Himala

di reggina
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** La solitudine dei numeri uno ***
Capitolo 2: *** La baia di Ross ***
Capitolo 3: *** Il braccialetto portafortuna ***
Capitolo 4: *** Chanel numero 5 ***
Capitolo 5: *** Un pesce fuor d'acqua ***
Capitolo 6: *** Profondo rosso ***
Capitolo 7: *** Senza giri di parole ***
Capitolo 8: *** Presunta verità ***
Capitolo 9: *** Effetto domino ***
Capitolo 10: *** Un cuore rattoppato ***
Capitolo 11: *** Vita da vagabondo ***
Capitolo 12: *** Passaparola ***
Capitolo 13: *** Due anni di silenzi ***
Capitolo 14: *** Mamma chioccia ***
Capitolo 15: *** Progetti per il futuro ***
Capitolo 16: *** L'aggiusta-coppie ***
Capitolo 17: *** Di nascosto ***
Capitolo 18: *** Capricci ***
Capitolo 19: *** Il primo passo ***
Capitolo 20: *** Il fuggitivo ***
Capitolo 21: *** Lontani dagli occhi, vicini al cuore ***
Capitolo 22: *** La libertà di volare ***
Capitolo 23: *** L'amicizia: un dono prezioso. ***
Capitolo 24: *** Cicatrici ***
Capitolo 25: *** Ci vieni con me? ***
Capitolo 26: *** Rischio zero ***
Capitolo 27: *** Morra cinese ***
Capitolo 28: *** Nido vuoto ***
Capitolo 29: *** Figlia di nessuno ***
Capitolo 30: *** Ciao amore ***
Capitolo 31: *** La felicità sotto il naso ***
Capitolo 32: *** Il primo appuntamento ***
Capitolo 33: *** Sotto esame ***
Capitolo 34: *** Falso nueve ***
Capitolo 35: *** Himala ***
Capitolo 36: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** La solitudine dei numeri uno ***


La prima cosa a dargli il buongiorno, appena il sole del mattino filtrava dalle veneziane in legno semiabbassate, era lo stencil di un calciatore lanciatosi in area in una rotazione all'indietro con il pallone incollato al piede. Una rovesciata perfetta, un gesto tecnico da applausi che gli era diventato tanto caro fin da quando aveva imparato i primi rudimenti del mondo pallonaro.

In una monotona sequenza luminosa si dispiegavano i contorni della sedia Louis Ghost, la bacheca a muro con tutti gli impegni delle prossime settimane, lo spazio con i vinili e con i cimeli da collezione e, soprattutto, un personalissimo angolo sport: ritagli di giornale, da sembrare scritti da un cantastorie per narrare il suo exploit e metà della sua vita, coppe e medaglie conquistate sul campo di gioco.

Tutto formava una sagoma severa che le veneziane semiabbassate rendevano un po' meno inquietante.

Poi un vuoto aggressivo aveva invaso il bozzolo della sua camera da letto.


Julian si era tirato a sedere corrucciato dai postumi del malumore della sera prima. Le briciole della cena spartana che si era ostinato a consumare nella solitudine del suo spazio e, soprattutto la copertina di una nota rivista medica trimestrale stracciata di netto in due, erano i resti di quella scontentezza debordata.

Non c'era stato alcun pentimento nel buttare nel cestino dell'immondizia quella carta straccia su cui torreggiava il viso tondo e fiero da conquistatore, ricco di rughe scavate, dell'esimio dottor Gregory Ross.

Chi è troppo amato, amore non dà.

Era stato il teorema formulato dall'astio di Julian.


Dal piano di sotto lo aveva accolto una voce non bellissima ma comunicativa, che incantava mentre mescolava realtà e fantasia.

Diwata, con il suo grembiule annodato in vita, sembrava una di quelle donne filippine della casta superiore affascinanti nei loro saya barot' di epoca precoloniale.

Da un anno a questa parte, quei testi in tagalog che parlavano di pace, ammaliavano Julian. Se chiudeva gli occhi poteva immaginarsi su un tradizionale e folkloristico jeepny, nelle miriadi di isolette dall'odore di mango e patate dolci, dinnanzi alla statua di Magellano o nel caos di Manila.

Quella mattina, appena lo scorse, la collaboratrice domestica allargò il suo sorriso interrompendo le canzoni e puntandolo con una paletta forata.

"Presto, vieni, vieni signorino! Accendiamo subito la televisione: tra poco ci sarà la signora che parla!"

Gesticolando, nel suo giapponese buffo, aveva preso la mano del ragazzo e lo aveva condotto a sedere: Julian non correggeva quasi mai gli errori di pronuncia della donna a meno che non era lei a chiedergli di farlo. Adorava la sua semplicità e soprattutto che, per un vizio di forma, non ricorresse a quel pronome di riguardo che lo faceva sentire così inadeguato.

Tuttavia non condivideva lo stesso entusiasmo di Diwata.

Ed eccola l'avvocatessa Andy Flatcher, donna di ferro inespugnabile. Una donna di potere finita candidata per l'elezione del nuovo governatore locale quasi per caso. Carismatica da star così stretta al comando da essersi dovuta costruire una corazza impermeabile.

Dopo pochi minuti Julian pigiò sul telecomando e sua madre svanì come una figura d'acqua diafana.

"Lasciamo perdere questi specchietti per le allodole, Diwata! Piuttosto, perché non parliamo un po' di te?"

Gli zigomi alti della donna si erano imporporati in un pudico sorriso egli occhi piccoli si erano illuminati perché da tanto nessuno si preoccupava di lei.

"Io non sono così importante..."

Aveva cercato di glissare.

"E chi lo dice? Sai che il tuo nome significa dea?"

La contraddisse prontamente il ragazzo, sorseggiando tranquillamente la sua spremuta.


Allora lei gli aveva parlato come un libro aperto: della Kamalig, quel tipo di palafitta indigena in cui aveva abitato, del quartiere povero dove restavano spesso al buio a causa dell'elevato costo dell'elettricità e di come un ingegnere americano avesse proposto di usare una bottiglia di plastica piena di acqua e candeggina per filtrare i raggi del sole dai tetti delle baracche di Manila.

Poi dalla tasca aveva tirato fuori una fotografia e l'aveva porta al suo interlocutore, continuando la storia.

"Ho deciso di partire per loro, per dargli un futuro migliore. Si fa tutto per i figli!"

Julian osservava con tenerezza quel pezzo nascosto di Diwata: due bambini di strada, un maschio e una femmina, accanto al loro papà con i lucciconi agli occhi che sembrava nutrirsi dei loro sorrisi.

Diwata aveva lasciato tutto, reciso i fili più importanti della sua vita in un estremo atto d'amore.

Anche sua madre aveva rinunciato a lui. Per un atto di puro egoismo.

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Capitolo 2
*** La baia di Ross ***


Si sentiva un po' Ismaele e un po' Capitano Achab mentre la sua tristezza si perdeva nell'immensità calma del mare e un'onda gli schiumava intorno alle caviglie.

Quell'infinita distesa di acqua salata era, nella solitudine, come una sorella maggiore per Julian. E uno specchio dell'abisso in cui sprofondavano i suoi pensieri.

La spiaggia, quel giorno, sembrava un piccolo formicaio: bambini che giocavano con secchielli e sabbia, mamme che li rincorrevano, signori intenti a leggere il giornale e donne attente alla tintarella.

Da una prima impressione, Julian aveva cercato di indovinare o di inventare una vita per quei perfetti sconosciuti. Poi la sua attenzione era stata catturata da un giovane papà che spalmava la protezione ad un bimbetto curioso che si dimenava e, con l'indice, puntava un veliero che si allontanava all'orizzonte.


"Papà cosa c'è oltre quella linea dove finisce il mare?"

Le gambine da grillo molleggiavano, sotto i calzoncini corti, ed una manina paffuta indicava il punto misterioso. Un uomo, dalla risata allegra, abbracciava il torso del bambino impedendogli di sporgersi troppo oltre la balaustra sul lungomare.

"C'è altra acqua Julian. Il mare non ha fine!"

Era un episodio ordinario che, adesso, era diventato straordinario nei ricordi d'infanzia.

"Ma deve pur finire da qualche parte, papà! Non ci sono altre terre?"

La risata allegra era stata la risposta al broncio messo dal bambino.

"Hai ragione Julian: ci sono le Americhe o l'Australia. Dipende dalla rotta che seguirà la tua nave!"

Il piccolo Julian aveva gonfiato il petto, pieno d'orgoglio.

"Da grande farò il marinaio. Indosserò cicatrici e tatuaggi, navigherò seguendo le stelle e scoprirò tanti posti nuovi! E quando andremo sul nostro mare, allora, ti porterò con me!"

Gregory, un po' preoccupato per i tatuaggi, aveva corrugato la fronte con scetticismo.

"Il nostro mare?"

Julian era arrossito, timoroso di aver trovato una notizia falsa sul mappamondo il giorno prima.

"Sì, il Mare di Ross! Non è nostro? Pensavo tu lo avessi comprato!"

Il dottor Ross si era messo suo figlio sulle ginocchia, intenerito dalla sua fanciullesca ingenuità.

"Ma no tesoro mio! I mari, le terre, le città non si comprano. Alcune volte vengono chiamate come l'uomo coraggioso che li scopre. Un grande navigatore, James Clark Ross, scoprì l'isola che si chiama come lui nel 1841!"

Julian aveva portato le mani sui fianchi trionfante.

"Allora diventerò come lui, papà! Anche io voglio un posto con il mio nome...Anzi voglio andare su quell'isola. Ci andiamo, papà?"

"Ma non possiamo! Si trova al Polo Nord ed è talmente fredda che possono viverci soltanto i pinguini!"

"E allora? Ci porteremo tanti vestiti pesanti e tu mi comprerai un pinguino!"

"Andiamo campione! Ti compro un gelato!"


Gli echi di quelle risate del passato si erano confuse con quelle del papà e del bambino a pochi passi da lui.

Julian si era avvicinato alla battigia per sciacquare le mani appiccicose di sabbia. Allora si era accorto del suo polso nudo: il braccialetto portafortuna, che un tempo gli aveva regalato Amy, si era slacciato ed era già trascinato via dalla corrente.

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Capitolo 3
*** Il braccialetto portafortuna ***


"Esprimi un desiderio!"

La voce di fata, che con il suo suono melodioso rendeva meno amara la tristezza del presente, gli si era affacciata alla mente come con un colpo di bacchetta magica.

La voce di Amy. La voce di un fantasma.

Quel filamento colorato, che Julian portava al polso da anni, si era infine spezzato ancor prima che lui potesse organizzare i suoi desideri.

Quanto faceva male aggrapparsi a quei ricordi che profumavano di estate, di spiaggia e di vacanze speciali!


Due anni prima. Eppure l'immagine della ragazza con i capelli arruffati e pieni di salsedine, un sorriso da maliarda sulle labbra sottili, era ancora così vivida mentre gli annodava quel braccialetto brasiliano.

"Fai ben attenzione a cosa desideri Capitano! Tre nodi: allo scioglimento di ognuno corrisponderà una piccola fetta di felicità conquistata!"

La brezza della sera gli faceva ondulare i capelli dandogli, per un momento, sembianze ascetiche. Un aspetto aspro e genuino.

Una carezza. Poi un pugno.

"A settembre non tornerò più a scuola a Tokyo. Mi trasferirò con la mia famiglia a Osaka!"

In quell'istante Julian aveva avvertito un senso di ridondanza, di smarrimento e di insicurezza futura. Era rimasto in silenzio, aspirando a pieni polmoni il forte odore di mare e di pesce.

Lei aveva il magone ma con il suo sorriso imperfetto, da Esmeralda, aveva tentato di sdrammatizzare.

"Ci stiamo soltanto dicendo ciao. Questo non è un addio!"


Una settimana dopo le valigie di Amy sembravano zeppe di quella tristezza e malinconia che si appiccicano addosso e non si riesci più a scrollale via. Julian era seduto nella sala d'attesa, buttando fuori l'aria dai polmoni come per alleggerire il cuore.

La sua Venere gli si era seduta accanto, con il suo inconfondibile sorriso ingenuo.

"Siamo finiti come Philip e Jenny: a rincorrerci e salutarci negli aeroporti!"

"Noi non potremmo mai essere come Philip e Jenny!"

Aveva replicato brusco lui. All'improvviso Amy si era fatta speranzosa che quell'avventato diniego potesse trasformarsi in un qualcosa di più coraggioso. Non soltanto in una manifestazione d'affetto sottintesa.

Julian si era reso conto da tempo di che persona speciale fosse la sua amica e sapeva di non poterla sostituire, tuttavia forse per paura, forse per inesperienza, aveva cercato una scappatoia.

"Io non potrei mai correre come un forsennato per mezza Tokyo emulando Callaghan!"

Una smorfietta delusa e la voce gracchiante che invitava i passeggeri ad avviarsi all'imbarco.


Era il momento! Quello in cui la ragazza non aveva trattenuto le lacrime e il Capitano aveva cercato di essere forte.

"Tornerai a casa, prima o poi. Osaka alla fine non è all'altro capo del mondo: resteremo in contatto!"

Julian l'aveva incoraggiata tranquillo, nonostante il peso che avesse in gola. Le aveva afferrato le mani e gliele aveva strette come se potesse trattenere un po' di lei e darle un pezzettino di lui da portare con sé.

"Amy, tesoro, dobbiamo proprio andare!"

La voce impaziente della signora Aoba aveva messo fretta a quel saluto magico. Una voce fastidiosa, da antagonista.

Incalzata dal tempo, allora Amy aveva fatto il suo passo coraggioso con le gote in fiamme.

"La mia strada sei tu!"


Era corsa via, con il suo passo aggraziato, verso nuovi fazzoletti di cielo e di terra. Era corsa via senza fare o strappare promesse.

Lasciando a Julian soltanto quel braccialetto pieno di sogni da realizzare. Quello e un'unica lettera: dentro c'era una fotografia che la ritraeva accanto ad un ragazzo sconosciuto.

L'ingenua fatina era adesso una sconosciuta. Dopotutto Julian non poteva vivere di rimpianti: il passato era passato.

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Capitolo 4
*** Chanel numero 5 ***


I ricordi sono immagini, voci, musiche, sapori, odori. Nel bene e nel male.

Quella fragranza di muschio e gelsomino era una fragranza a parte: un ricordo ancestrale, il calore di un bacio lontano, la preziosità dell’infanzia, il passato. Un enigma.

Julian odiava quelle zaffate provocanti. Un’accozzaglia forte, violenta e dolciastra che lo aveva fatto risvegliare con il mal di testa.

Due gocce di Chanel che gli avevano provocato repulsione.


Sbadigliando e stiracchiandosi come un gatto, aprì pigramente un occhio per accorgersi che Andy era lì, fasciata nel suo tailleur da viaggio celeste, molto soigné come diceva sempre Gregory per sfotterla.

Appoggiando un dito alla parete, aveva tirato le tende e in un attimo la luce del mattino era strisciata su per la finestra inondando la stanza. Contrariato, il ragazzo si era tirato le coperte fin sulla fronte.

“Avanti dormiglione: è ora di alzarsi!”

Era un tono dolce e inusuale per Andy Fletcher, mamma di un ragazzo di diciotto anni. Cercava di dividersi tra l’affetto per lui e l’agenda di una donna in carriera, un ruolo che le calzava a pennello: una vita frenetica, sempre in ufficio e una realtà non sempre impeccabile come in un film a lieto fine.

A dirla tutta, Julian si era fatto l’idea che non tutti sono tagliati per fare i genitori. E tra lui e i suoi c’erano problemi, incomprensioni, cambiamenti totali e forse inevitabili, momenti in cui per paura di vederlo sbagliare, cadere e ferirsi giravano spesso la testa dall’altra parte.


“Il clima di Nagasaki era davvero infernale! Sembrava impazzito in questa stagione dei monsoni e mi sono ritrovata più volte ad imprecare contro quell’ambiente così angosciante…Inoltre dovrò sporgere anche una bella denuncia alla compagnia aerea…”

La donna si era portata davanti allo specchio per togliere i raffinati orecchini di opale con chiusura alla monachella, con il cuore ancora tra le nuvole. Julian l’aveva ascoltata con poco interesse, tra uno sbadiglio annoiato e un ampio respiro dove si perdevano tutt’altri pensieri. Ad un tratto però gli era scappato da ridere immaginandosi la sobria ed elegante donna perdere le staffe.

L’avvocatessa Fletcher aveva fatto una scelta di vita e di carriera interessante quando aveva deciso di buttarsi in politica e ora viaggiava di città in città per la sua campagna elettorale.


“Guarda che non c’è niente da ridere. Non è stato affatto divertente, Julian!”

Lo aveva ammonito sua madre, facendolo arrossire.

“Piuttosto spicciati! Hai forse dimenticato che oggi è una giornata importante per papà e la sua famiglia dovrà essere al suo fianco?”

“Io non ci vengo!”

Si era impuntato lui, incrociando le mani al petto e sostenendone lo sguardo con aria di sfida.

“Questa poi! Ti sembra il momento di comportarti come un bambino capriccioso? Non ho proprio tempo per le tue stravaganze…”

E io non ho proprio voglia di fare la comparsa alle vostre stronzate !

Avrebbe voluto replicare Julian ma sapeva che tutte le sue rimostranze sarebbero state zittite dall’infelice frase: dopo tutti i sacrifici che io e tuo padre abbiamo fatto per te …Il che lo avrebbe dipinto come uno spregevole figlio ingrato.

Andy aveva riacquistato il suo autocontrollo e aveva sfoderato un sorriso da plancia elettorale.

“Sai quanti ragazzini gonfierebbero il petto, orgogliosi di un papà primario di ortopedia?”

Lui aveva scosso la testa e, finalmente, si era deciso a scendere giù dal letto.

“Guarda che papà non ha bisogno della tua propaganda! Vado a fare la doccia!”


Si era lasciato dietro quel profumo di momenti rari e felici. Il profumo di un bacio, di un abbraccio, di andare al cinema insieme. Il profumo di una mamma centellinata.

Una sorta di madeleine proustiana.

Quelle due gocce di chimica, di Chanel gli davano un’impressione di sporco.

Il getto dell’acqua calda che scorreva sul suo corpo, finalmente, aveva lavato via quell’odore sintetico e lui aveva sentito il vero profumo della pelle, quello autentico, quello diverso pe ciascuno. Un buon odore di pulito…E si era sentito bene!

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Capitolo 5
*** Un pesce fuor d'acqua ***


Gregory Ross era un incantatore: appena entrava in una stanza riusciva ad attirare istantaneamente l'attenzione di tutti.

Gli piaceva stare al centro dell'attenzione e proprio quel pizzico di egocentrismo e il carisma gli avevano fatto ottenere quella promozione a primario di ortopedia.

Al contrario, quando Julian era arrivato insieme a sua madre, si era defilato prontamente da quel nugolo di persone con i bicchieri riempiti e già pronti per il brindisi.

A lui non piaceva mostrarsi o vantarsi. Preferiva stare in disparte nel suo mondo, a riflettere e cercare dentro di sé tante risposte; convinto che nel silenzio si apprendano tante cose che nella confusione non si capiranno mai.


"Julian come sei cresciuto e come ti sei fatto carino! Sei diventato proprio un bell'ometto, sai! Tutto suo padre, vero?"

Da ragazzo educato qual era aveva risposto con finta cordialità e con un sorriso stereotipato a quei complimenti che gli facevano venire il voltastomaco. Le infermiere di cardiologia avevano sempre riempito il reparto con la loro sola presenza e lui non le avrebbe mai potute ringraziare abbastanza per come avevano avuto cura di lui con professionalità ed umanità.

Non era pronto però a riaprire le ferite che quel luogo aveva lasciato in lui. A ripensare alle giornate nere, ai momenti di sconforto, a quelli in cui avrebbe soltanto voluto scappare da una vita che gli stava stretta si sentiva a disagio. Diventava goffo e buffo e ammutoliva.


"Ah eccoti qui!"

La voce cavernosa del dottor Ross lo aveva raggiunto e sollecitato tacitamente a fare una sfilata insieme a lui tra gli invitati e allora Julian si era sentito un trofeo da esibire e aveva trovato assurda l'intera faccenda.

Era orgoglioso di suo padre ma si sentiva un pesce fuor d'acqua.

Non capiva perché per i suoi fosse così importante l'apparenza, quel desiderio morboso di sembrare perfetti agli occhi degli altri.

Qual era il problema nell'ammettere di essere semplicemente umani?

Nelle foto di famiglia e nelle occasioni ufficiali i Ross erano degni di copertina o di film americano. Una famiglia da spot pubblicitario inesistente: il loro ragazzo era bravo, educato e ordinato; il lavoro andava a gonfie vele e i soldi non mancavano. Eppure non ricordavano più l'ultima mattina che si erano seduti a fare colazione tutti insieme e la loro era una felicità finta.


Julian aveva approfittato dell'ennesimo complimento incassato e di un interlocutore abbastanza chiacchierone per defilarsi ed osservare da lontano suo padre, bello e baldanzoso, sorridere grato e sua madre stringere mani e intavolare conversazioni con affabilità.

Gioie, luci della ribalta e clamori che stonavano inequivocabilmente con quello zibaldone di sofferenza.

Senza pensarci o forse per non risultare scortese, aveva afferrato al volo un flûte di champagne che gli veniva porto.

"Santo cielo! Vorrei avere un uccellino che mi informi se anche negli spogliatoio, dopo una vittoria, ti concedi di questi stravizi!"

Tempismo perfetto!!!

Il Dottor Johnson, il cardiochirurgo che lo aveva in cura da otto anni, lo aveva stuzzicato, divertito.

"Se può interessarle mi abbuffo anche di pasta, eccedo con i salumi e non rinuncio mai ad un gelato tre gusti!"

Era stato al gioco Julian. Poi era tornato bruscamente serio.

"Non mi piace bere!"

"Lo so bene. È uno dei divieti che ti ho imposto io! Comunque te lo concedo di bagnarti le labbra con un po' di spumante per augurio di tuo padre: devi esserne orgoglioso!"

"Si è vero: merita elogi, applausi e l'amicizia di tutti visto che è un uomo che ama il suo lavoro più di sé stesso."

"E guarda tua madre: bacia le mie bambine come se fosse in campagna elettorale!"

Julian, trincerando la disapprovazione dietro una risata forzata, aveva portato alle labbra il bicchiere. Aveva fatto una smorfia di disgusto e si era voltato ad osservare le bambine Johnson che giocavano, correvano, si nascondevano come tre folletti dispettosi.

"Almeno loro si divertono!"

Gli era scappato a voce alta.

"Un penny per i tuoi pensieri: sono convinto che anche tu preferiresti scorrazzare sul tuo amato campo di calcio piuttosto che essere imprigionato in queste formalità noiose!"

"Lei mi conosce meglio dei miei genitori, dottore!"

Non aveva potuto evitare di constatare il ragazzo, con una punta di amarezza.


"Ti ho visto per la prima volta che avevi più o meno l'età della mia Chantal!"

"Avrei preferito conoscerla in circostanze diverse!"

"Ricordati che, tra un paio di giorni, faremo un controllo di routine!"

Era stata una doccia fredda, una verifica a sorpresa che aveva destabilizzato Julian. Invano aveva cercato di svicolare da quell'obbligo improrogabile.

"Ma io mi sento bene!"

Una protesta troppo flebile.

"Ne sono felice ma il tuo medico sono io. E per tua fortuna, o per tua sfortuna, sono estremamente scrupoloso e zelante!"

Julian aveva sbuffato, ormai arresosi, e a peggiorare il suo umore aveva intravisto suo padre parlate affabilmente con Lily Donovan, la psicologa verso la quale covava un odio atavico.

Si era voltato appena in tempo per vedere il dottor Johnson stringere tra le sue manone esperte le manine impasticciate delle due figlie minori e allontanarsi, scortato da Chantal accanto alla sorellina più piccola.

Aveva invidiato il tesoro quelle piccine: un papà che sapeva rotolarsi insieme a loro sull'erba e che, le domeniche, le portava allo zoo.

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Capitolo 6
*** Profondo rosso ***


Un attimo.

Un maledetto attimo di pura follia.

Gli era saltata la mosca al naso e non era più riuscito a sopportare le prepotenze che ormai vessavano la Mambo da inizio partita.

Un fallo da reazione e allora era stato il cartellino rosso a sventolare sotto il naso di Julian. Perché capita anche ai migliori di prendere un granchio, di sbagliare ma se l’errore riguarda un simbolo di correttezza ed eleganza la notizia fa scalpore.

Era in torto e non si era nemmeno sognato di protestare contro l’arbitro che aveva preso quella decisione severa: si era sfilato la fascia dal braccio e l’aveva consegnata a Mirko poi aveva guadagnato l’uscita del campo calpestando con rabbia l’erba.

Gli applausi di sostegno che erano piovuti dagli spalti lo avevano fatto sentire, se possibile, ancora più avvilito.

Dopo un buon primo tempo stava lasciando la Mambo a giocarsi la vittoria con un uomo in meno.


Fu accolto dal classico disordine che trasformava lo spogliatoio durante la partita della domenica: divise di ricambio pendenti dalle grucce appese agli armadietti, pantaloni di tuta e calzini rivoltati, scarpe e borsoni tra cui destreggiarsi…Come capitano avrebbe dovuto fare ai suoi compagni un bel richiamo!

E, invece, il numero quattordici non riuscì a far altro che accasciarsi sulla panca di metallo. Come era potuto accadere che spintonasse un avversario?

Niente poteva giustificare quella violenza, era un atto deprecabile soprattutto per lui che avrebbe dovuto dare l’esempio.

In preda ai sensi di colpa si sferrò un pugno contro la coscia.


“Ehi capitano attento a non auto-infortunarti! Ci servirai nelle prossime partite!”

Nella leggerezza di Stephen non c’era nessuna nota di condanna. Dribblando un paio di borsoni, Mellory si sedette accanto a Julian trangugiando l’acqua dalla sua borraccia.

“Mister Keegan ti ha sostituito? Ha ragione: meglio inserire un difensore per preservare il risultato!”

Stephen però non era lì per giudicarlo ma per comprendere.

“Non fare lo stratega con me, Julian! Non me ne importa niente della partita, sono stato io a chiedere il cambio. Si può sapere cosa stai combinando oggi?”

Julian era mortificato: probabilmente quella di quel pomeriggio era stata la sua prestazione peggiore.

“Ho toccato il fondo!”

“Io mi sono divertito! È stato uno spasso vederti perdere le staffe ai danni di quel pallone gonfiato di Smith!”

Il capitano lo ammonì con un’occhiataccia.

“Mi sono comportato da idiota! Ho avuto una reazione spropositata che non è da me e me ne pento amaramente!”

Aveva ragione: non era mai successo che reagisse con la violenza all’insolenza di qualcuno e Stephen intuì dovesse essere molto più profondo il motivo che turbava l’amico.

“Lui ti ha provocato Julian!”

“Mi ha offeso!”

“Tutto qui?! Dovresti esserci abituato: praticamente tra tifosi avversari e scontri di gioco ci piovono addosso insulti di ogni genere tutte le domeniche!”


Non era quello! Aveva sentito tanti di quegli improperi da quando giocava a calcio e gli erano sempre scivolati addosso come sapone…

“Possono criticare il mio gioco, fischiarmi se perdo un pallone o borbottare quando non do il meglio di me ma non tollero che mi tocchino sul personale! Nemmeno Lenders si è mai sognato di arrivare a tanto perché, nonostante tra noi non corra buon sangue, mi rispetta e il rispetto è una regola fondamentale tra chi condivide la stessa passione!”

Tirare in ballo la sua salute per gli avversari di Ross doveva essere un monito a mai scherzare con il fuoco !

“Mi ha chiamato cardiopatico di…E sono esploso! Avrebbe dovuto mordersi la lingua e capire quanto per un ragazzo sia difficile dividersi tra calcio e medicine, tra passione e divieti. Ma quello che mi fa ancora più male è che, tecnicamente, ha ragione lui!”

Era difficile uscire dal guscio per un giovane riservato come Julian ma, con il tempo, aveva imparato a fidarsi dei suoi compagni della Mambo e la pacca di solidarietà di Mellory gli fu di conforto.

“Non te la prendere Julian! Non si fa gol solo sul campo e tu oggi hai dato una bella lezione a Kevin Smith! Il cartellino rosso non è la fine del mondo: tutti i grandi campioni ne vantano almeno uno in carriera!”

Stephen era la persona giusta per convincerlo a far pace con i suoi sensi di colpa. Adesso che aveva davvero bisogno di una buona dose di ottimismo gli serviva un amico che riuscisse a trovare del buono in ogni situazione.


“Si è spezzato il braccialetto. Quello che mi aveva regalato Amy!”

Lui non credeva affatto alla fortuna, ai desideri che si sarebbero avverati grazie a quel brasilianino e voleva condividere con qualcuno le sue sensazioni negative, la convinzione che presto gli sarebbe accaduto qualcosa di brutto.

“Non sarai mica superstizioso?”

“Questa settimana devo ripetere delle analisi…”

“Che ci diranno che stai benone! Di che ti preoccupi?!”

Avrebbe voluto condividere l’ottimismo di Stephen se non fosse che continuava a pensare con una certa apprensione e tensione alle parole del Dottor Johnson. Vedendolo nicchiare, Mellory insistette.

“Andiamo Julian! Non vorrai fare come i francesi che hanno distrutto il pullman degli ultimi mondiali perché convinti gli portasse sfiga!”

Julian sorrise a quella curiosità e la sua aria si fece più distesa mentre nel tunnel si sentivano le voci dei ragazzi della Mambo che, tra qualche secondo, avrebbero invaso quello spazio come dei tornado.

Stephen si tirò su i calzini e snocciolò la sua ultima opinione.

“Che poi è un bene che quel bracciale finalmente si sia rotto! Secondo me era quello che ti portava sfortuna!”

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Capitolo 7
*** Senza giri di parole ***


Nello studio del dottor Johnson non si notava nessun cambiamento, come se il tempo non fosse mai passato dall’ultima volta che era stato a visita di controllo.

Julian si guardò intorno registrando il mobilio da ambulatorio: l’armadietto a muro pieno di medicinali, la scrivania in ordine, la cornice in argento che rimandava la foto della famiglia Johnson al completo, la stilografica nel taschino del camice del cardiochirurgo…

“Tuo padre non è ancora arrivato?”

Gli occhi del dottore erano troppo comprensivi per i gusti di Julian e quel suo fare paterno, i suoi modi di metterlo a proprio agio marcavano, ancora una volta, le differenze con Gregory.

La vena sulla fronte iniziò a palpitare, segno che era furioso.


Suo padre gli aveva dato buca. Mancava un appuntamento che, probabilmente, gli era completamente sfuggito di mente.

Per l’ennesima volta infrangeva una promessa.

“Possiamo parlare anche senza di lui!”

Il dottor Johnson aveva sorriso ammirato al suo paziente che cercava di ostentarsi a uomo coraggioso quando, in realtà, era soltanto un ragazzo molto spaventato.

Julian distolse lo sguardo dall’orologio, deciso a non abbuonare altro tempo extra al genitore, incrociò la cravatta di marca che si intravedeva tra le falde del camice del suo interlocutore, quindi si schiarì la gola.

“Se non ha buone notizie me lo dica subito! Sa che non sopporto le mezze verità, i giri di parole! Me lo dica e basta!”

Ancora quel sorriso indefinibile affiorava alle labbra del medico: ammirato e allo stesso tempo greve.

Mentre gli occhi esperti scorrevano la sua cartella clinica, il ragazzo si sentiva come uno studente sotto esame.

“Hai ragione Julian, meriti che io sia completamente sincero con te!”

John Johnson sapeva di dover essere delicato ma efficace. Chiaro, breve ma vero.

“Ti devo dare una brutta notizia!”


Aveva riconosciuto immediatamente la reazione delusa di Julian. Ogni paziente che riceve brutte notizie vorrebbe essere l’eccezione, quell’uno su un milione, il miracolo.

“L’ultimo elettrocardiogramma ha rivelato delle anomalie. Ripeteremo tutti i test…”

Era come un dejà- vu e Julian dubitava fortemente di avere dentro di sé la forza di farcela ancora, di affrontare tutto daccapo.

Difronte al suo smarrimento toccava al medico chiudere in maniera positiva e incoraggiante.

“Sono convinto che guarirai! Il fatto che tu non abbia più avuto crisi negli ultimi anni e che tu abbia praticato uno sport faticoso come il calcio gioca a tuo favore!”

Il colloquio si era concluso con una formale stretta di mano e l’uomo aveva trattenuto la carezza di condivisione con cui avrebbe voluto far sentire la sua partecipazione a quello che poteva quasi essere suo figlio.


Ancora brutte notizie. Ancora una volta il mondo che chi cadeva addosso e lui a reggerne il peso da solo.

Era il momento di dire basta!

Julian era stanco di portare da solo i suoi fardelli, di non essere la priorità dei suoi genitori. Mai…

Era davvero brutto venire sempre dopo, essere al secondo posto!

Fumante di rabbia, si era avviato a passo certo sicuro della sua meta.


Lo studio di Gregory Ross era arredato come quello di un notaio dell’ottocento con pesanti mobili di noce e una scrivania con le gambe intagliate, un’intera parete incorniciata dalle sue lauree, dai suoi titoli, da riconoscimenti vari e da un poster del corpo umano.

In un ambiente totalmente formale, estraneo, Julian aveva notato qualcosa di familiare: un crogiolo di vetri e di colori in mezzo ai ricettari sparsi sulla scrivania.

Una murina.

Un suo regalo. Glielo aveva portato anni addietro da una gita in Italia, a Venezia.

La sua espressione si era quasi ammorbidita e la rabbia quasi calmata quando dei mugolii, dei gemiti, lo portarono a ricomporsi e ad assumere una posizione di allerta.


Una frazione di secondo e dalla porta era entrato suo padre con i capelli scarmigliati e un rossore peccaminoso sulle guance. Non era solo.

Al suo braccio era avvinghiata come edera una donna. La camicetta studiatamente sbottonata fino alla scollatura del reggiseno e un sorriso lussurioso a piegargli la bocca: Lily Donovan, l’ammaliatrice psicologa!

La murina era scivolata dalle mani dell’inatteso spettatore e si era frantumata al suolo in mille pezzi.

“Julian non è come pensi!”

L’impacciato e maldestro tentativo di Gregory di trattenerlo non aveva sortito effetto.

“Mi fai schifo! Non voglio vederti mai più!”

Era corso via ancora incredulo e sconvolto.

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Capitolo 8
*** Presunta verità ***


Julian correva.

Correva senza una meta precisa, senza mai fermarsi: voleva soltanto fuggire via dai suoi pensieri interrotti e confusi, dai tradimenti.

Le scarpe facevano rumore calpestando i sassi sul terreno ma lui non voleva fermarsi.

Aveva attraversato l’intera area metropolitana ignorando il ritmo del suo cuore finché non gli erano bruciati gli occhi e il sangue non gli era rombato nelle orecchie.

Si fermò, con il fiatone, soltanto difronte allo spettacolo crudele dell’oceano con il monte Fuji sullo sfondo e le sue scogliere a strapiombo: una terrazza di sole dove appena pochi giorni prima si era crogiolato nei ricordi d’infanzia.

Un pezzetto di Tokyo dove era stato felice!


“Julian lasciami spiegare!”

L’ultima persona che avrebbe voluto vedere in quel momento gli si materializzò davanti, come se lo avesse inseguito nella sua folle corsa.

“Non mi importa un accidente delle tue giustificazioni!”

Ringhiò. Gregory era rimasto colpito da quella reazione : sconvolta, isterica, ostile.

Non sapeva davvero come discolparsi e perciò si preparò a sorbirsi impassibile l’attacco che suo figlio non gli lesinò.

“Quanto sono stato stupido e ingenuo! Le notti passate in ospedale, le uscite all’alba per una chiamata di emergenza, i pranzi e le cene lasciate a metà perché il tuo cerca-persona vibrava…Erano tutte balle!”

Nella sua voce e nei suoi gesti c’era un furore accanito, il suo viso era rosso e i capelli scarmigliati.

“Sei ingiusto! Non puoi accusarmi così, basandoti soltanto sulle tue illazioni!”

Gregory si era appoggiato alla balaustra che li separava dalla spiaggia: aveva ignorato lo spettacolo di quelle onde blu elettrico e non avrebbe aspettato di ammirare il momento in cui il sole si sarebbe tuffato nell’oceano.

Quel giorno l’oceano era inquieto come lui.


“Da quanto te la porti a letto?”

Gli occhi incandescenti di Julian lo avevano trafitto freddi come il ghiaccio e senza pietà come l’acciaio.

“Io non mi porto a letto nessuna! Abbi un po’ più di rispetto per tuo padre, ragazzino!”

“Mio padre: l’uomo perfetto, con il lavoro perfetto, la vita perfetta e magari anche la famiglia perfetta! Tutta una grossa bugia. Non ti è riuscito di avere un figlio perfetto ma soltanto un manichino pronto a comparire nelle foto propagandistiche, a sorridere a comando, a fortificare l’idea della famigliola felice. Una scimmietta ammaestrata!”

Il ragazzo aveva continuato ad inveire con scherno e con un sorriso amaro.

“Sei spietato! È da un po’ di tempo che Lily mi fa delle avances che ho sempre ignorato, non si era mai spinta tanto oltre com’è successo oggi. Quello che hai visto è solo un grossissimo equivoco, un malinteso. Non ho altro da aggiungere, questa è la verità!”

“La tua presunta verità!”

Gregory si era allontanato in silenzio. La frattura ormai era insanabile e non aveva mai sentito suo figlio così distante, con quel tono sprezzante.

Julian era rimasto immobile, ferito nell’orgoglio, senza nemmeno cercare di trattenerlo.

Tutto era perduto. Quella vista sul Pacifico era come una finestra sul cimitero dei suoi sogni, dei suoi progetti, del futuro che aveva sempre immaginato.

Si sentiva così impotente che i suoi occhi non riuscivano nemmeno a piangere.

Le emozioni di quella giornata erano state troppe, troppo intense perché non si ripercuotessero sul suo corpo, perché il suo cuore malato e stanco non ne subisse il colpo.

Aveva sentito soltanto il frusciare del suo respiro e poi il fiato gli si era strozzato nel petto.


“Papà!”

Era stato un sussurro impercettibile e certamente Gregory non aveva potuto udirlo ma, in preda ad un sesto senso, si voltò una frazione di secondo dopo, in tempo per vedere suo figlio sofferente, in ginocchio a stringere con entrambe le mani la camicia all’altezza del petto.

Senza perdere nemmeno un secondo tornò di corsa dove lo aveva lasciato, superando il capannello di curiosi che intanto si erano raccolti intorno a loro.

Il ragazzo boccheggiava cercando di vincere la fame d’aria; lo fece sedere e lo strinse a sé.

“Andrà tutto bene Julian! Papà te lo promette!”

“Chiamate un’ambulanza e trovatemi dell’acqua!”

Si rivolse quindi agli sconosciuti cercando di mantenere il sangue freddo: doveva fargli ingerire un’aspirina prima che perdesse conoscenza.

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Capitolo 9
*** Effetto domino ***


Andy Flatcher era una donna valorosa: sapeva arringare le folle, condurre con passione le battaglie che più le stavano a cuore, gestire il potere…

Una vera leader, nata per conquistare.

Anche durante l’incontro internazionale di quel pomeriggio aveva saputo essere aggressiva quando serviva ma, ancor di più, ironica e convincente.

Erano incontri che avrebbero messo in agitazione chiunque ma non lei. Proprio mentre si concedeva un momento di rilassamento e un sorriso soddisfatto era successo qualcosa di insolito: la sua segretaria era entrata nella sala-riunioni, si era avvicinata a lei e le aveva poggiato una mano sulla spalla.

“Dovrebbe seguirmi signora Ross! C’è una telefonata urgente per lei sull’altra linea e non possono collegarla al cordless!”


Dopo aver parlato con Gregory era rimasta un attimo in apnea poi era schizzata fuori alla ricerca di un taxi.

Non aveva nemmeno visto la strada percorsa uscendo dall’ufficio, non aveva osservato gli imponenti grattacieli che da sempre oscuravano il panorama impedendole di scrutare l’orizzonte.

Davanti a lei c’era il niente assoluto.

Si era scossa soltanto una volta sistematasi sul sedile di pelle nera impeccabile, lucido e pulito.

Non riusciva a stare ferma e si era messa ad armeggiare con la chiusura della borsetta che teneva sulle gambe: una bug di lusso, capiente e raffinata .

Aveva tuffato una mano al suo interno e ci aveva trovato di tutto: un paio di occhiali da sole, le chiavi di casa, un burro-cacao…

L’aria le si era bloccata nei polmoni e la sua mente, quasi d’impulso, le aveva proiettato nella testa un’immagine mentre ritrovava quella foto spezza-cuore dimenticata in una tasca, nel fondo, chissà da quanto tempo.

Era l’immagine di due giovani genitori, innamorati e un po’ pazzi, che sorridevano più che all’obiettivo al bimbetto che sbucava alle loro spalle, con un’espressione furbetta, abbracciandoli entrambi.

L’outback australiano, con i suoi spazi aperti e infiniti, faceva da sfondo.

“Siamo arrivati, signora!”

Il tassista aveva arrestato la corsa nei parcheggi del Tokyo Medical University . Solo dopo essere scesa dall’auto, dopo che la frizzante brezza l’aveva fatta rabbrividire, Andy aveva permesso che il pungolo che, da qualche minuto le stava perforando la mente, uscisse fuori.

Com’era accaduto?

C’era ancora di mezzo quello stupido pallone?

Era stato l’ennesimo colpo di testa di Julian ?


Gregory era seduto su una panca in sala d’aspetto, la giacca abbandonata al suo fianco, le mani sulle tempie e un’espressione tesa a stropicciargli il viso.

Appena aveva scorto sua moglie era balzato in piedi, troppo pentito per permettersi di essere consolato da lei aveva trattenuto il respiro e aveva sentito il suo corpo irrigidirsi.

Si erano concessi soltanto un veloce abbraccio di sostegno, poi erano stari raggiunti dal dottor Johnson.

“Eccovi qui mamma e papà!” Il tono disteso dell’amico di famiglia era come uno spiraglio di luce che, però, non era riuscito a mitigare completamente le ansie dei due genitori.

“Come sta Julian?”

“Sta meglio. Adesso sta riposando!”

Non era semplice ammettere le proprie responsabilità e Gregory si era lasciato ricadere sulla panca con l’espressione di chi non riesce a darsi pace.

“Sono un pessimo padre, mio figlio ha ragione! È tutta colpa mia!”

Andy gli aveva lanciato un’occhiata severa ed interrogativa mentre John aveva cercato di confortarlo con una pacca amichevole sulla spalla.

“Non è colpa di nessuno, Greg!”

“Voi non lo sapete ma abbiamo avuto una discussione e poi Julian si è sentito male!”

“Qualsiasi cosa sia successa tra te e tuo figlio è stata la classica goccia che ha fatto traboccare il vaso! Il suo cuore ha reagito come il pezzo di un domino che cade in un’inarrestabile reazione a catena…”

“Il suo cuore?”

Lo aveva interrotto Andy scuotendosi dal torpore.

“Il cuore di Julian ha dei problemi già da un po’ di tempo. Ne abbiamo anche parlato insieme questo pomeriggio…”

“Questo pomeriggio?!”

Un sussulto d’angoscia aveva assalito il Dottor Ross mentre, in un eco incredulo, ripeteva le parole del collega.

Mai come in quel momento sentiva l’incubo del fallimento come padre adagiarsi su di lui.

“Andate da Julian adesso. Ha bisogno di voi!”

“Credi sia una buona idea?”

“Tranquillo Greg! Per quanto Julian possa avercela con te non gli farà certo male vederti e poi… È così intontito in questo momento che non riuscirà nemmeno a mandarti a quel paese come meriteresti! ”


Era spaventoso e doloroso vederlo in quelle condizioni: cereo e immobile, Julian sembrava sprofondare nel letto.

Le labbra sottili e tese, il lenzuolo candido a coprirgli il corpo per metà, il braccio livido e il petto denudati.

Una coppia di fili partiva da due elettrodi collegati sul suo torace ed era collegato al monitor cardiaco accanto al letto. La linea dell’elettrocardiogramma procedeva ondeggiando a sessanta battiti al minuto.

Accettabile ! Aveva pensato il Dottor Ross.

Andy, invece, gli si era avvicinata prudente come se un suo respiro, più affannoso del solito, potesse in qualche modo danneggiarlo. Aveva preso una mano ossuta di Julian tra le sue affusolate e l’aveva rimirata con gli occhi velati da un sottile strato di lacrime.

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Capitolo 10
*** Un cuore rattoppato ***


Era strano ritrovarsi seduto tra suo padre e sua madre e avere le loro attenzioni tutte per sé.

Lo studio del Dottor Johnson era l’ultimo posto dove avrebbe voluto trovarsi.

I genitori le ultime persone che avrebbe voluto accanto.

Erano entrambi tesi, scuri in volto, e Julian avrebbe evitato volentieri le loro ingerenze e le loro preoccupazioni affettate.

Al dottor Johnson non piaceva affatto quell’abito da giudice rigido e inflessibile che le circostanze gli avevano cucito addosso: tra i suoi tanti compiti quello più difficile era sicuramente dare brutte notizie e si sentiva impreparato sotto questo aspetto, soprattutto difronte a ragazzini come Julian.

Andy era appoggiata sul bordo della sedia con la schiena dritta, Gregory invece aveva posato le mani sulla scrivania, come se si stesse sorreggendo fisicamente in attesa che il collega parlasse. Julian, invece, aveva un atteggiamento scostante: guardava il medico negli occhi con aria di sfida che rivelava tutta la sua fragilità.


“Julian hai sofferto di quello che in cardiologia chiamiamo pre- infarto. Ti sei sentito male perché il tuo cuore ha ricominciato a cedere e questo potrebbe causarti problemi gravi e di lunga durata!”

Lui era rimasto impassibile come una sfinge, continuando a mordicchiarsi l’unghia con atteggiamento scostante, indifferente. Quasi strafottente.

“Tu come consigli di procedere, John?”

Si era intromesso Gregory.

“ Anche se Julian ha subito un principio d’infarto non è detto che le cose non possano migliorare. Il fattore tempo in questa situazione è l’elemento più importante per poter intervenire con efficacia e prevenire futuri danni…”


“No! Non metterete di nuovo le mani su questo cuore difettoso, danneggiato, come se fosse stoffa. Non mi farò distruggere la vita per l’ennesima volta da un cuore rattoppato!”

Nella fermezza di quella decisione si leggeva tutto lo scoraggiamento del ragazzino difronte al peso di quella nuova prova.

“Devi capire che ti parliamo così per il tuo interesse non perché ci diverta!”

“Perfetto! Avete già tutto bello e deciso a quanto pare!”

Si era infuriato diventando tutto rosso. Andy aveva fatto un timido tentativo per farlo calmare: tutto quello stress, le emozioni e i dispiaceri di quella giornata potevano fare male quasi come un secondo infarto al suo cuore malato.

“Il rispetto delle regole, non sgarrare mai, le rinunce e i sacrifici fatti in tutti questi anni non sono serviti a un bel niente! Quattro anni fa, quando mi operò, lei mi fece delle promesse: mi promise che avrei fatto una vita normale come tutti i miei coetanei! Erano tutte balle, è così dottore?”

“Smettila Julian!”

Gregory lo aveva ripreso con severità. Per quanto suo figlio potesse essere sconvolto non tollerava assolutamente quella sfacciataggine fuori luogo.


John Jhonson però aveva fermato l’amico e collega: poteva immaginare lo stato d’animo di quel ragazzo a cui, ancora una volta, era crollato il mondo addosso, e voleva fargli capire che ricominciare daccapo era possibile.

Gli si era quindi rivolto con tono confidenziale e bonario.

“Hai tutte le ragioni di questo mondo per essere arrabbiato, impaurito e deluso! Per quanto in questo momento ti possa sembrare impossibile ti prometto che insieme ce la faremo! ”

“Io sono sfinito, esausto, stanco di lottare. Mi sono fatto male molte volte ma non ho mai mollato, sono caduto e ho sempre ripreso la corsa ma stavolta…”

Il suo volto corrucciato e deluso era espressione della resa. Il medico aveva provato a giocare un’ultima carta per convincerlo.

“Facciamo un patto Julian: io ti aiuto a venir fuori da questo pasticcio e tu mi dai qualche dritta con il pallone!”

Ma ormai lui aveva deciso di alzare bandiera bianca, di darla vinta alla malattia e al destino e di darsi sconfitto.

“È inutile dottor Johnson: mi arrendo!”

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Capitolo 11
*** Vita da vagabondo ***


Dopo quella diagnosi, Julian aveva perso ali, sogni e cuore.

Non ricordava un solo periodo della sua vita trascorso senza combattere la sua malattia: era stata quasi una battaglia quotidiana.

Avrebbe soltanto voluto chiudere gli occhi e sognare qualcosa di bello o, almeno, non sognare niente.

Aveva deciso di fermarsi: non aveva ancora preso nessun treno, così aveva smesso di rincorrerlo.

Se ne fregava del tempo che passava, voleva soltanto abbracciare il nulla.

Per mantenere le apparenze fingeva di condurre la vita di sempre, anche se era cronicamente infelice: l’abitudine della colazione in silenzio insieme ai genitori e poi dritto a scuola con quello zaino sempre pieno degli stessi libri.

Perché lui la scuola la marinava da almeno una settimana: saltava le lezioni del giorno, non si presentava in classe e se ne andava a zonzo per Tokyo per tutta la mattina per poi tornare a casa, all’ora di pranzo, come se niente fosse.

Gli mancava però qualcuno con cui condividere quelle bigiate: un compagno di classe, un amico del cuore, con cui giocare a biliardo nel retro di un caffè o chiudersi in un qualche cinema che dava vecchi film western di cui nessuno seguiva veramente la trama.

Julian non aveva mai avuto queste cose e adesso che aveva deciso di prendersele da solo non si sentiva assolutamente in colpa.


Diwata sembrava l’unica in grado di leggere in quell’anima tormentata e capire l’insofferenza del ragazzo seppur all’oscuro dei suoi colpi di testa.

È difficile avere dei segreti, soprattutto quando un segreto rimane tale solo perché non abbiamo un orecchio che ci sappia ascoltare !”

Lo aveva invitato ad una confidenza, che non c’era stata, un giorno.

Un proverbio turco dice: non importa quanto tu sia andato lontano su una strada sbagliata. Torna indietro!”

Lo aveva ammonito un’altra volta senza sortire gli effetti sperati.


Quel comportamento aveva finito per preoccupare anche Stephen Mellory, compagno di classe, di squadra e quanto di più vicino ad un amico Julian avesse mai avuto.

Così non si stupì più di tanto quando un pomeriggio se lo ritrovò nel grande giardino di casa Ross, con le mani in tasca, a dare un calcio ad un sasso immaginario.

“Non ti fai vedere da un po’! Cosa succede? Soffri il mal di scuola adesso?”

Stephen diceva sempre il vero scherzando e i suoi occhi erano pieni di calore e di sincera preoccupazione. Intuiva che l’atteggiamento scontroso dell’amico era solo un muro che aveva eretto per tenere tutti a distanza ma non ne capiva il motivo.

Julian voleva evitare di essere tartassato di domande così se ne era rimasto zitto finché un terribile sospetto aveva attraversato la mente di Mellory.

“Stai bene?”

L’unica domanda da non fare. La classica goccia che aveva fatto traboccare il vaso.

“È un po’ abusata questa domanda quando si tratta di me, non trovi? Sto bene, sto benissimo. Sono sano come un pesce!”

Aveva ribattuto con un pizzico di retorica per poi sorpassare Stephen e lasciarlo li, come un baccalà, tra gli ibisco e gli anemoni di Andy.


E poiché non c’è limite al peggio rientrando si era ritrovato dinnanzi entrambi i genitori in attesa di lui. Le posture le espressioni dei loro visi non promettevano nulla di buono.

“Che quadretto delizioso! Cosa facciamo stasera? Una bella riunione di famiglia?”

Li aveva scherniti.

“Fossi in te farei meno lo spiritoso, Julian! Ci è arrivata una convocazione da scuola: pare che tu ti stia assentando arbitrariamente!”

Per risposta Gregory aveva ottenuto ancora quel cinismo e quella noncuranza che lo mandavano in bestia.

“Cos’è questo? Il tuo modo di punirci? Di richiedere le nostre attenzioni?”

Aveva rincarato Andy.

“È solo il mio modo di vivere!”

Quella flebile giustificazione era stato accolto da un applauso di dileggio da parte di suo padre.

“Bel modo davvero! Una vita da vagabondo!”

“E anche se fosse? Mi sono sbattuto per anni per essere al pari degli altri nel calcio, ho cercato di essere sempre uno studente modello vincendo borse di studio e riconoscimenti di ogni genere…E a cosa diavolo è servito?”

Alle sue urla era accorsa anche Diwata che, con discrezione, se ne era rimasta sulla soglia della cucina.

Anche Andy adesso si era addolcita riconoscendo che, con tutte quelle restrizioni a limitarlo, Julian non era mai stato davvero libero di essere bambino ,di divertirsi per davvero senza patemi.

“Tesoro lo sappiamo che è l’ennesimo brutto momento ma noi siamo qui per sostenerti e non per ostacolarti. Fidati di noi!”

Il ragazzo però era ancora diffidente.

“Non sei pentito nemmeno un pochino?”

Anche Gregory aveva cercato la pace e, al contempo, di fargli capire quanto il suo atteggiamento fosse sbagliato. Julian però aveva risposto con uno sguardo glaciale.

“Non sono io quello che dovrebbe pentirsi!”

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Capitolo 12
*** Passaparola ***


Dopo il confronto serrato con i genitori, Julian aveva accettato una specie di compromesso: era tornato a scuola ma controvoglia.

Il generico non ho voglia di studiare si era presto trasformato nel più specifico odio studiare.

Recuperare per lui sarebbe stato semplice ma sembrava aver perso quella grande forza di volontà che lo aveva sempre contraddistinto.

Aveva usato proprio il rapporto tra ho troppi compiti e non vado all’allenamento come labile scusa per giustificare le sue assenze durante i pomeriggi in cui la Mambo si riuniva al campo.

Nessuno riusciva a raccapezzarsi e a capire il suo comportamento attuale, nessuno tra professori, mister e compagni riusciva a smuoverlo.

Soltanto Stephen, mettendo insieme i pezzi, era arrivato vicino alla verità sospettando che ci fosse di mezzo la salute di Julian ma, poiché l’amico continuava ad allontanarlo, non sapeva proprio come aiutarlo.


Il colpo di grazia era stata quella lettera, una convocazione per la Nazionale under 18 che, in altre circostanze, lo avrebbe reso orgoglioso e consapevole di essersela guadagnata. Adesso invece gli dava soltanto una stretta allo stomaco e una gran rabbia.

Era strano come le cattive notizie arrivassero agli orecchi di tutti in men che non si dica e quando, il giorno prestabilito, Julian Ross non si era presentato al raduno (mandando su tutte le furie Kirk Pearson) il suo strano comportamento era diventato un passaparola in cui ognuno, ricevuta l’informazione, vi aggiungeva qualcosa di suo. Così, passando di bocca in bocca, la notizia era stata modificata, colorita, arricchita di particolari.

Poteva anche immaginarsele Julian le reazioni perplesse di quel calciofilo di Holly, del battagliero Philip, del cordiale Bruce, di quelle due simpatiche canaglie del gemelli Derrick, dell’irruento Mark…


La situazione, infatti, risultava talmente ambigua da aver messo in allerta anche un tipo orgoglioso e talvolta sgarbato come Mark Lenders.

Sapeva che era assolutamente inutile andare a vuoto per le strade di Tokyo pensando che prima o poi lo avrebbe trovato, così aveva acquistato un biglietto della Yamanote Jr Line e, sul treno verde, per quasi un’ora aveva completato quasi tutto il percorso della grande metropoli. Era sceso ad Osaki e proprio fuori dalla stazione, su un passaggio pedonale, aveva seguito il capitano della Mambo che si infilava in un centro commerciale.

Nell’ennesimo pomeriggio di ozio, Julian aveva scelto quel depachika, il primo piano interrato con molti negozio elegantissimi che valorizzavano il cibo a livelli estremi.

Erano un po’ dei frutti proibiti per lui quel dolci occidentali, alcolici, cibi da rosticceria ma era un labirinto dei sensi in cui si perdeva con piacere.

Era appena uscito dal Bar annesso, dopo aver optato per una delizia preparata da un esperto cioccolataio italiano quando un pallone, spiovente chissà da dove, aveva disturbato rocambolescamente la sua dolce pausa.

D’istinto aveva stoppato la sfera con eleganza e si era concesso anche qualche palleggio di tacco.

“È un sollievo vedere che non ti sei rimbecillito del tutto, Ross!”

Mark sembrava una tigre feroce pronta ad avventarsi sulla preda ma Julian ormai lo conosceva da troppo tempo perché i suoi modi burberi lo spaventassero o lo mettessero in riga.

“Che cosa ci fai qui, Lenders?”

Julian non sembrava affatto felice di vederlo e non era per nulla imbarazzato nel palesare il suo disappunto.

“Si può sapere cosa diavolo ti passa per la testa?”

Niente chiacchiere, zero inutili preamboli: Mark era uno che andava dritto al punto. Il tatto e la diplomazia non erano nelle sue corde eppure ci voleva la sua impetuosità per scuotere l’amico-rivale.

“Non mi piace più giocare a calcio! E poi saranno affari miei di quello che faccio della mia vita!”

L’altro si era innervosito ma Lenders non si era bevuto una sola sillaba.

“Ma non prendermi in giro! Queste scemenze vai a raccontarle a qualcun altro! Tu che mi sei crollato davanti agli occhi e, nonostante questo, ti sei rialzato protestano per continuare a giocare adesso vieni a dirmi che non te ne importa più niente? Quel giorno ho capito cosa vuol dire rispettare un avversario che è a terra e mi sono rimesso in discussione come calciatore e come uomo! Ho rischiato il posto in squadra e mi davate tutti il tormento: Philip, la fidanzata di Hutton…Tu che ti presentasti a casa mia a palleggiare insieme ai miei fratellini. Quel giorno mi ammonisti e mi caricasti di una grande responsabilità: tu facevi il tifo per la squadra del tuo distretto, tu ti fidavi di me!”

Le sue parole erano più che opportune in quel momento e avevano fatto vacillare Julian: la ritrosia era un grave difetto di Mark ma, in qualche modo, gli stava dicendo che lo stimava e lo ammirava. Anche l’ultima persona dalla quale se lo sarebbe aspettato gli stava tendendo una mano ma Ross non era ancora pronto ad afferrarla.

“Lasciami in pace Mark!”

Era svicolato via, filando di corsa per strada .


Appena aperto il cancello di casa lo attendeva l’ennesima sorpresa della giornata: tra gli ibisco e gli anemoni c’era una sconosciuta.

La camicetta bianca, una gonna a scacchi, i lunghi capelli rosso-rame, l’aria familiare e sbarazzina con le efelidi sul viso chiaro e ancora più affascinante di due anni prima.

Non era affatto un’estranea.

“Amy?”

Gli aveva sorriso. Un sorriso che lo aveva spiazzato: dolce e timido allo stesso tempo.

“Ciao Julian!”

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Capitolo 13
*** Due anni di silenzi ***


Ritrovarsela lì gli aveva dato più di un brivido, caldo e piacevole.

Era bellissima con i suoi capelli rossi come le fiamme e gli occhi scuri capaci di sciogliergli l’anima.

Innocente come Ariel la Sirenetta.

Irraggiungibile come una dea greca.

Quando l’aveva vista, il cuore di Julian aveva battuto forte, anzi no forse si era fermato. L’unica cosa che era riuscito a fare era guardarla e capire di amarla più di due anni fa.

“Cosa ci fai qui?”

Amy era rimasta zitta, con un nodo alla gola, impietrita da questa nuova versione di Julian che non conosceva affatto: quel tono tagliente l’aveva colpita più di quello schiaffo in pieno viso che lui le aveva dato alle elementari.

Poi si era fatta coraggio e glielo aveva chiesto.

“Come stai?”

Un sospiro e Julian aveva risposto più per cortesia che per altro.

“Bene!”

Nonostante l’accoglienza non fosse stata esemplare, la ragazza aveva trovato lo slancio per continuare.

“E poi volevo chiederti scusa…”


Lui si era seduto sul vialetto regolare davanti casa, incurante delle chiazze d’erba che avrebbero potuto macchiargli i pantaloni, rivolgendole quel sorriso ironico che la faceva impazzire ancora come una volta.

Ad Amy adesso veniva da piangere ma, in qualche modo, era riuscita a trattenersi.

“Mi dispiace di non aver fatto più niente, allora. Ho la sensazione di averti piantato in asso. È terribile!”

Era scivolata a terra, vicino a Julian, sedendosi nella rientranza del muro e nascondendo il viso tra le mani. Il ragazzo era rimasto impassibile.

“Volevo solo che lo sapessi e dirti che potrei ancora esserti amica. Ti aiuterei come in passato, te lo prometto…”

Che in quell’improvviso ritorno dell’ex manager della Mambo ci fosse lo zampino di Stephen adesso Julian non aveva alcun dubbio!

“Lasciami in pace!”

Aveva interrotto bruscamente ogni tentativo di riavvicinamento.

“Ormai è passata una vita. E non è certo colpa tua se mi ritrovo un cuore di cristallo. Ma non cercarmi più, okay? Non voglio avere contatti con te!”

Amy era rimasta seduta impietrita sentendosi ancora peggio di prima, cosa che non avrebbe ritenuto possibile. Però non avrebbe più permesso che tra loro restassero questioni irrisolte e aveva richiamato l’attenzione del giovane che si stava allontanando verso casa.

“Credi che per me sia stato facile, Julian? Hai mai pensato a come mi sentivo ogni volta che ti vedevo entrare in ospedale senza sapere se ne saresti mai uscito…Vivo?”


Julian aveva incassato il colpo e le lacrime di Amy avevano smosso la sua coscienza.

Lei c’era sempre stata nei momenti difficili, quando non c’era un bel niente da festeggiare, incollandosi un bel sorriso sul viso diventando il suo sostegno, la sua roccia, il sole delle giornate più nere.

Lei, sempre e solo lei.

In quel momento Julian si era odiato con ogni fibra del suo corpo.

“Proprio perché tra noi c’era questo legame speciale non posso perdonarti questi due anni di silenzi. Ti eri trasferita ad Osaka, praticamente dietro l’angolo, non all’altro capo del mondo!”

Finalmente anche lui si era ammorbidito.

“Ti scrivevo le prime settimane, i primi mesi…Tornavo da scuola tutti i giorni e andavo a spiare nella cassetta della posta sperando di trovare una tua risposta. Tutto invano. Allora mi sono convinta che eri davvero tu a voler chiudere i ponti con il passato, a non volermi più vedere…”

La voce da fata adesso rammaricata, quella spiegazione incredibile, erano state quasi un fulmine a ciel sereno.

“Ma mi prendi in giro? Ti spedivo almeno una lettera ogni sette giorni , ho provato anche a telefonarti ma mi veniva sempre risposto che non eri in casa, finché tua madre mi ha detto chiaro e tondo che quelle mie attenzioni ti infastidivano…”

Quei disguidi stavano assumendo tutte le forme di un complotto bello e buono e quel tradimento faceva tanto male perché ad ingannarli era stata una persona di cui Amy aveva totale fiducia.

“Io non capirò mai in pieno la tua angoscia ogni volta che venivo ricoverato ma tu non saprai mai che delusione ho provato quando l’unica cosa che mi è pervenuta, con il tuo indirizzo e la tua firma in calce, è stata quella foto!”

“Quale foto?” La piccola Aoba era incredula, scioccata, ma voleva andare fino in fondo.


Julian con un gesto le aveva intimato di aspettarlo lì ed era rientrato nella casa deserta, facendo i gradini due a due per guadagnare tempo, e recuperando quella piccola cartolina – che odiava con tutto sé stesso- dal fondo di un cassetto della scrivania. Gli si era chiuso lo stomaco ma, mentre lasciava la sua camera, si ripeteva che doveva mantenere i nervi saldi.

Si fermò un istante ad osservare Amy che accarezzava un fiore di cui non ricordava il nome e poi si piegava ad annusare un tulipano.

“Sono i fiori preferiti di mia madre!”

Aveva spiegato senza un perché. E poi aveva sentito un bisogno fortissimo, prevalere su ogni altra cosa. Quello, stavolta, di essere lui a chiedere scusa.

Invece si era limitato ad allungargli quella fotografia incriminata.

Lei e Daniel.

Lei e Daniel dopo una passeggiata sullo Shinsaibashi Suji, dove era evidente il netto contrasto tra i molti negozi tradizionali e i grandi magazzini moderni.

Lei, Daniele e le loro famiglie insieme nella città futuristica del divertimento pochi giorni dopo il trasferimento degli Aoba ad Osaka.

Non ricordava nemmeno che qualcuno li avesse immortalati a tradimento durante un momento di relax!

“Io non ti ho mai spedito nulla del genere, Julian!”

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Capitolo 14
*** Mamma chioccia ***


Faceva male.

Scoprire il doppio gioco di sua madre aveva significato vedere tutte le certezze, che l’avevano aiutata ad andare avanti in quegli anni, sgretolarsi sotto le sue mani.

Era confusa, delusa e si sentiva svuotata di ogni energia mentre il treno la riportava a casa. Lo Shinkansen, il treno proiettile , si perdeva in scenari incredibili nell’apparente disarmonia del Giappone, stretto tra terra e mare, tra metropoli e villaggi.

Da Tokyo a Osaka

Da Osaka a Tokyo .

Quattrocento kilometri, quasi quattro ore di viaggio: numeri che avevano reso quella distanza abissale per quasi due anni ma che ora le sembravano irrisori.

Casa sua, in quel momento, era l’ultimo posto dove sarebbe voluta essere ma non riusciva a trovare pace ed era decisa a prendere di petto la situazione.


Joan Aoba era seria e concentrata, completamente a suo agio in mezzo a fuochi e padelle, con il grembiule che le fasciava il corpo mentre preparava gli onigiri le famose polpette di riso giapponesi. Aveva mutato espressione solo quando si era accorta di Amy sulla soglia.

“Bentornata tesoro!”

L’aveva accolta con la voce calma di chi non ha niente da nascondere e, per evitare che la sua rabbia esplodesse, la ragazza non aveva risposto distogliendo lo sguardo.

“Tutto bene a scuola?”

“Oggi l’ho saltata la scuola! Sono stata a Tokyo!”

Joan si era bloccata di colpo e l’ alga nori in cui stava avvolgendo il composto di riso le era scivolata dalle mani.

Sapeva di non poter avere sempre tutto sotto controllo e di non poter tenere, per sempre Amy, come la chioccia che raccoglie i pulcini sotto le sue ali tuttavia vederla così determinata, dopo averle disobbedito, l’aveva spaventata.

Sua figlia le aveva messo sotto il naso la foto compromettente.

“Mi spieghi perché Julian aveva questa? Perché non mi hai mai passato le sue telefonate? Perché non hai mai imbucato le lettere che gli scrivevo?”

Si sentiva come la matrigna delle favole ma la delusione e la sfiducia di Amy erano reali. E non era assolutamente pentita di averle impedito di fare il più grande errore della sua vita, di aver scelto al posto suo ritenendola troppo giovane ed inesperta.

“Ho cercato di proteggerti Amy! Mi si spezzava il cuore a vederti sempre triste e incupita per quel ragazzo, per stare dietro ai suoi problemi stavi sacrificando la tua adolescenza! Quante volte hai rinunciato ad uscire con le amiche per trascorrere i pomeriggi in un’anonima stanza d’ospedale? Non sapevi più cosa volesse dire ridere, essere spensierata…”

“Era una mia scelta! Assolutamente consapevole!”

Aveva protestato la ragazza, con gli occhi gonfi di pianto.


Joan si era allontanata e poco dopo era tornata con un plico di lettere tenute insieme da un nastro. Amy sapeva benissimo cos’erano: in silenzio le aveva prese, era salita in camera e appeso fuori la porta il cartello Non Disturbare.

Si era messa a sedere sul letto, aveva sciolto il nodo e preso in mano la busta in cima alla pila ed estratto con cura la fragile carta.

25 settembre

Cara Amy,

la scuola è ricominciata da poco ed è strano non trovarti nell’ultima fila, con i gomiti appoggiati sul banco a sognare ad occhi aperti, quando ti distrai e guardi fuori dalla finestra. Oggi ti saresti fatta una bella risata: Stephen si dondolava sulla sedia ed è scivolato interrompendo in maniera rocambolesca la lezione di giapponese!

A te come è andata il primo giorno? Spero che i tuoi nuovi compagni siano più amichevoli di quelli che trovasti qui quand arrivasti a Tokyo .

Amy aveva accarezzato il ciondolo con pietra luna che portava al collo e aveva sfilato un’altra lettera dal mazzo.

10 febbraio

Ci crederesti?

Ho giocato una partita intera senza ansie e senza malori!

Sono guarito, Amy! Sono perfettamente sano adesso!

È così bello essere un ragazzo normale e fare tutte le cose che fanno gli altri: l’altra sera sono stato al McDonald insieme ai ragazzi della Mambo e ho mangiato tutte quelle schifezze che la mia dieta di prima mi vietava. Il prossimo mese forse faremo una gita sul monte Fuji e anche io potrò darmi alle escursioni lungo i suoi sentieri.

Sono felice…Ma no felicissimo: mi manca qualcosa perché questa felicità sia completa.

Mi manchi tu. Mi manca una tua risposta !

La ragazza aveva scosso la testa, accarezzato i contorni di quelle parole e continuato con un’altra lettera. L’ultima.

24 giugno

Ieri è stato il mio compleanno! Come al solito i miei genitori se ne sono dimenticati ma a ferirmi di più è stato il tuo silenzio. Il tuo amico non meritava nemmeno un bigliettino per capire che non lo hai dimenticato?

Non voglio rattristarmi adesso che l’estate è esplosa in tutti i suoi colori…Ho una voglia matta di andare al mare. Ma cosa te lo dico a fare?

Già cosa te lo dico a fare sapendo che non avrò mai una risposta ?

Inutile continuare a farsi del male! Amy era andata nella camera degli ospiti – usata per lo più come ripostiglio- e aveva tirato fuori dall’armadio tutte le valigie. Due di esse, ampiamente utilizzate per le vacanze estive, erano vuote.

Ne aveva preso una ed era tornata in camera sua iniziando a riporvi i suoi vestiti: sapeva cosa doveva fare!

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Capitolo 15
*** Progetti per il futuro ***


Continuavano tutti a stargli con il fiato sul collo per farlo rinsavire.

Perché gli volevano bene.

Philip, l’amico che avrebbe fatto di tutto per strappargli un sorriso, era pronto a percorrere il Giappone in lungo e in largo, senza risparmiarsi sette ore di treno, per capire i suoi colpi di testa.

Mark, il rivale in campo ma sempre con rispetto, non aveva esitato a cantargli la verità in faccia.

Stephen, l’interprete minore, la sua spalla rivisitata nel ruolo di contraddittore era stato messaggero di cattive novelle quando gli aveva comunicato che la Mambo aveva deciso di metterlo fuori squadra.

Per Julian nemmeno quello era stata una delusione. Tutto era cancellato per sempre e lui andava avanti per inerzia anche se una piccola tristezza, a volte, lo prendeva dispettosa in contropiede.


Era metà pomeriggio quando, dopo aver mangiato un panino in un bar e fatto quattro passi in centro che tanto non aveva alcuna fretta, rincasò.

Andy era seduta in soggiorno dove si era portata il suo lavoro ma aveva appoggiato i gomiti sul tavolo e si teneva la testa tra le mani, in una posa di abbattimento completo.

Con un sorriso di anticipazione aveva accolto il ritorno di suo figlio e intanto, con studiato disinteresse, aveva gettato qualcosa nel cestino dell’immondizia.

Ogni volta quei sorrisi impostati gli facevano sentire male allo stomaco e Julian, per puro dispetto, era intenzionato a chiudersi in camera sua e perdurare in solitudine nel suo atteggiamento disfattista.

“Aspetta! Devo parlarti!”

Sua madre lo aveva fermato con voce incerta non essendo abituata a fare discorsi semplici ma importanti con lui. Julian aveva fatto una smorfia e si era seduto difronte a lei, spingendo lo zaino da una parte. Le stava lanciando una sfida e Andy l’aveva raccolta sostenendone lo sguardo fisso nel suo.

“Mi ritiro dalla corsa! Stop alle campagne elettorali. Ho altro da fare!”

“Troppo riduttiva la carica di sindaco e aspiri al ruolo di primo ministro?”

Sotto quei colpi d’ironia tagliente la sicurezza di Andy si era sgretolata velocemente e i suoi occhi avevano iniziato a vagare. E all’improvviso gli erano scese le lacrime.

“Resterò a casa! Durante la convalescenza avrai bisogno di me e io voglio starti accanto. Tu sei il mio unico progetto per il futuro, Julian!”

Lo aveva guardato con una tenerezza che forse lui aveva scambiato per pena.

“Risparmiati il tuo ritrovato istinto materno: non ho bisogno di te. Io non mi farò operare!”

Era scattato in piedi battendo in ritirata.


Prima che Diwata li portasse fuori, però, voleva vederci chiaro su quei rifiuti sospetti: dall’atteggiamento di sua madre aveva capito che non si trattava di semplice pubblicità da archiviare.

Attese in silenzio che Andy salisse al piano di sopra dopodiché sbucò fuori dal suo nascondiglio di fortuna e raggiunse la cucina e il secchio, recuperando i fogli che poco prima sua madre aveva accartocciato come carta straccia.

Un opuscolo e un titolo a caratteri cubitali sulla copertina: Come adottare un bambino: procedure burocratiche.

Una pugnalata alle spalle.


E quella sera si era sentito preso in trappola quando il dottor Jhonson era arrivato a casa Ross ed era stato invitato per cena.

“Questi vostri spudorati tentativi di dissuasione sono inutili!”

Julian era rimasto fermo nella sua determinazione, che aveva in sé una punta di disperazione.

Il dottor Jhonson sapeva che dietro quelle affermazioni estreme c’erano rabbia e paura e lui capiva e rispettava tutti i sentimenti del suo paziente.

“Davvero vuoi rinunciare a vivere? Non puoi rimanere sotto una campana di vetro per sempre!”

Julian avrebbe limitato volentieri le emozioni che lo facevano soffrire, avrebbe voluto smettere di recriminare e addestrare i suoi pensieri ma i ricordi continuavano a torturarlo.

“Non è bello stare in ospedale! Non è giusto che la paura di morire ti insegni a vivere a undici anni. Sono stato malissimo nel post-operatorio cinque anni fa e non ho nessuna intenzione di tornare sotto i ferri. Non avrei la forza di rivivere tutto daccapo!”

Aveva infine ammesso con un filo di voce. Quel calvario lo tormentava ancora e non si poteva ignorare tutto questo.

“Oggi la chirurgia mininvasiva fa miracoli, Julian! Nessuna ferita, nessuna cicatrice, nessun taglio sullo sterno ma soltanto una piccolissima sonda di sei millimetri che, dall’inguine, raggiungerà il tuo cuore…”

“Questi discorsi li faccia a mio padre, dottore. È il vostro campo, no? Personalmente non mi interessano!”

Insistere troppo rischiava di essere controproducente e John Jhonson sapeva di dover scavare la pietra con pazienza, a piccole dosi, perciò aveva bloccato Gregory intenzionato a richiamare all’ordine suo figlio e aveva lasciato che Julian abbandonasse quella conversazione.


Dopo un tempo indefinito Gregory finalmente aveva potuto raggiungerlo. La stanza di Julian sembrava un regno in ombra: il ragazzo era seduto sul pavimento con le spalle addossate alla parete. Suo padre si era lasciato scivolare a terra accanto a lui concedendosi di osservarlo meglio: solo ora aveva notato il viso bagnato e pallido, teso, il fiato corto e gli occhi opachi del suo bambino così fragile sotto quella maschera di ostentata risolutezza.

“Meglio se adesso ti stendi un po’!”

Gli aveva ordinato cercando di asciugargli il viso con una salvietta. Julian lo aveva bloccato, gli occhi che avevano ripreso a brillargli come tizzoni ardenti.

“Per una volta in vita tua vuoi smettere di fare il medico con me e iniziare a comportarti da padre?”

La schiettezza di suo figlio lo aveva fatto arrossire e istintivamente Gregory aveva allargato le braccia: inaspettatamente Julian si era rifugiato in quell’abbraccio incerto ma che profumava di porto sicuro.

“Non voglio farlo papà! Ma voglio guarire!”

Quell’ossimoro era la verità più dura da mandar giù.

Sia per Julian. Sia per Gregory.

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Capitolo 16
*** L'aggiusta-coppie ***


Anche dietro le spesse lenti che li velavano, i profondi occhi scuri di Grace sembravano quelli di una statua greca mentre la pelle chiara, di marmo, ricordava una scultura ellenistica.

Energica, piccola e decisa dietro gli occhiali che le coprivano il volto di un’ombra e, più in basso, le labbra decise in una certa malinconia.

Quando Amy era ricomparsa quasi dal nulla, dopo due anni di silenzi, le sembrava impossibile perdonarla.

E improbabile all’inizio era sembrata anche la loro amicizia, nata grazie a Jenny che aveva fatto da filo conduttore, e consolidata quando l’ex prima manager della Flynet si era trasferita a Tokyo.

Perdere anche Amy, dopo Jenny, per Grace era stata una doppia delusione. Si era sentita tagliata fuori.

Da quando Aoba si era trasferita molte cose erano cambiate: la sua amica dell’Hokkaido aveva imparato a contare su sé stessa quando appoggiandosi a chi diceva di esserci sempre l’aveva lasciata, era la solita ragazza spigliata e divertente e, orma da sei mesi, faceva coppia fissa con Stephen.

E certamente, quella domenica mattina, si sarebbe accorta che qualcuno li osservava se non fossero stati intenti a sbaciucchiarsi come due adolescenti nel giardino di casa Mellory.

Come due fiori tra le ortiche.


“Amy?!”

Era stato Stephen a chiamarla, riconoscendola, inducendola a non tentare una fuga strategica dopo essere stata colta in flagrante.

Erano rimasti tutti e tre fermi, come ipnotizzati, per qualche secondo poi all’improvviso tutte le ferite che Amy si portava dentro da mesi erano esplose in un pianto a dirotto liberatorio.

Stephen aveva tentato maldestramente, e forse inutilmente, di consolarla.

“Sono stata una pessima amica, lo so! E merito tutta la vostra sfiducia. Non ho il diritto di coinvolgervi anche nei miei casini ma me ne sono andata di casa e…”

Era stata Grace stavolta ad interromperla, ad abbracciarla e a regalarle un sorriso scevro di ogni risentimento.

“Siamo nello stesso pozzo Amy! Verrai a stare da me. I miei saranno via per qualche giorno, vanno dalla nonna a Furano, quindi accetta questo invito senza imbarazzi!”

Mellory allora aveva rivolto alle ragazze uno sguardo greve, quasi cupo. Non voleva intromettersi a sproposito ma voleva riportare l’attenzione sul problema che li aveva riuniti.

“Julian! Adesso dobbiamo pensare a lui!”


La casa della famiglia Scott era luminosa e accogliente. Una grande porta a vetri metteva in comunicazione la cucina e il salone. Un imponente camino di pietra dominava una parete, e su una mensola erano esposte diverse fotografie.

Amy era sul punto di avvicinarsi a guardarle quando il trillo del telefono l’aveva fermata.

Discretamente attese che Grace terminasse la sua chiacchierata quotidiana con Jenny sulla linea Tokyo-New York. Parole in fuga, secondi di silenzio più pieni di tutte le parole che decantavano alla cornetta, argomenti che erano un filo d’unione profondo, vibrante, come se non vi fosse nessun telefono di mezzo.


“Ti manda i suoi saluti!”

Disse infine Grace, posando il ricevitore.

“È bello avere una migliore amica!”

Aveva osservato Amy con un pizzico d’invidia. Lei non aveva mai avuto la fortuna di trovare un’amica del cuore con la quale condividere ogni cosa, dalle gioie ai dolori.

Gli occhi di entrambe le ragazze si erano posati su quella cornice in bella vista: la squadra della Flynet al completo, con manager annesse, in una quotidianità che li vedeva piuttosto affiatati.

“Sono stata fortunata a trascorrere la mia infanzia e la mia adolescenza con loro! E a condividere tante esperienze con Jenny. Pensa che quando si è invaghita di Philip ogni giorno poteva essere quello giusto per convincerla a prendere il telefono e chiamare il soggetto dei suoi desideri. Ma ogni giorno lei se la faceva sotto e rimandava. Rimandava finché un pomeriggio non mi blocco davanti a una cabina e la obbligo a comporre quel numero, perché a furia di fare chilometri per passare per due secondi davanti a casa Callaghan a me si erano sbriciolati i tendini…”

Grace adesso rideva delle follie di quel passato non troppo lontano mentre erano aneddoti che scaldavano il cuore di Amy e la incoraggiavano.

“Deve essere stato bello essere una Flynet-Girls!”

“Forse il ruolo di aggiusta-coppie mi calza bene, visto che tra quei due ormai è amore vero! E se sarà necessario darò il bis anche con te e Julian sai?”

Amy era arrossita un po’ di più, aveva abbassato gli occhi e cercato di togliersi dall’imbarazzo con un sorrisetto.

“Piuttosto Cupido raccontami di questa storia tra te e Mellory…”

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Capitolo 17
*** Di nascosto ***


Si trovava nel bel mezzo di quel compito in classe a cercare di risolvere quel dannato esercizio tra simboli stravaganti, formule da ricordare, monomi e logaritmi.

Nonostante gli sforzi, Julian non ci capiva nulla.

Si era allora guardato intorno alla ricerca di un insperato aiuto, di un suggerimento che non arrivava.

Poi, in meno di un secondo, delle formulette magiche utili almeno a garantirgli uno straccio di sufficienza, scritte su un foglio bianco miniaturizzato erano arrivate sul suo banco.

Era Grace, quella più brava e generosa, a venire in suo soccorso con un occhiolino complice.

E, per una volta, anche Julian si era concesso il vizietto di copiare.


Dopo scuola si era fermato a spiare, da spettatore nell’ombra, gli allenamenti dei compagni con un’amara angoscia che gli serrava la gola: Mister Keegan stava preparando meticolosamente il campo con i suoi cinesini, i birilli e le aste che avrebbero delimitato gli esercizi. Era un bravo tecnico, preparato e affabile, serio ma con il sorriso stampato in viso. Dolce ma fermo.

E poi c’erano loro: Mirko, Henry, Stephen, Owen…che si isolavano nell’allenamento insieme al loro Mister senza sentire nient’altro che i loro scarpini che si muovevano all’unisono.

“Quando si vince si usa il plurale, quando si perde il singolare. È sempre stato così e, fortunatamente, per la Mambo da molto tempo si usa il plurale!”

Tra i palloni che rimbalzavano si era insediato il viso sorridente di Grace che si era seduta sulle gradinate accanto a lui.

“Grazie per il tuo aiuto, stamattina! So che barare è sbagliato, e va anche contro i miei principi, ma è totalmente inutile che io aspetti mi torni la motivazione!”

Julian non era uno che si sbottonava facilmente sulla sua vita privata e quel ringraziamento brusco era già una bella conquista.

Erano rimasti in silenzio qualche secondo a seguire con lo sguardo i ragazzi che sgambettavano e che suggellavano con un batti-cinque un’azione riuscita.

“Gli manchi!”

La frase di Grace era stata come un sasso gettato nel lago delle sue emozioni. Julian aveva avvertito l’onda sollevarsi e lambire le ferite che non volevano rimarginarsi.

Non aveva replicato e l’amica aveva capito di non poter insistere di più. Si era alzata per congedarsi.

“Amy starà da me qualche giorno. Adesso è andata a fare una passeggiata al molo, forse ti fa piacere saperlo!”

Il sorriso di risposta di Julian racchiudeva tutta la sua gratitudine.


Amy era triste per aver perso un amico che sentiva sempre più distante e arrabbiata per le bugie di sua madre.

Per fortuna le rimaneva il mare.

In spiaggia a quell’ora c’erano poche persone ma erano le migliori: nonni che portavano i bambini a giocare con la palla e nonne che leggevano avvolte in voluminosi scialli.

La ragazza aveva passeggiato fino al molo, lentamente e mollemente. Le onde che si infrangevano sugli scogli la facevano sentire piccola .

“Ciao!”

Julian si era materializzato davanti a lei: le mani in tasca e l’inverno negli occhi.

Non sapeva da dove cominciare così era toccato a lei parlare. “Non è vero che tutto ciò che succede ha un senso. A volte bisogna solo accettarlo e andare oltre, perdonare e perdonarsi e proseguire trovando qualcuno di cui fidarsi ancora!”

Erano bastati pochi passi perché lui le arrivasse davanti e potesse sfiorarle il viso con le mani.

“Io sono come il tiranno Dionisio: non mi fido di nessuno nella mia prigione dorata!”

Dopo quella frase sibillina era scartato all’indietro, sfuggente come un’anguilla.


Scappare non è la risposta!

Amy lo aveva imparato a proprie spese. Poiché per risolvere un problema bisogna prima riconoscerlo quella sera lei e Stephen si erano ritrovati a confrontarsi e a fare congetture sulla strana metamorfosi dell’amico.

“Soltanto se c’è di mezzo la sua salute, Julian può diventare corrucciato e intrattabile!”

Aveva ammesso onestamente Stephen . La sua schiettezza aveva fatto tremare Amy.

“Dobbiamo insistere. Non possiamo più lasciarlo solo!”

La caparbietà della ragazza era un sussurro che si era spento nell’aria profumata dalle fragranze dei colorati fiori che abbellivano il giardino di casa Mellory.

Le loro riflessioni erano state interrotte non dal rumore del motorino di Grace ma da una Infiniti Q30 elegante nell’aspetto e curata nelle finiture che si era fermata davanti al cancello.

E anche la donna che ne era scesa era chic e raffinata con il suo tailleur pantalone total black.

“Signora Ross… È successo qualcosa a Julian?”

Stephen era stato svelto ad avvicinarla, con il cuore in gola per quel fuori programma del tutto inatteso.

Dietro quell’abbozzo di sorriso Andy nascondeva tutte le sue lacrime e la sua disperazione.

“No. Non ancora, almeno…”

Aveva tergiversato un secondo mentre abbracciava, con lo sguardo contrito, le figure dei ragazzi decisamente sulle spine.

“Probabilmente questa non me la perdonerà mai, ma che importa? Le proverò tutte per salvarlo! Se Julian non vuole dirvi cosa lo tormenta, allora lo farò io!”

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Capitolo 18
*** Capricci ***


Lo spiazzo davanti al liceo brulicava di studenti che si scambiavano sguardi, suggerimenti e consigli prima del suono della campanella.

Quello che rendeva viva l’aria mattutina era soprattutto il mormorio, una specie di brusio continuo simile a quello delle onde quando si infrangono sulla battigia.

Stephen, mescolatosi in mezzo ai ragazzi, richiamò con un colpo di tosse l’attenzione di Amy quando videro Julian – zaino in spalla ed espressione insofferente, avvicinarsi.

L’amico aveva intuito di star cadendo nella trappola che gli avevano teso ma non aveva nessuna intenzione di scappare.

“Dobbiamo parlare. Subito!”

Stephen era stato perentorio, con quel tono che non ammetteva repliche. Julian aveva sorriso beffardo mentre Amy aveva seguito in silenzio i due ragazzi.


Si erano fermati sotto il grande ciliegio dai rami con colature lignee che ricordavano le stalattiti delle grotte.

Julian aveva incrociato le braccia in atteggiamento di sfida, le labbra chiuse e lo sguardo cupo.

“Sei uno stupido!”

Era bastata quella frase di biasimo e le certezze del giovane erano vacillate come il suo cuore deluso.

Aveva avuto bisogno di un appiglio solido per aggrapparsi mentre toccava ad Amy adesso spronarlo.

“L’altro giorno mi hai detto che non ti fidi più di nessuno! La tua però non è mancanza di fiducia è paura…Paura di perdere quello che più ami!”

Lo aveva messo davanti a quella verità che respingeva da mesi. Era arrossita ma gli occhi le lampeggiavano di determinazione.

“Io ho già perso tutto!”

Julian curvò le spalle come se si preparasse ad una sconfitta inevitabile.

“È tutto difficile e incerto, sei spaventato e noi lo comprendiamo ma stavolta ci sono segnali che fanno ben sperare, no?”

Stephen aveva cercato di incoraggiarlo con il suo incrollabile ottimismo.

“Fatti operare, Julian!”

Vederlo così colmava Amy di tristezza e gli occhi le si riempirono di lacrime. Allora aveva agito.

“Mai!”

La gelò lui con quell’avverbio, si liberò della mano con cui la ragazza lo tratteneva e corse via.


Il tonfo del portone richiuso pesantemente fece sussultare Andy e la firma che stava tracciando in calce ad un importante documento si trasformò in una sbavatura d’inchiostro.

“È questo il tuo modo di giocare a fare la brava mammina?”

Nel suo essere infuriato con il mondo, nel suo volerla deliberatamente ferire, suo figlio era una figura grottesca. L’avvocatessa rimase impassibile.

“Smettila di fare i capricci, Julian! Hai diciassette anni, usa il tuo buonsenso. E se sei troppo offuscato dalla rabbia, in questo momento, fatti aiutare dai tuoi amici a ritrovare la ragione!”

Julian aveva serrato forte i pugni, spasimando per la collera, poi aveva sferrato l’attacco più velenoso.

“Non ti è mai importato un accidente di me…Anche se dovessi tornarmene al Creatore, lo hai già trovato il modo di sostituirmi!”

Non aveva fatto in tempo a godersi l’espressione sgomenta e smarrita di Andy. Le forze gli erano venute meno, gli si era annebbiata la vista e, dopo un secondo, era tutto nero.


Erano seguiti interminabili minuti di paura dei quali, però, lui non avrebbe mai ricordato nulla.

“Chiamo subito John!”

La voce di Gregory gli si era piantata in testa come una stilettata mentre riprendeva conoscenza. Era sdraiato sul divano, sui cuscini di velluto rossi , e accanto a lui c’erano i suoi genitori: Andy gli teneva stretta una mano.

“Non chiamare il dottor Johnson!”

Era riuscito a fermare suo padre con voce impastata. Aveva tentato subito di alzarsi ma il Dottor Ross lo aveva fermato con decisione.

“Devi restartene qui calmo!”

Sorprendentemente Julian non aveva opposto resistenza. Anzi la spossatezza pareva renderlo mansueto e aprire finalmente uno spiraglio.

Avere sia Andy che Gregory accoccolati accanto a lui gli dava una sensazione di nido, di protezione.

“Perdonaci tesoro! Quella dell’adozione era soltanto un’idea astratta che, un giorno, una mia collega mi ha suggerito.”

“Una proposta che non avremmo mai preso seriamente in considerazione senza prima interpellarti.”

“Poi tu sei stato male e abbiamo accantonato qualsiasi progetto. Sono stata piuttosto ambiziosa e sciocca lo ammetto. Come posso pretendere di essere una buona madre per un altro bambino quando con te sono un totale disastro?”

Per la prima volta stavano parlando senza remore, con il cuore in mano, smuovendo la coscienza di Julian.

“Non è vero! Qualcosa di buono con me l’avete anche fatta!”

Era il primo passo. Aveva assorbito tutte le sue energie residue e il ragazzo aveva chiuso gli occhi mentre una lacrima dispettosa e potente gli bagnava la gota pallida.

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Capitolo 19
*** Il primo passo ***


L’amore della signora Mellory per la semplicità era ben noto.

“A cosa serve avere una grande varietà di oggetti quando un terremoto potrebbe farli cadere sulla tua testa in qualsiasi momento?”

Quella domanda era la radice del suo rigore estetico e dava un senso al termine minimalismo . L’interno di quella casa di una normale famiglia giapponese, infatti, era sempre ordinata e custodiva soltanto cose interessanti.

Per Julian, ogni volta che vi metteva piede, era come respirare l’antico Giappone.

Adesso che era venuta Grace ad aprire, però, non era in vena di contemplare quel capolavoro di design, un insieme armonioso e inscindibile.

“Dovevo immaginare di trovarti qui!”

L’allusione del neoarrivato aveva messo un po’ a disagio la ragazza che poi, mentre lui si toglieva le scarpe, fu lesta a riprendersi.

“C’è anche Amy!”

“Bene!”

Era come se Julian si fosse lasciato dietro tutti i timori e si fosse presentato lì con una determinazione prima sconosciuta e una chiarezza d’intenti che rasentava la calma.


“Dio mio quanto tempo è passato! Guarda come eravamo piccoli, le divise, i capelli…”

Amy stava indicando una foto muovendo il dito sopra le figure. Accanto a lei, Stephen osservava mezzo divertito e mezzo nostalgico.

“È stata scattata prima della partita contro la Shimada. Quella squadra era l’emblema del catenaccio…”

Ricordò con un sospiro perché quegli avversari, senza grandi campioni ma con una difesa fortissima, avevano dato davvero del filo da torcere alla Mambo.

- Non l’ho mai visto sorridere così come in questa foto !

Pensava intanto Amy difronte all’espressione naturale, fotogenica e rilassata, di Capitan Ross.


“E che allenatore sui generis che avevano! Quel tizio se ne stava lì, con gli occhi socchiusi, ad osservare i suoi ragazzi mentre mettevano in atto l’unico modo che conoscevano…Un lungo rinvio a cercare la punta! Il signor Kanayma, vero?”

Il primo passo è il più difficile da compiere ma, a volte, tocca farlo per capire che una distanza non è mai esistita.

“Che ci fai qui?”

Esordì Stephen con voce tagliente. Sia lui che Amy erano scettici difronte quell’arrivo inatteso che li aveva strappati al profumo dei ricordi.

L’immagine della manager- ragazzina imbronciata, in foto, era davvero buffa e strappò un sorriso a Julian, finché la realtà non prese il sopravvento.

Aprì la bocca, poi la richiuse non sapendo cosa dire.

Con lentezza la mano era scivolata nella tasca interna del suo giaccone e aveva tirato fuori un foglio bianco piegato come una lettera.

“Questa è una missiva per la Mambo e per Mister Keegan. C’è scritto il motivo del mio deplorevole comportamento in questi ultimi tempi. Motivo che voi conoscete già!”

Mellory aveva fatto per replicare ma l’amico l’aveva fermato.

“No Stephen non sono ancora pronto per un confronto faccia a faccia. Un passo alla volta! Grace…”

La ragazza, che fino a quel momento era rimasta un’ombra silenziosa, si avvicinò.

“Tu senti spesso Philip, vero? Lo so che l’amicizia tra voi ragazzi della Flynet è così vera da valicare continenti interi!”

Lei aveva annuito con un espressione dolce, grata per quell’affetto indissolubile che l’avrebbe per sempre legata a Furano.

“È vero! Spesso ci telefoniamo o, grazie a skype, possiamo anche parlare vedendoci…E Philip è capace anche di telefonarmi tre volte al giorno se Jenny ritarda a rispondere ai suoi messaggi!”

Tutti avevano sorriso alla conferma di quanto passionale e geloso potesse trasformarsi, in amore, l’Aquila del Nord .

“In una delle vostre prossime comunicazioni potresti intercedere per me e dirgli che ho un disperato bisogno del suo aiuto la settimana prossima, quando la Nazionale verrà a giocare a Tokyo?”

Aveva fatto tutto quello che poteva e adesso si sentiva vuoto, esposto. Proprio mentre stava mostrando un minimo cedimento, finalmente Amy aveva preso la parola con tono serio afferrandogli la mano.

“Hai fatto il primo passo fidandoti di noi. Non è necessario adesso che tu veda tutta la scala, basta il primo gradino!”


Il primo gradino era lo studio del dottor Johnson.

Il medico stava picchiettando sulla tastiera usando solo l’indice della mano destra, l’altra era impegnata a sorreggergli il mento.

Cambiò completamente atteggiamento quando, alzando lo sguardo, vide nella cornice della porta quella figura eretta e solida.

“Vieni avanti, Julian!”

Il ragazzo non aveva esitato anzi si era avvicinato con la frenesia di chi vuole arrivare dritto al sodo.

“Quelle tecniche poco invasive a cui accennava quella sera…Potrebbe sperimentarle anche sul mio cuore?”

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Capitolo 20
*** Il fuggitivo ***


Il Nishiyama Onsen Keiunkan , a circa centocinquanta kilometri da Tokyo, era il ryokan più antico di tutto il Giappone: appartenente alla stessa famiglia da ben cinquantatré generazioni, era sopravvissuto alle guerre, alle mode e ai disastri ambientali.

Lì, nel piccolo paese di Hayakawa, alle pendici del monte Fuji, la Nazionale giapponese stava preparando i suoi prossimi impegni.

Al cospetto di quel paesaggio fiabesco Philip, cresciuto tra le montagne, si sentiva perfettamente a suo agio.

“Per di qua Julian!”

Lui aveva esitato qualche attimo e allora il ragazzo di Furano aveva dovuto usare i suoi modi decisi.

“Allora ti sbrighi?”

Quando erano passati nella hall, la giovane receptionist aveva rivolto loro uno sguardo ammiccante e le sue labbra carnose si erano aperte in un sorriso.

“Jenny lo sa che le altre donne ti fanno gli occhi dolci?”

Quella provocazione, in una situazione carica di stress, era stata utile a Julian per rilassarsi in meno di un minuto.

L’amico, con la sua eloquenza, però sapeva sempre come difendersi e ribattere.

“Sei tu quello a cui schiere di tifose adoranti hanno dedicato un fan club, non io!”

Complice quella distrazione, erano giunti nei pressi della sala riunioni ma, prima di entrare, Ross voleva ringraziare Philip per il suo aiuto.

“Mi dispiace di averti coinvolto nei miei casini. Se Pearson dovesse scoprire che sei mio complice…”

“Il buon vecchio Kirk, io e tutti i ragazzi saremo ben felici di ascoltare, finalmente, le tue spiegazioni!”


La sala-riunioni era un tempio di filmati e immagini dei prossimi avversari, su cui il mister chiedeva di prestare la massima attenzione.

“La Thailandia ha il suo punto di forza in Singprasert Bunnaak, un ex lottatore di Muay thai, che predilige il contatto fisico riuscendo anche a ferire gli avversari. Dovremmo stare molto attenti al suo gioco duro!”

“Me ne occupo io Mister!”

Clifford Yuma, ex lottatore di sumo e roccioso difensore, non si era tirato indietro: il tailandese avrebbe trovato pane per i suoi denti!

I bellicosi progetti per quella sentitissima partita di qualificazione erano stati interrotti da Philip che, in evidente ritardo, aveva inutilmente cercato di passare inosservato.

“Che fine avevi fatto, Callaghan?”

“Ho ritrovato un fuggitivo!”

Il vicecapitano aveva citato il film cult con Harrison Ford ed aveva preso posto accanto a Mark Lenders, lasciando tutta scena a Julian.

Il ragazzo teneva gli occhi bassi come un colpevole e l’imbarazzo non gli permetteva di alzarli ad incontrare quelli scrutatori dei compagni.

Kirk Pearson era furioso ma riusciva a nascondere bene le sue emozioni dietro le immancabili lenti scure.

“Benarrivato Principino ! Lo sa che è da circa un mese che aspettiamo almeno un suo cenno?”

Con il suo sarcasmo, l’allenatore sembrava un maestro che sgrida l’alunno cattivo. Julian aveva subito la ramanzina in silenzio e atteso che Pearson ingoiasse un paio di mentine, segno che la tempesta stava passando.

“Bene signor Fuggitivo …Ci illumini!”


Il ragazzo alzò la testa di scatto deciso a fronteggiare gli sguardi indagatori di tutti i presenti che gli pesavano addosso.

“Fuggire è una brutta parola, e se è brutto dirlo, figurarsi farlo!”

Appena le prime parole gli furono uscite di bocca arrossì perché era il momento di mettersi davvero a nudo.

“È vero sono un fuggitivo! Sono fuggito dalla mia più grande passione, dal calcio perché…Molto probabilmente non potrò più giocare a calcio!”

La smorfia di Julian si era trasformata in un mezzo sorriso. L’indifferenza che gli covava dentro da settimane lo aveva abituato a non badare alle opinioni altrui , perché in fondo non gli avrebbero cambiato la vita. Eppure gli mancava il coraggio di dire ad alta voce quello che ormai tutti, nella stanza, avevano capito.

“Significa che il tuo cuore ha ancora dei problemi?”

Alla fine era stato Oliver Hutton a porre esplicitamente quella domanda. Julian alzò le spalle e la conferma gli si leggeva in faccia.

Erano tutti commossi, quasi tutti con un nodo alla gola che impediva loro di pronunciare frasi di incoraggiamento.

“Quest’anno in Bundesliga il principale rivale dell’Amburgo è il Colonia. Il loro capitano e leader è Stephen Levin…”

Quella di Benji Price era risuonata, nel totale silenzio, come una voce fuori dal coro e mentre il portiere si sistemava con disinvoltura il cappellino dalla visiera rialzata, il sempiterno rivale Mark non gli aveva lesinano un’occhiataccia.

“Durante il nostro primo scontro ho notato come il suo gioco non somigliasse né a quello di Holly né a quello di Tom. Con la sua classe mi ha ricordato il tuo stile, Julian! Molto probabilmente al World Youth incroceremo la sua Svezia…”

“Vuoi dire che per battere gli scandinavi dovremmo mettere in campo l’alter ego di questo Levin?”

Aveva concluso Becker con i suoi modi placidi e fraterni.

“Allora non avete sentito quello che vi ho detto?”

Aveva fatto notare Ross con la sua faccia triste e il tono rassegnato.

“Anche prima che le nostre squadre si sfidassero nel torneo di Yomuri Land eri convinto che quella sarebbe stata la tua ultima partita e invece…”

Lo aveva contraddetto Paul Diamond. Era seguito un coro di incitamenti e, alla fine, anche Pearson si era ravveduto perché sapeva che, in quel momento, al suo libero serviva più l’incoraggiamento che la strigliata.

“Non provare mai più a tagliarci fuori. Quando c’è un problema chiamami, parlane con i tuoi compagni. Siamo una squadra, ricordalo sempre!”


Julian non aveva ceduto alla proposta di restare a godersi almeno le sontuose terme ma mentre si allontanava, con il cuore adesso più leggero, era stato raggiunto da Mark e Philip.

“Sei un imbecille! Quel giorno al depachika avresti potuto essere sincero con me!”

Mark, dai modi rudi, apparentemente scontrosi e poco socievoli, in realtà nascondeva un senso di estrema umanità e comprensione.

Philip, invece, aveva sfoggiato tutto il suo carattere forte, la sua energia positiva, quando aveva deciso senza esitazioni:

“Io mantengo sempre le mie promesse! Ora che so come stanno le cose, ti pare che non lo prenderò davvero un volo per Tokyo per starti vicino?”

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Capitolo 21
*** Lontani dagli occhi, vicini al cuore ***


Nessun menù nelle Filippine poteva considerarsi completo senza l’ Adobo, un brasato che grazie ai segreti di Diwata aveva saputo conquistare anche una ricca famiglia di Tokyo.

Il segreto era tutto nella sapiente marinatura della carne, lasciata insaporire per ventiquattro ore in un intingolo di salsa di soia, aceto, pepe e alloro.

Julian l’adorava ma si accorgeva sempre che quando la donna preparava uno dei piatti tipici della sua terra aveva le lacrime agli occhi.


Quel giorno, mentre aspettava che la carne fosse pronta per cuocerla con una generosa spruzzata d’aglio, l’abile cuoca era seduta su una sedia in cucina e teneva tra le mani una specie di rocchetto colorato.

“Anche io ci giocavo da bambino! È una ben strana invenzione lo yo-yo, se ne torna su vuoto come un secchio calato in un pozzo prosciugato!”

A distrarla era stato Julian: le braccia incrociate davanti al petto, una spalla appoggiata alla cornice della porta.

Diwata, voltandosi verso di lui, aveva cercato di trattenere un sorriso concentrandosi sul giocattolo che teneva in mano.

“È di mio figlio Arnel! Per oltre quattrocento anni nelle Filippine non è stato un giocattolo ma un arma da caccia.”

“Quanti anni ha Arnel?”

Aveva chiesto il ragazzo, improvvisamente interessato, tirando una sedia e sedendovi a cavalcioni.

“Sei. Sua sorella Analyn ne compirà invece undici la prossima settimana! Mi hanno dato questo giochino da portare con me perché, nella nostra lingua, yo-yo significa tornare indietro !”

“Non so come tu resista alla tentazione di prendere il primo volo e tornartene a casa. Ci vuole molta forza per essere così lontana da loro!”

“Trasferirsi all’estero per molti è un sogno, per me è stata una necessità. La cosa che più mi fa male è che potrei mancare a momenti importanti delle loro vite o non esserci quando stanno male, però…Guardando i miei figli ritrovo tutte le certezze di cui ho bisogno! Loro sono lontani dai miei occhi ma…Vicini al mio cuore!”

Diwata aveva cercato di dissimulare tutta la tristezza congiungendo le mani sul petto, sull’organo simbolo d’amore.

Julian aveva sorriso amaro perché fino a quel momento aveva vissuto una situazione differente con i suoi genitori: vicino ai loro occhi e lontano dai loro cuori .

Sapeva cosa fare.


Le scartoffie di Andy riempivano il tavolo del soggiorno e lei era così concentrata sul suo lavoro da non accorgersi di essere osservata.

“Ehi Azzeccagarbugli ce l’hai un minuto per me?”

Sua madre si finse offesa per quella definizione poco lusinghiera poi lo accolse con un sorriso caloroso. “Siediti qui vicino a me e raccontami tutto!”

“Te li ricordi i giorni prima che andassi in ospedale quando avevo deciso che mi sarei fatto operare?”

Una domanda affondata dritta nella piaga. Nel solito modo di Julian.

Andy si era limitata ad annuire con un espressione mesta.

“Avevo appena undici anni. Ero piccolo e fragile e tu e papà mi avreste viziato all’inverosimile in quel periodo…”

“Avremmo fatto di tutto per te!”

“Lo so! Anche comprarmi uno di quegli orribili cellulari-mattoni che desideravo così tanto!”

“Era anche una scusa perché tu fossi sempre reperibile!”

Ridacchiò sua madre.

“Sembra un dejà- vu vero? Adesso dovrò tornare sotto i ferri…”

“Vuoi chiedermi un regalo?”

Andy lo aveva chiesto con un velo d’ironia ma lo sguardo determinato di Julian le aveva fatto intuire fosse una cosa serissima

. “Si mamma! Anzi voglio chiedertene due di regali!”

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Capitolo 22
*** La libertà di volare ***


All’Ajinomoto Stadium, l’impianto ultramoderno e multifunzionale situato nella parte ovest di Tokyo, nella curva dei supporters nipponici faceva bella mostra lo striscione con la scritta LA12, la doze: il dodicesimo giocatore in campo .

Il gol del vantaggio era stato un po’ il gol di tutti ma Julian non ce l’aveva fatta a gioire, ad esultare insieme agli altri tifosi.

Era troppo stare lì a guardare mentre gli altri giocavano il suo calcio, vivevano il suo sogno!

Un ondata di rabbia e di perdita lo aveva travolto così violenta, così forte al petto, da non essere sicuro di sentirsi bene.

Si era alzato e, dopo uno sguardo alle gradinate delle tribune, aveva lasciato lo stadio in silenzio.


Nelle urla festanti dei tifosi, nelle mani alzate al cielo in una spettacolare coreografia, Amy avvertiva soltanto l’assordante silenzio, il vuoto che sembrava aspirarla da quando Julian se n’era andato.

Si lasciò battere una mano sulla spalla da Stephen e stringere una mano da Grace prima di superare quella fiumana di gente colorata di blu e guadagnare l’uscita.


All’esterno dello stadio lo aveva cercato tra bancarelle di magliette, bandiere e gadget di ogni genere e tra chioschi di cibi etnici.

Julian era immobile all’ombra degli alberi secolari, all’interno di un’area verde.

“Stai bene?”

Gli aveva chiesto Amy, avvicinandolo e sfiorandogli il petto con la punta delle dita.

“Non lo so come mi sento!”

Si era lasciato sfuggire. Sbottonarsi emotivamente non era mai stato facile per il giovane Ross ma di lei si fidava.

“Mi sembra di respirare a malapena. È come stare alla catena!”

Erano parole forti, che avrebbero potuto scavare un confine e condannarlo ancora di più alla solitudine. Questa volta, però, la ragazza non era intenzionata a lasciarlo buttarsi giù, ad accontentarsi di frammenti di quel sogno che cullava fin da bambino.

Stavolta quando sarebbe caduto ancora, lei ci sarebbe stata per aiutarlo a rialzarsi.

“Non mollare Julian! Non legare ad un muro le tue speranze. Lo sappiamo entrambi che il calcio ti fa sentire vivo!”

Non poteva deluderla!

In realtà era lei a farlo sentire vivo quando tutto il resto lo sfiorava appena, lei gli era stata accanto quelle pochissime volte che aveva pianto.

E soltanto quella preghiera accorata e la bella curva di quel sorriso che si era fatto spazio su quel viso tirato gli avrebbero permesso di sperare ancora.

Per avere la libertà di volare, avrebbe dovuto chinarsi, di nuovo, al suo cuore. Combattere per un motivo.

Di slancio le aveva preso il viso tra le mani ed Amy era arrossita a quel gesto inaspettato.

“Non mi arrendo! Te lo prometto!”

Una luce battagliera era lampeggiata negli occhi da imperfetto gentiluomo, un accesso diretto ad una dimensione molto intima, che un secondo dopo li aveva costretti a distogliere lo sguardo con un certo disagio, ma anche con una certa felicità.

“Ci giocherai un giorno nello stadio dei tuoi sogni, Julian!”

Non erano parole di circostanza, di incoraggiamento lezioso o di conforto. Amy ci credeva davvero!

E cominciava a crederci pure Julian.

“E adesso ce l’hai un minuto per raccontarmi la tua storia?”

E, poiché tra amici non dovrebbero esserci argomenti tabù, la ragazza aveva deciso che era il suo turno di essere completamente onesta.

“Vuoi sapere il nome della persona che si è permessa di legare ad un muro le mie scelte per provare qualcosa a sé stessa?”

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Capitolo 23
*** L'amicizia: un dono prezioso. ***


Julian la ricordava bene quella grande valigia di nylon rossa che Philip si portava appresso ad ogni ritiro e che, ora, stava trascinando su per le scale di casa Ross.

Saliva un gradino con il fiatone e lo guardava.

Julian scuoteva il capo.

Philip alzava il ginocchio e saliva un altro gradino e un altro ancora.

“Ti serve una mano?”

Il tono della domanda era piuttosto canzonatorio ma il gradito ospite aveva dimostrato, ancora una volta, tutta la sua lealtà quando aveva messo al primo posto la salute dell’altro ragazzo.

“Assolutamente no! Non devi fare sforzi!”

Julian, in realtà, lo aspettava già al piano di sopra con le braccia incrociate al petto e un sorriso furbo per avergliela fatta.

“Bell’amico che sei!”

Si sentiva fortunato ad avere Philip nella sua vita.

Il giovane di Furano era una persona estremamente sincera, schietto e senza peli sulla lingua. Diceva sempre ciò che pensava e c’era sempre stato, nonostante le difficoltà e le circostanze.

Era rimasto lo stesso ragazzino con il naso a punta e la chioma scompigliata che, a undici anni, riusciva a stringere tutta la squadra attorno a sé.

Era un amico vero.


La stanza di Julian era una vera camera delle meraviglie!

Calda, piena di colori e poster. Il computer incastrato sulla scrivania con sedia coordinata e libri di scuola impilati sugli scaffali.

Un’armonia che avrebbe fatto a pugni con il disordine di Philip, abituato all’odore di scarpe da ginnastica abbandonate e a una pila di cassette di giochi per la playstation a coprire il pavimento del suo rifugio tanto che sua madre aveva rinunciato a chiedergli: “ Pulisci la tua stanza, tieni in ordine, apri le finestre, fai entrare un po’ d’aria qui dentro, che fa schifo !”

Tuttavia aveva intuito che quella di Julian era la camera di un ragazzo solo.

Aveva curiosato tra i vari trofei esposti e poi si era rivolto all’amico con un misto di ammirazione e di invidia benevola.

“Come hai potuto pensare di rinunciare a tutto questo? Julian, uno con la tua tecnica e visione di gioco si mangia tutti! Sai dirigere una squadra come i migliori registi della storia del calcio. Sei direttore d’orchestra e primo violino!”

Un inchino e un’uscita di scena da un valzer che si inebriava di tristezza .

Con quel Capitano, che gli aveva insegnato che il calcio non è uno sport per lupi solitari, Julian aveva deciso di essere completamente onesto.

“Continuo a fare lo stesso sogno, quasi tutte le notti! Sogno di trovarmi in un letto d’ospedale con infermieri accanto. Non ci sono né Amy né i miei genitori insieme a me…”

Lo vedeva come una sorta di presagio, come se in qualche modo si stesse preparando a quel periodo di impotenza e di vulnerabilità che sarebbe seguito all’intervento.

“Beh è un vero peccato che sotto quella divisa da infermiera non ci sia Amy a tenerti la mano!”

Philip aveva cercato di sdrammatizzare un po’ la situazione che si stava facendo imbarazzante e triste.

“Non sai quante volte ho finto di scivolare nella neve per interrompere anzitempo gli allenamenti e passare il resto del tempo in infermeria…”

Aveva rivelato lanciandogli uno sguardo diretto, sornione e sorridente.

“Che infame che sei! Tutti questi sotterfugi per avere le attenzioni di Jenny!”

“E che attenzioni!”

Julian voleva risparmiarsi descrizioni dettagliate, che lo avrebbero fatto arrossire fino alla radice dei capelli, perciò aveva scantonato additando la valigia di Philip.

“Allora vogliamo iniziare a disfarli questi bagagli?”


Quella sera Diwata indossava un tradizionale Baro’t Saya , l’abito tradizionale reso celebre in tutto il mondo dall’ex first lady filippina Imelda Marcos.

Era un omaggio al suo arcipelago del sorriso in un giorno tanto importante per la sua famiglia.

Il suo piccolo Arnel compiva sette anni. Un traguardo importante e festeggiatissimo per tutti i bambini delle Filippine.

Sette anni erano tanti ed erano pochi per una mamma che si stava perdendo attimi unici e irripetibili .

A cena Julian ed Andy si erano scambiati, più volte, inusuali cenni d’intesa mentre Philip, orgoglioso delle sue radici e del proprio paese, decantava tutte le bellezze dell’isola di Hokkaido ad un interessantissimo Gregory Ross.

Ad un certo punto mamma e figlio si erano alzati in sincrono e avevano raggiunto la cucina dove Diwata si era rifugiata con tutta la sua malinconia.

Erano tornati tenendo la donna per mano.


Al centro del salotto torreggiava un pacco regalo gigante da lasciare a bocca aperta.

Un’espressione di meraviglia si era lentamente dipinta sul volto della colf quando la scatola aveva cominciato a muoversi e, in un attimo, il coperchio si era levato dall’interno.

Nanay, nanay !”

Le due sorprese ,che continuavano a chiamarla mamma , erano una ragazzina dagli occhi d’oriente vagamente a mandorla e i bellissimi capelli neri legati da un codino bianco, e un bambino che aveva mostrato uno dei suoi vivaci sorrisi con i denti a finestrella.

Si erano lasciati avvolgere da quell’abbraccio unico, caldo come una coperta, capace di spegnere il tempo e accendere qualcosa che somigliava ai sogni.

Salamat. Salamat. Grazie

Diwata non poteva essere più emozionata e il regalo per lei era stato perfetto quando, come ciliegina sulla torta, in giardino era comparso il signor Pineda a ricongiungere la sua famiglia almeno per quella sera.

Anche ad un tipo controllato come Philip era scesa una lacrimuccia di commozione nell’assistere a quel siparietto.

“Hai visto che anche a Tokyo siamo capaci di esprimere buoni sentimenti?”

Gli aveva sussurrato Julian, con un nodo in gola ma immensamente orgoglioso per quanto era riuscito ad ottenere. Anche lui aveva bisogno di quell’abbraccio sbadato, di quelli che vogliono trattenerti e amarti.

Tutta la protezione, la cura, la pazienza, l’amore incondizionato, la paura erano confluite tra le braccia di Andy che si erano allargate ad accoglierlo.

“Grazie per quello che hai fatto, mamma! Adesso sono pronto anch’io!”

*****


Nanay: mamma

Salamat: grazie

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Capitolo 24
*** Cicatrici ***


Nonno Ken era nato ai piedi delle Alpi Giapponesi e lì, ai piedi delle Nihon Arupusu , aveva giurato sarebbe finita la sua vita semplice fatta di risaie, montagne innevate e vecchie contadine.

Da quando la sua Yuki era morta si era legato ancor di più a Niigata, a quel luogo che sembrava saper curare le ferite del cuore e dell’anima.

Per Stephen quella visita mensile al solitario patriarca Mellory era diventata ormai un’abitudine.

Quella volta aveva insistito perché Julian lo accompagnasse: voleva offrirgli l’opportunità di cambiare aria e una gradita distrazione, anche se per un giorno soltanto, dagli assilli del presente.

Quale migliore occasione per rivivere un pezzetto della loro infanzia!

“Chissà…Magari oggi incontreremo Mina Fuji!”

Philip possedeva quell’allegria contagiosa che riusciva a trasmettere a chiunque lo circondasse. Il fatto che a quella breve gita si fossero uniti anche il ragazzo, Amy e Grace faceva del gruppetto una comitiva affiatata che aveva trasformato uno scompartimento dello Joetsu Shinkansen con il chiasso delle loro voci e con le loro risate.

“Chissà come la prenderebbe Jenny se il tuo desiderio si avverasse!”

Grace non aveva potuto fare a meno di punzecchiarlo. Si conoscevano fin da bambini e tra loro non c’era mai stato nessun motivo di litigio. L’affetto che li univa era innato e naturale.

Mata Hari !”

La complicità e la fiducia sulle quali si basava la loro amicizia era evidente e aveva procurato una punta di sana invidia in Julian.

“Prima la receptionist in albergo, adesso una delle più belle attrici giapponesi…Philip sei sicuro che Jenny sia l’unica donna della tua vita?”

Aveva infierito anche lui perché, ormai, la gelosia del capitano della Flynet era proverbiale.

“Mi dispiace deludervi ma mio nonno abita tra delle sperdute risaie!”

Stephen mise fine a quel simpatico siparietto che aveva divertito molto anche lui.


L’arrivo a Niigata era stato carico di entusiasmo: finalmente erano giunti dopo aver attraversato le alpi giapponesi ed erano pronti a godersi la città per un giorno di puro riposo.

Peccato che la città fosse priva di qualunque interesse, eccetto le risaie!

I ragazzi erano arrivati a piedi al casolare semplice e pulito che era l’abitazione di nonno Ken da oltre mezzo secolo.

Durante la passeggiata si erano goduti lo spettacolo delle risaie a terrazzo che rendevano il paesaggio un’opera d’arte.

Julian ricordava l’estate in cui era stato in vacanza con la famiglia Mellory: gli amici di Stephen lo avevano accolto come uno di loro e avevano passato interi pomeriggio estivi a tirare calci al pallone per strada o a giocare a biliardino.

“Ehi Stephen mi piacerebbe proprio rincontrarli quei bambini impossibili!”

“Beh non sono più tanto bambini. Sono cresciuti anche loro!”

Dietro quella voce secca e distante che aveva risposto c’era la fatica, la sopportazione di ogni male, di ogni sacrificio.

Il vecchio ingoiò un respiro affannato mentre Stephen gli prendeva una mano, tagliuzzata, deformata e artritica. Sul dito portava un’ombra del suo grande amore: una stretta fascia, più bianca rispetto al colore della pelle. Quel segno, quella cicatrice, per il nipote valeva più di qualsiasi gioiello.

“Oggi ti ho portato un po’ di amici, nonnino!”


Nonno Ken sembrava un burbero ma aveva un gran cuore. Aveva rifocillato la piccola comitiva con frittelle di riso e limonata e si era messo al loro livello, seduto su una sediolina, felice di trasformarsi in cantastorie.

“Sapete come nasce il riso? C’era una volta un Genio Buono che, impietosito dalla fame degli uomini, si strappò i denti e li piantò come se fossero sementi. Nacquero così i chicchi di riso: innumerevoli, bianchi e perfetti come i denti di quel dio!”

Philip era il più affascinato da quei racconti e non perdeva occasione per dire la sua.

“Signor Ken perché la prossima primavera non viene a trovarmi a Furano? Sa da settanta primavere c’è una collina che diventa rosa: uno spettacolo paradisiaco!”

Grace aveva dovuto trattenere una risata perché conosceva da sempre con quale orgoglio l’amico parlasse delle meraviglie dell’Hokkaido e la sua smorfia aveva fatto sorridere anche gli altri.

Il padrone di casa aveva proposto ai ragazzi di fare un giro nei dintorni. Stephen l’aveva trovata una buona idea e Philip e Grace si erano accodati entusiasti.

“Io passo. Sono un po’ stanco!”

Julian aveva rinunciato, un po’ a malincuore . Amy non gli aveva dato il tempo di sentirsi a disagio.

“Resto a farti compagnia!”


Si era alzato un vento forte e, nelle prossime ore, si rischiava di passare dalla piacevole brezza ad una vera e propria tempesta.

Amy si era stretta nel cappotto e aveva messo il piede sul pontile che affacciava sul fiume. Julian l’aveva seguita in silenzio, osservando il terreno dove erano ancora netti i segni lasciati dalla mietitrebbia che aveva tagliato le spighe di riso mature.

Cicatrici. Tracce sulla superficie paludosa.

Cicatrici. Ombre di un amore perduto su un anulare vuoto.

Cicatrici. Ferita di una battaglia vinta .

Istintivamente aveva chiuso il suo giaccone sbottonato quasi a voler nascondere i suoi pensieri. Stavolta la ragazza non si era fatta fermare dalle sue paure.

“Ho una cosa per te!”

Aveva frugato nella tasca e poi aveva afferrato il braccio di Julian tirandogli la manica poco sopra il polso. Con movimenti sicuri vi aveva annodato fili di diversi colori che adesso sostituivano il braccialetto che si era spezzato.

“Grazie!”

Non erano più schegge impazzite. Nei movimenti di Amy c’era una sicurezza, in ogni sua declinazione, capace di calmare anche Julian.

Si era lasciato sbottonare il cappotto e tirar giù la zip della felpa senza vergognarsi di mostrarle il petto deturpato e senza tirarsi indietro quando le dita ghiacciate della ragazza avevano accarezzato quel lembo di pelle danneggiato, asportato, riparato e cicatrizzato che significava vita.

“Non ho bisogno di un braccialetto portafortuna. Quello che volevo ce l’ho già!”

Lei era arrossita e si era rannicchiata più strettamente possibile al suo amore, abbandonandosi fiduciosa all’abbraccio di Julian perché lui era il suo rifugio sicuro.

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Capitolo 25
*** Ci vieni con me? ***


Il Kanai Anzen che gli aveva regalato nonno Ken fu la prima cosa che Julian sistemò sul cabinet.

Per un lungo attimo aveva fissato quell’ omamori dalla copertura di stoffa e dall’interno di legno contenente una preghiera; un amuleto il cui scopo era portare buona salute.

In realtà lo svantaggio fisico ed emotivo lo rendeva più sensibile alle intenzioni e alle attenzioni centuplicate degli altri.

Continuava a sentire un ingestibile imbarazzo ma, allo stesso tempo, desiderava che non lo lasciassero solo.

Né i suoi genitori, né Amy o Stephen tuttavia sembravano trovare la chiave giusta per farlo rilassare. L’unico completamente a proprio agio era Philip.

Aveva comprato il giornale all’edicola e, adesso, stava leggendo con un certo interesse i risultati del turno di Bundesliga giocato la sera prima.

“Allora? Amburgo o Colonia?”

Lo aveva interrotto Julian quando gli altri si erano defilati: chi con la scusa di un caffè vero da sorseggiare al bar, chi con quella di una merendina del distributore automatico.

“Oh a quanto pare ti hanno piantato tutti in asso…Tranne il sottoscritto!”

Philip aveva ripiegato i fogli con una certa tendenza a pavoneggiarsi, dandosi un’aria di grande importanza che aveva fatto sbuffare e sorridere l’amico.

“Mi farò bastare la tua compagnia! Allora, com’è finita tra la squadre di Benji e di quel Levin?”

Callaghan lo aveva guardato intensamente e aspettato qualche istante in silenzio, per creare suspense, poi era sbottato.

“È finita a botte, ecco com’è finita! Se continua così, questo Levin diventerà uno dei giocatori più cattivi di sempre… Il guerriero delle notti bianche !”

Si era fatto beffa di quel titolo attribuitogli dai giornali e Julian ne aveva approfittato per schernirsi di quel soprannome che, da sempre, cercava di lasciarsi alle spalle.

“Non parlarmi di notti bianche! Se continuo così finirò per diventare il Baronetto delle notti in bianco !”

Non erano riusciti a contenersi ed erano scoppiati a ridere.


Amy era rimasta ad osservarli con discrezione sulla porta mentre una tempesta di emozioni si scatenava dentro la sua anima. Aveva dovuto fare uno sforzo per accontentare Philip che le faceva cenno con l’indice di entrare.

“Oh ecco una compagnia che il nostro Sir apprezzerà sicuramente più della mia. Vi lascio, vado a fare una telefonata!”

Lei si era avvicinata, un sorriso pigro le era apparso sul lato destro della bocca mentre si sedeva sulla sedia accanto al letto di Julian.

“Che ora saranno a New York?”

Il sorriso della ragazza si era trasformato in una risatina.

“Credi che sia al telefono con Jenny?”

“E con chi altri?! Quello fa solo telefonate interurbane quando siamo in ritiro! Eravamo!”

“Perché parli al passato?”

Amy, che gli era rimasta accanto senza chiedere mai niente in cambio, gli aveva sfiorato piano la mano. Dopo tutti quegli anni sospeso tra i forse e i non so l’unica cosa di cui adesso Julian aveva bisogno erano certezze e sicurezza.

“Pensi che sia finita? Non finisce proprio niente se non lo decidiamo noi!”

Aveva sfoderato di nuovo quel sorriso timido e la grinta le aveva fatto salire un calore alle guance. Il cuore di Julian batté forte.

Il braccialetto gli era scivolato lungo il polso e lui ne aveva approfittato per sfilarselo.

“Puoi averne cura tu? Credo che non me lo lasceranno tenere in sala-operatoria!”

Allontanarsi dal disagio di quel momento sarebbe stata la scelta migliore ma, spinto da un coraggio nuovo, Julian aveva deciso di affrontarlo.

“Ieri a Niigata abbiamo trascorso una giornata speciale. È stato bello perché tu eri con me!”

Erano stati interrotti dall’arrivo, provvidenziale, del cardiochirurgo che aveva fatto guadagnare tempo ad Amy.


Il dottor Johnson era entrato con il camice di reparto sapendo che il suo paziente pretendeva spiegazioni, chiarezza e semplicità.

Cercando di essere schematico e breve allo stesso tempo, aveva risposto a tutte le domande di Julian mentre Gregory era rimasto, in silenzio, a fianco del figlio.

Anzi aveva trattenuto il respiro quando il collega aveva rimboccato una manica del ragazzo, vi aveva infilato lo stetoscopio e stretto il manicotto intorno al braccio abbastanza da bloccare la circolazione del sangue. Mentre il manicotto si gonfiava , aveva ascoltato il sangue che pulsava nell’arteria.. .

L’aria, uscendo, aveva prodotto un lieve sibilo.

“Bene Julian, cominciamo tra una manciata di minuti! Ricorda: io ti aiuto a star di nuovo bene e tu mi darai una mano a non essere una schiappa totale la prossima volta che indosserò gli scarpini da calcio!”

Rimasto da solo con Gregory ,era calato un secondo di silenzio ma era durato soltanto un istante.

“Papà ci vieni con me lì dentro?”

Una richiesta impellente e assurda che aveva spiazzato il controllato Dottor Ross.

“Tesoro, io sono un ortopedico! Oggi in sala-operatoria sarei solo d’intralcio…Non dimenticare che sei in buone mani!”

“Capisco! Hai ragione tu! Anzi è stato stupido chiedertelo!”

Aveva voltato appena la testa, cercando di ingoiare la punta di delusione che gli aveva trafitto il petto.

In quel momento avevano udito un rumore di passi e lo sferragliare della barella.


Era stato accompagnato dagli auguri e dall’incoraggiamento degli amici preoccupati e dal calore della mano di Andy che stringeva la sua per fargli forza e fargli arrivare tutto il suo amore. Gregory gli aveva accarezzato i capelli con un sorriso, dolce e un po’ colpevole, stampato sulle labbra.

Mentre si stavano allontanando verso il blocco operatorio, di slancio, Amy aveva fermato i portantini.

“Fagli vedere di che pasta sei fatto, Capitano!”

Aveva fissato Julian per un attimo, carezzandogli le guance. Poi gli aveva posato un bacio sulle labbra tremanti.

Era un casto bacio, ma aveva bisogno di darglielo.

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Capitolo 26
*** Rischio zero ***


Gregory Ross era rimasto nello spogliatoio dei medici, solo con i suoi demoni, per un tempo che gli pareva infinito.

Finché una mano era scivolata lungo il suo petto, come se potesse sentire il senso di colpa che lo dilaniava all’interno. Ogni volta che si sentiva così- come se una valanga stesse per travolgerlo- Andy riusciva sempre a calmarlo.

“Ehi!”

Come sei anni prima, la donna era un groviglio di nervi tesi e stentava a trattenere le lacrime. Allora era stato il giorno più lungo delle loro vite.

Soprattutto per Gregory che, prima che un padre, era un medico.

Il rischio zero in medicina non esiste !

Si era ripetuto quel mantra durante tutti gli anni di studi e anche quella mattina. Una bella consolazione per far ingollare a suo figlio un ennesimo rifiuto!

“Ho deluso Julian poco fa. Come sempre!”

C’era una strana nota nella voce di Gregory, sembrava quasi ferito.

“Forse sei ancora in tempo per farti perdonare!”


Stephen, Amy e Philip sedevano nel centro della bianca sala d’aspetto che confinava con le sale-operatorie di quel piano.

Sedevano in un dignitoso silenzio, ciascuno immobile ed incredulo, assorbito dai propri pensieri ed accasciato su una di quelle scomode sedie rigide di plastica.

Attraverso le grandi ed opache vetrate a buccia d’arancio, Philip si era ritrovato a guardare una rassicurante rampa di scale in marmo bianco e grande era stata la sorpresa quando vi era comparsa una figura ben nota, alta e slanciata ma dall’aria impacciata.


Quello sarebbe stato il suo vero battesimo del fuoco!

In una fredda sala, piastrellata in maniera molto sobria, dove non sarebbe mai voluto finire di nuovo.

Mentre era sdraiato sul tavolo-operatorio, con il Dottor Johnson che gli teneva la mano, l’anestesista che lo incoraggiava e le infermiere che gli sorridevano, all’improvviso Julian aveva percepito che sarebbe andato tutto bene.

Tuttavia le labbra erano chiuse ma non rilassate e nell’angolo della bocca si notavano leggere pieghe, segno inconfondibile di tensione.

Alcune lacrime gli erano colate lentamente sulle guance.

“Un mare calmo non ha mai fatto un buon marinaio! Dovrai essere un buon Capitano quando faremo rotta verso il Polo Sud!”

La mano protetta dal guanto in lattice lo aveva appena sfiorato eppure quel contatto era stato così vivido e vibrante che a Julian era parso di sentirlo sulla pelle.

“Al Polo Sud?”

Gregory aveva capito che era impossibile evitare un coinvolgimento emotivo totale davanti alla fragile compostezza e insieme alla risolutezza di suo figlio.

“Navigheremo sul nostro mare e andremo sulla nostra isola!”

“Pensavo non lo ricordassi più!”

Il Dottor Ross si era seduto sullo sgabello in acciaio accanto al ragazzo, senza lasciargli la mano.

“Un papà non può mai dimenticare i sogno di suo figlio…Per quanto stravaganti e assurdi possano essere!”

L’equipe medica intanto continuava a lavorare, iniettando un mix di farmaci sottocute.

“Papà? Credi ci siano solo pinguini e ghiacci sulla nostra isola?”

Aveva chiesto Julian con voce impastata, segno che l’anestetico stava facendo effetto.

C'è anche una capanna sotto le falde di un vulcano. La costruì Ernest Shackleton quando giunse sull'isola con la sua spedizione di venticinque uomini, nel 1911. La casa è ancora in piedi: ci sono le stalle, la cucina con le stoviglie, il tavolo, i letti, la camera oscura che utilizzava Ernest Ponting, il fotografo della spedizione. C'è un forte odore di grasso di foca, allora usato come combustibile, e addirittura una cassa di bottiglie di whisky. Tutto è rimasto come quasi un secolo fa!".

Julian aveva sorriso, mentre una mascherina gli veniva appoggiata sul viso.

“C’è anche un aeroporto?”

Alla base scientifica McMurdo la pista è fatta di ghiaccio marino e l'area pianeggiante è così limitata che gli aerei partono e arrivano solo in primavera. Sicuramente atterrare lì è sconsigliato a chi ha paura di volare..."

"Forse non ci andremo mai, papà. Io sono debole di cuore!"

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Capitolo 27
*** Morra cinese ***


Ernest Scackleton, il capitano, aveva l'espressione decisa di Oliver Hutton.

Ernest Pointing, il fotografo, aveva l'occhio critico di Tom Becker: d'altronde quello era cresciuto a pane ed arte!

Ernest Joyce, con le sembianze di Philip Callaghan, era l'addestratore dei diciotto cani da slitta. Un bel daffare visto che Phil, a Furano, aveva lasciato solo uno splendido esemplare di husky.

E poi c'erano i gemelli Derrick, Bruce, Patrick, Sandy...Tutti a bordo dell'Endurance pronti a raggiungere l'isola di Ross.

Perché la Federazione fosse stata così folle da organizzare una partita tra i ghiacci perenni del Polo Sud nessuno lo sapeva. E nessuno se lo domandava!

C'era una cassa in legno abbandonata sulla neve: conteneva delle bottiglie di whisky.

A bordo dell'Aurora arrivarono anche Ed, Danny e Mark assieme a Jeff Turner. L'allenatore reclamava il bottino...

Lenders si avvicinò al nutrito gruppo con fare minaccioso e sfidò Callaghan, che si era avvicinato per scontarsi con lui, guardandolo in cagnesco.

Agitarono le mani in aria e pronunciarono all'unisono:

"Carta, forbice, sasso..."

La mano di Philip si tese ad imitare un leggero foglio.

Quella di Mark restò chiusa a pugno.

La luce infastidì Julian appena stuzzicò le sue pupille. Non capiva dove fosse.

Non capiva cosa fosse successo.

E poi quel sogno stranissimo...

"Non capisco proprio le regole di questo stupido gioco! Perché mai una cosa insignificante e leggera come la carta deve battere un macigno?"

La voce polemica di Mark gli trapassò il cervello. No, quei due non li aveva affatto sognati: Mark e Philip erano davvero a pochi passi da lui.

E giocavano a morra cinese, per giunta!

Philip ghignava divertito poi entrambi i ragazzi furono attratti da una voce fioca che sembrava giungere da lontano.

"Lo avvolge!"

Mormorò Julian malgrado sé stesso. Gli sembrava tutto ancora irreale e faticava a capire se stesse ancora sognando.

Sia Philip che Mark lo osservarono timorosi. Poi Callaghan si chinò sull'amico per scrutarlo meglio.

"Secondo me non è ancora in lui!"

Bisbigliò all'attaccante della Toho sicuro che Julian non capisse niente. L'amico, invece, lo guardava risoluto.

"Io dico che è più in se di te!"

Ribatté Mark al quale faceva stranissimo trovarsi lì. Dopo che suo padre era morto aveva giurato a sé stesso di non mettere mai più piede in un ospedale.

E invece era andato contro il passato, contro quel giuramento, contro sé stesso per Julian.

Il fatto era che, benché non lo avrebbe ammesso mai, quando quattro anni prima era sul punto di piantarla lì con il calcio, per colpa di Ross erano state le parole di Julian stesso a farlo pentire e a spronarlo a diventare ancora più forte.

In un certo senso sentiva un debito verso Julian...

"La carta avvolge il sasso..."

Spiegò flebilmente il ragazzo nel letto.

"Ma se non c'è vento!"

Protestò ancora Mark. Fosse stato più lucido e non avesse avuto paura di farsi saltare i punti, sicuramente, Julian sarebbe scoppiato a ridere.

"Ehi lo sai che parli un po' troppo per essere uno che è appena tornato dal mondo dei morti?"

Beh il paragone era azzardato ma usare parole forti faceva parte di Mark. C'era una cosa ancora più strana del trovarsi lì: vedere il capitano della Mambo, sempre così compito e impassibile, così vulnerabile. Un Julian Ross che pochi conoscevano.

Julian sorrise: non si aspettava minimamente di trovare anche Mark al suo risveglio. La cosa lo sorprendeva e gli faceva piacere.

"Bene, bene! Io e la Tigre andiamo di là a finire la nostra partita: c'è una scommessa grossa in ballo. Ti mandiamo una bella gattina rossa a farti compagnia!"

Julian riuscì a captare solo un quarto del preambolo di Philip ma fu sufficiente a metterlo a disagio.


*** *** ***

Amy, seduta sulla solita poltroncina di plastica, stava sfogliando una rivista di moda assieme a Grace: Stephen si era allontanato per telefonare a Mister Keegan, che aveva preteso di essere informato su ogni novità della giornata, e le due ragazze si stavano distraendo commentando i capi di moda indossati da modelle statuarie.

"Guarda che meraviglia questa gonna a ruota! Devo convincere mia madre a regalarmela per il compleanno!"

Alla menzione alla genitrice ad Amy venne da pensare alla sua di mamma e si irrigidì. Non si erano più parlate da quando se n'era andata di casa e, nelle ultime settimane, aveva pensato pochissimo a lei.

La ragazza abbandonò la rivista tra le mani di Grace e si alzò di scatto appena vide Philip e Mark uscire dalla stanza di Julian.

"Si è svegliato e sembra cosciente!"

Disse Philip.

"Anche troppo."

Bofonchiò Mark ma nessuno gli diede ascolto.

"Vuole vederti!"

Bluffò Callaghan senza specificare che aveva fatto tutto da solo. Amy non perse tempo: stava già per precipitarsi verso la stanza quando tornò sui suoi passi, afferrò Grace per un braccio e la trascinò con sé verso il bagno.

Doveva ravvivarsi i capelli, sciacquarsi la faccia per cancellare la tensione e rendersi presentabile.

** ** **

I ricordi di sei anni prima non erano affatto piacevoli. Amy allora aveva solo quindici anni e non aveva mai visto tante macchine attaccate al corpo di una persona: Julian gli era sembrato piccolo, piccolo, quasi sparire, in quel letto la prima volta che era andata a trovarlo.

C'erano voluti tre giorni buoni perché trovasse il coraggio di tornare.

E c'era voluta più di una settimana perché riuscisse a parlargli.

Ora Julian era disteso ma non sembrava perdersi in quel lettino: i dispositivi di controllo, attorno a lui, erano almeno la metà di quanti lei ricordasse.

"Ciao!"

Sussurrò avvicinandosi, portandolo a voltarsi verso di lei. Le sorrise e le tese la mano.

Amy la prese, facendo attenzione a non premere sull'ago-cannula.

"Come ti senti?"

Chiese, sedendoglisi accanto. Julian non lo sapeva ancora: non avvertiva dolore ma, certamente, questo era merito degli antidolorifici di cui l'avevano imbottito.

"Sollevato!"

Ed era vero: il peggio era passato. Ed aver superato l'operazione significava essersi tolto un grosso peso.

"Che ci faceva Mark Lenders qui?"

Cambiò trascorso Julian.

"Oh è arrivato poco dopo che tu...beh che noi eravamo in sala-aspetto. Si è seduto con noi ed è rimasto per tutto il tempo della tua operazione riuscendo persino a scambiare qualche battuta con Philip e Stephen. Quando ci hanno permesso di vederti e Philip gli ha proposto di accompagnarlo da te non se lo è fatti ripetere. Non sapevo che foste amici."

Raccontò Amy perplessa. Julian sospirò.

"Non lo sapevo nemmeno io. Non sapevo di avere tante persone che tenessero a me. Che stupido che sono stato ad aver allontanato tutti."

Lo sforzo lo spossò e chiuse un attimo gli occhi per riprendere energie.

Amy gli teneva ancora la mano. Sembrava serena, lontana dalla ragazzina impaurita e insicura di sei anni prima.

"Già sei stato proprio uno stupido. Eravamo tutti qui per te, oggi. Mister Keegan ha fatto rosso il telefono di Stephen per avere notizie costanti e tutti i ragazzi della Mambo hanno promesso che verranno presto a trovarti. Perfino Jenny ha chiamato Philip da New York ben due volte..."

"Quei due non fanno testo..."

Amy sorrise e poi aggiunse.

"E i tuoi genitori: non li ho mai visti così. Praticamente ti hanno piantonato fino a un quarto d'ora addietro. Tuo padre è restato persino con te in sala-risveglio..."

Ora Julian ricordava tutto come un sogno confuso: il dottor Ross in sala-operatoria, Gregory che gli sussurrava qualcosa di incomprensibile mentre si svegliava, le carezze di Andy...

No, non aveva sognato neppure quelle...

"Ho fatto un sogno stranissimo..."

Disse Julian con un enigmatico sorriso.

"Pensavo che quando si è sotto anestesia non si sogni."

Rifletté Amy a voce alta.

"Scemenze. Forse ho fatto il sogno dopo, quando ero ancora intontito."

La ragazza sentì una vampata di calore dalle parti dello stomaco pensando che il sogno coinvolgesse anche lei.

"C'erano tutti i ragazzi della nazionale: andavamo a giocare una partita al Polo Sud. Ma Pearson non ci accompagnava."

"Probabilmente stava leggendo uno dei suoi giornaletti!"

Disse a denti stretti Amy ingoiando la delusione.

"Cosa?"

Julian non aveva capito niente di quello che lei aveva bofonchiato ma aveva scorto la sua espressione stizzita.

"E poi ho sognato un'altra cosa: che tu mi baciavi!"

Ecco: l'aveva fatta cadere in trappola!

"Quello...quello non lo hai sognato..."

Julian si appoggiò ai cuscini e la guardò: uno sguardo pieno d'amore.

"Lo so. Ma temo di averlo scordato...Magari puoi rinfrescarmi la memoria..."

Amy si sporse verso di lui e gli sfiorò le labbra. Poi si ritrasse.

"Ora devi riposarti, Baronetto. E magari puoi sforzarti di sognare me piuttosto che Philip e gli altri. Per darci un bacio vero avremmo tutta la vita!"

Lo baciò di nuovo, questa volta sulla fronte, e sgattaiolò via con il cuore in subbuglio.

** ** **

Le emozioni di Julian non erano tanto diverse. Se non si fosse trovato in un letto d'ospedale avrebbe potuto asserire di essere felice.

Piano, piano i farmaci e la spossatezza lo vinsero e sprofondò, di nuovo, in uno stato di dormiveglia.

Quando, poco dopo si sveglio, non prestò quasi attenzione alla sagoma che stava sistemando qualcosa sul cabinet.

Probabilmente un'infermiera venuta a registrare i suoi valori, a regolare la flebo o a controllare la medicazione.

Appena la mise a fuoco, però, si accorse che la figura, una donna, non aveva affatto una divisa bianca. Anzi era vestita in maniera impeccabile, elegante quasi al pari di sua madre.

La guardò ancora meglio e, riconosciutala, puntellò sui gomiti cercando di tirarsi su a sedere.

Accanto a lui c'era Joan Aoba, la mamma di Amy.

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Capitolo 28
*** Nido vuoto ***


Julian la fissava guardingo e la signora Aoba tratteneva il fiato: non riusciva a spiccicar parola ma sapeva che quello che si era decisa a compiere era un essenziale passo per riavvicinarsi ad Amy e , magari, per farsi perdonare da lei. Da lei e da Julian.

"Ti ho portato dei Kompeito . Ho pensato fosse un pensiero carino..."

Buttò lì Joan accennando alle stelline colorate di zucchero che aveva poggiato sul cabinet. Il ragazzo continuava a fissarla con una certa durezza.

"Non doveva disturbarsi. Non posso mangiare caramelle..."

Replicò gelido inducendo la donna ad assumere un'espressione mortificata. Joan si torse le mani, guardando di qua e di là, incapace di venire al nocciolo della sua presenza.

"Già, dovevo essere più accorta. Amy mi dice sempre che sono una gran sbadata!"

Bofonchiò ancora più a disagio. L'accenno alla figlia sembrava intristirla e questo accorgimento intenerì un po' Julian.

"Cosa ci fa qui, signora Aoba? Non mi dica che è una visita di cortesia!"

Indagò il ragazzo poggiandosi ai cuscini. Sebbene Joan Aoba fosse stata una madre esemplare e premurosa (forse anche troppo) per Amy non riusciva a perdonarle le sue malefatte. Gli intrighi e le bugie che aveva tessuto per dividerli, seppur a fin di bene.

Joan si avvicinò e gli sorrise. Stranamente quel sorriso non aveva nulla di sarcastico o di sbeffeggiante: sembrava sincero.

"Può sembrare che io sia venuta qui per pregarti affinché mi aiuti a ricucire il rapporto con mia figlia e, forse, la parte più egoista di me lo desidererebbe veramente. Ma, per quanto tu sia libero di non crederci, sono qui per te Julian!"

"Per me?"

Fece eco il giovane ben sapendo di non essere mai andato troppo a genio a quella donna.

"Amy non mi parla da settimane, ormai. Telefona esclusivamente a suo padre e così abbiamo appreso della tua operazione..."

"Quindi ha pensato bene di venire a sbandierarmi il suo orgoglio per il fatto che aveva ragione sul mio conto?"

Joan sapeva di meritarsi tutte quelle critiche e quella diffidenza ed era pronta ad accettarle. Ad accattarle e a cercare di porvi rimedio.

"Ho pensato per tanto tempo che tu non fossi adatto a mia figlia. Troppo tempo per rendermi conto che era una decisione che non spettava a me..."

Julian fissava il lenzuolo: certo era profondamente deluso dall'opinione che la mamma di Amy aveva sempre avuto di lui eppure, pensandoci bene, era disposto a spezzare una lancia a favore di quella donna.

Lei aveva solo cercato di tutelare Amy, quanto di più caro avesse al mondo. Anche lui avrebbe voluto allontanarla, in passato, se solo ne avesse avuto la forza...

"E se tu mi odi per quello che ho fatto, che vi ho fatto, lo capisco benissimo!"

Continuava il pentimento di Joan. Julian si prese qualche secondo per riflettere e rifiatare: non gli dispiaceva tenerla un po' sulle spine.

"Io non la odio signora Aoba. E non riesco nemmeno ad essere infuriato con lei. La capisco, capisco che aveva paura per Amy. E le giuro che trascinarla nei miei problemi, rubargli il sorriso era l'ultima delle mie intenzioni."

Fu in quel momento che Joan Aoba, la donna convinta di aver sempre ragione, si rese conto di non conoscere affatto Julian. Non gli aveva mai dato una possibilità e si sentiva meschina.

"Mia figlia è fortunata..."

Non fece in tempo a finire la frase che un velenoso: "Cosa diavolo ci fai tu qui?" La fece sussultare.

Amy l'aveva attaccata, appena messo piede in stanza, con la rabbia di una iena.

La ragazza era andata a mangiare un panino, nel Bar dell'ospedale, assieme a Grace, Stephen e Philip riuscendo a distrarsi, per qualche minuto, con gli amici. Era tornata ben disposta d'animo ma quando aveva riconosciuto sua madre si era rabbuiata.

"Amy...Tesoro mio..."

Attaccò Joan in modo mellifluo cercando un approccio.

"Non sono più il tuo tesoro. Come ti sei permessa di venire qui?"

Inveì ancora la fanciulla.

"Parliamo un po', ti va?"

Tentò ancora la signora Aoba. Amy scosse la testa energicamente.

"Non abbiamo niente da dirci io e te!"

"Amy!"

La voce ferma e persuasiva era di Julian. Si era quasi scordata di lui nell'alterco con sua madre e se ne pentì immediatamente.

Julian era pallido e affaticato. Con discrezione teneva una mano sul petto: lì dove il cuore iniziava a dolergli.

"Per favore Amy parla con tua madre. Fallo per me."

Lei tergiversò e, alla fine, capitolò.

"Va bene andiamo fuori. Ti rivolgerò la parola solo perché è stato Julian a chiedermelo, sia chiaro!"

Delucidò a sua madre invitandola, tacitamente, a seguirla.

*** ***

L'ampio giardino dell'ospedale era abbellito da aceri giapponesi e zelkove che ombreggiavano le panchine disseminate di qua e di là. Alcuni degenti approfittavano di quello spazio all'aperto per riprendere le forze.

Amy scelse una panca vicino al laghetto per le tartarughe. Si sedette e aspettò che la madre la imitasse.

"Che bello spazio per essere in ospedale."

Commentò Joan non ricevendo repliche.

"Non vorrai parlarmi della paesaggistica!"

La signora Aoba sospirò: sapeva quanto cocciuta potesse diventare sua figlia se veniva ferita da chi si fidava e non sarebbe stato affatto facile riconquistarla.

"La signorina Nixon chiede sempre di te quanto mi incontra. È preoccupata dal fatto che stai saltando troppe lezioni..."

La signorina Nixon era l'insegnante di inglese. Da quando era ad Osaka aveva subito preso in simpatia Amy, una delle sue studentesse più brave.

"Recupererò!"

"Manchi a tutti a scuola. Manchi tanto anche a papà e a me. Da quando sei qui a Tokyo la casa sembra un nido vuoto...Eppure dovrò abituarmici."

Amy ascoltava distrattamente ma l'ultima allusione la incuriosì.

"Che significa che devi abituarti?"

Joan fisso una tartarughina che si arrampicava cercando di sgusciare fuori dall'acqua per appartarsi su un sasso.

"Ne abbiamo parlato tanto io e papà in questi giorni: ormai sei grande Amy e non potremmo tenerti, per sempre, nel nido con noi. Vogliamo che finisci l'anno scolastico ad Osaka ma, magari, l'anno prossimo potresti riscriverti al liceo qui a Tokyo."

Amy era sbalordita. Non si aspettava certamente un cambiamento tanto repentino in sua madre e la cosa le puzzava.

"Cosa c'è sotto?"

Chiese infatti sospettosa.

"Nulla. Julian ti ha insegnato a piangere ma, forse, saprà insegnarti anche a ridere. Ce lo dirà il tempo..."

Spiegò sibillina. Joan Aoba era pronta a dare un occasione a Julian Ross!

"Non ti metterai più in mezzo? Non ci sarà più nessun Daniel o francobolli mancanti a dividermi da Julian?"

"No, Amy. Non sarà più tua madre a decidere per te."

Joan aveva gli occhi lucidi ed Amy ne fu quasi commossa. Aveva ancora troppo rancore addosso per perdonarla in un colpo solo, però.

" Mi basta!"

Disse laconica alzandosi per andarsene. Poi esitò, torno nel punto dove sua madre era rimasta seduta e le sfiorò una mano.

"Grazie!"

Era un piccolissimo spiraglio ma era già un qualcosa dal quale ripartire.

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Capitolo 29
*** Figlia di nessuno ***


Con un occhio tentava di leggere la cartella clinica che teneva sulle gambe, con l'altro spiava il respiro regolare di Julian. Per quanto tenesse ad arrivare presto ad una diagnosi non riusciva proprio a concentrarsi.

Alla fine Gregory decise di rinunciare e richiuse, arrendevole, il fascicolo.

"Il Dottor Ross che rinuncia a lavorare! Cosa mi sono perso?"

Lo bacchettò una voce ancora impastata dal sonno. Gregory sorrise con un certo sollievo: Julian aveva passato una nottataccia e se ora faceva quelle battute significava che si stava riprendendo abbastanza in fretta.

"Buon giorno dormiglione. O forse dovrei dirti buon pomeriggio, ormai..."

Julian si tirò a sedere, incredulo di aver dormito per quasi tutta la mattina. Suo padre stava scoperchiando un contenitore in plastica e un invitante profumino gli stuzzicò le narici.

"Beh stavi per perderti questo succulento pranzetto che Diwata ha preparato appositamente per te. Non so per quanto avrei resistito alla tentazione prima di sbafarmi tutto solo, soletto."

Julian ridacchiò: non era da Gregory esprimersi a quel modo.

"Bel padre che mi ritrovo! Diwata è stata qui?"

Il dottor Ross iniziò a dividere il cibo in due porzioni, poi avvicinò il tavolino mobile al letto e vi sistemò sopra il piatto per Julian. Al suo cenno d'assenso, il ragazzo parve deluso.

"Mi dispiace di non averla potuta salutare. La sua famiglia è ancora qui in Giappone?"

Chiese. Gli eventi degli ultimi giorni lo avevano travolto e lo rammaricava un po' di aver accantonato Diwata.

"Sono dovuti ripartire."

L'espressione di Julian si fece più avvilita. Gregory capì di doverlo rincuorare.

"So che sei molto affezionato a Diwata e ti prometto che troveremo una soluzione! Possiamo sempre contare sulla cocciutaggine di tua madre, non scordarlo!"

Il dottor Ross gli strizzò l'occhio complice e Julian, finalmente, sorrise. Consumarono insieme il pranzo, poi Gregory risistemò tutto prima che il ragazzo lo fissasse con quell'aria insicura e impaziente di chiedere qualcosa.

Un'espressione che allarmava e, al contempo, inorgogliva Gregory ogni qualvolta la scorgeva: significava che Julian si fidava di lui.

"Avanti, cosa vuoi che faccia adesso per te? E non chiedermi cose assurde, come l'ultima volta..."

Disse dopo che il figlio se ne era rimasto in silenzio per un pezzo. Julian fu stupito da quel bonario attacco e, dopo aver fissato il lenzuolo, palesò la sua meraviglia.

"Lo conosco bene quello sguardo, ragazzo mio! Avanti, cosa vuoi chiedermi?"

"Ecco papà...Mi piacerebbe fare due passi..."

Sapeva che alzarsi da quel letto era il primo passo per guarire, il primo per uscire da lì. Gregory sorrise sollevato.

"Tutto qui? Beh la trovo un'ottima idea e accompagnarti non mi costa nulla!"


Benché suo padre lo sorreggesse per un braccio, Julian procedeva spedito e senza vacillare. Più volte Gregory lo aveva dovuto ammonire di non fare come suo solito e di non voler strafare.

Si fermarono vicino alla finestra: il panorama era quasi mozzafiato. Si vedevano i grattacieli di Tokyo e anche uno scorcio di mare.

Proprio quel mondo, dietro alla finestra chiusa, fece riassaporare a Julian l'antica sensazione di essere in gabbia. Gregory sembrò intuirlo: gli passò un braccio attorno alle spalle.

"Hai fatto proprio bene a dormire fino a tardi questa mattina perché, quando tornerai a casa, non ti farò batter fiacca. Farai delle levatacce per andare a correre sulla spiaggia tutte le mattine. E ovviamente io verrò con te..."

Julian pensò di non aver capito bene.

"Verrai con me?"

"Sicuro ragazzino..."

Si sorrisero: forse le cose erano davvero cambiate. Forse le promesse sarebbero state mantenute per davvero questa volta.

Dopo aver percorso, per ben due volte, in lungo l'intero corridoio Julian chiese di riposarsi un po'.

Erano seduti su una panca situata proprio all'ingresso quando vennero avvicinati da qualcuno: un uomo e una donna, probabilmente una coppia, e un ragazzino dietro di loro. Julian li guardò con discrezione: non li conosceva.

"Il dottor Ross?"

Azzardò timidamente la donna. Gregory si alzò e tese loro la mano.

"Ci avevano detto che l'avremmo trovata qui. Avevamo appuntamento con lei questo pomeriggio..."

Spiegò l'uomo. L'altro si batté una mano sulla fronte: lo aveva completamente dimenticato.

"Questo pomeriggio..."

Lo sentì farfugliare Julian che non riusciva a distogliere l'attenzione dal ragazzino: doveva avere qualche anno in meno di lui ma aveva stampata in faccia l'espressione stanca e rinunciataria che era appartenuta anche a lui in passato. Capì subito che era il ragazzino il paziente del padre: era quello il caso al quale il dottor Ross aveva lavorato tutta la mattina mentre lui dormiva.

"Sono mortificato. Non potremmo rimandare?"

Sentì suo padre propinare scuse che non aveva mai accampato in tutta la sua carriera.

Julian ne richiamò l'attenzione.

"Vai papà! Io posso anche tornare da solo..."

Gregory sembrò riluttante.

"Tranquillo: mi sosterrò ai corrimano."

La sicurezza del ragazzo, alla fine lo convinse.

"Cercherò di far presto!"

Lo salutò scoccandogli un bacio sulla testa. Julian però non aveva voglia di tornarsene in stanza: continuava a chiedersi dove sparisse, sempre più di frequente, sua madre quando lui dormiva o quando era insieme a Gregory, ad Amy, a Philip, a Stephen o a qualcun altro.


Attiguo al reparto dove era ricoverato, c'era il nido dell'ospedale. Trovandosi all'entrata poteva sentire i vagiti dei neonati fin da lì.

Non era un suono fastidioso, tutt'altro. Era un inno alla vita.

Si rimise in piedi e, curioso, uscì fuori: aveva bisogno di vedere qualcosa di bello.

Le pareti del nido erano state pitturate con tinte vivaci, poster con cartoni animati e tanti peluche e giochi vari rendevano quel posto un oasi di allegria. Non sembrava quasi più di trovarsi in ospedale se non fosse stato per le infermiere che nutrivano e coccolavano i più piccoli.

Seduta su una poltroncina, nell'angolo-giochi a quell'ora pressoché deserta, riconobbe sua madre. Tra le sue braccia si muoveva un fagottino: Andy lo cullava dolcemente.

"Ciao!"

La signora Ross sussultò per la sorpresa. Poi abbassò lo sguardo colpevole sul fagottino.

"Julian cosa ci fai qui? Non sapevo ti fossi svegliato..."

La giustificazione le sembrò futile ma Julian non ci badò sedendoglisi accanto.

"Questa è la bambina che è arrivata l'altro ieri?"

Chiese scrutando, curioso, i delicati tratti della neonata. C'era stato un gran parlare tra le infermiere come accadeva sempre quando veniva ritrovato un bambino abbandonato.

Un figlio di nessuno.

"Già. Mi trovavo all'ingresso quando è arrivata mezza assiderata e vedere i medici correre di qua e di là per cercare di salvare questo piccolo corpicino mi ha colpita molto. Non so ne sono stata quasi stregata..."

Julian allungò un dito a sfiorare la manina della piccola che glielo strinse.

"Posso prenderla?"

Chiese all'improvviso. Andy gliela sistemò tra le braccia dandogli consigli su come tenerla.

"Le hanno già dato un nome?"

"No. Preferiscono non affezionarsi troppo a lei e pensano che sia compito della famiglia che l'adotterà trovargliene uno!"

Julian continuava a fissare la creaturina con curiosità. Non si era mai trovato ad avere a che fare con bambini tanto piccoli e quell'esperienza lo entusiasmava.

"Tu ti sei già affezionata a lei, vero?"

Chiese, a tradimento, a sua madre. Andy scrollò le spalle.

"Perdonami Julian: dovrei stare con te e non con questa piccola sconosciuta."

Ma lui non aveva niente di cui accusarla.

"Povera piccola. Dovrà essere terribile per lei, quando crescerà, non sapere chi è, da dove viene, chi sono i suoi genitori. Io, al confronto, mi sento abbastanza fortunato nonostante tutte le incomprensioni e le occasioni sprecate che ci sono state tra di noi..."

Rifletté a voce alta Julian.

"Nonostante i tuoi genitori siano stati dei perfetti stronzi. Puoi dirlo chiaramente, Julian, non mi offendo!"

Disse pacata Andy.

"Mamma questo linguaggio colorito innanzi ad una signorina! Se ti sentissero in tribunale!"

Scoppiarono a ridere. Julian era felice: aveva ritrovato la complicità con i suoi genitori. Aveva riavuto Amy.

Eppure mentre guardava quegli occhietti curiosi e bigi osservare un mondo che l'aveva già delusa, mentre quella bimbetta sbadigliava, abbandonata placidamente tra le sue braccia, sentiva quasi il cuore fargli male. E non a causa della recente operazione.

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Capitolo 30
*** Ciao amore ***


"Ma papà posso benissimo arrivare fino all'ascensore sulle mie gambe!"

Julian lanciò un'occhiata di sbieco alla sedia a rotelle che l'infermiera in attesa aveva accostato al letto e poi cercò, per l'ennesima volta, di convincere suo padre.

"È la prassi tesoro!"

Fu la risposta fiscale di Gregory. Il ragazzo sbuffò e poi si accomodò sulla carrozzina senza più replicare: l'unico pensiero che quel breve tragitto lo separava dal ritorno a casa lo dissuase nel perpetrare con le proteste.

Il dottor Ross fece un cenno all'infermiera e ne prese il posto per accompagnare suo figlio. Fu quando uscirono dal reparto, quando l'insegna sulla porta del nido fece scattare in Julian un sentimento contrastante di pura gioia e labile malinconia che si voltò a guardare sua madre.

Andy restò imbambolata qualche istante, probabilmente anche lei che lì dentro lasciava un pezzetto di cuore, stava lottando contro un groviglio di sentimenti. Accortasi che il ragazzo la fissava si riscosse e gli sorrise, poggiando una mano sulla sua scapola.

"Torniamo a casa!"

Disse soltanto come a volersi convincere di dover lasciare in ospedale non solo le paure di quei giorni ma anche le cose inaspettate e belle che vi aveva scoperto.

Riconosciuta l'auto di Gregory, nell'ampio parcheggio riservato al personale sanitario, finalmente Julian poté infischiarsene del protocollo e alzarsi.

Fu mentre i genitori sistemavano il suo borsone nel cofano che un taxi accostò poco distante e un ragazzo ne uscì trafelato dai sedili posteriori.

"Philip cosa ci fai qui?"

Chiese sorpreso. Aveva una mezza idea e tuttavia, forse un po' egoisticamente, voleva non avere ragione.

"Julian, per un pelo. Torno a casa."

"Così? All'improvviso?"

Il capitano della Flynet sorrise a disagio.

"Beh non volevo approfittare troppo dell'ospitalità di Stephen..."

"Ma potevi tornare a stare da me!"

"Julian lo sappiamo entrambi che vita incasinata ti aspetta nei prossimi mesi e poi anche io devo riprendere con la scuola, gli allenamenti. Chissà come se la sono spassata Peter, Tony e gli altri in questi giorni senza di me."

Julian sorrise: sapeva che Philip aveva ragione. Sapeva che aveva una vita altrove e ciò rimarcava il grande gesto d'amicizia che aveva fatto per lui.

Fu quell'abbozzo di sorriso a far intuire i pensieri dell'amico a Philip.

"Niente addii strappalacrime, ok! Io non li sopporto proprio. Piuttosto: la prossima volta che ci vediamo voglio che sia su un campo di calcio, intesi?"

"Ci proverò!"

Mormorò il giocatore della Mambo.

"Come avversari o come compagni di squadra non importa. L'importante è che tu ci sia, va bene?"

Julian annuì.

"Grazie per quello che hai fatto per me. Grazie per esserci stato."

Philip si passò una mano sugli occhi, estremamente a disagio.

"Cosi mi fai commuovere, però. Se sono venuto è perché siamo amici. Hai tanti amici Julian, non sottovalutare più la cosa in futuro!"

"Ho imparato la lezione. Salutami Jenny quando la senti!"

Il tassista lanciò un'occhiata, poco discreta e molto insofferente, a Philip. Era impaziente di ripartire.

Il ragazzo lo ignorò e salutò l'amico. Quando fece per andarsene Julian decise che c'era un'altra cosa che voleva sapere.

"Qual era la scommessa tra te e Mark?"

Chiese a bruciapelo. Philip si arrestò sorpreso, poi sogghignò.

"Lo scoprirai presto. Al prossimo raduno della nazionale. Tanto tu vieni, no?"


*** ***

Per Amy non era mai stato tanto penoso preparare una valigia. China sul borsone ripiegava con cura ogni indumento quasi che temporeggiare le avesse permesso di guadagnare tempo.

Grace, seduta dall'altro lato del letto, ne seguiva ogni gesto in silenzio. Aveva provato ad offrire il suo aiuto all'amica ma al rifiuto di Amy aveva deciso di non insistere.

Ad ogni stridere di gomme sull'asfalto bagnato, ad ogni rombo di motore, ad ogni rumore sospetto la ragazza sussultava e Grace, raccogliendo la sua silenziosa richiesta, accostava le tendine per spiare in strada.

Fino ad allora erano stati tutti falsi allarmi.

"Sono arrivati, Amy!"

La notizia la colse alla sprovvista benché aspettasse da buona parte del pomeriggio. I suoi genitori erano venuti a prenderla.

Senza fare una piega si mise in piedi avvicinandosi allo specchio per scrutarsi e accertarsi di essere in ordine. Per essere certa che la sua tristezza restasse segreta.

Grace le si avvicinò e le afferrò una mano.

"Prenditi un minuto Amy. Mia madre saprà bene come intrattenere i tuoi per un po'."

Disse comprensiva e sicura del fatto suo. Amy seguì il consiglio per poi voltarsi e abbracciare Grace.

"A Furano te lo avevano scelto proprio a pennello il soprannome. Aggiusta-coppie: hai fatto davvero tanto per me."

Grace scuoteva la testa: non c'erano secondi fini in quello che faceva, nei consigli che dava. Le veniva spontaneo ed era davvero gratificante vedere gli altri felici.

"Su togli quel broncio adesso. Pensa che presto tornerai a Tokyo, che questo è solo un arrivederci temporaneo e che a tenere d'occhio il tuo Julian resteremo io e Stephen!"

Amy abbozzò un sorriso.

"Di te mi fido, di Mellory un po' meno!"


La signora Scott aveva accolto gli ospiti come amici di vecchia data e aveva insistito perché restassero a bere un tè e a gustare dei deliziosi manicaretti. Ormai Amy aveva perso ogni interesse per i rumori esterni perciò quando uscì insieme ai genitori per mettersi in viaggio vero Osaka ignorò del tutto la lussuosa vettura parcheggiata dal lato opposto.

La stessa auto che qualche settimana prima aveva posteggiato davanti a casa Mellory.

Fu Grace a fargliela notare.

Qualcuno scese dal lato del passeggero, riparandosi con un ombrello dalla sottile pioggerellina che aveva ripreso fastidiosa.

Amy restò lì come congelata. Ancora una volta Grace la spinse a fare un passo in avanti mentre i signori Aoba ne facevano uno indietro.

"Parti?"

Chiese Julian, riparandola sotto il suo ombrello, quando si ritrovarono talmente vicino da sfiorarsi.

"Non dovresti prendere freddo. Dovresti essere a casa a riposare. Non dovresti essere qui."

Amy parlava velocemente, senza trovare il coraggio di incrociarne lo sguardo.

"Non sono venuto mica a piedi..."

Puntualizzò Julian portando Amy a sbirciare verso l'auto. Dal posto di guida Andy le fece un cenno di saluto che lei ricambiò timidamente.

"E poi non volevo farti scappare. Non di nuovo. Stephen mi ha detto che i tuoi sarebbero venuti oggi..."

Stava continuando Julian.

"Sarei comunque passata a salutarti!"

Scattò Amy, con il cuore ancora più in tumulto. Certo chiedere a suo padre di passare per casa Ross sarebbe stato un azzardo ma lei avrebbe tentato comunque.

Avrebbe voluto dirgli altre mille cose, promettergli che sarebbe venuta a trovarlo tutti i weekend, che gli avrebbe telefonato tutte le sere, eppure non riuscì a spiccicare parola. Vide il braccio di Julia, quello dove era annodato il braccialetto portafortuna, sparire nella tasca dei jeans e poi la mano stretta a pugno, distendersi sotto il suo naso.

"Ho un regalo per te. Niente di particolare forse, anzi, un po' sciocco..."

Adesso era lui a parlare a vanvera. Amy prese la monetina che lui le porgeva e la rigirò tra le mani senza capire.

"Questa è la monetina che ha usato l'arbitro nella prima partita che ho giocato come capitano della Mambo. Scelsi palla, lo ricordo benissimo. Da allora l'ho sempre tenuta come portafortuna..."

Spiegò con voce sommessa.

"Voglio che la tenga tu, Amy. Magari mi penserai ogni volta che la guarderai!"

"Non ti penserò solo guardandola, Julian!"

Si scoprì lei. Poi, facendosi più audace, gli sfiorò la guancia con una carezza.

"Ti voglio bene, scemo. Se non te ne fossi accorto!"

Lui trasalì. Che tra di loro ci fosse attrazione, affetto, complicità era evidente ma sentirselo dire era tutta un'altra cosa. Un effetto bellissimo.

"Io di più!"

Replicò chinandosi a sfiorarle le labbra. Amy si ritrasse imbarazzata.

"Julian! Tua madre e i miei genitori ci stanno osservando!"

A lui non importava.

Fu in quel momento che il signor Aoba, per nulla contrariato da quello a cui aveva assistito si avvicinò e salutò con una pacca sulle spalle Julian.

"Ora dobbiamo proprio andare, tesoro. Dai non fare quella faccia: io e la mamma abbiamo deciso che potrai tornare a Tokyo tutti i weekend e tutte le volte che lo desidererai se ci porterai a casa una buona pagella!"

Anche Joan si era avvicinata, frenata ancora da tutti i suoi errori.

"Vieni a trovarci qualche volta ad Osaka, Julian!"

Il ragazzo sapeva che non era una frase di circostanza. E con il tempo anche Amy avrebbe capito che sua madre era cambiata.

"Ti scriverò. Anzi no: ti telefonerò spesso. Almeno non corriamo rischi!"

Sussurrò Amy prima di infilarsi nei sedili posteriori. Julian sorrise sentendo una stretta al cuore quando la mano di Amy scivolò dalla sua.

"Ciao. Ciao Julian."

"Arrivederci. Arrivederci Amy!"

Il signor Aoba mise in moto.

"Ciao. Ciao amore."

Disse Julian. Ma l'auto era già sparita.

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Capitolo 31
*** La felicità sotto il naso ***


Restato di nuovo solo, per Julian era stato spiazzante riadattarsi.

Sarebbe stato troppo facile lasciarsi sopraffare dall'apatia e dalla malavoglia; eppure erano state le piccole certezze, conquistate faticosamente in quei mesi, a non farlo vacillare.

Stephen era rimasto sempre al suo fianco, spalla silente ma presente, in quei giorni di assestamento alle vecchie abitudini e anche gli altri compagni della Mambo erano stati entusiasti nel riavere il loro capitano al centro di allenamento, seppure ancora come semplice spettatore.

Anche Grace era stata una piacevole scoperta e, sovente, i pomeriggi a casa Mellory coglievano i tre amici intenti a cercare di recuperare i compiti arretrati e bastava sempre un futile motivo per sostituire lo studio con risate, confidenze e merende extra.

Anche a casa le cose sembravano aver preso una piega nuova. Diwata, nonostante la sua malcelata malinconia, faceva di tutto per compiacere Julian e anche Andy, nonostante il suo umore ballerino, si stava riscoprendo una madre attenta.

Il cambiamento più radicale, però, era avvenuto nel dottor Ross. Le promesse che aveva fatto a Julian in ospedale non si erano dimostrate parole al vento e tutte le mattine Gregory allacciava le sue scarpette da ginnastica pronto a percorrere qualche chilometro sulla spiaggia assieme al figlio.

Per il momento si limitavano a delle blande e salubri passeggiate eppure quell'ora che trascorrevano assieme li aveva uniti come non mai.

Certo Amy gli mancava dannatamente ma sentirla quasi tutte le sere al telefono, farsi raccontare la sua giornata-tipo, mitigava un po' la distanza e gliela faceva sentire ancora vicina.

Solo una cosa era rimasta immutabile per Julian: quell'atavico fastidio che lo coglieva sempre come una morsa insensibile allo stomaco durante i periodici controlli in ospedale.

Quella mattina era stato Gregory ad accompagnarlo. Il Dottor Johnson li aveva accolti con un sorriso di cortesia che si era allargato sempre di più man mano che registrava i progressi del suo paziente.

Stava andando tutto bene. Stava guarendo.

Eppure Julian non riuscì a godere appieno della buona novella; soprattutto quando, quasi in maniera meccanica, si era ritrovato nell'altro reparto, sopra quella culla a spiare la piccina che fissava il mondo curiosa.

"Forse presto avrà la famiglia che si merita, povera piccina. Ormai è solo questione di tempo."

Aveva osservato distrattamente una giovane infermiera, riconoscendolo. Julian si era scosso, come risvegliato dalla torpedine: a quell'annuncio insignificante il suo cuore, quel cuore che stava sanando, si era spezzato in due.

Aveva insistito nel convincersi che la bambina avrebbe avuto due genitori che l'avrebbero amata, che finalmente la fortuna avrebbe arriso anche a lei. E si sforzò di esserne contento sebbene ciò avrebbe equivalso a vedere quel fagottino sparire dalla sua vita come una meteora passeggera.

Si era comunque sentito incompleto, vuoto.

Forse aveva ragione quel filosofo: la vita oscilla continuamente tra il dolore e la noia. E si è destinati ad essere incontentabili.

Doveva giocarsi quell'ultima carta. Doveva, comunque, tentare.


Quel pomeriggio Andy decise di unirsi al marito e al figlio per una passeggiata. La giornata era tiepida e ideale da passare all'aria aperta: mentre passeggiavano per le aree verdi di Tokyo e poi lungo il molo si sentì come tanti anni prima.

Come durante quella gita in Australia. Di nuovo famiglia.

"Prendiamo un gelato?"

Chiese all'improvviso Gregory additando l'insegna di un caffè. Camminare aveva seccato le loro gole e perciò prendere qualcosa di fresco non sembrò un'idea malvagia.

Julian guardò suo padre diffidente.

"Su ragazzo mio non devi sempre seguire una dieta ferrea. Un gelato non può che farti bene."

Gli strizzò l'occhio complice, fugandone ogni perplessità, per poi dargli una vigorosa pacca sulla spalla che convinse definitivamente Julian.

Il cameriere, con la faccia da ragazzino, prese ossequioso le ordinazioni e poi tornò con due bibite fresche e un gelato a due gusti.

Julian studiò la coppetta dividendo e mischiando con il cucchiaino e poi si concentrò nell'esaminare i genitori.

Andy beveva a piccoli sorsi il suo cocktail, lo sguardo oltre le vetrate colorate che affacciavano sul corso e la mente lontana, catturata in altri pensieri.

Gregory tamburellava con le dita sul bicchiere granitico. Anche lui sembrava non registrare niente dell'ambiente circostante.

Aveva parlato con la moglie in quei giorni, di quell'avventata idea, della prudenza che li aveva frenati. Il tutto di nascosto dal figlio.

Julian è la nostra priorità.
. Erano giunti unanimi a quella conclusione e avevano deciso di rinunciare.

Tuttavia Julian si accorgeva che quella felicità e armonia familiare che stavano cercando di ricostruire era ancora soltanto di facciata.

Non era sereno lui. Non lo erano mamma e papà.

Lasciò cadere pesantemente il cucchiaino in quella che ormai era diventata una poltiglia imbevibile.

"Ci stiamo ricascando!"

La sua recriminazione, accusatoria e perentoria, riscosse i signori Ross. Il cameriere che si era avvicinato a portare il conto si allontanò discretamente.

"Ci stiamo comportando esattamente come un tempo. Ce ne stiamo seduti qui, insieme, eppure siamo distanti esattamente come allora. Giochiamo alla famiglia felice ma lo siamo davvero?"

Rincarò orgogliosamente il ragazzo.

"Julian non creare inutili paranoie. Certo che siamo contenti"

Si sforzò di contraddirlo Andy con un tono che non sarebbe riuscita a convincere nemmeno sé stessa.

"E invece no. Abbiamo paura, avete ancora paura del mio giudizio. Credete che non vi senta parlare sommessamente quando restate da soli?"

Andy e Gregory si guardarono un istante per poi abbassare il capo mortificati.

"Julian il mondo dei grandi è complicato."

Cercò di tagliar corto Gregory.

"Allora aiutami a capirlo papà. Aiutami a capirvi. C'è un desiderio che ci accomuna tutti e tre eppure siamo così codardi da non riuscire a parlarne."

Alcune ciocche brune gli si erano incollate alla fronte e Julian mosse una mano a tirarle indietro, concentrato.

"Volete allargare la famiglia. Lo volevate ancor prima che io stessi male di nuovo..."

"Julian non è il momento adatto per fare questi discorsi!"

"Mamma il momento perfetto non esiste eppure riusciamo sempre a creare problemi inesistenti. Tu sei affezionata a quella bambina, io anche...Abbiamo la felicità sotto il naso, perché siamo così stupidi da lasciarcela sfuggire?"

Si era inalberato e le gote gli si erano imporporate. Il cameriere tornato a prendere la mancia si fermò, esitante.

Gregory guardò suo figlio e poi rispose placidamente.

"Ne riparleremo a casa, Julian. Tutti e tre insieme."

Poi fece un cenno al cameriere in attesa.

"Per favore porti un altro gelato per mio figlio!"

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Capitolo 32
*** Il primo appuntamento ***


Il treno aveva una decina di minuti di ritardo: ovviamente Julian aveva impiegato quel tempo vigilando attentamente sulle lancette dell'orologio rendendo, in tal modo, smisurata quell'attesa.

Una donnina corse, rasente a lui, trascinandosi appresso un trolley che impigliò con le ruote in una pozzanghera rischiando di schizzarlo. Il ragazzo lo evitò per un pelo: non ci teneva proprio a farsi trovare con i vestiti macchiati.

E solo adesso realizzava, con un certo imbarazzo, che quella domenica mattina aveva prestato una particolare cura a scegliere il vestiario: la camicia ben stirata e inamidata, i jeans nuovi e le scarpe lustrate con la cromatina.

Con una confortevole consapevolezza realizzò che profumava, profumava di buono.

Lo Shinkansen, il treno proiettile, proveniente da Osaka sbuffò, rallentò e poi arrestò la sua corsa a pochi passi da lui.

Julian strinse al petto il mazzetto di margherite che aveva con sé e si avvicinò per studiare i passeggeri che scendevano. Quando la vide fu tentato di gettare i fiori in terra o di nasconderli dietro la schiena.

Amy resto qualche attimo con il piede immobile sul predellino, lanciando occhiate veloci all'affollata stazione, finché dietro i richiami si fecero insistenti costringendola a scendere.

La gonna del suo vestitino sportivo svolazzò nella brezza e, nella confusione, rischiò di inciampare. Due braccia la sostennero sicure e quando levò gli occhi per ringraziare, l'imbarazzo iniziale si trasformò in un raggiante sorriso di sollievo.

"Ben arrivata, Amy!"

Lei non rispose ma si limitò a buttare le braccia attorno al collo di Julian e a nascondere la testa contro le sue spalle tornite.

Lui si beò di quello slancio d'affetto e poi si mise a ridere.

"Ehi che accoglienza!"

Allora la ragazza, pentita per tanto impeto, si stacco a malincuore da lui e indicò i fiori gettati ai loro piedi.

"Quelli erano per me?"

Julian li raccolse esitando, come un bambino colto con le mani nel barattolo della marmellata, e li allungò verso di lei. Amy sprofondò il naso tra i petali delle margherite, ormai sgualcite.

"Per la pazienza che hai avuto con me!"

Farfugliò studiandosi la punta delle scarpe. Era stata Diwata a dirgli che le margherite erano simbolo di pazienza e di fedeltà.

Amy allungò una mano, stranamente calda, a fargli una carezza.

"Nessuno prima mi aveva mai regalato dei fiori. A parte mio padre. Grazie."

Julian, ancora poco pratico a tutte quelle smancerie che manderebbero in brodo di giuggiole qualsiasi ragazza, cercò di darsi un contegno.

"Beh andiamo!"

Lo disse forse in modo un po' brusco ma Amy non ci badò più di tanto. Avevano aspettato tanto di rivedersi, avevano progettato quella giornata fin nei minimi particolari durante le loro telefonate e quando il ragazzo le aveva detto che sarebbe stata una sorpresa l'attesa si era fatta trepidante.

Guadagnata l'uscita della stazione, con sua grande sorpresa, Julian la prese per mano. Lei lo lasciò fare.


"Allora dove mi porti? A vedere la partita dell'Fc Tokyo?"

Amy ravvivò i capelli mentre sotto la pensilina aspettavano l'arrivo del tram seduti così vicini che le loro gambe si sfioravano e le mani restavano appiccicate.

"Così mi accusi di peccare di originalità, però! Guarda che non ho in testa solo il pallone io. Non mi chiamo mica Oliver Hutton!"

Si finse offeso Julian per poi scoppiare a ridere insieme a lei.

Un tram arrivò, alcuni salirono e altri passeggeri scesero continuando per la loro strada. I ragazzi se ne restarono immobili, persi nel loro mondo, mentre il mezzo ripartiva.

"Mi sono allenato con i ragazzi della Mambo questa settimana. Qualche minuto di corsa e niente più."

Rivelò all'improvviso Julian con uno strano tono di sopportazione e di sollievo.

"Beh è un buon inizio, no? Ti è sembrato strano?"

Julian temporeggiò a rispondere. Non si era ancora posto quella domanda.

"Forse è come andare in bicicletta. Cioè non ho dimenticato come si gioca a pallone ma...mi spaventa un po' ricominciare!"

La stretta di Amy si fece più salda.

"Niente andrà più storto, Julian. Ne sono sicura."

Lui non dovette nemmeno sforzarsi per crederle. Amy era fatta così: bastava il suo tono deciso a convincerlo.

"Potremmo salire sulla Tokyo Tower!"

Propose Julian. Le dita di Amy restarono impigliate tra i petali delle margherite e gli lanciò un'occhiata allibita.

Aveva una fifa tremenda nel salire su quella brutta copia arancione della Tour Eiffel.

"Julian sei matto?! Hai idea di che altitudine si tratta? Non farebbe bene né a te...né a me."

Vedendola farsi pallida e stizzita, Ross esplose in una risata cristallina.

"Lo skyline di Tokyo vale qualche piccolo malessere e le infernali attese agli ascensori."

La stuzzicò ben sapendo che quella proposta era già stata bocciata.

"Comunque sarebbe meglio ci dessimo una mossa: è già il secondo tram che perdiamo!"

Osservò il Capitano, alzandosi in piedi. Erano stati così presi l'uno dall'altra da scordarsi tutto il resto.


L'odore della pancetta, appena misero piede nel fast-food, quasi nauseò Julian che, comunque, spinse avanti Amy per prendere le prenotazioni.

Era stato il brontolio dello stomaco della ragazza a decidere per loro. Così si erano ritrovati da Mc Donald 's

Trovare un tavolo all'angolo era stata una fortuna: lì i rumori si attenuavano e anche gli schiamazzi dei ragazzini che, come al solito, popolavano il locale, giungevano attutiti. Si poteva, addirittura, riuscire a parlare tranquillamente.

Amy sciorinò il suo panino dall'involucro che lo avvolgeva poi, dimentica di ogni buona maniera, lo addentò famelica.

Julian la osservava sorridendo.

"Forse presto allargheremo la famiglia."

Disse. Gli veniva di getto parlare così con lei, senza preamboli o discorsi ampollosi.

Le confidava le prime cose che gli passassero in testa e lei sembrava intuire, capire.

"Vuoi dire che tua madre...?"

Indagò Amy con la bocca ancora mezza piena.

"No, no. La bambina c'è già: l'abbiamo conosciuta mentre ero in ospedale. Una batuffolina in cerca d'amore...Ora però dobbiamo stare alla finestra e aspettare che tutta quella pallosa burocrazia per l'adozione faccia il suo iter."

Amy cercò di togliersi con la lingua una mollica che le era rimasta impigliata in un dente e poi allungò la mano a cercare quella di Julian.

"Si vede proprio che sei il figlio di un avvocato: senti che termini."

Poi lo guardò sincera.

"Sarai un fratello maggiore fantastico, Julian!"

Lui distolse lo sguardo lasciandolo cadere sul suo piatto di insalata e quando lo levò fu deciso ad interessarsi solo di Amy.

"Parlami di te, adesso. Non è giusto che questo egocentrico di un capitano attiri sempre su di sé l'attenzione!"

Amy succhiò un sorso della sua cola e si strinse nelle spalle.

"Non ho una vita avventurosa ad Osaka. Sto cercando di riconciliarmi con mia madre e sgobbo sui libri: ho avuto un otto in letteratura l'altro giorno!"

"Brava."

La ragazza si accorse che lui indugiava a toccare cibo.

"Mi dispiace abbuffarmi davanti a te mentre tu segui la tua dieta salutista."

Ammise con una punta di pentimento. Ma Julian non si lasciò disturbare. Afferrò la bustina con il ketchup e spalmò la salsa sulle patatine di Amy

"Hai ragione: di solito sono le ragazze a stare attente alla linea. Poco male: ti aiuterò a finire la tua porzione!"

Intinse una patatina e l'assaporò con gusto. Amy si sentì pervadere da una nuova felicità.

"Chi avrebbe detto che al nostro primo appuntamento ce ne saremmo andati a mangiare in un fast-food?"

L'osservazione di Julian la colpì.

Il loro primo appuntamento. Quello era il loro primo appuntamento!

Doveva essere speciale!

"Forse un giro sulla Tokyo Tower lo potremmo anche fare!"

Disse in uno slancio di follia. Julian rimase interdetto: come mai aveva cambiato idea così repentinamente?

"A tuo rischi e pericolo?"

La canzonò.

"Anche a tuo rischi e pericolo, Baronetto!"

Risero di nuovo. Poi Julian si alzò, girò dal suo lato, le si accoccolò vicino e, le prese la testa tra le mani, baciandola.

Non era come i baci dell'altra volta.

Era più intenso, più atteso, più voluto e più consapevole. Era un bacio vero.

"Sai di cosa ho sempre avuto paura in questi anni?"

Lei ingoiò a vuoto.

"Di poter morire senza aver mai avuto l'occasione di poterti amare!"

*** ***

Ringrazio infinitamente chi continua a leggere questa storia^^

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Capitolo 33
*** Sotto esame ***


Julian era attonito. Dopo che il dottor Johnson l'aveva rivoltato come un calzino, per il consueto controllo, sotto gli occhi vigili e impazienti di mamma e papà; aveva ricevuto una confusa telefonata.

Allora aveva interrotto la visita con una strascicata giustificazione e gli aveva chiesto di aspettare fuori.

Era seduto su quella dura panca da oltre mezz'ora e in quell'arco di tempo aveva visto solo i suoi genitori passargli oltre, con Gregory che gli aveva battuto incoraggiante una pacca sulla spalla, e sparire in un'altra stanza: troppo poco per capire cosa stava succedendo. Detestava essere all'oscuro.

L'incertezza lo spingeva a fare le illazioni più assurde. L'ultima volta che il comportamento del dottor Johnson era stato avvolto da un tale alone di mistero era stato sei anni prima.

Pensò, con un brivido, che in lui potesse esserci ancora qualcosa di sbagliato e che nessuno dei grandi avesse il fegato per dirglielo in faccia.

Dopo un'attesa che gli era parsa interminabile, finalmente, il dottor Ross uscì da quella porta e lo avvicinò. Aveva un'espressione tirata e rivoli di sudore gli imperlavano la fronte fino a sparire nel colletto della camicia.

A Julian non piacque affatto la tensione che albergava nel padre.

Strinse forte le nocche fino a farle sbiancare con la consapevolezza che i suoi dubbi si stessero concretizzando in certezze.

Si impose di essere forte. Almeno per il momento.

"Papà!"

Soffiò in un gemito di pura esitazione.

"Vieni Julian. Abbiamo bisogno di te!"

Gregory lo spinse avanti e, all'ennesimo sguardo dubbioso del ragazzo, lo incitò con un sorriso deciso.


Lo studio, abbastanza illuminato, non era tanto diverso da quello di suo padre o del dottor Johnson. La prima cosa che saltò all'occhio di Julian fu un lettino da psicoanalista in pelle nera che troneggiava al centro dell'arredamento. Quel particolare lo inquietò un poco.

Che i suoi genitori avessero deciso di fargli fare simili sedute senza prima interpellarlo?

Non ebbe il tempo di metabolizzare una simile prospettiva che il grattare di una penna sul foglio ruvido lo portò a concentrarsi sulla donna che, nascosta dietro la scrivania in legno massello, era concentrata nell'appuntare qualcosa.

Riconosciutala, Julian si irrigidì.

"Che ci fa quella lì?"

Tirò Gregory per una manica e pronunciò la domanda con tale disprezzo che la disistima del ragazzo fu percepita anche da Lily Donovan.

La psicologa, la peccaminosa megera che aveva rischiato di sfasciare la sua famiglia, che lo aveva portato a dubitare di suo padre, che lo aveva fatto finire in ospedale, lo accolse con un sorriso ambiguo.

"Julian , come stai?"

Articolò con falso interesse. Il ragazzo fu tentato di risponderle per le rime ma solo allora si accorse dell'atra figura che sedeva, impettita ed impassibile, su un'altra poltrona accanto a sua madre che si era fatta piccola, piccola.

Vedere Andy in soggezione era un evento più unico che raro.

"Lascia che ti presenti la signora McKinley: l'assistente sociale."

Continuò Lily Donovan con quel suo sorriso di sbieco.

"Questo è il primo colloquio che dovremo sostenere per dimostrare di essere una famiglia idonea all'adozione di un bambino."

Spiegò il dottor Ross con un filo di voce. Allora fu tutto chiaro a Julian: quella grande avventura che fino ad allora era stata solo un'accozzaglia di progetti e di sogni, aveva ricevuto il primo input per trasformarsi in qualcosa di concreto.

L'euforia iniziale di Julian fu presto stemperata quando capì che quella con le due donne non sarebbe stata una conversazione di puro piacere. Erano tutti e tre sotto esame e le due arpie li avrebbero messi sotto torchio.

Capì che sarebbe dovuto stare molto attento alle risposte, alla giusta intonazione di voce e si sarebbe dovuto sforzare di apparire il più sereno possibile per non compromettere tutto.

"Purtroppo la signora McKinely questa sera deve partire così abbiamo deciso di anticipare l'incontro. Spero non sia un problema per nessuno!"

Cinguettò ancora Lily. Julian si accorse che anche sua madre stava facendo un'enorme sforzo per controllarsi.

"John...Il dottor Johnson è un amico di mio marito fin dai tempi dell'università. Parla spesso di te...Julian, vero?"

La signora McKinley, l'assistente sociale, si rivolse al ragazzo con un modo di fare che, stranamente, lo mise a proprio agio.

Il dottor Johnson aveva fatto da tramite per quel colloqui: era stata quella donna a telefonarlo poche ore prima.

Si chiese se quell'amicizia, le cose che già l'assistente sociale sapeva sul suo conto, sarebbero state un vantaggio o gli si sarebbero ritorte contro.

"Allora so che ti stai riprendendo dopo un brutto periodo!"

Julian esitò e la donna si concesse una schietta risata.

"Non essere così turbato. Noi assistenti sociali non siamo quei mostri cattivi che molti pensano!"

"I signori Ross sono molto impegnati: oltre che con i loro prestigiosi lavori anche con il prendersi cura di un ragazzo come Julian. Sa bene che, nelle sue condizioni, necessita di particolari attenzioni."

Quella di Lily Donovan si intersecò nel discorso come una stilettata gratuita. Certamente avrebbe fatto di tutto per mettere i bastoni tra le ruote a chi l'aveva respinta.

Julian si sentì ribollire di rabbia.

"Oh Lily non mi sembra che questo giovanotto necessiti di altre cure oltre a quelle che gli dispensa, coscienziosamente, il dottor Johnson. Sei stato tu a proporre l'idea di allargare la famiglia ai tuoi genitori?"

Giselle McKinley era dalla loro parte, questo era lampante.

Questa certezza portò Julian a farsi più spigliato ma quando l'assistente sociale gli chiese di parlargli dei suoi genitori si guardò bene dall'omettere le mancanze della sua infanzia.

In fondo questa sarebbe stata una storia diversa.


*** *** ****

La notizia che c'erano altre due coppie in lizza per l'adozione fu un fulmine a ciel sereno.

Julian aveva pensato che Lily Donovan fosse l'unico scoglio da superare in quel processo che si stava dimostrando più complicato del previsto.

Era piuttosto demoralizzato quando l'assistente sociale lo congedò con un "per me può bastare" , salvo intrattenere ancora i signori Ross.

Spinto da una strana forza si era ritrovato nel reparto neonatale.

La bambina era cresciuta dall'ultima volta. Si era allungata e aveva il visino più arrotondato ma, d'altronde, i neonati cambiano in fretta.

"Ciao piccolina. Stai diventando uno splendore, lo sai?"

Gli sussurrò dolcemente Julian mentre la cullava. L'infermiera di turno gli aveva ceduto volentieri il suo posto: con tante pappe da preparare era stata ben felice che qualcuno si sobbarcasse l'onere di dare il biberon alla bambina.

"Non ti abbiamo ancora trovato un nome, eh? Eppure doveva essere il primo gesto d'amore per te. Sono sicuro che la tua mamma e il tuo papà te ne troveranno uno bellissimo."

Continuò a vezzeggiarla, ingoiando il boccone acidulo della possibilità che presto non l'avrebbe potuta più cullare.

"Non è così facile come credi tu, sai Julian? Io e mia moglie abbiamo litigato, puntualmente, sul nome da dare a ciascuna delle nostre figlie!"

Il Dottor Johnson era rimasto ad osservarlo qualche minuto, poi aveva preso una sedia e gli si era seduto accanto.

"I tuoi sono ancora sotto processo?"

Julian annuì. Poi capì di non riuscire a tenersi più tutto dentro.

"Non mi capacito di come riusciate a sopportare la Donovan!"

E il pensiero che si fosse strusciata contro suo padre, chissà per quanto tempo, gli fece ribrezzo.

"Lily è una vipera, lo so. Ma so anche che è abbastanza obiettiva da non basare una valutazione su una ripicca."

Chiarì il dottor Johnson. Anche lui sapeva delle avance che la collega aveva fatto al dottor Ross.

Julian continuò a cullare il fagottino.

"Comunque ero venuto a cercarti per un'altra cosa, campione."

Julian alzò appena gli occhi.

"Alla fine del mese ci sarà una partita: medici contro infermieri, il ricavato sarà devoluto in beneficenza. Ora io sono decisamente fuori forma..."

"Posso dire all'allenatore della mia squadra se può ritagliare un po' di spazio per lei!"

Rispose poco convinto Julian. Quella nata come una semplice battuta si stava, improvvisamente, trasformando in una cosa seria.

"Io speravo mi potessi allenare tu. In fondo ogni promessa è debito no?"

- Io ti aiuterò a guarire e tu mi darai qualche dritta con il pallone

Quel patto gli risuonò come un eco. Il Dottor Johnson non lo aveva detto tanto per dire, per tenerlo buono.

"Ma..."

Sollevò leggermente la neonata per sistemarla meglio nell'incavo del suo braccio.

"Mentre tu e i tuoi genitori eravate sotto torchio ne ho approfittato per studiare le tue analisi. Va tutto bene, Julian. Non potrebbe andare meglio!"

Fu tentato nello scoppiare in un riso sfrenato, liberatorio. La bambina, però, lo precedette incantandolo con un infantile gorgoglio.

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Capitolo 34
*** Falso nueve ***


Julian aveva esitato quando le voci, concitate, allegre e giovani, lo avevano investito nel corridoio come un riflusso di esperienze passate.

Sebbene giungessero come un coro disordinato avrebbe saputo descrivere ogni scena, con la sola immaginazione: Holly concentrato a tal punto da sembrare assorto per entrare in clima partita, quel vanitoso di Philip ad allacciarsi i suoi orribili scarpini, Benji a ficcarsi in testa quel cappellino rosso come una coperta di Linus, , Pearson a perpetrare in uno dei suoi assurdi riti scaccia iella...

Aveva respirato a fondo sentendosi, per un momento, ridicolo nell'essere lì. Solo quando la mano di Amy si era stretta nella sua aveva ritrovato un briciolo di consapevolezza.

Lì, fuori dagli spogliatoi, lei gli aveva sorriso tranquilla rendendolo sicuro. Se solo lui avesse schioccato la lingua, se solo avesse avanzato quella semplice richiesta, Amy avrebbe compiuto quel fatidico passo accanto a lui.

Ma non poteva. Era una cosa che doveva riaffrontare da solo e lo sapeva.

"Ti aspetto di sopra, in tribuna, Capitano! A dopo"

Aveva sorriso la ragazza con la stessa serenità che la rendeva ancora più bella. Aveva suggellato la promessa con una carezza sulla guancia di lui e si era voltata, allontanandosi leggiadra.

Solo il pensiero di quel dopo aveva infuso nuova verve in Julian. Era stata la signora Aoba in persona a chiedergli di venire ad Osaka, di fermarsi a pranzo a casa loro, magari in concomitanza con la partita della nazionale juniores.

Era stato strano essere ospite in casa di Amy ma, vinto l'imbarazzo iniziale, si era fatto più spigliato e si era addirittura divertito nel conversare con il signor Aoba. Ciò, ovviamente, non aveva sminuito la felicità nel godere di un intero pomeriggio con Amy.

Julian sarebbe stato ben disposto ad andare allo stadio come semplice spettatore. Finché non aveva ricevuto la telefonata di Pearson.

Il buon Kirk, ancora un po' a disagio per come aveva gestito la metamorfosi di Ross l'ultima volta, aveva chiesto al Capitano della Mambo di prendere in considerazione l'idea di affiancarlo come vice allenatore.

Una sorta di ritorno al passato.

Julian aveva rifiutato deciso. Non poteva tornare indietro.

Tuttavia fare un saluto ai compagni e augurar loro in bocca al lupo gli era sembrato doveroso.

Con una poderosa spinta spalancò la porta catalizzando l'attenzione su di sé.

L'espressione di sorpresa mista a gioia, un po' di tutti, non lo rese impacciato e quando i ragazzi fecero capannello attorno a lui rispose, garbatamente, a tutte le loro curiosità.

"Julian come ti senti?"

"Julian ma quando torni a giocare con noi?"

"Peccato Julian, con te in campo saremmo partiti in vantaggio di due gol!"

Quel lagnone di Bruce!

Quando il cerchio si aprì attorno a lui si accorse che Kirk Pearson aveva assistito alla scena, ancora inginocchiato ad ultimare il suo rito: tutte le bottigliette d'acqua erano state allineate con le etichette rivolte verso i suoi giocatori.

"Riti scaramantici!"

Disse per lui Ed Warner, scettico.

"Io, piuttosto, le chiamerei manie malsane!"

Benji Price non perse occasione per avere l'ultima parola con il detestato rivale.

"Sempre meno innocue delle tue manie di grandezza, Price!"

Lo reguardì Mark Lenders, più rabbuiato del solito.

"Siamo alle solite!"

Tom Becker finì di sistemarsi i parastinchi, alzò gli occhi al cielo con tutta l'intenzione di lasciare la stanza e la discussione. Invece si avvicinò a Julian battendogli, amichevolmente, una pacca sulle spalle. Capitan Hutton lo imitò.

"Ragazzi basta punzecchiarsi. Piuttosto vediamo di essere squadra oggi e di giocare anche per Julian."

L'altro si sentì avvampare. Non gli era mai piaciuto essere al centro dell'attenzione per compassione.

"Ogni tua parola è un ordine, captain Fantastic!"

Cercò di rabbonirlo Philip senza rinunciare a sfotterlo un po'. Callaghan aveva questa capacità di essere geniale ed urtante al contempo.

Hutton ignorò la provocazione ma non altrettanto saggio fu Lenders.

"Oggi sei urticante come un ortica, Callaghan!"

Ringhiò infatti.

"Cosa ti è successo, Mark?"

La domanda improvvisa di Julian ebbe la capacità di sedare un nascente battibecco. Dopo che era andato a trovarlo in ospedale, Ross lo sentiva un po' più amico e meno ostile.

"Paga pegno. Pare abbia perso al gioco con Philip..."

Anticipò Bruce con aria da cospiratore. La morra cinese, la scommessa, l'alone di mistero che Philip aveva mantenuto attorno all'intera vicenda.

Julian seguiva lo svelamento del mistero con un velo di inquietudine per il ricordo in cui tutto era maturato e con la stessa, crescente, curiosità degli altri.


*** *** ***

Amy dovette asciugarsi le lacrime con il palmo della mano per il troppo ridere quando Julian finì il suo racconto. Se l'erano svignata dallo stadio Nagai che la partita era ancora a metà del secondo tempo.

"Io ho adempiuto al mio compito!"

Le aveva sussurrato il ragazzo rendendo palese il desiderio di entrambi di restarsene da soli. Anche quando Julian aveva, educatamente, declinato l'ennesimo invito di Pearson che gli aveva proposto di seguire l'incontro a bordocampo con lo staff tecnico, gli altri calciatori avevano strabuzzato gli occhi.

E alla sua giustificazione - "sono in compagnia", erano seguiti sguardi ammiccanti e sorrisi sornioni che, questa volta sì, lo avevano imbarazzato.

"Così oggi il buon Philip ha giocato da falso nueve e il Giappone senza punte, se ho ben capito!"

Alla spiegazione lineare di Amy il ragazzo l'aveva guardata ammirato. Forse con troppa meraviglia perché lei non se ne accorgesse.

"Julian seguo il calcio da quando avevo dieci anni. Qualcosa l'avrò pur imparata in tutti questo tempo, no?"

Gli fece, infatti, notare.

"Anche se..."

"Anche se?"

"Anche se il più delle volte avevo occhi solo per te!"

Avevano raggiunto un bioparco poco distante ed era bello potersi godere la tranquillità e un'acerba intimità.

Notando che quella rivelazione lo aveva fatto arrossire come un pomodoro fu lesta a sviare discorso.

"Dunque Philip ha defraudato Mark della sua maglietta?"

Cercò una conferma.

"Non proprio. Ha voluto indossare la maglietta numero 9 come avevano stabilito da patto. Anche se, sono certo, ha goduto come un riccio nel far incollerire Lenders!"

"Pensa se avesse chiesto la numero dieci ad Holly!"

Amy si appoggiò contro il petto di Julian lasciandosi cullare dal ritmo del suo respiro. Si sentiva rilassata come non mai.

"Sai qual è la cosa strana? Nessuno ha voluto la maglia numero 14."

"Perché hanno rispetto di te e sapranno aspettarti!"

Disse Amy sollevandosi per dargli uno sguardo significativo. Un momento tanto intenso che il ragazzo non voleva si trasformasse in qualcosa di malinconico.

"Comunque Mark ha escogitato un buon sotterfugio: ha avuto anche lui la sua numero 9!"

"E come?"

Chiese confusa Amy che, in tribuna, era stata attenta a tutt'altro che alla partita.

"Facendosi, espressamente, confezionare una scritta 8 più 1!"

"L'arbitro avrà pensato che erano i compiti dei suoi fratellini!"

Risero di nuovo. Quando erano insieme non potevano fare a meno di ridere e di star bene.

"Ho una cosa per te!"

Disse Julian dopo un po'. Amy si scostò un po' da lui restando in attesa fissandolo armeggiare nella tasca. Ne tirò fuori una scatolina.

"Non mi fai un po' troppi regali per essere solo le prime settimane da fidanzatini? Finirai per viziarmi!"

"Io voglio solo farti felice, Amy!"

Replicò lui estremamente serio. Quando le allungò la scatolina lei restò incerta a rigirarsela tra le mani dicendosi se avrebbe fatto bene ad accettare il regalo che, intuiva, potesse celare.

"Aprilo!"

La esortò Julian. Un anellino, tempestato da pietre blu, luccicava alla luce del sole pomeridiano.

"Julian..."

Mormorò.

"Non è certo il brillocco che meriteresti...E prima che ti venga un colpo sappi che quelle pietre sono false. Eppure è un ricordo speciale per me...e voglio che lo abbia tu!"

Lo prese e lo infilò al dito della ragazza. Calzava a pennello.

"Me lo regalò mia nonna. Allora ero un bambino e non sapevo proprio cosa farmene di un gingillo da femmina: lei mi fece promettere che lo avrei conservato per una ragazza speciale..."

Amy contemplava il piccolo cerchio emozionata e fuori di sé dalla gioia.

"Vedi questa venatura qui a lato?"

Julian indicò: c'era una storia dietro quel segno.

"Una volta si spezzò in due ma nonna non volle buttarlo via. Secondo una leggenda quando i giapponesi riparano un oggetto rotto, valorizzano la crepa riempiendo la spaccatura con dell’oro. Essi credono che quando qualcosa ha subito una ferita ed ha una storia, diventa più bello."

Amy ascoltò affascinata, poi lo guardò con amore. Posò entrambe le mani contro la maglietta di lui, contro quel cuore che pulsava forte. Così simile all'anello riparato.

"Hanno ragione: è molto più bello!"

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Capitolo 35
*** Himala ***


Era successo tutto all'improvviso ma era stato, esattamente, come Julian lo aveva immaginato in quelle lunghe settimane. Ogni singolo momento.

Quando mamma e papà erano andati a prenderlo a scuola, nel bel mezzo delle lezioni della mattina, quell'irruzione improvvisa lo aveva frastornato.

Mai i suoi genitori gli avevano concesso di saltare la scuola se non per i suoi noti, cronici, problemi di salute.

Aveva permesso a Stephen di scorgere la sua espressione disorientata, poi aveva afferrato la cartella e si era incamminato appresso alla bidella che era venuta ad annunciare che i signori Ross lo aspettavano nell'atrio.

Anche la felicità irruenta che poteva notare nei gesti e nei movimenti agitati dei due adulti non faceva altro che incrementare la sua agitazione. Non era una sensazione sgradevole, però: aveva la percezione di qualcosa di buono che stava per accadere.

"Ce l'abbiamo fatta Julian! È nostra!"

Aveva solo biascicato il Dottor Ross, raggiante, con la stessa commozione che lo aveva animato mesi prima quando il figlio si era risvegliato dall'operazione.

Julian aveva capito all'istante e si era buttato tra le braccia dei genitori visibilmente entusiasta.

Mai un viaggio verso l'ospedale era stato accompagnato da tanta impazienza e da sentimenti tanto positivi. Per la prima volta in vita sua Julian poteva affermare di essere felice di metter piede in quel posto.

Quando raggiunsero il nido e Andy sistemò la bambina nell'ovetto che era in attesa di lei da settimane (assieme al passeggino, alle tutine e a tutti gli articoli da neonati che avevano saccheggiato, tutti e tre insieme, un pomeriggio in un negozio apposito), Julian si sentì pervadere da un piacevole calore.

E con l'orgoglio del fratello maggiore si preparò a portare a casa la sua sorellina. Lungo il corridoio incrociarono Lily Donovan, quasi l'avesse fatta apposta a farsi trovare lì.

Julian si irrigidì mentre la dottoressa si chinava a fare una fugace carezza alla bimba. Quindi tese la mano ad Andy.

"Auguri!"

La signora Ross restò incerta, quasi volesse studiare le vere intenzioni della vecchia rivale. Poi ricambiò la stretta.

"Auguri a tutti e tre!"

Ripeté Lily, estendendo la cortesia anche al resto della famiglia. Gregory fu molto abile a nascondere il suo imbarazzo e quando si allontanarono Julian provò un briciolo di dispiacere per Lily Donovan.


Già durante il tragitto verso casa la famiglia Ross aveva iniziato a realizzare che avere un neonato in casa avrebbe portato a nuove, entusiasmanti, scoperte ogni giorno. E non avevano fatto altro che contemplare quell'esserino.

Diwata aspettava nel bovindo, impaziente di conoscere la nuova arrivata. E quando intravide l'auto sbucare schizzò fuori pronta ad accollarsi un po' dei nuovi impegni della signora.

Anche lei, ovviamente, fece festa alla piccola. Dopo un buon quarto d'ora, calmati gli eccessi euforici iniziali, tutti si stavano, lentamente, abituando alla nuova situazione.

Diwata aveva messo su il bollitore per il tè mentre la famiglia era seduta in soggiorno. Era il turno di Julian di cullare la neonata quando l'osservazione di Gregory, così ovvia, li spiazzò.

"Beh dovremmo trovargli un bel nome adesso!"

Non ci avevano pensato fino ad allora perché identificarla, caricare l'attesa di affetto, avrebbe reso tutto più difficile nel caso il responso fosse stato diverso.

"Già, dovremmo...Julian a te l'onore!"

Fece eco Andy gravando il figlio di una tale responsabilità. Il ragazzo la guardò incerto, nella mente il buio totale: e se avesse proposto un nome stupido o che non avesse riscontrato l'approvazione degli altri?

Gregory riconobbe quello sguardo intimidito.

"Avanti tesoro, non puoi sempre temere il nostro giudizio!"

Lo esortò infatti. Suo padre aveva ragione: c'erano ancora delle zone d'ombra nel loro rapporto e sapevano bene, tutti e tre, che le cose non sarebbero cambiate dall'oggi al domani.

Julian annuì, ancora avvampato per quell'osservazione veritiera, poi si concesse qualche minuto per studiare la neonata, placidamente addormentata tra le sue braccia, e pensare.

"Lei è il nostro piccolo miracolo. Tutto quello che è successo negli ultimi tempi è da ricondurre fino a questa piccina. Mamma ti ricordi come ero inviperito quando ho scorto i dépliant per l'adozione nel cestino dell'immondizia?"

Andy annuì, una morsa alla gola al pensiero degli sbagli e delle incertezze di allora.

"Eppure l'idea di avere un bambino che trotterellava per casa, di respirare di nuovo vita, mi ha spinto a prendere la decisione giusta. E se non fossi finito, di nuovo, in ospedale non avremmo mai conosciuto questa bambolina..."

Andy e Gregory ascoltavano, un turbinio di emozioni.

"Vuoi dire che tutto è collegato?"

Sondò il dottor Ross.

"Sono convinto che tutto accada per un motivo nella vita, papà. E forse è anche tutto necessario. Diwata?"

La donna al richiamo, strofinò le mani nel grembiule, e si avvicinò.

L'indomani sarebbe ripartita per Manila. Qualche settimana di vacanza e poi anche il resto della famiglia si sarebbe trasferita in Giappone per iniziare una nuova vita insieme.

"Come si dice miracolo nella tua lingua?"

"Himala, signorino Julian!"

"Himala!"

Ripeté il ragazzo guardando la bambina e meditando quasi volesse studiare se quel suono si confacesse a quel visino roseo.

Poi alzò le iridi nocciola a scrutare la reazione dei genitori: glielo avrebbero bocciato a priori? Lo trovavano assurdo?

La fastidiosa sensazione di essere sotto processo, però, durò solo un secondo.

"Himala Ross. Suona bene!"

Approvò Gregory.

"Benvenuta a casa Himala!"

Fece eco Andy.

*** ****

Ci ho messo un po' a scrivere questo capitolo e sono un po' triste, ma al contempo orgogliosa, perché il prossimo sarà l'ultimo capitolo.

Grazie davvero di cuore a chi continua a seguire la storia!

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Capitolo 36
*** Epilogo ***


La partita benefica tra medici ed infermieri si era, presto, trasformata in una sgambettata tragicomica: tra errori grossolani sotto porta, falli al limite del regolamento, strappi muscolari e contusioni dovuti ai blandi allenamenti e alla scarsa tenuta fisica degli improvvisati atleti.

Per dovere di cronaca le due marcature per i medici portavano i nomi del dottor Johnson e del dottor Ross: due gol facili, facili ma che avevano fatto gonfiare il petto dei due improvvisati attaccanti.

Sugli spalti, accanto a sua madre, Julian filmava ogni secondo di quell'esilarante incontro: un ottimo alleato con il quale ricattare Gregory in futuro!

"A quanto pare i tuoi allenamenti non hanno dato i frutti sperati, eh Julian?"

Lo provocò Andy, sorridente, sistemandosi meglio sulla gradinata. Il ragazzo mise in standby la fotocamera del suo cellulare e sorrise.

"Ma se papà e il dottor Johnson sono quelli più in palla!"

Sua madre non si scompose.

"Sarà. Sono certa che se ci fossi tu in campo non ci sarebbe storia!"

Osservò tranquilla.

"Comunque verrò a vedere la tua prossima partita. E anche quella dopo. E quella dopo ancora."

Continuò la donna trincerandosi dietro una finta impassibilità. Julian la guardava meravigliato: era dal torneo di Yomiuri Land, dalla maledetta partita contro la New Team, che sua madre non ne aveva più voluto sapere di andare allo stadio.

"Come posso divertirmi mentre ti vedo giocare con la tua vita?"

Lo aveva bacchettato una volta, l'unica volta in cui Julian le aveva chiesto di essere lì per sostenerlo, per capirlo.

Lo stupore del figlio non la lasciò indifferente ed Andy scoppiò in una risata cristallina.

"Non è detto che il calcio non possa piacermi! Soprattutto dopo questi exploit di papà!"

Si alzò e iniziò a ricacciare le sue cose in borsa: avevano lasciato Himala a casa con Diwata ma la mamma non riusciva a stare troppo senza la sua bambina.

"Io ora devo andare: tu continua a filmare ogni fantastica azione di papà. Avremmo buone prove contro di lui."

Andy gli strizzò l'occhio, con il suo aplomb da donna della giustizia, poi gli scompigliò i capelli. Certe volte quelle tenerezze in pubblico, che i suoi genitori avevano preso a manifestargli quasi fosse stato un dodicenne, imbarazzavano Julian. Il più delle volte, però, era ben felice di quelle attenzioni.

"Ricorda a papà di passare a comprare il latte prima di tornare a casa. Io vado: devo ultimare i preparativi per la festa di questa sera!"

Una festa per Himala. Sarebbe venuta anche Amy: Julian non stava più nella pelle.

"Davvero potrebbe piacerti il calcio?"

Chiese all'improvviso Julian, come a volere un'ulteriore conferma. Sua madre, che si era già avviata, sostò un momento e gli sorrise.

"Dopotutto ho un campione in casa!"

Lui non replicò. L'emozione per quell'attestato di fiducia fu stemperata dal tifo indiavolato che le figlie del dottor Johnson facevano per il loro papà.


**** ****

Gregory accartocciò la lista della spesa e la frugò nella tasca dei pantaloni. Le braccia sue e di Julian colme di sacchetti della spesa: nessuno dei due avrebbe saputo spiegare, in maniera convincente, ad Andy come mai avessero comprato il doppio delle cose spuntate su quel promemoria.

"La mamma non ci manderà mai più da soli al centro commerciale!"

Osservò Julian mentre sistemavano le compere nel cofano.

"Beh buon per noi, no?"

Fece Gregory, ben lieto di essere esonerato da future incombenze domestiche.

"Almeno non torneremo a casa carichi come muli!"

L'osservazione di Julian colpì il padre. Il dottor Ross lo studiò quasi volesse accertarsi di non aver commesso un'imprudenza.

"Accidenti Julian, non avrei dovuto farti portare tutti quei sacchetti. Ti senti bene?"

Va bene preoccuparsi per lui ma non voleva di certo che i suoi genitori diventassero super apprensivi!

"Sto benissimo, papà. Piuttosto, quello malconcio tra noi due sembri tu!"

Osservò solidale il ragazzo. Julian aveva ragione: aveva i polpacci indolenziti e non c'era un solo muscolo di cui non si sarebbe lamentato.

"Eh ragazzo mio il tuo vecchio era abbastanza fuori allenamento!"

Poi prese le chiavi dell'auto e le fece oscillare davanti al naso di Julian prima di porgergliele.

"Che significa?"

Fece confuso lui, incerto se accettarle.

"Io devo riposare un po' le gambe e lo spazio attorno al centro commerciale è abbastanza ampio per far pratica. Vorrai pur prendere la patente prima o poi, no?"

Julian non stava più nella pelle: certo presto avrebbe compiuto diciotto anni ma non si aspettava proprio che suo padre trovasse il tempo per insegnargli a guidare.

"Avanti. Vediamo di che pasta sei fatto, campione. Ti avverto che io sono un istruttore inflessibile!"

Julian montò al posto di guida. Dopo i primi, disastrosi, tentativi in cui rischiò addirittura di ingolfare il motore; grazie ai suggerimenti di Gregory la sua guida si fece più sicura.

"Accosta lì!"

Julian eseguì, con una frenata piuttosto brusca.

"Per fortuna che avevamo la cintura!"

Lo apostrofò Gregory. Poi dal cruscotto estrasse una cartellina e la porse al figlio.

"Cos'è?"

"Un regalo per te! Anzi per noi!"

Aprì e trovò tre biglietti aerei per la Tasmania.

"Andiamo in Australia?"

Chiese scettico. Il dottor Ross si abbandonò contro lo schienale.

"Io, tu e la mamma. E Himala forse. Come quando eri bambino!"

"Perché?"

"Devo mantenere una promessa. Non ho il coraggio per portarti sulla nostra isola: lo sai che non sopporto il freddo! Ma possiamo andare nella nostra città!"

"Ross, la storica citta delle Midlanes..."

Lesse Julian sulla brochure informativa annessa. Poi saltò al collo del padre: un 'impulsivo gesto da ragazzino che non si era mai concesso.

"Oh papà sei fantastico!"

**** *** ****

Himala era un'incantevole bambolina nel suo vestitino rosso con fascia annessa attorno ai capelli ancora biondicci. Tutti gli invitati facevano a gara per coccolarla, per prenderla in braccio o sbaciucchiarla. E lei, abituata ad avere tanta gente intorno, era perfettamente a suo agio.

Julian era un po' infastidito dal fatto che, per una sera, non era lui ad erogare tante attenzioni alla sorellina ma, alla fine, si diede dello stupido.

Per una sera poteva anche distrarsi e provare a divertirsi: avere Amy lì con lui era un buon incentivo per cambiare, per essere più aperto e solare.

La ragazza era stata la prima ad arrivare tra gli invitati e vederla con Himala sulle ginocchia, inesperta anche nel darle il ciuccio, aveva colmato di tenerezza il cuore di Julian.

"Riuscirai a stare lontano da Amy per ben tre settimane, quest'estate?"

Gli aveva sussurrato il dottor Ross scoprendolo imbambolato a fissare le sue donne. . Julian aveva captato il divertimento del padre nel metterlo in imbarazzo quando c'era di mezzo Amy e aveva risposto con un'occhiata di fuoco per poi tossicchiare e riprendere il controllo. La ragazza non aveva capito niente di quel siparietto tra padre e figlio.

Lanciò un'ultima occhiata ai suoi genitori impegnati in una conversazione con una vecchia coppia di amici e poi sgattaiolò in giardino.

C'era una bellissima luna piena ma nessuno sembrava aver approfittato di quel posto di quiete. Eccetto una figura.

Julian sorrise e, quatto quatto, le arrivò alle spalle cingendola alla vita.

"Credi che la luna diventerà rossa se ti do un bacio?"

Le bisbigliò all'orecchio. Amy sussultò: dapprima per la sorpresa, poi per quelle parole.

"Julian vuoi farmi prendere un infarto?"

Si finse sdegnata portandosi una mano al petto, vicino alla scollatura.

"Il problema lo avremmo solo a parti inverse!"

Se ne infischiò lui. Amy voltò la testa: alcune ciocche erano sfuggite dal disordinato chignon e le solleticavano la fronte, facendola più ragazzina, più bella.

"Sei uno scemo!"

Posò una mano sulla gota di Julian e non si oppose quando lui la scostò e se la portò alle labbra.

"L'altro giorno mia ha telefonato Pearson. Quasi sicuramente mi convocherà per la prossima partita: potrò giocare solo uno spezzone di gara ma va bene così!"

Le raccontò, tranquillo.

"Una bella notizia, no?"

Julian si strinse nelle spalle.

"Per me, certo. Per mia madre un po' di meno!"

"Tua madre?"

Fece eco, confusa, Amy sedendosi sul ciglio di un muretto.

"Ha promesso che verrà a vedere tutte le mie partite...Dovrà viaggiare fino a Stoccolma!"

Amy rise all'immagine dell'integerrima signora Ross scendere, trafelata e disordinata, da un aereo di linea.

"E tu ci verrai, Amy?"

La domanda, comprensibile e inaspettata, le fece riacquistare un'espressione seria ma dolce.

"Io per te ci sarò sempre, Capitano!"

Lui le prese la mano e le sorrise: per gratitudine, per la comprensione e per compensazione, per affiatamento.

Per amore.

Avrebbe voluto trovare le parole più belle per renderla partecipe di tutte le emozioni che lei gli aveva fatto scoprire ma non trovò niente di sensato da dire.

"Comunque se mi dai quel bacio sono sicura che la luna diventerà verde!"

Fu Amy ad anticiparlo.

"Verde?"

"Sì, verde di invidia!"

Ora sapeva che Amy era la sua Himala più grande, più importante. Necessario e perfetto miracolo.


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Grazie, grazie, grazie davvero di cuore a chi ha seguito questa storia, a chi l'ha inserita tra le preferite e le seguite.

Un grazie gigantesco a chi ha avuto la pazienza di recensire, a chi ha seguito la storia dal principio aiutandomi, con i suoi preziosi commenti, a capire meglio i miei personaggi e a farmi venire sempre nuove idee.

Di idee ne ho ancora molte: se riuscirò a trovare il bandolo della matassa sarò felice di pubblicare presto una nuova storia. Sperando di ritrovarvi!

Per ora non posso che lasciarvi con un ennesimo grazie :)

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