It's gonna be a long night, but at least you are beside me

di flatwhat
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Sussurri ***
Capitolo 2: *** Acoltami bene ***
Capitolo 3: *** Freddo ***
Capitolo 4: *** Difficoltà ***



Capitolo 1
*** Sussurri ***


Il prompt era "I Miserabili, Grantaire/Enjolras, sussurri all'orecchio".


Grantaire aveva sussurrato spesso, all’orecchio di Enjolras.

Va bene, in realtà, questa era stata la sua intenzione. Erano davvero scarne, le volte in cui questi sussurri arrivavano effettivamente all’orecchio di Enjolras, e, quando ciò accadeva, non suscitavano la reazione sperata. Enjolras sembrava ignorarli.
Ma, in effetti, in che reazione sperava, Grantaire? Non lo sapeva bene nemmeno lui.
Ben lungi da lui, infatti, era l’intenzione di dare fastidio ad Enjolras, ci riusciva già abbastanza bene senza sussurrare, non con le parole, ma per ciò che faceva. O meglio, ciò che non faceva. Grazie tante. 
Dio solo, o chiunque sia al posto suo, poteva sapere quanto l’idea di farsi odiare apposta da Enjolras non sfiorava nemmeno la mente di Grantaire, diamine! Lui voleva ben altro, non il suo disprezzo.
Eppure, all’inizio quei sussurri non erano stati del tutto amichevoli, nelle intenzioni.
Forse erano una sfida. “Ascolta, Enjolras. Vedi che sono capace di parlare piano?”, o qualcosa del genere. 
(Non che dicesse mai davvero una cosa simile, si limitava ai suoi soliti commenti che avrebbe detto tranquillamente anche ad alta voce).
O forse, aveva voluto, in qualche modo, costringere Enjolras a sforzarsi di udire la sua voce, di continuo, per fargli capire che razza di sensazioni gli dava lui, dalla mattina alla sera.
Perché era stato Enjolras, a cominciare con i sussurri.
Non Enjolras in carne ed ossa, ma per Giove se la vocina che Grantaire sentiva non era uguale a quella di Enjolras!
Ci mancava solo che la sua coscienza suonasse esattamente come lui, giusto perché, evidentemente, Grantaire non pensava già abbastanza ad Enjolras. Maledetto il suo cervello.
Sì, ahinoi, era proprio la sua coscienza che lo ammoniva con la voce di Enjolras, ma, e questa era la cosa più divertente, lo faceva solo riguardo a cose che Enjolras stesso non avrebbe approvato. Che, ultimamente, sembravano essere aumentate.
E, così, anche quando Grantaire non era con gli Amis, e anche quando Enjolras stesso non lo rimproverava (va detto, lo faceva solo quando Grantaire disturbava pesantemente le discussioni importanti, la maggior parte del tempo lo lasciava in pace, per quanto non fosse d’accordo con il suo stile di vita), ecco la voce di nuovo a importunarlo. “Smettila di bere!”. “Davvero sei convinto che si possa vivere non credendo in nulla?”. E via dicendo. Niente esisteva, di più pedante di quella stupida vocina, che era ironicamente frutto della mente di Grantaire. Persino Enjolras avrebbe dato di matto, ad ascoltarla.
Forse era un po’ l’effetto che aveva cercato Grantaire.
Lui stesso si era accorto di quanto non fosse propriamente carino, cercare di fare andare in escandescenze la persona che si ama, soprattutto per un motivo così bizzarro.
E, in ogni caso, mai e poi mai Grantaire sarebbe potuto essere la coscienza di Enjolras. La sola idea lo faceva ridere.
Così, aveva cambiato programma. Non più una sfida o una rivincita.
Aveva cercato di dare anche a questi sussurri l’intenzione che c’era nelle sue parole ogni volta che si faceva umile e proclamava ad Enjolras la sua devozione.
Eppure, e questo avrebbe dovuto immaginarlo prima, questi sussurri erano stati inascoltati, esattamente come i precedenti. Se non di più. Perché Enjolras non aveva cosa farne, delle parole di un cinico.

Era stato l’assoluto silenzio, a svegliarlo dal suo torpore.
Non si udiva neanche una parola, neanche dalla voce nella sua testa.
E, quando era giunta la fine di tutto, Grantaire non aveva sussurrato, quando aveva detto ai soldati “Viva la Repubblica!”, anzi, lo aveva gridato forte e chiaro, affinché lo sentissero.
E quando aveva chiesto “Permetti?” ad Enjolras, non aveva sussurrato, affinché tutti, soldati, Enjolras, e chiunque altro, potesse sentire.
Questa volta, Enjolras ascoltò e gli offrì la mano e un sorriso.
Nessuno dei due avrebbe parlato più, né sussurri né grida, né in carne e ossa né nell’immaginazione.
Ma sarebbero state le loro azioni, a venire ricordate.

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Capitolo 2
*** Acoltami bene ***


In questa OS sono presenti parolacce. Uno dei due OC è pieno di pregiudizi e creato solo per essere una brutta persona e perché mi andava di scrivere la prima parte in un pov esterno.
Il prompt era "Listen here you little shit".



“Enjolras chiede se avete deciso”, dice quel pezzente.

“Sì, ci saremo. C’è ancora da decidere qualche ultimo particolare, ma in generale…”.
André sospira, le braccia incrociate sul petto. Non capisce proprio perché quello stupido di Jacques deve dare corda a un individuo del genere. Ne ha abbastanza.
“Lascia perdere, Jacques, parliamo con l’altro”.
Jacques lo guarda confuso, poi guarda gli altri due, quelli del Musain, che sono altrettanto confusi. 
“È la stessa cosa, André. Feuilly e Bahorel sono qui per lo stesso motivo”, dice e poi si volta di nuovo a parlare con loro, come se André non avesse detto nulla.
“Non è la stessa cosa”, André posa il bicchiere sul tavolo e usa la mano libera per afferrare il braccio dell’amico.
“Che ti prende, André? Calma. Abbiamo cose di cui discutere”.
Ci mancava anche questa. André era già abbastanza nervoso per i fatti suoi stamattina e, come se non bastasse, deve sopportare anche la presenza di quel Feuilly a una riunione seria.
“Sì, ma discutiamone con chi ne capisce”, e guarda Bahorel.
In realtà, conosce anche Bahorel, e sa che non è poi tanto meglio.
“Lui viene bocciato di continuo, ma almeno non è un completo ignorante”.
Jacques corruga la fronte, si volta a fare un cenno di scuse ai due del Musain e cerca di portare André in disparte.
“Insomma, André, stai forse bevendo un po’ troppo?”, sussurra Jacques.
“Macché, è quello lì a darmi fastidio”, dice André, non curandosi di abbassare la voce. Non gliene può importare di meno, delle occhiatacce che gli sta mandando Bahorel e dell’espressione imbambolata di Feuilly (che, sicuramente, non ha neanche capito di cosa si sta parlando, il beota).
“Quello lì non è nemmeno andato mai a scuola nella sua vita. Cosa vuoi che sappia, della teoria rivoluzionaria? È sicuramente un pezzente che si è unito apposta per fare un po’ di baccano”, riprende André. “Il gruppo del Musain dovrebbe avere un po’ di rispetto per sé stesso. E per noi. Ce lo mandano di continuo, ma insomma-”.
Non riesce a finire la frase perché quello grosso, Bahorel, lo ha afferrato violentemente per il colletto.
André, però, ride della sua espressione, e se ne frega che Jacques e quell’altro idiota cerchino di calmarli, e di come tutti gli altri li stiano osservando ammutoliti. L’espressione di Bahorel è troppo divertente. È proprio il tipo di faccia che gli ignoranti fanno quando sono incazzati. Espressione che li fa apparire ancor meno intelligenti. 
“Hai qualche problema?”, gli dice, sempre ridendo.
“Io no. Tu?”, risponde Bahorel. E quando vede André ridere di nuovo, esclama: “Bel rivoluzionario, davvero!”.
“C’è un limite anche a questo. I pezzenti come lui potranno anche prendere parte ai moti, ma l’organizzazione spetta a chi ha un cervello più-”, e, ancora una volta, non finisce la frase, perché Bahorel l’ha tirato verso di sé e sta alzando il pugno in tono minaccioso. Per questa volta, le parole muoiono in gola ad André.
“Bahorel, aspetta”, mormora Feuilly, posando una mano sulla spalla del suo amico, ma Bahorel, quando poi vede anche l’espressione di Jacques, si limita solo ad abbassare il pugno, senza lasciare andare André.
Lo fissa bene negli occhi. “Ascoltami bene, stronzetto”, rantola, digrignando ancora di più i denti.
“Ti posso assicurare che Feuilly ha più cervello di te e tutti i tuoi parenti messi insieme, se sono imbecilli quanto te. E se vuoi ancora rispondere qualcosa, a costo di farmi cacciare di qui, ti spezzo le costole, va bene?”.
André deglutisce.
Bahorel lo lascia andare.
“Noi qui abbiamo finito”, dice a Jacques, chinando leggermente il capo, prende Fuilly per una mano e se ne vanno.

Niente da fare, Bahorel è ancora incazzato nero.

Se ne accorge quando Feuilly lo chiama, da dietro. Nella sua furia, non aveva notato di essersi messo a camminare troppo velocemente, lasciandolo indietro.
“Scusami”, gli dice. “È che ancora non riesco a crederci”.
Feuilly scuote il capo.
“Bahorel. Mi dispiace che tu te la sia presa. Non c’era bisogno”.
Bahorel spalanca gli occhi.
“Scherzi? Feuilly, so che non ti va che pesto la gente, ma non dirmi ora che lui non se lo sarebbe meritato. Ti ha trattato da cani!”.
Feuilly sospira.
“Però, non c’era bisogno di minacciarlo. Avrei potuto convincerlo io, che non sono quello che lui crede”.
“E come, scusa?”.
“Facendo una chiacchierata con lui, del più e del meno. Dimostrandogli che non sono ignorante anche se…”, sospira di nuovo e si preme una mano sul volto.
“So che l’hai fatto per me, ma… mi intristisce, tutto questo”.
Ora è il turno di Bahorel, di sospirare.
“Scusami. È solo che ha cominciato ad insultarti e non ci ho visto più. E credo che tipi come lui capirebbero solo a suon di pugni, o forse nemmeno”
Incrocia le braccia.
“Mi dà fastidio sapere che c’è anche gente del genere, tra le nostre fila. Che razza di rivoluzionari sono? Immagina la faccia che farà Enjolras quando glielo riferiremo…”.
Feuilly guarda in basso, triste.
“Le persone sono così. Ce n’è di tutti i tipi. Ovunque”.
Bahorel odia vederlo così. Gli dà una pacca amichevole.
“In ogni caso, non pensare a cosa ha detto quell’idiota. Ne vali cento, di quelli come lui. Tutti noi lo sappiamo”.
Feuilly alza lentamente lo sguardo verso di lui,e infine, abbozza un sorriso.
“Sì”.
Così, riprendono a camminare un po’ più tranquilli di prima.
Senza che Bahorel se ne accorga immediatamente, Feuilly gli si è fatto più vicino.
Bahorel sente la mano di lui andare ad intrecciare le loro dita insieme.
“Sono proprio contento di avervi trovato”. 
È vero che Bahorel starebbe anche tutto il giorno a baciare Feuilly. E non gli dispiacerebbe portarselo a letto.

Ma è anche vero che bastano quelle parole e le dita che toccano le sue a fargli passare ogni malumore.

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Capitolo 3
*** Freddo ***


Il prompt era "I Miserabili; CombeferreJehan; passeggiando mano nella mano sotto la neve".
Ho reso la storia più triste di quanto sarebbe dovuta essere.



L’aria della sera era fredda e i fiocchi di neve che cadevano sui pochi centimetri di pelle scoperti lo erano ancora di più. Facevano venire voglia di coprirsi l’intera faccia con la sciarpa.

Combeferre, le mani sotto le ascelle, osservava le nuvolette che si formavano mentre respirava. Non era un tipo a cui il freddo piacesse particolarmente.
Il suo ragazzo, Jehan Prouvaire, pareva dell’opinione opposta. Aveva un sorriso enorme a sostituire il suo temperamento solitamente malinconico e Combeferre non voleva certo far sparire quel sorriso, ma…
“Senti, Jehan, so che ti ho promesso che stasera saremmo usciti insieme..:”.
“Sì, hai anche messo da parte i tuoi studi, stasera”, il sorriso di Jehan non cedeva, anzi, sembrava quasi che stesse cercando di stuzzicarlo.
“La verità, Jehan, è che trovo che ci sia un po’ troppo freddo, stasera. Forse faremmo meglio a stare dentro”, disse Combeferre, temendo la reazione di Jehan.
Ma Jehan gli offrì una mano.
“Ti riscaldo io”.
Combeferre, a piccoli passi e tenendo sempre le mani sotto le ascelle, si avvicinò a lui.
“Va bene”, disse, ridendo. “Proviamo”.
Jehan gli sorrise ancora, poi alzò lo sguardo verso il cielo.
“Trovo che possa essere molto suggestivo, quando nevica. E poi, non è nemmeno troppo forte. Però, non andiamo troppo lontano, in caso tu voglia tornare a casa”.

Alla fin fine, Combeferre doveva ammetterlo, passeggiare stando mano nella mano con Jehan, e occasionalmente stretto a lui, era piacevole nonostante il freddo. Anzi, Combeferre lo sentiva anche di meno, adesso.
Mentre passeggiavano, osservavano la città addormentata. L’ora era tarda e non c’era molta gente in giro a prendere il freddo come loro.
Solo Jehan Prouvaire poteva avere quelle idee, pensò Combeferre, ridacchiando.
O almeno, fu quello che pensò finché non svoltarono un angolo e videro la miseria di fronte a loro.
Vecchi vestiti di stracci, bambini che si stringevano le braccia intorpidite attorno al corpo, gente che si cercava un riparo ovunque, riparo che non era abbastanza.
Queste figure erano ombre nella notte, nascoste più che potevano, ma la loro triste presenza era avvertibili nei mormorii, quando non li si vedeva direttamente a una distanza ravvicinata, prima che, correndo, non sparissero di nuovo nelle tenebre, alla ricerca di un nuovo riparo.
Combeferre e Jehan Prouvaire osservarono tutto ciò con il cuore pesante. 
Il freddo si stava lentamente riappropriando di Combeferre, quando ad un tratto, Jehan si fermò.
“Al prossimo bambino che vedo, gli do il mio cappotto”.
Combeferre gli strinse un braccio.
“Non esagerare”, gli disse in un soffio. Anche se capiva il sentimento, e immaginava che Jehan lo stesse provando con intensità maggiore, data la sua indole.
“Non devi rischiare tu stesso di morire di freddo per salvare una persona. Se dovesse succedere, di che aiuto saresti?”.
Jehan Prouvaire annuì, tristemente.
“Hai ragione. Non è ancora il momento di mettere la mia vita in pericolo”, sussurrò con una glacialità che fece accapponare la pelle a Combeferre più di quanto potesse la neve.
Jehan si voltò poi verso di lui, angosciato.
“Torniamo a casa”, disse con un sospiro. “C’è davvero troppo freddo, ora”.
Combeferre annuì.
“Però possiamo fare una cosa”, aggiunse. “Se incontriamo qualcun altro, possiamo dargli almeno un po’ di denaro. E domani, potremmo prendere i vestiti che non ci servono più e…”.
Jehan Prouvaire gli offrì un malinconico sorriso.
“Speriamo che domani faccia meno freddo”, disse.

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Capitolo 4
*** Difficoltà ***


Questa OS contiene riferimenti alla religione e a come l'omosessualità non fosse propriamente accettata, ai tempi.
Non è mia intenzione offendere nessuno, ma se qualcuno dovesse avere problemi, me lo dica e provvederò a rimuoverla immediatamente.
La storia è ambientata in un what-if post canon dove entrambi i personaggi sopravvivono. Il prompt era "Les Misérables, Valvert, la dichiarazione di Javert a Jean Valjean".



Jean Vajean era un individuo difficile da gestire.
L’ormai ex Ispettore Javert si trovava ad osservarlo di soppiatto spesso e volentieri, benché non lo facesse con gli intenti minacciosi di una volta.
Era davvero una strana persona, Jean Valjean.
Sempre cordiale con chiunque e sempre sorridente con le persone che definiva “a lui care”. Quell’uomo si sarebbe paralizzato la faccia, pur di sorridere di continuo nonostante il resto del suo corpo comunicasse un atteggiamento ben diverso- Javert lo sapeva da Montreuil, Jean Valjean era raramente completamente a suo agio, e solo con le persone veramente vicine. Bisognava ringraziare Cosette, se ogni tanto i suoi vecchi muscoli si rilassavano.
Benché fosse un individuo, per indole o per storia personale, tendenzialmente chiuso, era ostinatamente aperto e servizievole con chi reputava di doverlo essere, vale a dire la maggior parte della popolazione mondiale. Anzi, era persino più aperto di come lo era stato a Montreuil, cosa strana visto che non era più un sindaco, ma un galeotto ricercato.
In pratica, Javert lo trovava sul serio un individuo particolare, anche perché si trovava lui stesso oggetto di quella strana cortesia e la cosa non poteva che farlo arrovellare su quello che potesse significare.
Perché Javert era stato un poliziotto, ma trovava che capire come comportarsi con Valjean fosse dannatamente complicato.
Rispondere alla cortesia con cortesia significava più sorrisi, magari anche più genuini di prima, ma come quell’uomo avrebbe reagito un complimento era tutto da vedere. Anche perché sarebbe bastato anche fare un commento en passant su quanto fosse delizioso il tè che aveva preparato per fargli scuotere il capo, gesticolare con le mani e dire “Non è niente di speciale”.
Va bene, magari a quei livelli sarebbe stato esagerato, ma ci andava comunque molto vicino.
Complimentare Cosette o chiunque altro fosse caro a lui avrebbe significato vederlo partecipare alle lodi di buon grado, ma complimentare invece la persona di Jean Valjean avrebbe visto Valjean stesso negare il tutto con velocità disarmante.
C’era anche da sospettare, e Javert ne era abbastanza convinto, che questo fosse in realtà sintomo di un mal celato odio per se stesso, che magari era iniziato semplicemente come spirito di sacrificio, per arrivare poi, con gli anni e le sofferenze, a quei livelli.
Come fare una dichiarazione d’amore a una persona simile, senza aggiungergli ulteriori complessi alla lista o senza che lui la prendesse per falsa?
E questo era il primo problema di Javert. 

C’era anche il fatto che Jean Valjean era una persona molto religiosa.
Certo, lo era in modo molto più aperto di quanto non fossero certe persone, per le quali la fede era una scusa per l’odio.
Jean Valjean non era un uomo dedito all’odio. Non che non fosse capace di provarlo, sicuramente lo aveva provato eccome, ma al giorno d’oggi preferiva indirizzarlo verso se stesso, piuttosto che verso qualcun altro, non importa quanto quel qualcun altro avrebbe potuto meritarlo.
Ma, lo stesso, Javert aveva timore che quanto avrebbe potuto dirgli sarebbe stato troppo anche per lui, che magari avrebbe mascherato tutto sotto il solito sorriso cortese e dentro di sé sarebbe invece stato pieno di pietà per un povero disadattato.
E, se invece avesse accettato, se non fosse stato un problema per lui, che un uomo amasse un altro uomo, e se questo fosse stato veramente sbagliato, indipendentemente dalle sue opinioni?
Avrebbe trascinato quel santo nel peccato?
E questo era il secondo problema di Javert.

 
Il terzo problema di Javert era Javert stesso.
Per lui sentimenti del genere erano del tutto nuovi, e non aveva idea di come esternarli senza fare una figuraccia enorme. Aveva pensato persino di metterli per iscritto, ma si era trovato ancor più a corto di parole.
Non avrebbe potuto lanciarsi in declamazioni smielate come un adolescente, non solo perché era troppo vecchio, ma anche perché non era nel suo carattere. Piuttosto, si sarebbe rasato le basette.
Senza contare, poi, che anche Javert non era più un uomo semplice, con cui avere a che fare.
Usciva da un periodo della sua vita che avrebbe preferito dimenticare, ma purtroppo, erano ben cinquantadue anni di vita, quel periodo. E, di quei cinquantadue anni, una buona parte di essi era stata spesa a dare la caccia e odiare la stessa persona che ora amava.
Sarebbe stato bene, Jean Valjean, con uno come lui? 
E, prima di tutto, come fargli capire i suoi sentimenti?

“Valjean, prima che io vada devo dirti una cosa importante”, disse Javert, sulla soglia di casa, dopo essersi congedato.
Valjean lo fissò attentamente.
“Dimmi. Cosa c’è”.
Javert respirò profondamente.
“Penso che domani pioverà, quindi forse non è il caso che tu vada ai giardini”.
Valjean piegò leggermente la testa, poi ridacchiò.
“Va bene, si vedrà domani. Grazie”.
Javert girò sui tacchi e aspettò di essere lontano prima di premersi il cappello sugli occhi con entrambe le mani. Sapeva di essere rosso in viso.
Dannazione!
E questo era stato solo l’ultimo, di tutti i tentativi che si erano risolti in figuracce.

Avevano letto insieme, quel pomeriggio, un’attività che era iniziata quando Javert si era presentato a casa di Valjean- e, Dio, sembrava tutto così lontano- sbraitando, mentre si asciugava i sudori freddi, in faccia all’uomo che gli aveva sconvolto la vita eppure non osava mandare in galera, e che gli aveva detto, stancamente, di abbassare la voce, facendolo accomodare sulla sua poltrona un momento dopo.
Tra tutti i libri, quello che leggeva Javert era soprattutto la Bibbia, per trovare delle risposte alle sue domande e ricavandone solo altre domande. Meno male che Valjean era sempre contento di fare discussione. Non era mai stato un amante della lettura, ma non gli dispiaceva ormai così tanto, se lo faceva in compagnia di Valjean.
Dopo un ultimo tè, Javert avrebbe tolto il disturbo, come faceva sempre. Chissà se anche oggi avrebbe potuto collezionare qualche pessima figura…
Mentre sorseggiava dalla sua tazza, Javert, con la coda dell’occhio, notò una cosa strana.
Valjean lo stava fissando.
“C’è qualcosa che non va?”.
Valjean si riscosse di colpo.
“Io? Ah…”.
Passandosi una mano sulla fronte, accennò a un sorriso.
“Nulla, nulla. Perdonami”.
Javert alzò le spalle e riprese a bere il tè.

Una sera, Valjean non aveva un bell’aspetto.
Javert si era maledetto interiormente per non aver saputo scorgere prima i segnali che qualcosa non andava. E dire che lo aveva osservato incessantemente, dannazione!
Alla richiesta di chiarimento di Javert, Valjean aveva semplicemente scosso la testa, e detto, al suo solito “Non c’è nulla che non va”, anche se aveva l’aspetto poco curato e sospirava più del solito e aveva anche dei cerchi attorno agli occhi. Già, proprio nulla, pensò Javert cominciando a irritarsi sul serio.
“Insomma Valjean…”, cominciò. Poi, ad un tratto, gli venne in mente un’orrenda possibilità. 
“È successo qualcosa a Cosette?”, chiese d’un tratto, maledicendosi poi per averlo detto ad alta voce.
Ma Valjean gli aveva lanciato un’occhiata.
“Cosette sta bene”.
Ma da come aveva poi abbassato lo sguardo e sospirato ancora, forse si poteva dedurre che Cosette c’entrasse qualcosa.
Javert sospirò a sua volta.
“Eppure, c’è qualcosa che non va, non è vero? Dimmi almeno come posso aiutare”.
Valjean ridacchiò e Javert scorse una vena di stizza nella sua risata. 
“Dubito che tu possa fare qualcosa materialmente”.
Era il suo modo per dire che il problema era nella sua testa?
Javert stette un momento a rimuginare. Poi…
“Questa domenica non dovevi andare da Cosette?”.
Valjean emise un sospiro più lungo degli altri, sconfitto.
“Sì, ma mi sono trattenuto poco”.
“E come mai?”.
Valjean lo fissò.
“Non mi sento più tranquillo, in casa sua”.
Poi, strascicando una gamba, si andò a sedere, invitando Javert a fare altrettanto.
“Credo di doverti delle spiegazioni, dato che ti vedo preoccupato”, disse Valjean, incrociando le braccia.
“Prima di tutto, sappi che avevo intenzione di rivelare almeno a suo marito chi fossi realmente, perché non osavo continuare a vivere insieme a loro con questo peso disonesto sul cuore. Pensavo di farlo subito dopo il matrimonio, ma all’ultimo momento non ce l’ho fatta. Sono stato un codardo”.
Era sempre difficile ascoltare Jean Valjean mentre parlava in termini così cattivi di se stesso.
“Quindi per loro sono ancora Fauchelevent, un uomo onesto”, volse lo sguardo altrove, “Ma questa cosa non può durare. Devo loro delle spiegazioni, capisci? Ma, allo stesso tempo, temo l’inevitabile”.
Javert si chinò in avanti.
“E cosa sarebbe, questo ‘inevitabile’?”.
Valjean tornò a guardarlo. Nei suoi occhi vi era una enorme tristezza. 
“È inevitabile che mi abbandonino”.
“Cosa…?”.
“Ed è giusto così…”.
“No!”, sbottò Javert, “Perché dovrebbe essere giusto?”.
“Perché il mio compito si è concluso, e Cosette si merita di meglio”.
“Sei suo padre, maledizione! Credi davvero che starebbe meglio, se sparissi dalla sua vita?”.
Valjean si premette una mano sugli occhi.
Javert rimase senza parole.
Lo credeva davvero. 
“È un ragionamento assurdo”, disse piano, quando le parole gli furono tornate.
“E inoltre, ti conosco. Lasceresti fuori dal racconto tutte le parti che dimostrano che sei un uomo buono”.
“Ce ne sono, sepolte sotto a ciò che dimostra invece che io non lo sia?”. Un’altra risata triste da parte di Valjean.
“Ora stai semplicemente vaneggiando”, disse Javert, sempre più amareggiato.
“Forse, ma è lo stesso. E anche se accettassero che io sia migliore di quanto non fossi in passato, nulla cancellerebbe le mie azioni di allora. Insomma, Javert, chi potrebbe mai amarmi, dopo aver saputo tutto di me?”.
“Io”.
Valjean lo guardò sorpreso.
“Co-”.
“E Cosette!”, aggiunse Javert immediatamente, con crescente imbarazzo.
“Già, Cosette”, continuò. “Ho il sentore che lei ti amerebbe a prescindere, sul serio. Come dici tu, non si cancella il passato, e nulla potrà farle dimenticare cosa sei stato per lei, mai. Va bene, Marius forse potrebbe avere da ridire, ma potrei fare io stesso una chiacchierata con lui, e se gli dici che sei stato tu a salvarlo…”, si nascose il volto tra le mani quando si accorse di essere diventato paonazzo.
“Cosa”, fece Valjean con una certa allegria, “Cosa avevi detto prima di tutto questo?”.
Javert gli lanciò un’occhiata dalle fessure tra le dita.
“Lo hai sentito”.
Si rialzò contro lo schienale della sedia.
“Forse dovrei specificare che non ti amo come fa Cosette”. Il rossore non lo aveva lasciato, ma tanto valeva andare fino in fondo.
“Ah, non volevo insinuare che lei non ti ami. Intendevo la diversità nel modo di…”.
“Sì, sì, avevo inteso”, disse Valjean, sorridendo apertamente.
“E, già che stiamo parlando di lei, non ho alcuna intenzione di sostituirla o che altro”.
“Lo so”.
“E, un’ultima cosa”, Javert chiuse gli occhi, accasciandosi sulla sedia. “Una sola parola da parte tua, e uscirò da questa casa e dalla tua vita. Prometto che non tornerò al ponte. Ma non intendo rimanere qui se ciò ti provoca sconforto”.
Non sentì Valjean rispondere, ma lo sentì alzarsi dalla sedia, raggiungerlo e stringerlo a se.
“Ti prego, dimmi che non è pietà”, sussurrò Javert, sul petto di lui.
“Non lo è”, disse Valjean, poi, finalmente, rise di cuore.
“Già, sarà ancora più divertente appena saprai per quanto tempo ho cercato di dirlo”.
“Ancor più divertente perché anche io cercavo di farlo da un po’”.
Contro ogni volontà, Javert sentì le sue stesse piegarsi all’insù.
“Davvero?”.
“Sì, ma non avevo il coraggio”.
Javert lasciò andare una risata e si separò da Valjean.
“Siamo davvero senza speranze”.
“Davvero”, fece eco Valjean.
“No, aspetta… Intendevo in senso… Non con Cosette”.
“So cosa intendevi”. Valjean gli fece una rapida carezza, poi rimosse la mano, come se non sapesse bene cosa fare dopo.
Ci sarebbe stato tempo anche per quello.
“Cosette. Vuoi ancora parlare con lei e suo marito?”.
“Sì. Devo”.
“Permetti che sia presente anche io?”.
“Forse”.
“O almeno”, continuò Javert, guardandolo con sincera apprensione. “Prometti che non ti condannerai da solo, quando racconterai?”.
“Ci proverò”.
Entrambi sospirarono.
Poi, Valjean gli sorrise di nuovo e, in modo quasi esitante, si chinò a dargli un bacio sulla fronte.
“In ogni caso, ti ringrazio”.
Per cosa? Per avergli fatto constatare di essere amato?
“Non c’è di che”, mormorò Javert.
Alzò le spalle per celare l’imbarazzo che di nuovo si stava impadronendo di lui. Strano che avesse ancora voglia di sorridere.
Avrebbe potuto farci l’abitudine.

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