Cuore di ceramica.

di BrokenSmileSmoke
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1864. ***
Capitolo 2: *** Alìce. ***
Capitolo 3: *** Biercattem. ***
Capitolo 4: *** Jo. ***
Capitolo 5: *** Maxìm. ***



Capitolo 1
*** 1864. ***


Capitolo 1 - CdP
Ogni citazione, riferimento o riproduzione, anche se parziale, è severamente vietata.

Capitolo
1 - 1864.

1864
«Madre, posso uscire in giardino a giocare con Fernèr, il nostro vicino di casa?»
La voce strillante di una bambina fece eco nell'enorme villa.
«Signorina Clarìssa, quante volte le ho ripetuto di non alzare la voce?» la rimproverò a bassa voce Meredìth, la governante di quella villa «il signor Albert, vostro padre, è malato ed ha bisogno di riposare, e..»
«.. "se voi continuate a parlare ad alta voce interromperete il suo riposo".. Lo so».
Clarìssa non fece finire Meredìth di parlare.
Tutti dicevano che suo padre stava male. Alcuni sostenevano che "Non passerà l'inverno".
Ma lei non riusciva a capire tutto quello.
Era da inizio autunno che l'uomo stava in quelle condizioni, e la malattia lo degenerava sempre più.
Inoltre, non le era permesso vederlo.
Meredìth sospirò.
Per quanto quella bambina potesse essere testarda, era l'unica che riusciva a rallegrare quella casa.
«Se cercate vostra madre, credo sia nello studio a suonare il pianoforte.» concluse la governante.
La bambina corse per tutto il corridoio, a volte inciampando, per giungere al più presto da sua madre.
Amava quando lei suonava il pianoforte.
Alle volte la donna le insegnava qualcosa sullo strumento.
Appena arrivò davanti allo studio, rimase incantata dalle melodie del pianoforte.
La madre se ne accorse e sorrise.
«Dimmi figliola, hai bisogno di qualcosa?» le chiese la donna senza distogliere le dita dal pianoforte e lo sguardo dallo spartito.
«Madre, le volevo domandare se gentilmente sarei potuta andare in giardino a giocare con Fernèr De LaVièr, il nostro vicino di casa.»
La madre, appena sentita la domanda, ad un tratto smise di suonare e guardò la bambina.
«Figlia mia, dubito che oggi Fernèr verrà a giocare con te.»
«Perché dite questo, madre?» chiese Clarìssa meravigliata.
«Vieni qua, siediti vicino a me» le disse la madre facendole spazio sulla sedia e, appena la bambina si sedette vicino a lei, la donna iniziò ad accarezzarle dolcemente i capelli.
«Purtroppo, l'altra notte c'è stato un grave lutto nella famiglia De LaVièr.»
«Madre, che è successo?»
La bambina era molto confusa. E aveva paura di quello che Isabel le avrebbe detto.
Ad un tratto, le tornò in mente la scena che aveva visto quella stessa mattina dalla vetrata in camera sua.
C'erano delle persone vestite di nero che camminavano lentamente, e davanti a loro c'erano quattro uomini che portavano sulle spalle una piccola cassa rettangolare di legno.
Era quello che era riuscita a vedere finché Meredìth non corse da lei, coprendo tutte le vetrate con una tenda.
A volte sentiva parlare Elìzabeth, la sua nonna materna ormai defunta, che era di cattivo auspicio far guardare da lontano ad un bambino la bara di un morto, in quanto lo spirito del defunto l'avrebbe perseguitata.
«Vedi, Fernèr ha avuto un incidente, e non ce l'ha fatta.»
Clarìssa rimase pietrificata dalle parole della madre.
Lei e Fernèr erano gli unici bambini in città sopravvissuti alla peste che durante quelli anni colpiva sopratutto neonati, bambini e anziani.
Quei pochi che restavano scomparivano misteriosamente.
Alcuni dicevano che, non appena allontanati dalle loro abitazioni, delle bestie selvagge gli assalivano, uccidendoli.
E in quella piccola cittadina, Rëinsburg, negli ultimi mesi correvano anche altre voci.
Un uomo d'affari, proveniente dalla Gran Bretagna, voleva metter su una piccola azienda.
E per guadagnarsi un po' di fiducia dai pochi cittadini che erano rimasti, faceva recapitare ad ogni famiglia un oggetto di ceramica, simile a delle statue in miniatura, per il giardino.
Clarìssa non conosceva il nome di questi oggetti.

Il giorno dopo la morte di Fernèr, a Villa VànMeyer, si presentò un corriere.
«Signora, buongiorno, un omaggio dal signor Walnoff.» disse un uomo poggiando davanti l'ingresso della villa un oggetto con una strana forma, malamente incartato.
«La ringrazio, arrivederci.» disse Meredìth salutando l'uomo ed entrando in casa.
Clarìssa, come se chiamata da qualcuno, scese velocemente le scale che la conducevano alla sua camera correndo dalla governante.
«Che cos'è?» chiese riferendosi all'involucro.
«È un omaggio regalatoci dal signor Walnoff.» rispose gentilmente Meredìth.
«Walnoff? Chi è?»
«Oh, è un uomo d'affari.»
«E cosa ci ha omaggiato?»
Meredìth rise dal vocabolo di Clarìssa.
«Si dice "regalato", non "omaggiato". È un oggetto che va tenuto in giardino, uno.. Gnomo.»
«Che nome divertente!» esclamò la bambina ridendo.
«Sì, vado a sistemarlo in giardino.»
«Posso giocarci?»
«Certo signorina, ma attenta a non romperlo, è di ceramica.» disse la donna allontanandosi, e dirigendosi verso il giardino.

Poche ore dopo Isabel passò davanti alle vetrate che affacciavano al giardino, vedendo Clarìssa parlare allo gnomo.
«Da oggi ti chiamerai Jo, ti va bene, signor Jo?» chiese Clarìssa all'oggetto inanimato di porcellana.
La madre osservò meglio la scena.
Probabilmente vedere una bambina che parlava con un giocattolo poteva essere normale, ma Clarìssa in 9 anni di vita non aveva mai parlato con un oggetto inanimato.
Forse avrebbe dovuto chiamare uno psicologo.
Era passato solo un giorno dalla morte di Fernèr, e Clarìssa sembrava strana.

Un urlo in piena notte provenì dalla camera di Clarìssa.
Isabel e Meredìth corsero in camera della bambina, che era in lacrime sul letto.
Le vetrate erano rotte, ed entrava un vento gelido.
«Figlia mia, chi è stato a rompere la finestra?» chiese Isabel.
«Madre, è stato il signor Jo..» rispose la bambina piangendo.
La donna si sedette, abbracciando e coccolando la figlia.
«Chi è il signor Jo?»
«È.. È lo gnomo, madre, non lo voglio più vedere» disse Clarìssa immergendo il volto nell'incavo del collo della madre.
«Tranquilla tesoro, domani non ci sarà più».
***
Buonasera!
Okay, prima volta nella sezione delle originali. Aiuto.
Che dire.
Questo sarà il primo ed ultimo capitolo ambientato nel 1800, odio le storie che si basino sul passato.
Il 1864 mi è servito come "slancio" per i prossimi capitoli.
Beh, alla prossima!
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Capitolo 2
*** Alìce. ***


Capitolo 1 - CdP

Capitolo 2 - Alìce.

Un SUV bianco si parcheggiò davanti all'enorme villa.
La prima ad uscirne fu una ragazza con dei capelli rosso rame.
«Alìce, hai preso tu le chiavi della villa?» chiese una voce maschile alla ragazza appena scesa.
La rossa non ascoltò, andando ad aprire il portone della casa.
Appena oltrepassò la porta iniziò a starnutire.
La casa era piena di polvere, che le dava un'atmosfera un po' lugubre.
Nel frattempo anche il resto della famiglia era sceso dalla macchina, e una bambina corse dietro Alìce.
«Che c'è, Charlotte?» domandò la ragazza alla bambina.
«È pieno di polvere, tu sei allergica alla polvere! E se muori, per colpa della polvere?» disse velocemente la bambina.
«La smetti di ripetere "polvere"?»
«Smettetela! Alìce, hai 18 anni, smetti di comportarti come Charlotte!» disse la madre delle due ragazze, o meglio, la madre di Charlotte.
La ragazza sbuffò, ma era quello che doveva limitarsi a fare se non voleva essere cacciata di casa.
«Dove sono le camere da letto?» chiese dopo un po'.
«Al piano di sopra.»
Alìce salì in fretta e furia le scale, piazzandosi nell'ultima camera di quel corridoio.
La camera era grande e spaziosa, con al centro un grande letto a baldacchino.
Alla sua destra c'era un mobiletto con un enorme specchio sopra.
I suoi avevano speso una fortuna per comprare quella villa.
Si erano trasferiti a Rëinsburg solo perché l'azienda del padre di Charlotte, Thomas Johanson, si era trasferita a pochi chilometri dalla città.

Alìce si guardò allo specchio.
Completamente ricoperto dalla povere, dava di lei un'immagine opaca, spenta.
I capelli rossi le ricadevano lungo le spalle, e gli occhi azzurri contrastavano il grigio della polvere.
Prese il suo iPhone dalla tasca posteriore dei suoi jeans, sbloccandone lo schermo e attivando la fotocamera interna.
Si scattò una foto, ma a rivederla rimase pietrificata dall'immagine che quello smartphone le stava mostrando.
Alla vetrata dietro di lei si intravedeva l'ombra di uno strano essere, piccolo e leggermente rotondo.
Istintivamente, spaventata, si voltò verso la grande finestra.
Ma non c'era nessuno.
Ricontrollò la foto al telefono. Non c'era nulla di strano.
Solo il suo viso incorniciato dai capelli rossi e le poche lentiggini su di esso.
Nulla di paranormale.
Dovrei smetterla di drogarmi, disse fra se e se'.
«Alìce, scendi ad aiutarci con i bagagli!» urlò Claire, la madre di Charlotte, dal piano di sotto.
«Sì, arrivo.» urlò la ragazza uscendo dalla camera e chiudendo la porta dietro di se'.
Quella casa le sembrava strana.

Poco prima della porta d'ingresso notò una stanza dalla quale si intravedeva un'enorme libreria ed un oggetto coperto da un enorme telo grigio.
Spinta dalla curiosità entrò in quella stanza, scoprendo quel telo impolverato.
Al di sotto di esso c'era un pianoforte bianco panna.
In un angolino c'era inciso "1850".
«Se li porta bene 164 anni, sembra nuovo.» pensò ad alta voce Alìce.
In effetti sembrava proprio che i vecchi proprietari di quella villa ci tenessero molto all'integrità di quel piano.
Alìce si sedette sulla sedia, sfiorando alcuni tasti e dando suono a delle note smezzate.
Toccava il pianoforte con delicatezza, quasi con paura di romperlo.
«Allora Alìce, dove sei finita?» la richiamò Thomas.
La ragazza si alzò di malavoglia dal pianoforte, dirigendosi alla macchina.
Intanto era anche arrivato il camion dei traslochi.
«Questi sono tuoi.» disse Claire porgendole degli scatoloni con su scritto "Alìce".
La ragazza gli prese, trasportandoli in camera sua.

«Allora, cosa ve ne pare della nostra nuova casa?» chiese entusiasta Claire, sedendosi a tavola insieme alla famiglia.
Alìce non parlò. In quella casa le sembrava succedessero cose strane.
«A me piace molto, solo che Alìce si è presa la camera più grande.» disse Charlotte.
La madre guardò male la ragazza coi capelli rossi.
«Tranquilla, fra non molto quella camera sarà libera.»
«Ed ora cosa pensi di fare, Claire? Mi caccerai di casa?» domandò all'improvviso Alìce.
«Perché Alìce non ti chiama mamma?» chiese Charlotte.
Claire guardò male Alìce, ma non rispose a nessuna delle due domande.
«Domani dovrò scendere nel seminterrato a controllare le tubature del riscaldamento. Anche se siamo a inizio ottobre fa freddo.» si intromise Thomas, per svariare il discorso.
«Io salgo a dormire.» detto questo, Alìce si alzò da tavola, andando nella sua nuova camera da letto.

Non appena entrata nella stanza, si buttò sul letto.
Come primo giorno nella nuova villa, non era stato un granché.
Ma doveva accontentarsi.
L'indomani le sarebbe toccato sistemare tutte le sue cose nella camera, e non si sarebbe di certo divertita.
Chiuse gli occhi e, in men che non si dica, sprofondò nel sonno più totale.

Si risvegliò a causa della suoneria del suo IPhone.
Era il suo ex che la stava chiamando.
Non voleva parlarci, quindi rifiutò la chiamata.
Pochi secondi dopo le arrivò un messaggio, ma non lo lesse.
Dopo aver realizzato che quello era il suo secondo giorno in quella villa, e che doveva sistemare tutti le sue cose, si alzò di malavoglia dal letto, scendendo in cucina a fare colazione.

Non c'era un granché in frigo, solo degli yogurt.
Ne prese uno al cocco.
«Non sei ancora uscita a fare la spesa?» chiese Alìce richiudendo la porta del frigo e andando ad aprire un cassetto vicino al lavandino, estraendone un cucchiaio.
«Sono ancora le otto di mattina» rispose tranquilla Claire «dove dovrei andare?».
«Giuro che non lo sapevo.»
Alìce era un po' scombussolata.
Mai le era capitato di svegliarsi così presto.
A Lowerz, se a mezzogiorno era sveglia era già un miracolo.
Thomas entrò in cucina.
«Alìce, ho dimenticato la tronchesi sotto, nel seminterrato. Potresti scendere a prenderla?»
«Sì, ora vado.»

Appena scesa nel seminterrato, Alìce vide immediatamente la tronchesi in acciaio che suo "padre" aveva dimenticato.
Ma notò anche un piccolo comodino ricoperto di polvere e chiuso con un grosso lucchetto.
Un qualcosa la incitava ad aprirlo. Prese l'oggetto che Thomas le aveva detto di riportare, e cercò di rompere il lucchetto.
All'ennesimo tentativo ci riuscì,  ma a causa del legno vecchio era difficile aprire lo sportello del comodino.
Rimase sorpresa quando, appena aperto, nel mobile non c'era nulla. Solo che, dall'altra parte, il legno era rovinato, lasciando un grande foro.
Richiuse lo sportello, riprendendo la tronchesi e risalendo in casa.
Intanto, fuori, c'era un essere che la guardava dalla sottile finestra del seminterrato.
Era lei.
***
Ecco il secondo capitolo!
Beh, finalmente ho scritto proprio ciò su cui si baserà la storia.
Alìce.
Voglio avvisare che più in avanti (o almeno, probabilmente) si tornerà a parlare di Clarìssa, e della sua famiglia.
Per ogni dubbio o domanda potete anche chiedere nella recensione, ma per la maggior parte si spiegherà nei prossimi capitoli!
In realtà volevo anche mettere un banner, ma non riuscivo a trovare l'immagine perfetta.
Ci sarebbe qualcuno disposto a farmene uno?
Broken Smile Smoke.

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Capitolo 3
*** Biercattem. ***


Capitolo 1 - CdP

Capitolo 3 - Biercattem.


«Ciao sfigata!» le disse un ragazzo insieme ad altri amici, passandole velocemente di fianco.
Alìce si voltò «Come, scusa?» rispose inarcando un sopracciglio.
Il ragazzo tornò indietro, mentre il resto del gruppo rideva silenziosamente «Oltre a sfigata sei pure sorda ahahah»
Alìce prese il coltellino svizzero che aveva nella tasca anteriore dei jeans, aprendo la lama e avvicinandola pericolosamente al collo del ragazzo, che nel frattempo aveva sbattuto a un muro.
Gli altri ragazzi rimasero alcuni istanti a guardare, ma poi scapparono via.
«Okay okay scherzavo! Ti prego, allontana la lama!» la supplicò il tipo.
«Ora che non ci sono i tuoi amichetti non lo fai più il figo.» gli disse Alìce guardandolo male, ma si allontanò.
Il ragazzo fece un sospiro di sollievo.
«Sei nuova da queste parti, vero? Piacere, io sono Beck» disse porgendole la mano.
«Alìce.» rispose la ragazza, stringendogliela.
«Scusa per prima, è che..»
Alìce si voltò dall'altra parte, senza ascoltarlo, iniziando a incamminarsi verso casa, lontana meno di un chilometro.
Quel pomeriggio era uscita per prendere un po' d'aria fresca, ed anche per farsi una panoramica della città.
Non c'erano molte persone a quell'ora, maggior parte di loro era a lavorare.
Oltretutto faceva molto freddo, alcuni telegiornali dicevano che fra non molto avrebbe nevicato.

Era capitata proprio davanti a un vecchio pub, il "Biercattem", quando le si era avvicinato quel gruppetto di ragazzi.
«Che fai, te ne vai?» le chiese Beck, correndole dietro.
Non appena l'ebbe raggiunta la tirò da un braccio, verso di se'.
«Ma cosa vuoi, me lo spieghi?» domandò Alìce.
«Va bene, forse non abbiamo iniziato con il piede giusto, ma.. Che ne dici di dimenticare quello che è successo negli ultimi 5 minuti?»
«Dimenticare come io, per poco, non ti abbia tagliato la gola, uccidendoti?»
Il ragazzo deglutì «Allora.. Amici?»
Alìce lo interruppe.
«Conoscenti? Mi basta. Come hai detto di chiamarti? Jack?»
«In realtà sarebbe Beck.»
«Perfetto Beck. Mi spiace, ma ora devo andare.»
«Posso almeno avere il tuo numero di telefono?»
Alìce sbloccò lo schermo del suo iPhone, porgendoglielo al ragazzo.
«Scrivimi il tuo numero, appena posso ti mando un messaggio» disse la ragazza, aspettando che Beck finisse di scrivere.

Passando davanti casa sussultò nel vedere uno gnomo nel giardino, proprio alla destra della porta.
Ma Claire e Thomas quella mattina erano andati al centro commerciale, e molto probabilmente avevano portato loro quell'oggetto.
Cercò nella sua borsa di eco-pelle le chiavi della casa, ed appena trovate aprì il portone della villa.
Nonostante erano ancora le cinque di pomeriggio, in quella casa non filtrava molta luce.
Il corridoio principale era buio, non c'era nessuno in casa.
Entrò nello studio, gettando la borsa a terra e recandosi all'enorme libreria.

Un libro dalla copertina verde suscitò la sua attenzione.
Di sopra c'era scritto "Familie VànMeyer"
Si sedette su una poltrona vicino la finestra che affacciava sul giardino.
Da fuori proveniva un po' di luce, e Alìce ne approfittò per sfogliare le pagine del libro.
In prima pagina c'era il ritratto di una  famiglia.
Devono essere stati questi i VànMeyer, pensò Alìce.
A volte le capitava di scorgere questo cognome fra i libri di scuola.
Già. Quando ancora andava a scuola.

Si svegliò d'improvviso, respirando affannosamente. Il libro che aveva in grembo cadde a terra.
E dietro di lei si sentì qualcosa frantumarsi.
Sentiva come se qualcuno avesse tentato di affogarla nel sonno.
Ma non se lo era solo immaginato.
Si voltò dietro, e vide una piccola scheggia di ceramica bianca.
Nient'altro.
Le squillò il telefono.
«Pronto?»
«Alìce Johanson?»
«Sì, sono io. Chi parla?»
«Chiamo dal pronto soccorso di Rëinsburg, i signori e la bambina Johanson hanno avuto un incidente. Sono in condizioni gravi. Può raggiungerci al più presto?»
«Certo.. Arrivo subito» disse Alìce chiudendo la chiamata.
Pensò fosse il momento giusto di chiamare il ragazzo che aveva incontrato poche ore prima, Beck.

Uno squillo, due, tre..
Alìce iniziava ad innervosirsi, se non fosse per il fatto che Beck al quarto squillo decise di risponderle.
«Pr..»
«Beck, sono Alìce, quella di oggi pomeriggio. Sai guidare una macchina?»
«Beh, sì, perché?»
«Perfetto, ti aspetto sotto casa mia fra 10 minuti.»
La ragazza stava per chiudere, quando..
«Ma non so nemmeno dove abiti!»
Giusto, pensò Alìce.
«Va bene, allora ci vediamo.. Al pub, quello dove ci siamo incontrati oggi pomeriggio, fra 10 minuti.»

Beck si trovava nella sua macchina, davanti al pub.
Stava aspettando Alìce.
Quella ragazza è pazza, si ritrovò a pensare più di una volta dopo averla incontrata.
Pochi secondi dopo arrivò Alìce, aprendo lo sportello e sedendosi in macchina.
«Al pronto soccorso.»
«Guarda che non sono mica un taxi» le disse Beck.
«O ci vai adesso perché te lo dico io, o ci vai più tardi con la gola tagliata.» lo minacciò la ragazza.
Il ragazzo accese la macchina.
«Non ti abituerai mai a me.» disse Alìce, guardando la strada davanti a se' e sorridendo.

«Johanson, sono la figlia.» disse Alìce non appena entrata in ospedale, ad uno dei medici che passavano di lì.
«Sala operatoria, proseguendo questo corridoio e subito dopo a destra.» indicò un medico.
«Vieni.» la ragazza prese Beck da un braccio, strattonandolo fino alle sedie davanti la sala operatoria.

«I tuoi genitori hanno... Avuto un incidente? Perché non me lo hai detto subito?» chiese Beck.
«Perché non sono i miei veri genitori.» disse la ragazza appoggiando la testa alla spalla del ragazzo.
«Sei stata adottata?»
«In un certo senso.. Sì.» ammise Alìce.
«Non ti vedo minimamente preoccupata per le loro condizioni, perché?» domandò Beck.
«Te l'ho appena detto. Non sono i miei genitori. Mi hanno adottata solo per.. Non lo nemmeno io.»
«Hanno una figlia naturale, o tu sei..»
«No, hanno avuto una figlia mesi dopo il mio arrivo.» raccontò Alìce.
Pochi minuti dopo fu come risvegliata da un sogno.
«Ma sinceramente, io cosa ci faccio ancora qui?» chiese a Beck, come se il ragazzo avesse la risposta pronta.
Lui la guardò interrogativo.
«Riaccompagnami a casa.» disse Alìce alzandosi dalla sedia.
Il ragazzo non se lo fece ripetere due volte, si alzò dalla sedia e si diresse fuori, assieme alla ragazza.

«Vuoi dirmi dove abiti, o devo lasciarti davanti al pub?» domandò Beck, una volta arrivati nel centro di Rëinsburg.
«No, svolta a destra e poi a sinistra. Così mi lasci davanti casa.»
«Sì, siamo arrivati.» disse il ragazzo pochi secondi dopo.
Alìce gli sorrise, scendendo dalla macchina.
Beck aspettò che lei entrasse in casa, per riaccendere la macchina ed andare via.
Ma Alìce rimase immobile quando, guardando in vicinanza della porta, non c'era nessuno gnomo da giardino.
Il ragazzo abbassò il finestrino dal lato del passeggero.
«Successo qualcosa?»
La ragazza scosse la testa «No.. no..»
Era convinta di non essere pazza.
Beck scese, avvicinandosi a lei.
«Che succede?» le rifece la domanda.
«Niente, solo che.. Stanno succedendo cose strane in questa casa, lo giuro. Non sono pazza.» disse al ragazzo con le lacrime agli occhi.
Improvvisamente si ricordò di quello che le era successo il pomeriggio, prima di ricevere la chiamata dal pronto soccorso.
Estrasse le sue chiavi dalla borsa e, prendendo per mano Beck, si diresse al portone.
«Guarda che se mi volevi portare a letto, potevi pure dirmelo apertamente. Non mi sarei offeso, anzi.» parlò il ragazzo.
«Oh, ma per favore!» rispose acida Alìce.
Lei voleva solo parlare a qualcuno di quello che le stava succedendo.

Entrarono nella camera della ragazza, la quale andò subito allo specchio a controllare di non avere segni sul collo.
«Beck, guarda qua.» disse voltandosi verso di lui, facendogli notare i segni rossi che aveva.
«Chi te li ha fatti quelli?» domandò il ragazzo.
Alìce stava per parlare fin quando, per caso, guardò il corridoio.
C'era un essere basso che camminava. Proprio quello che aveva visto il primo giorno alla vetrata.
Aveva un'espressione malefica sul viso di ceramica.
«Beck, è dietro di te.» disse tremando e con le lacrime agli occhi Alìce, indietreggiando «chiudi la porta.»
«Chi c'è dietro di me?» chiese il ragazzo, voltandosi indietro.
«CHIUDI QUELLA CAZZO DI PORTA!» urlò piangendo Alìce.
Beck, pur non essendosi accorto di nulla, chiuse la porta a chiave.
Sul corridoio aveva visto solamente delle ombre, ma probabile non erano altro che gli alberi che facevano sovrastavano la luce dei lampioni.
«Era lui, era lì.» disse piangendo Alìce, accasciandosi a terra.
***
Ed eeeeeeeeccomi qua!
Sì, succedono cose parecchio strane in quella casa,
O forse è Alìce che si fa di allucinogeni?
IL NOME DEL PUB È INVENTATO. O almeno credo.
Che ve ne pare di Beck? Anche se non sembra, sarà un elemento importante per il seguito della storia.
Claire, Thomas e Charlotte hanno rischiato la morte.
O forse la rischiano ancora.
Ma comunque.
Finalmente si è saputo (insomma) delle origini di Alìce.
Che dire, quella ragazza non avrà vita felice.

Alla prossima,
Broken Smile Smoke.

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Capitolo 4
*** Jo. ***


Capitolo 1 - CdP

Capitolo 4 - Jo.


«Vuoi raccontarmi di quello che ti sta succedendo?» le chiese gentilmente Beck, dopo che la ragazza ebbe finito di piangere.
Alìce esitò qualche istante, poi iniziò a raccontare al ragazzo tutto quello che le era accaduto, anche prima di trasferirsi a Rëinsburg.
«Poi, l'altra mattina, ero scesa sotto nel seminterrato e c'era qualcosa che mi incitava ad aprire un piccolo mobile, chiuso con un lucchetto.»
«E cosa c'era dentro?»
«Assolutamente niente, è questo il punto! C'era un enorme buco sul fondo. Come se qualcuno o qualcosa avesse scavato per poterne uscire.»
Beck la guardò.
«Nel seminterrato?»
«Sì.»
Il ragazzo si alzò dal letto di Alìce, dirigendosi verso la porta.
«Dove stai andando?» chiese la rossa, guardandolo perplessa.
«Dov'è il seminterrato?»
La ragazza si alzò dal letto, avvicinandosi a Beck ed aprendo la porta.
«Andiamo.»

Scesero nel seminterrato, Alìce si avvicinò dove giorni prima aveva aperto il mobiletto. Ma non c'era nulla.
«Era qui il mobile che avevo aperto. Era proprio qui!»
«Sarà stato spostato.» concluse Beck.
Ma la ragazza non ne era minimamente convinta.
Guardando a terra si accorse che, proprio dove prima c'era il mobile di legno, sul pavimento vi era un'enorme macchia nera.
«Guarda qui!» disse Alìce, facendo segno a Beck di avvicinarsi.
«Sembra cenere.»
«Ma è solo nel punto in cui c'era il mobile, è strano.» disse la ragazza.
«Come se qualcuno lo avesse bruciato..»
«Già» riflettè Alìce «ma chi?»
«È tutto così surreale.. Guardami negli occhi e dimmi la verità» disse Beck, prendendole il volto tra le mani «ti droghi?»
Alìce lo guardò e sorrise.
All'improvviso gli tirò un sonoro schiaffo in pieno volto.
Beck si allontanò, spaventato.
«TU SEI PAZZA!» gli urlò.
Un rumore provenì dal piano di sopra, come se qualcosa di grosso si fosse rotto.
«L'hai sentito anche tu?» chiese la ragazza.
Beck annuì.
«Vedi? Non sono pazza!» esclamò Alìce.
Dal piano di sopra provenì un altro rumore, assieme a dei suoni.
Era come se qualcosa fosse caduto sul pianoforte.

Alìce prese un'ascia da sopra una mensola, avvicinandosi alla porta.
«Cosa vuoi fare con quella?» chiese Beck con una brutta impressione.
«Salgo sopra» rispose Alìce, avvicinandosi al ragazzo e prendendolo per un braccio con la mano libera «e tu vieni con me.»
«Sei proprio pazza.» sussurrò fra se e se' il ragazzo.
La ragazza lo sentì, e lo guardò male.
Beck decise di tacere.

Arrivati davanti alla porta dello studio, Alìce rimase stupefatta.
Il pianoforte bianco era stato scaraventato dall'altro lato della stanza.
Dalla vetrata passò veloce un qualcosa di piccolo.
Alìce, presa dall'adrenalina, prese l'ascia e la lanciò contro quell'essere.
I vetri della finestra si frantumarono come un miliardo di cristalli, ma c'era qualcos'altro che si era frantumato.

Oltre ai pezzi di vetro c'erano anche dei piccoli cocci di ceramica, bianchi e rossi.

La ragazza corse nel punto in cui secondi prima aveva gettato l'ascia, nel mentre Beck si avvicinava al pianoforte, ormai distrutto.
«Guarda qui» disse il ragazzo facendo cenno ad Alìce di avvicinarsi.
La ragazza sussultò nel vedere che sopra i tasti del pianoforte, gli unici rimasti integri, c'era il libro che lei stessa aveva sfogliato quel pomeriggio.
Familie VànMeyer.
«Hai già letto questo libro?» le chiese Beck.
Alìce scosse la testa.
«Bene, allora penso che sia arrivato il momento di farlo.» disse infine il ragazzo, prendendo il libro e dirigendosi fuori dalla casa della ragazza.
«Dove stai andando?» chiese Alìce inarcando un sopracciglio.
«A casa mia, questo posto non è sicuro.» disse Beck aprendo lo sportello della sua auto e sedendosi.
«Dai, sali in macchina.»
Mentre la ragazza si avvicinava all'auto di Beck, uno gnomo di ceramica le corse incontro, aggredendola.
«Tu non vai da nessuna parte..» disse lo gnomo da giardino.
«Oh, merda!» esclamò il ragazzo, uscendo dalla macchina e correndo ad aiutare Alìce.
Cercò di staccare lo gnomo di ceramica dalla ragazza, e quando ci riuscì lo gettò contro un albero, ma il colpo non bastò a romperlo.
«Svelta, sali in macchina!»
Beck si accorse che la ragazza zoppicava, così le aprì la portiera e l'aiutò a sedersi.
Poi, velocemente, tornò al lato del guidatore, accese la macchina ed in tutta fretta partì.
Bastarono pochi secondi per allontanarsi dalla villa Johanson.
«Che cos'era quello?» chiese urlando Beck.
«Ed io cosa pensi che ne sappia?» rispose a tono Alìce.

Il ragazzo guidava a circa 140 km/h, in modo da arrivare a casa sua in meno di 5 minuti.
Nella macchina regnava un silenzio assoluto.
Le strade erano deserte, ed Alìce si chiese se fosse normale che alle sette di sera non si vedeva nessuno passeggiare sulle vie.
Dal polpaccio della ragazza usciva un po' di sangue.
«Quell'essere mi ha morsa!» esclamò la ragazza.
Beck diede un'occhiata veloce alla ferita, per poi togliersi la camicia a quadri rossa, rimanendo con la canottiera grigia scura.
«Tieni, cerca di tamponare il sangue con questa.» disse porgendole la camicia.
Alìce fece come le aveva detto il ragazzo, e poi lo guardò.
Con tutto quello che le era successo nelle ultime ore non aveva fatto minimamente caso a come fosse fisicamente il ragazzo.
Aveva i capelli scuri e un po' lunghi, gli occhi azzurri attenti alla strada, lo sguardo preoccupato e dei lineamenti del volto abbastanza pronunciati, dalla canottiera si intravedeva un fisico magro, ma muscoloso.

Dopo pochi secondi arrivarono davanti una piccola villetta.
Beck scese dalla macchina, facendo il giro ed aprendo lo sportello ad Alìce.
La fece scendere e poi le passò un braccio dietro alla schiena, aiutandola a camminare.
«No dai, ce la faccio da sola.» disse la ragazza cercando di distaccarsi da Beck. Ma lui non la mollò.

«Vuoi qualcosa da bere?» le chiese gentilmente Beck.
Alìce si avvicinò al bancone della cucina.
«Sì, grazie.»
«Cosa vuoi? Acqua, birra, vodka, un mojito?»
La ragazza lo guardò meravigliata.
«Una birra va più che bene.»
Il ragazzo estrasse due birre dal frigo, aprendole e offrendogliene una a lei.
Alìce ne bevve un sorso.
Beck si ricordò della ferita al polpaccio della ragazza, così prese la cassetta del pronto soccorso per medicarla.
Le fece cenno di sedersi sul bancone, iniziando a disinfettarle il morso, ed infine bendando il polpaccio con una garza.

«Grazie per tutto quello che stai facendo» disse Alìce.
Il ragazzo la guardò con aria interrogativa.
La rossa sorrise «Fa come se non avessi detto niente.»
«Grazie per cosa?» domandò Beck, senza tener conto di ciò che la ragazza aveva detto prima.
«Ti stai prendendo cura di me. Nessuno lo aveva mai fatto prima.»
«Figurati, per così poco.» le sorrise il ragazzo.
Alìce restò a guardare sorridendo Beck per alcuni secondi, poi distolse lo sguardo.
Il ragazzo prese il libro da sopra un mobile lì vicino, facendo strada ad Alìce verso il salotto.

«Albert VànMeyer» iniziò a leggere Beck «nato il 17 febbraio del 1814. Ricco imprenditore di quei tempi e scrittore. Nel 1840 prese in sposa Isabel Van Der Meer e cose varie.» finì iniziando a saltare varie pagine.
«Che stai facendo?» chiese Alìce.
«In queste pagine parla solo delle origini della famiglia!»
La ragazza prese il libro dalle mani di Beck, aprendo una pagina a caso.
Ma il libro le scivolò, cadendo a terra.
«Perché adesso lo hai buttato a terra?» chiese il ragazzo.
«Mi è scivolato dalle mani!»
Beck la interruppe «Guarda!» disse indicandole il libro.
Cadendo a terra, il libro rimase aperto su una pagina.
C'era illustrato uno gnomo bianco e rosso.
«È lui!» esclamò Alìce.
«Nel 1864 Walnoff John, un uomo d'affari inglese, regalò ad ogni unità famigliare un dwarf, uno gnomo da giardino di ceramica. Erano disponibili in varie colorazioni, ma l'unico bianco/rosso capitò alla famiglia VànMeyer. Lo stesso giorno della ricezione dell'oggetto Isabel Van Der Meer notò in sua figlia, Clarìssa VànMeyer, strani atteggiamenti. La bambina sembrava parlasse con lo gnomo, nominandolo "Jo". Alcuni giorni dopo, Clarìssa fu trovata nella sua camera, la più grande della casa, tremante sul letto. Sembrava infatti che la sua immaginazione l'abbia portata a credere che l'oggetto l'avesse aggredita nell'istante in cui lei fu lasciata da sola nella sua camera. Oltre questo, la finestra vicino al suo letto era frantumata. Su richiesta di Clarìssa, "Jo" fu rinchiuso con un lucchetto in un mobile di legno forte e pesante nel seminterrato. Dopo quella sera fu come se una maledizione cadde sulla famiglia. Clarìssa passò cinque mesi in terapia con lo psicologo Rachel Spelzer e, dopo poche settimane dalla fine della terapia, il suo corpo fu ritrovato senza vita vicino al mobile in cui era rinchiuso lo gnomo. » lesse Beck, sospirando.
Alìce era con lo sguardo perso nel vuoto.
«Tutto bene?»
La ragazza annuì «Sì continua a leggere.»
«Cosa?»
«Cos'è successo alla famiglia?»
«Albert VànMeyer, dopo quattro mesi di malattia, morì di infarto quella stessa notte. Isabel Van Der Meer si ammalò gravemente di una malattia che le fece anche perdere la vista, morì 12 giorni dopo la morte improvvisa di Clarìssa VànMeyer
«Tutto questo è strano, e sembra così surreale..» pensò Alìce.
«Ma sembra che tutto sia successo veramente. E tu ne hai la prova.» sorrise Beck, indicandole la gamba fasciata.
Lei lo guardò male.
«Non vedo cosa ci sia da sorridere. Passami il libro, voglio saperne di più di questa Clarìssa.» disse Alìce.
Il ragazzo le porse il libro, e lei ne sfogliò alcune pagine.
«Clarìssa VànMeyer. Nata a Rëinsburg il 12 luglio del 1855. Secondogenita della famiglia VànMeyer. Amica d'infanzia di Fernèr De LaVièr, morto nel 1864 travolto da un carro trainato da quattro cavalli. Dopo la morte di Fernèr, la bambina iniziò ad avere strani comportamenti, iniziando a parlare con un oggetto inanimato. Venne ritrovata deceduta nel seminterrato. La famiglia VànMeyer si estinse con la morte di quest'ultima, che bella storia.» commentò Alìce.
«Ma se Clarìssa era la secondogenita, i VànMeyer avranno avuto un altro figlio, o figlia.» suppose Beck «Aspetta, guarda il ritratto di Clarìssa!» le disse indicandole la foto.
La ragazza deglutì «È identica a me.»
In effetti i lineamenti del viso, il colore degli occhi e dei capelli della bambina nella foto erano identici. Tranne la corporatura.
Clarìssa sembrava un po' cicciottella, mentre Alìce era abbastanza alta e magra.
«Già» sospirò il ragazzo.
Alìce sfogliò alcune pagine.
C'era illustrato un ragazzo, identico a Clarìssa, ma magro e con alcune lentiggini sul volto.
«Valentìn VànMeyer, primogenito della famiglia. Nacque il 30 ottobre del 1844. All'età di 19 anni, il 21 gennaio del 1864, partì in Svizzera. Non si ebbero più sue notizie. Il padre, Albert, preferì crederlo morto, celebrando così il suo funerale il 10 febbraio dello stesso anno
«Che bella famiglia.» commentò Beck «Non dice nient'altro?»
«No, vai a prendere il computer.» ordinò Alìce al ragazzo.
«Me lo stai ordinando?»
«Esatto.»

Alìce stava osservando le foto poggiate sulla mensola del camino.
In alcune c'era Beck con una ragazza, molto diversa da lui, quasi l'opposto.
Bionda con gli occhi scuri, e poco più bassa di lui.
Probabilmente era la sua ragazza.
Pochi minuti dopo Beck tornò nel salotto, con sottobraccio un computer portatile.
«Non mi avevi detto di essere fidanzato» disse Alìce, indifferente.
«Non pensavo fossi gelosa.» la stuzzicò il ragazzo, ma poi tornò serio «No, è solo una mia ex.»
«Ti ha lasciato lei, vero?» domandò sicura Alìce.
Il ragazzo la guardò stranito.
«Dubito che, se l'avessi lasciata tu, qui ci fossero ancora le vostre foto.»
Beck sospirò, e ad Alìce non parve il caso di fare altre domande.
Il tipo accese il computer, facendo delle ricerche su internet.

«Dopo il 1864 non ci fu nessun altro caso del genere, a quanto pare.»
«Nessun altro ha vissuto in quella casa?»
Beck scosse la testa, ma la ragazza non ne era convinta.
Dentro di se' sapeva che era impossibile il fatto di essere andata a vivere in quella villa dopo i VànMeyer.
Il ragazzo ricontrollò meglio.
«In realtà.. Qualcuno che ha vissuto in quella casa prima di te c'è.»
«Chi è?» chiese Alìce.
«Emilyenne Rosmein, una vecchia signora che viveva lì con il marito ed il figlio.»
«Si sa perché se ne sono andati?»
«Il marito, morto nel 2010, lavorava in un'azienda del vetro. Poi l'azienda si è trasferita, e lui ha dovuto seguirla.» lesse Beck «Quando ci vivevano loro non c'era nulla di strano, la casa era tranquilla. Niente Jo, niente strani accaduti. Quello gnomo cercava solo un VànMeyer. Sei il secondo caso.»
La ragazza scosse la testa.
«È impossibile. La prima e l'ultima volta in cui lui si è manifestato è stata nel lontano 1800, ad una bambina di solo 9 anni. Ora ne sono passati esattamente 150 e, di come ho capito, lui è in continua ricerca di una sua discendente. Ma la famiglia si è estinta ancor prima del 1900, perché è tornato solo adesso? Cosa vuole dalla mia famiglia?»
«Lui non vuole la tua famiglia, lui vuole te. Qualcuno che ha il sangue dei VànMeyer.» disse Beck, guardandola negli occhi.
«Cosa? No. Non sono io ad avere il sangue dei VànMeyer.» Alìce continuava a scuotere la testa.
Era impossibile che fosse lei l'ultima VànMeyer a vivere in quella casa.
Forse era successo solamente per caso.
«Questo no di certo, mi sembra ovvio che se tu fossi VànMeyer lo sarebbero anche i tuoi genitori, e..»
La ragazza lo guardò, inarcando un sopracciglio.
«Ah.. Sì, dimenticavo. Sei stata adottata.»
Alìce fece finta di nulla.
«Sai chi sono i tuoi genitori naturali?» domandò Beck.
«Mi stai prendendo in giro?»
«No, non volevo..» cercò di scusarsi il ragazzo.
«Fa niente, cosa vuoi sapere?» chiese sgarbata la ragazza.
Beck si sentì in colpa «Se non vuoi..»
«Figurati, tanto entro il fine mese me ne andrò da Rëinsburg, questo è sicuro.»
«Perché?»
Alìce fece un respiro profondo, prima di iniziare a raccontare.
«È quello che ormai faccio da due o tre anni, a causa del lavoro di Thomas e Claire. Cambio sempre città.»
«Che lavoro fanno?»
«Thomas lavora in una ditta di automobili, Claire è un avvocato.»
«Tu, invece? Hai finito la scuola?»
«Ogni fine mese sono in una città diversa. Avevo iniziato il liceo artistico, ma ho dovuto lasciare.» spiegò Alìce.
«Ogni mese?»
La ragazza annuì.
«Poi, una volta è successo che ci siamo fermati per 4 mesi in una città, prima di arrivare qui.»
«Immagino che tu non abbia relazioni stabili.»
«No, ma.. A Schweizer avevo incontrato un ragazzo, Oliver, poco più grande di me. Poi però ci siamo lasciati.» disse Alìce, quasi sussurrando le ultime parole.
I ricordi con quel ragazzo erano pochi, e offuscati.
«Diciamo che, seguendo lui, sono entrata nel giro della droga. O meglio, ho approfondito.»
Beck sgranò gli occhi.
Certo, poche ore prima le aveva fatto delle battute sul "Ti droghi?", ma non pensava che la ragazza lo facesse veramente.
«Lo fai ancora?» domandò, spinto dalla curiosità.
«L'ultima volta è stata appena arrivata qui. Poi, tra lo gnomo e altre cose, non ne ho avuto bisogno» disse sorridendo la ragazza «Sei una bambina complicata e difficile, non vuoi appartenere a nessuno, me lo ripeteva sempre una delle responsabili dell'orfanotrofio del Michigan, dove ho passato i miei primi 9 anni di vita.»
Il ragazzo era sempre più curioso di quello che raccontava Alìce.
«Vieni dal Michigan?»
«Non lo so più.» disse la ragazza scuotendo la testa, con le lacrime agli occhi «Fino a mezz'ora fa sapevo solo che mia madre, un'alcolista coi contro e con grossi problemi economici, mi ha partorito in un orfanotrofio ed è scappata il giorno dopo, lasciandomi lì. E adesso vengo a sapere che vengo da una famiglia estinta nel lontano 1800, perseguitata da una sottospecie di maledizione e che, senza ombra di dubbio, a causa di questa non supererò il fine settimana.» concluse sorridendo sarcasticamente «Quindi, è la mia vita una merda?»
Beck non ebbe il tempo di rispondere.
«Sì, lo è.» disse Alìce.
«Mi.. Sorprende tutto questo che hai dovuto passare in.. Aspetta, ma quanti anni hai?» le chiese il ragazzo.
«Fra non molto dovrei averne 19.»
«Dovresti?»
La ragazza sospirò «Già. Ormai non sono sicura nemmeno di questo! Non importa, quella Emilyenne che ha vissuto nella villa.. È ancora viva?» chiese, cambiando discorso.
Beck osservò lo schermo del computer.
«No, purtroppo è morta quattro giorni fa.»
«Aspetta, quando?» chiese titubante Alìce.
«Quattro giorni fa, il.. 10 ottobre, oggi è 14..»
«Beck..» lo interruppe la ragazza, ma lui non la ascoltò.
«.. e fra meno di due ore sarà 15.»
«BECK!» si ritrovò ad urlare Alìce.
«Che c'è?»
«Il 10 ottobre, quattro giorni fa, mi sono trasferita qui.»
«Ma dai, sarà solo un caso.»
Lei lo guardò, incredula «Solo un caso? Non c'è nulla di normale da quando sono arrivata in questa città!»
«Senti, io non..»
Beck fu interrotto a causa di un forte rumore proveniente dalla cucina.
Insieme ad Alìce si alzò velocemente dal divano, e si diressero nella stanza.
La finestra era frantumata, ed entrava un vento freddo.
In mezzo a tutte le schegge di vetro c'era Jo.
Dopo i colpi ricevuti nella villa dei VànMeyer aveva il naso di ceramica rotto, ed altre parti rovinate.
E degli occhi rossi, che nessuno dei due aveva notato prima.
***
Un avviso a tutti quelli che vivono a Rëinsburg: fatevi un'assicurazione sulla vita, ed anche sulle finestre.
Arriverà Jo a frantumarle tutte.
Probabilmente non è stato un granché di capitolo, ma dovevo parlare dei VànMeyer e dire di più sulle origini di Alìce.
Serviranno.

Alla prossima,
Broken Smile Smoke.

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Capitolo 5
*** Maxìm. ***


Capitolo 1 - CdP

Capitolo 5 - Maxìm.


«Oh, di nuovo lui no!» esclamò Beck.
Poi lanciò un mazzo di chiavi ad Alìce, che le prese al volo.
«Vai ad accendere la macchina!»
Alìce corse alla porta d'ingresso, provandola ad aprire varie volte.
«È bloccata!» gridò.
Nel mentre, Beck si muoveva cauto verso lo gnomo, fin quando questo non estrasse un'ascia.
La ragazza si sporse in cucina, cercando di aiutare Beck, fin quando non vide lo gnomo con un'ascia.
«Sto stronzo mi prende per il culo!» esclamò Alìce.
«Che ci fai qui? Ti ho detto di uscire!» la rimproverò il ragazzo.
Alìce, per tutta risposta, prese la prima cosa che trovò, la macchinetta del caffè, e la scagliò contro allo gnomo, rompendogli qualche altro pezzo di ceramica.
I due corsero nel corridoio, e Beck cercò di aprire la porta.
Dopo numerosi tentativi ci riuscì, ma Jo si era ripreso, andando da loro.
La ragazza uscì, aprendo velocemente la macchina ed accendendola.
Nel frattempo, Beck era rimasto ad occuparsi dello gnomo, gettandogli addosso qualunque cosa gli capitasse.
«Voglio solo lei..» si sentì provenire dall'essere.
Intanto Beck gli lanciò addosso un piccolo scaffale del corridoio, uscendo fuori e salendo in macchina.
Alìce fece velocemente retromarcia, frenando di colpo per poi far uscire in fretta la macchina dal vialetto.
A quel punto accelerò, allontanandosi da quella casa.

«Ed ora, dove si va?» domandò Beck una volta che erano usciti dalla città.
«Non lo so, prendi il cellulare e cerca su internet il luogo in cui abita il figlio di quella Emilyenne.»
Il ragazzo si tastò le tasche dei jeans.
«Perfetto, ho perso il cellulare.» disse infine.
«Il mio credo sia rimasto a casa dello gnomo.» disse Alìce senza distogliere lo sguardo dalla strada.
Si sentì gli occhi del ragazzo piantati addosso, si voltò verso di lui.
«No.» gli disse scuotendo il capo.
«Alìce, dobbiamo.»
Alìce, era la seconda volta che la chiamava per nome.
«Beck, se io torno, tu vieni con me.» disse con tono autoritario, guardandolo negli occhi.
Ad un certo punto curvò velocemente la macchina, immettendosi in meno di un secondo nella corsia per tornare a Rëinsburg.

Appena aperta la porta Alìce cercò, al muro, l'interruttore per accendere la luce.
Al tatto, tutta la parete era scrostata.
Accese la luce, e si dimostrò che il tatto della ragazza non si sbagliava.
Tutte le mura erano diventate gialle, da alcune si intravedevano persino i mattoni, ed il pavimento era sporco di vernice secca.
I due ragazzi si avvicinarono alle scale, per andare in camera di Alìce a riprendere il cellulare.

Nella camera regnava il caos più totale, ed il letto a baldacchino era rotto.
Alìce cercò il telefono, per poi afferrarlo ed uscire dalla villa.
Di Jo non c'era traccia, tranne la casa semi-distrutta.
«Dove pensi che sarà?» domandò Beck, salendo in macchina.
«Probabilmente a distruggere qualche altra casa.» suppose la ragazza.
Alìce stava per entrare in macchina, quando per la mente le balenò l'immagine del libro.
«Beck.» richiamò il ragazzo.
Lui la guardò.
«Dobbiamo tornare a casa tua.»
«Per quale stupido motivo?»
«Il libro, quello dei VànMeyer.»
Il ragazzo sbuffò «Sali in macchina, appena arrivati a casa mia scendo e prendo il libro.»

Beck uscì tranquillamente dalla casa, a differenza di Alìce che, da quando il ragazzo era andato a riprendere il libro, teneva i cinque sensi in allerta, convinta che Jo sarebbe tornato mentre loro erano ancora lì.
Una volta salito e accesa la macchina, il ragazzo accelerò per poter uscire dalla città al più presto possibile.
Alìce accese il suo iPhone, cercando informazioni sul figlio della signora Emilyenne.
«Dice che abita a Lüdwisgslust, sai dove si trova?»
Beck distolse l'attenzione dalla strada, guardando la ragazza.
«È a sette ore da qui.»
«Saranno di meno se acceleri.»
«Ma è quasi mezzanotte, non possiamo aspettare domattina?» domandò il ragazzo.
«E dimmi, cosa pensi di fare fino alla mattina? Ti ricordo che quell'oggetto di ceramica è in giro per Rëinsburg, quindi prima lo uccidiamo e meglio sarà.» disse Alìce.
Capiva perfettamente Beck, anche lei era stanca, ma voleva che il ragazzo capisse che non potevano fermarsi, ne tanto meno tornare indietro.
Sapeva che Jo prima o poi gli avrebbe ritrovati.
Beck sospirò.
Conosceva da poco Alìce, ma già immaginava che non sarebbe stato affatto facile farle cambiare idea.

Dopo poche ore arrivarono a Lüdwisglust.
Beck rallentò la macchina, arrivando a viaggiare a 100 km/h.
«La casa di Maxìm è la trentesima della via principale.»
«Alìce, sono le sei di mattina. Se andiamo a suonare a casa di quello lì c'è un'alta probabilità che lui chiami la polizia o, peggio, che esca di casa con un fucile in mano!» la informò il ragazzo.
«Non è detto che debba veramente finire così.» disse Alìce sicura di se'.

Pochi minuti più tardi si ritrovarono a una serie di cottage rossi, la macchina di Beck avanzava lentamente lungo la via.
Arrivati davanti alla 30esima il ragazzo accostò, per poi scendere insieme ad Alìce dalla vettura.
Dopo aver suonato un campanello con sopra scritto "Rðsenteñ Maxìm" attesero qualche minuto, fino a quando un uomo sui cinquant'anni non aprì leggermente la porta.
«Cosa volete a quest'ora?» chiese bruscamente l'uomo.
«Maxìm?» domandò Beck.
«Sì, sono io. Ditemi in fretta cosa volete, prima che io chiami la polizia.»
Alìce prese parola «Sono Alìce Johanson, e mi sono trasferita da pochi giorni a Rëinsburg, nella villa Wërneslyed. La casa in cui vivevano i VànMeyer, e in cui ha vissuto lei. Lo gnomo che..» la ragazza non ebbe tempo di finire.
L'uomo chiuse la porta in faccia ai due ragazzi, che rimasero sbigottiti.
«Lo dicevo io che sarebbe andata a finire così.» sentenziò Beck «Ora che si fa?»
«Non lo so.» rispose delusa Alìce.
Il ragazzo tornò in macchina.
Non aveva una meta ben precisa di dove andare, ma si sarebbe fatto venire un'idea.
Dopo una mezz'ora arrivarono davanti all'insegna di un bar.
«Cosa ci facciamo qui?» chiese la ragazza.
«Sono le 7 del mattino, mi sembra logico che andiamo a fare colazione.» rispose Beck.

«Dobbiamo tornare da Maxìm.» disse Alìce.
«Tesoro, ci ha chiuso le porte in faccia. Cosa pensi di ottenere tornando?»
Alìce sospirò.
«Se ci ha chiuso le porte in faccia vorrà dire che sa qualcosa, ma non ce lo vuole dire.»
Beck non riuscì a controbattere. La ragazza poteva anche aver ragione.
Finirono di fare colazione, per poi ritornare a casa di Maxìm.
Alìce dentro di se' pregava affinchè quella situazione assurda e surreale potesse finire.

Tornati davanti al cottage trovarono l'uomo occupato ad innaffiare le rose e i tulipani che crescevano davanti la casa.
«Ancora voi due?» chiese alterato Maxìm, alzando la testa e guardando in faccia Beck ed Alìce.
La ragazza lo guardò, l'uomo era abbastanza alto e robusto. Aveva gli occhi azzurri, proprio come i suoi, e dei capelli grigi, segno della vecchiaia.
«Ci serve il suo aiuto.» disse Alìce, fissandolo negli occhi «Le avevo già detto che vivo nella villa di Albert VànMeyer. Si tratta dello gnomo da giardino, forse lei ci può aiutare

«Avete il libro della famiglia VànMeyer?» domandò Maxìm.
Alìce annuì, facendo cenno a Beck di andarlo a prendere.
«Quando ti sei accorta che Jo ha iniziato a perseguitarti?»
La ragazza lo guardò.
«Lo conosci?»
Maxìm annuì.
«Andai a vivere in quella casa quando avevo 10 anni. Jo si era fatto trovare nel giardino.»
«Si è fatto trovare?» chiese Alìce stupefatta.
«Sì. Per i primi tempi non era successo nulla di strano o paranormale, poi un giorno trovai il libro dei VànMeyer, e lo lessi. Dopo di che Jo ha cercato più volte di uccidere me e la mia famiglia. Ma abbiamo preferito non farne parola. Avevamo scoperto come poterlo uccidere, in un certo senso, ma non ne abbiamo avuto l'occasione.» spiegò l'uomo.
«Cosa bisogna fare?»
«Bisogna colpirlo con qualcosa di pesante, o tagliente, ridurlo in frantumi e poi bruciarlo. Con quello che ne resta, va gettato in un fiume.» la avvertì.
Beck tornò, con il libro in mano, nella sala da pranzo dove vi erano Alìce e Maxìm.
Aveva la fronte sudata, il respiro pesante e la canotta grigia leggermente sporca di sangue.
La ragazza lo guardò spaventata.
«Beck, che è successo?» domandò.
L'uomo prese velocemente da uno scaffale un libro, più simile ad un diario, e glielo passò ad Alìce, assieme alle chiavi di un'auto.
«Uscite dal retro, io vado fuori a distrarlo.» disse Maxìm, per poi allontanarsi.
Alìce aiutò Beck ad uscire dal cottage.
Salì alla guida di un Pick-Up, per poi uscire dalla città.

Una mezz'ora più tardi si fermarono sopra un ponte, al di sotto del quale c'era una forte corrente d'acqua.
La ragazza prese il libro che il giorno prima aveva trovato nella libreria, riprendendo a leggere le ultime pagine.
«Lo spirito malvagio di Jo rimase nell'oggetto, nonostante i vani tentativi di distruggerlo.» lesse a bassa voce la ragazza.
«Ma non dice come possiamo distruggerlo!» disse Beck.
«Me lo ha detto Maxìm.» rispose seria Alìce.
«Ti fidi di quell'uomo?» chiese incredulo il ragazzo.
«Non mi fido, ma bisogna farlo.»
«Cosa comprende questa specie di rituale?»
«Aspettiamo che Jo arrivi, lo facciamo in mille pezzi con qualcosa di pesante e poi lo bruciamo.» spiegò Alìce.
Beck uscì dalla macchina, scoprendo il telo impermeabile dal retro del pick-up.
Al di sotto di esso c'era un martello, una pala ed un sacco.
«Questo Maxìm, a meno che non avesse previsto tutto, andava in giro con il necessario per uccidere una persona, sotterrarla, e nasconderne le prove.» disse il ragazzo avvicinandosi al lato guida della macchina, dove si trovava Alìce «Vado ad accendere il falò, vieni con me?»
La ragazza uscì dalla macchina, prendendo una scatola di fiammiferi che aveva trovato sul cruscotto.
Beck prese il martello «Così, in caso torni Jo, non mi faccio trovare impreparato» spiegò ad Alìce.
Lei lo guardò con un'espressione accigliata.
Poi, insieme, si diressero verso il bosco lì vicino, intenti a raccogliere della legna.

Un urlo, più animale che umano, catturò l'attenzione di Alìce e Beck, i quali immediatamente andarono sul posto.
Era nuovamente Jo, macchiato di sangue.
Beck cercò di avvicinarsi il più possibile all'essere, con il martello in mano.
Dopo vari copi riuscì finalmente a perforargli la testa di ceramica, poi il resto.
Lo gnomo fu distrutto, e Alìce ne raccolse ogni singolo pezzo, per evitare che col passare degli anni questo potesse rigenerarsi, e poi gettandoli nel fuoco che aveva acceso con Beck prima di sentire lo strano urlo.
A contatto col fuoco i pezzi di ceramica scoppiarono, per poi sciogliersi.
Una mezz'ora più tardi il fuoco si era spento.
Beck, sotto richiesta della ragazza, tornò al pick-up a prendere il sacco, per poter trasportare ciò che restava di Jo.

Mano nella mano i due ragazzi tornarono sul ponte.
Arrivata al bordo che la divideva fra la strada ed il fiume Alìce sorrise, ripensando a tutto l'assurdo che le era capitato in poco più di un giorno.
Svuotò il sacco in corrispondenza del fiume, aspettando di sentire che la ceramica rimasta andasse a contatto con l'acqua.
«È finita.» le sorrise Beck.
La ragazza gli sorrise di rimando «Già.»
«Dai, risali in macchina, torniamo a Lüdwisglust. Devo riportare il pick-up a Maxìm.»
Alìce salì in macchina, ed i due tornarono a casa di  Maxìm.

Suonarono alla porta del cottage, e Maxìm aprì la porta.
Sorrise quando vide Beck e Alìce.
«Ci siete riusciti?» domandò.
Beck annuì.
«Queste sono le sue.» disse porgendogli le chiavi del pick-up.
L'uomo tentennò nel riprendere le chiavi.
«Tutto bene?» chiese preoccupata Alìce.
Maxìm annuì, sorridendole.
«Sono felice per voi, finalmente questa maledizione è finita. È stato bello conoscervi, addio.»
I due ragazzi, anche se delusi dall'addio semplice e freddo da parte dell'uomo, risalirono nella macchina di Beck per tornare a Rëinsburg.
Ma il motivo per cui Maxìm gli aveva salutati frettamente non era per levarseli dai piedi il più presto possibile. Anzi.
Durante il suo tentativo di distrarre Jo e far fuggire Beck ed Alìce, un pezzo di ceramica abbastanza tagliente gli si era conficcato nel petto, in corrispondenza del cuore.
Una mezz'ora dopo, tutta quella parte era diventata bianca, diventando di un materiale molto simile alla ceramica.
Poco prima che i ragazzi suonassero alla porta aveva notato problemi a respirare, la ceramica era arrivata al cuore.

Alìce uscì dal bagno con indosso una maglia di Beck, la quale le arrivava quasi al ginocchio, con su scritto "Black Sabbath", e tamponando i capelli con un asciugamano.
Si sedette sul divano accanto a Beck, appoggiando la testa allo schienale e sospirando.
Non appena tornati a Rëinsburg erano andati a casa del ragazzo, ripulendo il casino in cucina.
«Che c'è?» le chiese Beck accarezzandole i capelli ancora umidi.
«Non posso ancora crederci che sia tutto finito.»
Il ragazzo le sorrise, per poi darle un bacio sulla guancia.
Alìce si alzò dal divano, per prendere dal tavolino di fronte a loro il diario di Maxìm.
Poi si risedette e iniziò a leggerlo.

23.10.1995
Non so più a chi rivolgermi.
Fra una settimana dovrebbe nascere mia figlia.
Denise ha detto che la chiamerà Alìce. Non posso credere che sia partita nonostante le sue condizioni di salute.
Non so cosa succederà alla bambina, specie se lei continuerà ad ubriacarsi e drogarsi.
Più volte ieri ho provato a farle cambiare idea, ma non ha voluto accettare di vivere insieme a me.
So che non la dimenticherò mai.
Spero solo che un giorno potrò incontrare Alìce.

13.10.2014
Sono passati quasi vent'anni da quando non apro questo diario.
È da un po' di giorni (dal 10 ottobre, precisando) che ho strane sensazioni.

Sento come se una parte mancante di me sia più vicino di quanto io immagini. Saranno solo sensazioni.
La salute comincia a decadere sempre più. Ma non posso farci nulla.
E mi ritrovo, a cinquant'anni, in fin di vita.
L'altra notte mi è comparsa Denise in sogno, ma non mi aveva accennato nulla riguardo se stessa. Ammesso che sia ancora viva.
Diceva solo che mia figlia era in pericolo, in un pericolo che io avevo già cercato di sconfiggere.
Se i miei calcoli non sono errati, il 30 ottobre, la data che ci era stata prestabilita per il parto, Alìce dovrebbe compiere 19 anni.
Dubito che anche quest'anno potremo festeggiarli insieme e, anche se fosse possibile, non credo di arrivare al 30 di questo mese. La mia salute peggiora sempre più.
Ho passato una vita a cercare cose che dubito troverò mai.

15.10.2014
Ho dovuto cancellare l'ultima riga, non ho mai passato la vita a cercare di far accadere qualcosa, inutilmente.
È accaduto.
Stamattina avevo Alìce sotto casa, con un ragazzo. Probabile era il suo fidanzato.
Ma c'erano alcune cose di cui mi ero accorto.
Lei non aveva ne' il cognome di Denise, ne tanto meno il mio.
Avrei voluto tanto chiederglielo, ma le circostanze non mi sembravano le migliori.
Non so dove abbia sentito parlare di me, ma fatto sta che era arrivata fino a Lüdwisglust per parlarmi di Jo, uno gnomo di ceramica che c'era anche quando io stesso vivevo nella villa dei VànMeyer.
Valentìn VànMeyer, mio nonno, mi aveva parlato di lui. Di come sua sorella, per colpa dell'essere (che sono più che sicuro abbia discendenze aliene o roba simile) fu creduta pazza.
Ma di come inspiegabilmente morì.
Credo che con oggi smetterò di scrivere, ormai ho poche forze e dubito passerò la notte.
Non ero molto sicuro di voler parlare con una figlia che non vedevo da più di diciotto anni, o che meglio non avevo mai visto. Così gli ho fatti andar via.
Ho la sensazione che tornerà. E quando tornerà, le darò questo diario.
Alìce, io e tua madre ti amavano anche quando non eri ancora con noi.

La ragazza, leggendo l'ultimo rigo, scoppiò a ridere istericamente.
Beck si spaventò.
Aveva lasciato Alìce sul divano, intenta a leggere silenziosamente il diario, mentre lui stava tranquillamente sfogliando il libro dei VànMeyer.
«Che è successo?»
«Hai presente Maxìm?» domandò la ragazza.
Lui annuì.
«Bene, ho appena scoperto che è mio padre.» disse sorridendo, cercando di mascherare il dolore e la tristezza che celava dentro di se' per l'addio e la certezza della morte dell'uomo.
Beck rimase stupito dalle parole della ragazza.
Certo, aveva notato una vaga somiglianza tra i due, ma non aveva dedotto niente.
Ad Alìce suonò il cellulare, così lo agguantò, rispondendo.
«Alìce, come torni a casa prepara i bagagli, ci trasferiamo di nuovo.» era la voce di Claìre.
La ragazza ormai sapeva come sarebbe andata a finire la situazione.
Lei non avrebbe detto o chiesto nulla sull'incidente, ne tanto meno se avessero firmato le dimissioni e si fossero riempiti di antidolorifici pur di tornare alla routine quotidiana.
Chiuse la chiamata, senza nemmeno rispondere.
«Mi aspetta un altro viaggio di merda, in un'altra città di merda.»
Il ragazzo la guardò negli occhi.
«Ti ricorderai di me?»
Alìce non rispose, ma uscì dalla casa di Beck e si diresse alla sua villa.
Infondo lei sarebbe rimasta la ragazza di prima.

«Succederà mai che rimarremo in una città per più di un tempo che vada dalle due settimane ai quattro mesi?» domandò la ragazza con i capelli rossi dai sedili posteriori dell'auto.
«Se non vuoi più cambiare città, sei libera di andare.» le rispose Thomas, guardandola dallo specchietto retrovisore.
«Ferma la macchina.» ordinò Alìce.
Claire si voltò verso di lei «Come, scusa?»
«Io scendo qui.»
Thomas guardò in faccia sua moglie, come per avere un consenso, il quale non tardò ad arrivare assieme ad un «Se è quello che vuole, che vada via.»
La ragazza aspettò che la macchina frenò, per poi aprire lo sportello e scendere, e dirigersi al cofano a prendersi il trolley. Il resto glielo lasciò ai Johanson.
Iniziò ad incamminarsi verso la fine di Rëinsburg, senza voltarsi indietro.
Intanto i suoi genitori adottivi ripartirono, superandone il confine e dirigendosi nella nuova città.

Beck si alzò di malavoglia dal divano, spegnendo il televisore.
Qualcuno aveva bussato alla porta.
«Ciao, coinquilino.» lo salutò una ragazza dai capelli rossi, che conosceva fin troppo bene, varcando la soglia della porta con un trolley in mano.
«Cosa ci fai qui?» chiese Beck, richiudendo la porta alle sue spalle.
«Beh, non ti avevo mica detto addio.» rispose Alìce con un sorriso strafottente.
***
Buon Halloween a tutti!
Spero che non abbiate incontrato qualche gnomo che passeggiava per strada.

Che dire, ho finito!
Innanzitutto devo ringraziare Maria Giovanna e Ilenia, per avermi quasi obbligata a continuare la storia, anche quando volevo mollare.
Ringrazio anche i lettori silenziosi (un giorno recensirete anche voi, ne sono più che convinta ♥) e anche a quei pochi che l'hanno recensita (vi avrei voluto più attivi, ma pazienza)
Probabilmente in quest'ultimo capitolo sarò andata moooolto più OOC, e detto sinceramente non avevo la benché minima idea di come descrivere molti pezzi.
Che dire, spero di ricapitare qualche altra volta nella sezione!
Sono raggiungibile per Facebook, Ask, Twitter, i link stanno sotto. ♥
Un bacio a tutti e alla prossima,
Broken Smile Smoke.

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