lui, né gli insulti, né tantomeno la violenza,
servivano a tenerlo lontano.
-Sissignora!- Ridacchiò mettendosi sull’attenti, prima di mandarle
un bacio con la mano e disparire dalla sua vistaalla
velocità di SpeedyGonzalez.
Che liberazione! Se non altro lo stress dovuto a quel deficiente
di Russo, le aveva fatto scordarecoso,
almeno per un po’…
***
-Cioè, fammi capire…- Jason Dylan alzòle folte
sopracciglia scure confuso, -Il figlio di Delia ora vive con voi e dorme
nella tua stanza?-
Avrebbe volentieri strozzato Meg per aver informato il loro amico
di quel particolare, non era tanto in vena di parlarne.
Sbuffò contrariataedincrociò le
braccia al petto, -Esatto.-
-Luidorme
nellatuacamera? Ed è ancora vivo?- Jason rise
e si sporse per fregare una patatina dal piatto diMaggie,
ignorando bellamente il suo ”Ehi” di protesta, -Massima stima per questo
tizio.- Commentò annuendo ammirato.
-Che carino!Matu da che
parte stai scusa?- Lo accusò Judith stizzita.
-Latua, cherié, sempre e comunque. Ma non
posso che essere solidale con un poveraccio che sopporta i tuoideliziosimomentidiisteria.- Ridacchiò piano, per evitare
di offenderla troppo e di beccarsi quindi qualcosa di doloroso in faccia,
-Bisogna poi ammettere che se è ancora vivo e con tutti i capelli in testa è da
stimare.-
Ogni riferimento a Edward Russo e ai suoi capelli tirati era
puramente casuale.
-Guarda che io non sono così psicopatica da tirare i capelli al
primo che passa,eh.-Mordeva
solo se stuzzicata, era una persona di natura pacifica lei. Erano Edward ecosoa farla sclerare.
-No, ma al primo che osa sfiorare qualcosa di tuosì.-Jason fece spallucce.
Certo che sì,eramolto
gelosa dei suoi effetti personali, che c’era di strano?
-La fai facile tu, non hai un perfetto estraneo in camera.- Mise
su un broncio offeso che la fece sentire un po’ una bambina.
-No, infatti, ma so per certo che se avessi unaperfettaestranea in camera non stareia perderetempo per lamentarmi.- Sghignazzò lui
soddisfatto.
-Jay, sei il solito porco!- Meg gli assestò un pugno sul
braccio, -Pensi solo a quello, fai schifo!-
-Che volete che vi dica, sono un uomo, ho le mie esigenze.- Si
spostò un ciuffo di capelli con fare teatrale. Il solito buffone.
SiaMaggiecheJudeci
misero poco a cedere e a lasciarsi sfuggire un sorriso. Jason era Jason, c’era
poco da fare. Dovevano tenerselo così.
-Allora, che ti ha cantato questa mattina Edward?- Scherzò il suo
amico, cambiando discorso come se nulla fosse.
Sì, i suoi amici eranoal correntedell’inquietante
fissa del giocatore di basket per lei. In pratica lo sapeva tutta la scuola.
Judesi appoggiò allo schienale della sedia e
lo guardò eloquentemente.
-Era così brutta?- Meg si portò l’unghia del pollice alla boccaedincominciò a mangiucchiarla come
sempre.
-Terribile. Non ho capito nemmeno che mi ha detto, ha cantato in
italiano questa mattina.-
Jason scoppiò a ridere così forte da attirare l’attenzione di un
gruppo di ragazzinedelprimo
anno, -Ma che romantico! E fammi indovinare…ti ha portato degli spaghetti e
delle polpette per caso? Aveva una fisarmonica con sé?-
-Jay…- Lo richiamò Judith con voce bassa e -sperava che lo
fosse- minacciosa.
-Vi siete baciati mentre mangiavate lo stesso spaghetto? E lui con
il naso ti ha spinto una polpetta nella…-
-Jay!- Strillò, questa volta più forte.SantoCielo, che amico cretino che aveva!
-Jay, hai un’idea un po’ troppo stereotipata degli italiani,
non tutti hanno dei baffoni e una fisarmonica.- Rise Meg, ignorando lo sguardo
omicida della sua migliore amica.
-Mi sono lasciato influenzare dalla Disney…- Jason annuì
pensieroso, -Ad ogni modo nonpuoinegare
che questa versione di te e Edward comeLillye il
Vagabondo fosse esilarante!-
La mora socchiusegli occhi infastidita, poi rilassò i lineamenti e sorrise a
sua volta, -No, direi di no. Oddio, ci mancava solo che mi portasse degli
spaghetti a scuola, glieli avreispalmatiin
faccia!-
Risero tutti e treadimmaginarsi
la scena, sapevano cheJudelo
avrebbe fatto sul serio.
Il suono della campanella che annunciava la fine della pausa
pranzo, spense quel breve moto d’ilarità e li fece tornare seri.
-Che palle,di già?- Protestò Meg, alzandosi con il suo vassoio per
svuotarlo.
-Ragazze, solita serata cinema domani?- Chiese di sfuggita Jason,
scattando a sua volta in piedi per non tardare a lezione.
-Ovvio, come sempre. Che si vede?-Judesi rivolse a Meg, esperta di cinema e
perennemente sintonizzata suComingSoon.
-Ho visto il trailer del nuovo film di Justin Timberlake, Intime,miispira.-
Raccontòloro brevemente la trama e alla fine li
convinse ad optare per quello.
Si misero d’accordo per l’orario e si salutarono affranti nel
corridoio, prontiadincominciare
con le lezioni del pomeriggio.
***
L’orologio ticchettava fastidioso sopra la testa dell’uomo da
almeno venti minuti buoni, eppure non ne sembrava minimamente infastidito a
differenza del suo interlocutore.
Daniel trattenne a stento uno sbuffo e si appoggiò con
l’avambraccio destro alla scrivania davanti a sé, -Posso incominciare già da
ora?-Chiese
impaziente, squadrando attentamente il volto del suo futuro capo.
Questi annuì pensieroso, senza distogliere nemmeno per un attimo
lo sguardo dal curriculum del ragazzo. Ottimo,ottimocurriculum.
Daniel King si era diplomato con una media altissima di votiedaveva già svolto una serie di
incarichi che non lo rendevano affatto un novizio nel mondo del lavoro,
tutt’altro.
-Quanto hai detto che intendi restare qui, ragazzo?- Gli domandò
grattandosi il mento.
Lui si passò una mano fra i capelli nervosamente e sospirò,
-Qualche mese, non so ancora dirle con esattezza quanti.- Il tempo necessario
perché sua madre guarisse o…incrociò le braccia al petto e strinse le mani a
pugno con forza nel pensare all’altra eventualità.
Cercava di pensarci il meno possibile, perché ogni volta che lofacevaera come ricevere un pugno dritto
nello stomaco, ma era difficile ignorarlo del tutto.
-Capisco.- Trevor Donovan assentì nuovamente con il capo,
alzandosi in piedi e porgendo la mano al suo nuovo giovane dipendente.
-Beh Daniel…sono sicuro che ti troverai bene qui, ho visto poi che
hai già lavorato come cameriere. Per qualsiasi cosa chiedi pure aBeckye Nate, saranno felici di aiutarti.-
Daniel ricambiò la stretta e sorrise soddisfatto, -Grazie mille
signor Donovan, farò del mio meglio.- Frase fatta, ma sempre d’effetto.
Era veramente grato a quell’uomo per averlo assunto, gli serviva
davvero un minimo d’indipendenza economica per quei mesi.
Aveva avuto altri colloqui quella mattina, ma nessuno aveva
portatoadun impiego; non appena parlava della
sua permanenza temporanea, veniva congedato sempre con la stessa frase:
“Cerchiamo qualcuno che rimanga per più tempo”.
Era una fortuna che Trevor Donovan stesse cercando qualcuno per
sostituire solo momentaneamente la ragazza che serviva ai tavoli,Eleanor,
rimasta a casa perché incinta.
La paga non era un granché, ma era abbastanzaperpotersi permettere di portare i suoi
vestiti in lavanderia e comprare prodotti per il bagno (di certo non avrebbe
usato lo shampoo alla fragola di quella pazza isterica), cibo, ricariche per il
telefono e magari anche qualche asciugamano…
Scosse la testa e passò lo straccio sul tavolo all’angolo:
ripensare a quella ridicola e orrenda salvietta rosa con quella “J” ricamatacisopralo fece sorridere.
Automaticamente volò con la testa al ricordo di quell’accappatoio
grigio che indossava la pazzoide quella mattina…eradieci volte più grande di lei, eppure
non era bastato a coprire quelle snelle e lunghe gambe...
Deglutì a vuoto e diede uno strattone un po’ troppo forte che fece
cadere accidentalmente la saliera sul tavolo.
‘Fanculo.
Sorrise a mo’ di scuse aBeckyche lo
stava tenendo d’occhio da dietro il bancone.
La bionda, che doveva avere al massimo23anni, sospirò e fece un piccolo cenno
con la mano divertita, -Tranquillo, io il mio primo giorno ho fatto pure di
peggio.-
Confortante saperlo. Se non altro non era istericaedincazzosa come qualcun altro di sua
conoscenza.
Sbuffò per scaricare la tensione e si accinse a pulire quel
casino: purtroppo aveva ancora fin troppo chiara in mente l’immagine di Judith
mezza nuda e sorridente.
Probabilmente lei non se n’era nemmeno accorta, lui sìperò. Aveva
notato eccome il modo in cui le sue braccia incrociate schiacciavano il suo
piccolo seno facendolo sembrare più grosso, aveva scoperto subito i contorni
del reggiseno, aveva seguito avidamente con lo sguardo la linea del collo fino
ad arrivare a quel bordino blu in pizzo, scoprendosi poi fin troppo deluso nel
trovare il resto della sua pelle coperta da quell’ingombrante e vecchia stoffa.
Se non altro si era potuto consolare con l’allettante visione
delle gambe, anche se aveva potuto vedere ben poco…poco rispetto a quello che
avrebbe voluto vedere.
Era pur sempre un uomo e, anche se gli seccava ammetterlo, la
pazzoide aveva un fisichetto niente male. Peccato solo per il carattere,
veramente pessimo.
Sicuramente gli avrebbe fatto una sceneggiata se si fosse accorta
del suo sguardo, per quello aveva smesso, a fatica, di fissarla e l’aveva
congedata velocemente conun “Divertitia
scuola Judith” prima che potesse incominciare a strillargli contro.
-Ehi!-
Dan alzò la testa e lo posò gli occhi su un ragazzo dai capelli
neri che lo stava fissando divertito.
Non era di sicuro un cliente, l’avrebbe visto –e sentito, dato lo
scampanellio insopportabile che accompagnava l’entrata di qualcuno nel locale-
entrare dalla porta in vetro d’ingresso.
Probabilmente doveva essere l’altro ragazzo che lavorava lì, il
tizio di cui gli aveva parlato Trevor.
-Daniel, vero? Io sonoNate.-
Ricambiò svogliatamente il sorriso e abbandonò lo straccio sul
tavolo per stringergli la mano, -Sì,ciao.-
-Sei nuovo di qui?- Nate lo studiò attentamente, quasi cercasse di
ricordarsi se l’avesse già visto da qualche parte.
Grandioso. Era unoa cuipiaceva
conversare, cosa che Dan avrebbe preferito di gran lunga evitare.
-Sì.-
-Da dove vienidibello?-
Il locale erapraticamentedeserto
a quell’ora, si riempiva principalmente la mattina e all’ora di pranzo, quindi
c’era ben poco da sperare che Nate trovasse qualcosa da fare e la smettesse di
rompere.
-NewYork.-Il solo pronunciare quel nome gli fece
venire una fitta di nostalgia allo stomaco.
-Figo! Ci sono stato una volta!-
Incredibile, un abitante di quel buco di posto che era statouna voltaa New York, stava per commuoversi
dalla gioia.
-Senti, stasera io eBeckyandiamo
a berci unabirrettaal pub in fondo alla strada…ti va di
venire?-
Stava già per rispondere precipitosamente di no, quando l’idea di
passare la serata a casa con quella famiglia perfetta, triste e pallosa lo fece
sorridere appena in direzione del suo nuovo collega.
-Perchéno.-Non gli
avrebbe di certo fatto male uscire con i suoi nuovi colleghi.
*Note dell’autrice*
Lo so che molto probabilmente non eraquestoaggiornamento che vi aspettavate,
ma…sto lavorando a tutto, non trascurerò nulla.
Sto scrivendo il seguito diKidnapped, il prossimo capitolo di Emma e sto scrivendo suLoree Ali (e a questo proposito,
probabilmente lunedì, se riesco, pubblicherò il prossimo capitolo di Tra l’odio
e l’amorepovLore).
Per quanto riguarda questo capitolo…è particolarmente lungo e
noioso, ma è solo di passaggio, per introdurre il prossimo, dovesiinizieranno a spiegare un po’ di cose,
a partire dall’astio che Dan prova per la madre.
Dunque, ricapitolando, in questo capitolo si
conoscono nuovi personaggi, tra cui il mitico, meraviglioso –lasciatemelo dire-
Edward! E’ più forte di me, lo adoro, sto progettando di fargli conquistare il
mondo con le sue canzoni! E a proposito di canzoni, avete riconosciuto
“Svegliarsi la mattina” degli Zero Assoluto, vero?:D
Povero Ed, chissà seprima o poiJudith
si deciderà a dargli un’opportunità…
Coomunque,vengonopoi
introdotti anche gli amici diJude: Meg e Jason.
Di Jason non dovete preoccuparvi, ma di Meg forse sì…insomma,
avete visto che è rimasta particolarmente colpita da Dan, no?
Judeal momento è troppo cotta del fratello
maggiore della sua amica per accorgersene, maEvan(oh
arriverà anche lui prossimamente ;))sembra considerarla solo l’amica della
sua adorata sorellina….o forse no?
SuBeckye Nate
non vi dico nulla, a voi le supposizioni:Beckysiinteresserà
a Dan? Sarà una possibile rivale diJude? O forse sarà Nate un rivale di Dan? O forse saranno
semplicemente dei buoni amici per Dan?
Sappiate che sto scrivendo queste note solo per cercare di
depistarvi, le insinuazioni fatte sopra sono volutamente elusive, niente di
quello che hodettopotrebbe essere vero (a parte il fatto
cheJudeè effettivamente innamorata diEvan, questo
è esatto).
Beh, che altro dire? Non so davvero come ringraziarvi per aver letto
anche questo capitolo (sempre se siete riuscite ad arrivare fino in fondo…xD) e scusarmi nuovamente per l’attesa.
Ho risposto alle recensioni di due capitoli fa, entro domanisperodi riuscire a rispondere anche a
quelle dello scorso, arriverò presto comunque, promesso ;)
Colgo l’occasione per augurarvi un buon week end e unabuonaPasqua!
Quando Jude
ritornò a casa dopo la scuola, la prima cosa che sentì fu il rumore assordante
dell’aspirapolvere provenire dal salotto.
-Delia!- Protestò, precipitandosi immediatamente da lei con
l’intento di sottrarle l’oggetto dalle mani, -Sai che devi
riposare!- Non esisteva che si affaticasse per fare le pulizie, ci avrebbe
pensato lei, come sempre.
-Tesoro, tranquilla.-
Delia le sorrise materna, senza lasciar andare la
presa sull’aspirapolvere, -Ho quasi finito, davvero.- Lo sguardo della donna
era dolce, ma anche implorante. Voleva davvero essere d’aiuto, Jude sapeva quanto odiasse sentirsi un peso.
Sospirò e decise di lasciar perdere, -D’accordo, hai vinto. Ma
alla cena ci penso io, va bene?-
Delia ridacchiò e acconsentì,
prima di riprendere contenta come una bambina a pulire il salotto.
Nel frattempo, Judith si
dedicò ai compiti e telefonò Meg per una lunga chiacchierata: il fatto che si
fossero appena viste a scuola era irrilevante, c’era sempre qualche idiozia in
più da raccontare. Ogni scusa, poi, era buona per sentire la voce di Evan, rispondeva praticamente
sempre lui al telefono e Judith si era messa in testa che lo facesse di
proposito per sentirla, anche se era troppo timido per dirle qualcosa di
diverso dal solito “Ciao Jude, ti passo Meg”.
Jude. La chiamava Jude, come
poteva non esaltarsi nel sentirlo pronunciare il suo nome con una tale
dolcezza?
Torno in sé giusto in tempo
per rispondere a Meg senza sospirare sognante.
Finito di parlare con la sua
amica, si diresse in cucina canticchiando una canzone che aveva sentito quella
mattina alla radio.
Era particolarmente di buon
umore, sapere che Evan fosse a casa sua e non da
quella cornacchia della sua fidanzata l’aveva fatta sorridere come una scema
per tutto il tempo.
Aveva una voce stupenda quel
ragazzo…chissà come sarebbe stato sentirgli pronunciare qualche frase carina
rivolta a lei.
Sapeva da Maggie
che suo fratello la trovava carina, ma carina non era
abbastanza, lei voleva essere bellissima, perfetta ai suoi occhi. Così un
giorno Evan si sarebbe accorto di quanto
Michelle fosse stupida e insignificante rispetto a lei e l’avrebbe
lasciata.
Ridacchiò fra sé e sé ed aprì il frigo in cerca delle uova: quella sera avrebbe
cucinato per tutti la sua buonissima pasta alla carbonara; Edward Russo era
stato stranamente utile quando, per il suo compleanno, le aveva regalato un
libro di ricette italiane. Non era da lei, ma ricordò di averlo trovato un
gesto molto carino…senz’altro meglio del cd con sopra registrate “Le canzoni
natalizie dell’anno” cantate da lui che le aveva regalato a Natale.
Si raccolse
i lunghi e mossi capelli scuri in un’alta coda di cavallo e diede un’occhiata
all’orologio, chiedendosi per che ora suo padre e Daniel sarebbero rientrati
per cena.
Doveva darsi una mossa se
voleva far trovare tutto pronto per il loro arrivo.
Per un attimo, mentre pesava
la pasta, fu tentata di chiedere a Delia se a suo figlio piacesse e se fosse
per caso allergico a qualcosa.
Oltretutto non aveva la
minima idea di quanto fosse solito mangiare, non aveva fatto troppo caso a lui
nei pasti precedenti.
Scosse la testa e decise di
abbondare comunque con il dosaggio. In fondo, dopo una
giornata pesante di ricerca, sarebbe stato affamato, no? Chissà se alla fine
era riuscito a trovare un lavoro…
Il rumore della porta
d’ingresso la fece sobbalzare per lo spavento.
Si voltò giusto in tempo per
vedere suo padre baciare appassionatamente Delia sull’uscio.
Sorrise intenerita; se c’era qualcosa
capace di mettere da parte la sua acidità, era l’amore che suo padre e Delia
provavano l’uno per l’altra.
-Uhm, ma che buon profumino
tesoro!-
Si pavoneggiò non poco per il
complimento di suo padre: le piaceva cucinare e le piaceva
quando qualcuno si complimentava con lei, -Grazie, ma ancora non è pronto.-
Abbassò lo sguardo colpevole. Avrebbe dovuto sognare di meno su Evanad occhi aperti ed
incominciare prima a preparare.
-Oh nessun problema, vado a
farmi una doccia intanto.- La abbracciò e baciò sulla
tempia affettuoso, prima di uscire dalla stanza e salire al piano di sopra.
Venti minuti dopo la tavola
era apparecchiata e la pasta pronta. L’unico a mancare era…l’idiota.
-Sono preoccupata,
non sarà successo qualcosa?-
Si sforzò di sorridere
comprensiva a Delia e di non urlarle contro “Tuo figlio è un’immensa testa di
cazzo!”.
Che cavolo, poteva almeno avvisare!
Non aveva un cellulare come tutti i comuni mortali?
-Sono sicura di no, Delia,
stai tranquilla.-
Se non è finito sotto una macchina
ce lo butto io.
-Potremmo provare a chiamarlo.- Tentò di proporre, poggiando i palmi delle mani sul tavolo
per alzarsi.
Delia la guardò smarrita e
dispiaciuta per qualche secondo, -Non ho il suo numero.- Rispose infine, a voce
così bassa che Jude faticò a sentirla.
Che cosa?
Spalancò la bocca per chiederle
come diavolo fosse possibile che non avesse il numero di suo figlio, quando la
serratura della porta di casa scattò.
Si era salvato in corner, era
arrivato pochi secondi prima che uscisse lei stessa per cercarlo, prenderlo per
la collottola come i gatti e trascinarlo a casa a calci in culo.
Oltrepassato l’ingresso, Daniel
si voltò a guardarli sorpreso e stranito, chiedendosi perché si fossero tutti
improvvisamente focalizzati su di lui.
Sua madre si alzò dalla sedia
e gli venne in contro, gettandogli le braccia al collo in un abbraccio che lo
nauseò.
Si irrigidì e aspettò semplicemente che lei lo lasciasse
andare, cosa che fortunatamente avvenne presto.
-Ti stavamo aspettando per cena.- Spiegò lei timidamente,
sorridendogli come solo una madre poteva fare.
Cancellò quell’ultimo
pensiero e si fermò ad esaminare la tavola imbandita.
Non era abituato a vivere con
altre persone, non era abituato ad avere gente a casa
che gli preparava la cena e lo aspettava
tutta sorridente come se vivessero in una pubblicità e non esistesse nessun
problema al mondo, non era abituato a dover rendere conto di sé stesso ad
altri.
Era abituato a rientrare
all’ora che voleva, anche a tarda notte, nell’appartamento buio e freddo di New
York, era abituato ai post-it lasciati per la casa da suo padre che lo
avvisavano che lui non c’era, era abituato ai toast bruciacchiati che si
preparava velocemente a pranzo e alle scatolette di tonno per cena.
Si umettò
le labbra nervoso e un po’ a disagio, -Ah.- Perché
non la smettevano di fissarlo?
Persino Judith continuava a
guardarlo e sorridere da quando aveva visto sua madre abbracciarlo, un evento
più unico che raro.
-Beh, io comunque devo uscire
adesso.- Si era messo d’accordo con Nate e Becky per cenare fuori e non aveva intenzione di dar loro
buca per una cenetta da famigliola fintamente felice.
Il 21 dicembre 2012? Una
cazzata. Se qualcuno avesse visto la faccia di Jude
in quel momento avrebbe creduto che l’Apocalisse fosse
arrivata in quel preciso istante.
-Stai scherzando spero.- Chiunque con un minimo di amor proprio avrebbe risposto di
sì, anche perché Judith, essendo ancora seduta a tavola, aveva dei coltelli
pericolosamente vicini e a portata di mano.
Daniel, però, stuzzicato dal
pensiero di mettersi nuovamente contro di lei e farla ulteriormente arrabbiare,
preferì giocare con il fuoco.
Alzò un sopracciglio ed incrociò le braccia al petto con fare strafottente, -Assolutamente
no. Non vedo come abbiate potuto pensare che io avessi voglia di cenare qui con
voi.- Non doveva niente a quei due, Richard e Judith
Parker non erano suoi parenti e sua madre…sua madre non poteva pretendere nulla
da lui dopo quello che aveva fatto.
Jude, invece, non credeva alle proprie orecchie. Tutti i
propositi di andare d’accordo con lui erano sfumati in un attimo, aveva avuto
ragione su Daniel, non era stato il suo carattere
eccessivamente acido a farglielo etichettare fin da subito come uno stronzo
insensibile.
Come poteva comportarsi in
quel modo dopo che tutti in quella casa avevano fatto il possibile per farlo sentire a suo agio e aiutarlo?
Guardò la sua pasta
scioccamente dispiaciuta. Mentre cucinava, aveva pensato più di una volta alla
faccia che avrebbe fatto lui dopo averla assaggiata, aveva immaginato di
vederlo sgranare gli occhi sorpreso e colpito da uno dei piatti più buoni che
avesse mai mangiato.
Aveva immaginato di vederlo sorridere, di sentirsi
fare qualche stentato complimento e di compiacersi per quello.
Aveva sperato che dopo quella pseudo conversazione civile di quella mattina le cose
fossero un tantino migliorate, che lui avrebbe smesso di comportarsi così.
Era stata un’idiota, si
vergognava da morire di averlo anche solo potuto credere.
-Sai che ti dico?- La voce le
uscì bassa e con una punta di delusione, nascosta ben bene dall’irritazione.
-Jude…-
Ignorò il richiamo di suo
padre e proseguì imperterrita, -Arrangiati. D’ora in avanti vorrà dire che non
ti aspetteremo più, d’ora in avanti vorrà dire che ti preparerai da solo la cena.-
Vide di sfuggita Delia
portarsi una mano al viso affranta; probabilmente non si aspettava e non voleva
che le cose andassero così. Del resto, non era mica colpa sua se aveva un
figlio cafone.
L’espressione strafottente di
Daniel non se ne andò, tutt’altro, si accentuò, -Perfetto, non chiedo altro. Grazie.- Sibilò
in risposta, schioccando la lingua arrogante e voltandosi con l’intento di
andarsene.
A Jude
per poco non venne una crisi isterica nel sentirlo addirittura sbattere la
porta d’ingresso…ma come diavolo si permetteva?!
-Jude, io…mi dispiace.- Mormorò
Delia, dopo un pesante minuto di silenzio.
La ragazza scosse la testa, i
lunghi e mossi capelli ondeggiarono lievemente a quel gesto, -Non è colpa tua.- Disse semplicemente, mordendosi il labbro, -Mangiamo?-
Propose poi, sforzandosi di sorridere per spezzare la tensione che si era
creata.
Nessuno parlò durante la
cena, altro fatto che non fece che accrescere l’antipatia di Jude per Daniel.
Non era abituata al silenzio,
lei. Era abituata a parlare, ad essere ascoltata, ad
osservare le reazioni degli altri mentre lo faceva.
Se avesse parlato quella
sera, nessuno l’avrebbe ascoltata. Non con attenzione almeno.
Si chiuse in camera sua dopo
cena, con un diavolo per capello e la voglia di prendere a pugni la prima cosa
che le capitasse a tiro.
Non bastava vedere suo padre
così triste, non bastava vedere Delia sofferente…ci si metteva pure quel
cretino con quelle sceneggiate a peggiorare l’umore generale della casa!
Si buttò sul suo
letto-brandina, incrociando le braccia sul cuscino e poggiando il mento sul
dorso della mano.
Chissà dove diavolo era
andato poi…era appena arrivato, che impegni poteva aver preso e con chi? Forse
l’aveva fatto solo per capriccio, pur di non cenare con loro avrebbe preferito
farlo fuori da solo, magari in qualche fast-food.
Strinse la stoffa del cuscino
fra le dita; li odiava davvero così tanto? Perché?
Ok, poteva capire che vedere
sua madre felice accanto ad un altro uomo non fosse semplice per lui, ma…Santo Cielo, aveva diciannove anni, non cinque! Poteva provare a comportarsi da adulto!
Lei e suo padre avevano
cercato di essere gentili, gli avevano lasciato la sua stanza e Delia…Delia era
sua madre, era malata, perché era tanto ostile con lei? Cosa gli aveva fatto?
Si alzò di scatto sui gomiti e
fissò ad occhi sgranati il televisore spento davanti a
sé.
Ma certo!
Non aveva mai preso in
considerazione l’idea che Delia potesse aver fatto qualcosa a Daniel, non si
era mai soffermata troppo a pensarci su, eppure…sembrava proprio che le cose
fossero andate così. Doveva essere successo qualcosa fra loro due, ecco perché Delia
non le aveva mai raccontato molto di lui, ecco perché non ricordava di averla
mai nemmeno sentita parlare al telefono con suo figlio prima che andasse a
vivere con loro.
Non ho il suo numero.
Come poteva una madre non
avere il numero di suo figlio? Non lo aveva davvero mai chiamato in tutti
quegli anni?
Ci doveva essere per forza
una motivazione dietro al comportamento antipatico di Daniel, una motivazione
che Jude era intenzionata a scoprire.
********
Non credeva che quel posto ai
suoi occhi potesse risultare ancora più triste di
quanto l’avesse trovato al suo arrivo.
Se di giorno gli era sembrato
desolato e noioso, la sera era decisamente peggio:
poca gente in giro, locali mezzi vuoti e musica sconosciuta e scadente in
sottofondo.
O almeno, così era al “The
Corner”, luci soffuse – troppo
soffuse, rischiava di addormentarsi – e colorate – neanche fossero ad una festa per bambini –, divanetti rossi in pelle e un’ampia
vetrata che dava sulla strada alla sua destra. Una semplice tavola calda
mascherata da pub la sera.
Sorseggiò un altro po’ della
sua birra, lo sguardo assente puntato su una ragazza piuttosto carina seduta
con un’amica ad un tavolo più avanti.
-Ehi ragazzino, non ti sembra
di esagerare?-
Nate gli diede
un colpo amichevole sul braccio, senza smettere di sorridere, -Ai
ventuno ti mancano ancora un paio di anni…-
Dan lo guardò di sottecchi, il sopracciglio lievemente alzato. Che cavolo di
ragazzo era quello? Che fine avevano fatto i giovani
che si ubriacavano di nascosto dai genitori?
Nemmeno suo padre si era mai
messo a fargli la predica su quanto bevesse, anzi, gli offriva spesso e
volentieri da bere la sera quando rincasava con qualche bottiglia comprata al
supermercato.
-Pure la gioventù è vecchia
qui…- Borbottò fra sé e sé, riportandosi la bottiglia alle labbra.
Nate rise,
non capì se per la sua frase o per qualcosa detto da Becky.
Non gli importava comunque scoprirlo, non si sentiva particolarmente di
compagnia quella sera. Probabilmente non lo sarebbe mai stato, nemmeno nei
giorni successivi.
Se non altro aveva evitato di
trascorrere la serata con la “famigliola felice”, solo ad
immaginare un’altra cena con loro rabbrividiva di disgusto.
Un’altra
imbarazzante cena silenziosa, gli sguardi di tutti rivolti a lui, le domande
forzate di Jude, i patetici tentativi di Richard di
stargli simpatico, i flebili
sorrisi di sua madre.
Si era sentito come un
perfetto estraneo per tutto il tempo, come un ospite indesiderato, preso a
forza e messo in un quadretto in cui non c’entrava nulla. Una
chiazza nera di china al centro di un dipinto a colori.
-Dove hai detto che vivi Daniel?-
Puntò gli occhi sul viso
rilassato di Becky, soffermandosi per un secondo di
troppo ad esaminare una ciocca bionda che le ricadeva
sugli occhi azzurrissimi.
Valutò l’ipotesi di darle
l’indirizzo sbagliato, giusto per evitare di confessare che viveva nella Casa
delle Bambole con la brutta copia della famiglia Camden*,
ma poi concluse che in fondo dell’opinione di Becky gli importava poco, -Al 2 di Quarry
Park Road.-
La ragazza annuì pensierosa,
alzando di poco il mento e corrucciando le labbra, -Ah, la casettina blu
all’angolo…-
Non aveva avuto dubbi sul
fatto che in quella insignificante cittadina
conoscessero persino ogni singola abitazione.
Se a New York avesse dato il
suo indirizzo a qualcuno, praticamente nessuno gli
avrebbe risposto “Ah, il palazzo con la vernice grigia scrostata, quello
decadente!”
Dan fece un vago gesto
derisorio con la mano, -Proprio quella…-
Purtroppo.
Nate si sporse
in avanti sul tavolo e, dopo aver poggiato il mento sul palmo della mano,
sbatté le palpebre perplesso, -Un momento…quindi vivi sotto lo stesso tetto del
Dottor Parker?-
Rischiò quasi di strozzarsi
con la birra a quell’uscita, -Dottore?!Quello? - Il tono di voce era
palesemente incredulo e sarcastico. Quella emerita faccia da idiota con cui
stava sua madre era un medico? E dove cavolo aveva
preso la Laurea?
I suoi colleghi annuirono,
-Sì, è anche abbastanza conosciuto e stimato.- Nate si
passò una mano fra i capelli per spettinarseli sovrappensiero, -Ma tu che ci
stai a fare lì scusa? Sei un suo parente?- Dei due era sicuramente il più
pettegolo, Daniel si appuntò mentalmente di evitare di incoraggiare qualsiasi
tipo di conversazione con lui.
-Lunga storia.- Stese le
labbra in un fugace e seccato sorriso, prima di distogliere lo sguardo da loro
per puntarlo sulla strada, nella speranza che capissero che non aveva voglia di
parlarne.
-Mmm, enigmatico.- Commentò Becky divertita, alzando la mano per ordinare altre tre
birre al cameriere, -Alle ragazze piace.- Ridacchiò e diede una lieve spinta al suo vicino di posto, -Impara da lui Nathaniel, sii meno appiccicoso, logorroico e monotono e
più misterioso…vedrai come cadranno ai tuoi piedi.-
Per la prima e – sicuramente
– ultima volta nella serata Dan si lasciò scappare una risata non appena vide
il volto corrucciato di Nate.
-Pff, le donne impazziscono
per la mia parlantina.- Si difese il moro, scrollando le spalle come una primadonna
offesa.
-Impazziscono e basta.- Fu la
replica della bionda, che prese una delle birre appena arrivate e la alzò in
aria in un brindisi immaginario.
Dan ricambiò il gesto poco
dopo e si ritrovò a pensare, suo malgrado, che in fondo i due provincialotti
con cui aveva a che fare non erano male come temeva.
********
A farla svegliare di
soprassalto fu un rumore proveniente dalle scale, come se... –batté le palpebre
assonnata – come se qualcosa fosse caduto sulla
soffice moquette che ricopriva gli scalini.
Scostò le coperte e buttò le
gambe giù dal letto, barcollando appena quando riuscì ad alzarsi in piedi. Suo
padre e Delia dormivano profondamente, non sembravano essersi accorti di nulla.
Lanciò una rapida occhiata
alla radiosveglia sul comodino della donna e aggrottò la fronte confusa; chi diavolo poteva essere alle tre del mattino?
Sbuffò. Quasi sicuramente era
quel cretino di Daniel, probabilmente si era alzato per andare giù in cucina a
bere qualcosa.
Aprì la porta della stanza e
si affacciò titubante sul corridoio, reprimendo in gola un urlo quando, nella
penombra, riuscì a scorgere una sagoma nera.
-Che diavolo…?!- Ansimò, la voce strozzata
per lo spavento. Il cuore le batteva così forte che pensò che le sarebbe
esploso da un momento all’altro.
-Che cazzo ci fai ancora
sveglia, vai a letto…- Borbottò in risposta la sagoma, che altri non era che un
parecchio scazzato e addormentato Daniel.
C’era dell’altro però…Jude non lo comprese subito, dovette aspettare di
riprendersi dalla paura per notarlo. La voce impastata e cantilenante,
il modo di camminare, il rumore sulle scale…era inciampato sulle scale.
Vuoi vedere che questo idiota…!
-Ma tu…- Lottò indecisa fra
la voglia di arrabbiarsi e la voglia di lasciar perdere
e tornarsene nel calduccio invitante del suo letto, -Sei ubriaco.- Concluse, la
bocca aperta in una O incredula.
Era più che certa che, se si
fosse avvicinata al suo viso, avrebbe sentito quell’inconfondibile odore di
alcol che lei tanto odiava.
Ma che ora, per qualche inspiegabile
motivo, la attirava.
In risposta le arrivò una bassa ed inquietante risatina
che le fece venire la pelle d’oca. Se Daniel avesse avuto in mano un coltello,
sarebbe stato il protagonista perfetto per un film horror, molto convincente.
Eppure…non fu un brivido di paura a percorrerle la schiena, ma qualcos’altro su
cui Jude non volle indagare.
-Perspicace. Vai a letto bambolina e fatti i cazzi tuoi.- Lo vide
sorridere di sbieco, prima di aprire la porta della sua stanza e sparire al suo interno.
Rimase per un po’ immobile a
fissare quello stesso punto, la voglia di infilarsi a sua volta in quella
stanza per incazzarsi e sgridarlo sempre più pressante.
Poi si disse che non sarebbe
stata una buona idea entrare nella camera da letto di
un ragazzo ubriaco che non conosceva bene alle quattro del mattino. Sarebbe
stato da irresponsabile, sarebbe stato sciocco, avrebbe potuto rimproverarlo il
giorno dopo.
Eppure, prima di tornare a
letto, stette per un minuto buono a tormentarsi a quell’idea. Forse perché, in
cuor suo, la cosa la allettava più di quanto lei stessa volesse credere.
*La famiglia Camden è la protagonista del
Telefilm Settimo Cielo.
Note dell’autrice:
Beh dai, se non altro è passato meno di un altro anno,
no? xD
E ho il prossimo capitolo già quasi pronto, doveva
essere il continuo di questo, ma ho deciso di spezzarlo per non renderlo troppo
lungo.
Dunque…che dire? Il capitolo
è chiaramente di passaggio, nel prossimo si può dire che si smuoveranno veramente (e finalmente) le cose.
Ancora non si sa perché Dan odi così
tanto la madre, ma Jude sembra aver finalmente
capito che qualcosa è successo fra quei due e che il comportamento di Dan deve
avere per forza una giustificazione. È intenzionata a scoprirlo e quando si
mette in testa una cosa...
Per quanto riguarda Daniel invece…è ancora molto
enigmatico, non si capisce molto dai suoi pensieri, ma presto diventerà più
semplice anche per voi comprenderlo.
Spero che il capitolo vi sia piaciuto, ho notato che
questa storia è un po’ meno amata delle altre, ma vi assicuro che non avete
ancora visto nulla, è come se la storia dovesse ancora realmente iniziare e
vedrete nei prossimi capitoli ;)
Grazie infinite per i meravigliosi commenti allo
scorso capitolo e per il vostro sostegno, ho iniziato a rispondere a qualcuno
e, molto probabilmente, comincerò a rispondere anche ad
eventuali capitoli in questo per portarmi avanti xD
Ah, per chi non l’avesse notato, ieri ho pubblicato il
primo
Extra di Tra l’odio e l’amore. Spero di riuscire a postarne presto degli
altri (:
Capitolo 6 *** Serious&Stupid things to talk about ***
La mattina seguente Jude si alzò con un tremendo mal di testa, quasi
fosse stata lei ad ubriacarsi la sera prima
Capitolo
5: Serious&Stupid
things to talk about
La mattina seguente Jude si
alzò con un tremendo mal di testa, quasi fosse stata lei ad
ubriacarsi la sera prima.
Spalancò gli occhi di colpo
quando si ricordò di quell’incontro notturno in corridoio.
Chissà in che condizioni
pietose si trovava il signorino…
E dire che lo aveva ritenuto
responsabile e maturo quando, appena la mattina prima, le era sembrato così intenzionato a trovare un lavoro.
Si portò una mano fra i
capelli per spostarseli indietro assonnata e sbadigliò; Daniel era come la
lancetta impazzita di una bussola, non puntava da nessuna parte, continuava a
muoversi, muoversi e muoversi…e a confonderla, disorientarla, non riusciva ad inquadrarlo. Quando credeva di essersi fatta un’opinione di lui, lui la distruggeva nel giro di poche ore
costringendola a ricominciare da capo.
Si fece una doccia per
svegliarsi un po’ e si infilò una comoda tuta per
stare in casa, prima di scendere al piano di sotto.
Quasi si sfregò
gli occhi incredula quando vide Daniel in cucina, la tazza di caffé in mano e
il giornale sotto gli occhi, vestito e pronto per uscire.
“Risparmiami la ramanzina,
devo andare al lavoro.” Le disse semplicemente, senza sollevare lo sguardo dal
quotidiano.
Si tartassò il labbro inferiore:
davvero lei era così prevedibile?
Scrollò le spalle
indifferente e sorpassò il tavolo per raggiungere il lavandino, “Figurati,
nessuna ramanzina.” Improvvisò, cercando di mostrarsi il più
tranquilla possibile.
Gli stava dando le spalle, ma
lo vedeva comunque riflesso nella finestra davanti a sé; si era voltato a
guardarla leggermente scettico e…sorpreso forse? Non se lo aspettava.
Sorrise di nascosto,
pienamente soddisfatta dalla reazione del ragazzo: se lui si comportava da
lancetta impazzita, nulla vietava anche a lei di farlo.
“Sei libero
di fare quello che vuoi con la tua vita.” Il tono di voce era pacato, quasi annoiato.
Riempì la sua tazza d’acqua e
la mise nel microonde con l’intento di prepararsi del
tè.
Niente la aiutava ad
affrontare una nuova giornata come la teina.
Si girò verso di lui e si appoggiò
con le mani al ripiano della cucina, dondolandosi appena con il busto, “Basta
che non mi svegli più nel cuore della notte con il tuo cavernicolo incedere.”
Piegò la testa di lato con noncuranza.
Lo stupore di Dan venne subito mascherato da una smorfia di sufficienza, “Bene.
Cercherò di non svegliarti più principessa,
sia mai che il tuo viso non sia riposato e fresco come
una rosa.” Tese le labbra in un evidente e fugace sorriso di scherno, prima di
alzarsi per sciacquare la sua di tazza.
Jude, istintivamente, scivolò
di lato e si scansò per evitare qualsiasi contatto fisico. Si limitò ad osservarlo di profilo, scura in volto per non aver potuto
sfogare su di lui tutta la sua irritazione.
I capelli castani, abbastanza
lunghi da stare su anche senza gel, sembravano appena usciti da una centrifuga,
la camicia scura e spiegazzata – doveva averla lasciata in valigia tutto il
tempo – aveva sicuramente visto giorni migliori e i jeans…forse i jeans erano l’unica cosa a posto. Anche se cadevano sui suoi fianchi un po’ troppo morbidamente, lasciando
intravedere una marca di boxer che lei non
avrebbe voluto conoscere.
Sotto agli
occhi marroni vi erano, anche se visibili solo da un’osservazione un po’
più accurata, delle occhiaie dovute alle poche ore di sonno, unico particolare
fuori posto sul suo viso.
Ha un bel profilo.
Cacciò via dalla mente quel
pensiero uscito da chissà quale meandro oscuro e si costrinse a distogliere lo
sguardo da lui.
Dove diavolo voleva andare
conciato così, a ballare? Che lavoro si era mai trovato poi? Il fatto che non
lavorasse di notte le sembrava già qualcosa di molto positivo.
Di sfuggita, lo vide scuotere
le mani nel lavandino per asciugarsele, “Buona giornata Judith.” Le rivolse un altro sorriso derisorio, un sorriso che Jude avrebbe tanto voluto cancellare con una
schiaffata sulla sua guancia. Trattenersi fu molto difficile.
“Anche a te Daniel.” Disse fra i denti, ricambiando
il sorriso con un ghigno che avrebbe fatto invidia a quello dello Stregatto di
Alice.
Lo seguì con gli occhi mentre
apriva la porta di casa per andarsene, le labbra strette nella morsa dei suoi
denti per impedirsi di aggiungere altro. Non era una buona idea litigare con
lui di prima mattina e non voleva dargli la soddisfazione di farsi vedere
sempre irritata dal suo comportamento.
“Oh cavolo, scusa!”
Assottigliò lo sguardo ed incrociò le braccia al petto quando vide Meg finirgli
addosso, esattamente come la mattina prima.
Iniziava a sospettare che lo
facesse di proposito ad entrare proprio mentre lui
stava uscendo, sarebbe stato da lei in effetti.
“Ci incontriamo sempre così,
eh?” Le rispose lui amichevole, dandole un buffetto in testa e passandole
accanto per uscire.
Non seppe se il moto di
rabbia che la colse l’attimo dopo fu dovuto all’espressione raggiante della sua
amica o al modo affettuoso in cui lui si era comportato con lei, seppe solo che
c’era ed era tremendamente fastidioso. Come le pulci per i cani.
Immerse la bustina del tè nella
sua tazza ed osservò la sua amica ad occhi socchiusi, “Puntuale
come un orologio, eh Meg?” Si pentì della nota accusatoria presente nella sua
voce, non voleva che la sua amica pensasse che fosse…irritata. Perché non lo
era, non per quel patetico incontro fra lei e quel primate di Daniel.
Meg arrossì violentemente e
strofinò a disagio la punta della scarpa sul pavimento, “Sì, scusa…non pensavo
che…cioè…”
Judith sospirò e mosse la
mano libera in aria, come a volerle dire di lasciar perdere,
“Fa niente, non importa.” Iniziò a sorseggiare la bevanda calda, posando involontariamente
gli occhi sul vialetto fuori e scorgendo così la sagoma di Daniel in lontananza.
Si avvicinò piano alla
finestra ed appoggiò la fronte sul vetro freddo,
appannandolo sempre più ad ogni respiro.
Avrebbe potuto...? No. Non le importava assolutamente nulla di lui e non
poteva rinunciare ad un giorno di scuola per una
sciocchezza simile.
“Ma
dove va?”
Imprecò a bassa voce quando
Meg si avvicinò a lei e si accorse della direzione presa dal suo sguardo. Avrebbe
dovuto essere più discreta.
“Non ne ho idea.” Borbottò
semplicemente, osservando il ragazzo girare a destra una volta arrivato in
fondo al vialetto.
La sua amica si umettò le
labbra più volte, “E non ti stuzzica nemmeno un po’ l’idea di scoprirlo?”
Se c’era una cosa di cui Jude
si era convinta negli anni, era che Meg fosse telepatica, almeno con lei.
Riusciva quasi sempre ad indovinare cosa le passasse
per la testa, anche i pensieri assurdi come quello.
Si sforzò di restare impassibile,
“Se anche una remotissima parte del mio cervello fosse…stuzzicata all’idea” Fece una smorfia, “Non avrei motivo di
assecondarla, non mi importa di sapere dove va, per
quanto mi riguarda potrebbe anche rapire cuccioli di cane dalmata per fare pellicce,
basta che lo faccia lontano da casa mia.” Strinse la mano sul manico della sua
tazza e bevve un altro po’ di tè.
“E se facesse qualcosa
di…sconveniente?” Le suggerì Meg, inarcando un sopracciglio, “è un bel ragazzo,
potrebbe…”
“Sconveniente?”
La interruppe scettica Jude, “Qui? E per giunta di giorno?” Una parte
di lei le ricordò prepotentemente che era rientrato alle tre quella
stessa mattina…ubriaco.
Si morse l’interno
guancia e scosse la testa per cancellare immediatamente quel pensiero, “E
poi ti ripeto che non mi interessa, può fare quello che vuole…” S’inviperì per
essersi lasciata coinvolgere così tanto dalla conversazione, doveva metterci un
punto definitivo.
“Potrebbe fare quello o di
peggio…viene da una grande città come New York, Dio solo sa cosa fanno i
ragazzi per guadagnare lì.” Meg si portò teatralmente una mano alla bocca, “Ci
andreste di mezzo tu e tuo padre…le voci circolano, la vostra reputazione
sarebbe intaccata.” Insistette ancora, “Lui vive con voi.”
Qualcosa le diceva che alla sua
amica del lavoro di Daniel importava
ben poco, lei sembrava decisamente più interessata a
lui.
Mise la tazza nel lavandino e
ci rifletté un attimo su; Maggie non aveva comunque tutti i torti, che figura avrebbero fatto lei e suo padre se si fosse venuto a sapere
di un possibile impiego indecoroso di Daniel? La signora Crabble
non avrebbe più smesso di parlarne, sarebbero stati il nuovo pettegolezzo della
Domenica a Messa.
Non poteva di certo
permetterlo.
“Ok.” Incominciò a pettinarsi
i capelli con le dita alla bell’è meglio, “Hai vinto,
andiamo.”
Ignorò il sorrisetto che
stava via via prendendo forma sulle labbra della sua
amica e si specchiò con aria critica, “Sembra che stia andando a pulire le case
degli altri…” La vecchia tuta che utilizzava per stare in casa e per educazione
fisica a scuola non era di certo un indumento adatto ad
uscire.
“Non importa!” Meg aprì la
porta d’ingresso e le fece cenno di seguirla, “Andiamo, o lo perderemo di
vista!”
Sbuffò affranta e piagnucolò
qualcosa di incomprensibile persino alle sue orecchie.
Stava uscendo vestita conciata
come una barbona, senza un minimo di trucco e con delle tremende occhiaie…e
tutto per colpa di Daniel King, un punto da aggiungere alla lista dei motivi
per odiarlo.
Come aveva fatto a cadere
così in basso? Come diavolo le era venuto in mente di stalkerare
un ragazzo? Un ragazzo della quale non le importava
nulla oltretutto.
Non sapeva chi fra lei e Meg
fosse messa peggio, forse la sua amica, ma solo per via di quel rivoletto di
bava sotto il mento.
“Contieniti Meg, ti prego!”
Aveva gli ormoni in subbuglio peggio di una quattordicenne
davanti a Robert Pattinson!
“Che c’è di male?” Sporse il
labbro ingenuamente, “È un bel ragazzo, la mia reazione è normale.”
Sbatté le
palpebre risentita, “La mia no?” Solo perché lei ci litigava, non
sbavava, non si strappava i capelli, non urlava il suo nome e non scriveva di
lui nel suo diario, non significava che fosse anormale.
Meg scosse la testa con
decisione, “Non intendevo questo, solo…non farmi sentire come una specie di
depravata, è un bel ragazzo e io reagisco così,
punto.”
Schioccò la lingua ed alzò le mani in segno di resa, “D’accordo, chiudiamo qui
il discorso, abbiamo semplicemente gusti diversi.”
A lei piaceva un ragazzo come
EvanSt.James, la créme de
la créme, affascinante, maturo ed intelligente, a Meg Daniel King, il lunatico
moccioso figlio di Delia; avevano gusti completamente
opposti.
“Dobbiamo accelerare il passo
comunque, o non lo raggiungeremo mai!”
Spalancò la bocca
contrariata, “Pure?” Si lamentò a mezza voce.
Era stanca, nervosa e doveva
mettersi persino a sprecare ulteriore energia per
quell’idiota?
“Siamo…completamente pazze…lo
sai?” Sibilò a fatica poco dopo, mentre costringeva le sue gambe a muoversi in
fretta per non perdere di vista il loro obiettivo.
“Lo so.” Rise Meg, suo
malgrado divertita da tutta quella situazione.
*******
C’era una tremenda puzza
di…pipì lì accanto a lei, era abbastanza sicura del fatto che l’aiuola dietro cui si era nascosta fosse il ritrovo amoroso per eccellenza
dei gatti randagi che volevano marcare il territorio con il loro adorabile
fetore.
Jude storse il naso e
allontanò il viso dalle piante per poter osservare
meglio il locale in cui era entrato Daniel da circa cinque minuti.
Non era stato poi tanto
difficile raggiungerlo – più faticoso, in effetti – , anche
perché il ragazzo si era fermato all’edicola nella strada parallela alla loro
per comprare un giornale che Jude, da lontano, non era riuscita a riconoscere.
“Jude.”
Meg la tirò per la manica,
come un bambino piccolo spazientito ed affamato.
“E così lavora da Trevor…”
Meditò fra sé e sé. Non era mai entrata nel suo locale, forse solo un paio di volte, ma molte sue compagne di scuola si fermavano lì la
mattina per fare colazione.
“Jude, che ne dici, entriamo? Ho fame.” Borbottò Meg, scrollandole nuovamente la
spalla.
Si voltò a guardare l’amica,
ricordandosi solo in quel momento della sua presenza.
“Fame?” Ripeté come un
automa.
“Sì, fame,
hai presente? Non mangio da ieri
sera e ho fame.” Meg la guardava in modo strano, a metà fra lo stizzito e il
divertito.
Comprese appieno le parole
dell’amica un battito di ciglia più tardi, “Vuoi
entrare lì dentro a fare colazione? Sei impazzita?!”
Daniel le avrebbe scoperte,
avrebbe pensato che fossero così patetiche ed
interessate a lui da seguirlo! Era fuori discussione.
“Perché no? È un posto come un altro per mangiare e io ho fame. Ti prego, dai.” Si lagnò Maggie sbarrando gli
occhi.
“Non è un posto come un
altro, è il posto dove lavora lui e capirà subito che
non è una coincidenza…” Concluse, facendo una smorfia schifata non appena
sfiorò involontariamente con la spalla una foglia della pianta lì vicino.
“Allora ti importa
quello che lui pensa di te…” Insinuò la sua amica, un sorrisino malizioso sulle
labbra. Quando Meg sorrideva in quel modo birichino le
ricordava sempre quella bambina che lei aveva odiato fin da piccola, quella con
le treccine rosse…PippiCalzelunghe,
ecco.
Jude la guardò
a dir poco oltraggiata, “Certo che no!
Solo…” Si bloccò, incapace di esprimere a parole i suoi
timori. Non voleva che lui si facesse strane idee, non voleva che
pensasse di essere così rilevante per lei da occupare i suoi pensieri e guidare
le sue azioni.
Non l’aveva seguito perché
interessata a lui in quel senso,
l’aveva seguito solo per curiosità, solo per vedere che cavolo di lavoro si
fosse trovato.
Ora che l’aveva scoperto
poteva anche andarsene, entrare dentro sarebbe stato
del tutto fuori luogo.
“Solo…?” Sollecitò Maggie, “Se
non ti importa niente non ci dovrebbe essere nessun
solo.” Le fece presente la sua ex-odiosa migliore amica, “Sei o non sei libera
di fare quello che vuoi, indipendentemente da quello che fa o pensa lui?”
Comprese di essere appena stata incastrata.
“MargarethSt.James, ti odio, sappilo.” Le lanciò un’occhiata
obliqua che la fece ridere.
“Anch’io tesoro. Allora,
entriamo? Potrebbe essere divertente…”
“Divertente?” Domandò diffidente.
Non riusciva a vederci niente di divertente nel fare la figura dell’adolescente
cretina.
“Divertente,
sì. Lui sarà il nostro cameriere,
noi le clienti.” La risatina stridula di Meg la fece
rabbrividire.
Fissò gli occhi sulla vetrina
del locale e sentì gli angoli delle labbra piegarsi all’insù. Tutto sommato,
non sarebbe stato così spiacevole dargli ordini e
farlo dannare un po’. E come aveva detto Meg…in quel locale lui sarebbe stato
il cameriere, lei la cliente e si sapeva…i clienti
avevano sempre ragione.
*******
Era lì da solo due giorni e già si era stufato di pulire
tavoli e di gente che, sorridendo affabilmente, gli chiedeva di portare altro
da bere, ketchup, maionese, fazzoletti vari e conti.
Non era portato per i lavori
che comprendessero il contatto con la gente, era più il tipo solitario che meno
aveva a che fare con gli altri – specie se bambini isterici, capricciosi e
viziati – meglio era.
Ma aveva trovato quel lavoro
e a quello doveva adeguarsi, così come si era sempre adeguato ad ogni cosa nella sua vita.
Così si sforzò di sorridere
quando l’adorabile figlia del Reverendo
Garrick, premendo con troppa forza la bustina del
ketchup, gli schizzò addosso il liquido rossastro.
“Judith!” La rimproverò
l’uomo, scusandosi con lo sguardo in direzione del giovane.
Già il fatto che la mocciosa
si chiamasse in quel modo lo irritava a prescindere.
“Non importa.” Disse, nel
tono più gentile che riuscì ad usare. Lanciò
un’occhiata raggelante e tutt’altro che amichevole alla bimba, prima di
voltarsi con l’intento di andare a darsi una ripulita.
Aveva ancora il viso e la
camicia sporchi di ketchup, quando ad un passo dal bagno, la sua attenzione venne catturata dallo scampanellio della porta d’ingresso.
Sussultò impercettibilmente.
Che cavolo…?
I capelli sciolti e scuri,
lasciati ricadere morbidamente sulle spalle e le braccia incrociate al petto,
Jude si guardava intorno con aria circospetta, quasi si aspettasse che una
belva feroce potesse improvvisamente attaccarla alle spalle.
La sua amica rossa, invece,
sorrideva soddisfatta per qualcosa di cui lui non avrebbe mai
voluto essere messo a parte.
Che cosa ci facevano lì?
L’avevano seguito? Non si era accorto di nulla…
Fu un attimo; non ebbe
nemmeno il tempo di chiamare Nate per dirgli di occuparsi di quelle due
seccature, visto che lui non ne aveva alcuna voglia,
che gli occhi di Judith – non la bambina lancia ketchup purtroppo – saettarono
nei suoi come calamitati.
Per qualche strano motivo, la
vide tentennare, la vide sbattere le palpebre quasi smarrita nel momento in cui si accorse
di essere osservata da lui.
Daniel non riuscì a
distogliere lo sguardo come avrebbe voluto e, nonostante la mente gli
suggerisse caldamente di lasciar perdere, l’istinto
ebbe la meglio e andò loro in contro senza pensarci troppo.
“Che diavolo ci fate qui?”
L’aveva chiesto ad entrambe, ma stava guardando solo
lei.
Jude parve risentirsi per
quel tono brusco e scortese, “Non possiamo venire qui
a mangiare?” Domandò retoricamente, alzando il mento per guardarlo apertamente
in viso.
“Con tutti
i posti che ci sono per farlo?
No.” Socchiuse gli occhi irritato; gli seccava che
fossero lì, gli seccava essere visto da loro in quelle condizioni, con addosso
l’orrenda divisa del posto e il viso sporco di ketchup.
“Siamo libere di andare dove
vogliamo.” Replicò lei piccata, sbattendo poi le ciglia
civettuola, “Un tavolo per due, grazie.” Stava cercando piuttosto
malamente di trattenere una risata, il vederlo conciato così doveva essere
fonte inesauribile di divertimento per lei.
Stronza.
Strinse le mani a pugno con
forza. Non gli piaceva essere preso per il culo,
tantomeno da lei.
“Allora?” Sollecitò Judith,
sollevando le sopracciglia ed avvicinandosi di un
passo, “Siamo clienti, hai intenzione di servirci?”
“Per favore?” Aggiunse la
rossa, in tono più gentile ed evidentemente a disagio per via di quella loro discussione.
Lo guardava leggermente
intimorita, come se temesse che da un momento all’altro lui potesse
mangiarle entrambe in un boccone.
Daniel contrasse la mascella furioso, senza smettere di scrutare Jude con odio puro. Per un attimo pensò seriamente di
afferrarla per il braccio e sbatterla fuori, cancellandole così quell’odioso
sorriso dalla faccia.
Peccato che, se lo avesse
fatto, Trevor lo avrebbe licenziato seduta stante e
non valeva davvero la pena perdere il lavoro per colpa di quella psicopatica.
E dire che quella mattina gli
era sembrata quasi più sopportabile
del solito, che problema aveva quella ragazza? Personalità multipla?
“Sì, da questa parte.” Nate,
forse temendo che la situazione degenerasse, apparve
alle sue spalle e prese le redini della conversazione.
“Non l’ho chiesto a te.” Jude
si voltò a guardarlo e lo bloccò sul posto con uno sguardo raggelante.
Daniel
scosse la testa solo per riordinare le idee e rendersi pienamente conto di
quanto fosse assurda tutta quella faccenda, “Sai di essere patetica, vero? Che cosa vuoi dimostrare?” Le
chiese assottigliando lo sguardo.
A quella domanda, Jude
ammutolì. Cosa voleva dimostrare? Non lo sapeva
nemmeno lei.
Non sapeva cosa le era preso, non era entrata in quel locale con l’intento
di provocarlo, non voleva nemmeno entrarci lì dentro inizialmente, era
semplicemente scattato qualcosa in lei nel momento in cui Daniel le aveva
rivolto la parola.
Aveva degli attacchi di
rabbia che lei stessa non riusciva a controllare quando c’era lui di mezzo, la
cosa era preoccupante.
Sbuffò e
diede un colpetto al pavimento con la scarpa, “Voglio solo mangiare. E in fretta magari, visto che devo andare a scuola
poi.” Spiegò con calma, sforzandosi di essere un pelino più gentile.
Lo osservò dal basso, in
attesa di una sua risposta. Odiava dover dar ragione – seppur solo nella sua
mente – a Meg, odiava il fatto che il suo cervello
partorisse pensieri così sciocchi, ma…con quello sguardo furioso, con indosso quell’orrendo
grembiule color vomito e il ketchup sul viso e fra i capelli, si ritrovò
inevitabilmente a pensare che Daniel fosse effettivamente…carino. Nulla di eclatante, solo carino. E
lei era davvero patetica. Da dove le
uscivano pensieri tanto stomachevoli?
“Da questa parte.” Non c’era
un minimo di gentilezza nella sua voce, glielo aveva detto nello stesso tono in
cui probabilmente le avrebbe detto “Vai al diavolo”.
Lo seguì fino a quello che
sarebbe stato il loro tavolo per la colazione e si sedette, torturandosi le mani nervosa.
Ok, forse aveva esagerato. Forse gli doveva delle scuse,
non era così sciocca ed infantile da credere di avere
ragione, si era comportata lei per prima da stronza, lo aveva volutamente
provocato.
Alzò lo sguardo ed aprì la bocca con l’intento di farlo, di scusarsi, ma
l’occhiata carica d’astio del ragazzo le fece morire le parole sul nascere.
“Non avevi altro da fare che
seguirmi come un cagnolino con questa sfigata della
tua amica? Cos’è il tuo, un patologico bisogno di
attenzioni?”
Come, come, come? Non solo
aveva insultato la povera Meg – che stava arrossendo ed
abbassando lo sguardo mortificata –, aveva persino insinuato che lei lo avesse
seguito per…farsi notare da lui? Se non fosse stata furiosa
sarebbe scoppiata a ridere.
“Come diavolo ti permetti di
parlarci così e di insinuare queste cavolate?!” Sbraitò,
facendo voltare più di un cliente, “Senti chi parla di richieste di attenzioni
poi, cosa doveva significare quella patetica scenetta di ieri sera? Il ragazzo
che rientra ubriaco alle tre del mattino, non è un po’ tardi per la fase
dell’adolescente ribelle, tesoro di mamma?”
Lo derise, sporgendo il labbro inferiore ed imitando
il tono di voce di una mamma con il suo bambino piccolo.
Lui si appoggiò con le mani
al tavolo e si sporse verso di lei ad una velocità
tale da farla sussultare, “Sono semplicemente uscito a bere qualcosa con degli
amici, cosa che tu non credo possa capire, visto che tutto quello che riesci a
fare alle tre del mattino è rompermi il cazzo come una vecchia e acida
zitella.”
Sentì che la situazione le stava
sfuggendo di mano, la rabbia stava prendendo il
sopravvento come sempre quando c’era di mezzo lui, “Tu non mi conosci.” Ringhiò
fra i denti, punta sul vivo. Era vero, non era il tipo di ragazza che amava
bere ed ubriacarsi di notte e allora? Perché lui la
faceva sembrare una cosa tanto sbagliata?
Anche lei sapeva divertirsi,
senza bisogno di comportarsi da idiota irresponsabile.
“No,
infatti. Per fortuna.” Fu la
risposta che le sussurrò lui a due centimetri dalla faccia, gli occhi che
bruciavano sul suo viso come fuoco.
Boccheggiò per qualche
secondo, stordita da quello sguardo, da quella vicinanza assolutamente non voluta e non cercata, e dal profumo del ragazzo che le era entrato
letteralmente in testa e le impediva di ragionare come avrebbe voluto.
Sentiva il respiro di Daniel
sulle sue labbra e questo, per qualche sciocco motivo, le causava delle fitte
dolorose nello stomaco.
Le sarebbe bastato
protendersi in avanti di poco per sfiorare…
Ritorna in te, cretina.
“Ragazze, potete ordinare per
cortesia?”
Non rispose all’altro
cameriere, non lo aveva nemmeno sentito, continuò a fissare Daniel in cagnesco,
senza quasi ricordarsi il perché si fosse effettivamente arrabbiata.
Neanche Daniel parve notare
la presenza di Nate, i suoi occhi non lasciarono andare neppure per un attimo
quelli della ragazza. Non la sopportava, eppure non riusciva a fare a meno di
risponderle ed incazzarsi ogni volta che apriva bocca.
Perché non poteva semplicemente ignorarla? Perché si faceva coinvolgere così?
E che cosa voleva Judith da
lui? Era davvero così immatura da decidere di sfotterlo per il suo lavoro?
Si diverte a provocarmi?
“Dan?”
“Jude?”
Solo quando vennero chiamati dai rispettivi amici si resero conto di essere
rimasti vicini per troppo tempo – e una vicinanza tanto prolungata avrebbe
dovuto disgustarli, no? – e si allontanarono quasi scottati.
“Ehm…Io prendo delle uova
strapazzate e un succo di frutta.” Maggie prese il menù poggiato dalla sua
parte del tavolo e lo restituì a Daniel sorridendo impacciata.
Lui ricambiò distrattamente,
un fugace sorriso che sentiva di doverle per la frase poco carina di prima. Non
pensava davvero che la rossa fosse una sfigata, né le
avrebbe mai detto niente del genere se il suo intento primario non fosse stato
quello di ferire e attaccare Jude.
Tornò a guardare la mora,
sforzandosi di non mutare di una virgola la sua espressione impassibile e
professionale.
“Cosa c’è sul menù?” Chiese
Jude che, allontanatasi finalmente da lui, aveva
ripreso a ragionare lucidamente.
“Puoi guardarlo da sola, non
sai leggere?”
Poteva aspettarsi una
risposta diversa da lui? Maleducato e odioso. Aveva sicuramente preso da suo
padre, Delia non era così.
Thomas King doveva essere un
buzzurro primitivo alla “io uomo e bevo davanti alla tv, tu donna e cucini”,
ecco perché Delia lo aveva lasciato per suo padre, un medico intelligente e
stimato, come biasimarla?
“Se l’ho chiesto a te è perché non ho voglia di leggerlo. Tu lavori qui, non io.” Ribatté lei contrariata, prendendo il menù in
mano e porgendoglielo poi con un sorriso soddisfatto. “Ti dispiace?”
Daniel occhieggiò velocemente
il menù, poi tornò a guardare la ragazza confuso.
Doveva…leggerlo? Fino a che punto avrebbe continuato a prendersi gioco di lui?
Sapendo di avere lo sguardo
di Nate ancora addosso, fu costretto a strapparlo con rabbia dalle mani di Jude e ad aprirlo.
Doveva mostrarsi superiore.
Per quanto lei cercasse di metterlo in difficoltà e umiliarlo, lui non avrebbe
ceduto. Non poteva mettersi a fare un’altra scenata, non poteva di certo urlarle
contro. E non avrebbe perso il suo lavoro per colpa dei capricci di una
mocciosa isterica e petulante.
Iniziò a leggere e ad elencare i piatti a voce bassa e moderata, mentre le dita
gli stavano dolendo per la forza con cui stava stringendo la carta
plastificata.
Jude poggiò il gomito sul tavolo e il mento sul palmo
della mano, osservandolo dal basso con interesse.
Lo stava davvero facendo.
Credeva di assistere ad un’altra sceneggiata, credeva
che si sarebbe rifiutato e l’avrebbe mandata a quel paese, invece le stava
davvero leggendo, conservando comunque una parvenza di dignità, i piatti del
locale.
Ho esagerato.
Se ne rese conto quando una
morsa spiacevole le sconvolse nuovamente lo stomaco.
Non era così che voleva che
andassero le cose con lui, di quel passo non avrebbe mai scoperto cos’era
successo fra lui e Delia, di quel passo avrebbero finito con l’odiarsi
sempre di più e basta.
“Prenderò anch’io delle uova
strapazzate e un succo di frutta.” Disse infine, quando si accorse che Daniel
aveva finito e puntato gli occhi su di lei in attesa della sua ordinazione.
Non stava cercando di
irritarlo, aveva chiesto la stessa cosa di Meg semplicemente perché, persa
nelle sue riflessioni, non aveva sentito nulla di quello che lui aveva letto.
Daniel, però, non la prese
troppo bene a giudicare da come stava tremando. Sentiva il sangue ribollirgli
nelle vene per la collera, si sentiva umiliato come non gli era mai successo in
vita sua. Stava lavorando, non rubando, chi era quella stronzetta
snob per trattarlo alla stregua di una pezza da piedi? Si era divertita a
fargli leggere il menù ad alta voce per poi chiedere la stessa cosa della sua
amica?
“Bene.” Digrignò i denti con
così tanta forza che non si sarebbe stupito se si fossero spezzati.
Si voltò di scatto e diede
loro le spalle, prima che la rabbia potesse prendere nuovamente il sopravvento
e spingerlo a dire o fare qualcosa di stupido.
Continuava a ripetersi che
Judith Parker non meritava tanta importanza, eppure il fatto che il suo nome
fosse costantemente nella sua testa non lo aiutava di certo a sedare
l’irritazione.
Per un secondo l’idea di
chiedere a Nate di occuparsi di servirle gli accarezzò
la mente, poi scosse la testa e si diede dello sciocco; non aveva motivo di
delegare a qualcun altro il lavoro, lo avrebbe fatto lui con la massima
professionalità.
Quando tornò al tavolo per
portare i due piatti, si curò di sfoggiare il suo miglior sorriso in direzione
della rossa, poggiandole con delicatezza la sua ordinazione davanti e
augurandole una piacevole consumazione. Il piatto di Jude,
invece, fu malamente e bruscamente sbattuto sotto al suo
naso, accompagnato solo da un grugnito indistinto molto poco simile ad un
gentile invito a gustarlo, quanto più ad uno “strozzatici”.
Meg camuffò una risata con un
colpo di tosse, cosa che le fece guadagnare un’occhiataccia dalla sua migliore
amica.
“Non lo sopporto.” Borbottò Jude quando il ragazzo si fu allontanato, affondando la
forchetta nel suo piatto con stizza.
Daniel riusciva a
condizionare troppo il suo umore per i suoi gusti…e questo non faceva che farla arrabbiare ancora di più.
“A me sta simpatico.” Margareth bevve una sorsata del suo fresco succo di frutta
in tutta tranquillità.
La mora la guardò come se
avesse avuto davanti una disturbata mentale ed agitò
la forchetta per indicarla, “Ti ha insultata Meg! Come puoi
farti ammaliare da lui fino a questo punto?” Un bel faccino poteva davvero
avere quell’effetto degradante su di lei? Sperava che nessun ragazzo
potesse arrivare a farle perdere il cervello in quel modo.
Fu il turno di Meg di
guardarla come se fosse una deficiente, “Lo ha fatto
per ferire te, non l’hai ancora capito? Ha insultato me ma stava cercando di
fare arrabbiare te, non lo pensava davvero.” Spiegò
con aria da donna saggia e vissuta.
Jude richiuse la bocca sconvolta; in
effetti non aveva valutato la faccenda da quel punto di vista, “E come
avresti dedotto tutto questo, scusa?”
Maggie fece un gesto noncurante con la mano, “Andiamo! Non dirmi che non te ne sei accorta!” L’occhiata che
le lanciò la fece, per qualche stupido ed
incomprensibile motivo, arrossire.
Accorta di cosa?
“Meg, parla e basta, smettila
di lasciare le frasi incompiute.”
Il suo sguardo si poggiò
involontariamente alle spalle della sua amica, sul ragazzo che, dall’altra
parte del locale, stava servendo con un sorriso sulla bocca due ragazze della
sua stessa scuola. Non si sarebbe sorpresa di vederle strisciare ai suoi piedi
come vermi, quelle due pendevano letteralmente dalle sue labbra.
Eppure, nonostante
ai suoi occhi fossero irritanti e false quanto le monete di plastica
della Cassa di Barbie che aveva da piccola, Daniel le ascoltava pazientemente e
continuava a sorridere mentre scriveva le loro ordinazioni.
Perché diavolo si comporta così male solo con me?
Perché non appena aveva messo
piede nel locale l’aveva subito aggredita con quel
“cosa ci fate qui?”, perché le aveva dato della patetica, perché le aveva
sbattuto il piatto davanti senza nemmeno guardarla?
Era evidente che il problema
fossero entrambi a quel punto, erano incompatibili, non c’era altra
spiegazione. Lui irritava lei e lei irritava lui.
“Tensione sessuale.”
Sobbalzò nel sentire
nuovamente la voce di Meg e tornò a guardarla confusa, “Cosa?”
“Tensione sessuale.” Ripeté
la sua amica con aria sorniona, nascondendo un sorriso dietro il bicchiere che
si portò alle labbra.
“Tens-cosa?!” Che stava blaterando, che cosa si era persa?
MargarethSt.James fece roteare i suoi
occhi castani per il locale; non era molto paziente e non le piaceva ripetere le
cose più volte, “Vedi, quando due ragazzi si attraggono si crea questa…”
“So cos’è la tensione
sessuale Meg!” Sbottò Jude rossa per l’imbarazzo. Una
coppia di anziani non molto distante da loro le guardò e bofonchiò qualche
frase trita e ritrita sulla maleducazione dei giovani.
“Bene. Allora l’avrai
sicuramente avvertita prima, fra te e Daniel, l’hanno avvertita tutti.”
Tutti?
Che cosa stava insinuando?
Tensione sessuale?! Già il fatto che avesse inserito
la parola “sessuale” in una frase con “te e Daniel”
era a dir poco raccapricciante. Non riuscì a contenere una smorfia di puro
disgusto, quelle parole accostate la nauseavano.
Tensione sessuale. Fra lei e
quel…coso. Non sapeva se ridere o
urlarle contro qualche insulto.
“Primo: tutti chi? Secondo.” Si
massaggiò le tempie ed espirò profondamente per
calmarsi, “Non c’era nessuna tensione sessuale, sei fuori di testa?”
Lo era di certo, altrimenti
non sapeva spiegarsi come poteva esserle venuta in mente un’idea del genere.
Lei e Daniel non avevano
fatto altro che discutere e insultarsi, non c’era stato nessuno sguardo
malizioso, nessuno sfioramento, nessuna occhiata che avesse potuto far pensare
alla sua amica qualcosa di così…stupido!
“Io e
quell’altro tizio, il cameriere.
Vi guardava a metà fra il preoccupato e il divertito, sono sicura che l’ha pensato anche lui.” Meg si pulì la bocca con il
tovagliolo e si rituffò vorace sulle sue uova.
Jude provò a ribattere che quello non
significava affatto che il cameriere dai capelli unti avesse confermato
il suo sciocco pensiero, ma non ne ebbe il tempo perché l’amica tornò alla
carica.
“E ce n’era Jude, fidati. Pensavo che vi sareste saltati addosso da un
momento all’altro qui sul tavolo.” Ridacchiò
spensierata ed allungò una mano per poggiare le sue
dita sotto il mento dell’amica, “Chiudi la bocca tesoro, è una cosa bella, non
una cosa di cui vergognarsi.”
Jude era troppo shockata per ascoltare
il suo consiglio, troppo incredula per capire se fosse più arrabbiata o
imbarazzata.
Le parole di Maggie le rimbombarono nella testa e non poté negare,
almeno a se stessa, di aver effettivamente sentito qualcosa quando lui le si era avvicinato.
Una lieve
stretta allo stomaco, un’eccessiva sudorazione alle mani e un battito fin
troppo accelerato. Ma era sicuramente dovuto all’adrenalina, alla discussione
accesa che c’era stata. Le capitava di avere la stessa reazione anche davanti
alla professoressa d’inglese quando veniva interrogata
e di certo non era dovuta ad un desiderio sessuale represso. Non per la
professoressa Madison.
Rabbrividì schifata e si
concentrò sulla sua amica, “Ti immagini le cose Meg.” Disse semplicemente, dandole uno schiaffetto sulla mano per
allontanarla, “Non c’era nessuna tensione sessuale, solo astio. Evita di
parlare ancora di questa cavolata, ok?”
Si sforzò di restare calma:
se si fosse arrabbiata e avesse iniziato ad urlare la
sua amica avrebbe solo avuto prova della veridicità delle sue assurde parole.
Non poteva sapere di Evan, non poteva sapere come
stavano realmente le cose. Oh, se solo avesse avuto il coraggio di dirle la verità, se solo non fosse stata così codarda da
tenere per sé quell’imbarazzante segreto! Le sarebbe piaciuto condividere la
cosa con la sua migliore amica, aveva un dannato bisogno dei suoi consigli e
del suo spirito di osservazione!
“D’accordo, come vuoi.” Si
arrese la rossa, finendo ciò che restava del suo succo di frutta.
Jude abbandonò alla svelta le sue posate nel piatto e fece
per alzarsi, impaziente di uscire da quel posto e di cambiare aria.
“Andiamo?”
Maggie lanciò un rapido sguardo al suo di piatto, ancora
mezzo pieno e terribilmente invitante, e si arrese con uno sbuffo, “Ho
possibilità di scelta?”
L’amica
sfilò dal portafoglio una banconota e la schiaffò sul tavolo, alzando le
sopracciglia in modo eloquente, “No.
Me lo devi, fai sempre colazione a casa mia a scrocco.”
Le disse, in tono scherzoso e per nulla polemico.
La testa rossa di Meg
ciondolò in avanti, “Touché, hai ragione.” Ridacchiò
e si mise in piedi, dando un silenzioso e doloroso addio a quelle meravigliose
e squisite uova.
“Non aspettiamo nemmeno che
ritorni per darti il resto?”
Judith si morse il labbro ed osservò distrattamente i suoi soldi. Sarebbero stati più o meno quattro dollari di resto…se li sarebbe
sicuramente tenuti lui come mancia.
Visto come si era comportato non se li meritava proprio, ma non aveva
intenzione di stare lì dentro un minuto di più, né di parlarci di nuovo, così
fece spallucce con nonchalance.
Si voltò a guardare l’amica ed iniziò a camminare all’indietro come un gambero verso
l’uscita, “Per tre dollari e qualcosa può tenerseli. Magari si compra una
camicia decente.” Ironizzò a voce fin troppo alta.
Quando la sua schiena si
scontrò con il petto di qualcuno, ogni fibra del suo essere le suggerì che alle
sue spalle ci fosse proprio l’ultima persona
che avrebbe dovuto sentire quelle parole.
Merda.
Gli era praticamente
caduta addosso e la mano del ragazzo, poggiatasi al suo fianco, la sorresse d’istinto,
nonostante Daniel avrebbe di gran lunga preferito lasciare che si schiantasse a
terra.
Jude sentì il sangue gelarsi nelle vene ed
il cuore schizzare in gola, mentre si staccava alla velocità della luce da lui,
quasi avesse appena preso la scossa.
Merda, merda,
merda! Perché era così sfigata? Era più forte di lei,
in tanti le avevano detto che aveva una lingua da serpe, perché non riusciva
mai a controllarsi?! E soprattutto, perché parlava
proprio quando non doveva parlare?!
Era già pronta ad una – giusta – reazione indignata da parte sua, invece
Daniel la sorprese nuovamente limitandosi ad oltrepassarla come se non avesse
parlato – come se non esistesse – e a sorridere a Meg esattamente come prima.
“Grazie per essere passate,
buona giornata ragazze.”
Se si fosse fermata ad esaminare meglio il viso del ragazzo, avrebbe visto
che i suoi lineamenti erano tesi e il sorriso estremamente forzato; avrebbe
visto che i suoi occhi lanciavano letteralmente saette di odio puro.
Frastornata e leggermente dispiaciuta per essersi
lasciata scappare quella frase, Jude si voltò ed uscì dal locale a passo svelto, prima che lui potesse
aggiungere altro…o prima che lei aprisse nuovamente bocca per dire qualche
altra stupidata.
Sbuffò e pestò un piede a
terra con rabbia; era stata una pessima idea entrare in quel locale! Lo sapeva
che avrebbe dovuto lasciar perdere tutto fin
dall’inizio, dannazione!
“Juju.”
La chiamò delicatamente Meg dopo averla raggiunta, poggiandole una mano sulla
spalla.
Odiava quel soprannome,
quante volte l’aveva ripetuto alla sua amica? Di solito Meg la chiamava così
nei momenti in cui era giù di morale perché sosteneva che trasmettesse dolcezza. Dolcezza, come no.
“Tutto bene?” Le chiese premurosa.
Si infastidì non poco per quel tono di voce, perché mai
la trattava come una bambina piccola a cui era stato appena detto che Babbo
Natale non esisteva? “Certo che va tutto bene, perché non dovrebbe? Andiamo a scuola dai, siamo in ritardo!”
Non lo erano, ma Meg ebbe
l’accortezza di non farglielo notare e di annuire semplicemente.
*
******
Quando rientrò a casa, dopo
una massacrante giornata a scuola, Jude si lasciò
scappare un lungo e liberatorio sospiro di sollievo.
Il mondo sembrava avercela
con lei quel giorno, evitare Edward Russo era stato il triplo più difficile, il
suo amico Jason non faceva che chiederle il perché del suo pessimo umore e Meg
non aveva più menzionato Daniel nemmeno per sbaglio.
Brutto segno e poteva
significare solo una cosa; Margareth aveva già capito
che l’argomento la irritava più di quanto lei stessa avesse cercato di far
credere. La conosceva meglio di chiunque altro e nella sua breve vita Jude poteva contare sulle dita di una mano il numero delle
volte in cui la sua amica si faceva scrupoli a parlare di qualcosa con lei. Meg
non le faceva mai domande su sua madre e stava attenta a non nominarla;
chiedeva raramente come stesse Delia per non
rattristarla; non le chiedeva che voto avesse preso nel compito di chimica
quando usciva dall’aula con il broncio ed evitava di ricordarle quanto avesse
pianto nel vedere Hachiko. Judetrovava che fosse patetico piangere per un film,
eppure non era proprio riuscita a trattenersi davanti a quella palla di pelo
bianca.
Grandioso, ora c’era solo da
aggiungere alla lista...
“Daniel?”
La voce di Delia la fece
sobbalzare sul posto e le chiavi di casa le scivolarono di mano cadendo a terra
con un tonfo.
Imbranata.
“Oh Jude!”
Dopo averla raggiunta all’ingresso, Delia le sorrise amorevolmente e
Judith si sentì un’emerita
cretina nell’inchinarsi per raccogliere il mazzo da terra, “Ciao Delia.”
Sorrise impacciata e si mosse sul posto come un’estranea che aspettava solo il
consueto “fai come se fossi a casa tua” per sentirsi a
proprio agio.
Che sciocchezza, quella era casa sua, perché mai si stava
comportando così?
Un invitante profumo la
raggiunse dalla cucina e Jude si sciolse abbastanza per chiederle, “Stai preparando una torta?”
La donna annuì divertita, “Si
sente?” Ridacchiò gongolante, prima di pulirsi con meticolosa attenzione le
mani sul grembiule, “Più tardi ho intenzione di fare anche i biscotti…ti andrebbe
di darmi una mano?”
Come sempre, pensò la ragazza
con una punta di nostalgia. Lei e Delia, prima dell’arrivo di Daniel,
preparavano praticamente sempre qualcosa insieme per
suo padre nei pomeriggi dopo la scuola. Da quando era arrivato suo figlio, la
donna non si era più avvicinata ai fornelli per fare dolci, probabilmente per
via dell’ondata di pessimo umore che il ragazzo aveva portato con sé.
“Certo!” Era contenta che la
“vecchia” Delia fosse tornata, era contenta di poter fare di nuovo qualcosa con
lei. In quei momenti…le sembrava che non le fosse mai mancata la presenza di
una madre nella vita, Delia era proprio il tipo di persona che avrebbe voluto
avere con sé quando, da piccola, si chiedeva perché le sue amiche avessero una
mamma su cui poter contare a differenza di lei.
“Il tempo di fare i compiti e
arrivo.” Non aveva molto da studiare, le sarebbe bastata un’oretta per
raggiungerla in cucina.
Non telefonò nemmeno Meg per
sentire la voce di Evan quel pomeriggio, impaziente
com’era di rimboccarsi le maniche per riempirsi le dita di farina.
“Li facciamo con la Nutella oggi?” Tirò fuori
dalla dispensa il barattolo e lo mostrò alla donna con il sorriso birichino di una bambina.
“Vada per la Nutella!”
Il bello di Delia era che
gliela dava vinta sempre e comunque, si sentiva viziata e coccolata da lei
proprio come una bimba piccola.
Passarono l’intero pomeriggio
a cantare stonate qualsiasi canzone passasse alla radio, ad
immergere le mani nella pasta frolla e a dare una leccata ai cucchiaini sporchi
di Nutella di tanto in tanto, sorridendosi complici per la loro golosità.
“Ooh you can dance,
you can jive, having the time of your life!”
Jude fece una piroetta per la cucina, il cucchiaio in mano
a mo’ di microfono.
“Uuuh see that girl,
watch that scene, diggin’ the dancing queen!”
Al “seethat girl” Delia la indicò muovendosi a ritmo di
musica e Jude fece un piccolo inchino, dando poi con
il fianco un colpetto allo sportello del forno per chiuderlo.
Sia lei che Delia erano ormai partite per la tangente con Dancing Queen degli Abba, il volume era talmente alto che nessuna delle due si
accorse della serratura, né della porta di casa.
Solo quando all’ennesima
giravolta incontrò un paio di occhi castani Jude si bloccò di colpo e sperò che si aprisse immediatamente
una voragine sotto i suoi piedi. Avrebbe voluto
sprofondare sotto metri di terra, sentiva le guance scottarle e l’aria mancarle,
non si era mai sentita così a disagio e…stupida davanti a qualcuno.
“C-ciao
tesoro!”
La consolava se non altro sapere
che non fosse l’unica a sentirsi così, Delia reagì nello stesso identico modo nel
momento in cui si accorse della presenza del figlio.
Daniel fece scorrere
lentamente il suo sguardo stupito e diffidente da una all’altra, sbattendo poi
le palpebre e indurendo i lineamenti per lasciar posto ad
un’espressione…risentita?
Perché?
Le aveva guardate dapprima
come si sarebbero potute guardare due psicopatiche appena scappate da un
manicomio, per poi passare ad un rancore che Jude non riuscì a comprendere.
Scosse la testa – forse dopo
aver valutato l’ipotesi di dire qualcosa – e se ne andò semplicemente al piano
di sopra, lasciandole lì come le due povere cretine che erano.
Delia si schiarì la voce e
spense la radio, mentre Jude trovò più saggio sedersi
con quel poco di dignità che le restava.
Oh, insomma, non era successo
nulla, non c’era bisogno di sentirsi così imbarazzata! Aveva fatto una figura
del cavolo, ma non l’aveva fatta di certo in diretta nazionale, solo davanti a
quel cretino!
Simpatico come al solito oltretutto, cosa gli costava salutare?
“Hai guardato il tempo per i
biscotti?”
Quasi se n’era scordata per
colpa di quel beota! Corse subito a dare un’occhiata al
suo cellulare per controllare l’orario e contò più o meno tre minuti da quando
li aveva messi in forno.
“Ora sì.” Ammise facendo un
sorrisetto di scuse, “Mi ero lasciata distrarre dalla canzone.”
E da tuo figlio.
La seconda
frase non la disse, ovviamente, ma fu ugualmente mortificante pensarla.
La verità era che da quando
Daniel le aveva viste, si era persa in dettagli e domande sciocche,
irrilevanti, che non avrebbero mai avuto una risposta. E se anche l’avessero
avuta a lei non doveva importare assolutamente nulla.
Perché quello sguardo?
Ecco, di nuovo, quando
l’avrebbe piantata?
C’era del rancore, tanto rancore.
Come se qualcuno gli avesse fatto un torto.
Cosa le importava di sapere
cosa ronzava nella testolina di Daniel King? Niente,
doveva imprimerlo nella sua mente a caratteri cubitali.
Come se qualcuno lo avesse tradito.
Lei non lo aveva fatto di
certo, restava…Delia.
Ma certo!
Si passò una mano fra i
capelli, improvvisamente conscia di qualcosa che fino ad
un attimo prima le sfuggiva. E del fatto che se li fosse appena imbrattati di
farina e Nutella.
“Delia…” La donna si voltò a
guardarla paziente e Jude tormentò il labbro con i
denti.
Non era facile chiederle una
cosa del genere, come avrebbe potuto farlo senza ferirla o essere invadente?
“Perché Daniel sembra
avercela con te?”
Che brava! Già che c’era
perché non le diceva, “Ehi Delia, mi sono accorta che tuo figlio ti tratta come
se ti odiasse a morte, come mai?”
Quando gli occhi della sua
quasi-matrigna si adombrarono, Jude ebbe la conferma
di non aver avuto un minimo di tatto come suo solito.
“Scusami, se non vuoi
parlarne…” Tentò di rimediare, torcendosi le mani per il nervosismo. Era un
vero disastro quando si trattava di affrontare argomenti seri o delicati;
quando il gatto di Meg era morto anni prima, tutto quello che era riuscita a dire per consolarla era “Almeno adesso non
potrà più pisciare sul tappeto”. Meg se non altro aveva apprezzato il gesto e
le aveva risposto con una risata fra le lacrime.
Delia scosse la testa e
sorrise, lo sguardo velato da una patina lucida.
“Va tutto bene, immaginavo
che sarebbe arrivata una domanda del genere, o da te o da tuo padre…più da te
se devo essere sincera.”
Jude arrossì nel sentire quell’ultima frase; suo padre non
avrebbe mai avuto il coraggio di turbare Delia con una domanda tanto personale,
lei invece non si era quasi fatta scrupoli…era il tipo di persona che diceva le
cose senza peli sulla lingua, ecco perché Delia aveva aggiunto quella
precisazione.
“È una storia lunga e non è semplice per me parlarne.”
La giovane posò lo sguardo su
di lei e attese in silenzio che continuasse. Proprio quando pensava che non ci
sarebbe stato nessun racconto, Delia riprese a parlare, questa volta con un
tremolio nella voce.
******
Daniel si sfilò la maglietta
con rabbia, gettandola a terra come se stesse andando a fuoco e liberarsene
fosse questione di vita o di morte.
Non gli importava un cazzo
dell’ordine, non gli importava un cazzo di sentire quella pazza isterica
strillare. Non voleva più saperne di nessuno in quella casa, di nessuno.
Quella scenetta a cui aveva assistito…era stata a dir poco patetica, avrebbe
preferito lavorare fino alle undici di sera pur di risparmiarsela.
Sei felice adesso, mamma?
Sentiva i muscoli dolergli da
quanto erano tesi, il corpo tremare mentre camminava per la stanza senza
nemmeno sapere bene cosa fare.
Già, cosa fare? Cosa ci
faceva lui lì? Cosa stava facendo? Che cosa credeva di
fare? Era ridicolo, ridicolo.
Più di sua madre e di quell’altra psicotica che ballavano in cucina.
Si passò
entrambe le mani sul volto e le fece scorrere fra i capelli, tirando poi le
ciocche tra le dita con forza.
Stupido.
Inutile.
Invisibile.
Insignificante.
Ecco come si sentiva, come si
era sempre sentito agli occhi di sua madre.
Se ne fosse stato capace, se il suo orgoglio glielo avesse permesso, se si fosse
ricordato come si faceva dopo tanto tempo, probabilmente avrebbe pianto. Ma no, non lo avrebbe fatto, non per lei, lo aveva già fatto troppe volte da bambino, si era ripromesso
di non starci più così male.
Voleva uscire, voleva
andarsene di lì, nemmeno una doccia sarebbe riuscito a
farlo calmare, aveva bisogno di sbollire fuori da quella casa.
Prese un’altra maglietta a
caso dal suo armadio e se la infilò, prima di scendere in fretta e furia al
piano di sotto.
Era intenzionato a chiudere
gli occhi e a tapparsi le orecchie come un bambino pur di non rivedere una
scena come quella che l’aveva accolto al suo arrivo, non avrebbe retto
nuovamente quell’aria…spensierata, quella complicità che solo fra un genitore ed un figlio
poteva crearsi. Una complicità che non c’era mai stata fra lui e sua madre.
La odiava, la odiava con tutto se stesso, gli aveva rovinato la vita.
“Perché Daniel sembra
avercela con te?”
Fu come ricevere una
stilettata al centro esatto nel petto. Quella voce, proveniente dalla cucina,
arrestò la sua camminata come un muro invisibile impossibile da oltrepassare.
Avrebbe voluto farlo, avrebbe
voluto raggiungere la porta e uscire di lì, ma non ci
riuscì.
Maledetta Judith Parker.
Perché era così interessata?
Che cosa le importava di lui?
Era abbastanza nascosto da
non essere visto, così ne approfittò per appoggiarsi con la schiena alla parete
del corridoio, lo sguardo fisso sullo specchio davanti a sé.
Cosa racconterai adesso?
“Non…non vado
fiera di come sono andate le cose.”
Almeno lo ammetteva, era già
qualcosa. Daniel chiuse le mani a pugno ed iniziò a
divorarsi l’interno guancia con forza.
“Devi sapere che quando mi
sono sposata e sono rimasta incinta di Daniel ero…una sciocca ragazza immatura,
con un’idea completamente sbagliata e distorta del matrimonio e dell’amore.”
Era difficile ascoltare
quelle parole e lasciarsi scivolare tutto addosso, senza intervenire. Era
difficile ascoltare quella versione che ritraeva lei come la povera vittima
infelice. Cos’altro si aspettava che dicesse, del
resto? Non poteva di certo dipingersi come la cattiva della situazione davanti
alla sua adorata figlioletta acquisita.
“Sognavo…una
casa stupenda, grande, luminosa.
Sognavo un giardino dove avrei potuto coltivare
qualche pianta, sognavo una vita perfetta, una di quelle che si vedono nei
film.” Dalla voce della donna, leggermente addolcita, Daniel intuì che stesse
sorridendo.
“La mia vita da sposata fu
l’esatto contrario. Un appartamento minuscolo, bollette su bollette da pagare, accatastate sul tavolo, riscaldamento sempre spento, luce e
telefono staccati in alcuni mesi dell’anno…”
Stava riassumendo la sua vita
in poche parole. Una vita da cui lei era fuggita lasciandolo completamente
solo.
“Ma
cercavo di farmi forza, l’ho fatto per undici anni. Mi dicevo che avevo l’amore
di mio marito, mio figlio da crescere.”
Un figlio che non aveva mai
cresciuto.
Perché?
Daniel sentì gli occhi
pizzicargli fastidiosamente. Si guardò allo specchio e quasi non si riconobbe;
aveva lo sguardo allucinato e smarrito di un cerbiatto davanti ad un cacciatore
pronto a sparare. Lo sguardo di Bambi dopo aver saputo della morte della madre.
“Le cose andarono sempre peggio di anno in
anno. Il mio ex marito era…sempre più nervoso quando tornava a casa dal lavoro,
i soldi mancavano e bastava un niente, un niente
per farlo arrabbiare.”
Stava davvero dando la colpa di tutto a suo padre?! Suo padre che l’aveva
cresciuto quando lei se n’era andata? Provo un moto di disgusto per lei, quella
donna non era sua madre.
“Litigavamo spesso, anche più
volte al giorno. Non potevo comprarmi nulla, avevo il terrore di comprare qualcosa per me…mio
marito mi avrebbe accusata di aver sperperato i suoi soldi. Io…non
lavoravo.”
Sempre stando attento a non
farsi vedere, si sporse per vedere le due donne sedute
l’una di fronte all’altra.
Delia aveva una mano sul
volto, pronta ad asciugare le lacrime che continuavano imperterrite a scendere
sulle sue guance.
Falsa.
Il ragazzo non pensò neppure
per un attimo che la sua reazione fosse sincera o spontanea, stava chiaramente
fingendo per mostrarsi come la madre meravigliosa che non era agli occhi di
Judith.
La ragazza, invece, sembrava
vagamente commossa, il labbro inferiore preso d’assalto dai denti e un tic
nervoso alla mano che la spingeva a picchiettare con le dita sul tavolo di
tanto in tanto.
Le stava credendo. Avrebbe
creduto alla versione di sua madre, avrebbe creduto che fosse solo una povera
donna per cui provare pena. E lui? Lui sarebbe stato dipinto come il figlio
egoista e insensibile, che si rifiutava di capirla, perdonarla, aiutarla.
Per qualche inspiegabile
motivo, quel pensiero gli scatenò una serie di emozioni contrastanti dentro di
sé; risentimento, sofferenza, rabbia per quella compassione che sua madre non
meritava e che avrebbe dovuto avere lui…era lui quello che era stato abbandonato
senza nessuna spiegazione, era lui ad avere ragione, maledizione!
Eppure si era sempre
rifiutato di farsi compatire, non aveva mai raccontato a nessuno dei suoi
compagni di scuola che fine avesse fatto sua madre proprio per quel motivo, per
evitarsi degli inutili “Mi dispiace”, per evitare di
essere trattato come un cane randagio bisognoso di attenzioni.
“Sono…caduta in depressione.”
Il ragazzo strinse i denti e
serrò le palpebre rievocando alla mente ricordi che credeva
di essere riuscito a cancellare. Oh, ricordava anche quello, le giornate intere che sua madre passava a
letto a piangere, le giornate a digiuno passate davanti alla televisione perché
“la mamma non riesce di farti da mangiare adesso, vai
di là.”
Aveva rischiato di essere
bocciato a scuola, la maggior parte delle mattine non si alzava dal letto
nemmeno per accompagnarlo in classe; aveva rischiato di essere portato via
dagli assistenti sociali per il suo scarso rendimento scolastico. Da piccolo
non aveva la minima idea di che cosa fossero, ma
ricordava di aver sentito più volte suo padre gridare adirato contro di lei
quelle due parole.
“Vedevo tutto nero, non c’era
via d’uscita, era…un Inferno.”
Sua madre iniziò a
singhiozzare e Daniel decise che aveva ascoltato e visto fin troppa ipocrisia per
i suoi gusti.
Non ne poteva più di quella
versione dei fatti che la ritraeva come la vittima infelice, non ne poteva più
di rivivere momenti che lo avevano fatto piangere notti intere quando era poco più che un bambino.
Gli sarebbe piaciuto intervenire,
gli sarebbe piaciuto farle sapere come per anni aveva
passato ogni singolo giorno da quando se n’era andata, ma non le avrebbe mai
dato quella soddisfazione. Era cresciuto lo stesso, era andato avanti, era
sopravvissuto.
Anche senza di te.
E così sarebbe andato avanti.
Se fosse uscito
in quel momento di casa l’avrebbero sicuramente notato e non voleva che
sapessero che aveva appena origliato e assistito a quel patetico teatrino, così
fece semplicemente dietrofront e tornò al piano di sopra.
L’idea della doccia per
calmarsi gli parve nuovamente buona, sotto tutta quell’acqua avrebbe potuto
lasciarsi andare senza sentirsi un idiota; se anche i suoi occhi l’avessero
tradito, i segni della sua sofferenza sarebbero stati cancellati ancor prima
che lui stesso potesse vederli.
******
Jude non riusciva a credere ai propri occhi e alle proprie
orecchie; avere davanti sé Delia in quelle condizioni
era quasi irreale. Era così fragile, così sofferente, così…diversa da come
l’aveva sempre vista, non sembrava neanche lei.
Non sapeva cosa fare, come
comportarsi. Tamburellò con le dita sulla superficie lucida del tavolo e
raschiò la gola; le stava venendo il magone, inutile
negarlo. Non era mai stata un tipo particolarmente sensibile, eppure le parole
della donna, il suo pianto, la stavano commuovendo come solo quello stupido
film su un cane era riuscito a fare.
“Ero egoista, cieca. C’ero solo io, c’era solo il mio dolore, nessuno mi capiva,
nessuno poteva capirmi.” Delia andò avanti a raccontare a fatica, fra un respiro per cercare
di calmare il pianto e l’altro, “Odiavo tutto, odiavo tutti. Me stessa,
la mia vita, mio marito…mio figlio.” Le ultime due parole furono accompagnate
da un altro singhiozzo che strinse il cuore di Jude
in una morsa dolorosa, “Bastava poco per farmi arrabbiare e farmi
gridare frasi che non ho mai pensato contro di lui…” La donna si passò una mano
dietro il collo e chinò il capo addolorata, “Ho maledetto non so quante volte
la sua nascita, proprio davanti a lui.”
Jude tremò al solo pensiero di sentirsi dire da suo padre,
la persona che più amava e stimava al mondo, una frase del genere. Ne sarebbe
uscita distrutta.
“Ti risparmio una buona parte
del racconto…” Delia si umettò le labbra e sbatté ripetutamente le palpebre per
ricacciare indietro altre lacrime, “Alla fine non ce l’ho
più fatta e me ne sono andata, sono scappata.”
La ragazza ipotizzò che la
donna le avesse risparmiato quella che per lei era la parte più difficile e
dolorosa, la parte in cui aveva preso la drastica decisione
di allontanarsi da suo figlio. Probabilmente la stava omettendo per non
rattristarla troppo, o semplicemente perché non se la sentiva di
raccontarla.
“Non potevo occuparmi di mio
figlio in quelle condizioni, per farlo dovevo prima tornare a stare bene con me stessa, non potevo continuare a
vivere così, non…non era vita quella.” Fece una pausa e Jude
si accorse di aver trattenuto il respiro solo quando la donna riprese a
parlare, “Avevo una zia che viveva qui vicino e mi sono trasferita senza dir nulla,
sparendo completamente dalla vita di mio figlio e di mio marito.”
Cazzo.
Jude non poté pensare ad altro, non trovava nessuna parola
più calzante di quella. Non immaginava che la vita di Delia fosse stata così difficile anche prima di incontrare
suo padre e prima della malattia.
Certo, sapeva che aveva
divorziato dal suo ex marito e un divorzio non era mai portatore di gioia nella
vita di una persona, era pur sempre un fallimento, ma…non immaginava che le
cose potessero essere andate in quel modo.
“Per un anno non mi sono più
fatta sentire con nessuno, nemmeno con Dan…Thomas” Si morse il labbro e le fece
un debole sorriso, “Il mio ex marito sapeva dov’ero, ma non mi cercò. Rispettò
il mio bisogno di star per conto mio e si occupò da solo di Daniel.”
Jude rivalutò involontariamente il signor King, forse non
era il buzzurro che pensava che fosse. Un lavoro che lo stancava, uno stipendio
che non bastava, un figlio da crescere, una moglie depressa…la vita non doveva
essere stata semplice neanche per quell’uomo.
E a giudicare da come era Daniel…aveva fatto bene il suo lavoro di genitore.
Certo, il ragazzo aveva un carattere di merda, ma si era diplomato, era
intelligente, lavorava, non cazzeggiava in giro fumandosi canne o altro come la
maggior parte degli adolescenti con qualche disagio in famiglia.
Un punto per Thomas King…e per Daniel.
“Credo mi abbia odiata, ma è riuscito a perdonarmi con il tempo.” Delia
sollevò il capo pensierosa, prima di abbandonarsi ad
un sospiro sconsolato, “A differenza di Daniel…” La frase lasciata in sospeso
le fece capire che erano arrivate più o meno a quel punto, a quel “perché
Daniel sembra avercela con te?”
“Ho sbagliato, non mi sarei
dovuta far sentire dopo così tanto tempo, avrei dovuto
spiegargli subito come mi sentivo, ma…come potevo? Era un
bambino, non mi avrebbe capito.”
Judith abbassò lo sguardo
sulle sue mani, incapace di reggere ancora una volta quello di Delia.
Ripensò a Daniel e a tutti
gli scambi di battute che avevano avuto da quando lo aveva
incontrato la prima volta davanti alla porta della sua stanza.
Non si era comportato bene,
non era stato amichevole, ma anche lei ci aveva messo una buona parte di ostilità,
quindi la colpa dei loro continui battibecchi era da imputare anche a lei.
“Quando l’ho chiamato un anno
dopo, una volta ristabilitami…non ha voluto parlarmi, ha cambiato numero e non
ha più voluto saper niente di me. Tutto quello che so di lui e di questi anni persi
della sua vita me l’ha raccontato suo padre.”
Ecco spiegato il perché di
quel comportamento, di quello sguardo poco prima.
Daniel l’aveva guardata con odio quando l’aveva vista ridere e scherzare con
Delia in cucina.
Per lui è come se gli avessi portato via la madre.
La odiava per quello? Era
stato sempre così scontroso per quel motivo? Tutto tornava, la motivazione era
più che comprensibile e Jude si sentì improvvisamente
sciocca per non esserci arrivata prima.
Allungò timidamente una mano
per sfiorare quella della donna e le sorrise, “Mi dispiace.” La frase più
banale del secolo, ma non sapeva proprio che altro dire.
Delia parve comunque
tranquillizzarsi e sciogliersi a quel tocco, “Va tutto bene ora…più o meno. Lo amo più della mia stessa vita e non mi
perdonerò mai per quello che gli ho fatto…Speravo di poter recuperare e salvare
qualcosa del mio rapporto con lui chiedendogli di venire a vivere qui, ma…”
“Dovresti parlargli a cuore
aperto come hai fatto con me.” Suggerì d’impulso la ragazza, “Non è più un
bambino, se tu gli parlassi e ti scusassi…probabilmente capirebbe.” Si stava
pure mettendo a dare consigli ad una donna adulta e
navigata, senz’altro più di lei, la sua presunzione non aveva limiti.
Non riusciva a stare zitta,
era più forte di lei, doveva dire la sua come sempre.
“Non posso.” Delia ricambiò il suo sguardo smarrita, “Ho…paura di quello che potrebbe
dirmi, del disprezzo che potrei vedere nei suoi occhi. Ho paura di scoprire che
il mio gesto l’ha segnato così in profondità da rovinarlo per il resto della
vita, ho paura di scoprire che le ferite che gli ho inferto non possano più essere
rimarginate.” Afferrò un fazzoletto dal ripiano alle
sue spalle e si coprì il viso con esso, quasi per nascondersi durante
quell’ennesima crisi di pianto.
“Scusami…” Disse
imbarazzatissima e a Jude fece tanta tenerezza.
“Delia, tranquilla, puoi sfogarti con me, non dirò nulla a nessuno.” Le toccò la
spalla con la punta delle dita dispiaciuta.
Era la verità; non avrebbe
detto una parola neanche a suo padre, si sarebbe portata quella confessione
nella tomba.
“Se anche mi
perdonasse…potrebbe…potrebbe…” Delia stava tremando
così forte da farla spaventare, soprattutto perché non aveva la minima idea di
cosa potesse fare per aiutarla, “Potrebbe perdermi di nuovo. Sarebbe un’altra
sofferenza, capisci? Meglio che mi odi.”
“Delia non dire queste sciocchezze.”
La sua voce uscì secca e decisa, non sopportava di sentire frasi del genere,
non voleva prendere in considerazione l’idea che la donna di suo padre potesse
non farcela.
La abbracciò istintivamente,
sentendosi piccola e impotente come non le era mai
capitato in vita sua, “Sei in tempo per recuperare il rapporto, sei in tempo per
aiutarlo a ricucire quella ferita senza che rimangano brutte cicatrici.” Forse
quello che stava dicendo era stupido, forse non aveva
senso, non lo sapeva e non le importava, “Ma se non ci provi Delia…quella
ferita rimarrà sempre, rimarrà sempre quel vuoto dentro di lui, la tua
mancanza…” Iniziò a vedere sfocato e si rese conto di avere gli occhi lucidi,
“Ti aiuterò io, te lo prometto.”
Cazzo, cazzo. Perché faceva
promesse che non avrebbe saputo come mantenere?
Come cavolo avrebbe convinto
quel deficiente ad ascoltare e perdonare sua madre? La odiava, non facevano che
litigare, sicuramente sarebbe stata l’ultima persona a cui
avrebbe dato ascolto. Si era eretto un muro davanti a sé, un muro
che lei non era riuscita a scalfire neanche un po’.
Sei una cretina Judith Parker.
“Davvero?” Delia tirò su con
il naso e sciolse l’abbraccio per spostarle affettuosamente i capelli dal viso
e guardarla, “Tesoro non voglio chiederti di fare questo
per me se non te la senti. Daniel è testardo e”
“Diciamo pure che è un
idiota.” Niente da fare, non aveva filtri tra il cervello e
la lingua, “Ma ti ho detto che ti aiuterò e lo farò. Dammi un po’ di
tempo e riuscirò ad andarci d’accordo.” Fu difficile
dirlo senza fare smorfie, le sembrò strano udire quelle parole uscire dalle sue
stesse labbra. “Gli parlerò io.”
Grandioso. Era ufficialmente
nella cacca. Aveva fatto uno scivolone pazzesco, era caduta e ora era immersa fin
sopra i capelli nello sterco. Ne era sempre più convinta, di passo in passo,
mentre tornava in camera sua per prendere l’occorrente per farsi una doccia
prima di cena.
E ne ebbe la conferma
definitiva quando sul suo letto trovò una banconota da cinque dollari ed un biglietto.
Andare d’accordo con Daniel
King sarebbe stata un’impresa praticamente
impossibile, ma per Delia ci avrebbe provato, sarebbe ripartita da zero il
giorno successivo. Un reset completo, come se il suo rapporto con Daniel fosse
stato un videogioco in cui si era bloccata e non riusciva ad andare avanti.
Sarebbe ripartita da capo e avrebbe cambiato la storia.
Dopo il racconto della donna
riusciva anche a trovarlo meno idiota e a provare del dispiacere per lui.
Doveva aver sofferto molto per la depressione della madre, per le parole che
gli erano state rivolte da lei, per il suo abbandono…
Sorrise impercettibilmente –
se si fosse vista allo specchio avrebbe sicuramente
emesso un verso disgustato per quello che era quanto di più simile ad un
sorriso intenerito – e rilesse le
parole scritte con grafia un po’ disordinata ma decisa sul foglietto che aveva
in mano.
“Non ho bisogno dei soldi di tuo padre, né di una
camicia nuova, grazie.”
*Note dell’autrice*
Ringrazio Jess per il
meraviglioso banner che vedete in cima e colgo l’occasione per linkare la sua
stupenda pagina di grafica su Facebook; JessGraphic.
Siete sopravvissute a 25 pagine,
congratulazioni! Ora potete provare fare un triplo salto mortale all’indietro;
lo troverete una passeggiata, credetemi.
Cavolate a parte e sorvolando sul titolo cretino del
capitolo, cosa ne pensate del capitolo in sé? Mi
aspetto già i “buuu, ritirati” xD
È un capitolo pesante, un po’ idiota all’inizio e più
serio verso la fine (da qui il titolo pietoso).
Vi avevo detto che ci sarebbe stata una svolta nella
storia ed eccola qui. Precisamente da questo capitolo in poi Dan e Jude inizieranno ad avvicinarsi sul serio, quello che avete
visto fino ad ora era nulla in confronto.
La verità su Dan e sua madre è
venuta a galla (ovviamente non tutta, ho omesso dei pezzi) ed il motivo del suo
odio è piuttosto “semplice” e capibile.
Conoscendo molto bene una persona che soffre –
purtroppo – di depressione, sapevo più o meno di cosa
parlavo mentre scrivevo, ciò non cambia che mi sia sentita leggermente a
disagio nell’affrontare un tema così delicato. Spero di non aver offeso nessuno
– in caso mi scuso –, di essere riuscita a rendere bene le emozioni di Delia e
a trattare con tatto l’argomento.
Se non vi è chiaro qualcosa
non vi preoccupate di chiedere (:
Per quanto riguarda Daniel…forse è infantile,
sicuramente si sta comportando male, ma se devo essere sincera
non lo biasimo, capisco il suo astio e molto probabilmente avrei reagito allo
stesso modo se mi fosse successa una cosa del genere.
E poi c’è Jude…ve lo siete
chieste? Dov’è sua madre? È viva o morta? Si saprà un
po’ più avanti, per lei è più “facile” spronare gli altri a parlare che parlare di se stessa.
Dicevo, c’è Jude. Jude che ora è intenzionata ad avvicinarsi a lui, a trovare
un punto d’incontro…solo perché lo ha promesso a
Delia? E lui come prenderà questo suo cambiamento repentino? Si lascerà davvero
avvicinare così facilmente?
Quante domande, della quale
magari non vi importa nemmeno nulla xD
Ad ogni modo, vi ringrazio davvero per il calore che
continuate a dimostrare per questa storia nonostante i continui ritardi!
Rileggendo i vostri commenti mi son detta che dovevo assolutamente darmi una
mossa, vi ho fatto aspettare anche troppo!
Spero che ci siate ancora e spero di non avervi annoiate, un bacione grandissimo!
Bec
Ps: buon Natale e buon
anno!(in ritardissimo XD)
PPs: Lo so, ormai avete perso le speranze,
ma prima o poi le risposte alle recensioni
arriveranno…Inizio da stasera!
Capitolo 7 *** FACIN (Fai Amicizia Con Il Nemico) ***
Capitolo 6:
FACIN (Fai Amicizia Con Il Nemico)
Il piano FACIN, ovvero “Fai amicizia con il nemico”, iniziò ufficialmente la
mattina successiva, al suonare della sveglia.
Judith avrebbe anche potuto
dare il via alla missione la sera prima, subito dopo la chiacchierata con
Delia, ma aveva preferito rimandare e meditarci sopra durante la notte.
Non le piaceva andare in
battaglia senza una strategia ben studiata, non era da lei.
E quindi eccola lì, ferma
come un’idiota davanti alla stanza del suo quasi fratellastro – se Delia e suo
padre si fossero sposati lo sarebbe diventato e il solo pensiero le fece venire
la pelle d’oca – con una tazza di caffè caldo e fumante in mano.
Un’offerta di pace? Qualcosa
del genere.
Si mosse sul posto nervosa e
scosse la testa per spostare indietro una ciocca di capelli, mentre pensava ad un nome più decente per il suo piano; FACIN non si poteva
proprio sentire.
La maniglia della porta si
abbassò e Jude avvertì l’impellente voglia di gettare
all’aria la tazza e correre a nascondersi da qualche parte.
Si sentiva una completa
imbecille e non le piaceva che quell’orrenda sensazione le si
fosse attaccata alla pelle come una zecca.
Quando Daniel sbucò fuori
dalla sua camera, la ragazza rimase immobile e attese
paziente che lui la squadrasse confuso e sorpreso.
Sbatté le palpebre diverse
volte e si passò assonnato una mano sugli occhi, forse chiedendosi se la stesse
semplicemente immaginando o se fosse davvero lì.
Dopo aver constatato
che la ragazza non accennava proprio a sparire, incominciò ad esaminare con
aria circospetta il caffè che teneva in mano, alzando involontariamente un
sopracciglio in una muta domanda.
“Non è avvelenato.” Lo
rassicurò lei sarcastica, tendendo impacciata il braccio davanti a sé, “Senza
zucchero, vero?” Quella mattina, ad un passo dal metterci dentro due zollette,
si era ricordata di non aver mai visto il ragazzo metterne nella sua tazza.
L’aveva osservato più di quanto lei stessa avrebbe ammesso.
Lui ignorò
la sua offerta e si appoggiò con la spalla allo stipite della porta, “Come mai
tanta gentilezza? Che c’è sotto?” Socchiuse le palpebre e la scrutò diffidente.
Perché doveva essere così
dannatamente sospettoso? Non poteva semplicemente accettarlo e ringraziarla
come le persone normali?
Jude
si rigirò l’oggetto tra le mani e ripescò in fretta il discorso che si era
preparata in testa durante la notte, “Perché penso che siamo partiti con il
piede sbagliato. Non avrei dovuto
seguirti fino al locale ieri, mi…” Qualcosa le si
incastrò in gola ed era abbastanza certa che si trattasse del suo orgoglio.
Il ragazzo attese
pazientemente che proseguisse, anche se aveva già intuito che cosa stesse per
dirgli.
Il volto impassibile non l’aiutava di certo, le avrebbe fatto comodo un minimo di
reazione, almeno per sapere cosa gli stesse passando per la testa.
“Mi dispiace.” Ce l’aveva fatta, era stato meno difficile del previsto in
fondo, “Ho dato il peggio di me in questi giorni, non sono abituata ad avere
estranei in casa.”
Il pensare alla difficile
situazione familiare di Daniel la favorì nel procedere con il discorso: pensare
a lui come al ragazzo che aveva sofferto per la madre e non come a quello
arrogante che l’aveva irritata a morte le facilitava
il tutto.
“Ci tengo davvero a farmi
perdonare, quindi…pace?”
Pace? Aveva davvero detto
pace come una bambina dell’asilo? Quella parola non era prevista nel suo piano
d’azione, da dove era saltata fuori?
Quello che non si aspettava
era il sorriso che lui le rivolse, per nulla amichevole e più simile ad un ghigno che la fece rabbrividire inspiegabilmente, “È
sorprendente come la pietà sia riuscita a farti mettere da parte l’orgoglio.”
Replicò in tono sprezzante e cattivo.
“Come?” Aggrottò la fronte stranita,
di che stava parlando quel broccolo?
Il sorriso di Daniel si
spense di colpo, lo sguardo fisso su di lei sembrava volerla trapassare da
parte a parte, “No, grazie.”
No, grazie?!
La stava liquidando con un “no,
grazie”?! Il suo discorso era perfetto, lei era stata
gentile e disponibile e lui la stava…respingendo? Perché? Che diavolo di
problema aveva quel deficiente?! E cosa c’entrava la
pietà?
Per la
rabbia il braccio le stava tremando così forte da far oscillare pericolosamente
il liquido nero all’interno della scodella, “È tutto quello che sai dire? No, grazie?!” Sbraitò senza
curarsi di abbassare la voce.
Il suo adirarsi fece reagire
di riflesso anche Daniel, che le si avvicinò così rapidamente
da farla sussultare. Una goccia di caffè scivolò fuori dal bordo della tazza e
cadde nel vuoto, macchiando la moquette blu ai loro piedi.
Se non avesse avuto il viso del
ragazzo così vicino al suo e i suoi occhi furiosi puntati insistentemente
addosso, si sarebbe preoccupata di abbassare la testa per
controllare le condizioni del tessuto.
Odiava ammetterlo, ma averlo ad una distanza così ravvicinata le scombussolava la mente e
per un attimo il cervello incespicò su pensieri che non avevano nulla a che
fare con quella discussione. Come al fatto che i suoi occhi avessero delle
piacevoli screziature verdi in mezzo a tutto quel marrone…e che i pantaloni grigi
della tuta e quella maglietta nera a maniche corte non gli stessero
affatto male.
Deglutì a vuoto: avrebbe
voluto allontanarsi, ma se lo avesse fatto lui si sarebbe accorto dell’effetto
che aveva su di lei, della reazione che le stava provocando.
“E tu
invece? Non hai
altro da dire?” Le soffiò sulle guance, le parole ringhiate tra i denti come se
fossero insulti e le mani chiuse a pugno con forza.
Jude ammutolì e sbatté le palpebre
disorientata; non riusciva a capire perché si fosse arrabbiato così
tanto e così all’improvviso. Era fuori di testa, non
c’era altra spiegazione. O forse si era ubriacato di nuovo. Oddio, aveva a che
fare con uno squilibrato mentale, forse era il caso di gridare aiuto.
“Ma
di che stai parlando? Che altro dovrei dire, scusa? Se ti aspetti qualcosa di svenevole guarda che…”
“Ah, finiscila.” La interruppe
seccamente, “La storia raccontata da mia madre dev’essere
stata molto commovente se siamo a questi livelli di pateticità.” Insinuò con
voce fintamente stucchevole, i lineamenti contratti in una smorfia insofferente.
Le guance della ragazza persero
improvvisamente colore e la mascella quasi le si schiantò
a terra. Oh merda, sapeva tutto. Sapeva del discorso
con Delia. Le aveva sentite?
La gola le
si seccò e si ritrovò a boccheggiare senza sapere bene come rispondere. Aveva
deciso di sotterrare l’ascia di guerra e avvicinarsi a lui per aiutare Delia, solo
che non poteva certo dirgli quello. Però non riusciva nemmeno a tirar fuori
qualche altra risposta plausibile, era come se la lingua le
si fosse incollata al palato.
“Lascia stare l’offerta di
pace. E lascia perdere i sensi di colpa. Non ho
bisogno della tua pietà.” Non aggiunse altro, la sorpassò e andò al piano di sotto
lasciandola lì pietrificata al centro del corridoio.
Il suo primo tentativo di
avvicinarsi a lui era stato un fiasco totale. Non che avesse sperato di poter
diventare la sua migliore amica nel giro di due minuti, ma credeva che
quell’offerta potesse essere almeno un punto di partenza.
Sospirò e sfregò
distrattamente i polpastrelli sulla macchia nera di caffè formatasi poco prima
sulla T-shirt del suo pigiama. Aveva bisogno di un consiglio e di una nuova
strategia.
*****
“Cosa vuoi
che ti dica?” Jason si pulì la bocca con un tovagliolo, prima di rituffarsi sul
panino più schifoso che Jude avesse mai avuto
l’occasione di vedere.
Ketchup, senape, maionese, mostarda,
salsa rosa, Dio solo sapeva cosa c’era lì dentro. Lui era fatto così del resto,
gli piaceva sperimentare, mischiava sempre tutto.
Mangiava la pasta con il
ketchup e immergeva i biscotti al cioccolato nella minestra, lei e Meg ormai
non si scandalizzavano più per nulla.
“Non lo so,
qualsiasi cosa. Sei un ragazzo, aiutami a…socializzare con
quelli della tua specie!” Spiegò gesticolando con impazienza.
Jason rise e scosse la testa incredulo, “Specie? Non ho parole.”
Aveva bisogno di qualcosa che
la aiutasse ad avvicinarsi a Daniel senza che si insospettisse,
senza che pensasse che lo facesse per pietà o con secondi fini.
“Allora?” Sollecitò quando
vide che l’amico continuava ad ingozzarsi.
“Se vuoi fare amicizia con
lui, sii semplicemente te stessa.” Spiegò con tranquillità, scrollando le
spalle.
Jude sbuffò seccata, “Grazie tante.” Un consiglio più
inutile di quello non avrebbe potuto darlo.
“Se tu iniziassi a comportarti diversamente si insospettirebbe e
allontanerebbe. Non è credibile una Jude dolce e gentile.”
“Ah ah,
simpatico!” Ribatté con una finta espressione imbronciata sul volto. In realtà
sapeva che l’amico aveva ragione, non era da lei essere carina e sdolcinata, si
conosceva abbastanza bene per potersi definire acida e
aggressiva.
“Invitalo alla festa di Seline domani stasera.” Propose Jason con
un’altra scrollata, “Potrei parlarci io. Magari si sentirà più a suo
agio a socializzare con qualcuno della sua… “specie”.” Mimò la parola con le
dita sporche di ketchup, ridendo l’attimo dopo quando l’amica gli riservò
un’occhiataccia.
“Stai
scherzando? E poi odio le feste di
Seline Evans, Jason, lo sai.”
Borbottò lei, infilzando una foglia d’insalata con forza.
Seline Evans era la più ridicola, triste e inutile cheerleader di tutta la scuola. Ovviamente
era anche la più corteggiata, per qualche ragione a lei totalmente
incomprensibile. Anche se la quarta abbondante di seno della ragazza
sembrava essere un motivo più che valido per i suoi compagni.
Jude si chiedeva come diavolo facesse a non schiacciare le
sue compagne con tutto quel peso, quando saliva in cima alla piramide.
“Non dovete mica prendervi a braccetto
o mettervi lo smalto a vicenda, la saluti e poi la ignori per il resto della
serata!”
A braccetto? Lo smalto a
vicenda? Ma Jason che diavolo pensava che facessero le
ragazze insieme per passare il tempo?
Abbassò lo sguardo sulle sue
unghie curate ma prive di smalto e si morse il labbro
indecisa.
“Jude,
provaci. Non mi sembra che tu abbia molte alternative,
no? Magari ha davvero solo bisogno di qualcuno della sua età con cui
socializzare, di farsi qualche amico.”
Forse sì. Anche se con lei
non si poteva certo dire che fosse stato particolarmente gentile e disposto a
fare amicizia. Aveva anche lui la sua parte di colpa, l’aveva presa in giro e
provocata fin dall’inizio.
Piegò la bocca pensierosa:
chiedere a Daniel di andare ad una festa con lei? Non
sarebbe sembrato… ambiguo? Lui avrebbe potuto credere che lo stesse invitando ad uscire e Jude non voleva assolutamente che lo pensasse, ci
mancava solo quello! Sarebbe stato meglio mettere in chiaro fin da subito le
cose e fargli capire che era solo una proposta da amica.
Scosse la testa ed arricciò di poco il naso, “Se anche lo invitassi…” S’ingobbì
sul tavolo per sporgersi verso di lui, “Non accetterebbe mai” Concluse a bassa
voce, senza il minimo dubbio o esitazione. Ne era convinta.
Poteva già sentire la sua
voce mentre le rispondeva “No, grazie” con la stessa freddezza di quella mattina.
Quando aveva cercato di avvicinarsi a lui era stato
come sbattere contro ad un muro di cemento armato.
Si chiese cosa e quanto
avesse effettivamente ascoltato di quella conversazione con Delia… aveva
sentito la sua promessa finale alla donna? Ne dubitava.
Quella mattina Daniel le aveva
detto semplicemente di non volere la sua pietà, quindi non sapeva che aveva
cercato di avvicinarsi a lui per aiutare Delia. Pensava che lei lo facesse per
compassione, doveva essersi perso la parte finale del discorso.
Jason inclinò la testa e si
accigliò, “In quel caso ci avresti comunque provato.”
Giusto. Ormai aveva già messo
in conto di dover mettere momentaneamente da parte almeno
metà del suo orgoglio per conquistare la fiducia di Daniel, quindi non aveva molto
da perdere.
Doveva aiutare Delia a
qualunque costo, non poteva sopportare il ricordo delle sue lacrime e di quel
debole sorriso che le aveva rivolto quando le aveva promesso di aiutarla.
***
Solitamente non amava
rientrare in quella casa, ogni volta che apriva la porta
sentiva l’aria mancargli, come se i muri si restringessero intorno a lui e lo
soffocassero. Sentiva di essere indesiderato, di non potersi muovere liberamente,
di dover prendere decisioni in base alle azioni degli altri abitanti; sentiva di
essere osservato come un animale allo zoo, percepiva gli occhi di Richard
Parker e di sua figlia costantemente su di sé, quasi si aspettassero
solo un suo passo falso.
Era ufficialmente diventato
un soggetto problematico da tener d’occhio e da
compatire. Si sentiva il protagonista di un fottuto programma spazzatura sui
problemi degli adolescenti, uno di quelli che facevano
leva sulla pietà della gente per avere un buon numero di ascolti.
Sospirò e si passò
stancamente una mano sul viso; era esausto e, benché l’idea di rivedere quella
famiglia non lo entusiasmasse, era impaziente di
rientrare per potersi fare una doccia e rilassarsi un po’.
Aveva accettato di lavorare
fino a tardi quel giorno, accettava spesso di fare degli straordinari pur di passare del tempo fuori, pur di non dover restare con dei
tizi che per lui erano poco più che sconosciuti.
Fu un sollievo vedere le luci
del piano di sotto spente: vista l’ora dovevano già aver cenato senza
aspettarlo. Forse erano persino già a letto.
Entrò silenziosamente nel
buio ingresso e non si preoccupò di annunciare la sua presenza; se stavano
davvero dormendo non aveva alcuna intenzione di
svegliarli.
Ad attirare la sua
attenzione, proprio mentre stava per dirigersi al piano di sopra, fu un tenue bagliore
giallo proveniente dalla cucina.
Incuriosito, si affacciò e
fece vagare lo sguardo per la stanza vuota, soffermandosi poi sul forno acceso
e su un piccolo post-it azzurro attaccato sul vetro.
Si avvicinò stranito, a passi
lenti e titubanti, quasi temesse che da lì uscisse una tigre pronta a sbranarlo.
Prese il pezzo di carta tra
le dita e lo staccò, inchinandosi accanto alla luce per poter
leggere meglio quanto vi era scritto.
So che preferiresti spararti alle
palle piuttosto che cenare con noi.
Spero ti piaccia il polpettone,
comunque. Buon appetito. J.
La grafia era tondeggiante e
precisa, la parola “palle” era stata cancellata e poi riscritta accanto.
Daniel inarcò un sopracciglio
e si diede dell’idiota quando sentì affiorargli un sorriso sulle labbra.
Accartocciò il biglietto nella
mano e fissò il piatto all’interno dell’elettrodomestico senza sapere bene cosa
fare.
Quello era chiaramente un
altro tentativo della rompiscatole di rendersi simpatica e sistemare le cose
con lui. Perché era così interessata a farlo? Sensi di colpa? Non poteva
semplicemente lasciarlo perdere? Sarebbe stato più
semplice ignorarsi a vicenda.
Dopo aver origliato la
conversazione tra lei e Delia, aveva creduto che Judith lo avrebbe considerato uno
stronzo insensibile che si rifiutava di perdonare la madre malata, invece era
stata stranamente gentile con lui quella mattina, si era persino scusata.
La cosa lo aveva mandato su
tutte le furie, si era sentito preso in giro da quel sorriso amichevole, si era
sentito come un cane randagio a cui era stato offerto,
per pietà, del cibo avanzato.
Non sapeva proprio che
farsene della pietà della ragazza, di amici ne aveva già – pochi ma buoni – a New
York e nessuno di loro lo era diventato per compassione. Non amava circondarsi
di gente falsa e ipocrita – non amava in generale circondarsi di troppa gente
–, al liceo ne aveva conosciuta e frequentata abbastanza. Errori del passato.
Allungò la mano libera e
piegò la bocca indeciso, poi fece girare la manopola
del forno per spegnerlo e si rialzò.
Non aveva fame e non voleva
nulla da lei. Quel comportamento era sospetto e Daniel era piuttosto diffidente
di natura, soprattutto con le persone che si dimostravano improvvisamente
cortesi.
Lo avrebbero mangiato loro il
giorno dopo, riunendosi a tavola e raccontandosi amabilmente le loro giornate
come una famiglia, mentre lui sarebbe stato in disparte come sempre,
preferibilmente al lavoro.
Andò al piano di sopra e,
dopo aver raccolto dal letto i pantaloni della tuta e la maglietta che usava
per dormire, si chiuse in bagno e si fece una doccia.
Doveva assolutamente portare
i suoi vestiti in lavanderia il giorno dopo, era bastato un giorno
perché i tessuti assorbissero gli odori del locale. Puzzavano di fritto, di
carne abbrustolita e di sudore.
Uscì dal bagno e passò in
silenzio davanti alla porta chiusa della stanza da letto di Delia, Richard e
dell’odiosa rompiscatole.
Certo che era davvero
deprimente andare a dormire alle dieci e mezza di
sera, lui era abituato a restare alzato anche tutta la notte. Doveva abituarsi
ancora agli orari assurdi di quel posto.
A fargli quasi venire un
infarto fu un’ombra accanto alla sua camera. Gli ci volle qualche secondo per
riconoscerla, l’altezza e l’esile corporatura non gli lasciavano molti dubbi.
“Non ti hanno mai detto che è
un peccato sprecare il cibo?” Esordì così Judith, in tono leggero e
colloquiale.
Perché diavolo girava così
furtivamente e al buio davanti alla sua porta? E dove cavolo era prima? Quella ragazza era dannatamente inquietante.
A quanto poteva vedere dalla
scarsa illuminazione aveva i capelli raccolti e indossava una maglia a maniche
lunghe e un paio di pantaloncini corti che le lasciavano scoperte le lunghe
gambe. Deglutì a vuoto e la sorpassò per entrare nella stanza senza degnarla di
una risposta.
Accese l’abatjour sul
comodino e aprì il primo cassetto con l’intenzione di tirare fuori la sua PSP.
“Potresti almeno
rispondermi.”
Daniel finse uno sbadiglio e
si buttò a pancia in su sul letto, in mano il
dischetto del gioco Assassin’sCreed
II Brotherhood.
La principessina si stava
irritando. Poteva fingersi gentile quanto voleva, ma se ignorata finiva inevitabilmente
con lo scaldarsi, Dan questo lo aveva capito.
“Ok, bene,
continua pure ad ignorarmi.” Sbottò piccata, incrociando le braccia al
petto e fissandolo in cagnesco.
La prese in parola. Anche se,
purtroppo, sentiva il suo sguardo su di sé, sentiva che lo stava osservando senza
bisogno di alzare la testa per verificarlo.
Restarono in silenzio per un
po’ e, per quanto cercasse di concentrarsi sul gioco, non riusciva proprio a
non sentire il respiro affrettato di lei a pochi passi, non riusciva ad impedirsi di focalizzare la sua attenzione su quello.
Tanto meno riusciva a fingere che lei non fosse lì, maledizione.
“Daniel?”
Sbatté le
palpebre sorpreso e sollevò la testa. Non seppe dire cosa lo convinse a
spostare lo sguardo su di lei; forse il modo in cui aveva pronunciato il suo
nome – con una nota arrendevole, quasi dolce
–, forse il fatto che lo avesse effettivamente appena chiamato per nome,
cosa piuttosto rara.
Una luce vittoriosa le
illuminò gli occhi quando si accorse di aver ottenuto la sua attenzione e lui
si diede silenziosamente dell’idiota per esserci cascato così facilmente.
“Che vuoi? Non dovresti essere a nanna?”
Disse infine, in tono sarcastico e con l’evidente intento di schernirla.
“Sono solo le dieci e mezza.” Replicò lei tranquilla, “Non dirmi che tu di solito
vai a letto a quest’ora.” Lo sfidò corrugando la fronte.
Lui forzò un sorriso e
trattenne un’imprecazione quando i soldati nemici lo uccisero nel gioco,
“Tesoro, per me la serata alle dieci e mezza deve
ancora iniziare.” A New York almeno. Lì alle dieci e mezza
al massimo poteva iniziare la tombolata di beneficenza in chiesa.
“Bene. Perché vorrei
parlarti.”
Di certo le serate che avrebbe potuto definire piacevoli non comprendevano quella
seccatura. Se già il suo umore non era dei migliori, quella frase non fece che
peggiorarlo.
“Dubito che possa
interessarmi quello che hai da dirmi.”
Ma non aveva qualche cavolo di amico con cui uscire? Un
ragazzo che la sopportasse? L’aveva scaricata pure la sua amica dai capelli
rossi? Come biasimarla…
Jude fece un respiro profondo per cercare di calmarsi.
Aveva rischiato di perdere il controllo e di augurargli di strozzarsi con quel
polpettone dal primo momento in cui lo aveva incontrato in corridoio. Chi diavolo si credeva di essere? Con quell’aria arrogante…!
Se ancora perdeva tempo dietro a lui era solo per
Delia e per quella promessa che le aveva fatto.
“Senti, non avrei dovuto
chiedere a tua madre di parlarmi del vostro rapporto, mi dispiace di averlo
fatto e di aver invaso la tua privacy.” Iniziò a passeggiare per la stanza e a
sfregarsi le mani tra loro con evidente nervosismo. “Ero curiosa” Ammise con
riluttanza.
Sperava solo che quel
patetico discorso risultasse credibile e servisse a
qualcosa.
“Vorrei mettere comunque in
chiaro una cosa….” Voltò la testa nella sua direzione, sforzandosi di guardarlo
in faccia e di non lasciar vagare gli occhi sul suo corpo.
Da quando si era stravaccato
scompostamente sul suo letto la maglietta gli si era alzata fin troppo, lasciando
scoperta e ben visibile una porzione di pancia che stava tentando
disperatamente di non guardare. Santo cielo, non
poteva darsi un po’ di contegno?
Si schiarì la voce, “Tu non
mi fai pena.” Precisò in tono conciso, le mani
puntellate sui fianchi, “Posso dispiacermi per te e
per quello che ti è successo, ma la pietà è un’altra cosa.”
Daniel alzò
appena un sopracciglio, la bocca piegata in una smorfia insofferente, “Okay. Hai finito?” Chiese con calma.
“No.” Calò appena le palpebre irritata, “Se ho deciso di scusarmi e di
chiederti di ricominciare è perché mi sono resa conto del mio comportamento
scorretto nei tuoi confronti e ho voluto rimediare.” Oh, come suonava matura e
decisa alle sue orecchie! Il suo discorso non faceva una sola piccola,
minuscola piega.
“Non per compassione. Non
sono tipo da compatire così facilmente gli altri.”
Era vero. In genere era piuttosto
dura e severa con chi aveva sofferto e non faceva nulla per rimboccarsi le
maniche e andare avanti, con chi si compiangeva e basta. Lei aveva sofferto
quando era rimasta sola con suo padre, eppure si era fatta forza e aveva
proseguito la sua vita anche senza una figura materna accanto.
Lui la
osservò per un po’, così intensamente da farla sentire tremendamente a disagio. Jude ebbe l’impressione
che stesse cercando di leggerle dentro, di capire qualcosa in più di lei dopo
quell’ultima frase.
Distolse lo
sguardo e congiunse le mani a disagio, “Bene. Ho finito.” Sfregò la punta della pantofola sulla
moquette, chiedendosi quanto stesse risultando
patetica da uno a cento.
Di sfuggita, lo vide mettere
da parte quell’odioso e stupido giochino nero che aveva in mano e socchiudere
gli occhi in un modo che a lei parve quasi minaccioso.
Perché non diceva più nulla?
Le andava bene anche una frase sarcastica. Non le piaceva essere squadrata in
quel modo, si sentiva indifesa.
Aspettava una sua risposta,
un segno, un qualcosa che le facesse capire se era riuscita
anche solo a scalfire quel muro che lui aveva eretto tra di loro.
Quando Daniel, finalmente, parlò
– con voce bassa e controllata, scandendo bene e lentamente le parole –, a Jude sembrò quasi che fossero passati minuti interi.
“Dov’è tua madre?”
Avvertì un guizzo nel petto,
qualcosa smuoversi con una violenza che la sconvolse e la lasciò senza fiato.
Si era aspettata di tutto; una
risata, una battuta, un insulto, uno sgarbato “sparisci”,
aveva persino preso in considerazione l’idea che accettasse le sue patetiche
scuse, ma non immaginava che Daniel le domandasse una cosa del genere.
Sentì un fastidioso pizzicore
al naso e sbatté le palpebre per scacciare via quel velo umido che stava
iniziando ad appannarle la vista.
Merda.
Era cresciuta senza una
madre, doveva essere abituata a quel genere di domande.
Aveva sempre messo da parte
il dolore, la rabbia e il rancore provati nei suoi confronti per lasciar posto ad una totale indifferenza. Quando le sue compagne di classe
alle elementari le chiedevano dove fosse, lei rispondeva con una scrollata di
spalle e un “non ce l’ho”. Come se fosse nata da suo
padre, come se suo padre l’avesse concepita da solo.
Sua madre non era niente, nemmeno un’entità astratta nella sua testa, non
esisteva semplicemente. Non poteva odiare o sentire la mancanza di qualcosa che
non esisteva, questo si era sempre ripetuta.
Si era fatta forza negli anni,
anche e soprattutto per suo padre, aveva pianto da sola nella sua cameretta solo
qualche volta da piccola, ma poi era andata avanti e aveva smesso di pensarci.
Si umettò appena le labbra,
la gola secca e in fiamme così come le guance. Sapeva perché glielo aveva
chiesto, per stabilire una sorta di equilibrio, di parità. Lei era a conoscenza
di quanto successo tra lui e sua madre, lui no.
Ciò non cambiava comunque le
cose, quella domanda l’aveva colta completamente alla sprovvista come uno
schiaffo in pieno viso. Non aveva avuto il tempo di proteggersi, di prepararsi
una reazione, una frase da dire.
Lui attese paziente e
impassibile che rispondesse; se si fosse o no accorto di quel tentennamento non lo diede a vedere.
“Se n’è andata quando avevo
tre anni, non la ricordo.” Mormorò infine, in tono neutro e senza un briciolo
di emozione nella voce.
Per lei era facile,
all’occorrenza, scacciare il ricordo di sua madre in un angolino buio della sua
mente, un angolo nascosto e insignificante da cui si teneva alla larga.
Sperò che non le chiedesse
altro, con quell’ultima precisazione aveva voluto proteggersi da un qualsiasi
altro tentativo di chiedere spiegazioni. Non la ricordava, era la pura e
semplice verità. Non avrebbe saputo rispondere a nessuna domanda su di lei.
Daniel abbassò lo sguardo e rimase
in silenzio per una quantità di tempo che Jude iniziò
a trovare insopportabile, probabilmente meditando sulle sue parole e cercando
una risposta adatta alla situazione. Poi sospirò piano, passandosi una mano sul
viso.
Ecco fatto, ora sarebbe arrivato
il tipico “mi dispiace” di convenienza, quello di chi non sapeva che altro
dire, quello di chi poco si dispiaceva in realtà. Una persona su dieci
intendeva davvero quelle parole quando le pronunciava. Lei stessa faceva spesso
parte di quei nove decimi.
Non dire mi dispiace, ti prego.
L’avrebbe guardata come una
patetica bambina cresciuta senza mamma e in cerca di coccole, avrebbe pensato
questo di lei, che fosse patetica. E
in effetti lo era, che cosa le era venuto in mente di rispondere? Perché
lo aveva fatto? Non poteva inventare qualche cavolata o eludere la domanda?
Lui parve valutare l’ipotesi
di dire qualcosa – Judith osservò le sue labbra schiudersi con il cuore in gola
–, forse di chiederle altro, poi ci ripensò e scosse la testa. “Scuse accettate. Buonanotte.” Ritornò al suo stupido giochino
senza degnarla di un’ulteriore occhiata.
Tutto lì?
La ragazza cercò di affogare
con forza la delusione – stupida, infantile e immotivata – che provò dentro di
sé. Era frustrante essere congedata in quel modo, specie dopo essersi aperta
così con lui e quasi umiliata per
ottenere un minimo di reazione.
Gli fu comunque tacitamente
grata per non aver pronunciato quelle due paroline inutili che tanto odiava, non avrebbe sopportato di sentirsele rivolgere da
lui.
Conficcò le unghie nei palmi
delle mani e si morse l’interno guancia, sentendosi
stupida per aver sperato…
Cosa?
Che lui si sarebbe comportato
diversamente dopo quella confessione?
Aveva accettato le sue scuse,
era già qualcosa.
Il suo modo di fare irritante
la indisponeva da morire, ma doveva ammettere a se stessa che una parte di lei, a malincuore, lo trovava tremendamente
stuzzicante.
Daniel aveva eretto un muro fra di loro, c’era una barriera che le impediva di
avvicinarsi. Era così dannatamente enigmatico, misterioso, scostante… l’opposto
di quella cozza appiccicosa e stressante di Edward Russo; era una sfida e a lei
tutto sommato le sfide erano sempre piaciute.
“Un’ultima cosa.” Si ricordò
improvvisamente, stringendosi nelle spalle. Maledetto Jason e le sue idee.
“Domani
sera c’è una festa a casa di una mia amica. Cioè, non è proprio un’amica, è più una compagna di scuola. Un’odiosa
compagna di scuola, in realtà. In effetti non so
nemmeno perché abbia intenzione di andarci. Comunque pensavo di…” Non credeva
che si potesse morire d’imbarazzo prima di allora, stava balbettando, santo cielo! E stava davvero per chiedergli di andarci con
lei, dopo il modo da cafone in cui l’aveva liquidata! Ad una festa! Che cosa avrebbero pensato quelle pettegole
della sua scuola se si fosse presentata con…
“Okay, come ti pare.” Daniel
alzò il braccio sinistro e mosse pigramente la mano per salutarla. O più
precisamente per scacciarla.
Lei richiuse la bocca di
scatto e strinse la mascella con forza. Idiota.
Saltargli addosso e
strozzarlo non era un’opzione contemplabile. Doveva
resistere e sopportare. Per Delia. Non importava se suo figlio
le istigava violenza, lei era superiore a tutto. Tutto.
Si immaginò seduta sul tappeto del soggiorno, le gambe
incrociate, le mani poggiate sulle ginocchia, il pollice e l’indice uniti, gli
occhi chiusi.
Ommmm.
Che lo yoga sia con me, pensò, sbuffando dalle narici e rilassando i muscoli
tesi.
Col cavolo che gli avrebbe
chiesto di andarci con lei! Ma cosa si era messa in
testa? Jason l’aveva contagiata con la sua idiozia, aveva ficcato della
segatura nel suo cervello.
“Volevo
solo dirti che dovrai arrangiarti con la cena perché Delia e mio padre saranno
fuori. Buonanotte.” Sibilò gelida,
uscendo svelta e silenziosa dalla stanza. Non sbatté nemmeno la porta dietro di
sé, gli avrebbe dato la soddisfazione di vederla arrabbiata se lo avesse fatto
e non se lo meritava.
Idiota. Che se ne andasse al
diavolo! Non era mica una santa lei e non aveva alcuna intenzione di mettersi
in ridicolo più di quanto già non avesse fatto, aveva ancora una dignità da
preservare!
Si buttò sul suo letto con
foga, facendo finire a terra il ridicolo diario su cui ogni tanto scribacchiava
i suoi sfoghi.
Aveva più la forma di
un’agenda che di un diario dei segreti vero e proprio: niente cuori, niente pelo, niente rosa; quel colore nero e serioso la faceva
sentire meno ragazzina e meno stupida quando scriveva su quelle pagine delle
sue giornate.
Sbuffò e lo rimise al suo
posto, sotto il materasso. Lo teneva nascosto sotto il materasso del suo letto
di solito, ma non le era sembrata una buona idea lasciarlo in camera con quel
cretino.
Incrociò le braccia sul
cuscino e vi appoggiò il mento, lanciando un’occhiata alla figura addormentata
di Delia sul letto matrimoniale accanto.
Non poteva deluderla, le
aveva fatto una promessa. E, Dio, si sarebbe sentita
troppo in colpa a non mantenerla se Delia nonostante le cure non fosse riuscita
a… non riusciva nemmeno a pensarlo.
Avrebbe aiutato una donna a
riavvicinarsi a suo figlio, avrebbe aiutato quella che per lei era sempre stata
come una madre, a qualsiasi costo.
Non si era mai affezionata così tanto a nessuna delle fidanzate di suo padre, non
ricordava di aver pensato a nessuna di loro come ad una donna con cui potersi
confidare e da prendere come modello.
Sbadigliò. Un passo in avanti
con coso lo aveva fatto tutto sommato: aveva accettato le sue scuse, era comunque un
inizio. Le cose sarebbero andate meglio di giorno in giorno, anche perché
peggio di così dubitava che potessero andare.
Ci avrebbe pensato il giorno
dopo alla prossima mossa, ora era decisamente troppo
stanca.
*Note della ritardataria, altresì chiamata “autrice”*
Ehm… dunque… ecco, direi di
cominciare con un “ciao a tutte!”, sempre che ci sia ancora qualcuno che mi
stia leggendo. Sono in ritardo, lo so, ma vi
risparmierò una sequela di giustificazioni che non vi interessano per parlare
un po’ di questo capitolo.
Un po’ di passaggio, ma
sappiate che il prossimo capitolo, quello della festa, sogno di scriverlo da
quando ho iniziato la storia. Ho quella scena in mente da anni e, per come è nella mia testa, è stupenda (mi sono innamorata così
tanto del personaggio di Daniel proprio grazie a quello che succederà nel
prossimo capitolo). Poi magari verrà fuori una merda quando lo scriverò eh –
probabile, conoscendomi xD
Comunque, tornando a questo,
sono stata un po’ cattiva con Jude, vero? Cioè, lui
la tratta proprio con freddezza e non sembra minimamente interessato a lei.
Lei, invece, un pochino interessata lo è. Sicuramente non solo per la
promessa fatta a Delia. Ma non dimentichiamoci di Evan,
il fratello di Meg di cui è cotta, che nel prossimo capitolo verrà
presentato ben bene. Peggio di Beautiful! :D
Poooi. Jude dice qualcosa su sua
madre: naturalmente non si capisce molto di quello che è successo, se è morta o
se è viva, perché se n’è andata; potrebbe esserle capitato di tutto. Anche
questo si saprà più avanti.
Forse questo capitolo non
sarà valsa l’attesa, non so davvero più in che modo
scusarmi per il ritardo.
Spero con tutto il cuore che
vi sia piaciuto e vi ringrazio infinitamente per i vostri meravigliosi
commenti. Non so cos’ho fatto per meritarli, ma… GRAZIE, davvero.
Risponderò alle vostre
recensioni man mano, come ho fatto per il capitolo scorso. E come sto cercando
di fare un po’ in tutte le mie storie, giusto perché mi sembra meglio
rispondervi singolarmente per dirvi quanto vi sono grata per le vostre parole e
per il tempo che mi dedicate :)
Un bacione grandissimo! E
giuro che non passerà più così tanto tempo per il
prossimo capitolo, ne passerà mooolto di meno!
Riassunto delle puntate precedenti: Jude ha parlato con Delia
di Dan e si è fatta raccontare cos’è successo in
passato tra loro e perché lui la odia tanto. Daniel le ha sentite e si è
arrabbiato, soprattutto con Jude di cui è un po’
“geloso” per via del rapporto che lei ha con sua madre.
Jude gli ha chiesto scusa nel capitolo scorso, gli ha
detto che non voleva farsi gli affari suoi e che non lo
compatisce affatto. E gli ha svelato che sua madre se n’è andata di casa
quando lei era piccola e che non la ricorda. Lui accetta le scuse e fine. (come sono brava a fare i riassunti, eh? :P)
Perdonate il titolo pessimo,
ma capirete il perché e da dove viene quando arriverete in fondo al capitolo.
Buona lettura!
Capitolo 7: “Adesso però mi piace”
Un grazie particolare a Bea per il dettagliato betaggio e per avermi sopportata come
sempre.
A Clara per avermi ‘stressata’ per scrivere questo
benedetto capitolo e per la ‘consulenza’ sulla scena finale.
E a chiunque sia qui a leggere ancora, dopo tutto
questo tempo :)
La notte, si sapeva, portava
sempre consiglio, e a Jude rigirarsi tra le coperte
era decisamente servito.
Era piuttosto di buon umore
la mattina seguente, benché ci fosse poco di cui rallegrarsi: non c’erano stati
miglioramenti con Daniel, aveva dormito poco e, come se non bastasse, aveva
promesso a Jason che sarebbe andata alla festa di Seline
Evans quella sera. A conti fatti sarebbe stata una giornata tremenda, eppure,
nonostante tutto, non riusciva a smettere di sorridere.
Versò il suo tè caldo nella
tazza, canticchiando come la sciocca protagonista di un film Disney.
“Ti si è paralizzata la
faccia?”
Spostò lo sguardo sul ragazzo
seduto di fronte a lei ed incontrò i suoi occhi
castani. La scrutava con prudenza, con un sopracciglio inarcato e la schiena
appoggiata alla sedia, quasi si aspettasse che lei potesse tramutarsi in un
mostro carnivoro a sei teste.
Niente da fare, nemmeno
quella domanda pronunciata in tono indisponente e strascicato ebbe il potere di
riportare al loro posto gli angoli delle sue labbra.
“Probabile” Rispose portando
la tazza al viso e ridacchiando.
Se possibile Daniel la
osservò ancora più stranito e circospetto, ma lei non vi badò troppo. Poggiò la
tazza sul tavolo e fece scivolare i palmi delle mani
sulla superficie liscia davanti a sé, come a volerla pulire da una polvere
inesistente. “Oh, prima che mi dimentichi…” Iniziò, alzandosi in piedi e
prendendo una penna e i post-it dal cassetto. “Ti ricordi, no, che questa sera
non ci sono?”
Non aspettò una sua risposta.
Non che se la aspettasse davvero, Daniel il più delle volte sembrava trovare
superfluo il degnarla di tanta cortesia.
Posò il blocchetto sul tavolo
di fronte a lui e continuò, “Avrei bisogno del tuo numero di telefono”.
Nonostante si fosse preparata il discorso nella sua testa la sera prima, dirlo
ad alta voce fu ugualmente imbarazzante, specie per il modo in cui lui la
guardò. Dapprima sgranò appena gli occhi sorpreso, poi
tornò alla diffidenza di sempre. Assottigliò lo sguardo e aggrottò la fronte sospettoso. “A che ti serve?”
Jude arrossì e si odiò per
quel fastidioso calore sulle guance e sul collo. “Non farti strane idee,
Playboy” Disse con scherno – o almeno ci provò. “Mi piace avere tutto sotto
controllo e, dal momento che stasera tua madre e mio
padre usciranno, vorrei assicurarmi che sia tutto a posto, visto che rimarrai
da solo in casa”.
Non le sembrò particolarmente
convinto di quella risposta, ma poco importava. Doveva avere quel dannato
numero. Delia le aveva detto di non avere il numero di telefono di suo figlio e
lei glielo avrebbe procurato, a qualunque costo. Inoltre voleva davvero
assicurarsi che quel presuntuoso non desse fuoco alla
casa in sua assenza.
“Gentile da parte tua, ma so
badare a me stesso”. Replicò sarcastico, facendo un mezzo sorriso tutt’altro
che spontaneo.
Scosse la testa e sospirò.
“Credo di essermi spiegata male”. Le sembrò di essere una maestra alle prese
con un bambino poco intelligente, “Non è di te che mi importa,
ma della casa. Potrebbero anche rapirti e gettare il tuo
cadavere in un fosso, per quanto mi riguarda”. Sfoderò un mega
sorrisone, la testa leggermente inclinata e gli occhi socchiusi. Non era stata
molto carina con quella frase, ma doveva preservare un minimo di facciata. Il
giorno prima si era scusata con lui ed era stata fin
troppo gentile, doveva rimediare.
Daniel fece una smorfia e
girò la pagina del quotidiano che aveva in mano, continuando ad
ignorare il blocchetto e la penna. “Sei proprio la meravigliosa ragazza che
descrive mia madre” Considerò sarcastico, alzando gli occhi al soffitto.
“Vero? Lo penso anche io.” Tamburellò impaziente con le dita sui post-it, “Allora? Non
ho tutto il giorno, sono in ritardo.” Sperò di non risultare
troppo disperata, non stava morendo dalla voglia di avere il suo cavolo di
numero. Cioè, sì, ma solo per aiutare Delia.
Lui occhieggiò la penna da
sopra il giornale, poi sospirò con rassegnazione e lo ripiegò per riporlo sul
tavolo.
La ragazza si sforzò di non
mostrare alcun tipo di entusiasmo quando lo vide scribacchiare distrattamente
dei numeri sul piccolo foglio quadrato. Sperava solo che fosse davvero il suo
numero e che non le stesse facendo qualche stupido
scherzo.
“Perfetto, grazie!” Lo staccò
dal resto del blocchetto e lo infilò in tasca, appuntandosi mentalmente di
salvarlo in rubrica una volta arrivata a scuola. Avrebbe potuto farlo anche
subito e davanti a lui, ma non voleva dargli tanta importanza.
“Delia e mio padre torneranno
abbastanza presto, ma ti chiamerò comunque verso le undici e mezza
per sapere se è tutto a posto”. Stava per voltarsi ed
uscire, ma all’ultimo cambiò idea.
“Per qualsiasi cosa ti lascio
il mio, nel caso avessi bisogno.” S’inchinò in avanti sul tavolo e stappò di
nuovo la penna per scrivere il suo recapito sul post-it successivo.
Non si aspettava che la
chiamasse, sapeva che non l’avrebbe mai fatto. In realtà non sapeva nemmeno
perché glielo stesse lasciando, era inutile. Di certo non si sarebbe rivolto a
lei, neanche se avesse avuto bisogno di qualcosa.
“In tal caso credo preferirei
lasciare che buttassero il mio cadavere in un fosso” Replicò lui indisponente, ad un soffio dal suo orecchio.
Appunto. Simpatico quanto le
spine di un cactus negli occhi. E a proposito di occhi, si ritrovò i suoi
eccessivamente vicini quando rialzò la testa. Di un marrone mischiato a delle
quasi invisibili pagliuzze verdognole… le ricordavano l’autunno, le ricordavano il colore delle foglie degli alberi in quella
particolare stagione.
Non riuscì a capire se
l’accenno di profumo del suo dopobarba la infastidì o inebriò, seppe solo che,
quando le arrivò alle narici, si risvegliò da quei pensieri come se qualcuno le
avesse dato un pizzicotto. Era decisamente troppo
vicina a lui. Si schiarì la gola a disagio e si allontanò in fretta con un
piccolo saltello all’indietro, sperando che il suo nervosismo non trapelasse
troppo dai suoi gesti.
Lui non aveva fatto una
piega, notò Jude, la sua vicinanza non sembrava averlo minimamente turbato. Aveva
la stessa espressione irriverente di poco prima sul volto, niente lasciava
pensare che si fosse accorto del cambiamento di lei.
Grazie al cielo, considerò rassicurata. Non sapeva che diavolo le fosse preso, doveva ricordarsi di mantenere almeno un
metro di distanza da lui, un’ordinanza restrittiva emessa dal suo stesso
cervello per il suo bene.
“Bene,
allora posso andare. Buona
giornata.” La sua voce, purtroppo, aveva completamenteperso la sicurezza e spavalderia di poco prima.
Porca miseria.
Lui alzò la mano e la salutò
con un gesto derisorio e sbrigativo, tornando subito dopo al suo giornale. Lo
osservò imbambolata per una manciata di secondi; i
capelli castani spettinati, gli occhi assonnati e socchiusi posati sulle pagine
del quotidiano, la maglietta scura che gli fasciava perfettamente il busto, le
braccia scoperte e muscolose al punto giusto, i polsi… aveva dei bei polsi,
pensò stupidamente. Perché quel maledetto doveva essere bello? Non poteva
essere un secchione mingherlino e sfigato? O un
tritarifiuti di centottanta chili?
“Ah e ricordati che chiamerò
per controllare che sia tutto a posto alle…”
“Cristo santo!” Lui fece
roteare lo sguardo per la stanza scocciato. “Sei peggio
di mia madre. Alle undici e mezza, ho capito, farò in
modo che gli alcolici e le prostitute spariscano prima del tuo controllo del
cazzo, okay?”
Jude calò di poco le palpebre, la mascella contratta e i
pugni serrati. “Davvero simpatico. Sono seria, dimentica il ‘fai
come se fossi a casa tua di mio padre’, questa non è casa tua. Vedi di comportarti bene.”
Lui corrugò le sopracciglia infastidito. “Sei davvero sicura di avere
diciotto anni e non sessanta? Immagino che sarai l’anima della festa stasera,
giocherai a scarabeo per caso?”
Oh-oh, al moccioso si era
sciolta la lingua, riusciva anche a comporre frasi più lunghe di due parole, era sconvolgente!
“Trivialpursuit, in realtà.” Replicò con un sorriso, decisa a
non dargli altre soddisfazioni. “Tu fai il bravo e non andare a letto troppo
tardi.” Sbatté le ciglia con fare canzonatorio, per poi voltarsi ed uscire finalmente da quella casa.
Piccolo appunto mentale: non
avvicinarsi più a Daniel King.Ed evitare di
incantarsi troppo a guardarlo.
****
…6945…
“Buongiorno splendore!”
Jude sussultò sul posto, il
dito fermo sul tasto cinque del cellulare mentre salvava il numero di quel
cretino del suo non-fratellastro.
“Come va oggi?”
“Una merda” Rispose atona,
senza staccare gli occhi dal telefono.
Come sempre, Edward non si
lasciò scoraggiare.“Sono
sicuro che tra poco migliorerà. Curiosa di sentire la
canzone che ho scelto per te – che dico, per noi – oggi?” Le chiese con un sorrisone sulle labbra.
“Neanche un po’” Borbottò,
ficcandosi in tasca il post-it colorato e scrivendo velocemente il nome di
Daniel. “E non esiste nessun ‘noi’ Ed”. Alzò gli occhi
al cielo scocciata, ritornando al display subito dopo.
Ma perché Edward Russo non poteva essere un ragazzo
normale? Perché capitavano tutti a lei i tipi strani ed
inquietanti?
Lui la ignorò e, portandosi
la mano chiusa a pugno sulla bocca, tossì per darsi un tono, prima di iniziare
a cantare.
“Every night in my dreams I see you, I feel you”.
Oh no. Santo
cielo, no. Odiava quella canzone, era stata felice di sentirla solo durante i
titoli di coda del film Titanic, dopo aver goduto per la morte di quel faccia-da-bimbo di Leonardo di Caprio. Tra lui e labbra-a-canotto-Winslet non sapeva chi era peggio e chi
avesse detestato di più da bambina.
“Che diamine di sonniferi prendi
la sera?” Sbuffò lei irritata, rispondendo alle parole della canzone e rabbrividendo
per il disgusto.
I suoi tentativi di imitare
la voce di Celine Dion erano imbarazzanti e ben presto in molti si girarono a
guardarli. Grandioso.
Edward aveva un’autentica
espressione di dolore in volto, una partecipazionecommovente.
La mano aperta sul cuore e il modo in cui faceva ondeggiare piano la testa davano un tocco in più al tutto.
“Edward o la pianti o ti
prendo a calci”. Incrociò le braccia al petto a disagio, lanciando occhiatacce
ai compagni di scuola che si fermavano ad osservarli.
“Near, far, wherever you aaaare, I believe that the heart does go on!” Continuò imperterrito lui, incurante delle sue minacce
e del suo imbarazzo.
“Mi fa piacere saperlo, ma io
me ne vado”. Fece per girarsi, ma lui le
diede un colpetto impaziente sul braccio, interrompendosi, “No, aspetta, ora
arriva la parte migliore!”
“Non stento a crederlo, ma
sta per iniziare la prima ora, quindi…”
Lui riprese a cantare e Jude
decise di averne avuto abbastanza di quella performance. Se anche se ne fosse
andata, lui l’avrebbe seguita e non voleva di certo avere quell’mp3 vivente –
stonato – e in vivavoce alle calcagna.
Allungò la mano e gli afferrò
i capelli, tirandoli con forza verso di sé. Quello servì a farlo smettere.
“Ahia! Ahia! Non ti è piaciuta?” Chiese
lui innocentemente, massaggiandosi la testa quando lo lasciò andare.
“Secondo te?” Chiese
retoricamente, aggrottando le sopracciglia in modo eloquente.
Edward chinò il capo
dispiaciuto e storse la bocca, “Per domani troverò qualcosa di meglio”.
“Preferirei di no.”
“Magari qualcosa di Cheryl
Cole.”
“O anche no.”
“O di Robbie Williams.”
“Hai già provato con ‘She’s the one’
e non era andata bene” Gli ricordò lei, accennando al suo piede con il mento.
Era ruzzolato giù dalle scale mentre gliela stava cantando e facendo gli
scalini di spalle per guardarla in faccia.
Edward annuì in silenzio,
grattandosi il mento pensieroso come un vecchio saggio. Gli mancava solo la
barba bianca.
Fu Jason a salvarla proprio
quando Ed stava per proporre un’altra terribile canzone.
“Ehi, Juju,
per stasera allora ti vengo a prendere io alle otto?” Le circondò le spalle con
un braccio, per la non-gioia di Edward, che s’incupì.
“Se proprio devi”. Il
buonumore di quella mattina era sparito velocemente. Prima la canzone di Edward
e poi il ricordo della serata che l’attendeva, di male
in peggio, dalla padella alla brace.
“Oh, dai, non fare storie, ci
divertiremo a quella festa!” Ridacchiò lui, facendo un cenno all’altro ragazzo.
“Ciao Edward”.
“Fray”
Ribatté l’altro imbronciato. Poi sfoderò nuovamente il suo solito sorriso e si
voltò verso di lei. “Allora ci vediamo lì questa sera, meraviglia”. Le fece
l’occhiolino.
“Un motivo in più per non
andarci, insomma” Replicò stancamente, senza preoccuparsi di non farsi sentire.
A Edward tutto quello che diceva sembrava rimbalzare o
scivolare addosso, doveva essere fatto di viscida gelatina.
Come volevasi dimostrare nemmeno
quella frase lo mise di cattivo umore, anzi, lo fece ridere. Era idiota, non
c’era altra spiegazione.
Judith sospirò e diede un
pugnetto sul braccio dell’amico. “Alle otto quindi?”
Jason, che aveva assistito
allo scambio di battute tra lei e Edward, scrollò le spalle divertito e annuì.
“Alle otto. Dovrò cercare di non bere per riaccompagnare a casa te e Meg dopo.”
Pensare ad
un Jason astemio era come pensare a Bugs Bunny senza carota: impossibile. Non
che fosse un alcolizzato, ma quando c’era da bere e divertirsi Jay era sempre
in prima fila. Se lei e Meg avessero avuto la patente
non si sarebbero mai affidate a lui per un passaggio, era un buon amico, ma
tremendamente inaffidabile.
Inarcò un
sopracciglio scettica. “Andiamo bene”.
*****
Dopo una giornata di merda al
lavoro, Daniel pregustava di trascorrere una serata in pieno relax,
contava di non vedere anima viva almeno fino all’una del mattino.
Quella stronza di Becky lo aveva fatto sgobbare per tutto il giorno,
facendogli fare ben più di quanto gli spettasse e approfittando del fatto che, in quanto ultimo arrivato, non avrebbe potuto far poi molto
per opporsi. Pulire i servizi non era compito suo, ma dal
momento che Rita, la donna delle pulizie, si era dovuta assentare quel
giorno, era toccato a lui occuparsene.
Si era incazzato,
naturalmente, ma quando Trevor era intervenuto chiedendo se c’era forse qualche
problema, aveva dovuto mandar giù una sequela di insulti
e una sfuriata piuttosto infantile per far finta di nulla.
Non poteva permettersi di
mettere a rischio il suo lavoro per una sciocchezza, quei soldi gli servivano
per avere una minima indipendenza economica lì dentro, non aveva alcuna
intenzione di passare le giornate in casa di Richard Parker a rigirarsi i
pollici. E a proposito di Richard Parker… aveva avuto un moto di rabbia e
disgusto quando l’uomo si era seduto accanto a lui sul divano, poco prima di
cena.
“Tua madre ti ha lasciato
qualcosa nel forno.” Aveva esordito così, in tono amichevole,
ma prudente, quasi stesse sondando il terreno con lui. Sembrava un padre
in procinto di fare un discorso serio al figlio, solo che Daniel non aveva
nessun legame di parentela con lui e non era tenuto a starlo ad ascoltare.
Alzò lo sguardo dal suo
cellulare per riservargli un veloce e forzato sorriso di ringraziamento,
sperando invano che la conversazione morisse lì.
“Se vuoi venire con noi…”
“No” Si affrettò a
rispondere, nauseato al solo pensiero di passare una serata a reggere il
moccolo a quell’uomo e sua madre.
Richard si schiarì la voce e
annuì piano, congiungendo le mani davanti a sé e meditando in silenzio per
qualche secondo. Non prometteva nulla di buono.
Nei secondi che seguirono, la
sua irritazione e il suo disagio crebbero e Daniel avvertì l’impellente bisogno
di andarsene.
“Posso solo immaginare come
tu stia.” L’uomo si voltò a guardarlo di sbieco, lievemente agitato. “Anzi, non
credo che il tuo dolore possa essere minimamente paragonabile al mio. Tu sei
suo figlio e io…”
Aveva ascoltato già troppo.
“Non mi va di parlarne”. Si alzò di scatto, le mani
chiuse a pugno ed il battito accelerato del cuore nelle orecchie.
“Aspetta.” Richard allungò
una mano per toccarlo, poi all’ultimo sembrò ripensarci e la ritrasse. Saggia
mossa. “Dammi la possibilità di parlare, ti prego. Questa situazione non è
facile per nessuno.”
Per nessuno? Richard Parker
non era di certo in una casa con dei perfetti estranei che lo odiavano, aveva
la sua bella famigliola di cui lui non faceva parte.
“Io non so cosa sia successo
tra te e tua madre e non voglio saperlo, non voglio
intromettermi.”
Basta.
Merda, non voleva ascoltare,
non voleva parlare di quello che era successo con sua
madre, non voleva proprio parlare di lei, tantomeno con quell’uomo.
Gli veniva da vomitare.
Strinse i denti e si costrinse a non replicare sgarbatamente.
“So solo che per lei sei
importante e, di conseguenza, lo sei anche per me. So che hai un padre e non
cercherei mai di prendere il suo posto, voglio solo
che tu sappia che qui sei uno di famiglia, che se hai bisogno di qualsiasi cosa
chiunque in questa casa sarà pronto ad ascoltarti e ad aiutarti.”
Meno male che si era
premurato di dirglielo, non sapeva come avrebbe fatto a vivere altrimenti,
pensò sarcastico.
Vide il tavolino in vetro di
fronte a sé oscillare leggermente e gli occorse
qualche secondo per realizzare che era lui a tremare. Si passò una mano sugli
occhi e fece un respiro profondo per scacciare la nausea. Belle parole,
davvero. Forse erano anche sincere, peccato che non lo facessero star meglio neanche un po’.
Perché nessuno in quella casa
capiva come si sentiva? Non voleva stare lì, non voleva vedere sua madre felice
con quegli estranei, una parte di lui non voleva
proprio più vederla visto il male che gli aveva fatto. Voleva poter tornare a
casa e riprendere la sua vita di sempre, far finta che niente di tutto quello
fosse successo, ma con sua madre in quelle condizioni la sua stessa coscienza
glielo impediva.
“Compresa
mia figlia, anche se non sembra”.
Si lasciò sfuggire uno sbuffo molto più simile a una risata amara mal
trattenuta. Judith Parker era l’ultima persona al mondo che lo avrebbe
ascoltato e aiutato, avrebbe preferito amputarsi un braccio piuttosto.
“Non è semplice per lei averti in casa, è stato difficile accettare anche Delia
all’inizio.”
Voltò di poco la testa,
giusto quanto bastava per osservarlo in volto. Aveva i lineamenti tesi in
un’espressione seriamente amareggiata e Daniel provò quasi compassione per lui.
“Si è sempre presa cura di me
da quando la mia ex moglie se n’è andata e ha trovato a fatica un equilibrio
senza di lei” Spiegò a bassa voce, sfregandosi nervosamente le mani. “Si
abituerà alla tua presenza, è una brava ragazza ed è intelligente. Sono sicuro che riuscirete persino ad andare d’accordo”.
Certo, ad andare d’accordo,
come no. Cosa stava cercando di dirgli? Perché quel
discorso, cosa voleva da lui?
“Ti chiedo di avere un po’ di
pazienza con lei, cercherò di parlarle di nuovo.”
Daniel
scosse lentamente la testa e respirò profondamente. “Non serve.” Ci mancava solo che Judith ricominciasse
a parlargli con quel sorriso condiscendente che avrebbe potuto rivolgere solo ad un povero idiota.
Si morse l’interno della
guanciae rilassò i muscoli delle braccia, mostrandosi
più tranquillo e indifferente di quanto fosse. “Apprezzo il discorso, comunque,
anche se non era necessario”.
Tutti in quella casa
sembravano trovare inconcepibile l’idea che lui non volesse essere coinvolto
nel loro “meraviglioso mondo fiabesco”, voleva solo essere invisibile. Cercava
di stare fuori e di lavorare il più possibile per evitarli, non era abbastanza
evidente?
“Lo era”
Sostenne risoluto l’uomo. “Non voglio davvero che tu ti senta di troppo qui o
non voluto, questa è casa tua quanto mia e hai tutto il diritto di starci”.
Bene, bello. Buono a sapersi,
ora poteva ufficialmente unirsi a loro per la partita a carte del giovedì sera,
il sogno di una vita. Chissà se lo avrebbe anche incluso in un eventuale
testamento, visto che quella che, almeno a parole, era
anche casa sua sembrava valere un bel po’.
Dio, ma come
era finito in quel discorso cuore-a-cuore con Richard Parker? Che
diavolo aveva fatto di male per meritarselo?
Mandò giù una sgarbata risposta
che avrebbe rivelato fin troppo la sofferenza che tutta quella situazione gli
causava e sorrise forzatamente. “Lo terrò a mente, grazie”.
Gli sarebbe piaciuto, tutto sommato, potersi davvero sentire come a casa sua, come
uno di famiglia. Lo infastidiva il pensiero, ma non era contento nemmeno lui di
sentirsi un completo estraneo in quel posto. Se le cose con sua madre fossero
andate diversamente, se lei non lo avesse abbandonato senza dire una parola per
trovarsi un’altra famiglia, forse avrebbe potuto persino apprezzare Richard,
avrebbe potutocercare
di conoscerlo e di essere simpatico. Lo avrebbe fatto principalmente per
sua madre, per renderla felice. Ma lei se n’era
andata, lo aveva lasciato solo quando aveva avuto più bisogno di lei, era
sparita e non era più tornata. E ora, ora,
dopo anni di assenza, gli mostrava quanto era contenta con la sua nuova e
meravigliosa famiglia, senza di lui. Si era costruita una nuova vita senza di
lui, una vita in cui non c’era evidentemente posto per
lui. Non le doveva nulla.
Fu una liberazione vedere uscire
di casa tutta quella sottospecie di famigliola felice
e restare da solo per la prima volta. Gli sembrò di tornare, chiudendo gli
occhi, ad una delle numerose serate trascorse da solo
nell’appartamento di suo padre a New York. Thomas King non era quasi mai a casa
e, le poche volte che lo era, aveva bevuto troppo o
non era dell’umore adatto per scambiare con lui vere e proprie frasi che non
fossero grugniti o monosillabi. A Daniel andava bene così, gli era sempre andato bene così. Non riusciva a pensare ad
un padre diverso da lui; sebbene non ci fosse dialogo tra di loro, sapeva che,
se avesse avuto bisogno di qualcosa, suo padre sarebbe stato il primo ad
occuparsene, anche se a modo suo e con scarsi risultati probabilmente. Era
rimasto completamente solo in una casa di merda che non aveva mai voluto e che
aveva accettato di affittare solo per rendere felice sua moglie, a crescere un
figlio adolescente che non avrebbe potuto che dargli problemi in un’età così
delicata e senza una madre. Non lo aveva mai abbandonato, a differenza di sua
madre, e Daniel, solo per quello, sentiva di provare stima e affetto nei suoi
confronti, nonostante i momenti di bassi superassero di gran
lunga quelli di alti nella loro quotidiana routine.
Sospirò e si abbandonò sullo
schienale del divano, accendendo la televisione più per abitudine che per
guardarla davvero. A casa non la guardava quasi mai, per risparmiare sulle
bollette, ma da quando era lì la accendeva spesso. Una
piccola ed infantile ripicca, dal momento che non era
lui a doversi occupare delle spese in quella casa, ma Richard.
Gli sarebbe piaciuto aver lì
con sé i suoi amici; Sketch lo avrebbe irritato con la sua continua e
fastidiosa risata da iena, quella pazza di Des avrebbe già riempito la casa di chewinggum incollati ovunque e
avrebbe già rovinato il divano poggiandoci gli anfibi sopra e Reed… Reed se ne sarebbe uscito
con qualche merdata di frase sul senso della vita dopo essersi fumato in
completo silenzio un paio di canne.
Ancora ricordava l’uscita sui
viaggi in nave che aveva fatto la sera prima che partisse da New York per
venire dalla madre.
“Ci pensate”, aveva detto con
aria assorta e dal nulla, dopo esser stato zitto per almeno due ore, “a come era una volta viaggiare? In nave, con il mare mosso…
con le scarse condizioni igieniche, le malattie, il cibo che andava a male dopo
giorni, mesi passati in mezzo al nulla? Des, tu saresti morta
in un giorno, visto quanto soffri il mal di mare”.
Des aveva disteso le gambe e incrociato
le caviglie, lanciandogli un’occhiata scocciata di sottecchi. “Ci risiamo. Reed si è svegliato, bentornato
tesoro”. Poi, dopo essersi stiracchiata con le braccia, aveva tirato su i piedi
e si era rannicchiata sul posto: “Comunque io in quanto
donna sarei rimasta a casa a cucinare, pulire e sputare fuori bambini dalla
vagina. A crepare ci sareste andati voi e io ci avrei
goduto come una vacca.”
Daniel sorrise ripensando
all’espressione ebete con cui l’aveva guardata Reed.
Des aveva sempre uscite abbastanza spiazzanti, non si faceva
problemi a dire quello che le passava per la testa, senza alcun filtro. Nulla a che vedere con Judith Parker e il suo mondo rosa, in altre
parole.
Abbassò lo sguardo sul suo
cellulare e passò distrattamente il dito sullo schermo. Si trattava solo di
qualche mese, poi sarebbe finito tutto. Avrebbe voluto avere
una macchina del tempo per saltare quel supplizio e arrivare direttamente a
quel giorno, per vedere come sarebbero andate le cose, se l’inizio della
terapia di sua madre sarebbe servito a qualcosa o... Scosse la testa e si
concentrò sulla televisione. Tanto valeva guardarsi un film per distrarsi.
Notò di sfuggita l’orologio e
aggrottò la fronte stranito. Barbie Principessa si era
dimenticata della sua telefonata rompicoglioni di controllo a quanto pareva,
considerato che era mezzanotte e non si era ancora fatta sentire. Meglio così,
non ne sentiva di certo la mancanza.
***
Quando riaprì gli occhi si ritrovò completamente immerso nel buio del
soggiorno, fatta eccezione per un chiaro bagliore sul soffitto.
Qualcosa sembrava ronzare
vicino a lui, ma non ci fece subito caso, stanco e stordito dal sonno com’era. Sbatté
le palpebre confuso e si guardò intorno, cercando di
ricordare cosa ci facesse lì. Doveva essersi addormentato.
Si sfregò
le palpebre con le dita e si mise a sedere. Non aveva la minima idea di che ore
fossero, si era addormentato prima che tornassero a casa sua madre e Richard,
con la televisione accesa e il cellulare in mano.
Si voltò verso lo schermo
spento della TV e tastò il divano in cerca del suo telefono.
Quando lo trovò, lo sentì
vibrare sotto la sua mano e comprese da dove provenivano quel ronzio e quella
luce. Strizzò gli occhi infastidito nel momento in cui li puntò
sul display fin troppo luminoso; qualche deficiente – ignoto dal momento che
non riconosceva il numero –lo stava
chiamando alle due del mattino.
Chi diavolo poteva essere? Probabilmente qualche amico
scemo da New York. Al suo amico Sketch bastava bere un po’ per andare fuori di testa, forse credeva di star chiamando qualche
strafiga che aveva conosciuto in discoteca. Questo non spiegava comunque il
numero sconosciuto.
“Pronto?” Aveva una voce
talmente roca da far invidia a un serial killer. Se la schiarì
appena e attese impaziente una risposta che non tardò ad arrivare.
“Sì, uhm, Daniel?”
Una ragazza. Merda. Avrebbe
dovuto ricordarsela? A quante ragazze di cui non aveva memoria
aveva dato il suo numero?
L’ipotesi dello scherzo di un
amico gli sembrava sempre più valida.
“Sì?”
“Ciao, scusami se ti disturbo,
sono Meg”.
Merda. Meg. Setacciò la sua
mente in cerca di un ricordo o di un volto. Zero. Chi
cazzo era Meg? Ci era andato a letto insieme? A New York gli era capitato di
ubriacarsi a tal punto di non ricordare nomi o volti di ragazze con cui era
stato, ma non credeva di essere stato tanto stupido da lasciare il suo numero a
qualcuna.
Il suo silenzio dovette
parlare per lui, perché la ragazza si affrettò a specificare, un po’ a disagio:
“L’amica di Jude”.
Visualizzò la ragazza dai
capelli rossi e si massaggiò la fronte, improvvisamente consapevole di chi ci
fosse dall’altra parte. Di Jude ne conosceva solo una, grazie
al cielo, non c’era possibilità di fraintendere.
“Ah, sì. Ciao”. Ciao? In realtà avrebbe voluto incazzarsi per l’orario e chiederle perché mai
avesse il suo numero, ma era un tantino disorientato al momento.
“Scusami se ti chiamo a
quest’ora, è una specie di emergenza” spiegò lei, talmente in fretta che Daniel
fece fatica a starle dietro.
Gli sembrò piuttosto agitata
e non gli parve il caso di infierire, così decise di rimandare il momento
dell’incazzatura.
“Che succede?” Chiese
istintivamente, un po’ più vigile.
Prima che la rossa potesse
rispondergli, una seconda voce femminile s’intromise nella conversazione, più
lontana rispetto alla prima.
“Metti giù Meg, giuro che ti ammazzo!” Borbottò in tono lamentoso quella che riconobbe
come Judith.
Aveva a che fare con due
psicopatiche, non c’erano dubbi. Diede dei colpetti con le dita sullo schienale
del divano, irritato ed impaziente di sapere che
diavolo volessero da lui.
“Sarei tentato di farlo io, a
questo punto” Commentò in tono neutro. “Intendo mettere giù, non ammazzarti”
Precisò lievemente sarcastico. Non era ancora arrivato al punto di voler
ammazzare la rossa, dopotutto non era colpa sua se Judith Parker gli causava un
tale fastidio.
“No! Aspetta, ti prego” Fece Meg
allarmata. “Siamo a una festa di una nostra compagna
di scuola e Jude ha bevuto troppo, così come l’amico che doveva riaccompagnarci
a casa in macchina. Non sappiamo come tornare e
io non so cosa fare e…” Meg fece un respiro profondo e la sua voce si affievolì.
Nel silenzio del salotto, Daniel
inarcò lentamente un sopracciglio. Fissava torvo l’orologio luminoso del
lettore dvd, che gli ricordava in modo beffardo l’ora in cui stava accadendo
tutto quello. Erano le due del mattino, era sveglio dalle sei del giorno prima,
aveva lavorato dodici fottute ore e ora Meg-l’amica-di-Jude lo chiamava per metterlo al
corrente di un problema che non lo riguardava. Che diavolo voleva da
lui?
“Vuoi che svegli suo padre e
gli dica di venirvi a prendere?” Azzardò, con voce più calma di quanto volesse.
Si ricordò che quella ragazza era forse una delle poche persone ad averlo
trattato con sincera e amichevole gentilezza e non come se fosse un povero
deficiente bisognoso di attenzioni e compassione.
“Oddio no, suo padre la
ammazzerebbe se la vedesse in questo stato”.
In quale stato? Come si era
ridotta la Perfetta Judith
Parker?, si chiese Daniel vagamente divertito e
incuriosito.
Stentava comunque a credere
che Richard Parker avrebbe ammazzato sua figlia per una simile sciocchezza, sembrava
adorarla talmente tanto che probabilmente le avrebbe fatto passare liscia
qualsiasi cosa. Non riusciva a credere che si sarebbe arrabbiato se anche avesse
scoperto che sua figlia era stata talmente idiota da ubriacarsi e da non saper
come tornare a casa da una festa.
“Uhm,
quindi?” Chiese dopo un po’, non sentendo più nulla dall’altro capo.
“Potresti… potresti
venire a prenderci?” La sua voce tremò appena, come la fiammella di una candela
in procinto di spegnersi.
Una risata nacque spontanea
nel suo petto e Dan ci mise un po’ a tornare serio. “Che cosa?
Io?” Doveva per forza essere uno scherzo, lo stavano
prendendo in giro quelle due.
Meg non parve essersela
presa, né, purtroppo per lui, confermò la sua ipotesi. “Oh sì, ti prego. Non sappiamo come tornare e non possiamo restare qui a dormire!”
Piagnucolò ad alta voce, direttamente nel suo orecchio, rischiando quasi di
farlo diventare sordo. “Puoi usare la macchina di suo padre, Jude dice
che le chiavi le mette sempre nella ciotola sul mobile
all’ingresso”.
Cristo Santo, non stava
scherzando, era seria. Diede una rapida occhiata
all’ingresso buio alle sue spalle e scosse la testa incredulo.
“Non ho intenzione di prendere la sua macchina senza chiedergli il permesso. Non ho proprio intenzione di prenderla”.
Non erano sue amiche, lui non
doveva loro alcun favore. Erano finite in quel casino? Bene, cavoli
loro, se ne sarebbero tirate fuori da sole. Perché mai avrebbe dovuto
prendere una macchina non sua e uscire di notte per
andarle a prendere? Dopo come si era comportata Judith con lui poi, dopo come
lo aveva sempre trattato… assolutamente no!
“Ti prego! Saremo in debito
con te, faremo tutto quello che vorrai, aiutaci! Se i miei scoprono che ho
bevuto e che non sono ancora tornata a casa manderanno una pattuglia a cercarmi,
e non scherzo!”
Sospirò rumorosamente,
quella vocina stridula lo stava seriamente stancando. Non vedeva l’ora di
mettere giù e di andarsene a letto.
“Non sarebbe una cattiva
idea” Fece ironico. “Almeno tornereste a casa”.
Cercò a tentoni
il telecomando del televisore con la mano libera e lo individuò nella penombra sopra
il bracciolo del divano. Dovevano averlo messo lì Richard e Delia dopo averlo
spento.
Si alzò e, a fatica, nel buio
della stanza, raggiunse l’ingresso senza rompersi l’osso del collo inciampando contro
qualcosa.
“Abbiamo paura, sul serio.
Qui è il delirio, sono tutti completamente fuori. Siamo
chiuse in bagno e non sappiamo come uscirne”.
Tutti completamente fuori? In
quel posto di merda cosa mai potevano essersi fumati, la carta del giornale? Avevano
aspirato borotalco e bevuto succo di frutta?
Si proibì categoricamente di
cedere o di preoccuparsi. Il ricordo del sorrisetto derisorio di Judith Parker lo
aiutò nell’impresa.
Non aveva intenzione di
correre a salvare la principessina prendendo di nascosto la macchina di suo
padre per poi magari ricevere, in cambio, solo altre
provocazioni e nemmeno un “grazie”. La cocca di papà avrebbe dovuto
pensarci prima di bere qualcosa di diverso dal suo solito tè.
“Abbassando la maniglia della
porta?” Propose con una punta di nervosismo. Gli dispiaceva per la rossa, tutto sommato, se si fosse trattato di aiutare solo lei non
sarebbe stato così stronzo.
Si aspettava una risposta
acida, un attacco di isteria tipico di una ragazza
sull’orlo delle lacrime, invece arrivò una replica molto docile e arrendevole:
“Non importa, come non detto. Aveva ragione Jude, lei aveva
detto che non saresti venuto”.
Fletté le dita della mano
libera ed affondò i polpastrelli nel palmo con forza,
sibilando tra i denti come un serpente prima di mordere la sua preda. Si fermò
al centro dell’ingresso, ad un passo dalle scale e ad un passo
dalla ciotola con le chiavi della macchina.
Non seppe perché quella frase
lo infastidì così tanto, forse perché il pensiero che
Jude avesse ragione su qualcosa, specie su di lui, era insopportabile.
“Grazie lo stesso e scusami se ti ho
disturbato”.
Si arruffò
i capelli e sospirò, maledicendosi venti volte per quello che stava per dire.
“Dove siete?”
*****
Non riusciva a ricordare
l’ultima volta in cui avesse fregato – preso in prestito
era solo un modo carino di definire il tutto – la macchina di qualcuno senza il
suo permesso. Forse due anni prima, a Capodanno, quando aveva dovuto guidare
non completamente sobrio la macchina dell’ignaro zio del suo amico per le
strade di Brooklyn.
Si chiese come avrebbe
reagito Richard Parker se, svegliandosi nel cuore della notte, si fosse reso
conto del fatto che la sua auto fosse sparita. Così come lui. E sua figlia.
L’ospedale più vicino – probabilmente anche l’unico del posto – lo avrebbe
ricoverato d’urgenza per un arresto cardiaco.
D’altra parte, non riusciva
nemmeno a ricordare quando fosse stata l’ultima volta in cui avesse messo piede
ad una festa di liceali.
Ricordava che, durante il suo
primo anno delle superiori e insieme ai suoi amici, s’imbucava spesso a feste a cui non era stato invitato, solo per il gusto di far
arrabbiare i ragazzi più grandi, litigare con loro e conoscere le cheerleader. Quando,
al terzo anno, era entrato nella squadra di basket della scuola e nella cerchia
dei ragazzi che Krystal Ferguson, la
capo-cheerleader, definiva “appetibili”, aveva iniziato a ricevere fin troppi
inviti per i suoi gusti. Andare ai party organizzati dai suoi compagni di
scuola era diventato in fretta noioso, non lo divertiva essere “uno di loro”,
non lo divertiva avere ragazze isteriche che prima gli si buttavano addosso,
senza che lui avesse nemmeno il tempo di aprire bocca, e dopo finivano col
chiudersi in bagno piangendo una perduta verginità che “quello stronzo
insensibile di Daniel King” aveva tolto loro.
Aveva incominciato ad evitare quella gente come se, solo avvicinandosi, avesse
potuto prendersi la sifilide e, tramite il cugino più grande di un suo amico,
aveva iniziato a partecipare a feste nei locali, con gente più adulta e non
poppanti che litigavano per contendersi l’ultima cassa di birra rimasta o la
bionda senza cervello di turno. Trovarsi nella casa della famiglia Evans fu
come tornare al suo anno da matricola delle superiori. Non dovette dir nulla di
particolare per entrare, un ragazzo ubriaco gli aprì la porta e gli diede una
pacca sulla spalla come se fossero amici da una vita.
Dubitava che ricordasse il
suo stesso nome o cosa ci facesse lì, aveva l’aria di uno che avrebbe vomitato
l’anima da un momento all’altro.
Daniel mosse lentamente i
suoi primi passi nell’abitazione, guardandosi intorno con un misto strano di
curiosità, divertimento e disgusto. La canzone All
Night delle Icona Pop gli rimbombava nelle orecchie, il volume era così alto
che dalle casse la musica usciva vagamente gracchiante.
Al naso gli arrivò un forte e
riconoscibile odore di fumo, non solo di sigarette. Dappertutto vedeva
adolescenti più svestiti che vestiti, appartati in un angolo o a ballare,
gridare e saltare al centro delle stanze. La rossa non scherzava quando diceva
che la situazione era fuori controllo.
Infilò le mani in tasca pensieroso e notò le scale che portavano al piano di
sopra: Meg gli aveva detto di essere al secondo piano, nell’ultima stanza in
fondo al corridoio sulla destra. Sperava di non beccare una camera
da letto.
Non riuscì ad avanzare di
molto, dal momento che una ragazza gli gettò le
braccia al collo e si aggrappò a lui per non crollare a terra come un sacco di
patate.
“Tu chi sei? Non ti ho mai visto qui” Fece lei,
avvicinandosi alla sua faccia per farsi sentire e leccandosi le labbra con la
punta della lingua.
Le passò una mano dietro la
schiena per sostenerla e la squadrò per un paio di secondi: bionda, alta, gambe snelle e scoperte e un seno bello pieno. Sorrise a
mezza bocca; di ragazze come quella New York era
piena. “Tuo fratello” Replicò ironicamente.
Lei ridacchiò, segnò che la
battuta era arrivata comunque al suo cervello poco lucido. Aveva l’alito che
puzzava di birra e la bocca ancora impiastricciata di rossetto lievemente
sbavato sul mento.
“Ho sempre trovato
tremendamente eccitante l’incesto, sai?” Fece
scivolare le sue mani sul suo petto e si sfregò contro il suo corpo come un
gatto che faceva le fusa.
Suo malgrado, lui allargò il
suo sorriso. Non gli dispiaceva il suo senso dell’umorismo. E non gli
dispiaceva nemmeno quel seno premuto contro di lui.
“Che ne
dici di andare di sopra, in una delle camere? In un letto comodo…” Chiese lei,
ringalluzzita dalla sua risposta apparentemente positiva.
Daniel spostò lo sguardo
sulle scale dietro di lei; in un’altra circostanza probabilmente avrebbe
acconsentito. Da quando era arrivato lì non aveva
avuto nemmeno il tempo di pensare di avere una vita sessuale e la cosa stava
iniziando ad avere un certo peso. Sketch e Reed gli
avrebbero chiesto se gli si fosse fottuto il cervello
se avessero saputo che stava per sprecare un’occasione del genere. Pazienza, si sarebbe rifatto a New York.
“Non sono un amante della
comodità”. Scrollò le spalle. “Starei cercando il bagno, c’è al piano di
sopra?”
Lei aggrottò la fronte
confusa, poi riacquistò subito la spavalderia di poco prima.
“Sì, in fondo a destra. Ho capito, preferisci farlo sotto la doccia.”
Daniel scosse la testa e le sorrise sardonico. “Nella vasca, in realtà. Ma ho una particolare adorazione per la lavatrice”.
Lei rise di nuovo ed iniziò a tracciare una scia di baci sul suo collo.
Un po’ restio, si costrinse a
staccare le mani dall’invitante vita della ragazza e ad allontanarla da sé. Non
era davvero cambiato nulla dalle feste che ricordava; quella doveva essere il
classico tipo di ragazza che prima se lo sarebbe scopato senza battere ciglio e
poi avrebbe finito con l’incolpare lui di quanto successo o il negare qualsiasi
coinvolgimento per mantenere la facciata da brava ragazza.
“Hai una ragazza, vero?” Domandò lei con un tono di voce infantile,
imbronciata e risentita per essere stata respinta.
“Già” Rispose senza troppa
convinzione, sapendo che, se avesse risposto di no, quella avrebbe continuato
l’interrogatorio. La successiva domanda sarebbe stata, al novantanove per
cento, “Sei gay, vero?”. Le donne non erano proprio in
grado di reggere un rifiuto.
“Cristo, lo sapevo!” La
bionda barcollò all’indietro e si appoggiò al muro. “I migliori sono sempre già
presi”. Corrugò le sopracciglia chiare e lo scrutò in volto
improvvisamente più lucida. “La conosco? È a questa
festa?”
“Probabilmente sì”. Meglio
restare sul vago.
La sorpassò e alzò una mano a
mo’ di saluto. “Ci vediamo in giro, eh.”
Lei lo indicò più volte con
l’indice, la bocca e gli occhi di colpo spalancati.
“Aspetta, ma io ti conosco!
Tu sei quello della tavola calda di Trevor, quello di New York!”
Merda. Non pensava che lo avrebbe
riconosciutoe non pensava nemmeno che il
discorso con lei si sarebbe protratto così a lungo, sperava di liquidarla più
velocemente.
“Sì. Scusami,
vado di fretta”.
Fortunatamente non fece altre
domande e lo lasciò libero di schivarla e salire al piano di sopra.
Individuò subito la porta del
bagno; era l’unica porta in fondo sulla destra, non
c’era possibilità di sbagliarsi. Ciononostante, quando l’aprì,
lo fece con la massima lentezza per assicurarsi che fosse davvero quella la
stanza che cercava.
Nel momento in cui una
ragazza dai capelli rossi gli si avventò addosso non
ebbe più dubbi.
“Oddio, grazie! Credevo non arrivassi più!”
Lo stava abbracciando come se
le avesse salvato la vita, come se fosse stato sei
mesi in guerra e fosse tornato vivo per miracolo, come se… Meg lo stava
letteralmente stritolando.
“Ci ho messo dieci minuti” Le
fece notare schiarendosi la voce e staccandola non troppo bruscamente da sé. Era
abituato a ricevere abbracci da ben poche persone a cui
voleva bene e quella sera ne aveva già ricevuti troppi per i suoi gusti, da
perfette estranee oltretutto.
Meg parve un po’ imbarazzata
e subito si scusò per lo slancio con cui aveva accolto il suo ingresso.
“Non ti preoccupare”. Non
aveva ancora finito di dirlo, quando una terza voce, un mugugno piuttosto,
s’intromise nel discorso.
Jude era seduta a terra; le
ginocchia strette al petto, la testa appoggiata al muro dietro di sé e la pelle
del volto bianca come un lenzuolo.
Nonostante tutto, nonostante
le prese in giro, i litigi e il rapporto meraviglioso
che lei aveva con sua madre, Daniel
non riuscì a compiacersi di quella vista. Un po’ gli dispiacque vederla così pallida
e debole.
La osservò mentre affondava i
denti nel labbro inferiore e chiudeva gli occhi, le ciglia scure in completo contrasto
con il pallore del viso. Doveva stare veramente male, non riusciva a credere
che una ragazza orgogliosa e petulante come lei potesse fingere in quel modo. Stava
per commettere l’errore di farsi intenerire dal suo aspetto, quando Judith alzò
di colpo una mano per agitarla davanti a sé.
“Stai schiaffeggiando
l’aria?” Le domandò di getto, incapace di contenere il sarcasmo.
Lei emise un verso molto
simile ad un basso ringhio e continuò ad agitare il
braccio con più foga. “Mandalo via, Meg!”
Debole un corno, pensò
inevitabilmente divertito, quella riusciva a rispondere male e ad essere odiosa anche in quelle condizioni.
“Sì, se continui così sono sicuro che ce la farai” La provocò avvicinandosi,
le mani in tasca e le labbra piegate in un mezzo sorriso. “Un po’ più a destra.
No, più in alto.”
Jude lasciò ricadere
sconfitta la mano sul ginocchio e diede un colpetto al muro dietro di sé con la
testa. “Ti odio” Borbottò flebilmente.
Lui piegò le gambe e si
accucciò di fronte a lei, le sopracciglia inarcate mentre la esaminava da più
vicino. Doveva imprimere bene quell’immagine nella sua testa, non capitava
tutti i giorni di vedere Judith Parker in quello stato.
“Non dovresti odiare il tuo
salvatore” Ribatté serafico, più ilare di quanto avrebbe dovuto e voluto
essere, contando che era stato svegliato di notte per andare a prendere
quell’impiastro. Voltò la testa per guardare Meg di sfuggita. “Da quanto siete
qui?”
La rossa fece un sospiro e si
sedette sulla vasca, le mani strette tra le gambe. “Un’ora? Due? Non lo so, ho
perso la cognizione del tempo. Ha vomitato l’anima e poi si è seduta lì e ha
iniziato a piagnucolare che stava male” Meg la indicò col mento e un’ombra di
pentimento e dispiacere aleggiò sul suo viso paffuto quando l’amica la fulminò
con lo sguardo. “Volevo provare ad aiutarla a mettersi in piedi, ma ha iniziato
a strillare come un’aquila e a dire di non toccarla quando mi sono avvicinata.”
Daniel riportò la sua
attenzione su Jude prima della fine della spiegazione, gli occhi socchiusi e le
labbra piegate in un’espressione pensierosa.
Interpretando bene il suo
silenzio e il suo sguardo, la ragazza soffiò a bassa voce un “Non provare a
toccarmi” che avrebbe spaventato il più intrepido degli eroi.
“Mi spiace principessa, ma
non sono in grado di farti levitare”Considerò
ironicamente, rialzandosi in piedi e porgendole le mani. “E che tu lo voglia o
no ce ne dobbiamo andare di qui”.
Jude si ritrasse contro il
muro e lo scansò quando tentò di afferrarla per un braccio. “Posso alzarmi da
sola” Replicò asciutta ed orgogliosa, seppur con un
filo di voce.
Daniel schioccò la lingua ed incrociò le braccia al petto, scrutandola sardonico. “Va
bene, prego. Qualcosa mi dice che ricadresti in un attimo sul
pavimento con cui hai fatto amicizia da più di un’ora”.
Lo odiava. Lo odiava con
tutta sé stessa e soprattutto odiava quella faccia da
schiaffi con cui la stava guardando, quell’espressione vittoriosa di chi aveva
il coltello dalla parte del manico. Probabilmente si stava persino divertendo,
non aveva fatto altro che prenderla in giro.
Se solo la stanza avesse
smesso di girare in quel modo… se solo avesse avuto la certezza che le sue
gambe l’avrebbero retta, si sarebbe alzata da sola, senza bisogno dell’aiuto di
quell’insopportabile arrogante.
“Sono le tre del mattino,
puzzi di vomito, questa festa fa schifo e ho preso la macchina di tuo padre
senza il suo permesso. Credimi, preferirei fare altro in
questo momento” Elencò lui improvvisamente serio, chinandosi di nuovo verso di
lei. “Ad esempio dormire. Ma dato che la tua
amica ci tiene abbastanza a te da chiamarmi e implorarmi di venire, potresti
almeno farle il favore di farti aiutare.”
Stava ponderando bene le sue
parole, questo doveva concederglielo. Aveva scelto di nominare l’unica cosa che
l’avrebbe convinta a fare quello sforzo e lui lo sapeva. Bastardo. Jude non
poteva fare quello a Meg, i suoi l’avrebbero uccisa se avesse passato la notte fuori casa, aveva il coprifuoco alle tre e mezza.
Sospirò ed
annuì appena, un cenno talmente minuscolo da non essere quasi notato. Stava per
dirgli che non ce l’avrebbe fatta a restare in piedi
da sola, quando lui le circondò gli avambracci con le dita e la strattonò su
con poca delicatezza, come se fosse stata una bambina piccola. Istintivamente,
per assecondarlo e per non farsi staccare gli arti superiori, si diede uno
slancio con le gambe, con il risultato che, una volta in piedi, crollò in
avanti addosso a lui.
Ecco il motivo per cui non
aveva voluto farsi aiutare da Meg: se l’amica avesse provato a sollevarla, Jude
l’avrebbe travolta col suo peso e sarebbero entrambe rotolate a terra come due
salami. Con Daniel non ci fu quel problema, lo comprese nel momento in cui
affondò i polpastrelli nelle sue spalle. Daniel era… duro. Oddio, duro suonava
malissimo nei suoi pensieri. Solido? Non era molto meglio.
Era stabile. Sì, ecco, Daniel era
stabile. Non cadde all’indietro all’impatto col suo corpo, si limitò a fare
appena qualche passo verso il centro della stanza per riacquistare
l’equilibrio, ma riuscì a sostenerla fermamente.
La stanza le girava
velocemente intorno, l’unica cosa salda e a cui ormai
si era aggrappata come una cozza allo scoglio era lui. Tutto
sommato era piacevole. Molto piacevole. Le ritornò in mente l’aggettivo duro di poco prima e
questa volta non poté scacciarlo via, perché era proprio così che
sentiva il corpo del ragazzo contro il suo. Duro e al tempo stesso morbido. Santo cielo, che stava dicendo?
Percepì un senso crescente di
nausea e calore. Un qualcosa di ancora più terribile le si
smosse dentro quando Dan le circondò la schiena con un braccio per
sorreggerla meglio; si sentì come un maledetto vulcano pronto ad eruttare. Merda, stava per vomitare?
Appoggiò la fronte sulla sua
spalla ed avvertì Daniel sussultare impercettibilmente
in risposta. Perché? Forse non doveva farlo. Fu decisamente
un errore, in effetti. Dalle labbra della ragazza, talmente vicine al tessuto
della maglietta da sfiorarlo e respirarci contro, uscì un basso, incontrollato ed imbarazzante mugolio. Daniel aveva un buon odore; odorava
di pulito, di bucato appena fatto, di bagnoschiuma
alla menta. Che bagnoschiuma usava? Doveva ricordarsi di chiederglielo. Era
buonissimo, un qualcosa che dava assuefazione. Oh Dio,
ci mancava solo quello. Perché non puzzava, accidenti?
“Non vomitarmi addosso, eh” La
sua voce le sembrò meno presuntuosa e più incerta del solito, ma non ci fece
troppo caso. Non rispose, non aprì proprio la bocca per paura di fare il
contrario di quanto le aveva detto. Ci mancava solo che lui la odiasse ancora
di più per quello, non osava immaginare come avrebbe reagito se gli avesse
rigurgitato sulla maglietta.
“Che vuoi fare?” Chiese terrorizzata quando lui si chinò per passarle un
braccio dietro le ginocchia. Irrigidì le gambe e cercò di ritrarsi per
impedirgli di fare ciò che per lei sarebbe stato tremendamente umiliante.
“Secondo te?” Sbuffò
irritato. “Non mi stai aiutando, la pianti di agitarti?”
“Posso camminare” Mentì
spudoratamente, mentre tutto intorno a lei continuava a girare beffandosi delle
sue stesse parole.
“Non credo proprio, perciò piantala di fare la bambina.” Non le diede il tempo di fare
o replicare altro perché, con la stessa delicatezza di poco prima, la sollevò
da terra ignorando le sue deboli proteste. L’ultima persona che l’aveva presa
in braccio era stato suo padre quando aveva appena
cinque anni. Dio, la serata più terribile della sua vita,
l’esperienza più imbarazzante della sua esistenza. Avrebbe voluto
cancellarla, cancellare tutto, ogni parola e ricordo
di quanto successo. Specie di quanto successo prima.
“Ci mancavi solo tu…” Disse
con voce stanca, intrecciando istintivamente le braccia dietro il suo collo. Sentiva
i suoi capelli solleticarle la pelle e, dopo aver chiuso gli occhi, sospirò
piano contro la spalla del ragazzo, desiderando di poter sparire in
quell’esatto momento. Perché lui doveva assistere a tutto quello? Perché
proprio lui, che non avrebbe perso occasione per schernirla?
Aveva voluto far qualcosa di sciocco,
autodistruggersi con le sue stesse mani per lenire la sofferenza che aveva
provato e, come ciliegina sulla torta, ora la sua stupidità aveva persino un
pubblico. Non si riconosceva più, avrebbe deluso suo padre se lo avesse saputo,
gli avrebbe dato un dispiacere, lo avrebbe fatto soffrire. Come aveva potuto
farlo?
“Non può farlo…” Non si rese
conto di averlo detto finché Daniel non le rispose con un
“Cosa?” piuttosto confuso.
Scosse la testa e si insultò per esserselo lasciato sfuggire. Stava malissimo,
non riusciva più a distinguere ciò che pensava da ciò che diceva ad alta voce.
“Sei qui
con la macchina di suo padre, vero?
Puoi accompagnare prima me, per favore?” La voce di Meg le
arrivò ovattata e dovette sforzarsi per comprendere la risposta di Daniel.
“Non può dormire da te? Come
la porto in camera dei genitori senza che se ne accorgano?”
Ma lei aveva la sua camera, no? No… giusto, dormiva
nella stanza dei suoi genitori. E sapeva di non poter dormire da Meg; i suoi genitori
si sarebbero accorti subito del fatto che avesse bevuto così
tanto e avrebbero avvisato immediatamente suo padre.
“Perché devono andare così le
cose?” Piagnucolò a bassa voce, mentre Meg e Daniel continuavano in sottofondo
a parlare. “Perché?” Disse di nuovo, a nessuno in particolare.
“Dovevi pensarci prima, mi
sa”.
Vai al diavolo, Daniel King. Fortunatamente doveva averlo solo pensato, perché questa
volta da lui non arrivò nessuna risposta. O magari prima non stava parlando con
lei, Jude non era più sicura di niente, nemmeno del
posto in cui si trovava.
Sentì la voce di una ragazza
accanto a lei, ma non distinse alcuna parola, le sembrò solo il biascicare
confuso di una persona ubriaca. Avvertì un leggero sobbalzo e poi il nulla, il
vuoto, il buio.
***
Non era esattamente sicuro di
cosa fare e soprattutto di comefarlo. Lanciò un’occhiata a Judith Parker, la testa
appoggiata al finestrino, gli occhi chiusi e un’aria sofferente sul volto. Ad
alcune persone l’alcol toglieva qualche freno inibitore, causava euforia,
risate incontrollate; evidentemente non a lei, restava pallosa e lagnosa pure
quando beveva. Non era nemmeno capace di divertirsi a dovere, una volta tanto
faceva qualcosa di quasi normale per una ragazza della sua età e finiva col
vomitare l’anima e piagnucolare neanche stesse per morire.
Sospirò e spense la macchina.
Aveva riaccompagnato a casa Meg una decina di minuti prima, dopo essersi
sorbito un centinaio di “grazie” e “scusa” da parte della ragazza. Era stato un
sollievo guardarla scendere, se avesse continuato a scusarsi e a ringraziarlo
ancora per un po’ non avrebbe resistito all’impulso di aprire la portiera e
cacciarla fuori.
Si passò una mano sul viso e
si lasciò ricadere sullo schienale; era distrutto, non riusciva a ricordare
l’ultima volta in cui avesse dormitootto
ore di fila.
Doveva pensare ad una sistemazione per la principessina, era ovvio che non
potesse portarla in camera dei suoi genitori senza farsi scoprire. Avrebbe
potuto mollarla sul divano, ma onestamente non se la sentiva di lasciarla da
sola dopo la sbronza che si era presa, sebbene lo meritasse.
Non restava che la sua camera
a quel punto: avrebbe ceduto il letto a quella lagna e
a lui sarebbe toccato stare sul pavimento. Sbuffò: quando mai aveva detto di sì
a tutto quello, avrebbe dovuto starsene a New York con
suo padre e fregarsene di sua madre e della sua nuova famigliola.
Scese dalla macchina e fece
il giro per aprire la portiera del passeggero. Jude
gli crollò addosso per la seconda volta quella sera, borbottando qualcosa di indefinito ed aggrottando la fronte infastidita per
l’interruzione del sonno.
“Hai pure il coraggio di
lamentarti…” Soffiò divertito e incredulo, passandosi un braccio della ragazza
intorno al collo per prenderla di nuovo in braccio.
Era più morbida di quanto
pensasse contro di lui. Fisicamente sembrava magra e, avrebbe immaginato,
spigolosa, eppure su di sé avvertiva ogni singolo centimetro di pelle, un corpo
caldo e piacevole. Merda. Deglutì a vuoto e cercò di concentrarsi su cose più
importanti e difficili da fare in quel momento, ad esempio riuscire ad entrare in casa con le mani occupate.
Si guardò istintivamente
intorno. Nel vialetto la strada era fredda e vuota come avrebbe dovuto essere
alle tre di notte, illuminata solo dai lampioni. Non osava immaginare che cosa
avrebbe potuto pensare un passante in quel momento se lo avesse visto, si
sentiva una sorta di maniaco approfittatore di ragazze ubriache.
Mentre chiudeva a fatica
l’auto e riattivava l’antifurto – come se fosse servito a qualcosa poi in quel
posto – Jude biascicò di nuovo qualcosa che non
comprese. Fantastico. Doveva parlare e rompere i coglioni pure da ubriaca, mai
un attimo di tregua con lei.
Dopo diversi tentativi riuscì
ad aprire la porta e a richiuderla con la gamba dietro di sé. Cazzo, si era
dimenticato di cambiarsi le scarpe con le ciabatte, il giorno dopo quella pazza che aveva in braccio si sarebbe lamentata dello
sporco sulla moquette.
“Si sposa.”
Sussultò nel buio
dell’ingresso, quasi come un ladro colto in flagrante. Jude
aveva parlato nitidamente questa volta, scandendo bene le parole.
Si sposa?Ma chi?
Si strinse di più a lui e
nascose il viso nella spalla, le dita artigliate alla sua maglietta. “Si sposa”
Ripeté. La voce mancò sulla nota finale, inghiottita da un singhiozzo.
Oh merda, no.
Non aveva alcuna intenzione di stare ad ascoltare le turbe adolescenziali di
una ragazza, né voleva avere a che fare le sue lacrime. Una Jude
incazzata era difficile da gestire, una Jude
piangente era l’Apocalisse.
“Auguri e figli maschi” Replicò ironicamente e a bassa voce, lo sguardo concentrato
sul pavimento mentre cercava di non ammazzarsi per arrivare al piano di sopra.
Fortunatamente la ragazza non
aggiunse altro, sembrò essersi assopita di nuovo, almeno finché non la adagiò
sul letto della sua stanza e le tolse le scarpe. A quel punto mugugnò
qualcos’altro e si rannicchiò sotto le coperte. “Perché non mi ama?”
Quelle parole ebbero su di
lui l’effetto di una secchiata d’acqua su un gatto che odiava bagnarsi. Bene,
quello era il segnale d’allarme, il segnale che lo
invitava ad allontanarsi di lì in cerca di qualcosa da poter usare per creare
un giaciglio sulla moquette.
“Daniel?”
Si bloccò sul posto
pietrificato, ad un passo dalla fuga e dalla salvezza. Purtroppo per lui Jude era abbastanza cosciente da ricordarsi di lui,
nonostante il delirio da teenager cretina di poco prima.
Chissà se ne avrebbe avuto memoria il giorno dopo.
Sicuramente lui le avrebbe
rinfacciato quella serata un’infinità di volte finché sarebbe stato in quella
casa, era in debito con lui per i prossimi quindici
anni come minimo.
Dopo un momento di esitazione
– e qualche imprecazione, tornò silenziosamente indietro e si chinò verso di
lei. “Sì?” Si costrinse a dire, sebbene l’idea di non rispondere e uscire dalla
stanza gli avesse accarezzato la mente.
“Hofreddo” Lo
mormorò a voce così bassa che faticò a sentirla. Pure? Che diavolo, non era il
suo dannato cameriere personale. Sospirò, a metà fra il rassegnato e l’irritato. “Vado
a prenderti un’altra coperta.” Cosa gli toccava fare, prendersi cura di una
mocciosa alla sua prima e stupida sbronza. Non aveva di certo accettato di
andare a vivere per alcuni mesi da sua madre per fare da babysitter a quella
rompiscatole. Fece per allontanarsi, quando qualcosa lo
strattonò verso il basso. Aggrottò la fronte e puntò lo sguardo sulla piccola
mano che si era aggrappata di nuovo alla sua maglietta.
“No… Resta qui.”Un altro sussurro. Una flebile
preghiera.
“Cosa?”Sicuramente aveva capito male,
non riusciva a pensare ad un solo motivo che potesse
spingere la pazza a volerlo lì con lei. A meno che non
lo stesse scambiando per qualcun altro, ipotesi che avrebbe anche potuto essere
plausibile se non lo avesse chiamato col suo nome poco prima.
“Resta qui con me. Hofreddo.”Cercò
di attirarlo di più a sé, stringendo con forza le dita sul tessuto
dell’indumento ormai stropicciato.
Era forse posseduta? La sua testa avrebbe iniziato a girare a
trecentosessanta gradi?
“Eh? Perché?” Non gli venne in mente una risposta più intelligente.
“Ti prego.” La presa sulla t-shirt era salda e
decisa, in netto contrasto con la sua voce debole.
Ti prego?
Daniel non riusciva a credere alle proprie orecchie. Nel suo
stesso letto? Così nel momento in cui la solita ed
incazzosa Jude sarebbe ricomparsa lui sarebbe morto
soffocato nel sonno dal cuscino? No, grazie.
Portò la mano su quella della ragazza nel vano tentativo di
liberarsi da quella stretta, ma come risultato ottenne solo altri piagnucolii rumorosi
e infastiditi.
“Dai, non fare l’antipatico, per favore.” Slittò con il
fianco in fondo al materasso per fargli spazio, tirandolo ancora una volta per
invitarlo a sdraiarsi lì con lei. Tutto ciò era assurdo.
Fissò incerto il letto, meditando sul da farsi. In fondo
avrebbe anche potuto fare quella pazzia e assecondarla, era stanco e non aveva
nessuna voglia di dormire sul pavimento. Avrebbe puntato la sveglia sul
telefono appena qualche ora dopo, prima che lei potesse svegliarsi, accorgersi
della sua presenza ed impazzire. Inoltre stava
iniziando a temere per la sorte della sua povera maglietta ad un passo
dall’essere slargata.
Scostò le coperte e si stese titubante accanto a lei, pronto
a sentirsi sbraitare contro un “che cazzo fai?”, che non arrivò. Strano. Ci
doveva essere per forza piano subdolo dietro, trattandosi di Judith Parker non
poteva essere altrimenti.
S’irrigidì
quando lei si mosse per appoggiargli la guancia e le mani chiuse a pugno sul
petto. Lo aveva forse preso per un cavolo di peluche da abbracciare e su cui
strusciarsi? Si accorse di aver trattenuto il respiro solo quando riprese a
parlare, diversi secondi dopo, con il fiato corto e spezzato. “Ma quanto cazzo hai bevuto?” Non osava spostarsi, non voleva
sfiorarla accidentalmentecon qualcosa che, se stimolato da un
contatto con lei, avrebbe potuto dargli non pochi problemi in quel momento.
Jude non
rispose alla sua domanda, si limitò ad inspirare
profondamente e a sospirare. “Hai un buon odore. Perché hai
un buon odore?”
Ma che
razza di domanda era?
“Non lo so,
perché mi sono fatto la doccia?” Propose in tono ovvio e sarcastico.
Quella era
in assoluto la conversazione più demenziale che avesse mai sostenuto e, con
amici come Sketch e Reed, di conversazioni idiote ne
aveva avute.
Fu come se
non avesse parlato, lei continuò spedita a fare considerazioni assurde per
conto suo.
“E sei duro.
Sì, sei duro.”
Ma che
diavolo…? Quasi si strozzò con la sua stessa saliva. Cristo Santo! Certo, gliel’avevano detto altre volte, ma in
circostanze un po’ diverse e riferendosi ad altro.
Per un
secondo si allarmò e temette che lei si stesse
riferendo esattamente a quello, poi
realizzò che non poteva essere possibile. Era abbastanza sicuro di non esserlo –
non ancora – e, in ogni caso, lei non avrebbe potuto appurarlo personalmente visto che era stato attento a toccarla il meno possibile. Ma allora di che stava parlando?
Cercò di
calmare i battiti e di regolarizzare il respiro,
specie perché sentire le labbra della ragazza muoversi contro il suo petto per
dirgli una frase del genere, con voce roca per giunta, stava avendo effetto
proprio su quella parte. Rabbrividì e si diede mentalmente dell’idiota; doveva
riprendersi, si rifiutava categoricamente di farsi venire un’erezione con la
principessina nel letto. Era forse impazzita più del solito? Che cosa avrebbe
dovuto essere quello, un complimento? Una constatazione? Decise saggiamente di
non replicare.
La sentì
mugolare ed accoccolarsi meglio contro di lui, le
gambe – velate solo da un paio di collant – finirono con l’intrecciarsi alle
sue e i capelli iniziarono a solleticargli il collo. Di male
in peggio. Non era stata un’idea così geniale quella di sdraiarsi con
lei, in effetti.
Tentò di
allontanarsi e di guadagnare spazio vitale, ma era vicino al bordo e ad un
passo dal rotolare giù. Non sarebbe stata una cattiva idea cadere.
Gli stavano
passando troppe idee e pensieri strani in testa – come quello insensato di
allungare un braccio per stringerla a sé ed essere più comodo, bloccato prima
che potesse farlo davvero –, doveva alzarsi di lì il
prima possibile. Avrebbe aspettato che si fosse addormentata, poi, in un modo o
nell’altro, si sarebbe liberato di quella morsa assassina.
“Domani mi
ucciderai” Disse a mezza voce, per cercare di distrarsi e di sdrammatizzare la
situazione. Una situazione decisamente imbarazzante ed
inaspettata.
Jude
sorrise, sebbene lui non potesse vederla. “Forse” Mormorò piano. Fece una
pausa, un silenzio spezzato solo dai loro respiri. “Adesso però mi piace”.
*Note dell’autrice*
Tengo molto a questo capitolo e sono
un po’ nervosa al pensiero di pubblicarlo, spero vi sia piaciuto…
Avevo in mente la scena finale da
secoli e non vedevo l’ora di scriverla, sebbene non sia uscita proprio come
volevo. Ho un debole per le scene di questo genere, se avete letto “Tra l’odio
e l’amore c’è la distanza di un bacio” lo sapete già :P
MaJude e Alice sono diverse, chiedono al
ragazzo della situazione di restare per due motivi molto differenti.
Imparerete a conoscere meglioJude nei prossimi capitoli,
ma già suo padre ha accennato qualcosa in questo a Daniel. Lei si mostra sempre
caratterialmente forte con tutti, lo è sempre stata e lo è tuttora, solo che ha
anche lei dei momenti di “debolezza” come tutti e questo è stato uno di quelli.
Daniel era lì in quel momento e lei si è “aggrappata”
a lui.
Non so se avete capito chi si sposa, nel caso non fosse chiaro vi ricordo che Jude è
sempre stata infatuata del fratello maggiore di Meg. In ogni caso nel prossimo
capitolo verrà spiegato bene cos’è successo alla festa
e perché Jude si è ubriacata.
Spero che questo capitolo vi sia
piaciuto e vi anticipo che nel prossimo i due si risveglieranno nello stesso
letto ;) Come la prenderà la Jude sobria? Vedremo.
Mi scuso per l’attesa, so che in
molte si sono lamentate per i tempi d’attesa e perché risulta
difficile seguire e ricordarsi la storia dopo tutto questo tempo, ma non è
semplice per me conciliare la vita vera con le tre (quattro se si considera il pov Lore) storie che ho in corso. Mi dispiace davvero, più
di questo non posso dire o fare :( Posso solo garantire, come sempre, che ogni
storia in corso verrà conclusa e nessuna abbandonata.
Vi ringrazio se, nonostante tutto,
siete ancora qui a leggere.
Un bacione grande!
Bec
PS: ho pubblicato l’inizio del
prossimo capitolo nel mio gruppo spoiler su
facebook, nel caso in cui vogliate leggerlo :)