Lemon Drops [Bleach: The Ground Beneath Her Feet]

di Viviane Danglars
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Premessa. ***
Capitolo 2: *** Prologo. – Satellite’s gone ; ***
Capitolo 3: *** Primo. Come as you are ***
Capitolo 4: *** Secondo. Diamonds and guns ***
Capitolo 5: *** Terzo. Doll parts ***
Capitolo 6: *** Quarto. Imaginary ***
Capitolo 7: *** Quinto. Precious ***
Capitolo 8: *** Sesto. Because the night ***
Capitolo 9: *** Settimo. Love will tear us apart ***
Capitolo 10: *** Ottavo. Too lost in you ***
Capitolo 11: *** Nono. Kiss and tell ***
Capitolo 12: *** Decimo. Sleeping with ghosts ***
Capitolo 13: *** Undicesimo. Gypsy ***
Capitolo 14: *** Dodicesimo. Idioteque ***
Capitolo 15: *** Tredicesimo. Time is running out ***
Capitolo 16: *** Quattordicesimo. Lovesong ***



Capitolo 1
*** Premessa. ***





Premesse.



Sono tornata! E sono tornata con la mia prima vera longfic, ciò su cui ho lavorato e che spero piacerà a tutte le persone che sono state tanto gentili da incoraggiarmi a scrivere ancora e che mi hanno sempre recensito e commentato... in ogni folle cosa che io abbia prodotto xD (e non sempre ho dimostrato abbastanza quanto ne fossi grata).
Grazie.
Inizio adesso la pubblicazione di questa storia, che cercherò di rendere regolare (per quanto diluita); così sarà come passare ancora un po' di tempo assieme.

Ho iniziato a scrivere questa fanfic dopo aver visto il film di cui nella descrizione, Million Dollar Hotel.
Mi aveva colpito così tanto che sentivo il bisogno di “fare qualcosa”, e così, di getto, ho deciso di mischiarlo con Bleach – cercavo da tempo l’ispirazione per una longfic.
Non volevo perdere tempo a riflettere troppo sul perché e il per come, non volevo perdere l’ispirazione. Ho iniziato a buttare giù le sensazioni che avevo.
Ora sono quasi alla fine e sono felice di aver iniziato. La trama è cambiata, variata, si è stratificata e ciò è avvenuto prima di tutto per il mio divertimento. Ho scritto molto e sono felice di rileggere ciò che ho scritto. La storia più lunga che sia mai riuscita a portare avanti da sola.
Per questo vi dico: trattatemela bene. Forse riflette solo il mio gusto, forse è troppo strana; mi interessa sapere cosa ne pensate, mi interessano commenti poderosi… ma spero che non sia una cosa banale.
Dico da subito che, avendola quasi finita, non prevedo di cambiarla adesso. Né considero i “pairing” qui presenti come il succo della storia.
Ebbene, avvertenze generiche: essendo una AU, ho dovuto rigirare le carte del mio mazzo, e mi rendo conto che certe volte la scelta possa stupire. Ho seguito l’ispirazione, tutto qui, perciò quello che posso dirvi è che perlomeno usando l’istinto sono riuscita a creare delle situazioni e delle interazioni, che sono stata poi in gredo di maneggiare con facilità e dunque, si spera, di rendere più godibili alla lettura - rispetto ad altre che sarebbero state più "classiche" ma che non mi ispiravano davvero.
Per quel che riguarda i personaggi, il "un po' tutti" è letterale. Ci sono davvero un po' tutti, e ad ognuno ho cercato di dare un piccolo spazio, lì dove mi sembrava che potesse starci bene. Il centro ideale è rappresentato da Renji; in realtà, attorno al suo mondo gravitano molti altri personaggi, e la storia è piuttosto "corale".
Pairing: ce ne sono diversi, alcuni più accennati, altri meno. Non penso che questa storia sia una yaoi, ma si fanno riferimento anche a pairing non het, uno dei quali ha una certa rilevanza. Ci sono anche ipotetici "triangoli".
Alcuni temi possono risultare sgradevoli: non credo proprio di aver esagerato, soprattutto considerata la media che si può trovare in giro, ma non si sa mai. Mi sono divertita a trovare in ognuno dei miei personaggi un "lato oscuro", per così dire.
Ultima precisazione: è una grave mancanza di fantasia, ma ogni capitolo, qui, è una canzone. Ascoltarla durante la lettura potrebbe risultare gradevole.

Grazie, e buona lettura. Spero che possa piacervi.


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Capitolo 2
*** Prologo. – Satellite’s gone ; ***





Lemon Drops
[ Bleach: The Ground Beneath Her Feet ]






Prologo. – Satellite’s gone ;


Satellite's gone
up to the sky . . .
Things like that drive me
out of my mind
I watched it for a little while
I love to watch things on TV.

Satellite of love.

Satellite's gone
Way up to Mars;
Soon it will be filled
With parking cars -
I watched it for a little while
I love to watch things on TV.

Satellite of love
Satellite of love
Satellite of love .

I've been told that you've been bold
With Harry, Mark, and John
Monday, Tuesday, Wednesday, Friday
Harry, Mark, and John

Satellite's gone
up to the sky . . .
Things like that drive me
out of my mind
I watched it for a little while
I love to watch things on TV.






Un paio di scarpe, lucide e scure, fecero la conoscenza del marciapiede umido e delle pozzanghere mentre il loro proprietario richiudeva la portiera dietro di sé. Quella strada e quell’angolo sembravano addirittura messi peggio del resto del quartiere; il fatto, poi, che la giornata fosse piovosa e grigia, non contribuiva a renderli più ridenti.
Un paio di vagabondi lanciarono loro un’occhiata, ma Ichigo non ci fece caso, mentre aggirava la macchina per raggiungere il suo cliente. Questi aveva sollevato lo sguardo sul grosso edificio che si trovava di fronte a loro: costruzione all’occidentale, moderna ma già rovinata, resa bislacca e colorata dalla quantità di indumenti, rottami e oggetti di ogni tipo che penzolavano dalle molte finestre. Con la sua mole, era troppo grande per quella stradina; era quasi volgare.
Scarpe da ginnastica incontrarono scarpe lucide e nere.
- Allora, entriamo… - esordì Ichigo, facendo un cenno che sperava incoraggiante verso l’altro. Aveva frainteso la sua esitazione, credendo forse che un contatto tanto diretto con il mondo di chi vive ai margini della società potesse risultare sconvolgente, di primo acchito, per uno come lui.
Ma non era per timore che Byakuya Kuchiki si era fermato, gli occhi immoti e l’espressione gelida, senza staccare gli occhi dall’antiquata insegna che recitava a grandi lettere, parecchi piani più su: “Million Dollar Hotel”.
Vedendo che non accennava a muoversi, Ichigo puntò su di lui uno sguardo interrogativo.
- Davvero è venuta qui? – domandò Byakuya dopo un momento, senza abbassare lo sguardo. La sua voce era pacata come sempre, e tuttavia udibilissima.
- Be’, certo, - replicò Ichigo, seccato, scoccandogli un’occhiata quasi offesa mentre si incamminava verso l’entrata – siamo venuti per questo, no? … Mi scusi, non mi aveva chiesto di rintracciare sua cognata? E io le ho trovato l’ultimo posto dove è stata vista: il Million Dollar Hotel. -



[ Here we are now;
entertain us. ]

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Capitolo 3
*** Primo. Come as you are ***





Capitolo primo.
Come as you are




[ Come as you are, as you were, as I want you to be.
As a friend, as a friend, as a known enemy. ]


-Dio che triste ‘sta tappezzeria, ma perchè non la cambi?
- Ma io sono qui di passaggio…
- E chi non lo è, tesoro.
Pane e tulipani




Renji si era svegliato con un cattivo sapore in bocca, quella mattina, e si era agitato un po’ nel fagotto di coperte che era il suo letto, occhieggiando la finestra dalle imposte traballanti che, di conseguenza, lasciava sempre filtrare un bel po’ di luce.
Il cielo quel giorno aveva un colore triste, e qualcuno stava già suonando del jazz o aspirante tale qualche piano più in basso.
Il ragazzo aveva mugugnato qualcosa, col risultato di assaporare di più, suo malgrado, il gusto sgradevole che sentiva sulla lingua; e aveva ficcato la testa sotto le coperte, poco desideroso di alzarsi. Ma poi la porta si era aperta, e c’era stato il consueto rumore e un breve strillo da parte della ragazza che era entrata.
- Renji? –
Renji borbottò incoerentemente e si sollevò sul letto, puntandosi sui gomiti. Momo entrò in quel momento nel suo campo visivo, con un grosso cesto in mano, il viso arrossato. – Ma quando hai intenzione di riparare quella mensola?! Mi sono quasi ammazzata… -
- ‘giorno, Momo. -
- ‘giorno, Renji – sospirò lei fermandosi di fianco al suo letto. Posò il cesto e ne estrasse una certa quantità di indumenti che avevano più l’aria di essere stracci, ma che lei piegò con amore riponendoli sull’unico, disordinato tavolo presente nella stanza. – Ti ho lavato la tua roba… -
- Oh, grazie. –
Il ragazzo si mise a sedere sul letto, a gambe incrociate, ritenendo che lei si meritasse come ringraziamento almeno un po’ di considerazione. Momo sospirò di disapprovazione notando che indossava solo dei pantaloni leggeri, e che avevano visto tempi migliori, ma si limitò a distogliere lo sguardo e continuare il suo lavoro.
Finì in poco tempo. – Ecco qui. -
- Lavi la biancheria di tutto il Million Dollar Hotel, Momo? – chiese l’altro, sbirciando il cesto ancora carico. Prese con due dita un perizoma di pizzo nero che spuntava dal mucchio, sollevandolo davanti al proprio naso. – Questo non è tuo… -
- … Rangiku, – replicò Momo secca, a mo’ di spiegazione, riafferrando il capo di biancheria – sai che a lei servono per lavoro. -
- Ah, certo… -
Momo non aggiunse altro, né Renji. Lei riprese il suo cesto e si diresse verso la porta, ricordandogli ancora una volta di far riparare quella trappola mortale che aveva nell’ingresso.
- Salutami Shiro. -
- Certo. -
Renji si fece una doccia, e la cosa lo rinfrancò. Benedetto Shinji, che aveva riparato le tubature. E benedetta anche Momo perché, quando tornò in camera, Renji trovò decisamente piacevole infilarsi un paio di jeans ed una maglia puliti.
Avevano un odore buono, di sapone; dovevano essere state lavate nella lavanderia a gettoni che stava due isolati più in là. Nulla di trascendentale, ma le cose semplici, Renji così pensava, sono spesso le migliori.
Uscì legandosi i capelli alla bell’e meglio e richiudendo la porta della camera con una mandata soltanto. Nessuno rubava nulla, lì.
Passò davanti alla camera di Rangiku e Gin; a quell’ora lei aveva appena staccato, e di solito dormiva. E lui, be’… lui chissà cosa faceva.
La porta di Toushiro e Momo era anch’essa chiusa, segno che il ragazzino non era in casa. Forse era uscito, di nuovo, a cercarsi un lavoro. Come se ci fosse una minima possibilità; ormai aveva girato tutti i posti di quella zona della città, sempre a piedi, con l’unico completo decente che avesse, amorevolmente piegato da Momo perché non si stropicciasse. Renji lo trovava patetico, perché si rifiutava di trovarlo straziante: era troppo giovane, Shiro, per essersi ridotto a vivere lì con sua moglie, a vivere di una ridicola pensione mensile.
Poi Renji prese le scale e bandì i pensieri malinconici dalla mente. Non aveva senso stare lì a rimuginare.
Avrebbe pure potuto farsi tutto il piano pensando alle disgrazie dei poveretti con i quali, per l’uno o l’altro caso del destino, si era trovato ad abitare; e ancora questo non sarebbe stato d’aiuto a nessuno.
Era meglio andare a vedere se poteva dare una mano a Nanao.


- … Renji! Ah, grazie al cielo. Proprio di te avevo bisogno. -
Il ragazzo sospirò, posando il piede sull’ultimo gradino. Neanche il tempo ad entrare nella hall, e già c’era qualcosa che non andava.
- Problemi, Nanao? -
- Sì – sospirò lei, parandoglisi davanti. – E’ di nuovo ubriaco. – Non c’era neppure più irritazione nella sua voce, solo una certa preoccupazione. – E tutti vengono a chiedermi di questa dannata perdita nelle tubature, insomma, io non ne so nulla, dovrebbe aver chiamato qualcuno lui, no? -
- Non ne ho idea… - Renji si passò una mano tra i capelli, dirigendosi alla reception, seguito dalla figura minuta di Nanao Ise. Cercava sempre di apparire il più possibile in ordine, Nanao; Renji non capiva perché si ostinasse ancora a prestare attenzione a quei dettagli.
Se non fosse stato per i segni sotto gli occhi, comunque, qualcuno avrebbe anche potuto cascarci.
Shunsui era seduto al suo posto, la testa appoggiata al tavolo, proprio di fronte alle alte file di ganci dove un tempo venivano appese le chiavi, quando ancora quel posto funzionava come un vero e proprio hotel.
Borbottò qualcosa simile a “Nanao” quando Renji entrò nel suo campo visivo.
- No, mi spiace – rispose lui, prendendolo per le ampie spalle e sollevandolo, col risultato di farlo appoggiare ora allo schienale della sedia.
Nanao stava dietro di lui e osservava la scena mordicchiandosi un labbro, la fronte corrugata e uno strano velo di tristezza sugli occhi. Era proprio per quest’ultimo dettaglio che Renji trovava soffocante rimanere troppo a lungo nella stessa stanza con lei.
Renji sapeva un sacco di cose sugli altri inquilini del Million Dollar Hotel, ma non sapeva cosa avesse potuto portare una donna come Nanao Ise tra loro. Certo, non che si stupisse; ne aveva viste, lui, di persone insospettabili, che poi per un motivo o per l’altro si rivelavano fin troppo sospettabili. Gente che non avresti mai detto potesse cadere tanto in basso, e poi finiva per sprofondare in abissi dai quali, siamo sinceri, non si può tornare fuori.
Pochissime persone, pensava Renji, erano veramente pure.
Quasi nessuno, per la verità.
- Se non fosse per queste dannate tubature, riempirei un buon secchio d’acqua… - borbottò, mentre tentava con schiaffi più o meno leggeri di far riprendere conoscenza al loro portinaio sulla via del coma etilico.
- Io glielo farei bere - consigliò una voce raschiante, proveniente da dietro le loro spalle – magari è la volta che vomita un po’ delle schifezze che ha in corpo. -
- Grazie dell’opinione, Kenpachi – rispose Nanao lanciando un’occhiata gelida all’uomo che era comparso dietro di loro. Era alto e ben piazzato, vestito di scuro – pelle, borchie e quant’altro - e con l’aria poco raccomandabile; avresti detto che fosse un terribile cliché se non fosse stato per i capelli che pettinava in maniera assurda.
Una volta Kenpachi aveva raccontato a Renji di quanto si divertiva a guidare per la strada ascoltando “vera musica”, e così Renji si era fatto l’idea che i capelli e il resto fossero una questione vagamente culturale. Si era anche fatto l’idea che la macchina di cui sopra fosse stata rubata, ma, ehi. Nessuno sarebbe mai andato ad importunare uno come Zaraki solo per quello.
Attaccata alla gamba del padre, c’era come sempre la piccola Yachiru, che osservò Shunsui incuriosita.
- Sta male? – domandò. – Se sta male, io lo so curare! – aggiunse, volonterosa. – Me lo ha insegnato Testa Blu! -
- No, non sta male, è solo pigro – rispose Renji, con un altro schiaffo sulla guancia, – ehi, Shunsui! Sorgi e splendi! – lo apostrofò a voce decisamente alta.
Nanao rise – anche se era una risata un po’ tirata – e Yachiru le fece eco con la sua risata cristallina. Kenpachi si limitò ad uno sbuffo divertito mentre Shunsui apriva un occhio.
- Che diavolo vuoi, Abarai… - borbottò, con voce sepolcrale.
- Hai un alito tremendo – replicò l’altro.
- Ma vai a… -
- Signor Kyouraku! – intervenne Nanao sollecita, battendogli su un braccio. – Signor Kyouraku, avanti, è già tardi… -
- Oh, Nanao. – L’altro si sforzò di rivolgerle un’occhiata brillante, e si mise un po’ più diritto. – Sì, d’accordo, d’accordo… -
Renji sospirò, sollevato. Non c’era più bisogno di lui; con un sorriso a Nanao, fece per avviarsi fuori.
- Grazie, Renji – gli sussurrò lei mentre le passava accanto.
- E di che. – Ormai, non era che non ci fosse abituato.
Aveva lanciato un’occhiata alla grande hall, per controllare se Grimmjow o Tatsuki erano da quelle parti, pensando distrattamente che poteva uscire e fare una passeggiata e vedere se in officina c’era qualche soldo da racimolare, quando la grossa mano di Zaraki lo aveva fermato posandoglisi sul petto.
- Cazzo. Che ci fa quello qui? -
- Eh? – Renji si fermò, lanciando un’occhiata nella direzione in cui l’altro fissava, ovvero l’ingresso.
Due uomini stavano entrando; non solo non erano conosciuti a Renji, ma a giudicare dall’aspetto non erano di certo nemmeno nuovi futuri inquilini in cerca di una stanza a buon prezzo e di zero domande: uno era vestito tutto sbagliato, in un completo scuro che era un insulto per tutti quelli che al Million Dollar, vendendolo, ci avrebbero campato per un mese… e l’altro sembrava…
- Quel dannato sbirro. E’ la seconda volta che lo vedo qua attorno in una settimana – ringhiò Zaraki.
- E’ già stato qui? – chiese Renji, studiando con un certo scetticismo l’altro uomo, che aveva capelli di un colore assurdo e l’aria leggermente meno fuoriposto del suo compagno.
- Qualche giorno fa. L’ho visto in giro, faceva domande. -
Renji storse la bocca. - E’ uno sbirro, hai detto? -
- Un detective, da quel che ho capito… -
- Sempre meglio che uno sbirro. -
Zaraki si lasciò sfuggire un verso indefinibile. – Sì, be’, dipende. Senti, io preferisco non dare nell’occhio. Dov’è Yachiru… -
Nanao li raggiunse; dietro di lei Shunsui sembrava essere un po’ tornato in sè. La donna teneva Yachiru attaccata a un fianco. – Che succede? -
- Niente, Nanao. Devo andare. Me la tieni tu? – chiese Kenpachi, indicando Yachiru con un cenno del mento. – Torno a prenderla dopo. -
- Sì, certo… -
La bambina lo salutò mestamente. – Ciao, Ken. A dopo. - Lui la salutò a sua volta, con un sorriso che soltanto sua figlia poteva trovare confortante, e si dileguò alla svelta. Non era un segreto per nessuno che certe persone, al Million Dollar Hotel, per un motivo o per l’altro non volevano aver niente a che fare con la polizia o simili.
Renji e Nanao si scambiarono appena un’occhiata, prima che i due nuovi arrivati si avvicinassero.
Renji tornò a studiarli, lo sguardo vagamente ostile; Nanao diede un colpetto a Yachiru, spingendola verso uno dei divani, e andò loro incontro.
- Salve! Che posso fare per voi? -
Ma perché diavolo si sforzava di parlare così? Neanche fossero stati in una dannata profumeria per signore.
- Salve, - salutò il tizio dai capelli arancioni, - stiamo cercando una persona… -
L’uomo dai capelli neri si era fermato due passi indietro, e stava facendo scorrere sulla hall uno sguardo di superiorità che Renji trovò di primo acchito insopportabile. Per evitare di decidere di prenderlo a pugni, tornò a concentrarsi sul discorso tra Nanao e l’altro.
- Oh, capisco, ma vede, - Nanao era già sulla difensiva, e lanciava occhiate un po’ nervose a Shunsui, che stava seduto dietro al bancone seguendo tutto con un’espressione tutt’altro che amichevole – qui le cose non funzionano proprio così… i dati sono riservati e ognuno gode della massima privacy… -
- Capisco. – Lo sconosciuto estrasse qualcosa dalla tasca e lo mostrò a Nanao. Shunsui fece una faccia disgustata, neanche si fosse ritrovato in bocca della birra tiepida, e lei divenne un po’ più nervosa.
- Mi rendo conto, signor… Kurosaki, ma questo non… - - Senta, davvero, non voglio procurare guai a nessuno – disse l’uomo che era stato identificato come Kurosaki. – Io e il mio cliente siamo qui solo per cercare una persona. Non ci interessa altro. Come vede non sono della polizia… mi basta fare in giro qualche domanda, tutto qui. -
- E chi è che stareste cercando? – domandò Renji, facendosi finalmente avanti.
Nanao quasi sobbalzò nel sentirlo arrivare; i due uomini spostarono gli occhi su di lui.
– Il mio nome è Ichigo Kurosaki – si presentò di nuovo il detective. Con il pollice indicò il suo accompagnatore: - Il signore, qui, è Byakuya Kuchiki. -
Renji assottigliò le palpebre.
- Siamo cercando sua cognata. Rukia Kuchiki. – E Ichigo estrasse dalla tasca una piccola foto, che sollevò perché non solo Nanao e Renji, ma anche Shunsui potessero vederla: - Qualcuno di voi la conosce? -
Nanao sbarrò impercettibilmente gli occhi. Dietro di lei, Shunsui si schiarì la gola – non un suono piacevole – e si alzò in piedi, venendole di fianco.
- E perché la state cercando qui? – domandò, il tono dichiaratamente ostile.
- Qualcuno ha detto di averla vista da queste parti – chiarì Ichigo. Renji sollevò lo sguardo dalla foto, posandolo su Kuchiki, che non aveva ancora parlato, ma li fissava da un bel po’ con attenzione.
I due si studiarono per un istante, prima che Renji tornasse a concentrarsi sul discorso portato avanti dal detective.
- No, io non l’ho vista – stava dicendo Nanao, scuotendo la testa, un po’ rigidamente. Shunsui aveva riacquistato una vaga compostezza e le rimaneva accanto palesando tutta la sua considerevole stazza e statura, probabilmente a beneficio di Kurosaki, mentre negava a sua volta: - Non l’ho vista. Se è passata di qui, non la ricordo. -
Ichigo non sembrava sorpreso. – Be’, vorrei fare qualche domanda a qualcuno dei vostri… inquilini. -
- Si accomodi – lo invitò Shunsui, vagamente beffardo. – O vuole che glieli chiami quaggiù uno ad uno? -
Per un istante, Ichigo non rispose. Renji pensò che non era come quel palo di legno di Byakuya Kuchiki; probabilmente aveva un’idea precisa su come funzionavano davvero le cose da quelle parti. E probabilmente sapeva anche che Shunsui era ben lungi dal sapere esattamente chi, come e perché risiedesse all’hotel. Era il portinaio per modo di dire; soprattutto negli ultimi tempi.
Fu a quel punto che, per un motivo non del tutto chiaro, Renji si fece avanti e parlò.
- Se volete, vi do una mano io. Qua ci conosciamo un po’ tutti. Se è solo questione di fare qualche domanda… -
Tutti si voltarono verso di lui; Nanao e Shunsui non erano meno stupiti di Ichigo. Persino Byakuya lanciò a Renji uno sguardo meravigliato. Lui pensava che in fondo era meglio così: con una guida, avrebbero fatto le loro domande e se ne sarebbero andati. E poi lui sapeva come fare in maniera di tenerli alla larga da certe stanze e certe persone.
- Davvero? – domandò Ichigo, vagamente sospettoso, per poi aggiungere subito, più alla mano: - … Certo, buona idea. Così faremo prima, no? -


- Be’, allora… da dove volete iniziare? -
Erano nella hall, seduti su un divanetto un po’ sfondato, e Renji aveva accettato una sigaretta che Ichigo gli aveva offerto.
Byakuya non aveva ancora parlato, fino a quel momento. – Mia cognata è sparita di casa due mesi fa – spiegò, in tono calmo, e Renji ebbe l’impressione che stesse parlando di titoli finanziari. La sua voce era efficiente e professionale. Avrebbe potuto essere bella, probabilmente, se non fosse stato per il fatto che Renji continuava a provare il desiderio di prendere a pugni la bocca dalla quale usciva. – … L’ho cercata a lungo, finché qualcuno non ci ha rivelato di averla vista qui. -
- Chi? – domandò subito Renji.
Ichigo scosse la testa. – Informazioni riservate, signor… -
- Solo Renji. Nessuno è un signore, qua – rise l’altro, anche se non era precisamente una risata divertita.
Ichigo, diversamente dal manichino in giacca e cravatta che era con lui, colse al volo e non fece complimenti. – Bene, Renji. Non possiamo dire da dove arriva l’informazione, ma direi che ormai è un dato accertato, perciò… -
- Ehi. – Renji sollevò entrambe le mani, la sigaretta stretta tra i denti. – Ve l’ho detto: io non l’ho vista. Però può darsi che non l’abbiamo notata. Qua passa molta gente… -
- Lo immagino. – Ichigo fece scorrere una veloce occhiata tutt’attorno. - Però dovete capire, - aggiunse Renji, - che qua a nessuno piacciono le domande. Se date l’impressione di portare guai, non caverete un ragno dal buco. -
- Non ci interessano i guai… - iniziò subito Ichigo.
- Vogliamo solo ritrovarla – chiarì nuovamente Byakuya. Renji incontrò il suo sguardo e stavolta lo trovò diverso: era intensamente puntato su di lui, sembrava quasi che lo volesse ipnotizzare. Be’, il signorino avrebbe fatto prima a disilludersi; non era mica così semplice ipnotizzarlo.
- Ma si può sapere perché se ne è andata? – chiese beffardo, senza distogliere gli occhi da quelli dell’altro. – Magari vi sarebbe utile per ritrovarla. -
- Sospettiamo sia stata rapita – spiegò Byakuya, senza batter ciglio.
Ichigo lanciò un’occhiata al suo cliente – solo un istante – e Renji si mise a ridere. – Rapita? E poi portata qui? Il suo rapitore doveva essere un idiota, allora – concluse serafico, prendendo un’altra boccata.
Ichigo lasciò perdere qualsiasi messaggio avesse in mente di comunicare a Byakuya, e tornò a concentrarsi su Renji. – Perché? -
- Qua ci viene solo chi ci vuole venire – spiegò lui, semplicemente. – Non vogliamo grane. -
Byakuya incassò senza replicare e Ichigo nascose ancora una volta qualcosa nello sguardo – divertimento, forse? – prima di alzarsi. – Be’, - esordì, una volta in piedi – mettiamola, così… Renji. Tornerò domani. -
- Domani? – L’altro sollevò lo sguardo senza capire.
Byakuya sembrò per un attimo altrettanto perplesso, ma si alzò in piedi a sua volta, senza contraddire Ichigo.
- Sì – riprese questi – per, diciamo… far capire che non cerco guai. E non ne porto. Intesi? -
Stavolta Renji sorrise apertamente. – Intesi. -
Dopo questo, la conversazione si concluse velocemente, e Ichigo e Byakuya si congedarono in fretta. Nanao li salutò con deferenza, in piedi dietro al bancone della reception; Shunsui era sparito, probabilmente a cercare una bottiglia.
Fuori, Ichigo si diresse senza parlare verso la portiera del guidatore, già soddisfatto per il fatto di aver ritrovato la macchina dove l’avevano lasciata e tutta intera.
- Perché ce ne stiamo andando? – domandò Byakuya, in piedi dall’altro lato della vettura, senza accennare a salire.
- Per permettere a quei poveracci di nascondere quello che hanno, - Ichigo si strinse nelle spalle, estraendo le chiavi, - droga, roba rubata. O di cambiare aria per un po’. -
- Credevo che questo fosse precisamente quello che non volevamo. – Stavolta nella voce di Kuchiki era ben percepibile l’irritazione. – Se lei è qui potrebbe… -
- Lei è senz’altro qui, o ci è stata – lo interruppe Ichigo. – Ha visto anche lei le facce di quei tre, no? Ma il nostro… amico, Renji, ha ragione: non otterremo niente se ce li faremo tutti nemici. L’unico modo di beccare sua cognata senza l’aiuto di qualcuno di loro, sarebbe perquisire ogni singola stanza senza preavviso, - con le chiavi ancora in mano sollevò un braccio per indicare vagamente la mole dell’edificio, - se ci vuole provare, in un giorno solo, buona fortuna. -
Byakuya strinse le labbra e non rispose, ma non smise di osservarlo con l’aria di chi si aspetta una spiegazione.
Ichigo sospirò e si grattò un po’ la testa. – Guardi… Non creda che in un posto come questo siano tutti una grande famiglia. Se uno può avvantaggiarsi a scapito di un altro, lo farà volentieri. Qualcosa salterà fuori molto più facilmente in questo modo, mi creda. -
Byakuya non sembrava del tutto convinto, ma non oppose più obiezioni, e salì in macchina.



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Ecco il primo capitolo! Grazie al quale potrete finalmente iniziare a decidere se questa storia vi piace o no.
Innanzitutto vorrei ringraziare le CINQUE persone (o.o) che hanno favvato questa fic, pur avendo a disposizione solo una Premessa e un Prologo, cioè decisamente troppo poco per giudicare. XD
Grazie per la vostra fiducia!
Lo stesso dicasi per chi ha recensito.

@Keute: la lonfic entusiasma anche a me, non sono mai riuscita a scriverne una, questa è la prima. *_*'' Spero che non ti deluderà. Inutile dire che sono felicissima che tu mi segua nelle mie follie XD
@AllegraRagazzaMorta: prima di tutto, sono felice di risentirti! Era un po', vero? Hai ragionissimo a dire che non puoi esprimerti essendo al prologo (XD), spero che la fic da ora in poi dia più pane per i tuoi denti. XD Ah, e sono molto felice di scoprire che il film è così apprezzato *_* Non pensavo fosse tanto noto °_°
@Ino_Chan: la costanza dei miei lettori mi commuove. *__* Sì, il clima metropolitano è un elemento del film che mi è molto piaciuto, per questo ho cercato di riprodurlo! Sono contenta che si noti. Per la canzone, se posso darti un consiglio, cerca la canzone cantata da Milla Jovovich (*_*), è la mia preferita anche se le altre versioni e l'originale sono opere di mostri sacri. XD
@tesar: innanzitutto benvenuta! Arduo dire chi sia il "protagonista" ma senz'altro Ichigo ha la sua bella parte in questa fic. XD Spero che ti piacerà :P Buona lettura!

Bene, si inizia... fatemi sapere cosa ne pensate :P

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Capitolo 4
*** Secondo. Diamonds and guns ***





Capitolo secondo.
Diamonds and guns




[ And now you look around, and that's not the plan:
this is not what you had in mind -
I shot in heaven, now I cry -
no one lives forever, in fact we all die.
From those who bust shots to those who stuff cops,
to those who serve rocks on all the hard blocks,
every last soul must pay the last toll -
in the dice game of life, who gets the last roll?
… It's a wicked world that we live in :
it's cruel and unforgiving. ]


Era scesa la notte, e Nanao aveva spento le luci nella hall. C’era stato un po’ di trambusto e le solite proteste per i tubi che non funzionavano, ma poi anche al Million Dollar Hotel erano tornati la tranquillità e un relativo silenzio.
Da fuori, le finestre illuminate sulla facciata dell’edificio avevano qualcosa di consolante, e ricordavano le lanterne magiche che proiettano figure sui muri per la meraviglia dei bambini, nelle notti d’estate.
Senonché non era estate e non c’erano pareti, a meno di non contare il cielo. Al Million Dollar Hotel, c’erano un bel po’ di persone che l’avevano avuto spesso come parete e tetto.
Nemmeno ora le pareti delle loro stanze erano un granché.
Al quarto piano, nella piccola cucina di Momo e Toushiro, si continuava a parlare. Era stata Nanao a proporre quell’incontro, e il solito gruppo si era aggregato; più ancora dell’effettiva necessità, qualcuno era venuto soprattutto perché non aveva niente da fare.
Kenpachi era passato a riprendersi Yachiru, ma, alla fine, l’aveva lasciata a dormire sul divano ed era rimasto a sentire; Rangiku si era affacciata per chiedere a Momo i suoi vestiti e si era fermata quando aveva sentito il profumo del riso che l’amica stava preparando. Shunsui era rimasto perché, per lui, l’alternativa consisteva nel trascinarsi alla sua stanza e dormire fino al giorno dopo; e Shinji doveva già essere là perché Momo gli aveva chiesto di riparare le tubature anche a lei.
Renji era lì in quanto informato dei fatti, ma fino ad allora si era limitato a rimanere appoggiato alla finestra, i gomiti sul davanzale e il mento sul palmo della mano, osservando la luna che era grande e piena.
- Renji! Vieni, è pronto – lo chiamò Momo, facendogli cenno con la mano.
Lui tornò al tavolo svogliato, ma cercò di imbastire un’espressione più grata quando Momo gli mise davanti la sua ciotola di riso, e la ringraziò con un mezzo sorriso. Rangiku trillò, esagerata come sempre. Momo ringraziò tutti schernendosi e chinando un poco il capo; ma non arrossì - aveva perso da tempo la freschezza di chi arrossisce - e Toushiro guardò la sua piccola moglie con uno strano dolore negli occhi.
Forse, pensò Renji, il ragazzo la immaginava mentre faceva lo stesso per degli sconosciuti, alla tavola calda dove lavorava per pochi soldi alla settimana. Il loro unico reddito.
Toushiro era il più stanco di loro; era tornato da poco dopo essere stato fuori tutto il giorno. Momo lo aveva interrogato con lo sguardo quando si era affacciato alla porta della cucina, e lui aveva distolto gli occhi, con una specie di confusa vergogna. Non si erano detti niente e Rangiku aveva iniziato a parlare a valanga, come se questo potesse impedire a qualcuno di loro di vedere.
- Grazie, Momo – disse Shunsui gesticolando un po’ troppo con le bacchette. – E’ delizioso. -
- Sì, grazie, Momo – ribadì Nanao annuendo con energia. – Mi dispiace disturbarvi così… - aggiunse, con aria un po’ colpevole, verso Toushiro.
- Non è un disturbo, - chiarì lui concisamente, alzando una mano, e Momo si limitò a sorridere passando una ciotola a Shinji.
- Grazie. -
- Di niente, è il minimo! Ora la doccia funziona grazie a te… come sta Hiyori? -
Shinji annuì vagamente, senza sbilanciarsi troppo, come d’altronde era suo solito. – Meglio… - disse, e fece uno di quei suoi ghigni che all’inizio a Momo facevano paura.
Soltanto all’inizio. - Ne sono felice. -
Hiyori era una ragazzina più fragile di quanto sembrasse.
Renji mangiava senza dire nulla. Al suo fianco, anche Kenpachi era silenzioso, e si limitava a gettare ogni tanto un’occhiata a Yachiru, che respirava serenamente nel sonno, sul piccolo divano.
Certo, pensava Renji, erano un gruppo parecchio strano e non occorreva guardarli due volte per capire che nessuno di loro se la passava granché bene. Però così sembravano quasi normali.
Avrebbero potuto essere normali, e, magari, non avere problemi. Una volta tanto.
- Comunque… - esordì Nanao a un certo punto, posando la sua ciotola, - ci siamo riuniti qui per parlare di quello che è successo oggi… -
- Oh? Cos’è successo? – chiese Rangiku stupita, formando una piccola “o” con le labbra accuratamente dipinte di rosa acceso. Era già pronta per andare a lavorare ed era la più fresca di loro, perché si era alzata da poche ore.
Renji sospirò; qualsiasi bislacca sensazione lo avesse preso, avrebbe dovuto saperlo che non sarebbe durata a lungo.
- Perché sei qui se non lo sai? –, Shinji stava apostrofando Rangiku lanciandole un’occhiata, ma Nanao rispose senza batter ciglio:
- Oggi si è presentato un investigatore privato… un certo Kurosaki. Mai sentito? -
Renji rimestava nella sua ciotola con le bacchette, l’espressione torva.
Kenpachi lanciò attorno un’occhiata indagatrice, e finalmente parlò. – Qualcuno dovrebbe averlo sentito, - osservò, con finta casualità – dal momento che è già stato qui. E qualcuno gli ha dato delle informazioni. – Naturalmente la finta casualità di Kenpachi era tutt’altro che rassicurante.
- Informazioni? – ripeté Shinji, allarmato.
- No, no… - si affrettò a dire Nanao, muovendo una mano, ma Renji la precedette: - Cercava Rukia. -
E dopo questa frase cadde un breve silenzio.
Shunsui si nascondeva dietro al suo bicchiere, e Toushiro aveva serrato la bocca. Shinji e Kenpachi non fecero commenti – per la verità Kenpachi continuava a mangiare il suo riso – ma Momo diede le spalle a Renji, lentamente, riportando la pentola sul lavello. Persino Rangiku si era bloccata, mordicchiandosi il labbro inferiore.
- Be’… - un po’ a disagio, nemmeno Renji sapeva bene cosa dire, perciò aggiunse altre informazioni casuali – c’era il cognato di Rukia, con lui. La stanno cercando e qualcuno ha detto di averla vista qui. -
- Chi è stato? – proruppe Rangiku.
- Non ne ho idea, non ce l’hanno detto… - borbottò Nanao, tesa – ma Kurosaki ha detto che farà delle domande. -
Un altro po’ di trambusto.
- Quindi verrà qui? –
- Quando? -
- Domani – chiarì Renj, alzando la voce ed entrambe le mani. – Non porta guai, dice… se no avrebbe potuto venire su subito e, be’… -
Nessuno disse nulla. Tutti sapevano qual era il pensiero generale: la maggior parte di loro aveva almeno un motivo per il quale preferiva non avere niente a che fare non nessuno che rappresentasse, anche in un qualche lontano modo, la legge.
- Comunque non l’ha fatto – continuò Renji, - come dimostrazione, credo. Gli interessa solo Rukia – disse alla fine, la voce più bassa. Parlare era sempre più difficile. E prima che qualcuno potesse tentare di dire qualcos’altro, aggiunse: - Mi sono offerto di fargli da guida. -
- Oh, bravo, Renji! – esclamò Rangiku. – In questo modo non se ne andrà in giro a curiosare… pensa se si imbattesse in Grimmjow… -
- Credi che dovremmo cambiare aria, Renji? – chiese Shinji dopo un po’. – Hiyori ed io, ad esempio… -
- No, non credo. Me ne occuperò io. -
Ci fu di nuovo un po’ di silenzio, e Toushiro spostò indietro la sedia, facendoli sobbalzare tutti con il rumore aspro e improvviso. – Vado a letto, - dichiarò. Renji non poteva biasimarlo. Era evidente che non sopportava oltre la loro presenza; essere costretto a sopportare loro, oltre alla muta abnegazione di Momo, era troppo per lui. Troppo dopo quella giornata. – Buonanotte. -
- Buonanotte, - lo salutarono gli altri, in modo vario. Momo non parlò.
- Anche Yachiru ed io dobbiamo andare… - disse Kenpachi, alzandosi a sua volta quando Toushiro fu uscito, e dimostrando in tal modo di essere forse, nella sua rudezza, più delicato di quanto non si credesse.
- Buonanotte, Zaraki… - disse Momo stavolta.
- Ma non abbiamo trovato una soluzione! – protestò Nanao, sempre più nervosa. Lanciò un’occhiata a Shunsui come se si aspettasse da lui un’indicazione, ma l’uomo non la guardava, gli occhi persi nei riflessi del bicchiere che teneva tra le dita, mollemente appoggiate al tavolo.
- Quale soluzione? – replicò Shinji, scettico. – E’ un investigatore privato, giusto? Significa che non se ne andrà finché non avrà scoperto la verità. -
Renji si voltò verso Shinji, stringendo con forza le bacchette, e tutti si voltarono, dal canto loro, verso Renji stesso.
- Non potrebbero, be’… - Rangiku si tirò nervosamente un lembo del foulard rosa che le occultava la scollatura – archiviare il caso o qualcosa di simile? Se non trovassero nulla? -
- Questa non è la polizia – disse Shunsui, la voce bella e bassa rovinata dal timbro impastato che negli ultimi giorni era diventato una sgradevole costante. – Non se ne andranno dopo il minimo tempo standard. Quel tizio ha un cliente che lo paga e quel cliente vuole dei risultati. -
Renji strinse i denti, ripensando allo sguardo altezzoso che Byakuya Kuchiki aveva rivolto alla hall dell’hotel e a chi la occupava, con l’aria di uno che aveva abbastanza soldi, per comprare tutto quello che vedeva, soltanto in una delle molte tasche del suo bel completo. Non poteva farci niente: le ragioni per odiare quell’uomo erano troppe.
- Ma allora che facciamo? – domandò Momo in tono quieto, sedendosi finalmente nel posto lasciato libero da Toushiro.
- Be’, noi abbiamo negato tutto, - disse Nanao – sul momento, non sapevo cosa… -
- E’ la cosa migliore – la interruppe Renji. – In fondo non sappiamo che informazioni abbiano… ma di sicuro non hanno prove… perciò, continuando a negare, si convinceranno semplicemente che il loro informatore abbia mentito, o che Rukia se ne sia andata… e noi non ci finiremo in mezzo. -
Gli altri lo guardarono, chi più chi meno dubbioso.
- Dici che basterà? – domandò Shinji alla fine.
- Be’, è l’unica cosa che possiamo fare, - sospirò Momo.
Rangiku batté con forza la mano sul tavolo. – Ma, tanto, Renji, ci sarai tu con lui… insomma, con questo Kurosaki… -
- Certo, - annuì Renji. Cercava di convincerla che quella fosse una garanzia, almeno quanto cercava di convincere se stesso.
Non ne aveva meno bisogno di lei.
- Prima o poi ci dovremo parlare in ogni caso – borbottò Shunsui.
- Be’, sì… ma non potrà mica interrogare tutti, no? Intendo dire… - protestò Rangiku.
Nanao la interruppe. – Probabilmente, lo sapremo solo domani. Non sappiamo come lavora e che tipo è. Per ora non possiamo fare nulla. – E sospirò piano.


Più tardi, quella notte, ci fu di nuovo rumore. Renji, che era da poco andato a letto e si rigirava come un’anima in pena nel suo nido di lenzuola, sbarrò gli occhi nel buio e imprecò a voce alta nella stanza silenziosa, mentre fuori, nel corridoio del quarto piano, si sentivano rumori, voci e passi.
Poi una luce si accese di colpo e filtrò, decisa e gialla, da sotto la porta.
Dormire era ormai un miraggio lontano.
- Ma si può sapere che diavolo… - sbraitò Renji, alzandosi e gettando il cuscino contro la parete mentre si affacciava alla porta, facendola sbattere un po’ troppo forte. – Che succede?! -
Inizialmente impiegò qualche secondo per capire, ma poi si lanciò il più velocemente possibile verso le tre figure che stavano in cima alle scale, una delle quali si stava accasciando sull’ultimo gradino mentre le altre due rimanevano faticosamente in piedi.
- … Grimmjow! – sibilò Renji verso una di queste ultime, un ragazzo con l’aria da attaccabrighe e vestito peggio, che stava in piedi soltanto puntellandosi contro la parete. Il ragazzo aveva socchiuso gli occhi, che si ostinava a truccarsi in quella maniera assurda, e rovesciato la testa contro il muro scrostato. Dal naso usciva una copiosa quantità di sangue, che gli aveva già imbrattato il giubbotto.
- Che cazzo hai fatto… - borbottò Renji, afferrandolo per la spalla, con uno strattone non propriamente gentile che ebbe però il vantaggio di mantenere l’altro in piedi. Poiché Grimmjow non rispondeva, Renji si voltò verso gli altri due e vide che Tatsuki, che aveva una faccia brutta quanto quella di Grimmjow ma per altre ragioni, si era chinata sul gradino di fianco al ragazzo dai capelli neri e cercava di scrollarlo, con ansia.
- Ulquiorra… Ulquiorra, mi senti? -
- Che è successo, Tatsuki? – sbottò Renji.
- Abbiamo incontrato un figlio di puttana – spiegò la ragazza, concitata, mangiandosi un po’ le parole dalle quali si percepiva che non era troppo lucida – giù al locale… ha cominciato a prendersela con Ulquiorra… e Grimm lo ha preso a botte… -
- O per meglio dire lui ha preso a botte te, - corresse Renji, voltandosi per riportare lo sguardo su Grimmjow.
Stavolta lui socchiuse gli occhi azzurri, digrignando i denti in una smorfia di dolore. – Quell’altro non sta meglio di me, - chiarì, una sorta di ringhio basso nella voce.
- E Ulquiorra sta bene? – chiese Renji, lasciando andare Grimmjow, che sembrava un po’ più solido sulle gambe, almeno abbastanza da sostenersi al muro.
- Sì, bene… soltanto un graffio – spiegò Tatsuki, muovendo una mano troppo magra sulla fronte del ragazzo in questione, e scostando una ciocca nera che rivelò un taglio sottile e non troppo lungo, sulla tempia.
- Ma che volevano?... – Renji si era chinato per vedere meglio.
Tatsuki si morse un labbro, l’espressione colma di astio. – Il solito, quei bastardi… -
- Non gli sta bene che mi porti il mio fratello demente con me, - chiarì Grimmjow, la voce che non riusciva a non essere sguaiata per quanto cercasse di fare piano. Il tono vibrava di umiliazione e di rabbia; Renji, ancora chinato, aveva gli occhi all’altezza dei pugni dell’altro, e glieli vide stringere convulsamente. – Non gli sta bene che io non posso lasciare il mio fottutissimo fratello pazzo a casa da solo quando vado a lavorare… -
Né Tatsuki né Renji dissero nulla, ma lui vide lei sollevare lo sguardo su Grimmjow, solo un istante, con una strana scintilla di compassione negli occhi, che era raro vedere in lei. D’altronde Grimmjow non sembrava il genere di persona che ispiri compassione; anzi, la maggior parte del tempo si sarebbe detto piuttosto che dovesse ispirare invidia, dal momento che, con la sua modesta ma solida attività di spaccio nel quartiere, riusciva a permettersi alcuni lussi che gli altri potevano soltanto sognarsi.
Tatsuki e Renji erano due delle poche persone che avessero l’onore di poter vedere Grimmjow quando quella patina di superficiale e precario agio veniva via – e le uniche che non venissero prese a pugni per questo.
Molti di quei soldi guadagnati in maniera tutt’altro che lecita, andavano poi in medicine per il fratello, ma anche questo erano in pochi a saperlo. E d’altronde quelle medicine non facevano molto, perché, anche con la migliore delle intenzioni, Grimmjow non era capace di essere metodico ed ordinato. Renji pensava tra sé che, un po’ per via delle medicine, un po’ per via delle sostanze che ogni tanto il fratello gli dispensava, Ulquiorra era fortunato ad essere ancora vivo.
E nonostante questo non si poteva dire che a Grimmjow non importasse. Tutt’altro. Eccolo lì, che sputava insulti e sangue mentre Ulquiorra sedeva su un gradino fissando il vuoto con quei bellissimi e vacui occhi verdi, senza neppure notare che la sua ferita iniziava a sanguinare.
Renji avrebbe tanto desiderato che Tatsuki fosse ancora capace di piangere. Ma lei aveva gli occhi tremendamente asciutti.
- L’importante è che non ti abbia rotto il naso – concluse lui, con un sospiro.
- Ormai il mio naso ci è abituato – scherzò Grimmjow, ma lo sguardo da pazzo che aveva sulla faccia in pianta stabile non lo aiutava a rendere piacevole la battuta.
- Ti ha preso i soldi? – chiese Tatsuki spiccia, distogliendo di nuovo lo sguardo da Ulquiorra.
- Gli sarebbe piaciuto… - Grimmjow fece una piccola pausa, e posò lo sguardo sulla nuca di capelli scuri. – Sta bene davvero? -
- Sì – ripeté Tatsuki. In verità Ulquiorra non diceva nulla, e questo non era il migliore dei segni – di solito parlava, almeno un po’ – ma era sempre meglio che ritrovarselo con le ossa rotte.
- Andate a dormire, è meglio – consigliò Renji. – E non fatevi vedere domani, soprattutto tu col tuo naso rotto. Ci saranno dei ficcanaso in giro. -
- Di che stai parlando? – esclamò Grimmjow allarmato. Tatsuki sbuffò. – Non dirmi che è ancora lui… -
- No, non è il tuo spasimante, Tatsuki – tagliò corto Renji, e lei roteò gli occhi. – E’ un investigatore privato. -
- … E che cazzo vuole, qua, un investigatore privato? – sbraitò Grimmjow, quasi sconvolto. Renji poteva capirlo: gli mancava soltanto quello.
- Rukia – rispose soltanto. Lo disse a voce bassa, ma gli altri due capirono senza bisogno di farselo ripetere.
Grimmjow sospirò rumorosamente. – Ah. -
- Sei nei guai? – chiese Tatsuki.
Renji scosse la testa, seccato. – No. Voi siete nei guai, se trova per caso quello schifo che vi tenete in camera o se vede la roba che prende Ulquiorra. -
- Mai nessuno che si faccia i fatti propri… - sbuffò Grimmjow. Aveva già ripreso l’atteggiamento strafottente di sempre; l’unico segno tangibile della tremenda emicrania che doveva avere, era un leggero contrarsi del viso a intervalli regolari. – E’ mio fratello, e maggiorenne… -
- E fuggito da una clinica psichiatrica. -
- Heh. – Grimmjow sorrise. – Non sarebbe andato da nessuna parte senza di me. -
- Peggio ancora. – Renji sospirò, esasperato. – Cazzo, Grimm, a furia di abituarti il naso ti sei anche fottuto il cervello, eh? Lui lo buttano in qualche manicomio, e te in galera. Vi dico solo: state alla larga. -
- Staremo alla larga – disse Tatsuki, con voce piana. Aveva una mano sulla spalla di Ulquiorra, che era ancora impassibile, tanto che a malapena Renji poteva vedere il suo petto sollevarsi pianissimo nel respiro. – Ma chi ci assicura che lui starà alla larga da noi? -
- A questo ci penso io. – Renji liquidò l’argomento senza fretta.
Aiutò Tatsuki e Grimmjow a sollevare Ulquiorra; il ragazzo obbediva se veniva messo in piedi, ma mancava di iniziativa. C’erano dei giorni così, diceva spesso Grimmjow con un sospiro, e poi abbaiava qualche insulto al fratello, per dirgli di muoversi.
Quella notte portarono loro Ulquiorra fino al letto e Renji si congedò in fretta, non desiderando per nulla ostacolare i loro riti serali. Sperava solo che il naso di Grimmjow smettesse di sanguinare per il giorno dopo, e che nessuno di loro si facesse vedere mentre lui portava quel dannato Kurosaki in giro turistico per le meraviglie del Million Dollar Hotel.
Dopo circa una mezz’ora, era di nuovo nel suo letto, cercando di addormentarsi e di non prestare attenzione alla luce della luna che entrava dalle imposte scassate, né al cielo blu scuro, né al brillio intermittente delle stelle.


- Renji? -
- Mh? -
- Che cos’ha Ulquiorra? -
- Non lo so esattamente. Forse neanche Grimmjow lo sa. -
- Non dire sciocchezze, stolto. Certo che lo sa. E’ lui che lo cura, no? -
- Era proprio questo che intendevo. -
Dopo una piccola pausa, lei aveva chiesto ancora: - Lo ama da morire, suo fratello, vero? -
Lui aveva sospirato. – Credo proprio di sì. -
- … E’ bello. E’ triste, così triste, ma è anche bello. -




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Bene... secondo capitolo. La canzone, Diamonds and guns, mi ha tormentato in vari modi, insomma l'adoro: cercatela. Artist: The transplants. Mi sembra azzeccata per Renji, e Grimmjow, che ne dite? XD
Come sempre, ditemi cosa ne pensate. X3

@Ino_Chan: Grazie! *__* Mi fa davvero piacere sentirti dire così... *///* E poi nell'ambiente malfamato ci speravo! XD Ora, man mano che si definirà la trama, aspetto di sapere se continua a sembrarti convincente u_u Soprattutto il modo in cui ho trattato i personaggi *___*''

@Rika_fma_lover: Acie =^o^= Allora, Grimmjow eccotelo servito, anche se non in chiave yaoi. °_°'' Non so se l'opzione parentela di disgusti, ma io sono andata ad istinto, non potevo farci niente... a suo tempo questo tipo di rapporto mi era sembrata una bella idea! XD
Speriamo che la storia sia davvero esplosiva. ** Mi piace pensare di essere riuscita (pura fortuna, eh) a creare un certo numero di trame per poi intrecciarle, ma la scelta dei tempi e dei "ritmi" mi ha richiesto molta riflessione; starà a te giudicare cosa ho combinato. :P

@AllegraRagazzaMorta: Ma ciao :D Ecco, la tua recensione mi ha dimostrato che per quanto io possa cercare di "seminare" indizi che non si notino, e acquisiscano importanza solo più avanti... è tutto inutile Y_Y''
Però, non ti dirò cosa hai colto e cosa no, perchè sono sadica (XD).
Ti dico solo che sì. Ken è metallaro, ma questo perchè Tite tesso l'ha descritto così nel primo OAV (io rotolavo) e anche sul mestiere di Ran non c'è alcun segreto - la storia verrà comunque approfondita più avanti. u_u Lo stesso vale per la Gin/Ran (sì, ha una sua parte in questa storia), Shiro/Momo (anche loro u_u benché si rivelerà complicato) e per il rapporto tra Byakuya e Rukia. Insomma la mia speranza è di non lasciare nessuno a bocca asciutta *_*

Grazie a tutti :P

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Capitolo 5
*** Terzo. Doll parts ***




Capitolo terzo.
Doll parts




[ I want to be the girl with the most cake -
he only loves those things because he loves to see them break;
I fake it so real, I am beyond fake -
and someday, you will ache like I ache ]


Byakuya si svegliò di soprassalto, e prima ancora di realizzare dove si trovasse o che ore fossero, ebbe la consapevolezza che quello era un risveglio del tipo che aveva sperato di non sperimentare mai più.
Spostò lo sguardo sul letto di fianco a sé, cercando di calmare il respiro e di mettere ordine nei pensieri. Si aspettava di vedere sua moglie sveglia, seduta con la schiena contro il cuscino; si aspettava che l’avesse svegliato per chiedergli qualcosa, per dirgli che non stava bene, che non riusciva a respirare o che aveva avuto un incubo.
Vestirsi, prendere la macchina, andare in ospedale. E poi la notte in corsia, i caffè al distributore, e il giorno dopo al lavoro…
Sì, si disse mentalmente, poteva farlo anche questa volta. Ce l’avrebbe fatta.
Ma Hisana non era lì e non lo aveva svegliato. Non doveva andare da nessuna parte. Era stato solo un sogno.
I pochi minuti che gli erano serviti per calmarsi avevano cancellato quasi tutti i dettagli di quel sogno; era rimasta, però, una sensazione di malessere e angoscia così forte che non se ne sarebbe andata neppure dopo giorni. Byakuya si portò una mano al viso e posò la fronte sul polso, chiudendo gli occhi e cancellando per un momento l’immagine della sua grande stanza da letto, elegante, ordinata e vuota.
Aveva sognato Hisana, e nel sogno c’era qualcosa di sbagliatissimo. Sapeva cos’era. Subito dopo che Hisana era morta, faceva quel sogno praticamente ogni notte.
Hisana gli aveva chiesto di ritrovare Rukia. La ragazza era scappata proprio pochi giorni prima che Hisana morisse – Byakuya la aveva odiata, per aver fatto preoccupare la sorella più di quanto non lo fosse già – e fino al momento di esalare l’ultimo respiro, tutto ciò che Hisana aveva ripetuto era stato che lui doveva ritrovarla, che doveva salvarla. Byakuya aveva promesso; avrebbe promesso qualsiasi cosa. Aveva sperato di tranquillizzare Hisana, di farla stare meglio; aveva sperato che se avesse ritrovato Rukia in fretta, questo avrebbe velocizzato la guarigione. Perciò si era rivolto alla polizia, ma avrebbe dovuto immaginare che sarebbe stato inutile; non avevano risolto nulla.
E nel frattempo Hisana era morta.
Era morta invocando la sorellina e Byakuya non era nemmeno sicuro che lei si fosse accorta di lui, della mano che le aveva tenuto per tutto il tempo.
Anche per questo motivo, odiava Rukia.
E il senso di colpa tornava a visitarlo nei sogni, sotto le spoglie di sua moglie che arrancava su ginocchia e gomiti sanguinanti soltanto per ricordargli di trovare la sorella. La piccola, egoista, ingrata sorella.
Già una volta, agli inizi del suo matrimonio, Byakuya aveva dovuto cercare Rukia. Le loro strade si erano divise, aveva spiegato Hisana, quando entrambe vivevano nella povertà; ora che lei ne era uscita, voleva aiutare anche la sorellina. Così l’avevano trovata e salvata da una vita di stenti per la strada, e aveva abitato con loro per cinque anni – ed era questo il modo in cui li aveva ringraziati…
Byakuya riaprì gli occhi. Non riusciva a respirare, in quella stanza; si alzò e andò ad aprire la porta finestra. L’aria entrò subito, fredda, e lui la respirò con gratitudine.
La città era illuminata e viva, sotto di lui, persino nel pieno della notte; e Rukia era lì, da qualche parte.
Presto la avrebbero trovata, si disse. E quell’incubo, i suoi incubi, sarebbero finiti.


Nanao avrebbe dovuto sentirselo, che quella giornata sarebbe stata orribile. Perché aveva fatto colazione senza averne sentore? Come aveva potuto non presagirlo?
Una volta, quando era segretaria nello studio d’avvocato più rinomato di Tokyo, le cose se le sentiva sempre. I suoi capi la consultavano, persino, per sapere cosa ne pensasse: dietro ai suoi occhialini sottili, lei sapeva tutto.
- Che ti pare di questo cliente, Ise? -
- Sta mentendo. E’ colpevole. Ci metteremmo nei guai difendendolo… -
Non sbagliava mai.
Certo che, neppure la mattina in cui la moglie del suo diretto superiore aveva scoperto la loro relazione e lui l’aveva licenziata, Nanao aveva presentito nulla. Forse il suo sesto senso falliva proprio nelle situazioni più gravi.
- So che è qui. -
Nanao si riscosse dai suoi pensieri sempre più disperati e sospirò profondamente, sollevando di nuovo lo sguardo sul ragazzo biondo che le stava di fronte, dall’altro lato del bancone della reception.
- E’ possibile, ma se non mi ha detto che aspettava visite… -
In verità Tatsuki le aveva proprio detto espressamente di non lasciarlo salire.
- Be’, non mi aspetta. Ma vorrei vederla comunque. -
Facile a dirsi… quello non mollava.
- Ascolti, davvero… mi dispiace, ma… -
Shunsui scelse quel momento per entrare rumorosamente nel gabbiotto, spalancando la porta e facendoli sobbalzare entrambi. Li fissò per un istante con uno sguardo che strinse il cuore di Nanao. Ogni mattina era sempre peggio.
- Qual è il problema? – tagliò corto l’uomo con voce rauca.
- Io… - iniziò il ragazzo. La sua espressione, che Nanao aveva sempre trovato un po’ strana – come se fosse addolorato per qualcosa – si fece impercettibilmente tesa.
- Chi sei, “tu”? – chiese Shunsui, avvicinandosi in tutta la sua statura.
- Kira… Izuru… - balbettò il ragazzo, sollevando lo sguardo.
- E cos’è che vuoi? -
- Ecco, è già venuto alcune volte – tentò di intervenire Nanao, - è un amico di Tatsuki, ma… ecco, io non so se… -
- Ah. – Anche Shunsui era al corrente. – Mi spiace, ma non possiamo dare informazioni. Ed ora togliti dai piedi – concluse, con un gesto della mano, oltrepassando il povero Izuru e andando a sistemarsi sulla sua poltrona.
L’altro sembrò per qualche istante sconcertato, ma non osò ribattere, e sollevò due occhi tristi da ragazzino su Nanao. Per la prima volta lei sentì una piccola punta di senso di colpa verso di lui. – Be’, ecco, se la vedete… ditele che sono passato… -
- Certo – e Nanao tentò di rimediare sorridendogli, per quanto le era possibile. – Lo farò. -
Ma Izuru non parve confortato quando si voltò per andarsene.
- Quante volte ancora dovremo avere a che fare con quello? – borbottò Shunsui, che sembrava decisamente poco toccato dalla scenetta.
- Non demorde… - commentò Nanao, stringendosi nelle spalle.
- Tatsuki potrebbe pensarci da sola, comunque. Perché non lo vuole vedere? -
Nanao scosse ancora la testa. – Non lo so. –
Shunsui non chiese altro, limitandosi ad un roco sbuffo, mentre si calava l’antiquato cappello sugli occhi. Una volta, quando era appena arrivata al Million Dollar Hotel e l’aveva conosciuto, Nanao aveva trovato il dettaglio del cappello molto caratteristico. Gli dava charme, in qualche modo. Allora Shunsui era ancora brillante, galante persino.
Ora il cappello sembrava così patetico.
- I guai non sono finiti... -
Quell’osservazione inaspettata scosse Nanao che sollevò lo sguardo. – Eh? -
- Ecco il nostro investigatore preferito. – Shunsui indicò col pollice verso l’entrata e Nanao si sporse per guardare, irrigidendosi subito dopo. Eccolo là, infatti: Ichigo Kurosaki. Se ne era quasi dimenticata.
- Oh cielo, dov’è Renji? -
- Calma, calma. Sono qui. –
Quando Nanao si voltò, il ragazzo in questione era appoggiato al bancone che poco prima aveva visto l’espressione mortificata di Izuru. Quella mattina aveva legato i capelli in modo particolarmente assurdo, con una specie di treccia parecchio disordinata.
Lui le sorrise e poi sollevò una mano verso Kurosaki.
Nanao sospirò, sollevata, anche perché quando il detective le passò davanti si limitò a rivolgerle un cenno di saluto e si affiancò subito a Renji.
- Divertitevi – li apostrofò Shunsui, che quel giorno doveva essersi alzato davvero male.


- Eccoci qui. -
Erano appena scesi dall’ascensore al quarto piano, il più agibile e di conseguenza l’unico abitato dello stabile. Renji indicò l’ambiente con un gesto vago della destra, come a invitare il suo accompagnatore a guardare pure con agio, ma Ichigo si limitò ad un’occhiata veloce con la quale inquadrò in fretta ciò che c’era da vedere: l’arredamento era del tutto occidentale, tappezzeria scrostata alle pareti, un vecchio tappeto macchiato e bruciacchiato sotto i piedi e lampade che dovevano avere avuto un gusto rétro ed ora erano solo passate di moda. I colori prevalenti, a prima vista, erano il marrone e il colore della penombra.
- Da dove iniziamo? Ah, forse vuoi dare un’occhiata alle camere. -
Ichigo annuì, seguendo l’altro. – In questo piano sono tutte abitate? -
- Tutte quelle che non sono troppo a pezzi. -
- Perciò nessuno di sconosciuto avrebbe potuto occuparne una senza che ve ne accorgeste? -
Renji aprì la propria porta. – Ne dubito. Quelli che passano di qua solo temporaneamente, di solito non ci arrivano neanche al quarto piano. Si fermano in uno di quelli sotto… là è un gran casino, ma per una o due notti può andar bene. -
- E non è “passato” nessuno? – ribadì Ichigo con un’occhiata penetrante.
L’altro si strinse nelle spalle. – Non ci vado tanto spesso, ma ogni tanto Yachiru ci va a giocare. Si sarebbe accorta se ci fosse stato qualcuno. -
- Yachiru? -
- Solo un’altra inquilina. -
Ichigo entrò, guardandosi attorno. La camera di Renji era un vero caos, ma non era stipata e stracolma come la maggior parte delle altre. In fondo, lui viveva da solo e non gli serviva poi molto.
- Capisco… - disse l’investigatore, le mani in tasca, terminando la sua ispezione visiva per posare di nuovo lo sguardo su Renji. Quello dal canto suo era rimasto alla porta con una mano sulla maniglia e un’espressione scettica.
- La tizia che state cercando è per caso nascosta qui da qualche parte e non me ne sono accorto? -
Ichigo sorrise. – No. -
- Ah, per fortuna. – Renji gli fece un cenno con la testa e Ichigo lo seguì di nuovo fuori.
Fecero il giro del piano, e Renji indicò le varie stanze, spiegando a grandi linee lo spiegabile; c’erano cose che non si dovevano dire, perché era meglio che l’altro non le sapesse, e cose che non si potevano dire, perché tanto non avrebbe mai capito.
- Qui vive una giovane coppia… vivono con uno stipendio da fame. E qui… – Indicò con un cenno la stanza di Shinji e Hiyori, ma prima che potesse dire qualcosa la porta si aprì e la stessa Hiyori ne uscì, ciabattando nei suoi sandali troppo grandi – perché in realtà erano del fratello - e strofinandosi un asciugamano sulla testa di capelli biondi.
Si bloccò, vedendoli, e poi li guardò malissimo, anche se quello era pressappoco il suo sguardo standard. I suoi occhi si spostarono dall’uno all’altro per un istante e infine la ragazza chiese, in tono un po’ iroso, come se la cosa fosse uno sgarbo fatto a lei: - Renji. Da quand’è che sei diventato una checca? -
Ichigo non batté ciglio, e Renji dovette ammettere che la cosa gli fece guadagnare punti agli occhi suoi tanto quanto a quelli di Hiyori.
- Chiudi la bocca, cretina. -
- Senti chi parla. - Hiyori gli mostrò la lingua. – E se non è il tuo ragazzo, chi è? -
- Mi chiamo Kurosaki – si presentò Ichigo con nonchalance. L’altra sembrò assottigliare le palpebre come se il nome le dicesse qualcosa. – Ah – disse alla fine. Doveva aver ricordato ciò che Shinji le aveva spiegato. – Perciò sei venuto per fare domande? -
- Esatto… - e Ichigo estrasse ancora la foto. Renji cominciava ad odiarlo, quel pezzetto di carta plastificata, e lo odiò ancora di più quando Hiyori, nel prenderlo, rivolse a lui un impercettibile sguardo esitante subito nascosto dai ciuffi aggressivi dei suoi capelli bagnati.
- Chi hai detto che è? – chiese, rigirandosi la foto tra le mani.
- Non l’ho detto. Si chiama Rukia Kuchiki. Mai vista? -
- Nah. Dovrei? -
- Pare che di recente sia stata da queste parti. –
Hiyori scosse ancora la testa. – Qui ne passa un sacco, di gente strana. -
- Sì, - Ichigo si voltò verso Renji, che si strinse nelle spalle – lo so. –
- Be’, comunque, visto che non ho niente da dirvi, - riprese Hiyori, mettendo avanti un piede come se avesse intenzione di attaccare Renji fisicamente – dimmi una cosa tu: dov’è quel deficiente di mio fratello? -
- Sarà ancora a riparare le tubature nella cucina di Momo. – Renji si strinse nelle spalle.
Hiyori alzò gli occhi al cielo. – E magari si fa anche pagare! Le nostre tubature hanno appena smesso di funzionare! Per fortuna che avevo finito di lavarmi i capelli – e si tirò indispettita una ciocca che le copriva un occhio.
- Che seccatura… - borbottò Renji. Già prevedeva un nuovo giro di lamentele da parte di tutti quelli che si erano rivolti a Shinji e che sarebbero andati a protestare da Nanao… e Nanao poi con chi avrebbe dato di matto, se non lui?
- Puoi dirlo forte. Quell’idiota. Be’, addio a tutti – e Hiyori alzò una mano in segno di saluto, senza preavviso, prima di voltarsi e ciabattare stavolta verso la porta di Momo e Toushiro che avevano appena oltrepassato.
- … Shinji! – sbraitò, spalancandola. Si sentì uno strilletto da parte di Momo e poi una serie di voci concitate. Renji si grattò mestamente una tempia con l’indice.
- Quella era… ? – chiese Ichigo, voltandosi verso il suo Virgilio personale.
- Hiyori… suo fratello si chiama Shinji… è un idraulico – rispose Renji vago.
- E Momo? -
- Te ne stavo parlando prima. Lei e Toushiro hanno ventitré e ventidue anni… -
- Ah, la coppia sposata. – Ichigo era ancora voltato verso la porta dalla quale continuava a udirsi il rumoroso scambio di opinioni di Shinji e Hiyori, e Renji si decise a lasciar perdere le ciance, con un sospiro. – Senti, ti va un caffè? -
- Dove, nella cucina di Momo con l’acqua delle tubature di Shinji? – domandò l’altro divertito.
- No. – Renji indicò l’ascensore. – C’è un bar qua davanti. Un buco, per dirla tutta, ma noi non pretendiamo troppo. -
Ichigo esitò un istante, e qualsiasi espressione amichevole il loro incontro potesse avere acquisito svanì mentre lui si prendeva il tempo per valutare la proposta dell’altro. Renji non era nervoso, ma seccato sì. Quello era un piantagrane, non se lo doveva dimenticare.
- Va bene, andiamo. – Ichigo parve decidersi all’improvviso, e ritornò sui propri passi precedendo Renji. – Non ho fatto colazione. -
Attraversarono la strada senza bisogno di guardare; quando una macchina passava da quelle parti, la si sentiva minuti prima. L’asfalto non era più bagnato, ma era ancora ben lungi dall’assomigliare a quello pulito e liscio delle strade trafficate del centro.
Il bar era anche quello vuoto, come la strada, ad eccezione del vecchio proprietario che stava dietro la cassa e ascoltava la radio.
Renji lo salutò sollevando la mano e chiese due caffè, per poi indicare il tavolo più vicino.
Ichigo tolse la giacca spiegazzata e, come la volta prima, offrì una sigaretta.
- Era previsto nel servizio di accompagnatore che mi offrissi la colazione? – si informò, passando l’accendino.
Renji gli lanciò un’occhiata mentre accendeva la sigaretta. Il fumo non poteva certo peggiorare l’atmosfera già abbastanza appannata del locale. – Chi ha parlato di offrire? -
Ichigo riprese l’accendino. Rise, ma i suoi occhi non accennarono ad addolcirsi.
- Comunque non faccio l’accompagnatore – sottolineò Renji. – Ancora non mi sono ridotto a tanto. -
- Ah, giusto. – Ichigo si strinse nelle spalle. – Scusa. Non intendevo… -
- Lo so, lo so. Tu non ti fidi, vero? -
Il detective corrugò appena la fronte, ricambiando lo sguardo diretto che gli stava rivolgendo l’uomo di fronte a lui.
- Non dovrei? -
- Non rigirare le mie stesse parole. – Renji indicò dietro alla sua spalla, dove si trovavano, in ordine, l’uscita del bar, la strada, e l’Hotel. – Prima, quando eravamo da me, ti ho spiegato che le persone che passano solo per una notte non si fermano in quel piano. Eppure tu hai comunque voluto vedere la mia stanza e poi non hai nemmeno chiesto di fare un salto ai piani di sotto per controllare che non ci fossero tracce del passaggio di qualcuno. Voglio dire, per te sarà uno scherzo verificare se qualcuno è stato lì di recente, no? -
Ichigo sorrise appena. – E come, con la bacchetta magica? -
- Ma che ne so. Avrete i vostri metodi – sbottò Renji, che non aveva voglia di perdere tempo in stronzate.
- Be’. – L’altro annuì. – Hai ragione. Non è che non mi fidi, ma sono convinto che Rukia non sia semplicemente passata di lì all’insaputa di tutti. Qualcuno l’ha aiutata. -
Renji lo fissò in silenzio. Per due, tre secondi. – E chi te lo dice? -
- La mia fonte. -
- Ah, certo. Sempre quella cazzo di fonte. – Il ragazzo esibì un’espressione annoiata. – E già che c’era non ti poteva dire direttamente chi era stato? -
- Evidentemente no. –
- Perciò che progetti di fare? – Renji roteò di nuovo gli occhi, posando lo sguardo su Ichigo. – Una specie di indagine psicologica finché uno di noi non si tradirà? -
- Tu guardi troppi film – lo apostrofò Ichigo.
- Non ne guardo nessuno. -
- Be’, comunque no. Si tratta solo di fare due più due. La realtà è molto meno cervellotica dei telefilm… - concluse Kurosaki, stringendosi nelle spalle.
I caffè arrivarono e Ichigo ringraziò con un cenno l’anziano proprietario, ma lo sguardo di compatimento che gli rivolse quello gli chiarì che simili maniere da ragazzina non erano richieste. Renji buttò giù la sua tazzina in un colpo solo.
- Allora suppongo che rimarrai tra i piedi per un po’. -
In risposta alle sue parole, Ichigo sollevò di nuovo lo sguardo verso di lui. – Tutto il tempo necessario. Però forse potremmo velocizzare il tutto, se tu mi raccontassi un po’ di cose. -
Renji sollevò uno dei sopraccigli tatuati. – Per esempio? -
- Il punto è il quarto piano, giusto? E’ lì che vivete tutti. -
L’altro si limitò ad annuire.
- E quanti siete? -
- Molti vanno e vengono. -
- Quanti? -
- Mah… - Renji distolse lo sguardo, calcolando mentalmente. – Una quindicina. -
- Soltanto? -
- Te l’ho detto. La gente va e viene. Sai, noi si vive così. – Renji gli rivolse un’occhiata provocatoria, come sfidandolo a contraddirlo.
Ichigo lasciò perdere. – Va bene. Allora, cominciamo… c’è qualcuno che potrebbe avere avuto contatti con la Kuchiki, per qualche motivo? -
- Ed io che ne so? – rispose Renji con sincera perplessità.
- C’è qualcuno che ospita spesso esterni? Amici? Parenti? Non avete visto proprio nulla di strano? -
- Nulla di più strano del solito. No – negò Renji per l’ennesima volta, irritato.
Ichigo rimase fermo un attimo, indice e medio ancora puntati contro la superficie sporca del tavolo. – La ragazza che sto cercando ha ventitré anni – si decise alla fine. – E’ una ragazza minuta e piuttosto solitaria. Non ha molti amici. Preferisce stare da sola e sa anche come cavarsela. Ha vissuto da sola in precedenza. Eppure, al Million Dollar Hotel, c’è qualcuno che la conosce e che l’ha aiutata. Chi può essere questa persona? -
- Ti ho già detto per caso che non lo so? – ripeté Renji, le sopracciglia contratte verso il basso.
Ichigo sospirò e chinò la testa, grattandosi distrattamente il capo. – Va bene, va bene. -
- Sei tu quello che indaga, qua. Fa’ il tuo lavoro – lo canzonò Renji, appoggiandosi allo schienale della sua sedia.
- Okay. Allora mi servono dei dati. Hai detto che il ragazzo che abita vicino a te ha ventitré anni… -
- No. – Renji scosse la testa. – Toushiro ne ha ventidue. E’ Momo che ha ventitré anni. -
- Lei ha un anno più di lui? -
- Sì. Si sono sposati quando lui ne aveva venti e lei ventuno. Abitano al Million Dollar Hotel da allora. -
Ichigo aggrottò la fronte. – Circa la stessa età della Kuchiki. Non è possibile che si siano conosciuti a scuola? -
- Non credo, se questa ragazza è di Tokyo. Toushiro e Momo vengono da Osaka – spiegò Renji.
- E come sono finiti qua? – domandò l’altro.
Renji sollevò appena le sopracciglia. – Per cercare lavoro. Una nuova vita. Opportunità, sai quel genere di stronzate? Ecco. – Giocherellava ancora con la sua tazzina, benché l’avesse vuotata da tempo.
- Osaka è una città ricca di opportunità. -
- Sì, ma non era il caso loro. I loro genitori non approvavano il loro matrimonio. A quelli di Momo non piaceva Toushiro, o viceversa, non ne ho idea… ma lui era un piccolo genio. A Osaka aveva avuto qualche buon lavoro appena finita la scuola. A Tokyo erano sicuri di cavarsela. -
- Perché proprio Tokyo? -
- Momo aveva un’amica qui… -
Ichigo sembrava sempre più interessato. – Chi? -
- Non la tua Kuchiki, sta’ sicuro. – Renji gli lanciò un’occhiata seccata. – Rangiku. Sta nella porta dopo la loro. -
- Ah. -
- Sì, lo so, non il genere di amica alla quale ci si appoggerebbe per fare i primi passi in una grande città, vero? – lo precedette Renji divertito.
- Non lo so – ribatté Ichigo neutro.
- Lo so io, - rimediò Renji. – No. Decisamente non il genere di amica. Non so neanche come si conoscessero quelle due… considerando che Rangiku ha dieci anni buoni più di Momo… -
- Cosa fa questa Rangiku? – lo interruppe l’altro.
Renji sorrise appena. – Come preferisci che lo dica? Accompagnatrice? Maitresse? -
- La prostituta – concluse Ichigo.
- La prostituta. In un locale a due isolati da qui che si chiama Nocturne. Credo che avesse ambizioni da ballerina o qualcosa del genere, una volta. – Il ragazzo si strinse nelle spalle.
- E dopo cos’è successo? -
Renji osservò Ichigo, sorpreso. – Dopo cosa? -
- Dopo che Toushiro e Momo sono venuti a Tokyo per farsi aiutare dall’amica Rangiku – chiarì l’altro pazientemente. Si vedeva che stava mettendo assieme tutti i pezzi, meticolosamente, ricostruendo il puzzle in attesa di trovare da qualche parte un posto per Rukia Kuchiki.
- Be’, non è andata proprio così – si corresse Renji, - ma diciamo che Momo contava sul fatto che Rangiku potesse dare loro una mano ad ambientarsi, in caso di necessità. Hanno trovato un appartamentino all’inizio, e Toushiro ha cominciato a cercare un lavoro. -
- E l’ha trovato? – interloquì Ichigo, ma già intuiva la risposta.
- No. Comunque nulla di duraturo. – Lo sguardo di Renji, puntato sul fondo di caffè, si incupì appena. – Sai, le solite cose, molto sveglio ma troppo giovane, non abbastanza qualificato eccetera. I soldi hanno cominciato a scarseggiare. Momo si destreggiava fra vari lavoretti ma anche lei non aveva avuto molta fortuna. Allora sì, hanno chiesto una mano a Rangiku. -
- E lei? -
- Lei? – Renji sbuffò appena, una specie di risata divertita e amara subito soffocata. – Lei ha aiutato Momo a trovare un lavoro. Parliamo di due anni fa, loro non abitavano ancora al Million Dollar Hotel… Rangiku ha fatto un po’ quello che poteva e ha trovato a Momo un posto al Nocturne. -
- Ah. – Questo “ah” era un po’ diverso dagli altri, come se Ichigo già cominciasse a intravedere la fine della storia.
- Doveva essere solo come cameriera, pare… Il locale ha una frequentazione abbastanza ampia, si guadagna bene. Io li ho conosciuti in quel periodo. – Renji continuava a raccontare con voce sempre più monocorde, non propriamente rattristata, ma sicuramente priva della minima traccia del divertimento e del carattere irascibile che aveva mostrato fino a poco prima. – Non so bene come sia andata. Conoscendo Toushiro, avrà fatto di tutto perché Momo lasciasse quel lavoro… o forse lei aveva iniziato di nascosto, non mi ricordo. Comunque sia per un po’ è andato bene. Rangiku aveva tirato un po’ di corde e ottenuto quell’opportunità come un favore da Ichimaru… -
- Ichimaru? – Ichigo parlò di nuovo soltanto per ripetere quel nome, inarcando un sopracciglio.
Renji annuì. – Sì. Gin Ichimaru. Stanno assieme o qualcosa del genere. Lui è in affari con il proprietario del Nocturne, un certo Sousuke Aizen. -
- Questo nome mi dice qualcosa. -
- Non mi stupisce. – Renji si concesse una sfumatura annoiata. – Quell’uomo ha le mani in pasta in un sacco di roba. Ma mi sa che ha anche un mucchio di avvocati, se ti interessa. -
Ichigo alzò istintivamente una mano. – Non mi interessa. Te l’ho detto, mica sono la polizia. -
- Già… - Renji annuì ma lo squadrò ugualmente, scettico. – Comunque, così è andata la cosa. Momo ha lavorato lì per un po’… e poi… -
- Poi? -
- C’è stato quel gran casino. – Renji sospirò. – In parole povere. Per non so quale motivo malato, questo Aizen si era interessato a Momo. O lei a lui, e a lui non costava niente, chi lo sa? Comunque, lei è rimasta incinta. -
Fece una piccola pausa, ma Ichigo non accennò a dire nulla.
- Ha abortito. Ovviamente. Ovviamente ha anche perso quel lavoro. Ora fa la cameriera in una tavola calda in centro. Non guadagna così tanto, ma è meglio di nulla. Toushiro continua a non avere un lavoro. – Renji interruppe la sua successione di frasi, all’improvviso brevi e asciutte. - Tutto qui. -
Per qualche secondo Ichigo non disse nulla. Poi sospirò, passandosi le braccia dietro la testa. - Che brutta storia. -
- Già. -



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Ecco qua, la storia di Shiro e Momo e il lavoro di Rangiku :P
E un inizio all'insegna di Byakuya, che pur essendo il mio amore, non fa una bella figura in questa storia XD
Personalmente, essendo modesta, vi dirò che mi piace un sacco il breve pezzettino di Hiyori, mi sembra abbastanza ic, il che non è facilissimo, con Hiyori.
Se vi interessa, il titolo e la citazione all'inizio del capitolo, oltre ad essere dettati dal mio istinto bislacco, si riferiscono ad Aizen e Momo.

@Rika_fma_lover: Inizio a srotolare i miei intrecci u_u Qualcuno dice che sono sadica con i miei personaggi, ma a me viene molto naturale ^^'' Evidentemente sono davvero sadicah. XD Almeno abbiamo un po' di carne al fuoco.
Non so dirti riguardo all'amore incestuoso, ma diciamo che inserire l'elemento della pazzia di Ulquiorra mi è sembrato utile per rendere "confusi" i sentimenti dei fratelli l'uno per l'altro - in un modo che penso sia inevitabile tra due personaggi come loro. Sono legati e ancor di più lo sono per le difficoltà che hanno affrontato insieme. Grimmjow nella mia idea è piuttosto possessivo, pur volendo far finta di niente. Ulquiorra, che finora abbiamo visto stile bambola, rivelerà il suo carattere poco a poco :P Anche se presto entrerà in scena un altro personaggio, più "importante" a livelli di trama di Grimmjow...

@Ino_Chan: *____* La tua sviolinata filosofica mi è piaciuta un sacco! XD Tra l'altro hai inquadrato perfettamente come vedo i personaggi (allora vuol dire che mi so far capire *_*''), soprattutto il terzetto Tatsuki-Grimm-Ulqui! Significa che la storia funziona, ed è proprio ciò che speravo... mwahaha, e vedrai, ora le cose si complicano, ghghg. xD

@AllegraRagazzaMorta: Sì, è Rukia, sì, non svelo nessun arcano confermando che è lei, e sì, anche io non posso fare a meno di immaginarmeli così. XD Hai colto perfettamente! XD Riguardo a cosa sia esattamente di lei... mia cara, la trama esige riservatezza u_u pazienta! XD
Riguardo a Shiro, non c'è alcun grande mistero; diciamo che penso il suo comportamento si possa capire meglio mano a mano, ma posso anche delucidartelo in via non ufficiale; il punto è semplicemente che Shiro, come sappiamo, è un ragazzino orgoglioso. Anche e soprattutto per la sua età che lo porta a dimostrare di essere all'altezza. Dopo aver letto questo terzo capitolo capirai ancora meglio: non posso non immaginami Shiro profondamente umiliato, e frustrato, dalla situazione nella quale lui e Momo si trovano. Inoltre il suo carattere non mi sembra il più adatto per socializzare con i compagni di sventura, tutto qui :P
(Sì, Renji e Grimmjow non sono fatti per andare d'accordo? XD)
Allora... sì, sono tutti tristi, lo so. ç_ç D'altronde io amo l'angst, mwahah. XD Un paio di informazioni spoiler: no, la teoria non ritirarla (XD) e... sì, tutti i personaggi da te nominati compaiono. u_u Anche se non tutti hanno una grandissima importanza, e un paio compaiono giusto di striscio, ma ci sono. xD

@gatsu92: Grazie :P Spero che la storia continui ad interessarti! XD

@valeriana: Ma grazie, addirittura *_____*'' (il Divino Manga XD) be', come dire, non si sa che fine abbia fatto Rukia, ma la cosa è abbastanza fondamentale per la trama, quindi mi spiace... bocca cucita :P
Vedo che Rangiku riscuote un sacco di solidarietà... ne ha proprio bisogno, poverina u_u''

@momoko89: Sì, anche a me piacciono molto le storie dove un "mistero" si svela poco a poco, ci sono colpi di scena e vari personaggi che ruotano attorno ad una trama centrale. Per questo ho cercato di costruire la fic in questo modo :P Anche se non sono granché brava nelle storie "pseudo-giallo" ma... speriamo bene :P

Wah, ragazzi... ora basta rispondere, vi posto il capitolo ché è più interessante XD Come sempre grazie infinite, e fatemi sapere :P

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Capitolo 6
*** Quarto. Imaginary ***




Capitolo quarto.
Imaginary




[ I linger in the doorway
of alarm clock screaming,
monsters calling my name.
Let me stay
where the wind will whisper to me
where the raindrops, as they’re falling, tell a story ]


Quando Orihime aprì gli occhi, la sveglia aveva già suonato tre volte e Uryuu si era alzato dal letto da un pezzo.
La prima cosa che la ragazza vide, infatti, furono le piccole grinze del lenzuolo nella parte vuota del letto, e la sveglia posata sul comodino dell’altro. Poi nella sua visuale entrarono le gambe di Uryuu, infilate in un paio di pantaloni neri, e la sua mano – quella con l’orologio – si abbassò per spegnere la sveglia.
- Buongiorno – disse il ragazzo, chinandosi verso di lei. Le sue labbra fresche le baciarono la fronte semisepolta nel cuscino e i capelli le sfiorarono gli zigomi.
- Buongiorno… - rispose lei, sollevando lo sguardo un po’ assonnato verso di lui. – Sei già vestito, - disse, un po’ contrariata, e si tirò su sui gomiti.
- Devo andare al lavoro – le ricordò Uryuu, raccogliendo una tazza di caffelatte che era stata posata sulla scrivania. La portò alle labbra. – Non posso permettermi di arrivare in ritardo. -
- Lo so… - Orihime si mise a sedere e si stiracchiò, allungando la schiena. Uryuu ne osservò la linea sinuosa senza fare commenti, ma intimamente soddisfatto, come lo era sempre, dell’inconsapevole fascino della sua fidanzata. Lei riaprì un occhio leggermente appannato da una lacrima. – Non devi scappare? – gli chiese.
- Sì, ora vado. Tu cosa fai oggi? -
- Oh… non lo so. - Lei si strinse nelle spalle e alla fine si decise ad alzarsi, con un po’ di nostalgia per il tepore delle coperte. – Niente di speciale. E’ una settimana tranquilla. Magari potrei uscire con le ragazze, oppure convincere Nemu ad andare da qualche parte nel pomeriggio, se non c’è molto da fare… -
- Nemu è quella ragazza che ti ha aiutato? – domandò Uryuu. Contrariamente a molti fidanzati, lui ascoltava davvero, quando Orihime raccontava.
- Sì. E’ l’assistente del dottor Unohana. E’ molto gentile, mi ha insegnato un sacco di cose solo nella prima settimana. –
- Se non sbaglio era la figlia di quel famoso medico… - - Già. – Orihime annuì, senza aggiungere altro, e si diresse allegramente verso il letto. – E’ un po’ timida, ma mi sta simpatica. Un giorno di questi la convincerò a uscire con le altre ragazze. -
Uryuu non commentò, ma sorrise. Si voltò per riporre la tazza vuota in cucina; non le lasciava mai in giro come faceva Orihime. Era incredibilmente ordinato. Lei dimenticava sempre le cose ovunque, ma lui era molto paziente. Considerando da quanto tempo la ragazza viveva da sola, era stato abbastanza naturale, per lui, offrirle di vivere insieme quando avevano cominciato a frequentarsi seriamente; Orihime era ancora stupita che la loro convivenza durasse senza intoppi da quasi sei mesi.
Uryuu era di qualche anno più grande di lei, ed era già entrato nella polizia. Anche questo stupiva Orihime: faceva carriera rapidamente, lavorava molto e, nonostante fosse molto intelligente, non l’aveva mai sentito lamentarsi di dover sottostare a superiori irritanti o svolgere mansioni noiose. Chi l’avrebbe detto, poi, che quello fosse il suo sogno? Si erano conosciuti quando lei faceva il primo anno delle superiori e lui l’ultimo, sempre incontrandosi da lontano per motivi imprecisati, e una delle primissime cose che lei aveva scoperto su di lui era che gli piaceva il cucito. Un tipo così, un poliziotto!
D’altronde, rifletté Orihime, nessuno avrebbe neppure mai immaginato che un tipo come lei volesse invece diventare medico. A Orihime non piacevano le malattie e la sofferenza, non si sarebbe mai vista in grado di gestire situazioni di emergenza o di grande gravità. Ma amava rimettere le cose a posto quando si rompevano. La faceva sentire bene, come se fosse un po’ più sana anche lei, in quel modo.
Non aveva mai sognato la vita eroica che hanno in mente molti dei giovani studenti di medicina quando iniziano il loro iter. Al contrario, lei si sentiva a suo agio in corsia, tra i letti dei malati, proprio nello svolgere le piccole mansioni sgradevoli e umilianti che di solito facevano vacillare la vocazione dei suoi compagni di studi. Eppure per lei era così; non le pesavano quei compiti, perché per lei era una questione di armonia. Non era pignola come Uryuu, ma anche lei aveva un suo concetto di ordine.
Per questo ciò che più amava dello stage che stava effettuando era la possibilità di rendersi utile in maniera materiale. Metteva subito in pratica le cose che imparava, e poteva vederne attorno a sé i risultati.
Quando risollevò la faccia dal lavandino per guardarsi allo specchio, si sorrise.
Quel giorno, decise, poteva essere una buona giornata.
- Orihime! – chiamò Uryuu. – Io vado! Ci vediamo stasera. -
- A stasera! -


- Orihime non ti aspetta? -
- E’ uscita con una sua amica – spiegò Uryuu, piegando la sua giacca prima di adagiarla sul basso schienale dello sgabello del bar. La cura con cui aveva lisciato le pieghe era quasi maniacale, ma lui era bravo nel farlo senza dare troppo nell’occhio.
- Com’è andata la settimana? – domandò Ichigo, attirando l’attenzione del cameriere, che ormai li conosceva, per ordinare le loro solite tre birre.
- Come al solito – fu la laconica risposta di Chad.
Uryuu si sfilò gli occhiali appannati per pulirne le lenti. Fuori dalla vetrina del bar, si vedevano solo il grigio e le macchie degli ombrelli dei passanti. Si era all’imbrunire.
- Niente di nuovo. -
- Continui a fare il leccapiedi, eh, Ishida? -
- No, continuo a fare il mio lavoro, Kurosaki. -
- C’è una differenza? -
A volte Ichigo pensava che era veramente buffo. Per esempio: suo padre era un medico e le sue due sorelle avevano entrambe percorso quella via, Yuzu si era diretta verso la pediatria, Karin verso la chirurgia.
Lui, Chad e Uryuu, invece, che erano così diversi da non sapere bene perché fossero tanto amici, erano finiti tutto e tre per un motivo o per l’altro a ruotare attorno alla linea sottile che divide la legalità da tutto il resto. Perché, oltrepassata quella linea, non c’è semplicemente l’illegalità; è molto più complesso di così. C’è un mondo infinito, oltre quella linea, popolata da persone che spesso Ichigo trovava più simpatiche delle brutte facce stampate in foto sui distintivi dei poliziotti.
Per questo non aveva seguito la stessa via di Uryuu. La polizia non faceva per lui; i poliziotti erano degli stronzi, dal suo punto di vista, convinti di saperla troppo lunga e di essere migliori degli altri.
Lavorare da privato può portare ad un mucchio di grane in più, certo, e anche a un numero maggiore di conflitti con il proprio senso etico. Ichigo non avrebbe mai osato affermare che in quel modo si agisse in maniera più giusta. Però almeno poteva fare delle scelte, e non doveva obbedire a nessun idiota con manie di potere, che magari aveva un posto più in alto del suo solo perché era parente di qualcuno.
Uryuu ovviamente pensava che fossero delle idiozie, e che Ichigo fosse sostanzialmente un fallito. Un fallito in odore di criminalità, a dirla tutta. Almeno questo era quello che diceva ogni volta che si riunivano verso sera, attorno alla fine della settimana, per bere qualcosa prima di andare ognuno a casa propria.
Chad aveva aperto un negozio di armi. Uryuu lo trovava poco civile. Ichigo, dal canto suo, aveva grazie a quel negozio un sacco di contatti utilissimi. Il mondo delle persone che comprano armi era affascinante e interessante, per uno che faceva un lavoro come il suo.
- Tu, invece, che ci racconti? -
Ichigo si strinse nelle spalle, aprendo la sua birra. – Un nuovo incarico, un pezzo grosso. -
Ishida si risistemò gli occhiali sul naso. – Quello per cui mi hai chiesto di fare quei controlli all’orfanotrofio? -
- Mh, già. -
Gli altri due lo guardarono, ma nessuno chiese di più. Tra le altre cose, avevano anche una buona intesa in quel genere di situazioni. Sapevano bene che ciò che l’altro non diceva era qualcosa che evidentemente non poteva essere detto.
- C’è questa ragazza che è scomparsa… devo indagare nell’ultimo posto dove l’hanno vista. – Ichigo era evidentemente preso da quel lavoro, Uryuu ne era certo; bastava vedere il modo in cui parlava, concentrato, come se persino in quel momento, rievocando i dettagli del caso, la sua mente si impegnasse per provare a farli collimare. – Un posto assurdo. Un vecchio hotel che per qualche traversia legale è finito nelle mani di un proprietario che è vincolato a non venderlo… mah, hanno provato a spiegarmelo, ma non ci ho capito niente. -
Uryuu ebbe un piccolo sbuffo divertito.
Ichigo gli lanciò un’occhiataccia, ma lo ignorò. – Comunque, tra una cosa e l’altra, adesso è occupato da degli inquilini che vivono nella parte abitabile. Gente di tutti i tipi, che non sa dove andare. Una specie di corte dei miracoli… il quartiere, anche, è quello che tu chiameresti “malfamato”. -
- Ah, il genere di situazione che preferisci – commentò Uryuu in tono tagliente, prendendo un sorso di birra.
Ichigo sorrise appena, con un piccolo sbuffo. – Sì, mi intriga. Tu ci impareresti un mucchio di cose, Uryuu – lo stuzzicò.
- Cose che non ci tengo affatto ad imparare – ribatté l’interessato.
Chad era silenzioso, ma questo era normale. Solo dopo un po’ buttò lì, quasi casualmente: - Due giorni fa è passata da me Soifon. -
Gli altri due si zittirono, e dalle loro espressioni era evidente che quella semplice frase aveva attirato tutta la loro attenzione. – Shaolin Fon? – ripeté Ichigo dopo un istante, assottigliando le palpebre.
Chad annuì, continuando a bere.
- Ha comprato delle armi? – domandò Uryuu.
- Cartucce. Sono l’unico a tenere quelle che le servono, da queste parti. -
Gli altri due rimasero ancora un po’ in silenzio. – Be’, questo non serve a un bel niente – concluse Ichigo irritato, dopo un po’.
- Ci sei arrivato, genio. – Uryuu gli rivolse un’altra occhiata di sbieco, senza neppure voltarsi. – Non sono mica così idioti da andare a sbandierare i loro traffici illeciti sotto gli occhi del nostro amico. -
- Non lo sanno, che sono vostro amico – sottolineò Chad.
- Comunque sia. – Uryuu scrollò le spalle.
- Però questa è la prima volta che si vede in giro uno degli Shihouin, da quando lei è tornata in Giappone – osservò Ichigo. – Ormai un mese fa. -
- E con questo? Anche se ci fossi andato a sbattere contro mentre eri in fila per il riso, sarebbe stata la prima volta, e comunque non ti sarebbe servita a niente. – Uryuu era irritato dalla piega della conversazione. Lo faceva sentire impotente. – E poi non era neppure lei. Era semplicemente una dei suoi… -
- Be’, mica una qualsiasi – protestò Ichigo. Uryuu sospirò e ebbe l’impressione che Chad gli rivolgesse un’occhiata di comprensione. Il loro amico ridiventava ingenuo come un ragazzino, quando si trattava di quell’argomento.
- Ichigo, tutta Tokyo sa che Yoruichi Shihouin merita di passare la vita in carcere, ma non per questo possiamo fare a meno di prove – gli ricordò Uryuu, e terminò con una lunga sorsata la birra che gli era rimasta. – E’ inutile farsi il sangue amaro. -
Ichigo, ovviamente, lo sapeva, e così evitò di protestare ancora, osservando torvo il suo bicchiere prima di ribattere un’ultima volta. - Ci eravate andati vicino… - disse, amareggiato.
- Già. – Uryuu sapeva bene di non avere alcun merito in quella faccenda, e di essere rientrato nel “voi” generico di Ichigo soltanto perché appartenente al corpo della polizia. – L’abbiamo spaventata e ha preferito fare un viaggetto all’estero. Ma se è tornata… be’, lo sai cosa vuol dire. -
Ichigo non rispose.


Pioveva e Nemu aveva un impegno con la dottoressa Unohana, perciò la logica avrebbe voluto che Orihime se ne tornasse a casa, a rincantucciarsi sotto le coperte con un tè caldo tra le mani in attesa che anche Uryuu rincasasse. Magari avrebbe potuto cucinare, le piaceva cucinare, quando lui glielo lasciava fare.
Invece non aveva preso la via di casa, ma si era incamminata tutta sola, ombrello alla mano, verso una zona della città dove non avrebbe dovuto recarsi nemmeno accompagnata. Ed ora, lo sguardo sollevato verso l’alto, rivoli di pioggia che le attraversavano la visuale, se ne stava ferma nel bel mezzo del marciapiede a fissare l’imponente facciata del Million Dollar Hotel.
Quel posto le faceva sempre una strana impressione. Probabilmente Uryuu lo avrebbe definito “fatiscente”, ma Orihime, che aveva sempre avuto una fantasia molto viva, trovava qualcosa di affascinante nella sua decadenza, qualcosa di dignitoso nella sua rovina. Persino così lavato dalla pioggia, i suoi colori diventavano cupi, attraenti in uno strana accezione del termine.
Orihime era stata messa in guardia.
La decadenza può attrarre. La malattia è affascinante. Non lasciarti sedurre.
Ma lei non lo stava facendo. Era solo coinvolta come lo era con ogni persona che era stata suo paziente, si diceva. Anche se non era certa che per un altro paziente avrebbe attraversato la città come aveva appena fatto, ben sapendo che non avrebbe avuto il coraggio di fare un bel nulla una volta arrivata se non rimanere lì col suo ombrellino colorato, a prendersi un bel po’ di pioggia e aspettare un’idea o una spiegazione che non sarebbero arrivate.
Sapeva che Ulquiorra stava lì. Glielo aveva detto la dottoressa Unohana, quando lo avevano curato ed Orihime era rimasta tanto sorpresa da chiedere spiegazioni, perché era stato veramente strano il modo in cui lo avevano curato.
Era arrivato al pronto soccorso portato praticamente in braccio da un ragazzo con dei capelli e un modo di vestire piuttosto particolare. Ad Orihime, comunque, i capelli tinti di azzurro avevano fatto simpatia; le piacevano i colori.
Il ragazzo sembrava preoccupato e aveva chiesto insistentemente di Unohana, finché lei non era arrivata di persona e, riconoscendolo, aveva allontanato gli altri medici e fatto sedere lo strano paziente su un lettino in un piccolo ambulatorio vuoto.
Orihime era lì solo da pochi giorni, e non la aveva mai vista prima così: di solito la dottoressa era mite e sorridente, e riusciva a imporre la sua calma fiduciosa anche ai pazienti, cosa che spesso li aiutava persino più della cura stessa. Ma quella volta Unohana non era né fiduciosa né speranzosa. Aveva controllato le condizioni del ragazzo dai capelli neri con un piccolo sospiro, e poi aveva porto un semplice medicinale al ragazzo dai capelli azzurri.
- Dovresti lasciare che lo curino, Grimmjow – aveva detto, il tono dolce un po’ spento.
L’altro aveva fatto una strana smorfia, aveva preso il medicinale e a malapena ringraziato. Orihime in quel momento stava prendendosi cura dell’altro ragazzo e non ci aveva fatto molto caso.
Era completamente assorbita dalla presenza di quella persona; Ulquiorra, così lo aveva sentito chiamare, era calmo e seguiva i suoi movimenti con occhi profondi, seri e adulti, carichi di un’intensità spiazzante.
Era chiaramente un ragazzo, ma, se si fosse trattato soltanto di giudicare dal suo viso, non avrebbe saputo che età dargli. Nei contorni del volto, negli occhi brucianti di febbre, c’erano una stanchezza esausta, un’armonia sepolta sotto la polvere. C’era qualcosa di dissonante in lui, qualcosa di irrimediabilmente rotto; Orihime, che amava raddrizzare le cose, se ne era accorta subito. Eppure quel ragazzo doveva anche avere una forza straordinaria, un carisma innato, perché la sensazione dei suoi occhi puntati su di sé aveva dominato Orihime per tutto il tempo in cui l’aveva curato.
Poi aveva commesso l’errore di sollevare il viso verso di lui e aveva incontrato il suo sguardo.
Ulquiorra aveva sondato i suoi occhi e aveva teso una mano sfiorandole le labbra.
E a lei si era fermato il respiro.
E dopo, come in un sogno, Grimmjow aveva ripreso il fratello per mano e se ne era andato sbraitando di non avere tempo. Unohana aveva riposto lo stetoscopio sospirando e solo allora Orihime aveva avuto la prontezza di domandarle chi fossero quei due.
Aveva scoperto così che erano fratelli e che abitavano in quello strano posto, il Million Dollar Hotel. Aveva capito, anche se Unohana non lo aveva detto, che se un altro medico avesse visitato Ulquiorra non li avrebbe lasciati andare via tanto facilmente.
Allora perché invece, si chiedeva Orihime, Unohana lo aveva fatto?
Era chiaro che Ulquiorra aveva bisogno di cure. Orihime non capiva. Perché Unohana non aveva impedito ai due ragazzi di andarsene?
Non aveva mai visto prima la dottoressa con un’espressione simile. Quasi rassegnata, quasi demoralizzata. Come se non ci fosse nulla da fare.
Lei, Orihime, era una studentessa di medicina e le avevano insegnato a credere che c’è sempre qualcosa che si possa fare!
Però, nonostante le sue certezze, le era parso di capire la prima volta che aveva visto il Million Dollar Hotel. E ancora, quel giorno di nuovo, sotto la pioggia, con gli occhi seri e immoti di Ulquiorra nella mente, le sembrava di capire.
Non c’era nulla da fare per Unohana come non c’era per lei. Si voltò, come aveva già fatto una volta, e si accinse a tornare sui suoi passi.



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Questo capitolo mi piace molto (sono assai modesta). Inizialmente non avevo previsto che la storia prendesse questa piega, pur avendo alcune idee su Orihime e Ulquiorra. Poi, però, mi è uscito in questo modo, e mi piace come si inizia a respirare un’atmosfera più ampia rispetto a quella del solo hotel.

@Ino_Chan: Che tu dica che la storia è realistica mi solleva moltissimo! Infatti è proprio quello che spero, anche se incrociamo le dita per il futuro... e lo stesso vale per le descrizioni dei luoghi, sento che l'atmosfera è importante e sono molto felice che si noti!
Eh sì, poveri Momo e Toushiro... volevo rappresentarli al contrario di come sono visti di solito: lui, anziché il giovane prodigio della Seireitei, frustrato e "perdente"... e lei non più tanto candida e ingenua, almeno, non proprio! Una coppia "avvelenata" per così dire.

@valeriana: In realtà mi sono proprio divertita a cercare di mischiare le carte in tavola... e far sì che gli eroi del gotei 13 si ritrovassero a fare i conti con le miserie del mondo! Per questo devo dire che in realtà Byakuya non è preoccupato per Rukia (come succede nel manga) ma unicamente mosso dal rimorso per la morte di Hisana. E Aizen... ebbene sì, sempre lui il tipo losco di turno, ma non solo. xD

@Rika_fma_lover: Avevi azzeccato chi era il personaggio importante per Ulqui? XD Sono prevedibile? Mi sa di sì. Però volevo scrivere di loro, non l'ho mai fatto se non in una shottina ridicola. Non so se dal modo in cui finisce questo capitolo si capisce quanto mi piaccia scrivere di Ulquiorra! XD
Sì, il Nocturne è figo *_* Più avanti ne sapremo di più *_*

@AllegraRagazzaMorta: In effetti, niente Byaku/Ruki. Non che non sia nelle mie corde, eh, ma stavolta volevo rappresentare Byakuya come un freddo bastardo. Agisce per dovere, e basta.
Per Hiyori e Shinji... sono andata ad istinto. Il punto è che riesco molto meglio a vedermeli come fratelli che come qualcosa di diverso, abbiamo ancora poche informazioni su di loro (tipo la vera età di Hiyori, dettaglio per me importante! XD).
Sì, Shiro è torvo e incazzato per le ragioni che hai detto tu. Era proprio questo il genere di difficile rapporto che volevo creare tra lui e Momo. Il motivo per il quale non ha ucciso Aizen è che... be', in questa storia non sono shinigami! xD Mi sono divertita a giocare con questa storia: in canon una simile dinamica non avrebbe potuto verificarsi, perchè tutti i personaggi hanno una dignità quasi "epica", e Shiro avrebbe per l'appunto tentato di vendicarsi su Aizen. Ma in questo mondo alternativo non sono "eroi", e rimangono incastrati in squallide storie come queste. Il che mi intriga tantissimo, ovvio. xD
Per Ran e Izuru, posso solo rimandare ad approfondimenti futuri. u_u Non temere. u_u Devo dire che ho un debole per la storia di Izuru, quindi spero che sarà soddisfacente anche per chi leggerà.

@momoko89: Cielo, non dirmi queste cose! XD In realtà era voluto che la trama si infittisse, ma se tu dici che non capisci io mi deprimo... cosa c'è che non è chiaro? Spero di non aver fatto qualche errore, fammi sapere cosa ne pensi! :P

Come al solito, grazie a tutti *.*

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Capitolo 7
*** Quinto. Precious ***




Capitolo quinto.
Precious




[ Precious and fragile things
need special handling.
My God, what have we done to you?
If God has a master plan
that only He understands
I hope it's your eyes He's seeing through ]




- Un medico può diventare matto? A causa del mestiere, intendo…
- Siamo tutti un po’ suonati, in questa professione. Sia che il dolore ci attragga, sia che ci disgusti. In
entrambi i casi, finiamo col preferire la malattia ai nostri malati, è la nostra forma di follia… nel duello
permanente che oppone indagine clinica ed emozione umana, la seconda non può avere la meglio. Ma, per la
maggior parte facciamo quello che possiamo, crolliamo, risaliamo la china, crolliamo di nuovo, e
invecchiamo. Non siamo molto simpatici.

D. Pennac, Monsieur Malaussène



Quella sera pioveva, e Nanao, quasi quasi, avrebbe cullato il sogno di potersene stare a casa, preparandosi qualcosa di caldo. Lo avrebbe fatto se l’impegno che aveva per quella sera fosse stato un altro, un altro qualsiasi; ma non quello.
Non avrebbe mai disdetto quello.
Sarebbe stato come tradire la fiducia che Shunsui aveva riposto in lei, chiedendole di venire, secondo un rituale che avevano ormai ripetuto molte volte. E sarebbe stato come abbandonarlo, lasciarlo ad affrontare quel portone, quelle scale, quel pianerottolo da solo.
Shunsui aveva paura e Nanao lo sapeva.
Per questa e per cento altre ragioni era andata con lui, nonostante la pioggia, in silenzio.
Quando Nanao aveva perso il lavoro, era stato molto duro per lei. All’inizio, non aveva idea di come reagire. Non l’avevano preparata ad un simile fallimento.
E lo era stato eccome, un fallimento, un fallimento su tutta la linea. Non un semplice sbandata, o un momentaneo, un primo – il primo! – errore.
Era stata una completa catastrofe.
Non sapeva con esattezza come le cose fossero precipitate, come avessero potuto precipitare tanto in basso. Forse aveva sbagliato a credere di potercela fare con le sue sole forze, e così si era ritrovata sola.
Aveva sicuramente sbagliato, da qualche parte.
Si diceva che, se sei una persona capace, se sei intelligente e non hai paura di darti da fare, una soluzione si trova sempre. Allora com’era stato possibile?
Be’, alla fine una soluzione l’aveva trovata, in effetti. Anche se il Million Dollar Hotel non era affatto quello che nella sua vita precedente avrebbe considerato come una soluzione. Non l’avrebbe considerato neppure una possibilità.
Comunque, era lì che era finita. Ed era successo per puro caso – ancora esitava a definirla fortuna -, semplicemente perché aveva incontrato il signor Kyouraku e il signor Ukitake.
Entravano in un bar quando lei cominciava a temere che fosse ora di uscirne. Era uno di quei bar che stanno aperti fino ad orari improponibili e che di conseguenza offrono ai clienti il minimo indispensabile, ed era in una zona della città che un tempo non avrebbe mai pensato di poter frequentare.
Eppure si era ritrovata lì a cercare una sistemazione e, dopo una ricerca infruttuosa, si era accampata su quel tavolino con la scusa di pagarsi un caffè, utilizzando il pensiero che c’erano degli altri avventori, come deterrente dal suo desiderio di sbattere la testa contro il muro fino a farla sanguinare.
Non aveva idee. Neppure la più piccola, stupida, dannata brillante idea. Ed era vicina ad andare nel panico.
Poi erano entrati loro due, e Ukitake aveva ovviamente attirato lo sguardo di Nanao, perché be’, ce n’era ben motivo. Prima di tutto i suoi capelli. Già erano molto lunghi per essere i capelli di un uomo, e poi erano bianchi.
Ma quello passi. La cosa davvero degna di nota, e Nanao l’aveva imparato subito, era il viso di Jyuushiro Ukitake. Perché era un viso bello, pulito e dolce. Perché infondeva calma e serenità. Quell’uomo aveva uno strano tipo di fascino, e ne era tremendamente consapevole, ma, anziché usarlo a svantaggio degli altri, lo utilizzava per riscaldare chi gli era attorno.
Su quel viso c’era persino una buona dose di innocenza, e quello sì che stonava davvero con tutto il resto – con il bar, con il quartiere e non ultimo con il suo compagno. Perché l’uomo che Nanao ancora non conosceva, e che rispondeva al nome di Shunsui Kyouraku, a prima vista non aveva nulla di innocente.
Aveva uno sguardo divertito – non cattivo, ma un po’ canzonatorio – col quale sondava ogni cosa. Più ancora del suo angelico compagno, sembrava non perdersi nulla di ciò che avveniva attorno. Era attraente, in uno strano modo; Nanao aveva definito quel modo “pericoloso”. Aveva già avuto abbastanza esperienze con gli uomini troppo affascinanti.
Si erano seduti al tavolo di fronte al suo, parlando di qualcosa che sembrava rallegrare Jyuushiro e annoiare Shunsui. Nanao si era sforzata di non osservarli troppo. Eppure la loro presenza le dava allegria. Non sembravano messi troppo meglio di lei, si capiva da qualcosa nel loro modo di comportarsi, dai loro vestiti un po’ lisi, dall’aria di chi non si fa spaventare al pensiero di non sapere dove passerà la notte. Insomma, un’espressione difficile da descrivere ma che, una volta acquisita, si perde con difficoltà e si riconosce negli altri.
E la cosa assurdamente allegra era che, nonostante questo, emanavano ondate positive; Jyuushiro, soprattutto, con i suoi modi entusiasti, mentre spiegava all’amico qualcosa che doveva essere un progetto o un’idea, da ciò che Nanao aveva colto. Ma anche Shunsui; per quanto facesse finta di non prestare molta attenzione all’altro, seguiva con attenzione i suoi movimenti. C’era familiarità nel suo sguardo color cioccolato, nel lieve sorriso che gli arricciava le labbra, nel gesto col quale aveva raccolto una ciocca dei capelli dell’altro rigirandosela tra le dita.
Nanao aveva distolto lo sguardo, imbarazzata, cercando di concentrarsi sui propri problemi, e per tornare alla propria cupa attualità aveva puntato gli occhi sul fondo scuro di caffè nella sua tazzina.
La cosa che aveva sentito subito dopo era stato un leggero tocco sulla spalla, e sollevando lo sguardo aveva incontrato gli occhi ridenti di Ukitake che era leggermente chino verso di lei. - Buonasera. -
- Buonasera – aveva mormorato lei, consapevole di essere e apparire tremendamente imbarazzata. Shunsui era seminascosto dietro la spalla dell’altro. Jyuushiro aveva sorriso.
- Forse sono invadente, - e aveva indicato la borsa che Nanao si trascinava dietro da un po’, e che conteneva tutti i suoi averi – ma mi chiedevo… hai un posto dove dormire, stasera? -
Era stato in quel modo, che era finita al Million Dollar Hotel. Aveva scoperto che Ukitake era il proprietario dell’edificio, ma che, per una questione legale, non aveva modo di farlo fruttare. Aveva anche scoperto che Jyuushiro e Shunsui non erano compagni soltanto nell’uscire per prendere un caffè. Non sapeva quando si fossero conosciuti, ma doveva essere stato moltissimo tempo prima; in realtà, sembrava che si conoscessero da sempre. A volte più che una coppia sembravano fratelli. E Shunsui aveva un istintivo e oscuro modo di preoccuparsi per l’altro che aveva colpito molto Nanao. Era un atteggiamento possessivo che avrebbe fatto sentire lusingato chiunque avesse avuto la fortuna di vederlo rivolto verso di sé.
All’inizio, i due vivevano assieme in un appartamento striminzito ricavato al secondo piano dell’Hotel. Altri amici o persone bisognose, come Nanao, avevano cominciato a riunirsi attorno a loro. Shunsui aveva preso Nanao sotto la sua ala protettiva; lo inteneriva e, a lei, lui piaceva, anche se non lo avrebbe mai ammesso, rigida e formale com’era. Ma si era affezionata, a loro e persino a quel posto. Jyuushiro riusciva a farlo sembrare come una missione, un piccolo passo verso qualcosa di positivo.
Poi, Jyuushiro si era ammalato. Aveva smesso di abitare al Million Dollar Hotel. E Shunsui aveva ripreso a bere.


< Andavano a trovarlo rarissime volte. All’inizio Nanao aveva immaginato che Shunsui ci andasse molto più spesso, da solo; sarebbe stato giusto, in fondo, se avesse preferito non portarla sempre con sé.
Ma, poi, si era resa conto che non era così. Jyuushiro si illuminava debolmente, quando Shunsui compariva, come se non lo vedesse da anni interi. Nanao se ne stava quasi sempre in disparte, seduta su una piccola sedia nella povera camera disordinata; e Jyuushiro, benché cortese, sembrava troppo stanco per occuparsi anche di lei nel modo appropriato. Ormai era capace di brillare per una persona sola.
Shunsui era terribile, in quelle rare occasioni. Con Jyuushiro faceva del suo meglio per apparire normale, ma Nanao sapeva che tra di loro c’era anche il fantasma del senso di colpa; Shunsui si sentiva in colpa di venire così di rado, ma non sopportava di vederlo in quello stato.
Quando se ne andavano, Shunsui rimaneva in silenzio per ore. E la mattina dopo, di solito, Nanao lo trovava messo peggio del solito.
Da quando poi Ukitake aveva iniziato a peggiorare, avevano preso una discesa senza possibilità di arresto.
Non c’era da illudersi, Nanao ne era ormai conscia. Il tempo se ne stava semplicemente andando. E Jyuushiro con lui; pallido, magro e debole.
Mentre risalivano di nuovo le scale del vecchio stabile, messo poco meglio del Million Dollar Hotel, Nanao continuava a ripensare ad una frase che una volta le aveva detto Shunsui, sempre su quelle scale. Ai loro tempi, le aveva detto, quando qualcuno aveva l’HIV, si dava per scontato che quella persona fosse omosessuale. E quando un amico moriva di AIDS, d’un tratto la sua vita diventava di dominio pubblico e la gente si permetteva di giudicare.
- Come se la morte non fosse abbastanza. -
Si fermarono sul pianerottolo, e la donna scrollò l’ombrello zuppo mentre l’altro fissava la porta. Doveva suonare e, quando lo avesse fatto, avrebbero aspettato pazientemente che Jyuushiro raggiungesse la porta e aprisse loro. Era straziante.
Quella volta, però, non andò così. Pochi istanti dopo che il trillo del campanello si era spento, la porta si aprì e davanti a loro comparve una ragazza dai capelli neri e gli occhi scuri, nascosti dietro le lunghe ciglia abbassate, vestita da infermiera.
Nanao aveva il vago ricordo di averla già incontrata una volta. Shunsui pareva sorpreso quanto lei.
- Signor Kyouraku – lo salutò rispettosamente l’infermiera, con un piccolo inchino.
Lui ricambiò il saluto esitante. – Ah… infermiera Kurotsuchi, vero? -
- Sì. – Lei si fece da parte per lasciarli entrare. – Molto lieta di rivederla. – Si prodigò poi in un altro inchino silenzioso verso Nanao, ma non sorrise mai.
- Quindi lei è qui… - commentò Shunsui, lanciando un’occhiata un po’ smarrita al familiare corridoio in penombra mentre Nemu richiudeva la porta.
- La dottoressa Unohana è di là con il signor Ukitake, siamo venute per un controllo. Mi ha detto che sareste stati voi. Credo che vi aspettino – aggiunse lei, con un’impercettibile sfumatura di incoraggiamento nella voce.
Nanao la ringraziò e prese tra le mani il gomito di Shunsui, guidandolo verso la camera di Jyuushiro.
Era quella la stanza dove il malato trascorreva la maggior parte del tempo, e dunque cercava di assolvere alla funzione di contenere quasi tutto ciò di cui lui aveva bisogno. Di conseguenza era un po’ disordinata, ma era anche l’unica parte della casa che conservasse una parvenza di vita. Le persiane alle finestre erano abbassate per metà, e la luce era poca, ma qualcuno aveva acceso una lampada sul comodino.
Si sentiva il rumore della pioggia, fuori. Nanao pensò che probabilmente avrebbe piovuto tutta la notte.
- Ragazzo mio, eccoti qua! Dottoressa. – Shunsui salutò entrando come se fosse stato la vitalità in persona.
Jyuushiro era già sotto le coperte, seduto con compostezza contro i cuscini, e la dottoressa Unohana sedeva accanto a lui sulla sponda del letto, le spalle alla porta. Si voltarono entrambi, lei posando lo sguardo mite sui nuovi arrivati; Jyuushiro, invece, si illuminò e sorrise.
- Shunsui! Nanao… - aggiunse con dolcezza.
- Signor Ukitake… - ricambiò lei, inchinandosi appena, ancora sulla soglia. – Spero che non siamo arrivati al momento sbagliato… -
- Oh, no, no. – Unohana si alzò in piedi, facendo ondeggiare la lunga treccia che le cadeva su una spalla. – Ero solo passata per salutare Jyuushiro. Nessun disturbo. -
- Non dirlo nemmeno – le sorrise l’interessato. Shunsui era rimasto in silenzio, ma si avvicinò, quando la dottoressa gli ebbe lasciato posto di fianco al letto.
Nanao fu improvvisamente consapevole della presenza di Nemu, che doveva essersi affacciata alla porta della camera, dietro di lei. Unohana le andò incontro; anche se si era trattata solo di una visita amichevole, indossava il camice e aveva con sé un’ampia borsa. E si era portata Nemu.
- Tu sei Nanao, vero? Mi ricordo di te… - Si erano incontrate alcune volte, per caso, come ora. Nanao sapeva soltanto che Retsu Unohana era un’altra amica di Ukitake, una che Shunsui non conosceva approfonditamente. – Che ne dici se andiamo di là a farci un tè? C’è veramente un brutto tempo, stasera… -
- Sì, certo. – L’altra capì al volo ed annuì, voltandosi per dirigersi verso la piccola cucina che sapeva essere in fondo al corridoio. – Un tè. -
Uscendo colse con la coda dell’occhio un barlume della stanza che stavano lasciando. Shunsui aveva preso il posto di Unohana sul letto e aveva posato la mano sulla guancia di Jyuushiro, come per sollevargli il viso. Gli occhi caldi di Ukitake erano sembrati febbricitanti; la sua pelle sembrava più pallida e le sue ossa più piccole in confronto con la grande mano di Shunsui.
- Sta molto male, vero? – domandò per prima cosa quando furono in cucina, sollevando una mano verso l’anta dove Ukitake teneva le bustine di tè. Sapeva dove erano perché lui adorava quella bevanda e gliel’aveva vista preparare numerose volte. Un tempo, gli piaceva fare il tè con tutti i crismi, non con le bustine.
- Sì – rispose Unohana, senza voltarsi.
Nanao sospirò. Nemu le aveva seguite, ma in completo silenzio, tanto che era facile dimenticarsi della sua presenza. Era abilissima nel non mettere a disagio i presenti. Chissà se l’aveva imparato in ospedale, si chiese Nanao. A lei, invece, a lavoro avevano insegnato il contrario.
Una volta. Tanto, tanto tempo prima.
- E come sta Shunsui? – domandò la bella voce gentile di Unohana mentre Nanao metteva l’acqua a bollire.
- Be’… non bene – ammise, senza voltarsi.
Sentì l’altra sospirare. Si voltò. Nemu osservava la sua superiore mentre Unohana slacciava mestamente il camice, rilassandosi di poco, con un gesto minimo ma che a Nanao parve un’enormità.
- Sai, - disse la donna a voce bassa, gli occhi socchiusi puntati sulla parete grigia – una volta avevo un codice etico rigido. Non avrei mai permesso che Jyuushiro vivesse qui, solo, nella sue condizioni. Ero… idealista. -
Già, era esistito quel tempo lontano, quando Retsu Unohana era una giovane dottoressa motivata e dotata, pronta a scontrarsi in ogni circostanza con il suo superiore. E lui, di solito, rispondeva con misurati sorrisetti inquietanti e le intimava di non perdere tempo in chiacchiere.
Alla fine, lui aveva vinto, in qualche modo.
- Ora, sono fortunata se riesco a venirlo a trovare ogni tanto. Buffo come cambiano le cose, vero? -
Nemu teneva lo sguardo distolto da loro, verso la piccola finestra dai vetri sporchi, e la pioggia al di fuori. Sembrava che non vedesse né l’una né l’altra.
Nanao sollevò il bollitore dal fuoco e vi intinse la bustina di tè. – Già. Buffo. -


- Eccoci qui per il secondo round. -
Renji sollevò lo sguardo accompagnando il movimento con un inarcarsi del sopracciglio, e un conseguente movimento dei tatuaggi. – Secondo round? -
- Sì – annuì Ichigo. – La seconda parte del racconto. -
Quella mattina avevano deciso di passare per il bar prima. Il proprietario ormai doveva averci rinunciato, perché si era limitato a servirli con aria annoiata. Il locale era vuoto anche quel giorno e sembrava che lui lo preferisse così.
- Sembra che ti interessi di più dell’ispezione delle camere o delle domande sul posto – rilevò Renji perplesso.
- In effetti, sì. E’ così che si mettono assieme i pezzi. -
Anche quella mattina Renji stava fumando.
- E allora, che vuoi sapere oggi? -
- Be’, quella ragazza che abbiamo incontrato ieri. Hiyori, giusto? – Ichigo sollevò lo sguardo sul suo interlocutore. Renji sembrava sulla difensiva.
- Giusto. -
- Ha un fratello, esatto? E quanti anni? -
- Lei diciannove. Lui ventisette. – Renji esibì un sorriso di sfida. – Nessuno dei due ha l’età della tua Kuchiki. -
- Non vuol dire nulla – ribatté Ichigo, un po’ ingenuamente, e la cosa lo irritò, tanto che proseguì leggermente irritato: - Cosa riguardo a loro? -
Con sua sorpresa, Renji posò il polso della mano che reggeva la sigaretta sul bordo del tavolo e lo guardò per un istante, in silenzio. Sembrava che stesse per dire qualcosa, quando Ichigo lo interruppe. – Guai? -
- Sì. -
- Vi ho già detto che non mi interessano. -
Renji si portò la sigaretta alle labbra, senza parlare. Ichigo corrugò la fronte, sperando che fosse un messaggio sufficiente.
- Credo che ci sia qualcuno al quale piacerebbe sapere dove sono – chiarì Renji.
Ichigo sospirò. – Questo qualcuno si chiama Byakuya Kuchiki? -
- No. -
- Allora non mi riguarda. Che hanno fatto? -
Renji sbuffò leggermente e si decise a rispondere. – Sono scappati di casa. -
- Tutto qui? – domandò Ichigo sorpreso.
L’altro non si fece distrarre e continuò: - Il padre è un pezzo grosso, credo nella magistratura. Alzava le mani su Hiyori. – Si sentì in dovere di aggiungere: - Non so i dettagli. Shinji l’ha portata via. Penso che il padre pagherebbe bene per ritrovarli, ma lei ora è maggiorenne. -
- In realtà è maggiorenne quanto lo è questo tavolo, giusto? – lo stuzzicò Ichigo divertito, lasciandosi andare all’indietro contro lo schienale della sedia e posando i palmi sul tavolo in questione.
Renji si bloccò. – Che significa? -
- Be’, mi hai ripetuto due volte che la ragazza era più che maggiorenne. Fuggire di casa non è un crimine. Poi se il padre è violento la ragione starebbe dalla loro. Perciò l’unica è… -
- Per non essere un poliziotto, sei piuttosto stronzo – ribatté Renji, spegnendo il mozzicone, torvo.
Ichigo sorrise appena. – Così mi offendi. -
- Comunque sia, questo è tutto quello che so. Shinji se la cava abbastanza bene con il suo lavoro… anche se poi è troppo buono e fa dei “favori”, e non si fa pagare, - il tono di Renji esprimeva chiaramente quanto poco approvasse tale condotta.
- Non ti viene in mente nessun motivo per il quale potrebbero conoscere Rukia Kuchiki? -
- No. – Renji scosse la testa. – Hiyori ha frequentato scuole private. Shinji era, credo, il fratellastro trascurato. Fino a un anno fa vivevano in un ambiente molto diverso da questo. -
- Anche Rukia Kuchiki – osservò Ichigo.
- Ah, davvero? – Nel tono di Renji c’era una nota di scherno che incuriosì l’altro.
- Davvero. Suo cognato è un uomo molto facoltoso. -
- Sicuramente abbastanza da pagarti. -
- Sì. – Ichigo non raccolse la provocazione. – Sì, anche. -
- Be’, - sbottò Renji – e che ne potrei sapere io? Come faccio a immaginare una connessione se non so nulla di questa ragazza? -
- E io come faccio a condurre un’indagine, se mi lascio scappare informazioni importanti? – Ichigo si alzò, lasciando sul tavolo la sua tazzina vuota e i soldi. – Non dimenticare che so che uno di voi la nasconde o l’ha nascosta. Il mio obiettivo è trovarla, non aiutarvi. -
Renji lo seguì con gli occhi, le labbra una linea dura sul volto, lo sguardo ostile. Poi rivolse un’occhiata veloce ai resti del loro caffè sul tavolo e si voltò di nuovo verso Ichigo che aveva quasi raggiunto l’uscita.
- Ehi! E non vieni all’hotel, non fai domande? -
- No. – Ichigo scosse la testa, alzando la mano per salutarlo ma senza darsi la pena di sollevare la voce abbastanza per farsi sentire. – Oggi no. -



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Scusate il ritardo (sono in ritardo? ò.ò) ma, comunque sia. XD Ecco un capitolo che personalmente trovo depressivo da morire ç__ç
Premetto anche che siccome trattiamo temi delicati (perchè ho una piccola anima drammatica) ho cercato di essere il più rispettosa possibile delle tematiche che comportano. Nella fattispecie di Shun Shun e Shiro, posso solo immaginare; ad ogni modo, la frase che Shunsui dice a Nanao sulle scale è qualcosa che disse una volta un amico di mia madre. Ho sempre trovato che renda efficacemente quanto siano orribili i pregiudizi, specie quando vanno a interferire nella vita privata delle persone.

@Ino_Chan: *___* Ammetto, l'IshiHime mi piace da morire... e mi piaceva molto l'idea di inserirla anche se giusto di straforo. Non sono dolci? Mi piace soprattutto il fatto che Uryuu sia così protettivo nei confronti di Orihime, pur essendo un pucci bambino solo lui per primo. Ma non posso dilungarmi troppo, u_u'' Comunque grazie infinite *_* Yoruichi e Soifon sono due donne fighissime e spero di render loro giustizia nei prossimi capitoli! *_*

@valeriana: Magari sono io, ma Orihime mi è sempre sembrata adattissima per una vocazione in stile "quarta compagnia". Vale così anche per gli altri... le scelte delle loro professioni sono state molto istintive, devo dire! ^^

@AllegraRagazzaMorta: Tutti mi stanno dicendo che Ichigo li ispira, ma davvero? °_° Ammetto che io lo considero un po' neutro, tento di mantenerlo ic ma allo stesso tempo concedendo senza troppo dispiacere qualche cosa alla necessità di farne il personaggio "guida" per il lettore, almeno in certe situazioni. Sono contenta che piaccia comunque! XD
Il lavoro di Chad è adatto! *__* Non so, sono andata a naso. Ma a me piace. XD (Ma anche Uryuu che dirige il traffico XD)

@Helen Lance: *____* Bentornataaaaah. Che bellooooh. <3 *_* Ti piace la fic? *__* Wah *ç*
Okay, bene, detto questo. XD Grazie mille per i tuoi commenti estensivi (cinqueh in un colpo!), non serve che ti dica quanto mi hanno fatto piacere!
Allora, andando in ordine... entertain us è crudelissimo. XD Apprezzo moltissimo i tuoi commenti per Byakuya; so che sono io la Crudele Autrice che ha scelto di dargli un ruolo piccino (nonostante io lo ami o.o'') ma è bello vedere che viene notato *_*'' Poi che i personaggi ti piacciano (addirittura Renji! XDD) è un gran sollievo. U_U
Davvero t'è piaciuta la riunione? o.o Oddio, bene. Come tutti i pezzi in cui compaiono molti personaggi, non ci avrei messo la mano sul fuoco; è difficile gestirli tutti, ma sapevo che una riunione collettiva all'inizio della storia era necessaria per introdurre la situazione.
Hisana e Byaku: sì, anche io ho avuto una sensazione confusa su questo all'inizio, ma come spesso capita, ho realizzato scrivendo. Il vero motivo per il quale Hisana ci sembra così distante è che lo è nei confronti della persona con la quale dovrebbe essere più intima, cioè il marito. E questo in favore di un fantasma di sorella che non si sa dove sia...
Detto ciò... Kira e Tatsuki stupiscono anche me. o.o Cioè, non so, più la gente mi dice "wtf?" più anche io mi ritrovo a pensare "ma che cavolo... o.O", non so come mi siano usciti, ma mi sembravano una buona idea! XD La loro storia mi piace molto, perciò vedremo se ti convincerà! Shunsui rieccotelo in questo capitolo, spero che continui a piacerti. *_* Io lo amo e credo che nell'arco della fic renderò evidente a tutti i lettori perchè amo le Shunsui/Nanao. E' un uomo adorabile. Oltre a questo la decisione di renderlo più duro deriva dal fatto che, nella realtà, non supportato da quel "torpore diffuso" dei manga, temo lo sarebbe.
Ecco. o_o Sono l'unica autrice di EFP che scrive di più nelle risposte alle recensioni che nella storia. XD Buhu. XD

Anticipazione per la quale mi amerete (ù.ù): nel prossimo capitolo... un certo capitano della terza compagnia... <3
Grazie a tutti! XD

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Capitolo 8
*** Sesto. Because the night ***




Capitolo sesto.
Because the night




[ Come on now try and understand
the way I feel when I'm in your hands.
Take my hand come undercover.
They can't hurt you now,
can't hurt you now, can't hurt you now ]




Quando Renji era rientrato all’Hotel, Shunsui non era nel suo gabbiotto all’estremità della hall, e Nanao sembrava particolarmente infuriata mentre discuteva con Shinji.
Il ragazzo aveva colto qualcosa come “e se non sai fare il tuo lavoro” ma non si era fermato ad ascoltare, troppo di cattivo umore a causa dell’incontro avuto con Kurosaki. Aveva salutato con un cenno della mano Kenpachi, impegnato a giocare a carte con la figlia – lei stava vincendo – ed aveva preso l’ascensore con l’intento di salire il più in alto possibile.
A volte lo faceva, quando restare lì cominciava a farsi soffocante e lui sentiva il bisogno di scappare, se non nel tempo almeno nello spazio.
Gli era sempre piaciuto il tetto del Million Dollar Hotel. Non ci andava quasi mai nessuno, perché era decisamente sgangherato e l’insegna pericolante non faceva presagire nulla di buono. Era una scritta grossa in caratteri occidentali, tracciata da doppie file di luci rotte da un pezzo. Forse accesa poteva avere avuto un suo perché; ora di sicuro poteva solo contribuire all’atmosfera di abbandono, che nell’edificio già non mancava. Ma non c’era niente di meglio se si voleva stare un po’ in pace e illudersi di stare respirando aria pulita.
L’aria non era mai pulita in quel posto, non davvero. Niente era pulito, lì.
Renji si appoggiò alla balaustra chiudendo gli occhi. Aveva voglia di un’altra sigaretta, ma, un po’ per la salute, un po’ perché i soldi non abbondavano, aveva cercato di darci un taglio negli ultimi tempi.
Erano state le cattive abitudini di Kurosaki a fargli tornare la voglia.
- Ti viene la pelle gialla, così. E fa schifo baciarti. -
Si massaggiò una tempia, irritato. Le domande di quel dannato investigatore erano sempre più fastidiose. Sentiva che l’altro stava invadendo un campo che non era il suo, dove non avrebbe dovuto mettere piede, e questo lo innervosiva.
Ma non aveva paura, si disse. No. Non c’era proprio motivo di avere paura.
Non c’era proprio niente per il quale dovesse temere.
Gli venne in mente la prima volta che aveva parlato con Grimmjow. Era stato in quel posto, il ragazzo lo aveva seguito vedendolo salire, e gli aveva proposto di vendergli qualcosa. A un prezzo onesto, diceva, perché erano vicini di casa.
Renji aveva mostrato il mozzicone e aveva detto di avere già i suoi casini. Grimmjow non era ancora granché ben avviato – era arrivato lì da poco, il fratello nascosto in camera per timore che qualcuno li rintracciasse, e una ragazzina troppo magra con gli occhi enormi al seguito – e così, quando Renji gli aveva parlato in tono quasi paterno, aveva sbattuto nervosamente le palpebre sugli occhi azzurri dall’aria allucinata. Non aveva insistito.
Non aveva ancora il mestiere.
Casualmente, Renji gli aveva chiesto quanta ne usasse per uso personale, della roba che avrebbe dovuto usare per guadagno. Nessuna risposta. Allora gli aveva suggerito di guadagnarci, invece, di non buttarla via in quel modo.
Poi gli aveva proposto di fare un patto; le sigarette per le pasticche. Era stato proficuo, da un certo punto di vista. Grimmjow sosteneva, quando poi erano diventati amici, che prendere per il culo l’aria da tossico di Renji in astinenza da nicotina sapeva rallegrargli la giornata.
Quanto a lui, Grimmjow era meno ligio alle sue promesse, ma Renji non era fiscale. Non lo era affatto.
E poi chi era lui per rompere le palle a qualcun altro su come salvarsi la vita?
Respirò a fondo nell’aria ancora fresca della mattina, senza aprire gli occhi. Non ne aveva bisogno per visualizzare il luogo dove si trovava; sapeva com’era fatta la ringhiera di ferro che sentiva premergli, fredda, contro le reni. E sapeva che, sotto di lui, c’erano numerosi piani e poi soltanto l’asfalto, non liscio né propriamente grigio, ma sicuramente duro.
Numerosi piani di poveracci e disperati, prostitute e drogati, ubriaconi e malati e, sopra di loro, lui: Renji Abarai, con i suoi tatuaggi, le mani robuste infilate nelle tasche, la maglietta lisa che profumava della lavanderia di Momo e i capelli rossi raccolti in una coda spettinata.
Era così assurdo da dargli la nausea.


Rangiku aveva alzato la voce, col risultato di renderla acuta e stridula; una bella differenza rispetto al suo solito tono roco e sensuale. La perdita della calma aveva trasfigurato il fascino della sua figura, e conferito una strana forza alla sua statura notevole; per contro, Toushiro, freddo persino nella rabbia, benché piccolo sembrava ghiaccio sul punto di esplodere.
- Osi dire che non è colpa tua? – stava dicendo, gli occhi freddi puntati verso l’alto con qualcosa di più della rabbia; era quasi sdegno.
Rangiku si stava agitando. - Momo è mia amica! Aveva bisogno di un lavoro e… -
- E ti sembra normale suggerirle di prostituirsi? E’ questa la tua idea di aiutare gli amici? – la interruppe Toushiro.
Lei parlò ancora più forte. – Non le ho detto di prostituirsi! Le ho offerto un posto nel night… -
- Bella differenza! – ribatté lui.
- Stammi a sentire, ragazzino, - Rangiku gli puntò un dito contro, indignata, mentre l’altra mano si stringeva a pugno – mi dispiace se non ho conoscenze abbastanza altolocate per te, ma questo è quello che le potevo offrire, e se andava bene per me… -
- Il fatto che a te non importi della tua dignità non significa che sia lo stesso anche per gli altri – replicò Toushiro, il tono gelido, gli occhi giovani ma incredibilmente freddi sollevati verso di lei.
Questo ebbe davvero il potere di zittirla, interrompendo la frase che stava pronunciando. Rangiku strinse entrambi i pugni, serrando le belle labbra carnose, i capelli un po’ spettinati che le oscuravano il viso.
- Almeno io un qualche lavoro lo avevo – rispose infine. – Che è più di quanto si possa dire di te. -
Stavolta fu l’altro a incassare, con una piccola smorfia. Anche se non concesse all’altra grande soddisfazione, era evidente dalla rabbia a malapena controllata nella sua voce, che Rangiku aveva toccato il tasto giusto. – Ripetitelo pure. Ripetitelo e liberati dal tuo schifoso senso di colpa sulle spalle di quella che dovrebbe essere tua amica. -
- Non è mia la colpa di quello che le è successo! – protestò lei. Anche il suo tono era disarmonico, spezzettato dalla rabbia e da una generica agitazione che rendeva frenetici i suoi movimenti.
Vestita succintamente di nero, i capelli svolazzanti attorno alle spalle e gli occhi pesantemente truccati, Rangiku era l’ultima persona che ci si sarebbe aspettati di trovare a litigare sulle scale con un ragazzo giovane, riservato e ben vestito come Toushiro.
Gli abitanti del quarto piano non sapevano neppure come quella diatriba fosse iniziata. Era tardi, e Momo evidentemente non era a portata d’orecchio – altrimenti, suo marito non avrebbe mai permesso che la discussione si svolgesse in toni così alti quando lei poteva sentire.
Forse Rangiku, che stava scendendo per andare al lavoro, era particolarmente nervosa; o forse Toushiro, che tornava con la sua ventiquattrore in mano, era particolarmente stanco e deluso da un’altra giornata infruttuosa. Doveva essere bastato poco; il malcelato rancore di Toushiro verso Rangiku non era un segreto per nessuno, nemmeno per l’interessata.
Quel che è certo, è che ora stavano urlando, dimentichi dei vicini che si erano affacciati alle porte delle camere per vedere – e Toushiro sembrava stare avendo la meglio.
- Certo che non è tua la colpa, eri semplicemente troppo idiota per prevedere che infilare una ragazza come Momo in un posto come quello avrebbe portato dei guai! -
Rangiku gli rivolse un’occhiata cattiva. – Ti brucia così tanto, eh? Lo sai che nonostante tutto lei lo rimpiange, quel posto… lo sai benissimo che rimpiange Sousuke. – Il nome aveva qualcosa di proibito, era come un tabù che non avrebbe dovuto essere pronunciato in quel posto; e fece sì che Toushiro sbarrasse gli occhi, ancora prima che lei avesse finito. - Chissà… forse lui, a furia di frequentare delle poco di buono come me, almeno sapeva come darle piacere… -
A quel punto, si vide il ragazzo lasciar cadere la sua cartella di cuoio rovinato, e qualcuno temette seriamente che Rangiku avrebbe avuto dei lividi la mattina dopo. Ma Renji afferrò Toushiro per le spalle e lo tenne fermo sul posto, mentre quello respirava con difficoltà, il pugno sollevato. Rangiku era indietreggiata di un paio di passi.
- Calmiamoci – disse Renji dopo un istante. – Tutti e due. -
Rangiku aveva due occhi enormi, puntati con un’espressione bizzarra, quasi comica, su Toushiro. Sembrava incredula e spaventata al tempo stesso. Nella sua determinazione, così discordante con la sua giovane età, Toushiro era davvero in grado di fare paura.
- Allontana questa puttana dalla mia vista – sibilò il ragazzo, liberandosi dalla stretta di Renji con uno strattone.
Rangiku sobbalzò, leggermente, istintivamente, forse ferita o forse solo sorpresa. Anche Renji era stato un po’ preso alla sprovvista e le lanciò un’occhiata, prima di guardare nuovamente Toushiro: - Mi sembra che stiamo esagerando. -
- Mi ha aggredita senza motivo – protestò Rangiku, la voce ancora stridula. – Senza un solo motivo plausibile… -
- Al posto tuo starei zitta, - la apostrofò Renji, voltandosi verso di lei, ma prima che lui potesse continuare o che la donna potesse reagire un’altra figura fece capolino dalle scale, e la scena sembrò fermarsi per un istante mentre tutti e tre fissavano il nuovo arrivato.
Gin Ichimaru veniva spesso al Million Dollar Hotel, ma non abitava davvero lì, o, in ogni caso, trascorreva moltissimo tempo fuori. A fare cosa, esattamente non lo sapeva nessuno, ma si diceva che fossero affari grossi, abbastanza grossi da far sì che neppure i meglio informati li conoscessero. Di sicuro, non li conosceva Rangiku; ma Rangiku era forse la meno informata su Gin Ichimaru, e quello era un altro dei motivi per i quali lui aveva la reputazione di un poco di buono.
Delle sue attività, l’unica nota era stata quella avviata con l’amico Aizen qualche anno prima: il club dove lavorava Rangiku e che da solo fruttava loro un bel po’, anche se il principale proprietario era proprio Aizen, ed era lui a gestire la maggior parte delle faccende riguardanti il night.
Rangiku, comunque, non incontrava mai Gin al lavoro.
- Oh, che succede qui? -
Il tono cantilenante e vagamente beffardo era un altro dei motivi della cattiva reputazione di Gin.
A quell’esordio, Toushiro sbuffò apertamente, lanciando all’altro un’occhiata chiaramente ostile.
- Ichimaru – lo salutò Renji, freddo. Neppure a lui quell’uomo piaceva, anche se, nel suo caso, ciò era dovuto principalmente al modo in cui Ichimaru trattava Rangiku. Lei, dal canto suo, non rispose, e si limitò a distogliere lo sguardo, dopo averlo posato un po’ troppo a lungo sul suo amante.
Gin era di fianco a loro, e lanciò un’occhiata educata a tutti e tre, soffermandosi un attimo di più su Toushiro.
- Ma come, nessuno me lo vuole dire? -
- Non è niente, una discussione – spiegò Renji.
Ichimaru lo ignorò. – Che succede, Ran? -
Lei si strinse nelle spalle. - Niente, Gin... -
Toushiro teneva lo sguardo basso, torvo, chiaramente furioso e umiliato che Rangiku lo stesse coprendo. Perché era proprio quello che lei stava facendo; nessuno sapeva esattamente quanto fosse rischioso, da 1 a 10, incorrere nelle ire di Gin Ichimaru, ma sicuramente non era una cosa che si sarebbe voluto scoprire in prima persona.
L’uomo spostò ancora una volta lo sguardo dall’una all’altro, con espressione innocentemente curiosa, e poi parlò; una singola nota inquietante aggiunta ad arte nella voce apparentemente calma: - Be’, meglio così, direi. No, Ran? Non sarebbe stato carino se avessi trovato che c’era un problema. -
- Non c’è nessun problema, Gin. – Rangiku si voltò, la voce di nuovo ferma, e lo prese per un braccio. – Andiamo, devo finire di prepararmi per andare a lavorare… -
Toushiro sollevò lo sguardo, sostenendo quello dell’altro, ma Gin si limitò a sorridere prima di voltarsi per seguire la ragazza.
- Buonanotte, allora, Hitsugaya. Abarai… -
- Buonanotte – rispose Renji, guardandoli allontanarsi.
Appena furono nella loro camera, Rangiku allungò una mano verso il muro cercando l’interruttore, ma le sue dita incontrarono invece le nocche di Gin, che aveva chiuso la porta e si era fermato dietro di lei.
- Il piccolo Hitsugaya è nervosetto, pare… -
Rangiku non reagì al tono beffardo dell’altro, e ritrasse la mano. Tornare in camera per finire di prepararsi era stata una scusa: era già pronta. In verità aveva istintivamente portato Gin con sé sperando in un momento di conforto, ma ora che erano soli le era evidente che Gin era l’ultima persona dalla quale lo avrebbe ricevuto.
Come aveva potuto pensarlo? Dopo tanti anni non aveva ancora imparato a conoscerlo?
Gin andò a sedersi sul loro letto mentre Rangiku rimaneva in piedi al centro della stanza. Poiché lei non parlava, lui aspettò poco prima di chiedere: - Che cosa c’è, Ran? Ti ha davvero dato tanto fastidio il bisticcio col piccoletto? -
Lei si voltò, dandogli le spalle. – No – rispose, la voce sorda. Sapeva che lui stava osservando la sua schiena, con calma, come si fa con ciò che ci appartiene. Avrebbe voluto darsi un tono facendo qualcosa come fingere di truccarsi o pettinarsi, ma era piuttosto difficile con la luce spenta. Eppure non voleva accenderla.
Non voleva vedere il ghigno di Gin, non quella sera. Voleva che lui stesse zitto e, con il suo silenzio, le permettesse di immaginare d’avere con sé un amante dolce e comprensivo, qualcuno in grado di non farla sentire sola, qualcuno che potesse darle delle risposte; e non l’uomo perverso, amorale che lui era, fragile e insieme contorto, così dannatamente doloroso, così bravo a farla sentire ancora più sporca di quanto non si sentisse già.
Sporca. Per aver rovinato Momo. Per aver insultato Toushiro. Per essere la vipera e la puttana che era e per l’orrenda tonalità eccessiva dell’ombretto azzurro che indossava tutte le sere.
- Cosa c’è, allora, Ran? -
Lui non sembrava volerla lasciare in pace. Eppure qualcosa nella sua voce stavolta la colpì. C’era quella piccola sfumatura di incertezza che lei aveva imparato a conoscere sin da quando erano entrambi dei bambini; il tono che Gin si permetteva di usare soltanto con lei.
Lo sentì alzarsi e venirle incontro, e cominciò a tremare ancora prima che lui le prendesse il braccio.
Gin era soltanto un bambino, pensò Rangiku. Aveva bisogno di conferme, aveva bisogno di sentirsi amato.
- Sono stufa di essere la tua puttana, Gin - confessò. - Lo farei, lo farei, davvero – mormorò, facendo di tutto per non guardarlo negli occhi, anche se lui cercava di voltarla verso di sé. – Ma non posso farci niente, mi fa male… mi fa così male – concluse, lasciando che la voce le morisse in gola. Sentiva che lui la stava stringendo con più forza; lui era lì, accanto a lei; eppure lei non riusciva a liberarsi dai pensieri cupi che la prendevano quando era sola, dai ricordi subdoli che le sussurravano parole cattive sull’unica persona che l’avesse mai amata.
No, di più ancora; lui era l’unica persona che contasse qualcosa nella sua vita.
Eppure…
Perché quando erano stati in difficoltà lui non le aveva impedito di farlo? Perché non aveva detto “qualsiasi cosa, piuttosto che questo”?
Perché non aveva difeso il suo onore come faceva il piccolo Shiro con Momo?
A Gin non dava tanto fastidio che lei battesse il marciapiede, purché portasse qualche soldo a casa… E lei aveva rinunciato a danzare. Per lui. Per loro. Perché potessero farcela, assieme… perché lui potesse farcela.
Poi, lui aveva trovato la sua via, fatto i suoi affari. Si era allontanato da lei.
Ce l’aveva fatta, indubbiamente.
E lei era rimasta incastrata, in quel posto, in quel lavoro, in quella situazione.
Ma lei lo amava. Lei lo avrebbe amato qualsiasi cosa lui avesse fatto.
Questo pensiero le scaldava il cuore, ma, in qualche modo, riusciva a farle ancora più male.
- Tu non sei questo, Ran. – Ed ecco, ecco la sua meravigliosa voce. Era musicale, dolce, come se le stesse raccontando una favola, per farla addormentare.
Una pietosa bugia.
- Io ti amo. – Le dita sottili di Gin le sfogliavano i capelli sugli zigomi, come con i petali di un fiore. - Tu sei mia, e… - - … e tu sei mio – concluse lei istintivamente, annuendo piano, mentre lui le prendeva la base della nuca in una mano spingendola ad adagiarsi contro di lui.
Era quello che si erano detti per quasi trent’anni, da che si conoscevano. A volte Rangiku pensava che era la bugia più dolorosa di tutte – perché se lui l’avesse amata l’avrebbe portata via da lì. Perché se lui fosse stato suo, sarebbe rimasto con lei, sempre con lei. Perché se fossero stati l’uno dell’altra, e basta, lui l’avrebbe salvata.
Era tutta la vita che Rangiku aspettava di essere salvata.
Era la bugia più grande.
Era l’unica verità di Rangiku, e di Gin.
Rangiku si lasciò andare e Gin la portò ad appoggiarsi al muro, facendo scendere velocemente entrambe le mani sui suoi fianchi.
- Non piangere, Ran. – La voce di Gin diventava più roca e più spezzata man mano che le baciava il viso, confuso e quasi speranzoso in quei movimenti che cercavano una risposta. Lei gli cinse il collo con le braccia e lasciò che lui aderisse meglio al suo corpo, facendola scivolare sul pavimento, puntellandosi al muro per sovrastarla mentre le mordeva le labbra.
Nella penombra lo vide scostarsi, guardandola dall’alto. Sentiva il suo respiro affrettato sulla pelle delle guance mentre Gin riprendeva fiato e la sondava, cercando nella sua espressione una conferma.
Voleva sentirsi dire che Rangiku era allegra come sempre, che Rangiku era la Rangiku di sempre ed era sua.
Era solo un bambino, si diceva lei, col cuore colmo di lacrime e di amore, e gli occhi secchi. Aveva bisogno di lei persino più di quanto lei ne avesse di lui.
- Non piango, Gin… -
Lui la baciò ancora, col desiderio dell’adulto che era diventato e insieme la giocosa beffa del bambino che era stato. La baciò stringendole il busto e sollevandola, spingendola a premere il bacino contro il suo, a fargli spazio contro le curve del suo corpo.
Che dormissero insieme o facessero l’amore, Gin stava sempre vicinissimo a lei; solo per ignorarla o poco più, appena non erano soli.
Ma andava bene così. A Rangiku andava bene.
- Brava, Ran… -
- Ti amo, Gin. -


- Non piangere. -
- Non sto piangendo, io… -
Ma l’aveva sentita tutta la notte e sapeva che stava piangendo. Ormai era l’alba: l’alba del secondo giorno.
- Non mentire… non sei mai stata capace di mentire a me. -
Si era morsa un labbro e si era stretta contro di lui, sotto le coperte. Lei era piccola e le coperte erano leggere. – Ho paura, Renji. -
- Di cosa, hai paura? -
- Che mi trovino… mi troveranno, se lui decide di cercarmi. Ha tanti di quei soldi… può fare qualsiasi cosa. -
Lui odiava sentire la sua voce così spaventata e flebile. – Lui…? -
- Mio cognato – aveva risposto lei, in un sussurro.
- Non ti troveranno. Te lo prometto. Ci sarò io, con te. I problemi svaniranno, come… come gocce al limone. –
- Gocce al limone? -
- Era in quella canzone, ti ricordi. -
Lei aveva annuito, piano. – E’ vero. Dicevamo che volevamo andare su una spiaggia bianca… con l’arcobaleno. -
- Ci andremo… prima o poi. Magari ci vorranno dieci o vent’anni di lavoro in officina… -
Lei aveva riso. Lui l’aveva stretta, posando il mento sulla sua spalla. – Mi prendo cura io, di te. Come quando eravamo bambini, ricordi? -
- Me lo ricordo… -

Renji si rigirò nel buio, dando le spalle alla finestra. Non riusciva a dormire; la sua mente continuava a rimuginare. E le stelle, fuori, non aiutavano.



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Spero di non essere andata troppo ooc con Shiro e Ran. O meglio, che Ran sia ooc lo so; lei non è tipo da urlare così. Ma per qualche motivo il piccoletto, invece, mi pare abbastanza fedele. Cioè, so benissimo che non darebbe mai della puttana a una signora, ma per qualche motivo questa sua rabbia non mi sembra del tutto fuori dai binari – come sappiamo è capace di prendersela sul serio se gli toccano Momo.
Insomma, spero che questa tensione si intuisse perché nelle mie intenzioni era solo questione di tempo prima che il rancore accumulato tra loro si mostrasse. Aggiungo che è stato molto divertente descrivere questa interazione tra loro, considerato come di solito (e non solo nella MatsuHitsu) vadano assolutamente d’amore e d’accordo. XD
Dopodiché… ditemi che ve ne pare di Gin. :P Arduo definire ooc un personaggio del quale non si sa una mazza di certo, ciononostante il mio Gin indubbiamente lo è, ma spero che vi piaccia lo stesso. XD

@Ino_Chan: Sì, in effetti anche per me è difficile definire il rapporto tra Hime e Uryuu… ma penso che, dicendo che sono teneri, si sia reso il succo :P Quasi quasi ci spero ancora per il canon (visto che mi aspetto che Rukia e Ichigo finiscano assieme ù.ù), Orihime mi sembra il genere di pg capace di rendersi conto a un certo punto del valore di Uryuu, non pensi? (Visto che la UlquiHime è, temo, al di fuori della nostra portata! XD) Comunque, tornando a noi… sono contenta che ti sia piaciuto il capitolo! In effetti l’argomento era piuttosto delicato… a me fanno una tristezza immensa. T_T Considerando quanto Shunsui appaia sempre forte e protettivo (specie verso Nanao) mi stuzzicava l’idea di porlo in una situazione nella quale, anche se sarebbe disposto a dare qualsiasi cosa per salvare l’uomo che ama, non può fare proprio niente. (Mi, ma sono sadica o.o)

@Helen Lance: Sì… in effetti la malattia di Ukitake non ha toni troppo drammatici nel canon, probabilmente perché essendo loro delle anime la cosa si stempera un po’. E quindi, chi prende in mano il personaggio nelle AU, tende a renderla “non troppo grave” perché in fondo Ukitake ci appare comunque un ragazzotto robusto. Ma potevo io forse accontentarmi di ciò? U_U Certo che no! XD
E Nanao… non so, forse sono solo io, ma per qualche motivo ho sempre pensato che avesse un ruolo da spettatrice (spettatrice che vorrebbe essere qualcosa di più) di fronte al rapporto straordinario tra questi ragazzi d’oro, dal passato con il quale lei non può competere.

@AllegraRagazzaMorta: Anche io li adoro *o*< br>Comunque, cerchi educatamente di dirmi che Shunsui è ooc? XD Perché può essere, eh… mi ci sono accanita, poraccio. O_ò Anche se bisogna ammettere che non so come una persona reale – cioè non shinigami – reagirebbe in una situazione simile. Come ho detto anche rispondendo ad Ino, penso che in realtà Shunsui sia una persona molto forte, una che se potesse prenderebbe tutte le sofferenze dell’amico su di sé… solo che non può proprio farlo, e questo lo rende debole, lo fa sentire impotente – e ovviamente si sente in colpa per non poter aiutare l’altro, si sente in colpa per essere così irrequieto e disperato mentre Jyuushiro sa affrontare la malattia con serenità. E così anche se lo ama moltissimo, vederlo è ogni volta una sofferenza tremenda, il ricordo di tutti gli errori che lui pensa di aver fatto, e gli sembra quasi di leggere l’accusa sul volto di Jyuu. Ecco, direi che questa è la spiegazione integrativa del capitolo (il che già vuol dire che non ho fatto un buon lavoro con il capitolo, se no non ce ne sarebbe bisogno XD).

@belialcross: Benvenuta e… grazie mille XD Non merito tutto questo entusiasmo ^^ Spero che anche questo capitolo ti piaccia :P

@Kaho_Chan: Grazie :P Sono molto contenta che ti piaccia, sei troppo buona *_* Fammi sapere! :P

E come sempre grazie a tutti.

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Capitolo 9
*** Settimo. Love will tear us apart ***




Capitolo settimo.
Love will tear us apart




[ Do you cry out in your sleep
all my failings exposed?
Get a taste in my mouth
as desperations takes hold -
is it something so good
just can't function no more?
When love, love will tear us apart
again. ]




- Ho capito, è il tuo migliore amico immaginario, come ce l’hanno i bambini, quello a cui dici tutte le cose che non dici a me? Le dici nella tua testa…
- E’ il mio migliore amico e basta. Se si è stati amici una volta, lo si è per tutta la vita.
- Che cazzata.
Le conseguenze dell’amore




Non c’era un perchè.
Era lì. Di nuovo. Col naso all’insù, senza un perché e senza ombrello, perché questa volta non pioveva.
Era lì senza che Uryuu lo sapesse. Aveva mentito, telefonando a Nemu e dicendo che era malata e non sarebbe venuta. A Uryuu aveva detto che sarebbe uscita.
E poi era tornata lì.
Quel posto sembrava quasi una calamita. Orihime aveva continuato a pensarci, da quando se ne era andata la volta prima, e non avrebbe saputo dire il perché, ma era indubbio che il Million Dollar Hotel la attraesse; la attraeva con tutto ciò che aveva di sbagliato, proprio come in Ulquiorra la attraevano le crepe, che comparivano appena sulla superficie e che promettevano voragini, non appena si fosse scesi abbastanza in profondità.
Quel genere di crepe che dovrebbero farti venire voglia di scappare a gambe levate appena le vedi. E che invece, quasi sempre, ti spingono ad avvicinarti, ancora, e ancora.
Orihime voleva rivedere quelle crepe che componevano il viso senza età di Ulquiorra.
Per questo, quel giorno, aveva deciso di raccogliere il coraggio a due mani ed entrare.
Nella hall del Million Dollar Hotel c’era sempre gente. Questo perché la sala era grande e più delle altre conservava memoria di antichi fasti – fasti di plastica importati dall’Europa nemmeno una ventina di anni prima. Era anche perché i divani non erano sfondati e c’era una grande televisione, che, a vari livelli di volume, era accesa quasi sempre, ma non sempre prendeva granché bene. Spesso il suo ruolo preponderante era quello di cullare il sonno di Shunsui.
Anche quel giorno, accampati tra divani, poltrone e cianfrusaglie, c’erano alcuni degli inquilini dell’hotel, ma Orihime, che tutte queste cose non le sapeva, evitò di soffermare troppo lo sguardo su di loro, preoccupata di risultare maleducata.
Era già conscia di apparire nervosa, ma non poteva essere consapevole di quanto il suo aspetto la denunciasse come “estranea” in ogni dettaglio.
Stava già cominciando a chiedersi cosa fare e come farlo, quando ebbe la fortuna o la sfortuna di imbattersi nel detentore delle chiavi.
- E tu chi sei? -
Shunsui si era un poco ripreso dall’ultima visita a Jyuushiro. Un poco soltanto. La parte più complicata dell’operazione era sempre riuscire a sopprimere la mancanza fisica dell’altro; perché non solo ne sentiva la mancanza quando rientrava nella stanza che una volta avevano abitato insieme, ma iniziava a sentire nostalgia di Jyuushiro già quando lui e Nanao ripercorrevano le scale, e ad ogni pianerottolo Shunsui stringeva le mani che erano vuote.
- Ehm, io, buongiorno. – Orihime aveva velocemente cambiato idea sulla prima parola da pronunciare.
Sorrideva, incoraggiante, buffa e disperatamente ottimista. Shunsui la guardava dall’alto e la trovò tenera.
- Buongiorno – le disse.
- Io mi chiamo Orihime, sto cercando un mio amico – spiegò lei sollevando una mano in un gesto un po’ imbarazzato.
Shunsui aggrottò la fronte. Un’altra?
- E chi stai cercando, piccola? – si informò chinandosi un po’ su di lei.
Per reazione, la ragazza si fece visibilmente più piccola. – Ecco, si chiama Ulquiorra, ehm. Sì. -
Shunsui roteò gli occhi al cielo. Sì, un’altra. Come se non fosse bastato il biondino depresso.
- E chi ti dice che il tuo amico sia qui? – domandò, imperscrutabile, come la famosa saracinesca abbassata. Era la domanda di rito, quella che, in teoria, avrebbe dovuto rappresentare un primo passo verso la dissuasione dei curiosi.
Orihime sbatté le palpebre senza capire. – So che abita qui, con suo fratello, Grimmjow. -
Ora, se al posto di Orihime ci fosse stato Izuru, non avrebbe ricevuto un trattamento granché gentile. Ma Shunsui non era dell’umore giusto per fare il duro con quella ragazzina mielosa. Per altro, Nanao non si vedeva da nessuna parte, e questo era sempre in grado di mal disporlo.
- Tatsuki! – chiamò quindi l’uomo, vagamente seccato, voltandosi per guardare dietro di sé e portando una mano a coppa attorno alla bocca. – Risolvile tu le tue grane! … se vuoi scusarmi, - disse quindi con un accenno di inchino ad Orihime, e si ricongiunse alla sua poltrona.
Nel far questo, non aveva notato lo stupore sul viso della ragazza, e non notò quanto la suddetta espressione si ampliò mentre Tatsuki, da lui evocata, si faceva effettivamente avanti e si trovava di fronte alla nuova venuta.
Orihime sgranò gli occhi incredula, e, per quanto qualcuno avrebbe potuto trovarlo fuori luogo, fu subito chiaro che la sua espressione era di felicità. Tatsuki dal canto suo si irrigidì vistosamente quando la riconobbe, e si fermò a qualche passo da lei.
- Sei tu…! -
- … Orihime. -


- Che cosa fai questo pomeriggio, Tatsuki? -
- Hime viene a casa mia per studiare. -
Tatsuki aveva gettato indietro le braccia, la cartella allacciata al polso e una mela nell’altra mano. Stirò pigramente il corpo allenato senza rallentare l’andatura, mentre Izuru, di fianco a lei, le gettava un’occhiata breve e gentile, per poi riportare lo sguardo davanti a sé.
- Capisco. -
La ragazza gli aveva rivolto uno sguardo un po’ pigro, malizioso. – Vuoi unirti? -
- Ah… no… - Un po’ colto di sorpresa, lui aveva sorriso, e agitato vagamente la cartella. – Non voglio disturbarvi. -
- Ah, già, dimenticavo, lo studente modello Kira non ha bisogno di studiare con due povere sapiens come noi – lo canzonò Tatsuki, ma la sua presa in giro era dolce, e come tale Izuru la accolse, per il contorto complimento che era.
- Sai bene che studio come chiunque. -
- Di più di chiunque – lo corresse lei. – Lo so che le cose non te le regalano, Izuru. -
- Lo so che lo sai – ribatté lui e poi si zittì. Tatsuki sospirò appena. Era un tasto delicato.
- Be’, visto che questo pomeriggio non possiamo, perché non domani? – gli propose.
- Domani cosa? – ripeté Izuru preso alla sprovvista.
- Non mi ha chiesto se ero impegnata per potermi invitare a fare qualcosa? -
Innegabile. – Be’… -
- Sì, sì. – Tatsuki rise appena. – Scusa ma non ho il tempo di aspettare i tuoi tempi biblici. Ti invito io… un gelato? Orihime mi ha parlato di questo posto nuovo… sai com’è fatta, non si lascia sfuggire un negozio di dolci che sia uno. -
Izuru sorrise. Sapeva come era fatta Orihime e sapeva come era fatta Tatsuki; le conosceva da tutti gli anni del liceo. Sapeva che, davanti alla vetrina di una pasticceria, Orihime avrebbe esclamato di gioia e Tatsuki avrebbe storto il naso, perché lei era per le cose pratiche e funzionali, anche nel cibo.
Sapeva che lui era quello che stava in mezzo e che avrebbe insistito per poter pagare, ma che Tatsuki non gli avrebbe permesso di farlo perché lui ed Orihime erano poveri, e quindi toccava a lei pagare.
Lui sarebbe stato felice se il giorno dopo avesse potuto offrirle anche soltanto un po’ di gelato.


- Vieni fuori da qui, Orihime – disse Tatsuki afferrando la vecchia amica per un braccio e trascinandosela dietro, senza usare il nomignolo con il quale le si era rivolta per anni ed anni di scuola insieme.
Non era chiaro se ci tenesse tanto a portarla fuori per proteggerla dai brutti incontri che poteva fare, dagli sguardi che poteva suscitare o dall’attenzione che poteva attirare. Forse lo faceva per proteggere se stessa dalle domande che Orihime avrebbe provocato. O forse non sopportava di rivedere quel viso da ragazzina dimenticato per così tanto tempo, circondato dalle pareti fatiscenti del Million Dollar Hotel.
Le due ragazze si erano fermate sul marciapiede subito fuori l’edificio e Tatsuki aveva lasciato andare Orihime, anche se non l’aveva tirata con forza, né le aveva fatto male. Rimasero in silenzio per un istante e alla fine Tatsuki chiese: - Cosa fai qui? -


- Forse l’ho incontrato… a casa di… -
- … non l’hai incontrato a casa di nessuno, Hime – sbuffò Tatsuki in tono irritato. Izuru vide che le sue mani, appoggiate sulle ginocchia piegate, avevano un movimento infastidito.
Orihime si zittì, imbarazzata. Sperava di mettere a suo agio l’amica, ma evidentemente era l’argomento stesso che la metteva a disagio.
- Non l’hai incontrato in nessuna delle case dei nostri compagni – concluse Tatsuki categorica. Proprio perché era certa di ciò che diceva, la bugia di Orihime sembrava ancora più patetica. – Lui non frequenterebbe nessuno di loro. O loro non frequenterebbero lui. -
Solo Izuru e la sua calma posata erano stati in grado di reggere con dignità il silenzio che era seguito sotto l’albero.
- Sono sicura che è un ragazzo simpaticissimo – concluse Orihime, dopo un istante.
Tatsuki, appoggiata al tronco tra l’amica e Izuru, scosse appena la testa prima di appoggiarla all’albero. Erano seduti nel giardino della scuola ed aspettavano di far passare l’ora di pranzo. Tatsuki sosteneva di non avere fame, e così non aveva mangiato, e sapeva che Izuru la teneva d’occhio. Ora, anche questa specie di interrogatorio da parte di Orihime…
- Sì. A me piace, o non ci uscirei assieme. -
Il tono con il quale aveva parlato, non meno delle parole, avevano provocato una reazione in entrambi i compagni, che si erano voltati verso di lei. Anche se il viso di Orihime non era minimamente ferito quanto quello di Izuru.
Sentimenti che erano passati in un attimo.
- E così, ehm… come l’hai conosciuto? – tentò ancora Orihime.
- Conoscenti comuni. – Tatsuki si strinse nelle spalle. Non il genere di “conoscenti” che ci si fanno a scuola, o che le avrebbe permesso di frequentare la sua facoltosa famiglia. In effetti, Grimmjow era in tutto e per tutto quello che si potrebbe definire una “cattiva compagnia”.
Proprio per questo, con lui, Tatsuki sentiva di poter respirare.
Izuru non aveva detto niente.


- Ho capito bene? Cercavi Ulquiorra? E come fai a conoscerlo? -
Tatsuki insisteva mentre Orihime non sapeva bene cosa dire. Era decisamente sorpresa, ora, nonostante l’iniziale felicità per aver ritrovato la più cara compagna degli anni di scuola. Sì, perché, nonostante lo stupore, ora anche Orihime aveva realizzato: Tatsuki, lì… al Million Dollar Hotel?
- E’… è venuto a farsi curare, una volta… - rispose, troppo intimidita dalla domanda che le si era affacciata alla mente per non ubbidire al tono deciso di Tatsuki, - al pronto soccorso… io… studio medicina adesso… -
Tatsuki non lasciò il tempo al rimpianto o a qualsiasi sentimento di prendere piede sul suo viso. Al massimo, avrebbe potuto permettere ad un senso di solidarietà di renderla felice per Orihime, che aveva realizzato il suo sogno. Ma bloccò sul nascere anche quello. – Cazzo – disse invece. – E’ venuto al pronto soccorso? Quando? -
Ci mancava solo che Ulquiorra cominciasse ad andare in giro da solo, a farsi vedere, chissà da chi…
- Qualche tempo fa… c’era suo fratello con lui – spiegò Orihime. Ora, solo ora che la guardava con più calma, riusciva a rendersi conto che la forte Tatsuki era diversa da come la ricordava: era magra e secca, era piccola, scura, il viso tirato e stanco, in un modo che alla vecchia amica strinse il cuore.
- Ah. – Tatsuki si rilassò. Se c’era Grimmjow, tutto bene.
Solo allora Orihime intuì. – Suo fratello… - mormorò, studiando il viso di Tatsuki, - allora quel ragazzo… è lui…? -
Tatsuki non confermò in alcun modo, bastò la sua espressione.


Izuru non avrebbe mai voluto litigare con lei. Litigare con lei era proprio l’ultima cosa da fare, secondo lui, soprattutto in una situazione come quella: perché lui era debole e lei era forte e, con simili premesse, che fosse lui ad iniziare, a farla sentire attaccata, era terribile.
Non voleva attaccarla. Non voleva iniziare. Non voleva nulla di tutto questo.
Ma Tatsuki alzava difese su difese, per prevenzione. E lui si trovava sempre più lontano. Sempre più fuori.
Estromesso, in favore di uno sconosciuto, uno mai visto di cui non sapeva neanche il nome, una persona che non si preoccupava di Tatsuki, non davvero. Non come lui.
Non glielo nascose.
- E’ pericoloso. Solo questo. –
Le mani tremanti per il nervosismo o per la rabbia, le sue mani sottili e pallide dalla pelle secca di studente lavoratore, tentavano di rimettere a posto i libri sul tavolo nella cucina di Tatsuki. E lei era in piedi e andava avanti e indietro, inviperita come lui non l’aveva mai vista, urlando, approfittando del fatto che i suoi erano fuori per il week-end e nessuno li avrebbe sentiti in quella grande casa.
La cucina era quasi buia adesso, da fuori venivano le luci e i rumori di una grande strada. Era una bella zona della città, quella. Le macchine erano grosse e lucide.
Erano rimasti alzati fino a tardi, Izuru tentando di aiutarla a recuperare per il test che ci sarebbe stato la settimana prossima, solo per questo: solo per finire a litigare in quel modo, sui libri di chimica, con Tatsuki ridotta in un modo che lui non capiva e che lo spaventava.
- Non è pericoloso! E’ un ragazzo, capisci, come me e te, dannazione! – Tatsuki gli rispondeva e allo stesso tempo non lo faceva, dando una voce ai propri pensieri più che una risposta alle frasi di Izuru. – Non ha fatto niente di male. Per lui è difficile… -
- Anche per me è difficile. – Si sentiva punto nel vivo, l’amarezza vibrava nella sua voce. – Eppure non per questo sono un mezzo delinquente. –
- Ma come ti permetti?! – Tatsuki l’aveva guardato in un modo in cui lui non avrebbe voluto lo guardasse mai. – Tu non sai niente di lui! -
- E tu cosa sai di lui? -
- Abbastanza! -
- Tatsuki… ma perché… -
- Non ne posso più, Izuru. – Che avesse intuito o no la domanda, Tatsuki riprese a parlare, e avvicinandosi disperse i libri che il ragazzo aveva impilato, con mani febbrili. – Detesto questa roba. Non ne posso più di quella scuola di imbecilli, non sopporto più i miei genitori. Mi fa schifo. Non riesco a respirare. -
Più la guardava, più Izuru era sicuro che ci fosse qualcosa che non andava. Non sembrava nemmeno lei. I suoi occhi erano troppo lucidi.
- E comunque è inutile! Non capisco niente di quelle stupide formule, non riesco a restare concentrata – aggiunse lei, prendendosi la testa tra le mani. Ciuffi di capelli scuri le sfuggivano tra le dita.
Izuru si morse il labbro inferiore. – Riprenderemo domani, ad un orario decente… - tentò, la voce morbida.
- No. – L’altra scosse la testa. – E’ inutile. E comunque non mi importa nulla di quel test. -
- Ma… - Non c’era bisogno che fosse lui a ricordarle di quanto la sua media scolastica fosse già calata, proprio nell’ultimo anno di liceo.
- Non hai sentito? – Tatsuki lo interruppe, anche se probabilmente Izuru per primo non sapeva cosa dire. – Io non sono come te, Izuru! Tu sì che sei un bravo ragazzo… vero? – C’era qualcosa di cattivo nello sguardo di lei. – Orfano e tutto il resto, eppure sei sempre il migliore della classe, giusto? Be’, io non sono come te. -
Izuru lo sapeva benissimo, che lei non era come lui.


- Mi ricordo di te. -
Orihime e Tatsuki si voltarono assieme e incontrarono entrambe gli occhi verdi di Ulquiorra. Erano occhi tali che persino Tatsuki, che lo conosceva bene, non seppe cosa dire. Quegli occhi fissavano Orihime, proprio come le parole di lui avevano detto; si ricordava di lei.
Il ragazzo era fermo sulla porta del Million Dollar Hotel, vestito con gli abiti del fratello, che, ovviamente, erano troppo grandi per lui. Era fermo in piedi ed immobile, penetrante nella sua fissità, come lo era sempre quando stava quasi bene e non si riduceva ad una specie di bambola.
Eppure nessuno che lo avesse guardato avrebbe potuto non rendersi conto che era pazzo. Forse solo Orihime.
- Davvero? – domandò lei, esitante, perché proprio non se l’era aspettato, perché aveva immaginato di trovarlo e sedersi accanto a lui e sorridergli per rassicurarlo, e dirgli il suo nome e inventare qualche scusa sul fatto che la mandava la dottoressa Unohana; ma così, con lui che esordiva in quel modo, non c’era proprio modo di nascondersi.
Ulquiorra spostò per un istante lo sguardo su Tatsuki, quasi a chiederle cosa ci facesse lì. Lei era lungi dal farsi intimidire, ma si sentì comunque scoraggiata dal parlare.
Ulquiorra fece un passo avanti.
- In ospedale – disse. Orihime annuì. Poi lui chiese ancora: - Perché sei venuta qui? -
Ma detto da lui suonava tutto in un altro modo.
- Ecco, io… - Orihime distolse lo sguardo. Ecco. All’ultimo minuto, come c’era da aspettarsi, non aveva saputo cosa dire.
Sentiva che lui la osservava. Sotto gli occhi di Tatsuki, Ulquiorra dimostrava un interesse nuovo, ben strano da vedere in lui. Aveva seguito il movimento di Orihime, studiando il suo viso con intensità, quasi sollecitando con gli occhi la risposta che aspettava.
A quel punto Tatsuki decise di dare un taglio a quelle stronzate, perché vide la macchina.
- Dobbiamo andare – tagliò corto, lanciando un’occhiata alla sua destra e distogliendo subito lo sguardo. Si mosse verso l’interno, prendendo Ulquiorra per un braccio; il ragazzo non oppose resistenza, limitandosi ad irrigidirsi un po’, e corrugare leggermente le sopracciglia scure, come se cercasse un motivo all’interruzione.
Tatsuki non aveva capito tutto, ma aveva capito abbastanza, o così pensava. Perciò, prima di rientrare, con l’altro stretto al fianco, diede ad Orihime quello che le parve il miglior consiglio da dare: - Non tornare qui. Dimenticati di me e di Ulquiorra. -



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Ecco l'aggiornamento natalizio! Mi piace molto (sempre modesta) quindi trattatemelo bene, mi raccomando! *_*
(Izuru - Orihime - Tatsuki? Ma come mi è venuto in mente? XD)
Ne approfitto per fare gli auguri a tutti e come al solito ringraziarvi tantissimo per le recensionih! Sono particolarmente contenta perchè (spoiler spoiler) Tite non ci delude mai e gli ultimi sviluppi del manga inneggiano alla fighevolezza più totale *___*
Non altrettanto bello è che, dal prossimo anno, dovremo rassegnarci ad avere Bleach bimestrale ma... le scans ci aiuteranno a resistere! Y_Y
Ora shcushate se non rispondo uno per uno, ma sono davvero di corsa! Vi ringrazio comunque tutti tantissimo! *_* Buon Natale e buon anno! :D

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Capitolo 10
*** Ottavo. Too lost in you ***




Capitolo ottavo.
Too lost in you




[ Baby, I'm too lost in you,
caught in you,
lost in everything about you -
So deep, I can't sleep
I can't think … ]




Brutta mattina, quella.
Ichigo lo aveva capito fin dall’istante in cui si era ritrovato Byakuya Kuchiki fuori dalla porta di casa. L’uomo teneva in mano le chiavi della macchina – la sua macchina, stavolta, non l’utilitaria di Ichigo – e aveva addosso un completo scuro.
Come sempre.
A dirla tutta così mascherato lo si poteva scambiare per uno della Yakuza e prendersi pure un bello spavento. Chissà se lo faceva apposta?
Comunque, mafioso o no, il datore di lavoro gli aveva indicato la macchina e Ichigo ci era salito. All’interno l’ambiente era perfettamente pulito, la temperatura era ideale e c’era odore di pelle; inoltre, Ichigo era certo di aver colto la soddisfazione dell’altro nell’essere di nuovo al posto del guidatore, anziché del passeggero.
Solo allora Byakuya lo aveva salutato. – Buongiorno. Come procede? -
Ichigo aveva piazzato la scarpa da ginnastica contro la portiera. – Cosa? -
- L’indagine. – Byakuya aveva mani curate e agili che ingranavano le marce con facilità. A vederlo guidare si sarebbe pure potuto dire che ci sapesse fare, ma come se la sarebbe cavata a fare a botte per la strada? L’investigatore privato era quasi certo che Byakuya Kuchiki non avesse mai fatto a pugni con nessuno, nemmeno da ragazzino.
- Be’, l’indagine procede. – Aveva risposto incrociando le dita dietro la nuca. – Ma suppongo che lei sia di quelli che preferiscono controllare da vicino, vero? – lo stuzzicò un po’.
L’altro non distolse mai lo sguardo dalla strada, per tutto il tragitto. – Non c’è nulla in quel posto che io desideri controllare da vicino. – Ad Ichigo, quel genere di tono e di frase non piaceva granché. – Ma non mi sembra che stiamo risolvendo molto. -
- La fretta non porta da nessuna parte. -
- Per questo stamattina ho deciso di venire con lei. -
Era stato lì, che aveva capito che ci sarebbe stato qualche guaio. Poteva solo sperare che non fosse un guaio troppo grosso. Ma andiamo, come faceva Kuchiki ad aspettarsi di poterlo seguire in un posto come il Million Dollar Hotel, bello fresco e inamidato, e magari fare pure qualche domanda in giro? Con quel vestito? Con quella macchina?
Ma non aveva del lavoro da fare, multinazionali da mandare avanti, quella mattina?
La sorellina doveva stargli a cuore. Pardon, cognata. In ogni caso Byakuya non aveva lavoro quella mattina.
Naturalmente Renji non l’aveva presa bene. Anche questo si era capito subito. Ichigo aveva già intuito che Renji trovasse antipatico Byakuya Kuchiki, ma, considerando le posizioni dei due, non si poteva biasimarlo. Non avrebbe creduto, però, che lo trovasse così tanto antipatico.
Più guardava quei due parlare, e più era certo che il rosso avrebbe volentieri preso a cazzotti l’altro, se solo avesse potuto. Byakuya continuava a rispondere frase su frase, gelido, col suo bel vocabolario e le mani intrecciate sul ginocchio, e intanto Ichigo pensava tra sé, ecco qua, sta’ a vedere che stamani rimediamo alle lacune adolescenziali di questo tizio.
Probabilmente Renji si era trattenuto perché sapeva che, anche con tutta la simpatia del mondo, Ichigo sarebbe stato costretto a correre in soccorso di Kuchiki.
- Le sto dicendo che nessuno qui la conosce, non sappiamo dove sia, non sappiamo chi sia e non ci interessa – disse, i denti stretti, la voce un po’ più alta della volta precedente.
- Non è quello che ci hanno detto – ripeté a sua volta Byakuya, chiudendo per un attimo gli occhi. Era un segno di esasperazione, come di fronte ad un bambino assillante. Renji ne fu così colpito che ristette, zitto, per un istante, e poi si voltò verso Ichigo sbottando: - Ehi, me lo dici che cazzo vuole questo? Mi avete preso per un imbecille? -
Byakuya riaprì gli occhi. Ichigo sospirò, sconsolato, sulla sua scomoda poltrona nella hall del Million Dollar Hotel. – Signor Kuchiki… -
- Kurosaki. – Byakuya non disse altro ma lo guardò. Anche Renji lo guardava. Ichigo sapeva cosa significavano quei due sguardi, specie in contemporanea.
- Be’, l’indagine sta proseguendo. Renji ci sta aiutando – tentò. Che si aspettava, Kuchiki, il Mar Rosso che si apriva per lui?
- Io penso che è impossibile che nessuno sappia… -
- Eppure, be’, è così – lo interruppe Renji, e si alzò in piedi. – Stiamo già facendo il possibile… -
- Le ho accennato alla possibilità dei soldi, signor Abarai? -
Ichigo e Renji rimasero immobili. Il secondo si voltò verso il primo, poi verso Kuchiki, e mormorò: - Come? -
Ichigo pensò che, se non ci pensava Renji, avrebbe sempre potuto essere lui, la nave-scuola di Byakuya Kuchiki del magico mondo del pestaggio nei vicoli.
Si alzò, come Renji. Alzò anche le mani. – Semplice routine… -
- Dove cazzo l’avete trovato il mio nome? – sbraitò Renji. Ora fissava Ichigo, stupefatto. Forse persino deluso. Non avrebbe dovuto dimenticarsi che, polizia o meno, quello era comunque una razza di sbirro.
- Qualche ricerca… solo per routine – ripeté Ichigo, - è consuetudine, in un caso. -
- E quindi sono stronzate quelle che mi hai fatto raccontare, per esempio su Shinji e Hiyori, che non ti interessa, che… -
- Nessuno è stato informato. – Ichigo parlava con voce calma. Byakuya li osservava entrambi. Renji indicò quest’ultimo: - Ah, no? E il bell’imbusto, qui, come ha fatto a saperlo? -
- E’ il mio cliente. Ma qualsiasi altra informazione non è rilevante, - spiegò Ichigo.
- Tutto quello che ci interessa è Rukia – intervenne Byakuya, forse sperando di calmare le acque. Sicuramente non si aspettava la reazione di Renji e in effetti, stavolta, non se l’aspettava neppure Ichigo.
Eppure, senza che fosse chiaro il motivo, udendo quelle parole Renji si voltò e lasciò stare il detective per concentrarsi sull’altro uomo, gli si avvicinò tanto da avere il viso vicinissimo al suo e sibilò di rimando: - Ah, sì? Ti interessa Rukia? E allora perché non è a casa con te, se ti interessa? Com’è che la state cercando? Com’è che è scappata? -
Byakuya non parlava. Per la verità sembrava turbato, anche se continuava a sostenere lo sguardo di Renji.
- Perché, - insisteva lui, - eh? Me lo sai dire? Invece di andare in giro a destra e a manca a sbandierare la tua macchina e le tue belle scarpe e il tuo Armani, e a offrire soldi come se ti piovessero dal cielo, perché non hai fatto il bravo cognato e non l’hai tenuta a casa, la tua ragazzina? -
Ichigo aveva avuto la distinta visione di qualcosa – non avrebbe assolutamente saputo dire cosa – che si incrinava nel viso di Byakuya e aveva deciso che era il caso di intervenire.


- Sicuro di stare bene? -
- Sì. -
Erano di nuovo nella grossa macchina stile mafia giapponese, Byakuya con le mani appoggiate al volante e Ichigo semisdraiato dall’altra parte. Quasi gli era passata la rabbia verso Kuchiki, vedendo il viso cereo che aveva messo su.
Quasi.
- Non aveva tutti i torti, comunque. -
Byakuya si voltò per guardarlo. – Non la pago per dare giudizi, signor Kurosaki. -
- Be’, glieli do gratis. E se vuole saperlo, lei non mi ha dato molte informazioni. Privacy o no, se lei non mi dà la possibilità di conoscere tutti i dettagli necessari sul passato di sua cognata, sta ostacolando le mie indagini. -
Ci fu un’altra occhiata tesa di entrambi e poi Ichigo sbuffò, irritato. – Intendo dire… perché sua cognata se ne è andata? Lei mi ha detto che da ragazza aveva vissuto nella povertà, che era desiderio di sua moglie ritrovarla, ed altre cose, ma mai esattamente per quale motivo pensa che sia fuggita di casa. -
Byakuya riportò lo sguardo sulle proprie nocche sopra al volante e non parlò.
- A rigor di logica, - continuò Ichigo – non è così che dovrebbe andare. Insomma, certo, cambiare ambiente può essere traumatico, ma in genere chi ha la fortuna di essere raccolto da una strada e trovarsi tutte le porte aperte davanti, all’improvviso, non ci sputa sopra. Non senza un buon motivo. -
Altro silenzio. - Lei è sicuro che la ragazza non abbia rubato niente? O che sua moglie non le abbia lasciato… -
- No. – La risposta di Byakuya suonò categorica. – No, niente. Rukia se ne è andata senza portare con sé nulla di ciò che aveva a che fare con me. – Allo sguardo perplesso dell’altro, chiarì: - Hisana non possedeva nulla di suo, eccetto ciò che le avevo regalato; per Rukia era lo stesso. Aveva solo alcuni abiti e oggetti che le appartenevano prima di trasferirsi da noi. Tutto il resto era stato comprato con i soldi della nostra famiglia. Non ha preso con sé nulla di quello. -
Stavolta, il ragazzo dai capelli arancioni annuì. – Capisco. – Capiva davvero, in qualche modo: Rukia Kuchiki, chiunque fosse, per qualunque motivo fosse fuggita, aveva voluto rinnegare in ogni possibile modo la famiglia adottiva. Così tanto che non era neppure rimasta accanto alla sorella moribonda.
- Erano legate, le due sorelle? – domandò. E a quel punto, quasi senza rendersene conto, Byakuya Kuchiki divenne il nuovo soggetto dell’indagine.
- Non molto – ammise l’uomo, scuotendo la testa. I ricordi cambiavano impercettibilmente il suo viso, rendendolo più morbido, più sfocato in qualche modo. – Hisana mi raccontò che avevano vissuto assieme in un orfanotrofio povero, di periferia. -
Queste cose, Ichigo le sapeva. Quell’orfanotrofio e l’elenco dei suoi ospiti negli anni in cui vi aveva abitato Rukia Kuchiki, così come dettagli sulla famiglia adottiva dell’infanzia, ormai dispersa, erano state le prime cose che aveva controllato, scavando da cima a fondo grazie all’aiutino da parte di un certo poliziotto leccapiedi. Ma, come sempre, preferì tacere e lasciare che l’altro parlasse.
- A causa della differenza d’età tra di loro, avevano presto preso strade diverse: gli affidamenti le avevano divise. Hisana divenne presto maggiorenne, e andò a vivere da sola, cavandosela alla meno peggio, fino a quando non ci incontrammo. -
Ichigo avrebbe quasi voluto chiedere come avevano fatto ad incontrarsi, due persone così diverse, ma quella curiosità non avrebbe avuto alcuna giustificazione professionale, e lui non era lì per giudicare nessuno.
- Di Rukia non seppe più molto. – Ora Byakuya poggiava sul volante il palmo della mano bene aperta. – Cercò ancora di ricontattarla, ma non aveva molti mezzi. Seppe solo che era stata data in affidamento, ma che era fuggita. Contando il periodo di lontananza e la differenza di età, le due non ebbero mai molto modo di legare. Ma Hisana sperava che questo sarebbe cambiato quando lei fosse venuta a vivere con noi. -
- E non ha avuto ragione? -
- No. Rukia era schiva, silenziosa. Non sembrava desiderosa di ambientarsi. Era come se cercasse di rendersi il più piccola possibile. Non si affezionò a nessuno, né in casa, né fuori. – Byakuya sospirò. – Speravamo che fosse questione di tempo… -
Ichigo ascoltava e rifletteva. Sperare che fosse questione di tempo, evidentemente, non era stato abbastanza.


- Byakuya-sama… -
Le mani di Hisana provocavano un fruscio leggero sul copriletto mentre la donna ne lisciava le grinze impercettibili. Byakuya, in piedi davanti allo specchio, lanciò un’occhiata alla moglie dietro di lui.
- Sicura di non voler venire? – le chiese ancora.
Lei scosse gentilmente la testa. Aveva un po’ più di colorito sulle guance, notò Byakuya. Eppure non riusciva a sembrare meno malata, perché aveva addosso la vestaglia, ed era seduta sul letto, e non faceva nulla per reagire.
Scacciò il pensiero molesto.
- Mi dispiace, Byakuya-sama… non sono presentabile questa sera. Ti farei arrivare in ritardo alla cena. – Hisana voltò lo sguardo. Byakuya distolse il proprio e lo riportò sul nodo della cravatta.
- Byakuya-sama, io… stavo pensando a Rukia. -
- Ci sono dei problemi? -
- No… - Hisana si affrettò a negare. – Ma… mia sorella porta il cognome della famiglia che l’aveva adottata, e… il nostro stesso cognome, quello di nostro padre… - la donna aveva chinato lo sguardo sulle mani sottili, dalle unghie lucide, che ticchettavano nervosamente sulla pelle – non è un cognome di cui essere orgogliose. Io mi chiedevo… -
Byakuya aspettava la richiesta, osservando la moglie nello specchio, ascoltando quasi distrattamente le sue parole perché preferiva studiare i suoi capelli, le spalle, le labbra semiaperte. Non voleva andare a quella cena. Voleva distendere Hisana sul letto e darle piacere, riempirle gli occhi, colorarle le guance, toglierle l’ovatta nella quale stava avvolta e sentirla alzare la voce, sentirla gridare, abbandonare quei suoi sussurri da ombra spaventata, sentirla conficcare le unghie nelle sue spalle fino a fargli male.
Chiuse gli occhi.
- … il tuo cognome, Byakuya-sama. Il cognome Kuchiki. – Hisana prese un ampio respiro. – Ora anche io sono una Kuchiki, come te. Rukia è mia sorella, fa parte della nostra famiglia ora. Sarebbe un tale dono se… sarebbe senz’altro più semplice, per lei, se potesse… -
Byakuya riaprì gli occhi. Hisana era un’immagine distorta nello specchio, come un riflesso controluce sull’acqua. La lampada sul comodino le colorava le spalle.
Dubitava persino di poter riuscire a toccarla, in quel momento. Forse era viva soltanto nello specchio.
Mani lente e caute si muovevano sulla stoffa della vestaglia e della coperta, e Hisana gli offriva uno scorcio del viso di tre quarti, gli occhi socchiusi, in attesa di una sua risposta.


- Signor Kuchiki? -
Byakuya riaprì gli occhi. Ichigo era sceso dalla macchina e si sporgeva verso di lui, la mano appoggiata sulla portiera aperta.
- E’ sicuro di riuscire a guidare? -
- Sì. – Subito dopo aver risposto, fu infastidito dal fatto di esserci cascato, perché era evidente che la domanda di Kurosaki era stata ironica. L’investigatore gli rivolse un piccolo ghigno.
- Be’, io torno da solo, grazie per il passaggio. -
Byakuya non rispose e aspettò che l’altro richiudesse la portiera per ripartire.
Ichigo gli lanciò solo un’occhiata, e poi si voltò verso la ragazza che stava accanto a lui.
- Ti riaccompagno. Così facciamo anche una passeggiata, che ne dici? -
Il suo tono era perfettamente gentile, ma non ebbe alcun effetto nel ridurre il nervosismo di lei. Orihime annuì, e gli si affiancò.
Camminarono un po’ in silenzio, Ichigo con le mani in tasca, Orihime con lo sguardo chino. Dopo un tempo imprecisato, si ritrovarono sul marciapiede di una grande strada piena di negozi, e Orihime riconobbe il posto: erano ormai vicini a casa sua, fuori dalla brutta zona nella quale si trovava l’Hotel.
Fu allora che, aspettando il cambio del semaforo per attraversare, Ichigo le chiese, casualmente: - Che ci facevi lì? -
La ragazza si era preparata una risposta e gliela servì senza esitare, giusto con quel briciolo di imbarazzo tipico suo. – Ero andata a trovare una mia amica, Kurosaki… -
Ichigo la osservò stupito, ma il semaforo scattò e loro si zittirono per unirsi alla folla che attraversava la strada.
Per Orihime, Ichigo era sempre stato un amico di Uryuu, e per Ichigo, lei era sempre stata la ragazzina di Uryuu. Poiché, tra l’altro, Ishida e Kurosaki erano uno strano genere di amici, non capitava spesso che si uscisse assieme. E così Orihime non conosceva molto bene Ichigo e Chad, di sicuro non abbastanza da sentirsi totalmente a suo agio con loro.
- Conosci qualcuno che abita da quelle parti? -
- S-sì, all’Hotel… io… - Orihime chinò la testa. Non doveva tradirsi. E in fondo era una menzogna solo per metà. – Ho scoperto che una mia vecchia amica del liceo, ora, vive là… -
- Mi dispiace. – Ichigo non perse tempo in osservazioni melense e Orihime gliene fu grata. Si fece coraggio e aggiunse: - Sì… anche a me. Si chiama Tatsuki. Eravamo molto amiche, una volta… - corrugò un poco la fronte, - Kurosaki, potresti non dirlo ad Uryuu? Io penso che si preoccuperebbe per me. Probabilmente non gli piace che vada in quel quartiere… -
- Non ha tutti i torti… - annuì Ichigo. Se si fosse trovato a parlarne con Uryuu gli avrebbe dato del bigotto retrogrado, ovviamente, ma ora come ora non poteva biasimarlo se preferiva tenere lontana la sua ragazza da quella zona.
- Lo so. – Anche Orihime sembrava comprenderlo ed annuì, con sincerità. – Volevo solo provare a parlarle, tutto qui. -
- Va bene. – Ichigo si strinse nelle spalle. – Non lo dirò ad Uryuu. Tu comunque sai badare a te stessa, lo so. Solo… be’, fai attenzione. -
- Certo, - esclamò Orihime sollevata, e gli rivolse un gran sorriso. Un sorriso luminoso, tipico suo, e piuttosto raro da trovare su qualcun altro. – Grazie! -
Ichigo stava ancora ripensando a quel sorriso, la sera, nel suo piccolo appartamento.
Era ormai buio, ma lui non aveva sonno: secondo un piccolo rituale ormai acquisito da molto tempo, la sera sedeva al tavolo della cucina, disponendo attorno a sé foto, documenti, appunti, registrazioni, e tirando le somme.
Non somme definitive. Non gli piaceva lavorare con fretta.
Lui tirava le somme come se intrecciasse fili su un telaio, con molta calma, riflettendo per bene, poco alla volta. Era quello il modo di non farsi ingannare dalla trama. Per questo non metteva fretta agli eventi e alle persone.
Niente fretta è il metodo vincente.
Teneva attorno a sé anche un posacenere e le sigarette, e lasciava che il fumo riempisse le tre stanze della sua casetta blu e gialla. La casa era blu perché era sempre buia – persiane abbassate di giorno, quando lui era fuori, e alzate di notte sul cielo vellutato – e gialla perché era rischiarata solo da vecchie lampade antiquate, dalla luce intensa e pastosa. E dalle braci del mozzicone.
Di solito, dopo aver riflettuto un po’, Ichigo si alzava ed andava ad aprire la finestra, per far uscire il fumo. Guardava fuori, lasciava che l’aria fresca lo aiutasse a riordinare i pensieri. Solo allora, quando gli pareva che tutto fosse a posto, andava a dormire, con la mente già proiettata all’indomani.
Ma quella sera ripensava al sorriso di Orihime. Sapeva che quella ragazza era importante per il suo amico; ogni volta che la vedeva, non stentava a capire in che modo lei gli avesse illuminato la vita. Uryuu era intelligente, determinato; si meritava il successo. Si meritava di realizzare le sue ambizioni. Ma era anche un solitario. Orihime era una cosa buona per lui.
A volte Ichigo lo invidiava un po’, persino; lui, al contrario, era un single impenitente.
Non gli riusciva di tenersi strette le cose.
E poi, per un motivo assurdo, gli veniva in mente Rukia Kuchiki.
Aveva visto delle foto di quella ragazza. Era tutto il contrario di Orihime: piccola, fragile, pallida, con occhi e capelli scuri. E non sorrideva mai.
Il mestiere di Ichigo era trovarla. E prima ancora di trovarla, cercarla: tra le cifre, i nomi, le date, nei visi delle persone, nelle loro parole. Gli capitava spesso di essere ingaggiato per trovare una persona scomparsa – solitamente, qualcuno che aveva voluto sparire – e ormai sapeva come procedere: con calma, tastando il terreno attorno.
Ma Rukia Kuchiki era un po’ diversa. Perché sembrava non aver lasciato nulla dietro di sé, nulla attorno a sé. Non c’erano tracce, non c’erano indizi. Aveva vissuto per cinque anni con la sorella e il cognato senza lasciare un segno, nulla di proprio, come se non fosse nemmeno lei la persona che condivideva la vita quotidiana con loro. Tanto che, ora, Byakuya Kuchiki non sapeva come aiutarlo, né cosa dirgli.
Ma poi Ichigo sapeva, perché li aveva visti, che c’erano altri fantasmi negli occhi di Byakuya Kuchiki. Più importanti e più ingombranti della preoccupazione per la cognata.
Ma chi ci pensava, allora, alla piccola Rukia? Dove era finita?
A volte Ichigo si era chiesto, da quando era iniziata quella indagine, se Rukia non fosse diventata un suo fantasma. Aveva l’impressione che si fosse annidata in un angolo dei suoi occhi, che da un momento all’altro l’avrebbe vista sbucare fuori da dietro un angolo, tranquilla, il viso chino e distante com’era nelle foto.
Era come se lei ci fosse, in qualche modo.
- Cazzo. – Ichigo imprecò e posò con una certa forza la mano sul davanzale della finestra. – E’ successo. -
Ti avvertono, per questo genere di cose. Te lo dicono in anticipo, che tanto è inevitabile, che succederà. Che è meglio essere preparati.
Si era fatto coinvolgere troppo da un’indagine. E non da qualche provocante indagata o da una moglie infedele o stronzate simili, ma da una piccola scomparsa che non aveva mai incontrato una volta in vita sua.
- Merda. -



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Noticina: Hisana chiama Byakuya “sama”… mentre non ho usato nessun altro termine come san, kun o simili, nella fan fiction. Il motivo è semplicemente che, pur provandoci, la cosa non mi sembrava scorrevole, e in fondo il discorso suona anche così. Questa Tokyo che in teoria dovrei descrivere in realtà è inventata, lo sapete benissimo e sono certa che nessuno di voi si aspetta troppo! XD Hisana usa il “sama” semplicemente perché sarebbe impossibile rendere in italiano le sfumature che comporta.
E così eccomi di ritorno con l'aggiornamento!
Scusate il ritardo, ma in teoria dovrei pure preparare un esame in questo momento. XD

Grazie come sempre per le recensioni! *_* Contenta che il trio vi sia piaciuto (piace anche a me, anche se non capisco da dove mi sia uscito XD). Quindi grazie ad Ino, AllegraRagazzaMorta e belialcross *_*'' Spero che questo capitolo vi piaccia altrettanto xD

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Capitolo 11
*** Nono. Kiss and tell ***




Capitolo nono.
Kiss and tell




[ Fever - the heat of the night.
Dreamer - stealer of sighs…
One public face in a private limousine;
flash photograph it's the only light you see.
No secret life, there's no secret you can steel;
your lips are moving, but I will never know what they mean …
Kiss and tell
Money talks - and love, it burns
Kiss and tell
Give and take - we live and learn
Kiss and tell, we never lie
Kiss and tell, eye for an eye
Kiss and tell, blood on a nail … ]




In un’altra zona della città, anche qualcun altro continuava a lavorare alla propria scrivania. Uryuu Ishida, però, non era decisamente il tipo da lasciarsi andare a considerazioni men che professionali. E poi odiava il fumo. Lo odiava perché gli ricordava suo padre.
Era ancora alla sua scrivania, ma lui era seduto davanti ad un computer acceso da una luce azzurrina, la mano protesa in avanti alla sua destra e pronta a sollevare la cornetta del telefono. Si aspettava che Orihime lo chiamasse; lo faceva spesso, per sapere come stava, e quando sarebbe tornato. In realtà era una scusa per rallegrarlo un po’, ed Uryuu lo sapeva. Per questo ci sperava.
Quella sera Orihime non aveva ancora chiamato, ma lui ne era un po’ sollevato, perché se l’avesse sentita avrebbe dovuto ammettere che stavolta non sapeva quando sarebbe tornato a casa. Sicuramente molto tardi.
In quei giorni, il lavoro non smetteva mai. Lanciando un’occhiata all’ufficio del capo, Ishida sospirò, ricordando quale ne era il motivo: da quasi una settimana, tutta la centrale era in subbuglio giorno e notte.
Il diretto superiore di Uryuu non voleva lasciarsi sfuggire quell’occasione per “ritentare il colpo”. Proprio quello al quale erano andati così vicino solo pochi anni prima. Yoruichi Shihouin era tornata in Giappone; Yoruichi Shihouin, erede della famiglia Shihouin, uno dei clan riuniti sotto il comando dell’Inagawa-kai, il più importante gruppo yakuza di Tokyo.
L’Inagawa-kai era diffusissimo, di grande rilevanza in tutto il Giappone, e contava almeno trecento diversi clan come suoi sottoposti. Tra questi, i più importanti erano gli Shihouin e i Fon, ben radicati a Tokyo, e attivissimi sul territorio della città.
Era stato proprio grazie agli Shihouin che negli ultimi anni la yakuza aveva spostato il proprio raggio d’azione, dal gioco clandestino alla droga e alla prostituzione. Il potere e il denaro ricavato da quell’operazione compiuta nell’ultimo decennio aveva rinforzato enormemente l’influenza dell’Inagawa-kai, e come risultato la sua promotrice, Yoruichi, era stata investita di una carica molto importante all’interno dell’organizzazione, tanto da diventare lei per prima un personaggio di spicco, insieme al suo clan.
Ripensandoci, Uryuu strinse i denti con particolare amarezza dopo una giornata di lavoro duro e forse inutile. Quell’intraprendente mossa di scacchi era costata la vita a qualche migliaia di persone; l’intuizione di Yoruichi Shihouin, infatti, era stata tanto cinica quanto geniale. In Giappone, un paese molto legato alle proprie tradizioni, alcune mode erano difficili da importare. Ma non tra i ragazzi più giovani, alla ricerca di novità e libertà, proiettati spesso verso l’Occidente.
Yoruichi, lei per prima membro di una famiglia ricca e in vista, ragazza popolare, di carattere forte sin da quand’era a malapena ventenne, aveva istruito gli Shihouin e i Fon ad avviare il mercato della droga tra i giovanissimi, quando nessuno se lo aspettava.
A quel tempo, Uryuu, Ichigo e Chad facevano le superiori, e avevano ambizioni e sogni da liceali. Avevano amici, piccoli impegni, l’inizio di una vita tra le mani. Ma la loro scuola non era stata un’eccezione, quando le cose avevano iniziato ad andare male: i tre ragazzi avevano visto moltissimi loro amici perdere la salute, il futuro, la vita per colpa dell’ambizione di un gruppo di criminali.
Avevano perso tutte quelle cose proprio quando cominciavano a prenderci confidenza.
Anziché la festa dei diplomi, di quel periodo Uryuu ricordava i funerali.
Anche per questo avevano finito con lo scegliere quel genere di lavoro. Per questo Ichigo perdeva sempre la calma quando si parlava di Yoruichi Shihouin e Chad teneva d’occhio chi entrava nel suo negozio di armi. Per questo Uryuu era corso ad informare il suo superiore – per lui, una specie di mito – che Shaolin Fon si era fatta vedere a Karakura, e sempre per questo ora l’intera centrale si dava da fare fino a tardi nella speranza di trovare un appiglio, un indizio per procedere.
Nell’intera faccenda c’era più idealismo di quanto gli piacesse ammettere; lui era un ragazzo giovane ma serio, coi piedi per terra, non un esaltato o un fanatico. Ma Uryuu sperava, nonostante tutto, e sperava ancor di più perchè sapeva che anche il suo capo era coinvolto in quell’indagine. Ammirava la rettitudine di quell’uomo e non si stupiva che gli stesse tanto a cuore mettere le mani su quell’assassina di Yoruichi Shihouin.
Quello che Uryuu non sapeva era che c’erano molte altre ragioni oltre alla passione per la giustizia, che tenevano sveglio Kisuke Urahara durante la notte.
Sul tavolo del commissario erano sparsi una quantità di diversi documenti, molti dei quali portavano firme che lo disgustava vedere. C’erano poi analisi, risultati, test, dichiarazioni, appunti, e foto. Le foto erano la cosa che, in quella tarda serata in ufficio, apparentemente simile a molte altre, in verità gli ostacolavano più di tutte la concentrazione.
Le foto - spesso sfocate, scattate in situazioni tra le più rischiose – ritraevano uomini e donne armati, locali e ambienti affollati, incontri tra membri di spicco della società di Tokyo, macchine dai vetri oscurati. Lei compariva di rado, sempre sfuggente, un suo braccio, una spalla, un profilo lontano, i suoi occhi dorati che luccicavano nell’obiettivo.
Era ridotto a vederla così, in foto. L’aveva vista al telegiornale quando la televisione aveva dedicato numerosi servizi al ritorno in Giappone di quella ragazzina sconsiderata, di quella donna capricciosa e dispotica che giocava con la vita dei suoi sottoposti e di chiunque le facesse comodo, pur di ottenere quello che voleva.
Perché Yoruichi Shihouin otteneva sempre quello che voleva.
L’aveva vista scendere dalla macchina, l’aveva vista all’aeroporto, circondata dalle sue guardie, il cappotto sul viso, l’espressione beffarda perfino allora, lui ne era certo. E non aveva potuto fare altro che stringere con forza il telecomando, nella cucina asettica del suo appartamento da scapolo troppo grande e troppo vuoto, e fissare lo schermo dove lei sfuggiva ai flash dei fotografi e a lui.
Poteva guardarla finché gli pareva, nelle foto, in tv, o nel dannato annuario scolastico vecchio di quindici anni, dove lei sorrideva già esattamente come la trentenne fatale che sarebbe diventata; poteva guardarla fino a morirne, ma non l’avrebbe presa.
E invece era proprio prenderla, quello che dovevano fare.
Quattro anni prima, ce l’avevano quasi fatta. Erano vicinissimi, così vicini che ad Urahara sembrava di poterla toccare, così vicini che non era più possibile sbagliarsi… e invece era stato un errore, un’illusione, un tradimento. Ancora una volta. Lei era riuscita a scappare – lei scappava sempre - e per quattro anni non avevano più sentito parlare di lei.
Lui si era ridotto a sentire la sua mancanza, come il più completo dei cretini, solo per provare un colpo al cuore, e anche da qualche parte più in basso, quando aveva saputo che stava tornando. Di nuovo quasi alla portata delle sue dita.
Era più che un cretino. Era patetico.
Era un poliziotto innamorato di una criminale, e neanche una qualunque, incontrata per caso troppo tempo prima. E come nella più classica delle storie, lui cercava davvero di rimanere fedele al suo dovere, ma lei era qualcosa di più della giacca, della cravatta, del distintivo; lei nella sua pelle scura, nei suoi fianchi lisci, nei suoi occhi di oro liquido era molto più consistente di quanto non lo fosse lui nella sua camicia spiegazzata, nei capelli troppo lunghi, nelle mani nervose.
Lei stava molto meglio calata nel suo ruolo di assassina e carogna, di quanto lui non stesse nel suo di poliziotto integerrimo, capo di numerosi sottoposti.
Yoruichi era sontuosa e superba, figlia di una famiglia che non doveva mai chinarsi di fronte a nessuno – nemmeno alla yakuza; Yoruichi si era fatta strada da sé, ancor più di quanto suo padre e il padre di suo padre avessero mai fatto – e lui, Kisuke? Di origine provinciale e povera, aveva studiato sodo e lavorato duramente per ottenere infine il suo attico a Tokyo e il completo elegante, nessuno dei quali aveva il minimo senso o c’entrava alcunché con lui.
E tutte le volte in cui si erano fugacemente incontrati, lei non aveva cessato di rimarcarlo.
Si era presa tutto, tutto quello che lui voleva dare, tutto quello che lui poteva dare e anche qualcosa di quello che non poteva.
E lui non era mai riuscito a fermarla. Nemmeno a farla rimanere un istante di più, figuriamoci arrestarla. Anche se ci aveva provato, ci aveva provato davvero; ma come si poteva, quando tutti remavano così palesemente contro, quando il prefetto era notoriamente un amico degli Shihouin, quando persino la televisione trasformava una criminale in una donna affascinante agli occhi degli spettatori?
Tutti quanti sapevano che Yoruichi Shihouin meritava quanto di più grave la condanna potesse risultare, e tutti quanti sapevano che non sarebbe mai arrivato il momento in cui la dovesse scontare. Yoruichi era intoccabile.
Dannazione, se lo era. Kisuke lo sapeva benissimo: quando ricordava come era sentirla addosso a sé, gli sembrava di avere toccato il fuoco, anziché pelle umana.
Si erano incontrati pochissime volte, per la maggior parte sentivano l’uno dell’altro attraverso i giornali, la televisione; ma a Kisuke sembrava di conoscerla da sempre, e sapeva che anche lei, anche lei lo conosceva come se potesse seguirlo con quei suoi occhi da dea, attraverso i muri, attraverso qualsiasi distanza.

Yoruichi appoggiò le dita sul bordo superiore della portiera e si issò agilmente fuori dalla macchina, voltando il capo per guardarsi attorno. Tanto il locale quanto la strada erano circondati da uomini massicci, vestiti uniformemente di nero, i colletti e i polsini accuratamente disposti per coprire i segni sulla pelle che rivelavano l’appartenenza alla yakuza; i tatuaggi grandiosi e ricchi di simboli che riconoscevano un membro dall’altro.
Quasi tutti quegli uomini portavano sull’avambraccio, intrecciato agli animali mitologici e agli scenari epici che dovevano ripercorrere attraverso l’inchiostro le caratteristiche del combattente, la mezzaluna circondata dalle quattro stelle degli Shihouin, tracciata in nero indelebile quanto la loro fedeltà. Erano alcuni degli uomini migliori tra quelli dei quali Yoruichi disponeva.
Gli eventi di qualche anno prima le avevano insegnato ad essere prudente.
Soifon richiuse la portiera e le si accostò, lo sguardo duro che setacciava in fretta le vicinanze, la mano vicina alla pistola e alla wakizashi che nascondeva sotto gli indumenti.
Yoruichi sorrise e le posò una mano sulla spalla. Diversamente dalle persone che erano con lei, vestiva all’occidentale, quasi non temesse di essere riconosciuta – come se non fosse già abbastanza inconfondibile di suo.
- Rilassati, Shaolin – le sussurrò divertita. Le spalle dell’altra si sciolsero subito, mentre la donna rivolgeva uno sguardo dubbioso alla padrona.
- Seguimi, - la incitò Yoruichi con un mezzo sorriso. – Andiamo a divertirci. Se non tirerai fuori la spada per la prima mezz’ora, forse riuscirai a distrarti un po’ anche tu. -
E la precedette verso l’entrata del Nocturne.
Se al padrone di casa non piaceva quel dispiegarsi di forze, non lo diede a vedere. Accolse l’ospite sulla porta nella migliore delle tradizioni, e le fece strada verso l’interno del locale con tranquillità, quasi un pacato divertimento di fronte al sospetto con il quale Soifon studiava l’ambiente illuminato di luce violetta, la mortale efficienza delle cameriere dai vestiti attillati, il viavai di clienti cui l’illuminazione e la pianta originale del locale donavano sagome confuse e volti nascosti.
- Ha quasi una sua classe, la tua piccola bettola – commentò Yoruichi, senza preoccuparsi di tenere un tono di voce basso, anzi premurandosi che Aizen la sentisse bene al di sopra della musica.
Lui si voltò e inarcò garbatamente un sopracciglio, verso la donna che lo seguiva pochi passi più indietro. – Ho fatto fruttare la fiducia che avevate riposto in me, - rispose senza scomporsi.
La musica ritmata li divideva. Soifon e gli uomini di lei fendevano la folla lanciando in giro occhiate aggressive.
Yoruichi rise, continuando a guardarsi attorno. – Intendi dire che hai fatto fruttare i soldi che ti avevo dato. Ma non è male, eh… è stato un buon investimento, - ribadì annuendo. – Ne sono contenta. -
Aizen si fermò indicandole una saletta privata, arredata di nero e di pelle come il resto del locale, ma visibilmente più lussuosa, e soprattutto isolata dalla massa di bevitori, ballerine e prostitute con clienti. La musica ora giungeva loro fortemente ovattata. L’uomo indicò un divano a muro mentre Soifon entrava insieme a loro.
- Rimani qui, Shuuhei. – Yoruichi si voltò appena verso gli uomini che la seguivano, facendo ondeggiare la coda di capelli dai riflessi violetti, e bloccandoli tutti fuori dalla porta, ad eccezione della sua fedelissima.
- Faccio portare da bene – propose Aizen, rivolgendo un impercettibile sguardo alla seconda donna.
Yoruichi si sedette. – Soifon è la mia guardia del corpo – spiegò. – Va dove vado io. Siediti, Soifon, berrai con noi. -
L’altra obbedì dopo un breve inchino. Aizen non commentò oltre, ma rimase in piedi.
Passò un breve istante di silenzio, durante il quale Yoruichi accavallò le gambe e appoggiò il gomito sullo schienale del divano, prendendone possesso tranquillamente. Poi la porta si aprì di nuovo ed entrò un uomo vestito di scuro, i capelli chiari, seguito dal vassoio delle bevande.
Sulla soglia, lo si vide esitare mentre l’uomo che Yoruichi aveva chiamato Shuuhei gli rivolgeva un’occhiata ravvicinata, il corpo a fargli da ostacolo, e infine si ritraeva.
La porta si richiuse.
- Gin Ichimaru – lo presentò Aizen, con un ampio movimento della mano verso il nuovo arrivato. – Il mio socio. -
- Ah, un volto nuovo – commentò Yoruichi, posando le labbra sul suo bicchiere. Soifon indurì l’espressione e nessuna delle due fece il minimo gesto di ripagare le presentazioni.
- E’ un grande onore – ribatté Gin dal canto suo. Non sembrava minimamente intimidito, e anzi riuscì a mettere nella voce un sottilissimo tono di scherno che fece inarcare il sopracciglio a Yoruichi. Fortunatamente, la cosa non ebbe seguito.
La donna terminò di bere e si sporse in avanti per posare di nuovo il bicchiere sul basso tavolino. Si guardò attorno ancora una volta e infine dichiarò, allegramente: - Bene, Sousuke! Eccomi qui. Hai detto che volevi incontrarmi. Era per offrirmi da bere? -
- No, naturalmente. – L’interessato sorrise conciliante. – Entrambi abbiamo modi migliori per impiegare il nostro tempo, non è così? -
L’altra gli rivolse un cenno come a concedergli ragione.
- Vi ho contattato per un altro motivo, nobile Yoruichi, un motivo che spero si rivelerà vantaggioso per tutti noi… -
Un altro cenno della mano. Stavolta, seccato. – Lascia perdere il “nobile Yoruichi” e vieni al sodo. – La donna roteò gli occhi, annoiata. Gin sorrise divertito.
Aizen, se mai ne aveva avuto uno, superò brillantemente il momento di difficoltà e chiarì: - Come desiderate. Bene, avete visto quello che è diventato il Nocturne: un locale di successo, sempre più conosciuto, strategicamente situato all’interno della città e sede di incontri tra diversi… partiti, potremmo dire… -
- Mh – commentò Yoruichi, scettica.
- Finora Gin ed io, - un modesto gesto verso il socio, al quale seguì un altrettanto modesto cenno di ringraziamento da parte di Gin – abbiamo lavorato in proprio e realizzato tutto questo da soli. – Aizen parlava con calma, come se fosse totalmente padrone della situazione, con una voce calda e suadente da oratore, o imbonitore: - Abbiamo ottenuto questi risultati, e ciò è ottimo, ma il giro d’affari potrebbe diventare tutta un’altra cosa se potessimo godere dell’appoggio del clan Shihouin… -
- E io cosa ci guadagno? – chiese Yoruichi senza mezzi termini, l’angolo sinistro delle labbra sollevato di poco. Guardava l’altro con una dichiarata espressione di sfida, che tuttavia Aizen seppe ricambiare con una certa eleganza.
- Il posto ha delle potenzialità, so che l’avete notato. Gli introiti sono buoni, ma potrebbero diventare straordinari con un piccolo aiuto, e una cospicua percentuale… -
- … ah-ha. – La donna lo interruppe agitando una mano e portandosi alla bocca lo stuzzicadenti corredato di due olive. – Parliamoci chiaro, Sousuke. Ne ho quanti ne voglio di locali come questi, non ho certo bisogno del tuo. Se ben ricordi è un altro il giro che mi interessa ed è sempre di quel giro che abbiamo parlato l’ultima volta… quando io ti ho elargito quella consistente somma di denaro che – e qui sollevò divertita una mano per indicare la stanza che li circondava – tu hai utilizzato per la realizzazione del tuo paradiso privato. -
L’uomo incassò senza battere ciglio, eppure passò qualche istante prima che rispondesse. – Sì. -
- Come sai, al momento i nostri interessi si stanno spostando – continuò Yoruichi, calcando in maniera significativa sul “nostri”. – Questo quartiere e la sua frequentazione sono la base di partenza ideale. Mi auguro che tu abbia lavorato su questo aspetto della questione almeno quanto sulla pelle dei tuoi divani. -
Un breve cenno d’assenso, il sorriso di nuovo al suo posto: - Certamente. – Sousuke Aizen era impossibile da prendere in contropiede.
L’altra lo incitò, spazientita: - E i risultati? -
- Un buon giro di ragazze – sintetizzò l’altro, scambiando uno sguardo con Gin, che annuì impercettibilmente – che fanno capo al locale ma non solo. Alcune di loro sono straniere, la maggior parte provinciali. La clientela è di buona estrazione, il guadagno pressoché netto. Per quanto riguarda l’altra questione, abbiamo molti piccoli lavoratori in proprio nel quartiere. Con i giusti fondi sarebbe possibile creare una rete interessante, dirigere le energie nella direzione giusta… -
- Sì, è la tua specialità, no? – commentò Yoruichi, ma era di nuovo allegra, evidentemente la risposta l’aveva soddisfatta. – Raccogliere disgraziati in giro e metterli assieme in qualche maniera perché diventino qualcosa di utile a te. Bene, fallo per me e potrei decidere di darti quei fondi che chiedi… ma devi farlo seriamente – concluse. Lasciò ricadere lo stuzzicadenti nel bicchiere. – Perché diavolo metti solo due olive nel Martini? -

Uryuu non era ancora tornato, ed Orihime si rigirava nel letto, inquieta. Dalla piccola finestra arrivava la luce dell’esterno e si proiettava sopra la testiera del letto. La ragazza tentava di addormentarsi, ma senza Uryuu al fianco le era impossibile; lui era così caldo, così sicuro e solido, che riusciva quasi a costringerla a dormire.
Ma Uryuu non c’era. Era fuori, a lavorare. Per se stesso, ma anche per lei. Per l’affitto, per l’acqua, per il gas. Per quella bella, piccola mansarda che condividevano e che lui aveva scelto al posto del suo economico monolocale quando avevano deciso di vivere assieme.
Uryuu non c’era, lavorare fino a tarda notte, e lei, Orihime, nel loro letto, nella loro casa, pensava ad un altro.
Gli occhi di Ulquiorra. Le labbra livide di Ulquiorra quando aveva aperto la bocca e aveva detto “Mi ricordo di te”.
Lui si ricordava di lei.
Era possibile? Possibile davvero?
Era così possibile che non riusciva a smettere di pensarci. Gli occhi di Ulquiorra, i capelli di Ulquiorra che gli sfioravano il collo, la sua pelle sottile e pallida, le sue mani dalle unghie dipinte di smalto nero rovinato.
E la sua voce. Era stata la prima volta che l’aveva sentita. Ora Orihime non riusciva a smettere di ripensarla, ripercorrerla con la mente, quasi che la voce di Ulquiorra rotolasse ora sul suo palato, soffiasse sulla sua pelle.
Era una voce adulta, più adulta di quanto si aspettasse, asciutta, distaccata, ma con qualcosa di vibrante sotto la superficie, qualcosa che le seccava la gola.



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Noticine…
Allora, eccomi dopo circa un mese (?) con l’aggiornamento. Mi scuso per aver fatto aspettare i pochi (ma buoni *O*) fedeli lettori. Ç_ç Ci sono stati di mezzo vari casini. E’ una fisima mia credo, ma mi serve una certa serenità anche per aggiornare con calma e costanza…
Spero che questo capitolo vi piacerà (e stupirà un po’?). Quello che mi piace è la sensazione di dare un’apertura alla storia, rendendola più… mh, sfaccettata? Con l’inserimento di nuovi personaggi che si muovono su livelli diversi dai primi. La spiegazioncina sulla mafia giapponese non è inventata ma bensì frutto di una ricerchina (XD) e quindi è quella che è.

@belialcross: Grazie mille, direi decisamente che non merito addirittura complimenti entusiastici... XD ma sono molto felice che la storia ti piaccia! E' una grande soddisfazione. <3

@Ino_Chan: Mia fedelissima çOç Wah, quanto ti ho fatto aspettare >< Allora, grazie millissime. Sono felice che si capisca la battuta sul mondo delle botte nei vicoli (XD), che Hisana appaia distante e soprattutto che ti piaccia la fine! Ero tutte cose che speravo di aver reso bene, specie la conclusione visto che è un po' vaga... :p

@AllegraRagazzaMorta: Se ti consola Orihime non quadra neanche a me, XD Ma sono contenta che ti piaccia Ichigo... considerando il fottio di personaggi che ho infilato in questa cosa, temevo lui si "perdesse di vista", quindi ho cercato di caratterizzarlo usando una specie di suo POV in questo capitolo. XD

@Erre: Benvenuta! Una nuova lettriceh! *o* Allora, grazie infinite. Sono contenta che la storia ti piaccia *_* Ora ti ho fatto aspettare un pochino, ma ecco finalmente l'aggiornamento... xD

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Capitolo 12
*** Decimo. Sleeping with ghosts ***




Capitolo decimo.
Sleeping with ghosts




[ Hush .
It's okay -
dry your eye,
dry your eye . . .
Soulmate dry your eye,
dry your eye -
Soulmate dry your eye
‘cause soulmates never die . ]




Difficile dire se il mondo in cui viviamo sia una realtà o un sogno.
Ferro3




Momo era distesa su un fianco, che era quello opposto al fianco sul quale era disteso Toushiro. Toushiro avrebbe voluto girarsi a pancia in su per alzare lo sguardo al soffitto, ma aveva timore di vedere la schiena impassibile di Momo.
Respiravano entrambi lentamente e silenziosamente nella stanza buia, illuminata a intervalli dalle luci della strada. Delle macchine stavano passando davanti all’Hotel.
Toushiro cercava di addormentarsi: era stanco, sentiva le palpebre pesanti e le membra pigre. Si stava abituando al calore del letto, dove le gambe e le braccia, abbandonate, parallele, diventavano sempre più estranee al suo corpo, fino ad affondare nel materasso, precedendolo nel sonno.
Cullato dal ronzio del silenzio, il ragazzo si era concentrato sulla fronte corrugata, i segni che la stanchezza e la frustrazione avevano tracciato sul suo viso durante la giornata, ed ora cercava di scioglierli uno ad uno, come in un esercizio di rilassamento.
Non c’era verso di interagire con sua moglie.
Momo non si era mossa da quando erano andati a letto. Pulita la cucina, spente le luci, erano entrambi andati a dormire alla stessa ora, ma senza parlare e senza neppure guardarsi.
Era più o meno quello che facevano sempre, e lo facevano in un modo tale che Toushiro si sentiva estraneo ai movimenti della moglie; i gesti secchi con i quali passava lo straccio sul tavolo, la mano sugli occhi per scostarne i ciuffi di capelli castani.
La vedeva, era affaticata, era sciupata. Quelle erano cose che lui avrebbe dovuto risparmiarle, ma non ci riusciva: non riusciva a trovare un lavoro, non riusciva a portare se stesso e lei lontano da lì, non riusciva a vedere per loro una speranza di un futuro. Persino l’energia che nei primi tempi lo aveva convinto ad essere ottimista, ora lo aveva abbandonato. Si sentiva inutile nella sua stessa casa – in quel buco dove erano finiti a vivere.
Quella non era la vita che avrebbe voluto offrirle, anzi, non rientrava nemmeno nella categoria dei “brutti periodi” che presto avrebbero superato. Perché per quanti sogni avessero avuto in passato e per quante promesse si fossero fatti – le ricordava, le promesse: dalla finestra della sua vecchia casa a Osaka, stando attenti a non svegliare la nonna, avevano guardato il cielo e si erano detti che potevano farcela, che si sarebbero rimboccati le maniche e ce l’avrebbero fatta, insieme – per quanto avessero sperato e dato fondo a tutte le loro risorse, per quanto fossero stati realisti e il più possibile responsabili, per quanti sacrifici e difficoltà avessero messo in conto, questo non era un semplice “periodo”.

Lo sentiva nel respiro di Momo. Era greve e al tempo stesso stentato, come se sua moglie al suo fianco stesse soffocando, morendo di una malattia che le consumava i muscoli e i polmoni, sparendo e sbriciolandosi proprio lì, di fianco a lui, nello stesso letto.
Senza che lui potesse fare niente.
E aveva ancora le parole di Rangiku nella mente.
Momo, invece, non pensava a suo marito. Non pensava nemmeno al loro passato né ripercorreva con gli occhi della mente la strada che li aveva condotti lì, la loro giovinezza assieme, gli alberi da frutto del suo giardino, le estati con il piccolo Toushiro.
Al contrario, Momo stava godendosi il momento migliore della giornata: quello in cui, dopo ore e ore in piedi, circondata da pazzi o poco meno, con un sorriso costretto sul viso e gli occhi sempre più stanchi e la pelle sempre più tirata tanto da farle male, dopo un’intera folle giornata al Million Dollar Hotel, finalmente scendeva la notte. E lei poteva finalmente rilassarsi, sdraiarsi nella sua parte del piccolo letto e chiudere gli occhi.
Con la forza della mente, il lenzuolo, il materasso e il cuscino diventavano un’alcova soffice e calda, e tutto il suo corpo poteva godersi il riposo. Ogni altra cosa spariva finché, dopo poco, non arrivavano ampie mani forti a circondarle la schiena, e lei veniva stretta dolcemente contro un petto sicuro e conosciuto, e finalmente era protetta.
Era una versione molto romanzata del modo in cui si erano svolti in realtà i suoi incontri con Aizen, ma lei riusciva a dipingersela perfettamente. Con l’aiuto di quelle mani e di quel corpo, grande, forte, che immaginava contro il suo, riusciva a scacciare ansie e preoccupazioni e predisporsi per il sonno. E quando poi arrivava la voce – allora Momo avrebbe potuto piangere.
- Tu sei l’amica di Rangiku, vero?
- Sì, signore… mi chiamo… -
- Momo, non è così? -
Era stata così onorata che si ricordasse il suo nome. Non pensava che fosse nemmeno tenuto a saperlo, in fondo lui era così tanto più importante di lei.
- Questa è la tua prima settimana, giusto? -
- Sì, signore. -
- E come ti stai trovando? Spero bene. Nessuno ti dà fastidio, spero… -
- No, no, assolutamente, tutti sono molto gentili con me… -
Veramente si era aspettata che le facesse qualche domanda per capire se si stava dando sul serio da fare. Ma lui non ne aveva accennato. Era così bello, e con quegli abiti, era così scuro. Aveva occhi calmi e sicuri dalla piccola pupilla e colmi di un’iride liquida e dorata. Sembrava un felino gentiluomo, un leopardo aristocratico appoggiato con garbo ed eleganza alla porta del magazzino mentre Momo cercava nervosamente di apparire adatta al suo ruolo, nell’abitino succinto che indossava.
- Ne sono felice, allora. Sei un’amica di Rangiku e voglio che tu ti trovi bene qui. – E poi aveva aggiunto, con una delicatezza che rendeva impossibile prendersela a male: - Mi ha spiegato la tua situazione, Momo. Posso chiamarti Momo? -
- Certo, signore. – Lei era quasi senza fiato, e non aveva neppure pensato che sarebbe stato più saggio da parte di Rangiku non informare il loro datore di lavoro su quanto disperato fosse il bisogno che aveva di quel posto. – Grazie infinite, signore… -
- Oh, sei troppo formale. In fondo qui siamo tutti colleghi, amici, no? – Lui aveva mosso la mano sinistra e Momo aveva notato allora che aveva una lunga sigaretta impigliata tra il medio e il cerchietto d’oro che portava all’anulare. Un anello brillante troppo grande per una fede.
Sorrideva. Ogni parte di lui era o scura come fumo oppure, al contrario, luminosa e brillante; i suoi occhi, il suo sorriso, il suo anello. – Chiamami Sousuke. -
Momo aveva negli occhi un’adorazione indifesa che avrebbe allarmato persino Rangiku, se fosse stata lì, se fosse stata in grado di sapere che la sua giovane amica aveva fatto conoscenza con il loro datore di lavoro e se avesse potuto vedere lo sguardo negli occhi di Aizen.
Ma Rangiku, quella volta, non c’era.

Toushiro si addormentò, con sollievo. Nessun incubo avrebbe mai potuto essere peggiore di quei momenti prima del sonno. Neppure gli incubi che lo tormentavano riportandogli alla mente i ricordi dei primi posti di lavoro che aveva rifiutato – appena erano arrivati a Tokyo, quando lui sperava di poter avere di meglio – quelli dei quali non aveva mai parlato a Momo e che oramai erano destinati a rimanere un segreto inconfessabile tra di loro. Qualcosa per il quale, arrivati a quel punto, non si sarebbe mai perdonato.
Aveva perso tutto, e per ultima, aveva perso Momo.

Era scesa la notte sul Million Dollar Hotel, e dalla finestra entrava una leggera brezza notturna, insieme alle note di un sassofono.
- Chi cazzo è il mentecatto che rompe i coglioni a quest’ora – disse Grimmjow masticando un mozzicone di sigaretta ed avvicinandosi a Tatsuki, seduta alla finestra con i gomiti piantati sul davanzale. La ragazza gli rivolse uno sguardo da sotto i ciuffi di capelli neri e sbuffò, per poi sollevare la mano e sfilargli la sigaretta dalla bocca.
- … Sei tu. A me la musica piace. -
Grimmjow si appoggiò alla parete, abbassandosi finché non ebbe gli occhi all’altezza della finestra per sbirciare fuori. – Fosse almeno intonato. -
- Non importa – sussurrò Tatsuki, guardando fuori. – Sei mai stato ad un concerto? Insomma, uno qualsiasi, però sono meglio quelli di musica classica… intendo, per sentire quello di cui parlo io sono meglio. Sai quando accordano gli strumenti? I miei mi ci portavano qualche volta… quando ero più piccola, però. – Aveva allungato le braccia fuori dal davanzale e le sporgeva nella notte, giocherellando col mozzicone che teneva tra le dita. – C’è questo momento prima dell’inizio, quando tutta l’orchestra fa le prove e senti gli strumenti che suonano motivi diversi, o semplicemente producono un qualche suono, e ovviamente sono tutti discordanti, però è bello comunque… -
- Non sono mai stato a un concerto di musica classica – rispose Grimmjow. Realizzò che il tono era suonato quasi mortificato e si diede un tono facendo una piccola smorfia e stringendosi nelle spalle, le mani nelle tasche, simile ad un uccello che arruffa le piume, contrariato.
- E’ bello – ripeté Tatsuki, e poi si corresse, - è magico. – Lasciò cadere il mozzicone e non restò a guardarlo scendere verso il basso.
- Be’, mi spiace se non sono un damerino che ascolta la musica classica come i tuoi amici – sbottò Grimmjow roteando gli occhi annoiato, e si staccò dalla parete per fare qualche passo verso l’interno della stanza. Non si accorse che le sue parole avevano avuto il potere di bloccare Tatsuki facendola voltare nervosamente.
Per un attimo aveva temuto che Grimmjow avesse saputo di Izuru o di Orihime. Ma un solo sguardo al ragazzo le confermò che erano paure inutili. Grimmjow era lo stesso, rancoroso e attaccabrighe di sempre. Così tanto attaccabrighe da prendersela persino con i ricordi.
- Oh, chiudi il becco. Non ho amici damerini che ascoltano musica classica – lo apostrofò rincuorata, e lui fu confortato a sua volta, e sorrise del suo ghigno inquietante. – Vado a vedere Ulquiorra. -
- Sì. – Tatsuki tornò a guardare fuori dalla finestra. Il sassofono aveva smesso.
Grimmjow entrò nell’angolino che fungeva da camera per Ulquiorra, e dove, difatti, il fratello sedeva sul letto. Indossava ancora un vecchio pigiama spiegazzato che era appartenuto a Grimmjow e che questi non portava più da molto tempo. Per quanto avesse potuto essere un ragazzo alto, Ulquiorra era così mingherlino che la maggior parte dei vestiti gli ballava addosso, e questo, insieme al suo portamento non proprio fiero, gli dava a prima vista l’aspetto del bersaglio vulnerabile.
Grimmjow lo sapeva benissimo, perché aveva passato gran parte dell’infanzia a proteggerlo dai ragazzi più grandi che se la prendevano con lui, e a ben pensarci continuava a farlo anche adesso. L’espressione di Ulquiorra e i suoi modi imprevedibili avevano sempre inquietato e irritato i ragazzi che lo conoscevano, finché non era diventato di pubblico dominio che la cosa era patologica e a quel punto tutti si erano sentiti rassicurati; quel ragazzo strano, be’, faceva loro paura, sì, ma il punto è che era pazzo. Era solo un povero spostato, insomma.
Grimmjow non pensava affatto che suo fratello fosse un povero spostato. E non solo perché gli voleva, personalmente, un bene dell’anima – cosa che mai avrebbe ammesso a voce alta con anima viva. No, lui sapeva che c’era dell’altro perché conosceva Ulquiorra. Era capace di passare ore intere in silenzio con il fratello – o almeno era stato capace di farlo da bambino, quando era meno sboccato, meno violento e non ancora drogato – e di captare i cambiamenti nel portamento dell’altro, il movimento di quegli incredibili occhi verdi, i messaggi che il ragazzo mandava con la sua postura e il minimo movimento. Grimmjow riconosceva la forza dell’altro, riusciva a capire se era nervoso o rilassato e capiva anche, ne era certo, quando Ulquiorra era consapevole che lui era lì, quando era felice della sua presenza, quando era grato che Grimmjow rimanesse con lui.
Erano tutte cose che Ulquiorra non esprimeva mai a parole, perché era poco loquace e se parlava parlava d’altro, ma non per questo non c’erano. Grimmjow era certo che anche Tatsuki, dopo aver vissuto tanto a lungo con loro, iniziasse a percepirlo.
Forse lo sentivano perché erano affezionati ad Ulquiorra e lui a loro.
- Non dormi ancora? -
- Vorrei qualcosa da leggere. – Il ragazzo aveva parlato con voce incolore, e poi aveva sollevato i due fari verdi verso il fratello. Grimmjow sospirò e si fermò di fronte a lui. – Domani vatti a prendere un libro. Sai che io non ne tengo, di quella roba. -
- Lo so. –
Altra pausa. Ulquiorra aveva le mani posate sulle ginocchia. Grimmjow sbuffò come per attirare la sua attenzione.
- Ehi, vai a dormire. E’ tardi. Hai preso le medicine? -
- Sì. -
Grimmjow non controllava mai.
- E allora che aspetti? -
- Rimboccami le coperte – chiese Ulquiorra. Grimmjow lo fissò con tanto d’occhi perché era una cosa che il fratello non gli chiedeva più da quando avevano nove anni.
- Hai freddo? – chiese, come reazione, mentre Ulquiorra si distendeva e voltava il viso verso di lui.
- Un po’. -
Il ragazzo dai capelli tinti orrendamente di blu si chinò e rimboccò le coperte al fratello, che rimase immobile ma lo ringraziò con un cenno del capo e un “grazie” sussurrato. Lui non rispose per un estremo tentativo di tenersi stretta la sua dignità.
- Va bene, ora dormi – concluse, burbero, facendo per uscire dalla stanza.
- No… Grimmjow – lo chiamò ancora Ulquiorra, con una strana urgenza, e lui si fermò sulla porta.
- Che vuoi? -
- Tatsuki è tua amica? -
- Che domanda del cazzo è? -
- La ami. – Questa non era una domanda. Suonava più come una riflessione a voce alta. Ulquiorra, dal letto, gli offriva la visione di un piccolo viso bianco e appuntito con le sopracciglia scure leggermente corrugate.
- Sei sicuro di aver preso le medicine? -
- E’ normale, vero? -
Cosa era normale? Grimmjow sbuffò, alzò gli occhi al cielo e si rinfilò le mani in tasca. – Sì, sì. E’ normale. Ma che hai? -
- Buonanotte. -
E buonanotte fu. Grimmjow lasciò perdere e non diede importanza alla cosa, non ci pensò più. Invece tornò da Tatsuki e visto che l’argomento era stato portato alla sua attenzione iniziò a spogliarla davanti alla finestra per farle capire che era molto interessato a lei, anche se non era sicuro di poter usare parolone come “amore”.

Bisognava calcolare due finestre a destra rispetto a quella di Tatsuki, Grimmjow e Ulquiorra, sul medesimo piano. La terza finestra era sempre aperta, e, senza l’effetto riflettente del vetro, aveva l’aspetto di un buco profondo e scuro sulla facciata del palazzo, un buco dal quale sfuggivano solo a tratti vecchie tende leggere che dovevano avere avuto una colorazione vivace.
All’interno della caverna buia che stava dietro quella finestra, Nanao Ise era china su un letto e osservava il suo occupante respirare nel sonno.
- Sei qui, Nanao? -
- Sono qui… attento allo spigolo. -
- Sì, sì, l’ho visto… perché sei qui? -
Come aveva potuto chiederle una cosa simile?
Lei era lì. Certo che era lì.
Lui non lo sapeva, forse? Si poteva dubitarne? Ci sarebbe stata una volta in cui non sarebbe stata lì per lui?
- Sto bene… arrivo al letto da solo. -
Il tono era stato un po’ brusco, ma Nanao non ci faceva più caso. Sapeva che Shunsui aveva bisogno di lei e anche lui lo sapeva. Era solo che non si poteva dire ad alta voce.
Così lo aveva lasciato fare da solo per quanto era possibile, anche se l’opinione della donna era che l’altro fosse decisamente troppo stanco e troppo ubriaco per riposare bene. L’aveva girato su un fianco, per sicurezza. Ed ora lo osservava, ferma al centro di una stanza nella quale a rigor di logica non avrebbe dovuto trovarsi.
Quella era la stanza di Shunsui Kyouraku, il portiere del Million Dollar Hotel, in virtù del suo rapporto indiscusso con Jyuushiro Ukitake che dell’Hotel era ancora proprietario. Questa serie di credenziali era ciò che spingeva Shunsui a sedersi ogni mattina dentro al gabbiotto al piano terra, e quindi Nanao ne era molto grata, anche se oramai Shunsui era stato adottato dalla comunità dell’Hotel più di quanto lui non si occupasse di essa.
In effetti, pensava Nanao, da un certo punto di vista quel legame con Jyuushiro, quella specie di eredità lasciata da lui era tutto ciò che manteneva in vita Shunsui e ancora lo spingeva ad alzarsi, un giorno e il giorno dopo ancora. Non c’era un altro motivo.
Pensare questo le faceva male perché Nanao avrebbe voluto essere quel motivo.
Era sempre stato un suo difetto, lo sapeva bene, non essere in grado di mostrare i propri sentimenti; e ancor più grave era il fatto che questi sentimenti nascosti non erano cose facili da sopportare, ma al contrario lasciavano segni profondi, soprattutto perché erano continuamente ricacciati verso il fondo. Era questo che la costringeva ad essere tanto scostante e fredda all’esterno: dentro, non sapeva controllarsi.
Rifaceva gli stessi errori.
Nanao cercava di non caderci di nuovo, ma quello che lei sperava fosse reprimere era soltanto un modo di nascondere. E le cose nascoste, si sa, cercano di uscire, e fanno male.
Perché doveva sempre affezionarsi a uomini che non erano interessati a lei? Era stato così anche con l’altro. Lei aveva attirato la sua attenzione, lei aveva cercato di apparire desiderabile ai suoi occhi. Voleva piacergli. Voleva essere qualcosa per lui. Anche quell’uomo era grande e dolce, come Shunsui, ma in maniera diversa.
Eppure le facevano provare lo stesso desiderio di essere nel loro cuore, tra le loro braccia: protetta. Custodita.
Ma Shunsui non avrebbe mai potuto darle questo, e Nanao sapeva fin troppo bene il perché. Era un perché così intimo e straziante che la donna non si sentiva nemmeno legittimata a provare rabbia; quella sofferenza apparteneva prima di tutto a Shunsui, e lei non poteva farla sua. Gli apparteneva e lo stava cambiando, distruggendolo ogni giorno di più.
Infatti il dolore per Jyuushiro toglieva anche a Shunsui la voglia di vivere, di scherzare, persino di essere se stesso. Nanao era solo un’estranea, comparata a quell’amore, a quella sofferenza; eppure era una spettatrice di quella lenta caduta, ed odiava dover essere una spettatrice muta. Specialmente quando, a ragione o no, si sentiva così coinvolta nel dramma – e il dramma faceva così male. Quanto tempo era passato da quando lui l’aveva chiamata per l’ultima volta “piccola Nanao”? Oh… prima lo faceva sempre.
Sempre.
Lei adorava sentirglielo dire.
Ma non ci sarebbe stato più nessun “piccola”: era inutile illudersi. Nanao era grande, adesso. E avrebbe fatto bene a non dimenticarlo.
Con lo sguardo impercettibilmente indurito, lanciò un’ultima occhiata a Shunsui ed uscì dalla sua camera, richiudendo silenziosamente la porta sul corridoio buio del quarto piano.
Sguardo indurito o meno, aveva intenzione di andare a letto, cercando di non pensare a nulla; ma, voltandosi, con la coda dell’occhio, vide una figura esile e bianca, che si avvicinò senza una parola, rivelando essere Momo.
La pelle e la camicia da notte così chiara erano spettrali; i capelli raccolti in una coda le si posavano sulla spalla. Nanao pensò che Momo sembrava il fantasma di una bambina, una bambina morta di fame e di stenti.
- Nanao… -
- Momo… ti ho svegliata? -
- No. – La ragazza scosse la testa, il gesto stranamente spiccio. Non sembrava assonnata. – Mi sono alzata perché non riuscivo a dormire… Toushiro dorme – aggiunse, una precisazione non richiesta e stranamente penosa.
Poi disse: - Pensavo, - e Nanao capì che Momo non si era avvicinata per caso.
- Che cosa? – domandò allora, allontanandosi dalla porta di Shunsui. Essere vista uscire da lì avrebbe potuto imbarazzarla in altri tempi, ma ora non più; né Momo sembrava averci prestato la minima attenzione.
- Pensavo a quel detective – riprese infatti, ben lucida e sveglia. Parlava con sicurezza e con una strana forza, diversa da quella sua tenacia diurna un po’ esangue; una forza strenua e quasi torbida, da donna e non da ragazzina, insolita da ritrovare nelle fattezze acerbe della giovane moglie di Toushiro. – E’ già passato del tempo, e a quanto pare non se ne va. -
- No, - ammise Nanao scuotendo la testa, - non se ne va… -
- Credo che dovremmo fare qualcosa – disse Momo.
L’altra la osservò dubbiosa. – Cosa? -
- Non saprei. – La ragazza si strinse nelle spalle. Sembrava scegliere con cura le parole. – Ma io farei qualcosa. Forse potremmo riunirci di nuovo per discuterne, non credi? -
- Sì… - Nanao annuì, - penso sia possibile… -
- Oh, bene, allora. Sarà meglio per tutti – concluse Momo, con una traccia di allegria. La donna più vecchia la osservò rendendosi conto che l’incontro era concluso, e non aggiunse altro.
Allora Momo diede la buonanotte e tornò sui suoi passi; e Nanao, che era incredibilmente stanca, stancamente andò a dormire.



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Sono in ritardo. Lo so perfettamente. Vi chiedo scusa. Vi ho fatto aspettare molto ma spero che se qualcuno di voi era interessato al seguito, possa avere il “piacere” di leggerlo. XD Anche se aggiorno ogni morte di papa ho intenzione di finire è_è

Ino_Chan: Temo che tu mi abbia “sgamato” come si suol dire… XD Non pensavo ad Occhi di Gatto, almeno non consapevolmente, ma ora che me lo dici temo che qualcosa c’entrino! XD In realtà l’idea, come sempre, è nata in maniera istintiva… non penso che questa “versione policeman” corrisponda del tutto a Kisuke, ma direi che questa contrapposizione è decisamente divertente! XD Grazie per i tuoi commenti dettagliati *___*’’ Sììì, mi sa che abbiamo feeling, SICCOME CHE anche a me piace intrecciare gli eventi e portarli lentamente a compimento, poi adoro le cose drammatiche, quindi ù.ù’’ Questo capitolo è un po’ di “stasi” al confronto ma spero vada bene lo stesso! XD

Kaho_Chan: Hai l’impressione che voglia fare un tiro a Yoruichi perché è Aizen! Che domanda! XD Ciò significa che la mia descrizione era calzante U_U’’ Sono contenta che ti piaccia la “mia” Ulqui/Hime, in realtà non so neanche se si possa definire così… XD Però anche a me loro piacciono tanto *_*’’ Mi piace pure Uryuu, eh, ma siccome sono sadica, li faccio soffrire tutti quanti, mwaha. XD

sis4B: Oooow, grazie, anche a belialcross! Omg, queste cose mi fanno sentire tanto in colpa per il ritardo >< (Povero Ishida, già XD)

AllegraRagazzaMorta: Sì, Hisagi è un po’ il Blaise Zabini di Bleach, ma NONDIMENO è divertente ficcarlo a forza nella yakuza XD Temo che in effetti il suo ruolo sia più o meno finito qui (lol), è stato un passaggio molto veloce U_U Comunque ovviamente KisuYoru bondage è canon ù.ù La parte di Yoruichi invece conto di descriverla U_U Almeno quello XD
Soi Fon sostanzialmente ha lo stesso ruolo che nel canon, solo che non è stata “tradita” quindi la sua adorazione è al massimo *__*’’ E sì… ammetto che pigliare Aizen e farlo diventare un piccolo boss mi ha divertito XD Scusa Sousuke, si chiama “legge del contrappasso”. *ghigno sadico*
Quanto ad Ishida, non sai quanto dispiace anche a me ç_ç ma come giustamente dici è per un bene superiore U_U XD Grazie cara! =*

kikafei: Grazie infinite… conosco la sensazione bellissima quando si trova un autore col quale c’è affinità, e sono veramente felice che ti capiti con me! ^O^ Oltre a sentirmi onorata dei tuoi complimenti, sono io stessa una cacciatrice disperata di storie soddisfacenti (è vero che spesso ho un punto di vista un po’ “originale”, il che però lungi dall’essere una cosa lusinghiera, più che altro è un problema… XD) e così, faccio una fatica bestia a trovare i personaggi e le situazioni che più mi piacciono, rappresentate nelle ff. U_U’’
Davvero hai letto tutto? Omg. XD Grazie davvero! *___*’’ Sono emozionata. XD Scusami per l’attesa, spero che il capitolo ti piacerà. =*

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Capitolo 13
*** Undicesimo. Gypsy ***




Capitolo undicesimo.
Gypsy




[ We strangers know each other now
as part of the whole design
And we'll blow away forever soon
and go on to different lands -
and please do not ever look for me,
but with me you will stay;
and you will hear yourself in song,
blowing by one day. ]




Cosa sta facendo?
Faccio come lei, comunico.
Daniel Pennac, La prosivendola




Il profilo di Izuru era assolutamente identico a come Tatsuki lo ricordava. Sottile, magro, appuntito, quasi troppo appuntito e timoroso di fare del male a se stesso. Il ragazzo aveva gli occhi socchiusi e abbassati, l’espressione di chi è profondamente a disagio, mentre stava in piedi in quel vicolo, la testa bionda perfettamente inquadrata dalla forma di una finestra impolverata e rotta sul muro dietro di lui.
Quando l’aveva visto ricomparire, quella mattina, Tatsuki aveva deciso che era inutile continuare ad evitarlo. Izuru continuava ad insistere, con una costanza che non era da lui; eccolo là. Per lei. E allora gli avrebbe dato quello che voleva, si era detta.
Ma, ora che erano lì faccia a faccia, Izuru non sembrava per nulla più forte. Era ancora il ragazzino che Tatsuki conosceva.
Da un lato ne era felice. Sarebbe stato strano scoprire che era cambiato.
Eppure era un peso, in un certo senso, scoprire che era lei la più forte. Ancora. Persino così.
Fino ad allora il ragazzo non aveva detto nulla, se non qualche tentativo balbettato mentre lei se lo tirava dietro sul retro del Million Dollar Hotel, e Tatsuki si era accesa una sigaretta. Ma a quel punto Izuru aveva parlato e nella sua voce c’erano tutti i ricordi, tutto il dolore del bambino Izuru orfano e del giovane Izuru povero e dell’adulto Izuru abbandonato, una tonalità che Tatsuki non si sentiva di poter definire né infantile né debole.
- Grazie per… - Izuru mosse una mano, sollevando il capo quasi con fastidio, e non completò la frase.
- Per cosa? -
- Per avere smesso di evitarmi, suppongo. -
Tatsuki serrò le labbra. – Be’. Si può sapere che cosa vuoi, Izuru? -
Si pentì subito quando lui le restituì uno sguardo ferito. – Davvero, - concluse tra sé il ragazzo, dopo un istante – non sei per nulla felice di vedermi… -
Tatsuki si stava innervosendo, e lo manifestò muovendo i piedi sul marciapiedi sporco, la sigaretta stretta con forza tra le dita.
- Forse dovrei andarmene – concluse il ragazzo.
Non la guardava più in viso. E che se ne andasse era proprio quello che Tatsuki voleva, ma quando si rese conto che lui voleva farlo davvero, che stava per lasciarla lì e rinunciarci, come al solito, come sempre, la rabbia la fece parlare in modo contrario persino al suo interesse.
- Izuru! Fermati, accidenti! Ma dove vuoi andare? Non volevi parlarmi? – sbraitò serrando i pugni. – Perché cazzo rinunci così, eh? Mi hai cercato per settimane, adesso sono qui e tu te ne vai? Sono qui, cosa volevi dirmi? Dimmelo! -
Aveva alzato la voce più del necessario, perché poteva vedere soltanto le spalle di Izuru e non sapeva che espressione c’era adesso sul suo viso, e perché era stanca e nervosa, combattuta tra speranza e diffidenza. Ma lui si era fermato e si girò, la fronte corrugata, il viso ferito e duro insieme, e non parlò.
- Sei sempre il solito vigliacco – sbuffò lei, e buttò la sigaretta, esasperata. – Arrivi a quello che vuoi e poi rinunci! Non hai ancora imparato a combattere per quello che vuoi? -
Ma a quel punto lui la interruppe tornandole davanti, tanto da sfiorarla col petto. Tatsuki si zittì ancor prima che lui si mettesse a parlare. – Chi è che non sa combattere per quello che vuole? – sibilò. La sua voce ora era bassa, e arrabbiata, e non aveva niente dell’Izuru petulante di diciassette anni, eccetto chiaramente il dolore. – Tutto quello che ho l’ho ottenuto combattendo, e tu lo sai. Anche essere qua, adesso, di fronte a te, per farmi urlare contro… eppure me ne andrò se la cosa ti arreca dolore. – Disse l’ultima frase in un modo che le diede i brividi. Izuru si mordeva le labbra, come se non parlasse del dolore di un altro, ma del proprio. – Questo tu lo chiami essere vigliacchi? -
Tatsuki lo guardava dal basso, senza parole ma con un groppo in gola e la sensazione di sentire gli occhi bruciare. Perché sentiva il desiderio di piangere?
- No, - balbettò distogliendo lo sguardo. – Non è da vigliacchi. Scusa – disse in fretta. Tutto ciò che le importava era non guardarlo in viso e avrebbe tanto voluto che anche Izuru non potesse vedere il suo viso, perché provava vergogna.
Ci fu ancora un po’ di silenzio, che a Tatsuki parve lunghissimo, perché con lo sguardo puntato al suolo poteva vedere soltanto il marciapiede sporco, e non sapeva con quali occhi lui la guardasse.
Poi la mano di Izuru si sollevò entrando nella sua visuale, mentre lui accennava, a malapena, a toccarla.
- Il motivo per il quale ti cercavo… - mormorò il ragazzo, la voce bassissima ma ferma – è salutarti. Me ne vado, Tatsuki. -

Orihime sorbiva in silenzio il suo caffè, gli occhi bassi e la testa altrove. Per gli altri avventori del bar dell’ospedale, era una figurina bianca seduta tutta sola, con una testa castana china su una manciata di cartelle e su un cellulare. Spento.
Non era un problema. Diceva sempre ad Uryuu di non chiamarla in ospedale.
Anche se ora avrebbe dovuto prendere su le sue cose e tornarsene a casa, non restare lì.
Ma non riusciva a decidersi a farlo e rimaneva a rimuginare, cincischiando con i fogli che avrebbe dovuto riordinare; circondata dal rilassante ambiente candido e ordinato dell’ospedale, che la aiutava sempre, a distrarsi e sentirsi in qualche modo utile.
- Orihime? -
La ragazza sobbalzò, anche se la voce che aveva interrotto il corso dei suoi pensieri era tanto delicata e gentile che un altro, forse, non la avrebbe neanche sentita.
Nemu era in piedi di fianco a lei e vedendo la sua reazione parve pentirsi immediatamente di averla chiamata.
- Scusami, non volevo disturbarti… -
- Non mi disturbi affatto, Nemu! – Orihime rise e agitò le mani, imbarazzata. – Scusami, ero sovrapensiero… -
L’altra non sembrava convinta, ed esprimeva quel sentimento con una garbata perplessità.
- Davvero! – insisté Orihime. – Ecco, cosa volevi dirmi? -
- Mi chiedevo solo se… - Nemu lanciò un’occhiata al posto vuoto di fronte ad Orihime. – Posso sedermi qui? -
- Oh. Certo! -
E osservò l’altra sedersi compostamente, lisciandosi la gonna e posando a sua volta un mucchio di cartelle sul tavolo. Nemu era bella: aveva occhi grandi e vellutati e lisci capelli scuri. Era sempre posata, calma, tanto da apparire distante rispetto alle altre persone che Orihime incontrava quotidianamente; e anche per questo era piacevolmente stupita di vederla avvicinarsi spontaneamente a lei.
Nemu, Orihime lo sapeva, stava sempre da sola. La si sarebbe potuta scambiare per una novellina timida, magari una ragazza introversa che faceva fatica a prendere confidenza con le colleghe; ma non era così: Nemu lavorava in ospedale da anni e Orihime sapeva che in quel lavoro era molto apprezzata da chi ormai la conosceva.
Eppure, in mezzo alle altre, sembrava sempre l’ultima ruota del carro, messa in disparte persino dalle studentesse.
All’inizio, Orihime si era stupita. Qualche amica le aveva sussurrato di non farci caso:
- E’ strana, è fatta così. -
- Comunque non ha mai mostrato interesse ad uscire con noi… -
Ma, a lei, Nemu piaceva. Ed Orihime sapeva che anche alla dottoressa Unohana la ragazza piaceva. Forse perché il suo viso era così dolce, anche se i gesti erano quelli professionali di chi non batte ciglio di fronte alle ferite più brutte e ai pazienti più riottosi. Era proprio il suo viso liscio e grazioso che la svantaggiava, perché, guardandolo, si tendeva a dimenticare la bravura e l’esperienza che stavano dietro la superficie.
Anche adesso, mentre la vedeva ordinare un tè, Orihime faceva fatica a ricordarsi che Nemu era più grande di lei. Però ora sapeva qualcosa che i primi tempi ignorava, e che aveva influenzato molto la sua opinione su Nemu.
Era stata un’infermiera più grande a raccontarle la storia, una volta che Orihime si era fermata ad osservare le foto allineate nel corridoio degli uffici dell’ospedale.
- Cosa guardi? – aveva chiesto Isane fermandosi di fianco a lei.
- Be’, mi era sembrato… - Orihime aveva indicato l’uomo nella foto di fronte a sé. – E’ lo stesso cognome di Nemu? -
- Già. – Annuendo, Isane aveva infilato i suoi documenti sotto un braccio e aveva sollevato l’altra mano per ticchettare sul vetro. – E’ suo padre. -
- Cosa? Davvero?! Non lo sapevo! -
- Be’, non è che faccia piacere ricordarglielo. – Isane si era stretta nelle spalle. – Mi stupisce che nessuna delle infermiere te l’abbia detto, comunque. Adorano questa storia… - e aveva roteato gli occhi, esprimendo così un chiaro giudizio sulle colleghe più giovani.
- Ah? C’è una storia? -
Orihime si sentiva un po’ sciocca a porre quelle domande e aveva temuto di aver curiosato troppo; ma, con lei, Isane era sempre gentile e anche quella volta aveva sorriso. – Sì, ma non tirarla fuori con lei, okay? Comunque la storia è semplice… vedi che c’è scritto qui? – E aveva indicato la targhetta sulla cornice. - Il dottor Kurotsuchi è stato uno dei medici più famosi di questo ospedale, grazie alle sue ricerche ci ha fatto guadagnare un sacco di soldi, in passato. Era molto rispettato, però sembra che avesse un carattere davvero difficile. -
Orihime non stentava a crederlo, perché, anche se non conosceva la persona che ora osservava soltanto in una riproduzione bidimensionale, di sicuro sapeva che quell’uomo aveva qualcosa di arrogante e scostante nello sguardo.
- Era un tipo un po’ strano… Geniale, comunque – aveva riconosciuto Isane. – Io l’ho conosciuto pochissimo. E’ stato professore della dottoressa Unohana, sai? – aveva aggiunto, l’ammirazione per la donna più grande ben evidente nella voce. – Ma non si piacevano. Litigavano sempre. Avevano metodi troppo diversi… sai, credo che forse, se dedichi tutto te stesso alla ricerca, perdi di vista il lato umano del nostro lavoro… -
- Tutto il contrario della dottoressa Unohana. -
- Sì, infatti. – Ma mentre ascoltava il tono entusiastico di Isane, Orihime si chiedeva se era poi vero che la dottoressa Unohana era ancora “tutto il contrario”. E si ricordava dell’espressione con la quale aveva lasciato andare Grimmjow e Ulquiorra.
- E poi è successo quel che è successo, - aveva continuato Isane.
Così, in quel modo – e piuttosto in ritardo - Orihime aveva scoperto la storia di Mayuri Kurotsuchi e di sua figlia, da lui indirizzata verso gli studi di medicina. Nessuno sapeva che cosa avrebbe fatto Nemu se non ci fosse stato suo padre a scegliere per lei; forse esattamente la stessa cosa.
Però, quando aveva iniziato a lavorare in ospedale, nessuno aveva fiducia in lei: il suo cognome aveva una fama pesante da portare, soprattutto se le infermiere invidiose bisbigliavano che fosse stata raccomandata dal padre. Inoltre Mayuri poteva essere stimato come medico, ma di sicuro non aveva molti amici in ospedale, e la reputazione della sua scarsa simpatia non aveva aiutato Nemu.
- Quando poi è impazzito, la cosa è diventata addirittura sinistra. Ci pensi? Ha dedicato tutta la vita a quest’ospedale ed è finito proprio qui, nel reparto psichiatrico. Probabilmente troppo lavoro, troppo contatto con i malati… Non lo so: ero appena arrivata, a quel tempo. A me sembra molto triste, poveraccio… Ma le altre dicono che lo penso solo perché non ho avuto il tempo di conoscerlo meglio. -
Orihime era rimasta impressionata e non ne aveva fatto mistero. Per un istante, aveva rivisto gli occhi inquietanti di Ulquiorra, ma si era affrettata a scacciare il pensiero.
- Nemu lavora nell’ospedale dove è ricoverato suo padre? – aveva chiesto esitante.
Isane aveva scosso la testa. – Non più. E’ morto qualche anno fa. -
Ora, di fronte ad Orihime, Nemu mescolava lo zucchero nel suo tè, l’espressione vagamente assente. Da quel che Orihime aveva sentito dire, la ragazza si era presa cura del padre ed era sempre stata molto leale verso di lui, nonostante Mayuri fosse il primo a trattarla male.
Anche per questo, Orihime aveva cominciato a stimare Nemu.
- Lavoro, eh? – chiese, indicando le cartelle, nel tentativo di iniziare una conversazione.
Nemu annuì con un gesto impercettibile, per poi prendere un piccolo sorso dalla sua tazza.
- Anche io… - Orihime abbassò lo sguardo sui suoi fogli. Non si faceva abbattere dal silenzio di un interlocutore, ma neppure riempiva quel silenzio con parole invasive. Forse anche per questo Nemu aveva chiesto di sedersi vicino a lei.
- E’ un brutto periodo? -
- Cosa? – Stupefatta, Orihime aveva sollevato la testa. Nemu la osservava compunta, un po’ stupita dalla sua reazione. – In che senso? Io? -
- Ho notato alcuni piccoli fattori. Distrazione, solitudine, stanchezza… - Parlava come se elencasse i sintomi di una malattia, eppure riusciva a farlo con tanta delicatezza da non risultare sgarbata.
- Be’… forse… ma nulla di grave… -
Ed Orihime si era ritrovata assolutamente meravigliata nello scoprire che la solitaria Nemu, in tutto quel tempo, si era preoccupata per lei, come fa un senpai verso un collega più giovane.
Per un attimo si sentì in imbarazzo, rendendosi conto che fino ad allora aveva creduto di essere lei, quella che si preoccupava per Nemu. Ma scoprì che l’imbarazzo non era poi tanto grave e quando Nemu le rivolse uno sguardo incoraggiante, Orihime riuscì a sorridere.

- Vai dove? -
La ragazza aveva sollevato il viso di scatto. Izuru la guardava dall’alto, la fronte corrugata, la bocca costretta in una scomodissima piega che non sapeva decidere che forma prendere.
- In Europa – rispose, la voce ancora bassa. – Ho finito i miei studi. Vado lì a lavorare. -
Tatsuki dischiuse le labbra, ma non disse nulla.
- Qui, oramai… - Per la prima volta anche Izuru distolse lo sguardo, con un piccolo gesto amaro. Un segno di cedimento. – Non ho mai avuto molti amici, lo sai. Della nostra classe, tanti sono morti. Non ho parenti. – Prese un breve respiro. – Non so quando tornerò. -
Tatsuki era rimasta senza parole, ma avrebbe tanto voluto trovare qualcosa da dire, pur di fermarlo, pur di non dover ascoltare altro. Stringeva i pugni fissando le labbra sottili di Izuru che continuavano: - Quando ho scoperto dov’eri… ho pensato… volevo salutarti, be’, almeno tu… - e poi si interruppe e Tatsuki lo vide mordersi il labbro inferiore per quelle due parole così sincere.
Non la guardava, forse perché sapeva che lei lo stava fissando intensamente. Adesso era lui ad evitare il suo sguardo. Per un istante Tatsuki pensò in preda al panico che non sapeva assolutamente cosa fare, e l’istante dopo quello che fece fu aggrapparsi ad Izuru e cominciare a piangere.
Pianse rumorosamente con la guancia contro il suo petto, aggrappando le mani alle sue spalle, e dopo poco lo sentì sollevare le braccia e cingerle gentilmente la schiena. Tatsuki sapeva di essere crudele, sapeva che per lui doveva essere tremendo vederla così, essere costretto a consolarla, quando lei aveva sempre finto di ignorare quello che lui avrebbe davvero voluto…
Ma non poteva farne a meno. Aveva bisogno di piangere contro di lui, almeno una volta. E Izuru non si lamentò.
Le accarezzò le spalle e la testa in silenzio finché lei non strinse i pugni asciutti contro la sua camicia, cercando di recuperare il respiro. Poi, si staccarono e lei si passò i pugni sugli occhi dove il trucco aveva sbavato rendendo il suo viso ancora più smunto.
Non si mentirono. Si salutarono senza provare a dirsi “Fatti sentire” o “Ci vediamo” e senza neppure scambiarsi indirizzi o numeri di telefono.
- Stammi bene – disse Izuru con dolcezza, guardandola, e Tatsuki abbozzò un sorriso stentato dagli occhi lucidi, tirando su col naso.
- Anche tu. -



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Aggiorn aggiorn! >w<
Iccumi qua, con l'undicesimo capitolohhh... e vi devo dire che io questo capitolo lo amoh. °C° Izuruuuu °C° Qui si conclude la loro storia e, si spera, si capisce cosa mi ha colpito in questi due personaggi e nella possibilità di metterli in "comunicazione" tra loro (che è una cosa abbastanza inspiegabile, lo so... XD). Se non si capisce ho fallito. U_____________U''''
Allora, devo dirvi che... ragassssse grazieh *C* Davvero, sono commossa che mi abbiate risposto nonostante tutto questo tempo che ho lasciato passare! Come sono cattifah. ;___;

@Ino_Chan: Che lettrice fedeleh *__*'' Oltre che creatrice di videossss, come si è scoperto *___*'' Wah sì la tua recensione è perfetta, hai inquadrato tutto perfectly U_U ne sono molto felice perchè sentivo bisogno di un capitolo di "stasi", di far respirare un po' l'atmosfera dell'hotel (in realtà mi ha ispirato il video d The Ground Benath her Feet, ammetto! XD) e di fare finalmente un po' di "zoom" su alcuni personaggi finora solo nominati... come Momo e Grimm... mi piacciono le storie con molti diversi pg "sul fuoco" ma poi è difficile seguirli tutti e renderle equilibrate, e, soprattutto, portare a compimento ogni "filo" della storia, in un modo che lasci soddisfatti i lettori ò.ò

@kikafei: ... superbo, fa molto fransceseh *__*'' ma non lo merito °////° In verità non merito tutti questi complimenti, però devo dire che, se davvero leggere quello che scrivo ti piace, ne sono estremamente felice. Forse alla fine la "bravura" si riduce alla capacità di "toccare" chi legge, o forse no, in ogni caso scoprire di riuscirci è davvero stupendo... quindi grazie :D

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Capitolo 14
*** Dodicesimo. Idioteque ***




Capitolo dodicesimo.
Idioteque




[ We're not scaremongering -
this is really happening,
happening … ]




Promising volcanic change of plot.
REM




- Che cazzo… - aveva borbottato Renji quando Momo lo aveva svegliato di mala grazia. - Che ti prende? -
- C’è qua il tuo amico – aveva sibilato la ragazza.
La giornata non era stata buona.
Nanao aveva osservato con occhi apparentemente tranquilli, mentre Ichigo Kurosaki dimostrava di essere pericoloso esattamente come Momo pensava, ed era sempre più convinta che una seconda riunione strategica fosse necessaria.
Sembrava che le cose stessero né più né meno precipitando.
L’ultima volta che Kurosaki si era fatto vedere, era in compagnia del suo cliente, il quale aveva rischiato di farsi ritoccare il muso da Renji e si era guadagnato l’antipatia di chiunque l’avesse incrociato. Già soltanto scoprire che erano state condotte indagini su di lui aveva innervosito Renji notevolmente – anche se, poi, Momo lo aveva zittito piuttosto logicamente: - Be’, cosa ti aspettavi? -
Già: si era quasi fidato. Gli stava quasi simpatico, quel tizio.
Di sicuro Renji non avrebbe commesso più lo stesso errore.
D’altronde, anche Ichigo sembrava in qualche modo diverso: era stato particolarmente nervoso, sin da quando si era presentato all’Hotel quella mattina. Sembrava avere altre cose per la testa, o forse non averne abbastanza.
Qualunque fosse il suo problema, aveva perquisito tutte le stanze del quarto piano, stavolta senza sorrisi né scherzi, ma mostrando la faccia asciutta del poliziotto.
Shunsui aveva imprecato quando Ichigo l’aveva svegliato, aprendo bruscamente la sua porta. Dormiva ancora a quell’ora e Nanao, protettiva e agitata, aveva protestato ad alta voce inseguendo Kurosaki che apriva ante e armadi.
- Che cosa sta cercando? Cosa diavolo pensa di trovare? -
Ma Ichigo non aveva risposto. Con calma e in silenzio, giusto i modi un po’ bruschi, aveva finito la sua perquisizione… al termine della quale non aveva concluso niente.
Hiyori non si era fatta vedere, mentre Shinji canzonava l’investigatore con aria annoiata. Renji temeva che il ragazzo stesse scherzando un po’ troppo col fuoco, ma Ichigo non aveva battuto ciglio, neppure quando Shinji aveva cominciato a chiedere a voce alta se fosse o no ritardato e se no come mai non gli rispondeva una buona volta.
Yachiru, eccitata, seguiva Nanao; e la cosa non aveva stupito nessuno perché Kenpachi si teneva alla larga da un po’.
Gli inquilini del quarto piano si erano trasformati in pubblico e non opponevano nessuna resistenza, ma si limitavano a seguire i movimenti dell’investigatore con uno scetticismo costruito ad arte. Rangiku era uscita in vestaglia, stropicciandosi gli occhi e scostandosi appena per far entrare Ichigo quando lui aveva borbottato: - Mi scusi – e aveva cominciato a perquisirle la camera. Quanto a Grimmjow e Tatsuki, non c’erano, e così Renji era rimasto in piedi di fianco ad Ulquiorra, che sbatteva le palpebre più del solito, innervosito. Ichigo aveva lanciato appena un’occhiata al ragazzo magro e pallido, ma non aveva chiesto nulla e Renji non gli parlava, in un silenzio prudente ma dichiaratamente ostile.
Dopo aver curiosato per un bel po’, Ichigo non aveva trovato niente. Renji aveva mentalmente ringraziato il cielo che quell’idiota di Grimmjow, per una volta, fosse stato abbastanza furbo da portare la sua roba da un’altra parte. C’erano solo le medicine di Ulquiorra, ma Ichigo le aveva ignorate quanto aveva ignorato Ulquiorra in persona.
E così, se ne era andato, scornato e a mani vuote.
- Che cosa cercavi? Un tesoro sepolto? – lo aveva apostrofato Renji, sarcastico e sollevato dal fatto che in effetti, di tesori, Ichigo non ne aveva trovati.
Ma l’altro aveva solo scosso la testa e sollevato una mano per salutarlo, dandogli le spalle.
Contrariato, sì, ma non sembrava troppo colpito di non aver trovato nulla. Avrebbe dovuto essere piuttosto arrabbiato, si era detto Renji: in fondo non aveva concluso niente di niente, e non aveva spunti per poter proseguire le indagini…
Eppure Ichigo non aveva l’aria di chi ha appena visto andare in fumo una busta paga. Renji non fece in tempo a riflettere sul fatto che la cosa avrebbe potuto essere motivo di preoccupazione.
Momo era in piedi sulla soglia della sua stanza quando Ichigo aveva ridisceso, torvo, le scale. Non aveva detto nulla, ma il suo viso aveva un’espressione che suonava inquietante sui lineamenti normalmente dolci della ragazza.
- Renji – lo aveva chiamato.
Portandosi dietro Ulquiorra, il ragazzo si era avvicinato.
- Nanao ed io pensavamo di riunirci ancora. – Breve pausa, uno sguardo agli occhi verde smeraldo persi nel vuoto. – Dopo questo, penso che sia necessario. -
- Sì. – Renji aveva sbuffato, grattandosi la testa. – Bisognerà dirlo anche a tutti gli altri… e a Kenpachi… chissà dov’è. -
Momo storceva la bocca. – Penso che preferisco non saperlo, dov’è. Non sono certa di fidarmi di lui, Renji… in fondo non si è mai capito con esattezza come sia andata quella storia con la madre di Yachiru – aveva bisbigliato lanciando un’occhiata alla bambina, che se ne stava a pochi metri di distanza e, lieta come sempre, riusciva a far sorridere persino Shunsui e Nanao.
Già, quella storia. Per qualche tempo, quando Zaraki era appena arrivato lì, quella voce aveva avuto la capacità di spaventare un po’ gli altri inquilini, finché tutti non si erano affezionati troppo a Yachiru. Ora la maggior parte pensava che fosse soltanto una diceria senza alcuna base fondata. Comunque, non era importante.
- Per quel che mi riguarda, può anche averla ammazzata. Non è questo il problema, ora. -
Momo si era mordicchiata un labbro ma poi aveva stretto le spalle, e aveva detto che come al solito potevano usare casa sua.
Così erano lì anche quella sera, a mangiare il riso di Momo, stavolta senza Toushiro la cui presenza silenziosa e torva era stata sostituita da quella piuttosto esuberante di Grimmjow.
- Quel figlio di puttana. – Il ragazzo sparava insulti con costanza e dedizione, attingendo senza sosta alla sua ciotola. – Ma che cazzo, eh? Cioè non posso nemmeno uscirmene di casa, porca… -
- Sì, Grimmjow – disse Momo in tono pacato, e l’altro interruppe il turpiloquio, socchiudendo gli occhi.
– Quel deficiente di mio fratello è ancora tutto stranito. -
Seguì un breve silenzio. Shunsui non aveva toccato il suo riso e si limitava a rigirare tra le dita il bicchiere, con aria lugubre.
- Kurosaki deve andarsene – concluse Momo. Renji, un po’ teso, aveva le mani appoggiate sulle ginocchia e se le osservava con apparente interesse, la fronte aggrottata.
- Sì, ma come? – domandò Rangiku, la voce esitante. – Insomma, fino a che… -
- Dobbiamo dargli quello che vuole – concluse Momo.
Renji sollevò gli occhi di scatto. – Cosa? -
Puntò lo sguardo su Momo, che lo puntò su di lui, ma nessuno dei due disse niente e nessuno degli altri intervenne. Nanao si era interrotta, allarmata, quando aveva visto Renji contrarre le dita sui jeans.
- Di cosa stai parlando? – chiese infine il ragazzo, un ringhio contenuto nella voce.
- Renji… non possiamo rischiare tutti per una persona sola – disse Momo in tono deciso. C’era cocciutaggine nei suoi occhi. Rangiku la osservava stupito mentre Shinji grattava il fondo della sua ciotola con l’aria di chi ritiene più saggio starne fuori.
- E che cosa volete fare allora?! – sbraitò il ragazzo. – Consegnare Rukia a… -
- Non consegneremo nessuno! – protestò Momo. – Semplicemente gli diremo la verità. Che è stata qui… e non sappiamo dove sia ora. Che deve cercare altrove. -
- In questo modo vorrà sapere chi l’ha aiutata – ringhiò Renji.
Momo lo fissò per un istante in silenzio. Gli altri si scambiarono uno sguardo.
- Non necessariamente… non sarà necessario coinvolgerti, una volta che avrà saputo che non è più qui cercherà altrove… -
- Stronzate! – Renji si alzò in piedi bruscamente. – Avete deciso di lavarvene le mani, questa è la verità! -
Fu a quel punto che Kenpachi sbatté il suo bicchiere sul tavolo e voltò il viso dall’espressione per niente amichevole verso l’altro.
– Stammi a sentire, ragazzino. Dal mio punto di vista ti abbiamo già fatto un favore a coprirti fino ad ora, insieme alla tua amica. Chi ce lo fa fare di rischiare il culo per una che manco conosciamo? -
Grande e grosso com’era, nonché solitamente silenzioso e poco interessato, Kenpachi intervenne e la cosa stupì un po’ tutti. Ma Renji esitò a parlare quando si rese conto, dal silenzio pesante che si era creato, che le parole appena pronunciate dall’altro erano proprio ciò che anche gli altri stavano pensando.
Serrò le labbra e contrasse il viso, ottenendone di deformare i tatuaggi che aveva sulla fronte. – Rukia è una di noi. Quelli sono degli stronzi – sollevò un braccio, con veemenza, indicando un concetto generico di “mondo” fuori dalla finestra di Momo – che pensano di essere migliori di noi, che pensano di poter venire qua a fare quello che gli pare perché hanno i soldi, mentre lei è una di noi. Ma voi come dei venduti preferite tradirla pur di avere indietro la vostra tranquillità… -
- Non è questione di tranquillità, Renji! – tentò Nanao. – Ma qui… se quello decidesse di andarci giù pesante… -
- Mi arrestano, amico – chiarì Grimmjow, roteando gli occhi per spostare il suo sguardo azzurro su Renji che gli era di fianco. – Me, Tatsuki e mandano Ulquiorra chissà dove. E Shinji e Hiyori… -
- Be’, non occorre parlarne, di Shinji e Hiyori – disse l’interessato con una risatina, agitando pigramente una mano davanti al viso nascosto dal basco.
- In qualsiasi caso è un casino – concluse Kenpachi. – E poi la tua ragazzina avrà pur trovato il modo di filarsela in questo tempo, no? -
Renji non era contento e questo era palese. – E chi è stato a spifferare a Kurosaki che era stata qui? Eh? – volse uno sguardo intorno pronunciando quelle parole, - E’ questo qualcuno che dovremmo ringraziare se ce lo ritroviamo tra i piedi… -
- Non è stato uno di noi – protestò Rangiku.
- Ma certo, sarà stato un fantasma… -
- Se hai delle accuse da fare dillo e basta – ringhiò Kenpachi.
Seguì un breve silenzio, durante il quale Renji lo fissò per un secondo, due secondi, come galvanizzandosi all’idea della cosa pericolosa che stava per fare. – Non pensi che la tua adorabile bimbetta parli un po’ troppo, Kenpachi? -
- Stai dicendo che è stata Yachiru? -
- E chi altro? -
Zaraki si limitò a scoprire i denti in una smorfia inquietante. – Yachiru non sa niente di questa storia, e non può aver detto niente. -
- Ne sei sicuro? -
- Mi stai dando del bugiardo? -
- Chi dà del bugiardo a Ken? -
L’intero tavolo si congelò quando la bambina comparve sulla porta. Ma nessuno quanto suo padre che, senza ancora alzarsi, ruotò la sedia per volgersi lentamente verso di lei.
- Yachiru, dovresti dormire… - la redarguì, la voce raspante e spaventosa esattamente come se avesse minacciato qualcuno di sgozzarlo, e non rivolto un gentile rimprovero alla figlia.
- Facevate rumore – spiegò la bambina allegramente. Qualcuno lanciò attorno un’occhiata colpevole mentre Yachiru saltellava fino al tavolo e sulla gamba di Kenpachi.
- Di che parlavate? Di me? -
- No – si affrettò a chiarire Nanao.
- Sì – rispose Renji. Kenpachi gli lanciò uno sguardo che avrebbe dovuto esser sufficiente a far desistere chiunque, ma Renji si chinò verso Yachiru e chiese ugualmente: - Ascolta, vorrei chiederti una cosa, ma tu devi promettere di dire la verità. -
- Okay, Testa d’Ananas – rispose la bimba sorridendo apertamente.
Renji ignorò il commento e proseguì: - Hai visto il tizio che era qui stamattina? Quello coi capelli arancioni? -
- Sì. Che colore buffo, eh? -
- Hai ragione. Dimmi una cosa, l’avevi mai visto prima? -
Fu allora che Yachiru rispose come nessuno si sarebbe aspettato, se non Renji, che più che aspettarselo però ci sperava e infatti rimase stupito quanto gli altri.
- Certo che l’ho visto. -
- Come? Davvero? -
Tutta la tavola osservava Yachiru, che a dire il vero non sembrava spaventata da quell’attenzione. La bimba annuì ancora soddisfatta e Kenpachi domandò sconcertato: - Ma quando? -
- Oh, non me lo ricordo… un po’ di tempo fa. – Lei si portò l’indice alle labbra alzando lo sguardo verso l’alto, cercando di ricordare. – Ero giù che giocavo, sapete, ed è sbucato lui… credeva che non ci fosse nessuno – ridacchiò.
- E… gli hai parlato? – chiese Nanao stupefatta.
- Be’, gli ho chiesto chi era e cosa ci faceva lì – rispose Yachiru come se fosse una cosa ovvia.
- Non gli hai detto nient’altro? – insisté Renji.
- No, Testa d’Ananas – assicurò Yachiru gioiosa.
- Yachiru, dimmi la verità – insisté lui nervosamente.
- Te la sto dicendo! -
Renji perse la calma, ed alzò la voce. – So che gli hai detto dell’altro! Devi ripetermi esattamente quello che gli hai detto! -
- Ti ho detto di no! – negò la bambina, ancora, corrugando la fronte dalle sopracciglia chiare.
- Renji… - tentò Nanao.
- Attento a quello che fai – ringhiò Kenpachi.
Renji si zittì, lo sguardo bruciante puntato su Yachiru. Lei, più che spaventata dalla sua rabbia, sembrava dispiaciuta. – Non essere arrabbiato, ti ho detto la verità! -
- Non sono arrabbiato, ma tu non hai detto la verità – disse il ragazzo alzandosi in piedi.
- Non è vero! -
- Adesso basta, - disse Kenpachi, e Renji proruppe, fissandolo con astio: - Chi è stato allora, eh? -
- E’ stato il mio amico… - tentò Yachiru, alzando la sua vocetta acuta tra le loro. – Non sono stata io, lui era con me, è stato lui! -
- Yachiru, non c’è bisogno che tu dica altro. – Kenpachi si alzò, sempre tenendola agevolmente in braccio. – Me ne vado. ‘sera a tutti. -
- Buona… sera… - salutò Nanao sconsolata, e altre voci vaghe e discordanti imitarono il saluto, senza che i proprietari osassero troppo guardarsi l’un l’altro negli occhi. Nessun altro aveva osato mettere becco in quella discussione; solo Renji, in piedi, restò a guardare in cagnesco padre e figlia che se ne andavano.
Finché Grimmjow, che aveva posato il mento sulla mano ed era rimasto a fissare sdegnosamente il vuoto con aria annoiata, contrasse un sopracciglio e domandò con l’aria infastidita di chi ha subito un affronto personale: - Aspetta un attimo, cos’ha detto?


Ichigo aveva ormai mandato a quel paese la prudenza, motivo per il quale non si fece problemi ad aprirsi la strada a calci tra le vecchie tubature accatastate sul pavimento del corridoio, ottenendone in cambio un baccano infernale.
La prima volta che era stato in quel posto, aveva fatto molta attenzione a non farsi notare e non provocare alcun rumore; solo per ritrovarsi a sollevare lo sguardo dalla sua torcia e a fissarlo negli occhi chiari di una bimbetta, che lo osservava come se lui avesse appena fatto irruzione nel salotto di casa sua.
Poco distante da Ichigo e dalla sua nuova conoscenza, invece, c’era probabilmente l’ultima persona che l’investigatore si sarebbe immaginato di incontrare, una persona che d’altronde aveva visto solo poche volte in foto e che all’inizio non aveva riconosciuto.
- Se stai cercando la ragazzina coi capelli neri, io l’ho vista – aveva detto il Signor X, sollevando una voce insinuante, un po’ stridula, che aveva l’aria di non venire usata spesso. Ichigo, che stava cercando di sopravvivere a Yachiru, si era voltato stupefatto verso il loro terzo incomodo, che fino a quel momento aveva considerato soltanto come un vecchio senza tetto seduto su un materasso sfondato.
- Sai qualcosa di lei? -
- Certo che lo so. Da qui, sento tutto – aveva risposto l’altro, lanciandogli un’occhiata intelligente.
Ichigo lo aveva osservato per un po’, stupito, prima di domandare incredulo: - … Mayuri Kurotsuchi? -
- Si chiama Testa Blu – aveva spiegato Yachiru, avvicinandosi tranquillamente all’uomo che Ichigo considerava morto fino a pochi minuti prima, e che, anche ammesso fosse ancora vivo, rimaneva fino a prova contraria un pazzo altamente pericoloso.
Ichigo non sapeva molto di Mayuri Kurotsuchi; non l’aveva mai incontrato: ma, a suo tempo, si era parlato molto di lui e il viso visto nelle foto era difficile da non riconoscere. Eppure Yachiru non era spaventata, né Mayuri aveva reagito in altra maniera, vedendosi riconosciuto, che con uno sguardo scettico.
- Credevo che fossi morto. -
- Credevi che fossi pazzo - aveva risposto Mayuri tranquillamente. – Eppure io sono qui e tutta Tokyo mi crede morto. Chi è il pazzo? -
Di sicuro non era normale. Né la sua voce né il modo in cui inclinava la testa né i movimenti a scatti delle sue mani sottili. Eppure non era un matto farneticante: era senz’altro intelligente e capiva perfettamente la situazione in cui si trovava – dava corda, tra l’altro, a Yachiru, una bambina, che gli saltellava attorno tutta contenta.
- Sai che Testa Blu mi ha insegnato un sacco di cose? -
- Ah, davvero? – Non gli era venuta una risposta più intelligente. Attorno al materasso sfondato c’erano disegni, penne e strumenti vari, molti dei quali Ichigo non riconobbe: dovevano essere fabbricazioni artigianali, e chissà qual era il loro scopo. Tutta roba che avrebbe preferito vedere nelle mani di qualcuno sano di mente, in ogni caso.
- Sì, per esempio come nascono i bambini – aveva spiegato Yachiru con espressione caparbia, e Mayuri aveva pigramente sorriso, mostrando i denti, in un modo inquietante.
- Che brava… - aveva commentato Ichigo. Sui fogli i disegni sgangherati di Yachiru si alternavano a righe fitte della scrittura sottile del dottore. Il ragazzo avrebbe pensato male, fosse dipeso da lui, ma in effetti aveva dovuto ammettere che il pazzo sembrava stranamente inoffensivo.
Per questo Ichigo aveva creduto a quello che il redivivo dottor Kurotsuchi gli aveva detto quella prima volta, al secondo piano del Million Dollar Hotel.
Ed ora era di nuovo lì, con la torcia e tutto il resto, sperando che il pazzo fosse ancora dove lo aveva lasciato, perché gli era tornato in mente un nuovo particolare.
Mayuri, infatti, era lì. Vestito di stracci che probabilmente un tempo erano stati bianchi, le mani abbandonate sulle cosce delle gambe incrociate, lo sguardo fisso che si sollevò pigramente verso di lui.
Niente Yachiru, stavolta. Meglio.
- Toh. Chi si rivede – disse il pazzo, senza alcuna traccia di umorismo nella voce.
- Sai com’è. Mi sono affezionato a te. -
A quest’ironia Mayuri non rispose, limitandosi a tenere fissati gli occhi su Ichigo, apparentemente non disturbato dalla luce violenta della torcia, come se fosse stato un qualche tipo di rapace notturno.
- Hai detto che hai visto la ragazza con i capelli neri. Non sai chi era con lei. -
- Non lo so. -
- Eppure mi hai detto anche che l’hai sentita, è così? -
Mayuri annuì. – Da qui, sì, da qui si sente. Quando passano, quando camminano. -
Ichigo si era chiesto proprio questo. Perché Rukia Kuchiki era passata vicino al secondo piano, se a nasconderla era qualcuno che abitava al quarto? Le scale: per quale motivo non l’ascensore?
Si nascondeva, forse? Ma allora da chi, e chi invece l’aiutava?
Dove stava andando?
- Allora vuoi dirmi cosa hai sentito? -
L’altro sbatte le palpebre, una volta soltanto. – Ho sentito la sua voce. -
- Cosa diceva? -
- Parlava. -
- Da sola? -
- No. -
Eccoci, pensò Ichigo. Abbassò la torcia, distogliendola dal viso di Mayuri, che non fece nulla per indicare di aver notato il cambiamento.
- Con chi? -



---------------



... non dite nulla.
Sì, cioè, l'avevo detto che la storia l'avevo in cantiere, e che avevo intenzione di finirla, no?
Prima o poi. XD Più poi che prima. Be', insomma, pian piano. XD E mi sono sentita tremendamente in colpa per aver ricevuto tanti commenti (tra cui una segnalazione positiva! *_*) senza aver aggiornato in ages, quindi...
;)

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Capitolo 15
*** Tredicesimo. Time is running out ***




Capitolo tredicesimo.
Time is running out




[ Bury it, I won't let you bury it
I won't let you smother it
I won't let you murder it
… and our time is running out,
our time is running out -
you can't push it underground
you can't stop it screaming out
… how did it come to this? ]




Lo stemma dei Kuchiki era un complicato intreccio di forme sinuose crudelmente imprigionate in un esagono. Ichigo pensava, mentre teneva lo sguardo sollevato verso l’alto, che quell’esagono era un dettaglio sbagliato.
Il simbolo sarebbe stato molto più bello senza: se le linee avessero potuto aprirsi liberamente verso l’esterno, a partire da quella stella centrale.
Ma in effetti era sciocco aspettarsi che nel simbolo dei Kuchiki potesse esserci qualcosa che rimandasse a un concetto di libertà.
E poi che razza di pensieri si metteva a fare, proprio in quel momento, quella sera.
L’investigatore riportò lo sguardo davanti a sé, sul giardino della villa e le luci provenienti dalle sale lontane. C’erano finestre illuminate poco più in là, fra gli alberi; persone e calore; eppure per lui, bloccato dalle guardie lì sul cancello, erano distanti anni luce.
- Anche perché sono passati anni da quando mi hanno detto di “aspettare” – sbuffò tra sé, sollevando di nuovo il polso per controllare l’orologio. Va bene, l’ora era tarda, la casa era grande, ma quanto tempo ci poteva volere per trovare e chiamare Byakuya Kuchiki?
In fondo era una faccenda che interessava lui.
A lui, Ichigo, non importava un bel nulla di quella Rukia.
Sì, come no.
- Ehi. -
Ichigo riportò lo sguardo davanti a sé, colto di sorpresa dalla voce della guardia che era tornata. Di fianco al guardiano del cancello c’era ora un vecchio vestito in impeccabili abiti tradizionali, un poco curvo ma dallo sguardo acuto, che lo sondò per bene prima di dire: - Il signor Kuchiki è impegnato in questo momento. Ma – interruppe sul nascere la protesta di Ichigo, - la riceverà ugualmente purché il colloquio sia breve. Venga con me. -
E si voltò, riguadagnandosi il sentiero verso la villa. Ichigo lo seguì, ma non disse una parola. Come se non fosse stato già abbastanza nervoso per ciò che aveva scoperto, doveva anche vedersi trattato come se fosse stato un servo o poco meno. Sì, Kuchiki lo pagava, ma fino a prova contraria era lui quello che aveva bisogno dell’aiuto di Ichigo.
L’irritazione si sommò ad una certa inevitabile soggezione, quando entrarono finalmente nella villa e quella specie di maggiordomo gli chiese fermamente di lasciare lì le scarpe. Ichigo avrebbe preferito sbrigarsela in fretta, ma ubbidì e l’altro lo condusse lungo un certo numero di corridoi, finché non giunsero davanti a degli shoji imponenti, che chiaramente li separavano da un’ampia sala.
A giudicare dai rumori che giungevano dall’interno, una sala che doveva essere anche piuttosto affollata.
Il maggiordomo si voltò. – Il signor Kuchiki ha degli ospiti in questo momento. – Non aggiunse altro, ma non ce n’era bisogno: era chiaro che gli stava chiedendo di non mettere in imbarazzo nessuno dei presenti con il suo essere un pesce fuor d’acqua.
Ichigo era già abbastanza seccato, e quella nuova offesa lo lasciò indifferente. Attese pochi secondi e Byakuya apparve, facendo scivolare compostamente gli shoji dietro di sé per richiuderli. Diversamente dal suo servitore, era vestito all’occidentale, così come la maggior parte degli ospiti, che Ichigo vide solo di sfuggita prima che le porte fossero nuovamente accostate.
Per un istante, Ichigo maledisse le scarpe che aveva tolto e che lo facevano sentire dannatamente troppo basso. Gli parve di dover sollevare la testa per poter guardare negli occhi Byakuya, che, educato e gelido, a casa sua, era più che mai irraggiungibile.
- Signor Kurosaki. – Byakuya parlò per primo. – Mi hanno detto che ci sono delle novità? -
- Già. Scusi il disturbo – borbottò Ichigo, sarcastico.
- E’ solo una cena di rappresentanza. Un’occasione formale – spiegò Byakuya senza alcun sentimento.
- Avevo intuito che non fossero gli amici del bar. -
- Crede di poter passare al punto? -
Ichigo digrignò i denti, contrariato. Era arrivato lì con tanta fretta, ed ora si faceva riprendere proprio da Byakuya Kuchiki. – Sì, be’, penso di aver scoperto chi è la persona che ha aiutato sua cognata a nascondersi all’Hotel. Però ritengo che non sia più lì, perciò saranno necessarie nuove indagini… -
Byakuya lo osservava con intensità, gli occhi grigi immobili. – Mi sta dicendo che siamo al punto di partenza? -
- No, no – assicurò l’altro, - vedrà che ne caveremo qualcosa. Ma ho preferito informarla prima di muovermi… ora sono convinto di poter rintracciare gli spostamenti di sua cognata, basandomi su ciò che ci dirà questa persona… -
- Molto bene. – L’uomo annuì, voltando lo sguardo per un istante sulle ombre al di là degli shoji. – E quanto tempo pensa che… -
Ma non completò la frase, perché la porta che stava osservando si aprì, e Ichigo ebbe la seconda sorpresa della serata.
Yoruichi aveva in mano una flute piena per metà, e l’altra mano era ancora posata sullo shoji. I suoi occhi dorati si posarono su Ichigo per forse tre secondi, prima che la donna li distraesse con aria annoiata e li riportasse su Byakuya, di nuovo vivaci e luminosi.
- Byakuya, dov’eri finito? Mia zia ti sta cercando ovunque – disse, sorridendo di un sorriso candido.
- Torno tra un istante – rispose lui, il tono vagamente annoiato.
Yoruichi rise e riuscì nel miracolo di combinare un’espressione sbarazzina con l’abito da capogiro che stava indossando. – E il tuo amico chi è? -
Byakuya non fece una piega. - Un collaboratore di lavoro. -
La donna riportò lo sguardo su Ichigo, ma senza dimostrare un reale interesse, né parve notare l’espressione di odio che, Ichigo ne era certo, si stava dipingendo sempre più chiaramente sul suo viso.
- Be’, non farci aspettare troppo, ragazzino – commentò infine, allegramente, e Ichigo fu sorpreso di vedere che non veniva fulminata sul colpo per la sua irriverenza ma, al contrario, Byakuya si limitava ad un’espressione scostante. – In fondo è la tua cena. Un bravo ospite non lascia i suoi invitati a spasso… devo insegnarti tutto io? -
- Ne sono conscio – ribatté Kuchiki, non raccolse la provocazione, e la congedò. Yoruichi si strinse nelle spalle e tornò sui suoi passi. Byakuya riportò lo sguardo su Ichigo. – Le chiedo scusa per l’interruzione. – Lo disse in tono molto cortese, ma era ovvio che non si scusava affatto. - Stavamo dicendo… -
- Nulla. – Ichigo aveva già sopportato troppo. – Me la caverò da solo. Mi scusi per aver disturbato la sua cena. – E se ne tornò per la via che gli risultava più familiare, sperando di non perdersi.
- Signor Kurosaki! – si sentì chiamare, da un Byakuya Kuchiki un po’ sorpreso e leggermente contrariato.
Ma lo ignorò.
Arrivò con sollievo all’ingresso, al giardino, all’aria fresca della notte e continuò a passo di marcia verso la sua macchina, estraendo il cellulare dalla tasca con movimenti resi frenetici dalla rabbia.
- Pronto? Uryuu? Uryuu, sono io… non me ne fotte un cazzo, molla tutto e vieni, tanto sono giorni che lavorate senza risolvere nulla. Cosa? No, adesso chiamo Chad. A Karakura. Sì, davanti a casa mia. -
Bastò mezz’ora perché tutti e tre si ritrovassero davvero davanti alla vecchia casa di Ichigo, quella che avevano imparato a conoscere quando erano ragazzi e che era ancora un luogo di ritrovo per le situazioni di emergenza. Uryuu arrivò borbottando e protestando, Chad era vestito da casa con solo un giubbotto buttato sulle spalle larghe, ma arrivarono.
Ichigo però non era dell’umore di apprezzare quella dimostrazione d’amicizia. Si sentiva preso in giro e un po’, sì, si sentiva anche tradito. Ed espose tutte quelle cose sotto un lampione sbilenco, davanti alla sagoma grigia della sua vecchia casa, nella notte sempre più scura.
- Non fare il bambino – lo apostrofò Uryuu quando ebbe finito. Aveva appena scoperto che il cliente di Ichigo era effettivamente un pezzo grosso, ma mai e poi mai si sarebbe dimostrato impressionato. – Quello è Byakuya Kuchiki. Probabilmente deve dare una cena simile come minimo una volta al mese, e deve invitare tutti i pezzi grossi di Tokyo, che gli piaccia o no. -
- Lei era decisamente in confidenza con lui! – sbottò Ichigo. – Non era un caso che sia venuta a chiamarlo! -
Uryuu alzò gli occhi al cielo e fece un movimento definitivo, nel suo impermeabile su misura. - Senti. Mai scoperto nulla sui Kuchiki. Mai neppure sentiti nominare da qualcuno. Mi dispiace dirtelo, il tuo cliente è l’unico riccone pulito della città. -
- E perché conosce la Shihouin?! -
- Avranno studiato assieme l’ikebana quando erano ragazzi, che ti devo dire? La pianti di crearti casini inutili? –
Ichigo tirò fuori una sigaretta, con rabbia. Non era convinto, e si vedeva. Uryuu si sistemò gli occhiali e lanciò un’occhiata a Chad, che era silenzioso come suo solito, ma ricambiò lo sguardo un po’ perplesso dell’amico.
- Perché sei tanto agitato, Ichigo? – domandò infine il gigante, infilando in tasca le grosse mani.
L’interessato sospirò e si appoggiò al lampione. – Ho bisogno del vostro aiuto. Ho scoperto un paio di cose grosse. -
- Quelle che non hai detto al tuo cliente perché eri occupato a fare la primadonna? – domandò Uryuu, ma Chad lo zittì con una gomitata.
- Sì, va be’. Avete presente Mayuri Kurotsuchi? -
Chad scosse la testa, ma Uryuu annuì, perplesso. – Cosa c’entra adesso? -
- E’ vivo. Cioè. Suona da telenovela ma… - Ichigo si grattò una tempia, irritato, - voglio dire, cazzo, gli ho parlato stasera. E anche una settimana fa, circa. -
- Cosa? Ma… -
- Dev’essere fuggito dall’ospedale chissà come. -
- Ma l’hanno dato per morto! – protestò Uryuu. – E’ morto, legalmente morto, tutto in regola! -
- Che ne sai? – replicò Ichigo, scontroso. – Hai controllato? Secondo me gli è scappato e siccome tutta quella storia era già uno scandalo abbastanza succoso, hanno preferito mettere a tacere la cosa. Prova a informarti. -
- Ma… - Uryuu si interruppe di nuovo, stavolta da solo. – E’ pericoloso, dobbiamo ritrovarlo… -
- Non fa del male a nessuno. – Ichigo scosse la testa. – Insegna biologia a una ragazzina, al Million Dollar Hotel. Piuttosto, mi ha detto chi ospita la Kuchiki. -
- E chi? -
Ichigo mordicchiò la sigaretta con astio. – Renji Abarai. -
- Ma non era amico tuo? – lo schernì Uryuu, seccato di essere stato zittito.
Appunto. – No! Era una “persona informata dei fatti” ed io l’ho tenuto d’occhio. Ed ora pare che dobbiamo capire perché proprio lui conosceva Rukia Kuchiki e cosa hanno in mente. -
Uryuu osservò Ichigo ma non disse niente. A quel punto Chad chiese: - Ma… lei dov’è? -
- Non ne ho idea, - sbottò il ragazzo, - ma ‘sta sicuro che adesso lo pesco e me lo faccio dire. Però prima vorrei che tu facessi altri controlli, Uryuu… -
- Dovrebbero darmi metà della tua parcella – borbottò l’altro, poco convinto.
- Ah, poche storie, ti ho fatto almeno altrettanti favori! – Ichigo buttò la sigaretta e si staccò dal lampione cercando di scacciare il malumore. – Vorrei soltanto che controllassi di nuovo i nomi che abbiamo esaminato, quelli che sono saltati fuori dal passato di Rukia Kuchiki. Vedi se trovi qualcosa che ci era sfuggito. -
- Qualcosa del tipo? -
Ichigo si strinse nelle spalle, iniziando già ad infilare la mano nella tasca dei jeans per cercare le chiavi della macchina. – Qualcosa del tipo “Renji Abarai”. -


Era finalmente riuscito a prenderla.
Si era fatta prendere, cioè. Ma che importanza aveva? Ora era lì, lui la teneva per le spalle, lei si voltava, leccandosi le labbra come una gatta, gli occhi dorati socchiusi sotto ciglia affilate e crudeli.
Essere riuscito a raggiungerla, toccarla, era più di quanto osasse sperare. Ora era sua e ci sarebbe voluta la fine del mondo perché la lasciasse andare; c’erano solo loro due, nient’altro contava sulla faccia della terra, neppure…
Lo squillo del telefono.
Kisuke Urahara si tirò a sedere sul letto, le mani e le gambe ingarbugliate nelle lenzuola. Si svegliò nell’attimo stesso in cui aprì gli occhi, il respiro mozzo, mentre il cellulare posato sul comodino vibrava e suonava con insistenza.
Impiegò qualche attimo a metabolizzare il brusco risveglio, e si sporse verso la causa del rumore, nervosamente. Lo disturbava: voleva che la smettesse.
Aveva impostato la suoneria così alta e rumorosa apposta.
- … pronto? -
- Capo? -
Sapeva con chi stava parlando, ma il nome non voleva saperne di apparire chiaramente nella sua testa. Era ancora troppo addormentato. Ma sì, quel ragazzo nuovo che gli avevano mandato, il nipote di non sapeva più chi…
- Cos’è successo? -
- Capo, dovrebbe venire subito. -
- Ma venire dove? – Tastò attorno in cerca della radiosveglia. – Che ore… ci sono novità? – domandò bruscamente, realizzando che aveva messo i suoi sottoposti a sgobbare da settimane, e che quello era il primo vero sonno che lui stesso si concedeva da un bel po’. Sapeva bene perché lavoravano tanto: una lotta contro il tempo, la possibilità, forse, di incastrare una volta per tutte la protagonista dei suoi sogni.
I suoi incubi.
- Sì, capo, grosse novità… - Ah, ecco che gli veniva il nome. Quella voce strascicata, come se godesse personalmente delle disgrazie altrui… Grantz.
- Dovrebbe venire in centrale. – Mai piaciuto, quel ragazzo.
- Sì, arrivo. Meglio non parlarne al telefono. – Urahara posò i piedi sul pavimento freddo della camera. Era una camera con molte finestre, oscurate da una serie di tende fin troppo sottili. Molto moderno e molto impersonale. Tra l’altro non nascondevano un bel niente, né la luce né i rumori: fuori, Tokyo non si spegneva un attimo.
- Sarò lì tra poco. -
- Va bene. La aspettiamo. -


Mentre succedevano tutte quelle cose nella notte di Tokyo, tanto da far pensare che la città, nonostante l’ora tarda, non avesse la minima voglia di mettersi a dormire, una giovane ignara camminava in fretta lungo un marciapiede malfamato e per niente raccomandabile.
Camminava stringendo tra le mani un oggetto che non le apparteneva, ma per il quale in quel momento avrebbe dato la sua stessa vita.
- Devo portarlo a Rangiku, - si diceva. – Per lei è importante. Lo faccio per questo. -
Si diceva così e si convinceva così perché neppure lei sapeva trovare la forza o il coraggio di capire la verità, di sentire la verità. Sapeva soltanto che stava facendo di nuovo quella strada per la prima volta dopo tanto tempo, la strada che aveva fatto tanto spesso per andare al lavoro, una strada frequentata solo da malintenzionati che per lei era diventata come un percorso verso il suo paradiso personale.
Era la prima volta che trovava il coraggio di percorrerla di nuovo. Era la prima volta che trovava una scusa per percorrerla di nuovo. E le sembrava una tale enormità che credeva quasi di essere l’unica persona ancora sveglia in città quella sera, e non si sarebbe stupita se enormi riflettori si fossero puntati su di lei e le avessero intimato di fermarsi prima di portare a termine il crimine che aveva in mente di commettere.
Momo stava tornando al Nocturne, con in mano la catenina della sua amica Rangiku.

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Capitolo 16
*** Quattordicesimo. Lovesong ***




Capitolo quattordicesimo.
Lovesong




[ Whenever I'm alone with you,
You make me feel like I am home again -
You make me feel like I am whole again …
However far away, I will always love you
However long I stay, I will always love you
Whatever words I say, I will always love you -
I will always love you ]




Il bussare giunse incerto, quasi frammentario, come se la persona che aveva bussato avesse paradossalmente cercato di fare poco rumore.
Quel solo rumore, quel breve sprazzo di vita, bastò per turbare il Million Dollar Hotel. O così parve ad Orihime. Le parve che persino col semplice atto del bussare, lei e la sua goffaggine fossero state capace di infrangere quell’atmosfera umida e tesa, il buio acquattato nei corridoi dell’Hotel.
Quei corridoi accendevano la sua immaginazione: la affascinavano i loro rossi, i loro verdi scuri e l’umidità nelle pareti; e come tutto tendeva al nero. Si chiedeva quali e quante persone li avessero percorsi, e perché. Immaginava respiri e gemiti trattenuti dietro le porte, spezzati e gonfi come nuvole cariche di pioggia sporca.
Si vergognava dei suoi colori pastello e del suo viso acqua e sapone.
Poi Ulquiorra aprì la porta.


Il Nocturne era molto diverso da come Momo lo ricordava; eppure, appena vi entrò, non poté fare a meno di sentirsi aggredita dall’incomprensibile e sbagliatissima sensazione di essere a casa.
Si fermò sull’entrata, perplessa, incerta. Si trovava là dentro grazie al buttafuori che aveva riconosciuto la catenina di Rangiku, permettendole di entrare, perché Momo non aveva certo l’aspetto giusto per una serata in un locale come quello, e qualcuno già la guardava storto; eppure la ragazza non se ne preoccupava, né si sentiva in imbarazzo come si era sentita tante volte al fianco di Toushiro nei suoi modesti abitini. Non era l’imbarazzo il motivo per il quale era ferma lì.
Anzi, il contrario.
Osservava l’ambiente caotico e caldo, buio e luccicante del locale, e aveva gli occhi spalancati, un mezzo sorriso già dipinto sul viso. Un po’ se ne sentiva ancora parte, non poteva farne a meno.
Il buttafuori non lo sapeva; d’altronde era nuovo; ma lei… be’, lei lo conosceva quel posto.
Ci aveva lavorato.
E mentre si guardava attorno, e compiva i primi passi facendosi largo tra la folla, immaginò di avere ancora addosso la sua divisa nera, il gilet luccicante, il trucco che ogni sera le faceva Rangiku. Immaginò di scivolare sui tavoli, snella e agile con i suoi vassoi, e ricordò la sera in cui un cliente le aveva fatto scivolare una mano sui fianchi e Rangiku gli era piovuta addosso urlando e graffiandolo; e quello aveva ritratto la mano e aveva riso, e invece aveva preso Rangiku sulle ginocchia; e Momo era scappata dietro il bancone con il viso arrossato mentre le altre ragazze la prendevano in giro bonariamente.
In quel posto, Momo si era sentita bella. Si era sentita luccicante.
Toushiro non sapeva queste cose. Lui pensava che fosse degradante. Si era sempre opposto a quella scelta, ma Momo pensava che a lui dispiacesse più per sé che per lei; era al proprio orgoglio ferito che pensava, non a quali rischi corresse veramente sua moglie.
E d’altronde Momo non voleva pensare a Toushiro, ora. Toushiro era lontano, e invece Sousuke era lì. Vicinissimo. Finalmente…
La ragazza riprese a camminare con più energia, superando velocemente l’ingresso del locale, con la catenina stretta nel pugno, contro il petto.
La pianta del Nocturne era di base quella di un grande stanzone rettangolare, un vecchio deposito industriale; Aizen però l’aveva resa particolare riempiendo tutto quello spazio e trasformandolo in un percorso tortuoso, disseminato di tavolini, séparé e divani, i quali avevano anche la funzione di garantire una notevole privacy.
Per coloro che erano soliti avvalersi del più particolare tra i servizi offerti dal Nocturne, quella privacy era fondamentale. E Gin Ichimaru, da sempre addetto ad occuparsi della prostituzione che gravitava intorno al locale, sapeva bene che pochi semplici incentivi – la semioscurità, l’efficacia di un tendaggio, la comodità di un divano – potevano miracoli, in talune situazioni: l’ambiente era fondamentale, e Sousuke era un genio nel crearlo. Lui, invece, si riteneva un individuo più prosaico, e si limitava alla materia prima.
Probabilmente era questo fattore a rendergli tanto sopportabile l’idea che Rangiku si prostituisse in quello stesso locale. Di certo, lei non l’avrebbe trovato affatto sopportabile, se l’avesse saputo.
Ma Rangiku non incontrava mai Gin al lavoro.
Eccetto quella sera.
Che qualcosa non andava, la donna lo aveva capito fin dall’inizio, quando, ancora alle ultime luci del tramonto, si era presentata sul retro con la sua borsa. Halibel era appoggiata alla porta e fumava una sigaretta, le ciglia chiare che tremolavano proiettando ombre di ragno sulla sua pelle scura.
- C’è casino – le aveva detto, laconica, e Rangiku si era stretta nelle spalle; ne aveva già abbastanza dei suoi, di casini.
All’interno, Tousen contava dei soldi, con l’aria seccata. Ma poi quello ce l’aveva sempre, l’aria seccata. Rangiku non lo aveva salutato; lui era un gradino sopra alle ragazze del Nocturne, e non le salutava mai, perciò lei era lieta di ricambiargli la cortesia.
Si era cambiata e, proprio quando cominciava a pensare che non capiva a cosa diavolo si riferisse Halibel, erano entrati Aizen e Cirucci. Lei parlava a voce alta; lui si era limitato a zittirla con un’occhiata prima di andarsene.
- Va’ a prepararti. -
- Certo, certo, mi preparo. – Cirucci aveva sfilato con astio le forcine che le raccoglievano i boccoli neri, sbattendoli sul tavolo di Tousen e dirigendosi verso i piccoli camerini ricavati con qualche tenda vicino ai bagni. Seguita da Rangiku e Halibel si era dipinta gli occhi e il viso con la pesante matita nera, informando le colleghe che era appena passata la tirapiedi della Shihouin, Soifon, latrice di notizie tutt’altro che allegre.
- Quella ha bisogno di scopare, credetemi. -
- Lascia perdere, - l’aveva interrotta Halibel, – cosa ha detto? -
- Ho sentito solo l’inizio… Comunque diceva che l’aveva mandata la sua padrona, che doveva parlare con Aizen, che aveva saputo delle cose urgenti… la polizia… poi lui mi ha cacciata via. -
Rangiku aveva inarcato un sopracciglio. – La polizia? -
- Ma sì, lo sai che sperano di combinare qualcosa da quando la Shihouin ha avuto la bella idea di tornare… l’hai vista l’altra sera, no? Chissà che affari hanno quei due. Comunque sono sicura che sperano di incastrarla finché è in Giappone. Anche Aizen lo sa, per questo è nervoso. -
- Lui non è mai nervoso. -
- Be’, guardalo un po’ meglio, in questi giorni. -
Ma Aizen non si era più fatto vedere, quella sera, mentre il locale si popolava e Rangiku constatava che sì, qualche voce effettivamente girava, un po’ di nervosismo c’era. E proprio quando anche lei cominciava ad essere nervosa, era comparsa, al posto di Aizen, l’ultima persona che si sarebbe aspettata di vedere lì.
- Gin! -
Non l’aveva urlato romanticamente; l’aveva sussurrato con voce spezzata.
Lui era lì, sottile e pallido, in piedi davanti al bar. Parlava con altri uomini, sorrideva e non assomigliava per nulla al suo Gin.
Quando era piccolo, Gin veniva ad aspettarla fuori dalla palestra dove Ran bambina prendeva lezioni di danza. Diceva che veniva a prenderla per riportarla a casa, e lei lo ringraziava con un bacio riprendendo in mano la bicicletta.
Anche in quei pomeriggi di sole Gin sorrideva. Ma non in questo modo.
Rangiku si era spostata lentamente, scivolando su uno sgabello, in attesa di qualcun altro che le facesse un cenno d’intesa. Tra sé sperava che quel qualcuno fosse lui, che lui la avrebbe chiamata; eppure non osava contarci davvero, perché Gin non aveva mai voluto coinvolgerla davvero nel suo lavoro.
Rangiku sapeva, ovviamente, che era coinvolto negli affari di Aizen. Ma non sapeva in quale modo, di preciso. Poiché non lo vedeva mai al locale, come invece capitava per Tousen, aveva immaginato che lavorasse soprattutto all’esterno, magari facendo pubblicità, contattando i fornitori, o chissà cos’altro.
In fondo Rangiku era una maitresse tornita ed elegante come Halibel e Cirucci, ben vestita e ben truccata, che contribuiva all’arredamento del locale e talvolta si portava qualcuno in un angolo ben appartato; non sapeva e non voleva sapere come funzionasse il nutrito gruppo di ragazzine giovani e magre, talvolta straniere, che saziavano appetiti più sotterranei ben lontani dalle luci intermittenti del Nocturne.
Dopo pochi minuti, Gin andò da lei.
Assordata dalla musica ritmata e troppo alta, Rangiku sgranò impercettibilmente gli occhi e lo fissò mentre si avvicinava; Gin sorrideva, un passo avanti all’altro come un felino dai fianchi magri, e guardava lei.
In quel momento Rangiku pensò che avrebbe potuto dirgli qualsiasi cosa. Persino quella che aveva davvero paura a dirgli.
- Tutta sola, Ran? -
- Spiritoso. – Ma aveva sorriso e si era girata.
- Ti offro da bere. -
- Spiritoso. -
Gin era appoggiato al bancone con un gomito, il corpo torto per rivolgersi a lei. – Che c’è? Non posso offrirti da bere? -
- Non pago, e neanche tu - chiarì lei gettandogli un’occhiata divertita.
- Volevo essere un degno cavaliere – replicò Gin, simulando un’espressione perplessa, dispiaciuta.
Rangiku accavallò le gambe e lo ignorò mentre lui tornava a sorridere apertamente, raddrizzandosi.
- C’è agitazione, stasera. -
Così il momento magico passò.
Lui non la guardava più; guardava la sala, tanto gremita che Rangiku si chiedeva se riuscisse a distinguere qualcosa.
- In che senso? -
- Cirucci mi sembra un poco nervosa. – Gin lo disse sorridendo.
Spiritoso, pensò ancora Rangiku. Cirucci era palesemente isterica. Non le piaceva mai quando Aizen la rimetteva al suo posto; in passato si erano frequentati un po’, e lei doveva aver accarezzato sogni troppo grandi per lei. - Tu invece che ci fai qui, Gin? -
- Io? – Si voltò, sorpreso e compito. – Ho pensato di passare a dirti “ciao”. -
Fu allora che Rangiku cominciò a chiedersi se era Cirucci ad essere nervosa, o non c’era qualcuno ancora più nervoso di lei. Aizen non si vedeva; al contrario, si era fatto vivo Gin.
Stava per indagare quando lui domandò, indicandole le clavicole: - Dov’è la tua collana? -
Rangiku si portò le dita allo sterno, sulla pelle calda tra i seni. La collana che metteva sempre la aveva comprata da ragazza coi suoi primi risparmi, e lui le aveva detto che le stava bene. Personalmente quel piccolo gioiello non aveva mai smesso di piacerle, e per questo motivo continuava ad indossarlo.
- Devo averla dimenticata – rispose perplessa, abbassando lo sguardo.
Gin distolse il proprio e sorrise appena. Poi disse: - Lupus in fabula, - che suonò strano per due motivi: il primo era che la frase sembrava singolarmente adatta a lui, l’altro era che Rangiku non lo aveva mai sentito citare in latino.lupus si manifestò nei panni smunti e negli occhi sgranati di Momo, che emerse dalla folla, guardandosi attorno e stringendo al petto le mani, con un’espressione tanto estatica che Rangiku temette avesse preso qualcosa.
Scese dallo sgabello, sotto lo sguardo divertito di Gin, e avvicinandosi capì il senso delle sue parole: Momo teneva tra le dita il filo luccicante della sua collana.
- Cosa fai qui? – esclamò allarmata, tirando l’amica verso di sé. – Se lo sapesse Toushiro… -
- Ti ho portato la catenina, Rangiku… l’avevi dimenticata – spiegò Momo, seguendola docilmente al bancone. Lanciò appena un’occhiata a Gin. Sembrava abbagliata.
- Grazie, ma… - Rangiku prese l’oggetto passandolo in fretta attorno al polso. – Momo, non dovresti essere qui. -
- Che c’è? – protestò l’altra. – Sono adulta. -
- Meno di me, - tagliò corto Rangiku, - e in ogni caso… -
- Ran. – Era proprio come un brutto sogno, pensò la donna: sbagliato, dall’inizio alla fine, e con la sensazione di averlo sempre saputo. – Da quando spingiamo gli ospiti ad andare anziché rimanere? Soprattutto se sono vecchi amici. -
Gin sorrideva, e Rangiku in quel momento lo odiava.
- Come stai, Momo? – domandò Aizen, chinandosi di poco verso la ragazza. – Quanto tempo. -
Parlava proprio come la prima volta, pensò Momo. Emozionata, lo fissava e pensava che non era cambiato affatto.
- Bene, grazie… - rispose in un soffio. – Ero venuta a portare a Rangiku la sua… -
- … la mia collana, già. -
- Ne sono felice. – Aizen sorrise.
- Senti, Momo, qua fa caldo… vieni con me di là e mi aiuti ad allacciarla? – domandò Rangiku, prendendo il braccio dell’altra.
- Veramente, io… - Momo distolse lo sguardo da Aizen posandolo su di lei, un po’ confusa.
Rangiku temette che Aizen avrebbe fatto qualcosa per fermarli, ma né lui né Gin dissero una parola, eccetto scambiarsi – così le parve – uno sguardo. Momo allora annuì, e la seguì. L’una su tacchi affilati e pericolosi, l’altra a piccoli passi, tornarono verso il retro del locale.
Aizen si sporse sul bancone e attirò l’attenzione del barman, che si affrettò a versargli da bere. Porse un bicchiere anche a Gin e solo allora questi domandò, pigramente, ancora appollaiato sul suo sgabello: - La Shihouin è furiosa perché teme che le mandiamo all’aria l’impero, il vecchio Yamamoto ti sta attaccato alle calcagna e tu perdi tempo con quella ragazzina sparuta? -
L’altro non commentò, prendendo un sorso. – Ti preoccupi troppo, Gin. -
- Ma io non mi preoccupo affatto. Penso solo che potremmo spendere meglio le nostre ultime ore di libertà – rise piano Gin, rigirandosi il bicchiere tra le lunghe dita.
Aizen inarcò un sopracciglio. – Ti fidi così poco di me? -
Gin si strinse nelle spalle e per un poco non rispose. Poi scese dallo sgabello, posando il bicchiere vuoto.
- Dove vai? -
– Vado a spendere le mie ultime ore di libertà, meglio di quanto farai tu. -


Ulquiorra l’aveva fatta entrare, senza fare domande. In realtà, non aveva detto nulla. Aveva addosso solo jeans sdruciti e una maglietta ugualmente lisa, ma Orihime l’aveva seguito e aveva richiuso la porta, senza riuscire a staccargli gli occhi di dosso.
Lui si era guardato un po’ attorno, come cercando un modo di collocarla in quella che era la sua casa, col suo disordine e la sua miseria. Lei aveva seguito il suo sguardo, in piedi compita nel suo cappottino, e si era resa conto che non ci sarebbero state presentazioni da fare, scuse da usare con Tatsuki, niente di niente.
Ulquiorra era solo.
L’aveva realizzato e per un istante si era resa conto che avrebbe dovuto essere a casa sua, in attesa di Uryuu, che avrebbe dovuto essere spaventata, che non conosceva Ulquiorra, che era in una zona pericolosa della città…
Allora sollevò lo sguardo verso di lui per parlargli e trovò che lui la osservava, in piedi vicino all’acquaio, dando le spalle alla finestra. Fuori, la notte era pallida e niente si muoveva. C’era la luce della luna.
Il ragazzo sembrava avere la pelle bianca. Persino il suo trucco era un po’ sbiadito.
- Non dovrei essere qui… - ammise Orihime, chiedendosi se lui avrebbe capito.
E allora Ulquiorra la prese in contropiede dicendo: - Credo di no. -
Lei sgranò gli occhi, lui non mutò espressione.
- Allora perché sei qui? -
- Perché… perché… - Senza poterne fare a meno, Orihime prese a torcersi le mani. – Perché tu… -
- Io? – Ulquiorra fece un passo avanti. Il suo tono era perplesso.
Orihime si rese conto di stare osservandolo con sguardo spaventato; d’altronde, lui aveva ragione. Che cosa aveva mai fatto, lui? Era lei, lei che non riusciva a…
Quindi disse: - Io… - e stavolta lui ripeté in tono diverso, - Tu. – Lo disse come se ora avesse capito.
Orihime non sapeva più cosa dire, e rimase in silenzio mentre lui si avvicinava ancora. C’era qualcosa di emozionante nel sentirlo parlare, nel sentirlo rispondere, nel sentire la sua voce in risposta alla propria.
Perciò disse: - Il mio nome è Orihime, - e lui allungò una mano, sollevò una ciocca dei suoi capelli e ancora ripeté: - Orihime – proprio come lei aveva sperato.
Si appropriò del suo nome, e a quel punto la ragazza pensò che aveva senso lasciargli prendere anche il resto.
Sfilò il cappotto mentre Ulquiorra lasciava andare i capelli, e si girò per appoggiarlo sulla vecchia sedia. Nel farlo disse, - So già il tuo nome –, cosa alla quale lui non rispose. Quando si voltò di nuovo, lui non aveva mutato espressione, e non lo fece neppure quando lei si avvicinò e lo baciò.
Per un istante pensò che non sarebbe riuscita a fargliela cambiare mai, ma stranamente non avrebbe saputo dire se la cosa la preoccupasse o meno. In quel momento era tutto così surreale che non riusciva a comprendere le proprie emozioni, né a trovare il modo di interrogarsi su quelle di lui. Si aggrappò invece alle sue spalle e alle sue labbra, finché non furono contro il divano, e senza avere una precisa idea di quando avesse cominciato, Orihime poteva finalmente sentire la mani di Ulquiorra sulla schiena e la sua lingua.
Lo spogliò e baciò il suo petto magro e lo sterno, le mani aggrappate sui suoi fianchi. Sentiva le dita di Ulquiorra scorrerle sulle scapole, tirarle i capelli, stringerle le spalle, e poi lo sentì pronunciare il suo nome.
Non pensò mai ad Uryuu.


A qualche isolato di distanza, per spendere nel modo migliore le sue ultime ore di libertà, Gin stava penetrando Rangiku con dolorosa soddisfazione, e non si curava che lei gli affondasse le unghie nella pelle tanto forte da fargli male.
La spingeva contro la parete fredda di fianco al lavandino e allo specchio di quel camerino arrangiato, un braccio appoggiato al muro sopra di loro e l’altro che stringeva Rangiku per le spalle tenendola premuta contro di sé. La sentiva ansimare e gemere di gemiti confusi contro il suo petto, mentre lo cingeva con entrambe le braccia, e appoggiava la testa nell’incavo della sua spalla, i capelli appiccicati alla fronte per il sudore.
- Gin, - mormorò lei, la voce stravolta, strappando quell’invocazione tra l’una e l’altra delle ultime spinte con le quali Gin scavava il fondo di quell’orgasmo, poco gentile verso di lei e verso la tappezzeria.
- Ti ricordi quando… - si interruppe per riprendere fiato, rilassando i polsi e le nocche e trasformando la loro presa di ferro in una carezza benevola sulla colonna vertebrale dell’uomo - quando ballavo? Ricordi quando venivi a vedermi? -
- Sì, Ran. – Odiava quando ne parlava.
Rangiku mosse piano la testa, carezzandogli il petto con la fronte e con la frangia. – Ero brava, vero? -
- Me lo ricordo. -
- Ti ricordi anche cosa progettavamo? -
Gin era indeciso. Lasciarla andare, risistemarsi camicia e pantaloni, o rimanere così?
Il braccio piegato contro la parete cominciava a fargli male. Ma non voleva abbandonare la sensazione di calore di rimanere per un po’ dentro di lei.
Anche se odiava quel discorso.
- Te lo ricordi? – Rangiku ripeté la domanda e gli artigliò la pelle. Fu allora che lui comprese: a bagnargli la camicia non era solo sudore.
- Sì. -
- Io sarei diventata una ballerina, e tu il mio manager. – Rangiku rise all’improvviso, in piccoli singulti. – Come eravamo stupidi. -
Gin chinò la testa. – Non dire così. In fondo è quasi vero, no, Ran? -
Lei sollevò lo sguardo, fissandolo con gli occhi umidi e spalancati. – Come? -
- In un certo senso, lo abbiamo fatto. -
Gin si staccò da lei e Rangiku gemette appena.
- E’ meglio che io vada di là. – Armeggiò con la chiusura dei pantaloni mentre lei si riabbassava la gonna lentamente, una mano appesa al collo, dove lui le aveva riallacciato la catenina poco prima, e lo sguardo perso nel vuoto.
- A più tardi. -
Gin fece per uscire, ma lei lo chiamò, quasi con urgenza. Lui si fermò per un istante, lanciandole un’occhiata: - Cosa c’è? -
Ma incontrò solo lo sguardo sperduto di Rangiku, che lo fissò come se non lo riconoscesse e dopo un istante scosse la testa: - No. Niente. -
- A dopo, Ran. – Gin richiuse la porta. Rangiku scivolò sul pavimento e per la prima volta dopo molto tempo si strinse le ginocchia con le braccia e pianse in silenzio.



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Okay. Bene. Nel caso qualcuno legga questi capitoli, la triste verità è: sono arrivata fino a qui. Il resto è da scrivere e spero di riuscirci, ma, in totale immedesimazione col maestro GRRMartin, non garantisco nulla. XD Le date di questa storia fanno ben capire quanto tempo sia passato da quando l’ho concepita, iniziata, e portata avanti, di getto, fino al considerevole – per i miei standard – traguardo dei 14 capitoli: in teoria per la fine ne mancano tre e mezzo, il che è poco, ma al contempo il fandom di Bleach è lontano anni luce dai miei interessi attuali, e non so se riuscirò mai a “recuperare il filo” in maniera da finire questa fic.
Non rinnego niente, beninteso. Ho solo spostato la mia attenzione, ora come ora. XD
E proprio perché non rinnego niente, la mia volontà sarebbe quella di finire, almeno filologicamente parlando, lasciandovi tutto quanto effettivamente scritto: cioè questo. Per il futuro si vedrà. Grazie mille per le recensioni che tutt’ora ricevo su questa fic e molte altre: sono tutte troppo lusinghiere e non penso di meritare la metà dei complimenti che mi vengono rivolti, ciononostante mi fanno un immenso piacere.

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