And the reason is you

di _joy
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Ginny 1 - Ben 0 ***
Capitolo 2: *** London, here we are! ***
Capitolo 3: *** Gelosa, io?! ***
Capitolo 4: *** Odio le partenze ***
Capitolo 5: *** Troppo grassa, brutta e insignificante ***
Capitolo 6: *** Di chi è la colpa? ***
Capitolo 7: *** Questa notte ***
Capitolo 8: *** Sms e mail notturne ***
Capitolo 9: *** L'America ***
Capitolo 10: *** Socializzare? ***
Capitolo 11: *** Il provino ***
Capitolo 12: *** Tensione ***
Capitolo 13: *** Volere tutto, volere Hollywood ***
Capitolo 14: *** E' solo una tua fantasia, vero? ***
Capitolo 15: *** Quando esattamente è prima o poi ***
Capitolo 16: *** Tempo ***
Capitolo 17: *** Un avvertimento ***
Capitolo 18: *** La situazione va peggiorando ***
Capitolo 19: *** Non te ne sei nemmeno accorto ***
Capitolo 20: *** Posso fidarmi? ***
Capitolo 21: *** Non lo so ***
Capitolo 22: *** Il coraggio di crescere ***
Capitolo 23: *** Sei mesi dopo ***
Capitolo 24: *** Il tempo che passa non ha più importanza ***
Capitolo 25: *** Mi sembra un incubo ***
Capitolo 26: *** Ma io non sono più lei ***
Capitolo 27: *** Colpe ***
Capitolo 28: *** E adesso? ***
Capitolo 29: *** Non ci sono solo io ***
Capitolo 30: *** Potrò sempre aspettare te ***
Capitolo 31: *** Sì o no ***
Capitolo 32: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Ginny 1 - Ben 0 ***


Prendo fiato, incredula.
 
Raramente mi succede di sentirmi così.
Così come se i miei occhi non bastassero a raccogliere tutta questa bellezza.
Come se il mio cuore non potesse contenere la meraviglia.
 
Sono frastornata.
E non dipende dalle migliaia di persone che mi sciamano intorno.
 
Muovo un passo, esitante, e mi sento urtare.
«Sorry» mi dice seccato un tizio in completo scuro, che ha l’aria di sottintendere che sono un’idiota e la colpa è mia perché mi muovo come un elefante.
Vorrei scusarmi, ma ci metto un attimo a ricordarmi come si fa a parlare.
 
Sento due mani prendermi delicatamente per la vita e tirarmi indietro.
«Ehi, piccola. Attenzione»
 
Mi appoggio con la schiena al petto di Ben e sento le sue braccia circondarmi subito.
Sospiro, felice.
«C’è tantissima gente. Un po’ mi disorienta»
«Lo so» mi bisbiglia lui all’orecchio, prima di baciarmi delicatamente la tempia.
«È…meraviglioso»
 
Non lo guardo, ma lo sento sorridere.
Mi stringe più forte.
«Davvero? Ti piace?»
Sorrido e mi volto tra le sue braccia, senza allontanarmi.
 
Alzo la mano e sollevo i suoi Rayban a goccia.
E incrocio quello sguardo scuro e appassionato che mi ha fatta innamorare.
Ben sorride – uno di quei sorrisi che solo lui sa fare – e arriccia il naso.
Lo fisso per un attimo infinito, assaporando ogni dettaglio del suo viso perfetto.
Poi mi alzo sulle punte dei piedi per rubargli un bacio.
Sento le sue mani infilarsi tra i miei capelli e imprigionarmi.
Non che io intenda spostarmi di qui.
Allaccio le mani dietro il suo collo e mi perdo nel suo bacio.
 
A questo punto, potrebbero passarci sopra con un carro armato e probabilmente noi non ce ne accorgeremmo.
Solo che Ben riesce ad essere molto più razionale di me, come sempre.
All’ennesimo spintone che prendiamo, stacca le labbra dalle mie malgrado io mugugni disapprovando e mi prende le mani per tirarmi via dalla scalinata di accesso della National Gallery.
 
Stavo ammirando Trafalgar Square, ai miei piedi.
Prima di perdermi nel mio passatempo preferito, che è ammirare Ben.
In fondo, Londra c’è da secoli.
Lui è molto più magico.
 
Sono andata via di testa, ormai è una certezza.
 
 
Ben mi prende per mano e mi porta di nuovo nelle sale interne.
Malgrado il via vai di innumerevoli persone, io trovo questo posto rilassante.
Ci sediamo su una panchina e io mi accoccolo tra le braccia del mio ragazzo, felice.
Assurdamente felice.
Sono nella città più bella del mondo.
E sono insieme a lui.
Chiudo gli occhi e sospiro.
Lo sento baciarmi dolcemente i capelli.
«Cosa vuoi fare adesso?» mi chiede.
«Vedere la galleria dove ci sono le opere di Tiziano, per favore. Poi vorrei andare sul London Eye, mangiare un hamburger, passare a prendere la cena e fiondarmi a casa con te e non uscire più per due giorni. Anzi, no. L’hamburger appena usciti di qui»
Lui ride.
Un suono che mi scalda il cuore.
«Non sei stanca di farmi fare il turista?» borbotta, scherzoso «Insomma, io sono un  Londoner, dopotutto»
Ma io sorrido.
«La tua ragazza però è una neofita, no?»
Lui arriccia il naso.
«Neo…? Ma non eravamo d’accordo che ora che siamo a Londra ti tocca parlare in inglese?»
«Ehm…ma tu sei taaaanto più bravo di me con le lingue, amore…»
«Gin» ecco, lo sapevo. Non lo frego «Mi sembra di ricordare che una certa ragazza di mia conoscenza avesse detto che deve migliorare nella lingua per cercarsi un lavoro. Ti dice qualcosa?»
«Hum…no?»
Tento un sorriso conciliatore, ma Ben ha l’aria dei momenti seri.
Sbuffo.
«Uffa. Tu parli benissimo l’italiano e io faccio schifo con l’inglese. È imbarazzante»
«Non è imbarazzante» dice, paziente «Fai finta che io sia il tuo teacher»
«Tu sei il mio ragazzo! Non riesco a far finta che non sia così. È più imbarazzante fare figuracce con te che con un estraneo!»
Lui scuote il capo.
«Amore, se devi iniziare a lavorare come pensi di cavartela? Dai, almeno un po’… Hai me. Puoi esercitarti quando vuoi…»
 
Ok.
Non doveva dirlo.
Peggio per lui.
 
Chino il capo per baciargli il collo, quel lungo collo stupendo ed elegante di cui madre natura lo ha dotato.
Lo sento ridacchiare.
«Non stavo suggerendo di essere a disposizione per questo…»
Sorrido con le labbra sulla sua pelle e poi gli mordo delicatamente la gola.
Lo sento trattenere il fiato.
Apro appena gli occhi per guardarmi attorno, ma nessuno bada a noi.
Benissimo.
Con la punta della lingua sfioro la sua pelle profumata, lentamente.
Lui sobbalza.
Io gli bacio dolcemente il pomo d’adamo, che va su e giù, quasi impazzito.
E Ben mi stringe tra le braccia e mi tira in piedi insieme a lui, con decisione, in un unico movimento.
«Scherzavo. Sono  sempre  a disposizione, per questo»
Afferra la mia mano e mi trascina fuori.
E, mentre corriamo verso la fermata degli autobus, mano nella mano, non posso fare a meno di ridere, felice.
 
Ginny 1 – Ben 0.
 
 

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Capitolo 2
*** London, here we are! ***


Stesa a letto, con la testa sul petto di Ben, sbatto le palpebre e sospiro, felice.
Mmmm…
Potrei passare la vita a letto con questo ragazzo.
Non che sia la sua unica dote, chiaro.
È anche bellissimo, talentuoso, intelligente, divertente… l’ho detto bellissimo?
Ecco.
 
Sento la sua mano accarezzare pigramente la mia schiena.
Volto il capo per guardarlo e lo vedo sorridermi.
«Ehi»
«Ehi» mormoro, sognante.
«Ci hai ripensato sul London Eye, vero? Possiamo passare direttamente alla parte in cui stiamo due giorni di fila chiusi in casa?»
Rido e mi alzo sul gomito per dargli un bacio.
Sono talmente rilassata che penso potrei non muovermi più per una settimana.
 
 
Ma, ovviamente, l’effetto dura sì e no due baci, di quelli di Ben.
Cinque minuti dopo sto di nuovo ansimando, con lui che è steso sopra di me e bacia e succhia voracemente il mio seno.
Gli infilo le mani tra i capelli e poi scendo a toccare le spalle, la schiena, fino ai suoi glutei, che stringo forte tra le mani, incoraggiandolo a fare di più, a non smettere mai…
«Ben» gemo, buttando indietro la testa per lasciargli libero accesso.
 «Tu mi ucciderai» borbotta lui, tra il serio e il faceto.
Morde delicatamente il mio collo e la spalla mentre io rido.
«Sì, certo… Non hai più l’età, eh?»
Lui sbuffa e io gli poso una mano sul petto, facendolo sdraiare e appoggiandomi per metà sopra di lui: il fianco incollato al suo, le gambe intrecciate.
«Dai, vecchietto: riposa, respira, riprendi fiato…»
«Ehi!»
Lui mi morde giocosamente e io strillo.
«Cos’hai da lamentarti, eh?»
Lo guardo con occhi fintamente pentiti.
«Oh, scusa, mio signore, amore mio… dicevo solo di non preoccuparti se non ce la fai che io ti voglio bene lo stesso…ah!»
Urlo e rido mentre lui mi rotola sopra e mi imprigiona i polsi nelle sue mani.
Mi guarda truce e io rido ancora.
«Scusa…scusa! Scherzavo! Non farmi il solletico!»
«Altro che il solletico ti meriti! Simpaticona!»
Mi mordo il labbro.
«Ben?»
«Eh?»
«Ti amo tanto…»
«Hum, sì, ho visto. Com’è che si dice, in italiano? Paracula»
Lo pronuncia metà in inglese e metà in italiano e mi strappa un’altra risata.
«Smettila di imparare le parolacce, piccolo Lord! Non sta bene!»
Mi mostra la lingua, ammiccando.
«Così sono vecchio, eh?»
«» rispondo, impenitente.
Lui abbassa la testa sul mio seno e inizia a lambirlo con la lingua.
 
In due secondi mi passa la voglia di ridere.
 
Cerco di muovere le mani per stringerlo, ma lui rafforza la stretta sui miei polsi.
Poi scende con la bocca e lascia una traccia di baci sulla mia pancia.
Quando arriva al basso ventre io mi sto contorcendo.
«Ben ti prego...Voglio toccarti anch’io…»
Ma niente da fare.
Oddio, odio non poterlo toccare.
Sono in preda alla smania più totale.
Mi divincolo ma lui si china a baciarmi l’interno coscia.
Gemo e inarco il bacino.
«Ben…»
E, alla fine, mi lascia le mani per afferrarmi i fianchi, come se non volesse permettermi di allontanarmi da lui.
 
Come se potessi mai allontanarmi da lui.
 
Intreccio le gambe alle sue e, quando entra dentro di me, ci muoviamo insieme, in sincronia perfetta.
Rispondo alle sue spinte con vigore e vengo premiata da un’esplosione di luce: arriviamo all’orgasmo contemporaneamente.
Fantastico.
Il sesso con Ben è una cosa incredibile.
 
Quando ridiscendo sulla terra e metto a fuoco la mia stanza lo sento ansimare vicino a me.
Volto il capo e lo osservo, mentre ha gli occhi chiusi: i capelli scompigliati, le guance rosse.
Mi forzo a sollevarmi (mmm…. Ci starebbe una bella dormita!) e gli bacio piano la guancia.
Lui apre un occhio.
«Ti amo» gli dico.
E sono seria.
Sono sempre seria, quando glielo dico, ma stavolta non voglio scherzare o stuzzicarlo.
E vedo da come mi sorride che lo sa.
«Anche io…»
 
Quando riapro gli occhi è sceso il buio.
Sbatto le palpebre.
Ben è disteso accanto a me, con un braccio sul mio petto.
Mi prendo due minuti per ammirarlo mentre dorme, con le labbra socchiuse e il viso rilassato, e poi mi muovo dolcemente, cercando di non disturbarlo.
Lui aggrotta la fronte quando gli sposto il braccio, ma gli accarezzo i capelli e non apre nemmeno gli occhi.
Lo copro con il plaid che è in fondo al letto e mi alzo.
Vado in bagno e accendo la luce.
Davanti allo specchio mi passo le mani tra i capelli e poi li raccolgo in un nodo sulla sommità del capo.
Apro l’acqua della doccia e la faccio correre.
Poi rientro in camera, senza accendere la luce: si vede solo il chiarore del bagno.
Mi siedo sul bordo del letto e bacio Ben sulla fronte.
«Amore, sveglia…»
Niente.
Dorme come un sasso.
Gli bacio le guance e le labbra, delicatamente.
Se lo svegli di colpo diventa un orso.
 
Quando apre gli occhi sembra disorientato.
Gli sorrido mentre gli accarezzo i capelli e mi viene in mente che facevo così con mio cugino, quando da piccolino gli facevo da babysitter e dopo aver scorrazzato per ore crollava addormentato: quando si svegliava ci voleva sempre un po’ per riportarlo nel mondo reale.
 
«Doccia?» chiedo.
Lui annuisce, ma richiude gli occhi.
«Doccia e poi pizza?»
«Mmm…»
È un sì?
Gli tolgo la coperta di dosso e lo scuoto piano.
«Dai, bell’addormentato… Prince Caspian the Sleeping…»
Lui sorride, sonnacchioso.
Il regista de “Il Principe Caspian” lo chiamava così, è una cosa che lo diverte ancora.
«Amore non costringermi a svegliarti con la mia pessima pronuncia inglese…»
Fa un sorrisino e si passa un braccio sugli occhi.
Poi si mette a sedere.
«Vuoi uscire?» chiede, con l’aria di un condannato a morte.
 
Mi guardo attorno nella mia nuova stanza: c’è un casino allucinante.
Scatoloni semiaperti con roba che spunta da tutte le parti, scrivania sommersa e armadio già dolorosamente pieno.
Che dire?
Una ragazza deve portarsi dietro le sue cose, dopotutto.
Solo che quando Ben ha visto qual era esattamente la dimensione delle “cose” si è un filino allarmato.
 
«Sì, usciamo» rispondo.
Meglio portarlo fuori, prima che ricominci con la storia del “quando intendi mettere ordine qui dentro?”
Il fatto è che lui è proprio preciso…
 
*  
Ok, non è che si è allarmato, si è proprio incavolato.
Sostiene che io gli avevo detto “poche cose, giusto l’indispensabile”.
E infatti.
Non è colpa mia se per lui l’indispensabile sta in un borsone a mano e per me sta in un tir.
Abbiamo “indispensabili” diversi, tutto qui.
 
Quando sono arrivata sono stata un paio di giorni a casa di Ben.
Che in realtà è casa di Ben e Jack, perché lui vive con suo fratello.
Però siamo entrambi d’accordo sul fatto che non vogliamo bruciare i tempi: lui con suo fratello si trova benissimo e poi è sempre via per lavoro.
Io non so ancora cosa ne sarà di me: nuova città, nuove prospettive, nuovo lavoro…
Mi serve tempo.
E spazio.
E vivere con una persona, anche se si tratta di Ben, è un passo enorme.
Noi due abbiamo già bruciato un sacco di tappe… del resto, se ti capita di incontrare l’amore cosa fai, gli dici di no, grazie, troppo complicato, troppo rischioso?
Non esiste.
Per cui, ci siamo lasciati travolgere e ora vediamo di destreggiarci tra un lavoro assolutamente nomade (il suo), una vita resettata (la mia), una nuova città e i nostri spazi.
 
Detto questo, io voglio stare solo con Ben.
E infatti passiamo insieme ogni secondo del tempo libero che lui ha.
Io ne ho a valanghe: nella mia inesperienza, credevo che fissata l’idea del film che hai in mente di girare (e per il quale io dovrei lavorare), via così: si partisse e basta.
E invece no: il cast non è chiuso e le decisioni, gli allestimenti e tutte le cose (a me ignote) che stanno dietro la preparazione di un film richiedono tempi lunghi.
Anche tipo un anno.
 
Un anno.
 
Capite?
Già io sono una che “si-fa-tutto-in-due-giorni” … in più l’equazione Gin a Londra senza lavoro - Ben in giro con tanto lavoro…. Come dire, non tornava.
 
Ovviamente, Ben si è preso la colpa.
Si è accusato di aver dato per scontato meccanismi per lui ovvi ma per me no e di avermi fatta trasferire per egoismo.
Ci ho messo una settimana a fargli digerire il fatto che io mi sono trasferita proprio perché amo questo egoismo.
Mi spiego: lui mi vuole con sé.
Io me ne frego del resto.
Il lavoro sarà sicuramente interessante ma, pur di stare con lui, io venderei patatine fritte per strada, quindi cosa c’è di più importante del sapere che mi vuole con sé, nella sua città?
 
Poi ho cercato di introdurre timidamente l’idea che un lavoretto comunque devo cercarlo… e allora apriti cielo.
Fargli digerire questo è stato ancora più complicato.
È chiaro che dovrò accontentarmi di un lavoro semplice, visto che non conosco abbastanza l’inglese per lavorare nella comunicazione, come facevo in Italia: serve una padronanza perfetta della lingua.
Tra l’altro, quando inizierò a lavorare nella crew del film di Ben, la lingua mi servirà, per cui tanto vale che mi rimbocchi le maniche.
E poi io non posso stare senza far nulla e non voglio fare la mantenuta.
Lui però fa la faccia dispiaciuta al solo sentire la parola “accontentarsi”: ma io che ci posso fare?
 
Sotto la doccia, mentre gli insapono la schiena, penso che varrebbe la pena di fare qualunque cosa, per un solo momento come questo con lui.
 
*
 
Ben mi porta sul Tamigi, verso il Tower Bridge.
Quanto lo amo.
Adoro questa zona sempre, ma di notte è il posto più romantico che esista, secondo me.
Ceniamo in un ristorante tranquillo, elegante, e ovviamente Ben insiste per pagare.
«Amore, non puoi sempre offrirmi la cena» protesto.
«Non ti offro la cena» ribatte mr. Psicologia inversa «Tu cucini e io ti porto a cena fuori: vale per tutte le volte che non cucino io»
Sorrido, ma questo fatto mi angoscia.
Io non posso offrirgli niente di quello cui è abituato, se fa così.
«Non è lo stesso, e lo sai. Per prima cosa eviti sempre di farmi fare qualsiasi lavoro e poi un piatto di pasta o un tiramisù non valgono una cena qui…»
«Domani mi cucini la carbonara?»
Interrompe le mie proteste sul nascere, perché sa che questa discussione tra noi può protrarsi nei secoli.
Sospiro e poi annuisco.
«Amore, davvero, non è niente… non preoccuparti, è una sciocchezza. Non voglio nemmeno che ci pensi»
«Ben, tu sei la persona più generosa che conosco ma mi sembra di pesare su di te e non è giusto…»
«Gin, ma che dici?» lo vedo che ci resta male, gli si incupiscono gli occhi «Senti, già ti sei sistemata in una zona che…»
«Ben…»
«Tesoro, ascolta, non è sicuro. Questa non è una città semplice, me ne rendo conto. Vorrei solo sapere che ti trovi bene, che sei tranquilla…»
«Ma è così!»
 
Lui si morde un labbro e lo so che è perché in realtà intendeva che vorrebbe sapermi al sicuro in una zona ricca e tranquilla, con un buono stipendio e una vita regolare.
Non è uno snob o una persona pretenziosa, anzi: lavora seriamente ed è molto corretto, solo che viene da una famiglia agiata e Londra l’ha sempre vissuta in un certo modo.
E non credo gli piaccia sapere che per me non sarà lo stesso.
Si preoccupa talmente per me… sa che spesso è all’estero, che io qui non ho amici.
Ma è una città talmente meravigliosa: come fai ad essere infelice a Londra?
Basta uscire e c’è tutto. Il mondo.
 
Ben sospira e fa per alzarsi.
«Andiamo?»
Annuisco e prendo la borsa.
Fuori, infilo la mano nella sua.
Lui si volta a guardarmi e io gli sorrido.
Siamo così felici… che importa una casa o un lavoro?
So che Ben è protettivo, ma io so cavarmela… sono sopravvissuta a Milano, non sono una sprovveduta e voglio dipendere dal mio ragazzo solo per il fatto che viviamo nella stessa città: la scoprirò con i miei tempi e mi abituerò.
Tutto qui.
 
Fisso l’acqua scura del fiume mentre accarezzo con il pollice la mano di Ben.
In quel momento gli suona il cellulare.
Lui parla un minuto e poi mi guarda con aria di scusa.
«Domani devo vedere il mio agente…Ti spiace?»
Io reprimo una smorfia.
«Figurati!» dico, con entusiasmo esagerato.
 
Non è che mi spiace.
È che il suo agente mi sta proprio sulle scatole.

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Capitolo 3
*** Gelosa, io?! ***


Del resto, è assolutamente reciproco.
 
Voglio dire: sono sicura che la mia antipatia per l’agente di Ben è assolutamente reciproca.
È una di quelle cose che si capiscono a pelle, da subito.
 
Quando siamo arrivati a Londra, tra le persone che Ben mi ha presentato per prime c’era anche il suo agente, visto che lavorano a strettissimo contatto e – stando a quel che dice il mio ragazzo – sente più lui che sua madre.
E così, Gin meets TJ.
 
E a TJ Gin non è piaciuta affatto.
 
Lo so, ne sono certa.
 
È stato falsamente cortese e totalmente disinteressato per tutto il tempo che abbiamo passato insieme: poco, per giunta, perché ha garbatamente sottolineato che la mia pessima pronuncia gli impediva di condurre una conversazione degna di questo nome.
Poi ha fatto una risatina falsa, ma la sostanza resta.
Per tutto il resto della serata mi ha ignorata apertamente, tranne quando Ben era accanto a me, momenti nei quali diventava assurdamente complimentoso (e altrettanto falso).
 
All’inizio sono rimasta di sasso.
Non capivo da cosa dipendesse questo suo comportamento.
E quando l’ho chiesto a Ben, lui all’inizio ha negato, poi ha ammesso che la prima reazione di TJ è stata di sorpresa, perché è preoccupato che io distragga Ben dal lavoro.
«E ha ragione» ha mormorato Ben quella notte, mentre mi spogliava delicatamente «Tu mi distrai. E parecchio»
 
Solo che Ben sottovaluta questo stato di cose: secondo lui io sto simpatica a chiunque.
Ho provato un paio di volte a dirgli che TJ non mi tollera, ma lui non vuole sentirne parlare.
E siccome TJ davanti a Ben è il ritratto della cortesia (falsa, ma cortese), alla fine ho lasciato perdere perché non voglio sembrare una con i complessi di persecuzione.
 
Ok, sto sulle balle al suo agente.
Va bene.
Io lo, TJ lo sa.
Me ne frega qualcosa?
Anche no.
Io vivo benissimo.
 
Certo, poi ci sono i momenti, come oggi, in cui siamo costretti a vederci… ma pazienza.
Posso sempre immaginare di essere stesa su una spiaggia dei Caraibi a prendere il sole, mentre loro parlano di lavoro.
 
Entriamo nello studio e TJ sorride a Ben precipitandosi ad abbracciarlo.
Ben gli dà una pacca sulla spalla e poi mi tira dolcemente per la mano.
«Ah, eccola qua» commenta l’agente, il sorriso raggelato «E così, Ginevra, sei ancora a Londra…meraviglioso…»
Il “meraviglioso” arriva con un certo ritardo.
Io faccio un sorriso freddo e educato e gli rispondo in inglese che io ormai vivo qui e mi ci trovo pure benissimo.
Lui, con la faccia da culo che mostra evidentemente solo con me e con quelli che non gradisce, ribatte:
«Sorry… what?  I can’t understand…»
 
Arrossisco.
Ma vaffanculo.
 
Ben interviene subito.
«TJ, guarda che Gin vive qui, non è in vacanza…»
«Ah, ma… Bè, certo un trasferimento è una cosa impegnativa… Anche per te, Ben. Non puoi permetterti di restare legato ora…»
Ma che dice?
Sgrano gli occhi, ma Ben mi abbraccia e mi sfiora la tempia con un bacio.
«Non ci siamo capiti» dice, tranquillo «La mia vita privata è e resta privata. Ginny è qui perché lo abbiamo deciso insieme e questa è una decisione solo nostra. Poi, che ho dei doveri lavorativi io lo so bene. Tranquillo, non ti farò scherzi. Ma non c’entra con noi due»
 
Lo amo.
Lo amo alla follia.
Gli passo le braccia attorno alla vita e scocco un sorrisino soddisfatto in direzione di TJ, che è sbiancato.
 
«Ah, Ben, ma che belle parole…» tenta subito lui di recuperare «Ma certo, certo… io volevo solo dire che sarai molto all’estero quest’anno…. Del resto il grande cinema si fa in America e tu devi pensare alla tua carriera… ma so che Ginevra è d’accordo con me!»
 
Ah, adesso parlo abbastanza bene da poter essere interpellata?
 
Comunque, annuisco.
Voglio che Ben sia felice e il suo lavoro lo rende felice.
Quindi, c’è poco da dire.
«Bè, per l’America, stavo pensando…» Ben mi guarda «Magari vuoi… Bè, potresti venire con me…per lavoro. Insomma, tipo… assistente?»
Lo dice in tono esitante e arrossisce leggermente, come se si vergognasse a dirlo.
Io sgrano gli occhi: non mi aveva mai parlato di questa idea.
Sono combattuta.
Da una parte, voglio fare da sola e essere indipendente.
Non ho cinque anni e lui non può passare il tempo a preoccuparsi per me.
Dall’altra… l’America. Con Ben.
Sticazzi.
 
«Non è una buona idea» interviene TJ, stavolta lapidario.
Sia io che Ben ci irrigidiamo, ma lui prosegue.
«Non devi metterla in questa situazione, Ben. Innanzitutto tu non puoi farle da balia e lei non può farlo a te. Farebbe male al vostro rapporto. Poi, sai che su un set si viene a sapere tutto e che figura ci faresti a portare la tua ragazza come assistente? Nella migliore delle ipotesi vi riderebbero tutti dietro. Mi sembrava di aver capito che Ginevra ha altre competenze»
Ben arrossisce.
«Io… Scusa Gin. Scusami!» mi guarda, preoccupato «Non volevo offenderti!»
Parla mezzo in italiano e mezzo in inglese per l’agitazione, ma io gli sorrido.
«Amore, tranquillo, non mi sono offesa! È una bellissima idea!»
Guardo male TJ, ma lui resta impassibile.
«Lo so che lo hai detto per portarmi con te, come potrei dispiacermi? Ma se questo può anche solo lontanamente causare problemi  a te, allora vorrà dire che verrò in America come tua fidanzata in vacanza. Che ne dici?»
Ben sorride e annuisce.
So che questo non risolve del tutto la questione, perché lui starà in America per un tempo molto più lungo di una vacanza… ma qualcosa ci inventeremo.
«Ginevra, se vuoi…» interviene TJ «Ben mi ha detto che cerchi un qualche lavoro, in attesa del film»
Faccio un cenno con il capo.
«Bè, se vuoi fare esperienza su un set posso trovarti qualcosa…»
Scrolla le spalle e io esito.
Non mi fido affatto di lui.
Ben invece sembra contento.
«Ehi, non male come idea! Che dici tesoro? Niente di troppo impegnativo e che sia un set tranquillo, sia chiaro»
Rivolge a TJ uno sguardo penetrante e a me uno radioso.
Ecco.
Quando fa così, io come dovrei fare a dire no?
 
Quindi acconsento, ma dall’occhiata che mi rivolge TJ ho idea che me ne pentirò.
 
Ma non ho tempo di preoccuparmene ora.
Ben ha in programma qualche intervista e un servizio fotografico per lanciare i prossimi film.
E io posso andare con lui.
 
 
La mattina dopo ci alziamo, recupero qualcosa da mettere al volo tra le macerie del mio trasloco mentre Ben borbotta in sottofondo e usciamo.
Dopo colazione andiamo allo studio dove si farà il servizio fotografico.
Sono emozionata.
Saltello per le scale e Ben ride e mi dice:
«Amore, ma tu lo sai com’è un servizio fotografico, ne hai già seguiti per lavoro!»
«Ma non ho mai visto un  tuo  servizio fotografico!» ribatto «Non è la stessa cosa!»
Lui ride di nuovo e all’improvviso mi bacia.
Finisco con la schiena contro il muro, ma non intendo lamentarmi.
Sospiro e infilo le dita tra i suoi capelli scuri, mentre la sua lingua stuzzica e rincorre la mia.
Inizio a sentire un certo languore al basso ventre, quando sento una porta aprirsi e qualcuno dire qualcosa in inglese.
Ci stacchiamo di botto e Ben si ricompone in un secondo e saluta la ragazza che ci ha aperto la porta.
Io devo avere un’aria meno composta, a giudicare dall’occhiata che mi lancia lei.
«Prego, accomodatevi» mormora, prima di farci strada lungo un corridoio stretto e invaso di scatole e scatoloni.
«Non dire più che casa mia è disordinata» mormoro a Ben e lui sogghigna, prima di passarmi una mano tra i capelli per sistemarmeli.
Dei due, sicuramente io ho un aspetto disastrato, mentre lui è perfetto come sempre.
 
Arriviamo sul set e Ben incontra il fotografo e i suoi assistenti, poi, dopo aver parlato un po’, si fa avanti una ragazza che lo accompagna al trucco.
Ben mi dà un bacio discreto.
«Prendi un caffè, se vuoi… ci metteranno un po’»
«No, perché sei già perfetto» mormoro io sulle sue labbra «Tu lo vuoi un caffè?»
Lui annuisce e si allontana, mentre io vago per lo studio.
Non è propriamente uno studio, è a metà tra un set e un appartamento: sono stati ricreati degli ambienti domestici, tra cui un soggiorno e una camera da letto.
Ci sono persone che montano le luci e provano delle inquadrature.
Alla fine trovo l’angolo ristorazione e chiedo due caffè.
Una ragazza molto gentile me li prepara e mi fa qualche domanda.
Ammetto con imbarazzo che non capisco tutto, ma lei è molto paziente e quindi chiacchieriamo lo stesso.
Mi chiede cosa faccio lì, da dove vengo, dove abito, se mi piace Londra, se lavoro nel settore…
Rispondo con il mio inglese oxfordiano (ahahah), le faccio anche io delle domande e non dico nulla di Ben, ma quando le dico che devo andare lei sorride e non mi trattiene.
 
Apro qualche porta a caso, disturbando persone non identificate: trovo un ripostiglio, la stanza dove sono ammassati i vestiti, due bagni.
Quando sto iniziando a chiedermi dove sono finita, sbircio dentro l’ennesima stanza e faccio un salto tale da rovesciarmi quasi il caffè addosso.
 
Ben è in piedi in un angolo della stanza, vestito di un paio di boxer neri e nient’altro.
Come se niente fosse, due tizie gli stanno davanti, parlando tra loro e indicandolo.
Una gli posa persino per un attimo una mano sulla spalla per farlo voltare un po’ a destra.
 
Per un attimo ci vedo – letteralmente - rosso.
Credo che i tori nell’arena si sentano esattamente così.
 
Marcio nella stanza con istinti omicidi e quando sono vicina al terzetto Ben volta la testa, incrocia il mio sguardo e alza gli occhi al cielo.
Ha poco da fare quell’aria saputa, per quanto mi riguarda.
«Ehi!» sbotto, gelida, facendo fare un salto per lo spavento a una delle due ragazze «Ma insomma, cosa credete di fare?»
Tre paia di occhi mi fissano, quelli di Ben rassegnati e quelli delle ragazze impauriti.
Io ho uno sguardo omicida, soprattutto nei confronti della tizia che ha osato toccarlo, ma prima che possa dire qualsiasi cosa Ben mormora una scusa, mi prende per mano e mi porta verso un camerino, spingendomi dentro.
Quando entra anche lui io finisco con la schiena poggiata allo specchio: lo spazio è così minuscolo che faccio quasi fatica a incrociare le braccia sul petto.
Ben chiude la porta e mi incombe letteralmente addosso.
 
Mezzo nudo, per giunta.
 
Ok, concentrati Gin.
Sei arrabbiata.
Non distrarti.
 
«Ok. Ti ascolto» sospira lui.
«Ah sì? Ma io non ho niente da dirti!» sbotto.
Lui fa un sorrisino.
«Sì, te lo leggo in viso… proprio niente vero?»
«Ok, aspetta, mi è venuta in mente una cosa: che ci facevi lì davanti a tutti, mezzo nudo?»
Il suo sorriso si allarga.
«Stavo aspettando che mi dicessero cosa devo mettermi per fare il servizio fotografico»
«Ah sì? E non potevi aspettare qui dentro e spogliarti dopo, quando avevi pronti i vestiti da mettere?»
Si morde un labbro per non ridere.
«La scelta del vestito è della stylist, amore… è il suo lavoro e deve poter vedere cosa veste…»
«Davvero? Ma pensa! A chi mando un curriculum per diventare stylist? Deve essere proprio un bel lavoro!»
Lui poggia le mani sullo specchio, a lato dei miei fianchi, imprigionandomi.
«Non credo proprio» mormora, avvicinando il viso al mio «Non sarei contento se la mia ragazza facesse un lavoro del genere, con uomini mezzi nudi che le sfilano davanti…»
Volto il capo di lato e mi impongo di non cedere al potere ipnotico dei suoi occhi.
Capisco dal suo sguardo che si sta divertendo, ma io sono gelosa da morire e al momento sono anche furiosa.
Ma siccome so che è capacissimo di farmelo dimenticare solo sorridendomi,  fisso cocciuta un appendino bianco conficcato nel muro.
«Invece a me deve stare bene che il mio ragazzo sfili mezzo nudo davanti a qualunque donna, assistente, stylist o chi diavolo sono quelle là fuori?» domando, polemica.
Sento il suo fiato sulla guancia quando ride dolcemente e poi le sue labbra che si posano sulla mia tempia.
«Assolutamente no. Ma il tuo ragazzo è qui solo ed esclusivamente per lavoro e tutto quello che sta facendo è lavorare. Fa il servizio, che è una seccatura totale e non è per niente divertente, e poi porta a pranzo la sua fidanzata che è la parte bella della mattinata. Che ne dici?»
Sento le sue labbra tracciare una scia di baci leggeri sul profilo del mio viso.
«Che sei comunque troppo nudo»
Lo sento ridere con le labbra sulla mia gola.
Chiudo gli occhi.
Merda, non mi ricordo già più dove sono.
Dannato Barnes.
«Posso fare di meglio, in realtà» mormora, provocante.
 
Riapro gli occhi di scatto.
Accidenti.
In questo buco di camerino improvvisamente la temperatura sale dallo zero polare della mia incazzatura a mille gradi centigradi, dovuti al corpo seminudo di Ben che preme contro il mio.
 
No, Gin, tieni duro.
 
«E non vuoi che chiami la tizia così può controllare se vai bene?»
 
Ok, sto diventando patetica alle mie stesse orecchie.
Ma è più forte di me.
Se penso a quanti servizi fotografici ha fatto e farà…
 
«No, grazie, l’unica che può controllare sei tu…»
Mi prende una mano e dolcemente la posa sul suo addome, proprio sull’elastico dei boxer.
La ritraggo di scatto, sempre senza guardarlo.
«Non è divertente» mormoro, piano.
Le mani di Ben risalgono a circondarmi il viso e dolcemente mi fa voltare verso di lui.
Quando io abbasso gli occhi, posa la fronte sulla mia.
 
Ok, sono circondata.
È dappertutto.
Il suo odore, la sua pelle.
Sento che la mia resistenza è sul punto di alzare bandiera bianca.
 
«Amore mio, guardami» dice, adesso serio.
Alzo gli occhi e mi mordo un labbro.
«Sei davvero arrabbiata o sei solo gelosa?»
«Solo gelosa?» sbotto «Solo? Bè sono solo molto gelosa e anche un po’ arrabbiata.»
«Sei arrabbiata con me?» chiede e i suoi occhi scuri si fanno subito tristi.
 
Ha il potere di farmi sentire stronza.
Se mi guarda così l’unica cosa che vorrei fare è abbracciarlo.
Non può approfittarsene, non è giusto.
È immorale.
 
«Ben, sono arrabbiata perché sembra che spogliarti davanti a chiunque non sia un problema. Non voglio fare la bigotta, ma per me vedere delle donne che ti studiano mentre non hai niente addosso non è così scontato. Che ti tocchino lo è anche meno. E sì, sono gelosa!»
Lui mi bacia il naso, ma io faccio una smorfia.
«Ascolta, amore: hai detto bene. Studiano. Non è una cosa…fisica. È solo lavoro. Per me e per loro. A loro importa che i vestiti che devono usare cadano bene e a me importa di fare la mia parte e posare per queste foto. Questa è come…una prova. Come se facessi…la brutta copia di un comunicato stampa»
«Sì, è proprio uguale!» alzo la voce e lui sorride di nuovo.
«Gin, io sono solo un corpo per loro. È il mio mestiere. Un attore ci mette il corpo, il viso, l’interpretazione. Ma come non sono io i personaggi che interpreto, questo non è un Ben che si spoglia consenziente ma uno che presta il corpo per questo servizio fotografico. Sono solo…merce»
«Io lo so…lo so in teoria» dico, nervosa «L’ho visto con altri…ma tu per me non sei merce e non sei solo un corpo. Non pensavo mi facesse questo effetto… ma davvero mi manda fuori di testa!»
Mi scema la voce e lui mi passa le braccia dietro la schiena e mi stringe più forte.
«Perché, scusa…quanti uomini nudi hai accompagnato a fare foto?!»
Gli do una leggera spinta e lui ridacchia.
«La mia piccola gelosa» mormora poi, con il viso tra i miei capelli «Ma non lo sai che per me ci sei solo tu?»
Mugugno qualcosa mentre le mie braccia gli circondano la schiena.
È inutile, non riesco a resistergli.
Resto tra le sue braccia mentre lui mi mormora parole dolcissime e mi riempie di baci il viso e il collo.
Poi gli poso una mano sul petto e sento il suo cuore accelerare il ritmo.
«Dovresti sapere che l’effetto che mi fai tu quelle ragazze non me lo farebbero nemmeno se si impegnassero» si china in avanti per imprigionare le mia labbra con le sue.
E quando faccio correre le mani sul suo corpo nudo schiude le labbra e la sua lingua esplora avida la mia bocca.
«Gin…» dopo un po’ si stacca e ansima «Adesso sei tu a essere decisamente troppo vestita…»
Mi infila le mani sotto la felpa e il mio respiro si fa pesante.
«Ben…non possiamo…»
«Chi l’ha detto?» fa lui, con voce roca.
«Ma tu stai lavorando…»
«Veramente stavo rassicurando la mia ragazza… e mi sembra che non ci sia modo migliore di questo di dimostrarle che nella mia testa e nel mio cuore c’è solo lei…»
«Maniaco» gli dico scherzando e lui ride.
«Con te, sì» dice poi, categorico, mentre slaccia il bottone dei mie jeans.
«Ben, dai…scommetto che quelle stanno origliando qui fuori…»
«Peggio per loro» ribatte lui.
So che, quando ha quel tono di voce inflessibile, non si riesce a dissuaderlo.
Solo che la situazione mi sembra un tantino strana.
Non so se riesco a lasciarmi andare sapendo che fuori da questo cubicolo c’è gente che entra, esce, monta cose, porta attrezzi… insomma, che passa.
E cosa facciamo se lo chiamano?
O se qualcuno entra?
Già forse abbiamo alzato troppo la voce poco fa…
 
Ma quando Ben riesce a sfilarmi la felpa e la t-shirt smetto di pensarci.
Mi stringo a lui, mentre fa correre le mani sui miei fianchi e mi abbassa i jeans.
Ma stiamo davvero per farlo qui?
Ok.
Poi lui esce e io resto qui, nascosta.
Ottimo piano.
Nessuno si ricorderà di quella che voleva uccidere la stylist.
 
Ma sul più bello, ovviamente, qualcuno bussa alla porta.
Non piano (perché probabilmente sa che non sentiremmo) ma come se volesse sfondarla.
Io faccio un salto per la paura.
Ben mi affonda il viso tra i seni e impreca a bassa voce.
Poi, una voce flautata trilla:
«Tutto bene? Perché noi saremmo pronti!»
 
Incrocio lo sguardo di Ben e entrambi scoppiamo a ridere, cercando di non farlo troppo fragorosamente.
«Allora, vieni con me?» mi chiede lui, quando riusciamo a smettere di sghignazzare.
Io scuoto la testa, ma lui mi afferra la mano e socchiude la porta.
«Ben!» ansimo io, affrettandomi a allacciare i jeans.
Lui si limita a sorridere e mi aiuta a rivestirmi, poi si passa una mano tra i capelli e in un attimo riacquista l’espressione neutra e gentile che ha quando lavora.
Usciamo dal camerino e io mi sento addosso gli occhi di tutti.
Divento paonazza e inciampo nei miei stessi piedi, mentre Ben (che fino a prova contraria è pure quello senza vestiti) cammina tranquillo come se niente fosse.
Le due ragazze ci guardano impassibili e lui sorride, si scusa educatamente per l’attesa e poi mi tira al suo fianco.
«La mia ragazza» dice con semplicità, presentandomi «Spero non vi dispiaccia se resta con me»
Loro annuiscono e io borbotto un saluto per poi crollare a sedere, sperando di sprofondare sotto terra.
 
Devo ammettere che sono professionali.
Per quanto io spii ogni battito di ciglia, effettivamente guardano Ben come se fosse un pezzo di manzo e sembrano solo preoccupate della tasca interna della giacca che alla fine scelgono di fargli indossare.
Non sono normali, chiaramente.
 
Ben è il ritratto dell’indifferenza e della cortesia.
Aspetta pazientemente che gli scelgano gli abiti, che lo trucchino leggermente, che gli sistemino i capelli, che decidano le scarpe, che gli facciano cambiare la cravatta, che gli facciano sbottonare la camicia, che facciano tragedie su una sciarpa da collo di una nuance più chiara rispetto a quella necessaria.
E lui, per tutto il tempo che serve, resta fermo a meno che non gli chiedano di muoversi o di fare qualcosa in particolare.
Ma come fa?
Di solito è vulcanico.
 
«Ti annoi?» mi chiede ad un certo punto prendendo la mia mano e baciandomi il palmo.
Un tizio gli sta spettinando ad arte i capelli.
Allungo la mano per accarezzargli il viso.
«Per niente, guardarti è il mio passatempo preferito»
Lui sorride – uno di quei sorrisi che potrebbero tranquillamente uccidermi – e mi bacia le dita, una ad una.
Ci guardiamo negli occhi e ci sorridiamo ed è come se fossimo da soli e non in mezzo a tutto questo casino.
«Sai, le persone non lo immaginano ma i servizi fotografici sono molto lunghi e noiosi»
«Ho visto» borbotto io e lui ride.
«Oggi in effetti è stato abbastanza movimentato…»
«Ok» dice a quel punto il parrucchiere «Fatto. Che dice la tua ragazza?»
Io gli sorrido, anche se penso che Ben non abbia bisogno di hair-stylist o make-up: è perfetto così com’è.
Infatti non è che devono migliorarlo, solo prepararlo per le luci dello studio.
Poi Ben mi dice che non porta mai le sue ragazze sui set di lavoro.
«Le tue ragazze?!»
Lui scuote il capo alzando gli occhi al cielo.
«Dicevo in generale, fino ad oggi. E poi arrivi tu… e cambi anche questo»
«Pensa che noia, prima di me… nessuno che voleva picchiare le assistenti…»
Ben ride e si dice d’accordo.
«Però non mi è mai sembrato così leggero, il lavoro»
 
Ah bene.
Perché io invece mi sento schizofrenica.
 
Ma deve essere l’effetto dell’averlo vicino, è come se avessi continue scariche di adrenalina.
Quando il fotografo inizia a scattargli le foto per il servizio mi siedo in un angolo e me lo divoro con gli occhi… tanto per fare qualcosa di diverso.
 
E di nuovo mi stupisco per la sua pazienza infinta.
 
Sorride a comando, si muove come gli viene chiesto, riesce persino a fare a comando delle espressioni.
Io, che non riesco a stare ferma il tempo di uno scatto fotografico amatoriale, sono senza parole per questa sua abilità.
Ma seriamente.
Se gli dicono cose stupide tipo “Fai una faccia sensuale” o “Immagina di doverti spogliare” lui ci riesce.
Senza avere davanti nessuno.
Certo, immagino che se il tuo lavoro è fare l’attore devi saper controllare le tue espressioni a comando.
Io probabilmente riderei tutto il tempo a ogni ordine idiota, mi sentirei una perfetta cretina a dover improvvisare pose o situazioni davanti a un telo bianco e per finire perderei la pazienza e urlerei addosso a tutti.
Ben, invece, è il ritratto della calma e della compostezza.
E questo servizio dura ore.
 
Dopo tipo duecento scatti di cui ne useranno uno o due e in cui ha dovuto fare sguardi da seduttore all’obiettivo mentre il fotografo abbaiava ordini, deve cambiarsi d’abito.
Il tutto per fare altre duecento foto, di cui ne verrà scelta una.
E i cambi d’abito in scaletta sono quattro.
 
Ben scende dal set e passa accanto a me tendendomi la mano.
Io allungo subito la mia e lui mi tira in piedi.
Torniamo in camerino e stavolta la stylist ha già pronto l’abito successivo.
«Mi cambio di là se non ti dispiace» le dice Ben, prendendo il vestito e tirandomi verso lo stanzino di prima.
Entriamo e si mette davanti a me:
«Mi aiuti?»
«A fare che?» sono perplessa.
Lui ride.
«A togliermi i vestiti»
«Stai scherzando?» studio la sua espressione «No, non stai scherzando. Avevo capito che devi cambiarti in fretta»
«Infatti. A volte le stylist ti aiutano e volevo evitare che uccidessi quella povera ragazza»
Io digrigno i denti.
«Cosa?»
«Gin è solo…»
«Lavoro, già» completo la frase io «Questo è l’unico servizio fotografico di quest’anno, vero?»
Lui fa un sorriso candido.
«Lasciamo perdere, sono già stressata»
Gli sbottono la camicia mentre lui si abbassa i jeans e poi lo aiuto a rivestirsi cercando di vedere anche la minima imperfezione, ma fuori la stylist si prodiga a togliere peli invisibili e a lisciare pieghe inesistenti per dieci minuti buoni, durante i quali io fisso stoicamente il muro e Ben cerca di non ridere di fronte alla mia espressione.
 
Altri scatti, altro cambio.
«Potrebbe piacermi davvero, fare la stylist» mormoro la terza volta che si cambia.
Stavolta la stylist ha bloccato il camerino infilandoci un appendiabiti (furba) e Ben si cambia nella stanza, con me che casualmente gli sto proprio davanti (contro i guardoni, sapete).
«Niente da fare, sono geloso» mi dà un bacio e si abbottona il maglione.
«Davvero? Io per niente» dico, altezzosa «Sono la fidanzata più rompipalle che abbiano mai visto qui?»
Lui ride.
«Figurati. Sono abituati a isterismi e scene da prime donne. Solo che la gelosia non è molto comune… te l’ho detto, siamo solo manichini che camminano»
«È impossibile che chiunque ti veda come un manichino» ribatto, convinta.
Sorride, con una luce negli occhi.
«Sei di parte» mi bacia ed è pronto per tornare sul set.
 
Quando finisce tutto, sono le 17.
Siamo qui da ore.
Ben ringrazia e saluta tutti e poi usciamo e prendiamo un taxi (adoro i taxi a Londra) e Ben mi porta a Hyde Park.
Camminiamo abbracciati lungo i sentieri e io mi godo il tramonto e il braccio di Ben attorno alla vita.
«Ancora arrabbiata con me?» chiede lui, dopo un po’.
«Non sono mai stata arrabbiata con te» ribatto.
«Sempre gelosa?» sorride allora.
«Sì» dico, categorica «Tu sei arrabbiato?»
«Per cosa?»
«Perché mi sono comportata come una stupida. Scusami, non voglio interferire con il tuo lavoro…»
«Gin, non sei stupida. Se fossi stata al posto mio anche io sarei stato geloso. Sono felice che tu sia gelosa di me»
Appoggio la testa sulla sua spalla.
«Non è stato facile… Non mi abituerò mai a donne che ti mettono le mani addosso…. Anche se è per lavoro» lo prevengo.
«Gin, lo sai che nei miei film ho recitato con donne e ho recitato senza vestiti…»
«Lo so…ma io non c’ero…»
Lui si china a baciarmi, ma prima mormora:
«Ed era tutto grigio e noioso…»
 
Quando ci separiamo, mi sorride.
«Andiamo a casa? Non abbiamo finito quello che stavamo facendo oggi in camerino…»
 

Mi prendo solo un attimo per ringraziare chi segue questa storia e chi la recensisce... grazie di cuore, mi fate felice! :)

Vi ricordo la mia pagina facebook, per qualsiasi cosa:
https://www.facebook.com/home.php#!/SerenaVdwEfp

Un bacione!



 
 

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Capitolo 4
*** Odio le partenze ***


Mi rigiro nel letto senza riuscire a dormire.
 
Che sia il cibo inglese?
Decisamente non è il mio preferito…
A parte il pie, che mi piace davvero (ma quello al pollo e verdure, non quello con le interiora!), per il resto mi sembra che qui ci si nutra di fritti e salse varie, in larga misura.
Per fortuna io ho sempre adorato cucinare e sono la mia salvezza: sarò l’unica italiana che a Londra ingrassa anziché dimagrire, se non smetto di mangiare pasta e Nutella.
 
Ma tanto, lo so che non è il cibo a darmi l’insonnia.
 
Non è neppure l’adrenalina per la bellissima serata di ieri, quando Ben mi ha portata a vedere un musical nel quartiere dei teatri.
 
A me il teatro è sempre sembrato magico.
Ma proprio a livello di atmosfera: ho lavorato per dei teatri, in Italia, e anche lo spettacolo più deludente per me ha sempre qualcosa di speciale.
Già solo il trovarsi dentro un teatro conferisce un tocco di magia agli attori, un calore diverso.
 
Almeno secondo me.
Ma Ben mi dà ragione.
 
Abbiamo visto uno spettacolo fantastico, abbiamo passeggiato senza fretta in Piccadilly Circus e abbiamo mangiato in un pub delizioso.
Poi siamo andati a casa di Ben e quello che è venuto dopo ha decisamente superato in meraviglia il resto della serata.
 
 
Mi volto sul fianco e allungo la mano verso il suo corpo, steso accanto al mio.
Anche lui dorme sul fianco, con una mano posata sul mio cuscino, tra i miei capelli.
Osservo il suo profilo nel chiarore della stanza: lui odia dormire con la finestra chiusa.
Quando lo abbraccio lui non si sveglia, ma si accoccola più vicino a me, sospirando.
Io sfioro piano la sua pelle e sento crescermi dentro una paura gigantesca.
 
Domani mattina Ben ha l’aereo per Los Angeles.
 
Sapevamo entrambi che questo momento sarebbe arrivato.
Solo che – per quanto mi riguarda – è arrivato decisamente troppo presto.
Trascorrere con lui ogni momento non mi ha resa più distaccata, anzi.
 
Ben mi rende… dipendente.
Non riesco a pensare di stargli lontana.
Non ce la faccio proprio.
 
Lo so, lo so, lo so.
È il suo lavoro.
È una parte importante della sua vita.
Avevo promesso a me stessa che ce l’avrei fatta.
E ci sto provando, davvero.
Credevo che una nuova vita, una nuova città e un nuovo lavoro – così tanto, tutto insieme – mi avrebbero aiutata a distrarmi.
 
Ma è inutile, invece: io vedo, penso, parlo e vivo solo per lui.
 
Ed è una cosa che mi fa una fottutissima paura.
 
 
Mi stringo a Ben e cerco di addormentarmi, ma questo senso di ansia che è in me non me lo permette.
Sono giorni che cresce, cresce, cresce.
Prima era come una minaccia latente, ma negli ultimi tre giorni è esplosa in forma di paura/ansia/depressione profonda all’incirca come un buco nero.
Sospiro e cerco di prendere fiato.
 
Dovrei essere felice visto che sono così felice.
Eppure la mia felicità, al momento, rischia seriamente di uccidermi.
Che l’amore mi renda filosofa?
Aiuto.
 
 
Evidentemente, ad un certo punto le mie elucubrazioni mentali mi hanno sfinita e mi hanno fatta collassare, perché un barlume di coscienza si fa lentamente strada nell’intontimento che mi pervade quando sento un corpo premere contro il mio.
Apro gli occhi a fatica, non sapendo se sto sognando o se davvero mi sto muovendo tra le lenzuola.
Mugugno e cerco di scuotermi dal torpore.
 
Pian piano, riemergo dal sogno.
Ben mi sta baciando il collo, lentamente.
Mi muovo contro di lui, apprezzando senza riserve il fatto che preferisce dormire senza il pigiama.
Capisce subito che sono sveglia e il ritmo delle sue carezze aumenta: da lievi si fanno esigenti e audaci.
Passo una mano sul suo petto e lui mi solleva la maglietta semplicissima che indosso.
Sospiro quando le sue labbra scendono sul mio seno.
«Scusa se ti ho svegliata» si interrompe un attimo per mormorare, ma io mi inarco verso di lui, pregandolo senza parole di non smettere.
Quando sento la lingua sostituirsi alle labbra gemo.
«Non voglio dormire» rispondo «Voglio solo te»
 
Sento le sue labbra sulle mie, prepotenti.
Mi godo il suo bacio, vorace e possessivo, e spingo il bacino contro il suo.
È già eccitato, ma lo sento ritrarsi.
Si alza sui gomiti e mormora, sulle mie labbra:
«Piano, piccola…»
 
Ed effettivamente facciamo l’amore con una dolcezza e una lentezza infinite.
Ben mi vezzeggia, mi stuzzica, mi adora in un modo che mi fa quasi dimenticare la paura per il nostro imminente distacco.
Esistono solo le sue mani, le sue labbra, il suo odore e la sua pelle.
Quando mi sembra di non farcela più, faccio scivolare una mano tra noi e lo cerco, ma lui mi ferma.
«Aspetta» bisbiglia.
 
Ancora? – penso.
 
Ma quando si china tra le mie gambe non faccio in tempo a lamentarmi.
Ansimo mentre lui mi accarezza sapientemente e infilo le dita tra i suoi capelli.
E poi grido, quando arriva il primo orgasmo.
Ma Ben non mi lascia nemmeno riprendere fiato che già il suo corpo preme contro il mio e io sento quanto è eccitato.
Ma adesso tocca a me: se lui può torturarmi in questo dolcissimo modo, io posso fare altrettanto.
Lo spingo di lato e rotoliamo tra le lenzuola, finché io non mi siedo a cavalcioni sopra di lui.
Inizio a baciargli le labbra, il collo, il petto, l’addome, scendendo lentamente sempre in più in basso.
Lui trattiene il fiato e poi geme, quando poso le labbra sul suo membro.
«Gin…Guarda che non resisto…»
Io sorrido e mi godo la sensazione di potere che so di avere su di lui, in questo momento più che mai.
Lo sfioro con la lingua e lui si inarca, chiudendo gli occhi.
Poi mi siedo su di lui e inizio a muovermi, lentamente.
Lui espira di colpo e riapre gli occhi, alzando le mani per stringere i miei seni.
Io butto indietro la testa e sospiro e lui si solleva a sedere.
Mette le mani sulle mie natiche, guidandomi, imponendomi il suo ritmo.
Io lo lascio fare, affondando la testa sulla sua spalla e stringendolo forte.
«Ti amo» mormoro al suo orecchio prima di mordergli delicatamente il lobo.
«Anche io, da morire» risponde lui.
La sua bocca scende sul mio seno, mentre lo sento muoversi più velocemente.
Gli mordo la spalla e lui mi tira indietro la testa.
I suoi occhi si fissano nei miei e sembrano bruciare, da quanto sono scuri.
Adoro guardarlo negli occhi mentre facciamo l’amore.
Rallenta appena un attimo, per consentirmi di arrivare all’orgasmo praticamente insieme a lui.
Ormai mi conosce alla perfezione: il mio corpo non ha segreti, per lui.
Ricadiamo indietro sui cuscini, io sempre stretta a lui.
Poso la guancia sul suo petto e ascolto i nostri respiri tornare normali.
 
«Gin, mi mancherai ogni singolo secondo» mormora lui, dopo un po’.
Io non alzo la testa ma lo stringo più forte e sento le sue dita infilarsi tra i miei capelli.
«Non è che piangi, vero, piccola?»
 
Ma come fa a saperlo?
È praticamente uno stregone.
 
Tiro su con il naso e scuoto il capo.
Lui ride sommessamente.
«Bugiarda…»
Mi fa scivolare sul letto accanto a lui e mi prende tra le braccia.
Mi accarezza la schiena e mi bacia la fronte e le guance.
«Non piango» ribatto io, con voce sommessa.
«Brava, amore mio. Perché lo sai che tanto ci vediamo presto…»
«Quanto la fai facile, tu!» sbotto, con il viso affondato nel suo petto.
Ma lui non si arrabbia: capisce il mio nervosismo.
«Non ti ho appena detto che mi mancherai da morire? Stavolta davvero non mi importa di questo nuovo film…»
 
Restiamo in silenzio per un po’ e io mi impongo di darmi una calmata.
Zittisco la parte egoista e preponderante di me e quando mi sembra di poter parlare ragionevolmente con calma alzo la testa.
«Non è giusto, Ben» poso le labbra sulle sue e poi gli mormoro:
«Lo so che sei emozionato per questo film ed è giusto che sia così. Anche io sono emozionata»
Lui mi lancia un’occhiata scettica.
«Dico davvero» insisto «Lo sono e non vedo l’ora di vederlo. Certo, visto che staremo lontani il minimo è che con questo film tu vinca l’Oscar…»
Lui ride.
«Mi perdonerai, se non lo vinco?»
Io sorrido e avvicino le labbra alle sue.
«Solo se ti mancherò ogni giorno e tornerai da me il prima possibile»
«Promesso» risponde, le labbra già sulle mie.
 
 
*
 
Per la mattinata della sua partenza mi ero ripromessa di fare la fidanzata modello, preparargli la colazione, farmi trovare pronta in tempi record e aiutarlo perché ogni cosa filasse liscia.
Puntualmente, non va in porto nessuna di questo cose.
Innanzitutto dormiamo a tratti, con Ben che mi sveglia a tratti con intenzioni inequivocabili: non è mai sazio, questo ragazzo.
Non che io possa lamentarmi, perché davvero è tutto fantastico, ogni volta di più.
Dormiamo, ci svegliamo, facciamo l’amore, cadiamo di nuovo addormentati.
Sarebbe tutto perfetto, se non dovessimo alzarci.
Ma dobbiamo.
Solo che, ovviamente, non sentiamo la sveglia.
Per nostra somma fortuna, Jack fa irruzione in camera urlando a squarciagola che è bella la vita, eh, casino di notte e urla e gemiti per tutta la notte e poi due ore di ritardo sulla sveglia.
 
Due ore?!
 
Ben salta in piedi e in un secondo è sotto la doccia, io tento di seppellirmi sotto il piumone e mi chiedo se semplicemente non si possa fingere che questa giornata non esista sul calendario.
Ma Jack mi tira via le coperte.
Io grugnisco.
«Allora, come è andata la notte? Fate sempre tutto questo casino?»
«Jack!» gli urla Ben dal bagno.
«No, perché sai… a un certo momento ho pensato di venire a tirarvi qualcosa… e comunque begli slip» ghigna quello.
«Jack!!» l’urlo di Ben non promette nulla di buono, persino suo fratello lo capisce.
«Bene. Me ne vado! Buon viaggio, fratellone!» mi molla una pacca scherzosa sul sedere al che io strillo e lui corre via.
Mugugno e mi trascino in bagno, mentre Ben esce dalla doccia.
Mi dà un bacio al volo e ride nel vedere la mia faccia.
«Bè, se non altro non abbiamo tempo per la malinconia, amore!»
 
In effetti è vero.
Siamo in aeroporto prima che io me ne renda conto.
Ben fa il check in e c’è talmente tanta coda che sfuma anche la possibilità di fare colazione insieme.
Quando torna da me dopo aver consegnato la valigia ci prendiamo per mano e ci avviciniamo alla zona dei controlli.
Guardo l’orologio: manca mezz’ora al decollo.
Lo so che devo andare.
Ci guardiamo e parliamo contemporaneamente:
«Senti…»
«Io…»
 
Lui sorride e, semplicemente, mi prende il viso tra le mani e mi bacia.
Un bacio che meriterebbe di finire nel Guinnes dei primati.
Quando stacca le labbra dalle mie io sto piangendo senza ritegno e lui ha gli occhi rossi.
«Non sopporto di vederti piangere» mormora, poggiando la fronte contro la mia.
Io mi mordo un labbro, ma non riesco a trattenere i singhiozzi.
«Vengo a casa appena ho una pausa nelle riprese, te lo prometto. Ti chiamo tutti i giorni e ti scrivo appena riesco va bene? Dai amore, asciugati gli occhi»
 
Non è giusto farlo partire con l’angoscia a causa mia, lo so.
Quindi mi asciugo le lacrime e abbozzo un penoso sorriso.
Ci baciamo di nuovo e quando iniziano a chiamare il suo volo sono io a spingerlo verso la zona dei controlli.
«Vai, che è tardissimo!»
Lui mi stringe ancora e, quando ci separiamo, all’improvviso mi infila qualcosa al collo.
Io sollevo la mano e sfioro due pendenti appesi al laccetto semplice che mi ha appena dato: un cuore e una B d’argento.
«Dillo che vuoi farmi piangere, allora!» sbotto e lo abbraccio e lui ridacchia.
 
Un ultimo bacio e lo osservo muovere qualche passo all’indietro.
«Ti amo, Gin!»
«Ti amo anche io!»
 
Quando si volta e va verso l’imbarco lo saluto con la mano.
Poi, quando è lontano, scoppio a piangere.
 
*
 
Ci vogliono due muffin al mirtillo e un thé molto dolce prima che mi decida a lasciare l’aeroporto e ad arrancare verso casa.
Il volo di Ben dura quasi dodici ore, solo durante la prima io guardo il cellulare circa trenta volte.
Me la devo smettere, o mi prenderà un colpo prima che lui atterri.
 
Telefono a mia madre, a Serena, a Francesca.
Poi prendo un autobus e vado nel mio appartamento.
Di andare a casa di Ben ora non ho proprio voglia.
Lui mi ha lasciato le chiavi, ma circondarmi delle sue cose al momento di certo non mi farebbe bene.
Invece, quello che ci vuole è il mio disordine cronico.
Ucciderò la malinconia seppellendola sotto scarpe e vestiti.
 
Butto all’aria tutto e pulisco, riordino, stiro.
Salto il pranzo e la sera sono sporca, sudata, esausta, ma la stanza sta assumendo sembianze umane.
Scatto una foto con il cellulare per mandarla a Ben e guardo per la prima volta il telefono.
Sono passate otto ore e mezza.
‘Fanculo ai voli oltreoceano!
 
Mangiucchio svogliatamente un biscotto e intanto apro la posta elettronica…
E mi prende un colpo.
 
C’è una mail di Jack, indirizzata sia a me che a Ben.
Ci ha mandato il link a un sito che pubblica delle foto di noi due insieme, stamattina, all’aeroporto.

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Capitolo 5
*** Troppo grassa, brutta e insignificante ***


Ben prende abbastanza bene la storia delle nostre foto sul sito.
 
O meglio: si è sicuramente incavolato, dato che per lui la privacy è sacrosanta, però mi ha rassicurata, dicendomi di non pensarci e di stare tranquilla.
Secondo Jack, che lo conosce bene, è inferocito perché detesta le invasioni nella sua vita privata, ma anche lui mi dice di non preoccuparmi: non è certo colpa nostra se i paparazzi si comportano così.
Però è davvero assurdo pensare che ci sono persone che non conosceremo mai né incontreremo mai, magari dall’altra parte del mondo, che in questo momento, mentre io mi faccio un panino, stanno guardando le foto di me e del mio ragazzo che ci baciamo.
E magari un milione di fan mi sta mandando un accidente proprio in questo secondo.
 
Ok, non pensiamoci.
 
Anche se sono sicura che stiano vivisezionando abbigliamento, capelli, borsa, scarpe: tutto.
Poi, ovviamente, berceranno che non sono abbastanza bella, elegante o raffinata per stare con il divino Ben Barnes.
Bè, sapete cosa?
Non avevo dormito, ecco.
Che ne sapevo che dovevo finire in giro per la rete?
Non che la mia prima preoccupazione fosse apparire carina agli occhi con vista a raggi X delle fan di Ben: sapete, avevo pensieri più pressanti in mente.
Tipo il mio ragazzo che è dall’altra parte del mondo da una settimana, tre giorni e undici ore.
 
Non che io stia contando le ore, è chiaro.
 
Vabbè, sì, come no.
 
Rigiro tra le dita il ciondolo che mi ha regalato Ben e sospiro, guardando truce lo schermo del mio portatile.
Non farlo, Gin.
Ma tanto so benissimo che lo farò: tanto vale togliermi il pensiero, giusto?
Mi guardo attorno come se pensassi che qualcuno possa vedermi, poi apro Google e digito veloce “Ben Barnes”.
 
BAM.
 
I primi risultati sono siti di news: Ben Barnes in love!; Il Principe Caspian si fidanza; Ben Barnes: baci all’aeroporto.
E roba del genere.
Con il cuore in gola, navigo tra i vari siti e vedo le stesse immagini, abbastanza sgranate: Ben che mi abbraccia, che mi bacia, che mi tiene la mano.
Io sono una figurina goffa e con le spalle abbassate, come a proteggermi dal dolore che sto provando.
Sembro abbastanza pietosa, in effetti.
Lui è serio, ma composto. E sempre bellissimo.
 
So che non dovrei, che sto facendo una cosa stupida, ma leggo qualche commento qua e là.
E resto di merda.
Cattiveria pura.
Ragazze che delirano, che giurano di suicidarsi, che dicono che sono fotomontaggi, che mi maledicono.
Ci resto male: ma che cavolo ne sapete di chi sono e di come stavo quel giorno?
Come fanno a dire cose tanto cattive senza nemmeno conoscere non dico me, ma lui!
C’è una che scrive che palesemente io non sono giusta per Ben.
Ma chi cazzo sei, Nostradamus?
E che ne sai, oltretutto?
Scommetto che sei una sociopatica pazza, per scrivere una cosa del genere.
 
Basta, chiudi.
 
Ma non ce la faccio: è una droga.
Cerco e leggo e sono sempre più attonita, ma c’è qualcosa di perversamente attraente nel vedermi con lui su queste pagine.
Sono io… e insieme non lo sono.
Mi sembra irreale.
Tutto quello che sono io – che è veramente Gin – qui scompare: sono solo una figura e vengo giudicata perché sto accanto a lui.
Ma io stessa faccio fatica a riconoscermi: non è come vedere una fotografia normale, è un’invasione nelle nostre vite, il furto di un momento solo nostro e privato.
 
Ed è una cosa sporca.
 
Abbasso lo schermo di colpo, arrabbiata, e prendo il cellulare.
Faccio il suo numero e aspetto.
Uno, due, tre squilli.
E lui risponde.
«Ciao, amore mio» dice, in italiano.
Mi butto sul letto e sento che il mio cuore pesa già dieci chili di meno, solo a sentire la sua voce.
«Ciao… che ore sono, lì?»
«Le 6.30»
 
Cazzo!
Dannato fuso orario.
 
«Ben, scusami!» gemo, mortificata «Non riesco ad abituarmi!»
«Tranquilla, ero sveglio: ho una ripresa presto. E poi è sempre l’ora giusta per parlare con te»
Sorrido come un’idiota al soffitto.
«Va bene, sai sempre cosa dire anche se sei appena sveglio. E io ti amo per questo»
Lui ride.
«Cosa stavi facendo?» mi chiede poi.
«Mangiando un panino. E…»
Esito, insicura, ma lui domanda:
«E?»
«Oh…una cosa stupida. Solo che ho aperto il computer e… bè, ho visto le nostre foto…»
«Gin» dice lui dopo un momento «Ma perché?»
«Perché… uff, non lo so» sbuffo «So che è una cosa stupida, ma… siamo noi due. Voglio dire: chi più di noi due ha il diritto di guardarci? E invece tutto il mondo sta a farsi i fatti nostri e se io apro uno di quei maledetti siti mi sento una guardona! E ci sono io in quelle foto! Ma è normale?»
Lui sospira.
«Piccola, per questo ti avevo detto di non guardarle. Vorrei proteggerti da tutto questo circo mediatico. È una cosa malsana, fa male. Se stai a vedere e leggere ogni cosa che dicono di te perché stai con me diventi pazza»
Io mi mordo il labbro.
«Dicono che sono troppo brutta, grassa e insignificante per stare con te» dico, prima di perdere il coraggio.
«Gin!» sbotta lui «Ma che cazzo dici?»
«Non lo dico io! L’ho letto… c’è qualche tua fan che pensa che io non sia alla tua altezza…»
«Amore mio, ascoltami bene» sgrano gli occhi perché dal tono di voce sembra davvero incazzato «Guai a te se scopro che hai letto anche solo un’altra riga su internet, capito? Ma tu dimmi se devi farti ferire dai commenti che scrive qualcuno che nemmeno ci conosce! Ma tu pensi che la gente sappia qualcosa di noi o possa giudicarci?»
«No, no, Ben, certo, ma…»
Annaspo, perché in fondo questa è la mia grande paura.
Voglio dire: se io non fossi la sua ragazza ma una semplice fan, se fossi ancora la Gin che lavora in Italia e legge di lui su internet, io cosa direi di queste foto?
Lo so: direi che quella ragazza che lo abbraccia è troppo brutta, grassa e insignificante per lui.
 
Batto le palpebre per scacciare una lacrima.
Forse è una parte del gioco: per avere lui, devo accettarlo.
Come le assenze, i viaggi, i film.
Ma questa fa male, fa male a livello personale, cazzo.
 
«Senti, principessa» lui addolcisce il tono, mostrando ancora che sa leggermi nella mente, pure da oltreoceano «Se ti azzardi non a dire, ma solo a pensare di te quelle cose, io ti lascio. Chiaro?»
«Ben!» mi offendo «Sono io qui quella trattata di merda!»
«No, per niente» controbatte lui «Sei solo quella testona che non si fida mai di quello che le dice il suo paziente e protettivo fidanzato»
Faccio una pernacchia al telefono ma lui prosegue, imperterrito:
«Chiariamo questa cosa, una volta per tutte: io ho scelto te. Ti amo e non cambierei una virgola di te. E se tu metti in discussione questa cosa per una cagata letta su internet, allora io non ho capito niente di te e tu di me. Ci siamo capiti?»
Ha ragione, lo so.
Sospiro.
«Lo so che hai ragione. Ma fa male lo stesso…»
Non faccio in tempo a finire la frase che lui sbotta, nervoso:
«Gin! Allora non mi ascolti! Fa male un giudizio di un estraneo che naviga in mezzo a quella spazzatura che circola in rete? Ma cosa ne sa quell’estraneo di me o di te? Te lo dico io cosa fa male a me: mi fa male svegliarmi e non trovarti qui, vicino a me. Mi fa male sapere che siamo lontani. A te invece fa male se una fan dall’altra parte del mondo scrive su un sito che non le piaci perché sogna di stare lei con me! Ma ti rendi conto?»
«Ben!» salto a sedere sul letto, scioccata «Ma perché mi gridi addosso? Ma perché mi dai della stupida? Certo che mi fa male che non sei qui! Ma vorrei vedere te se avessi una fidanzata bella da paura, che mezzo mondo sogna e i cui fan ti dicessero che sei indegno di lei!»
Lo sento sospirare, poi risponde con un tono di voce più pacato:
«Io ho una fidanzata bella da paura»
«Ben…»
«Io ce l’ho, Gin, e sei tu. E io ti volevo e ti voglio da morire. Tu hai cambiato le mie priorità, mi hai fatto desiderare una storia anche se non la volevo. Per me ci sei solo tu. Non è abbastanza, amore mio?»
«Ma certo!» urlo «Questo non è “abbastanza”, è tutto per me! Come fai a dubitarne? Ben, io… devi capire che io a volte mi vedo così, come dicono quelle ragazze. Non perché lo dicono loro… proprio perché lo penso io»
«Ma che cosa pensi?»
Butto fuori l’aria insieme alle parole, ormai tanto vale dirgli tutto:
«Che con te ho avuto un colpo di culo pazzesco. Che tutta questa felicità….mi fa paura. Che un giorno ti sveglierai e ti chiederai perché perdi tempo con me. Tu puoi avere chiunque, mentre io…»
«Ma Gin, che cavolo dici?» sembra completamente spiazzato «Ma perché non mi hai mai detto che pensi questo?»
«Perché quando sei qui con me è tutto facile, è tutto perfetto. Ma quando sei lontano…mi prende paura»
«Gin, noi…»
«Noi staremo sempre lontani. Sì, lo so» lo anticipo.
«E comunque, piccola, io ti ho scelta. Potevamo non stare insieme… e invece guardaci»
 
Sì, guardaci.
Un super attore strafigo e la sua patetica ragazza depressa e paranoica.
 
Mi trattengo dal dirlo, per fortuna, perché Ben mi dice:
«O è solo per me che la nostra storia è magica?»
Sembra amareggiato e stavolta urlo io:
«Che cavolo dici?»
«Dico che, se tu provi le stesse cose che provo io e ti senti come mi sento io, è impossibile che tu abbia dei dubbi così stupidi. Quindi…»
Io annaspo:
«Ma io ce li ho per natura!» strillo.
Sento un sospiro provenire direttamente dall’altra parte del mondo.
«Gin…»
«Ben, non sei tu! Tu non potresti essere più perfetto di come sei! Mentre io… sono la solita cogliona!»
«Mi sembra un’ottima definizione» dice, lasciandomi di stucco.
 
Cazzarola.
Cornuta e mazziata.
Esisteranno corsi per idioti depressi, tipo me?
E se sì, saranno in inglese e io non ci capirò una parola?
Me ne preoccuperò dopo, comunque.
 
«Ben, partiamo dal presupposto che io ti amo alla follia» dico «E che proprio perché ti amo così tanto ho paura»
«Gin, ti ricordi cosa mi hai detto quando ci siamo conosciuti, in Toscana? Quando io avevo paura di legarmi a qualcuno?»
Mi mordo un labbro.
Sì che me lo ricordo.
Mormoro un assenso e lui insiste:
«Dov’è quella ragazza che ha mosso il mondo, il mio mondo?»
Dopo un attimo rispondo:
«Qui. È sempre lei… solo che anche tu hai mosso il suo mondo e l’hai messa un po’ in confusione. Ma solo a volte, giuro: non è sempre così tanto cogliona… solo…solo un po’. A tratti»
 
E lui ride.
E io respiro di nuovo.
 
«Fortuna per te che ti amo anche se sei cogliona, se no dopo una telefonata del genere, all’alba, sarei tornato solo per torcerti il collo»
«Grazie» bofonchio «Che parole dolci…»
«Non te le meriti, le parole dolci» dice, implacabile.
«Stronzo! Comunque, per la cronaca, io lo so che sono matta. Detto questo… ti amo tantissimo. Tu mi ami?»
«Per niente»
«Ben!»
«Per niente, davvero. Mi hai fatto incazzare. Ora devo andare che mi chiamano. Ciao»
E mi attacca il telefono in faccia.
 
Mi ha attaccato il telefono in faccia.
 
Fisso il cellulare, attonita, non sapendo se urlare, piangere o lanciarlo dalla finestra.
So che ha ragione, ma… ma come si permette di dirmi che non mi ama e di attaccarmi il telefono?
Mi tremano le mani mentre deglutisco convulsamente.
 
E il cellulare suona di nuovo.
 
«Pron…» dico, in automatico, ancora scioccata.
«Ti amo immensamente, stupida cogliona» dice la sua voce, divertita «Ti amo e mi manchi da morire, ma se apri di nuovo il computer mi incazzo davvero, chiaro?»
«Ben…io…io…» balbetto e non so cosa dire.
«Tu cosa?»
«Io…»
E mi riattacca.
 
Ma che cazzo fa, è ubriaco?
Ma perché attacca quel maledetto telefono mentre io sono qui che non so che pesci prendere?
Ma io lo ammazzo!
 
Mi richiama e stavolta urlo io prima di permettergli di aprire bocca:
«Brutto coglione!»
Lui scoppia a ridere, mentre io quasi singhiozzo.
«Sei un maledetto stronzo! Insomma, se mi attacchi di nuovo io…io giuro che vengo lì…e..e…»
«Davvero?» chiede «Verresti qui? Allora ne varrebbe la pena…Sono molto tentato!»
«Ben!» strillo, minacciosa.
Ma lui ride di nuovo e, di colpo, la sua voce torna ad essere dolce e vellutata come sempre, quando parla con me:
«Mia bellissima cogliona, stai meglio?»
«Per niente, grazie a te!»
«Grazie a me o grazie al tuo nuovo passatempo da guardona?»
«Uffa» sbuffo «Odio quando hai ragione!»
Lui ride e io pian piano mi calmo.
«Scherzavi quando hai detto che eri arrabbiato?»
«Scherzavo solo in parte» risponde, sincero «Perché mi manda fuori di testa il fatto che tu pensi di te stessa delle cazzate del genere!»
«Ma io…»
«Ma tu?» chiede, in tono minaccioso.
«Io ti amo da morire» dico di getto, perché l’unica cosa che ho chiara in testa al momento è questa.
«Anche io ti amo» risponde, dolce «Mi fai impazzire, sei meravigliosa»
 
Ah, Ben è come la droga.
Ti dice queste cose in un modo tale che tu non puoi che crederci, ti trasporta in un mondo incredibile, fatto di sole, fiori e colori sgargianti… e poi leggi qualche commento acido e il paradiso diventa un inferno.
Ma davvero posso fidarmi di quello che dice qualcuno che non è lui?
Di una ragazza gelosa e sconosciuta, che avanza pretese su di lui come se lo conoscesse?
Sospiro.
«Scusami…»
«Solo se mi giuri che non ci stai male»
Vedi che mi conosce come le sue tasche?
Lo rassicuro e la telefonata prosegue e finisce con noi due che ci diciamo un miliardo di parole dolcissime e ci promettiamo l’universo.
Ci salutiamo, mettendoci dieci minuti, e lui mi richiama dopo tre secondi per essere sicuro che io stia bene.
Prometto quindici volte che non cercherò più cose su di lui o su di noi su internet, ci diciamo di nuovo una marea di dolcezze e quindi lui va a lavorare e io crollo prosciugata sul letto.
Passo un po’ di tempo in stato vegetativo, poi mi alzo, faccio una doccia e, prima di perdere la determinazione, prendo il cellulare e chiamo l’agente di Ben, che aveva promesso di aiutarmi a trovare un lavoro.
 
Per quanto io ami Ben, non è giusto che mi annulli per lui fino a questo punto, fino a diventare una schiocca ragazzetta che si fa mettere in crisi da due commenti idioti.
Io ho altro, oltre che lui.
Ed è ora che lo ricordi a me stessa.
L’appartamento l’ho messo a posto, quindi è ora di intervenire sul resto.
Per fortuna parlo con la segretaria di TJ, che è una ragazza molto gentile.
Dice che mi hanno trovato qualcosa come assistente su un set fotografico di moda.
Non male, mi pare.
 
Certo, finché non vedo in cosa consiste.
 
Due giorni dopo sono su un set delirante, pieno di cocainomani esaltati e persone schizofreniche, che urlano, corrono, gridano, si strappano i capelli, mentre due modelle anoressiche fanno la faccia annoiata davanti all’obiettivo di un fotografo.
E io che pensavo di averne viste, di follie, nel mio lavoro.
Praticamente non capisco nulla e nemmeno oso chiedere nulla, per non rischiare che qualcuno mi azzanni un braccio.
Mi limito a cercare di sopravvivere, scansando gente che mi urla cose incomprensibili, facendo caffè, portando acqua e bicchieri.
C’è qualcuno che tira coca proprio davanti a tutti, senza farsi problemi.
Nessuno ci fa caso.
Le ragazze sembrano strafatte: sono magrissime, non mangiano nulla, ti guardano male anche se porti loro solo un thé.
Non ho mai visto un casino del genere.
Sono sulle spine per tutto il giorno, non capisco mezza parola e, quando arriva la sera, tiro un sospiro di sollievo.
Esco e mi accorgo di barcollare sulle gambe mentre scendo in metro.
Ho un sms di Ben, che dice: “In bocca al lupo per oggi, amore mio. Chiama appena hai fatto. Ti amo. XXX”
Vorrei mettermi a piangere: come glielo dico?
Aspetto di arrivare a casa e di essermi calmata e poi lo chiamo, glissando sugli aspetti nevrotici della giornata e facendolo ridere con le cose più folli.
Lui mi racconta dei primi giorni sul set e lo sento emozionato e felice per questo progetto.
Mi scalda il cuore e riesco quasi a dimenticare lo squallore di quello che ho visto oggi.
All’improvviso, però, Ben mi chiede:
«Sicura che è tutto ok?»
«Sì, perché?»
«Perché certi ambienti li conosco… e non sono adatti a te. Se quel posto non ti piace non fa nulla: troverai di meglio»
«No, no, va bene» rispondo in automatico.
Se non lavoro come faccio?
«Piccola, ascolta: Londra non è una città facile, lo so… potrebbe volerci del tempo prima di trovare qualcosa di decente»
«Ce la faccio, tesoro, davvero»
 
Lo spero, almeno.
 
Non so se l’ho convinto, ma la settimana seguente procede tutto così, tra alti e bassi: Ben che lavora felice e io che mi barcameno tra i folli.
Quando penso che il peggio sia passato, arriva venerdì.
Sto trasportando un vassoio con sopra mille caffè ammucchiati e scavalco scatoloni, pile di vestiti e faretti vari, quando il fotografo decide di urlare addosso a uno dei modelli di non so quale spot.
Parte una litigata con dei ringhi furiosi, mentre io cerco di farmi piccola e strisciare rasente i muri.
Ma non serve a nulla, perché all’improvviso il fotografo lancia un bicchiere e mi prende in pieno.
Io sobbalzo e strillo e il vassoio fa un volo con capriola annessa, inzuppando me e parte del telone bianco del set.
Non l’avessi mai fatto.
C’è un attimo di silenzio attonito, poi tutti iniziano a urlarmi addosso, dal regista all’ultimo degli assistenti.
Io capisco nemmeno la metà di quello che dicono, ma il tono è inequivocabile.
Cerco di non mettermi a piangere, ma la situazione è terribile: non tanto per l’accaduto (che francamente non è colpa mia), né per il lavoro in sé (che è una merda, se mi passate il francesismo), ma per l’astio, la rabbia e le grida dei pazzi esaltati che ho davanti.
Nemmeno fossi una criminale che ha sfregiato la Gioconda.
Quando il fotografo mi strattona per il braccio, io gli mollo uno spintone e inizio a gridare anche io:
«Ma vaffanculo, stronzo drogato di merda!»
Incredibilmente, lui reagisce come se lo avessi preso a calci, ululando come un cane idrofobo.
Scoppia il caos nel caos e tutto finisce con me che vengo cacciata.
Non che volessi rimanere, per carità, ma è a dir poco umiliante.
Faccio una passeggiata solitaria lungo il Tamigi, cercando di calmarmi, mentre mi ripeto che non sono io ad essere una fallita che non sa nemmeno portare dei caffè ma quelli ad essere dei pazzi.
Torno a casa, mi butto sul letto e osservo il livido che mi si è formato sul braccio, dove il regista mi ha tirato il bicchiere.
Poi mi addormento, credo, perché non sento nulla finché mi sveglia il rumore di qualcuno che sembra voler buttare giù la porta a calci.
Salto sul letto e ci metto un attimo a capire che si tratta della mia porta.
Barcollo e vado ad aprire: è Jack, con il cellulare attaccato all’orecchio.
Quando apro mi lancia un’occhiata e poi dice:
«Tutto ok, è viva!»
 
Io batto le palpebre, perplessa: chi è viva?
Io?
Ma certo che sono viva…
Poi lui mi passa il telefono.
Lo avvicino all’orecchio e sussulto nel sentire la voce di Ben, stridula per la paura:
«Gin! Stai bene?»
«Ciao» aggrotto la fronte «Tutto bene, perché?»
«Ma come perché? Ti chiamo da ore! Non rispondevi al telefono, stavo impazzendo! Mi ha chiamato persino TJ!»
«Oh» all’improvviso arrossisco «Cosa…cosa ti ha detto?»
«Mi ha detto… Gin, che cavolo è successo?»
Sussulto, ma rispondo di getto:
«Io… ecco, io… ho provato, Ben, davvero. Ci ho provato. Ma erano dei matti. Tutti isterici, tutti drogati… e poi oggi… oggi ho fatto cadere dei caffè, ma giuro che non l’ho fatto apposta: se quello non mi tirava addosso un bicchiere io…»
Mi sfuma la voce e sento un preoccupante silenzio dall’altra parte del telefono, mentre fisso un attonito Jack Barnes che mi guarda come se avessi tre teste.
«Ehm…Ben?» chiedo, dopo un po’.
Lo sento ansimare.
«Ti hanno… tirato un bicchiere addosso?»
«Sì»
«Ma come sì?» urla «Ma che cazzo! Fammi chiamare quello stronzo di TJ e poi vediamo!»
Io sussulto, ma poi dico:
«No, no, lascia stare. Davvero»
«Lascia stare?» la sua voce si alza tanto che lo sente anche Jack «Ma stai scherzando? Ti ha mandata in un posto del genere? E tu non mi hai detto nulla! Da giorni!»
«Io… non volevo farti preoccupare. Non volevo che pensassi che non riesco a cavarmela nemmeno a portare dei caffè, ecco. Tutto qui»
«Tutto qui?» ripete, incredulo «Gin, ma tu vuoi farmi uscire di testa. Ti ho detto mille volte di non… e tu mi finisci proprio nel classico ambiente di drogati pazzi che ti raccomando da mesi di evitare! Non voglio che stai a contatto con gente così, mi capisci?»
«Ben, ma era solo un lavoro temporaneo…»
«Gin, non esiste che tu faccia una cosa del genere, nemmeno per una settimana, sono stato chiaro? Ma insomma: hai studiato, sai lavorare… Ma come pensi che mi senta io al pensiero che per colpa mia ti abbassi ad accettare una situazione del genere?»
«Per colpa tua?» ripeto incredula.
«Per colpa mia sei venuta a Londra!»
«Ancora con questa storia?» sospiro, stanca «Ben, ma come te lo devo dire? Io voglio stare qui!»
«D’accordo, ma hai accettato un lavoro di merda e…»
«E se io sono stupida la colpa è tua?»
C’è un attimo di silenzio, poi faccio cenno a Jack di entrare e riprendo a parlare:
«Ascolta: non c’è niente di male nell’accettare un lavoro del genere, se non si hanno competenze specifiche, come me in questo caso»
«No» dice subito lui «Un ambiente del genere non va bene per te!»
«Lo so, hai ragione» ammetto.
«Perché non me lo hai detto, Gin?» mi chiede, triste.
«Perché non volevo che pensassi che sono una pallosa incapace»
«Ma potrei mai pensare una cosa del genere, secondo te?»
«Non potrai sempre proteggermi…»
«Dovrò farlo, invece, se non posso fidarmi di te!»
 
Ci resto di merda.
Ha ragione.
È colpa mia, che non gli ho detto la verità.
Non avrei fatto la figura dell’imbecille se lo avessi fatto per tempo… e quello stronzo di TJ lo ha chiamato per gioire, ci scommetto.
 
«Scusami…» mormoro.
«Amore mio, ma per cosa ti scusi?» sembra incredulo.
«Perché ho sbagliato. E perché TJ si è lamentato con te»
«Lascia perdere quel cretino di TJ» dice, lapidario «Mi importa solo che tu stia bene. Non rispondevi al telefono, non sapevo che fare…»
Tiro fuori il mio cellulare e vedo dieci chiamate senza risposta.
«Scusami, scusami…che cretina. Era silenzioso»
«Gin» Ben espira di botto «Ti rendi conto che mi è quasi preso un colpo?»
«Così impari ad andare dall’altra parte del mondo anziché stare qui con me» scherzo, per alleggerire la tensione.
Lui sospira e parliamo ancora un po’, poi rendo il telefono a Jack, che si autoproclama mio cane da guardia personale prima di andarsene, e resto sola.
Mi faccio una doccia, richiamo Ben, lo becco in mezzo a una ripresa ma lui risponde comunque, con il bel risultato che prende un cazziatone enorme dal regista.
Oggi non ne faccio una giusta.
Quando Ben riesce a richiamarmi, sono le 3 di notte.
Mi sveglio e biascico qualcosa, accorgendomi che mi sono addormentata, con su le lenti a contatto.
Lui impreca, si scusa, ridiamo.
E va tutto bene.
Chiacchieriamo per un’ora, io semi-addormentata e lui sfinito, ma non ci basta mai.
Gli giuro mille volte che non gli nasconderò più niente e alla fine lui si calma.
 
Non so cosa succede tra lui e TJ, ma il giorno dopo ricevo un’imbarazzata telefonata di scuse dall’agente.
Mi chiede se voglio che mi cerchi altro, ma declino.
È molto meglio se me la cavo da sola.
Così, di giorno vado in giro e porto curricula a mano.
Ci sono dei posti che mi farebbero davvero gola, tipo la National Gallery, dove parlo con una signora gentilissima, ma purtroppo è una posizione per cui serve un certo background.
Ma Ben mi incoraggia e io insisto nella mia ricerca, caparbiamente.
E, alla fine, ho un colpo di fortuna: mi richiamano da un teatro, per un posto da assistente al Comedy Theatre.
Faccio un colloquio con un tizio gentilissimo e quando esco non faccio in tempo a prendere il telefono che già arriva un sms di Ben: “Congratulations for your new job!! I love you XXX”
Digito subito la risposta: “Se mi fai ottenere un lavoro con i tuoi contatti, almeno aspetta che io ti chiami tutta felice prima di farmi le congratulazioni!”
Dopo due secondi arriva un altro sms: “:(((((”
Io rido, da sola e in mezzo alla strada.
Poi digito velocemente: “Ti amo, comunque. Grazie”
Il cellulare suona di nuovo, due secondi dopo: “Mi ami..quanto?”
Rido ancora.
“Tantissimo. Ma comunque non avresti dovuto farlo”
Tempo tre secondi e arriva la risposta:
“Perché non posso aiutarti??? Sono il tuo ragazzo non un estraneo!!!!”
Sospiro: ho capito che la mia eccessiva indipendenza lo ferisce, a volte.
Ma il fatto è che io voglio dimostrargli che sono autonoma: lo sono sempre stata e non voglio diventare la sua ombra sperduta, mi fa troppa paura.
Imparerò a barcamenarmi tra questi due estremi, mi riprometto.
“Sei il mio supereroe. XXX”
Mi risponde solo:
“:))  <3”
 
Oddio, mi ha mandato un cuore!!
 
Va bene, ho capito, la smetto.
 
La sera sono accovacciata sul divano e mi strafogo di gelato, quando facendo zapping alla TV alla ricerca di canali italiani non finisco su CoomingSoon, proprio mentre trasmettono un servizio su un premio cinematografico hollywoodiano.
Aspetta… ma me ne ha parlato Ben!
Mi protendo sul divano, attenta, e vengo ricompensata: dopo un po’ inquadrano il mio ragazzo, in compagnia del regista del film e di due colleghi.
Evviva!
Forza, forza, intervistatelo!
Li incoraggio con la forza del pensiero e, effettivamente, il giornalista si avvicina per rubare una battuta sul film in lavorazione.
Il regista dichiara che sarà un film bellissimo, che il filone fantasy è prolifico e che Ben sarà eccezionale, lo sta già dimostrando.
C’è una storia d’amore? Sì, c’è e sarà avvincente (te pareva? Che palle!).
Al che il giornalista chiede a Ben se la collega è affascinante e se lui non teme che la sua fidanzata si arrabbi per via delle scene romantiche che gira in questo film, o in generale sui set.
La telecamera inquadra Ben: il ciuffo ribelle, il sorriso smagliante e gli occhi scurissimi.
Sento un tuffo al cuore e me lo mangio con gli occhi.
Almeno, finché lui non dice:
«Il film è davvero interessante ed è bello girare con attori tanto bravi, è un’esperienza unica. Ma no, non ho problemi: sai, io non sono fidanzato»
 
 

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Capitolo 6
*** Di chi è la colpa? ***


Sono furibonda.
 
Ma nel vero senso della parola.
Sono passati tre giorni da quando ho visto quell’intervista in tv.
Non ho più parlato con Ben.
Non rispondo alle sue telefonate né ai suoi messaggi  e, di più, ho avvisato suo fratello di non osare piombarmi in casa, altrimenti lo prendo a calci, dandogliene in più quelli che spetterebbero a suo fratello.
Peccato l’oceano ci divida… o per fortuna per lui, a seconda dei punti di vista.
 
Ben mi chiama cinquanta volte al giorno, mi scrive mille messaggi e email implorandomi di parlargli e chiedendomi freneticamente cosa ha combinato per farmi incazzare così.
Ah, me lo chiede pure.
Benissimo.
Si vede che per lui il fatto di “non essere fidanzato” non è un problema.
Meraviglioso.
Nemmeno per me.
Sto bene.
Benissimo, anzi.
 
Rimescolo il thé con tanta violenza da farne uscire metà dalla tazza.
In questa cazzo di città non si riesce a bere un caffè decente… accidenti agli inglesi!
Voglio un cappuccino!
Esigo un cappuccino!!!
 
Ok, Gin, calma.
Calmati, va tutto bene.
Tutto alla grande.
Ora bevi questa brodaglia di thé e poi te ne vai al lavoro, che hai una vita da portare avanti.
Che sarà mai, stare con uno che preferisce dire al mondo che è single?
Non sono questi i drammi della vita.
Pensa positivo.
 
Mi ustiono la lingua con il thé, scaravento la tazza nel lavello sbeccandola e marcio fuori di casa, sbattendo la porta.
Cammino per strada sollevando la sciarpa contro il vento gelido.
Mi suona il cellulare.
Ben.
Rifiuto la chiamata, ma dopo due secondi il telefono suona di nuovo.
Che ore sono da lui?
Le tre di notte?
Bene, gli fa bene stare sveglio, così riflette un po’ sulle sue priorità.
Rifiuto altre sette chiamate e ignoro i messaggi che mi scrive, sempre più nervosi.
Jack deve averlo avvisato, perché non mi chiede più se sto bene ma solo perché ce l’ho con lui.
Vado a teatro, silenzio il telefono ma non lo spengo (perché deve suonare sempre, ricordandogli che io ci sono, sono qui, ma non gli voglio parlare. Dannato stronzo!) e mi metto a lavorare.
 
In realtà, il lavoro è molto tranquillo.
Sto in teatro e faccio quello che Liam, il direttore tecnico, mi chiede di fare.
Le persone in generale sono gentili: gli attori però spesso sono molto capricciosi e fanno storie per un nonnulla.
Fortunatamente, tra gli assistenti e gli operatori c’è un ottimo clima, quindi si riesce a fare squadra e a fronteggiare i problemi insieme.
La persona più simpatica che ho conosciuto è Ray: è il tecnico delle luci, è irlandese, capisco la metà delle cose che dice, ma è simpaticissimo.
È burbero ma premuroso: mi chiama “baby”, non mi lascia mai nei guai e bada sempre che non mi affidino compiti troppo pesanti.
Ieri mi ha aiutata a portare in magazzino degli scatoloni pesantissimi, evitando che morissi sulle scale, schiacciata dal loro peso.
E, quando sono veramente tanto triste, non mi chiede nulla ma mi porta una cioccolata, o del caffè.
Io lo ringrazio, lui scuote il capo e mi dice che devo imparare l’inglese perché la mia pronuncia fa più schifo della sua, poi mi fa una carezza in testa e se ne va.
 
Oggi porto costumi di scena dalla sarta, sistemo parte dell’attrezzatura e poi mi mandano in giro a distribuire locandine promozionali.
È bello.
Posso passeggiare per la città e scoprirla mentre lavoro.
Lascio che Londra mi entri nell’animo e cerco di calmarmi.
Tutta questa bellezza mi conforta, in un certo senso.
Cammino, cammino, cammino finché sono esausta.
Ho finito le cartoline, quindi passeggio con le mani in tasca nel gelido pomeriggio londinese.
Non ho mangiato, ma non ho fame.
Attraverso Hyde Park e raggiungo i Kensington Gardens, quindi mi siedo su una panchina.
Fisso lo sguardo sul verde e affondo il mento nel cappotto.
Non so per quanto tempo sto lì, immobile, ma alla fine infilo una mano in tasca ed estraggo il cellulare.
Dieci chiamate e cinque messaggi.
Nemmeno li leggo, ma scorro la rubrica fino al suo nome e chiamo.
 
Risponde immediatamente.
«Gin!! Finalmente! Ma hai idea… aspetta»
Dice qualcosa che non capisco a qualcuno e poi riprende il telefono:
«Eccomi. Ma che succede? Hai idea di come sono stato in questi…»
«No e non me ne frega un cazzo, se proprio vuoi saperlo» lo interrompo, gelida «Se vuoi, però, ti dico come sono stata io, per cambiare»
«Gin…»
«Ben, stammi bene a sentire, perché ora risolviamo questa cosa, chiaro?»
«Ma quale cosa? Cosa ho fatto, perché sei così arrabbiata? Io…»
«Dimmelo tu»
«Non lo so! Te lo giuro, non lo so! Ci ho pensato, ma non è successo niente e io…»
«Non è successo niente?» ringhio «Davvero? Allora lascia che ti dica una cosa: l’altra sera stavo guardando in TV la diretta per quel premio cinematografico cui sei andato»
«Sì?» mi esorta, chiaramente spiazzato.
«E non è successo niente, lì?» domando.
«No!»
 
Ah, no?
 
«Davvero? Niente che vuoi dirmi?»
«Ma la smetti?» urla «Ma perché mi tratti così? Giuro che mi stai facendo impazzire! Gin, dimmelo, cosa c’è?»
«C’è che ho sentito la tua brillante intervista!» strillo.
«Ma quale intervista?»
«Quella in cui dicevi tutto felice che sei single!»
Mi tremano le mani: se ce lo avessi davanti probabilmente lo strozzerei.
Segue un secondo di silenzio in cui io ansimo e stringo convulsamente il cellulare, poi Ben dice, incredulo:
«Tu non mi parli da giorni per una cosa del genere?»
Sembra completamente spiazzato e riesce a farmi incazzare ancora di più.
«Una cosa del genere?! Ma sei idiota? Perché guarda, se noi non stiamo insieme, allora io…»
«Ma certo che stiamo insieme!» grida «Ma cosa c’entra quello che c’è tra noi con quello che io dico alla stampa?»
«Ma…ma…ma tu hai detto…»
«Cosa?»
«Che non sei fidanzato!»
«E quindi?»
«E quindi?» ripeto, urlando.
«Gin, ascoltami bene: io ho detto che non sono fidanzato perché non darò la nostra vita privata in pasto ai giornali. Non intendo permettere che inizino a ficcare il naso nei fatti nostri, seguendoci, chiedendo, cercando, insinuando. La vita privata è privata. E tu per me lo sei ancora di più»
Taccio, elaborando il concetto.
«Avresti voluto che mettessi in piazza la cosa?» chiede, incredulo «Vorresti essere nel mirino dei paparazzi? Lo sai cosa significherebbe? Essere spiati ovunque. Che vita sarebbe? Ma a te davvero importa questo?»
«Ma no, no… Io…»
«Ascolta, Gin: tu lo sai che io ti amo, vero?»
Non rispondo subito e lui mi incalza:
«O pensi che ti abbia sempre detto bugie e abbia invece detto la verità a quel giornalista?»
 
Merda.
Se la mette così…
 
«D’accordo, d’accordo. Ma ci sono rimasta male, lo capisci? Mi dai sicurezze e poi dici brutalmente una cosa del genere e io…mi sono sentita come se non contassi niente…»
Lui sospira.
«Senti, mi dispiace. Davvero. Capisco che per me è un meccanismo abituale e per te no, dovevo dirtelo. Ma non immaginavo… Gin, senti, sai che sono riservato. Sai che detesto il gossip. Ma come hai potuto pensare che… che dicessi davvero?»
«Che ne so? Lo hai detto con una tranquillità tale…»
«Bè, sì. Se menti, devi farlo in modo convincente. Ma è quello che direi comunque alla stampa. Non c’entra con noi»
 
Sbatto le palpebre.
Sembra…ragionevole.
Ok.
È ragionevole, conoscendo Ben.
Come ho fatto a non pensarci?
Forse perché lui sembrava così sicuro, disinvolto… così categorico.
 
Ma che razza di imbecille sono?
Se mi dicessero che gli asini volano ci crederei, a questo punto.
Sono un’idiota da guinnes dei primati.
 
Malgrado il fatto che mi senta una perfetta cretina, insisto:
«Sicuro che non c’è altro?»
«Ma altro cosa?»
«Che ne so? Vuoi essere libero sulla piazza cinematografica americana, magari?»
Lui sbuffa.
«Sei proprio simpatica per essere una che non mi parla da giorni per una cosa del genere»
«Ben, per me non è facile» lo fermo subito.
«Lo so, lo so» sospira «Gin, l’ho fatto per te. Per noi. Per la nostra privacy. Ti ricordi come hai reagito l’altro giorno per quelle foto su internet?»
 
Sì che me lo ricordo.
Prendo fiato.
Ora mi sento a dir poco imbarazzata per il casino che ho messo su.
Ben non me lo fa pesare, ma il senso di stupidità si somma all’inquietudine che avevo dentro e il risultato è una Ginevra che si impone di metterci una pietra sopra ma che continua in realtà a rimuginarci.
Che palle.
Mi detesto da sola, quando faccio così.
L’insicurezza è il mio difetto più grande.
Lo odio, ma non riesco a vincerlo.
 
Direte che stare con l’uomo che è la personificazione dei miei sogni mi abbia aiutata, immagino.
Ma, per quanto lui sia adorabile, concreto, reale e mi riempia di attenzioni, io mi sento sempre quella che per caso ha vinto la lotteria e vive nella paura che le strappino di mano il biglietto vincente gridando “Chi sei? Cosa fai qui? Figuriamoci se una sfigata del genere può vincere la lotteria!”
 
Ben conosce questo lato di me, almeno in parte.
È che si tratta di una me subdola, che sta nascosta e non emerge subito, ma solo quando sono davvero, davvero felice, così può farmi male meglio.
Però penso che lui lo sottovaluti, che non capisca davvero quanto le mie paure mi dominino.
Sto combattendo contro la mia parte irrazionale mentre torno a casa.
Lo faccio la notte e la mattina dopo sono ancora lì.
 
Il punto è: mi fido di Ben?
Sì.
 
Ok, bene.
Quindi è tutto a posto.
Ma perché mi sento come se non fosse a posto?
Voglio davvero che urli al mondo che è mio e solo mio?
Sì.
 
Ecco, ho posto la domanda nel modo sbagliato.
Ovvio che quello lo vorrei.
Ma… voglio davvero che la nostra vita diventi appostamenti, foto rubate e messe su internet, gente che si fa i fatti nostri e ci (mi) giudica inventandosi cavolate su noi due a partire da come inarchiamo un sopracciglio.
Sospiro, testa.
No, non lo voglio.
E, a parte le mie insicurezze croniche… Non lo voglio per lui.
Ci tiene alla sua vita privata, l’ha sempre difesa a spada tratta.
È un ragazzo con i piedi per terra e capisco che l’idea che si parli di lui non per la sua bravura di attore ma per chi frequenta lo mandi in bestia.
Ha ragione.
Non lo merita.
E io glielo devo: voglio il meglio per lui, a prescindere da quanto costi a me a livello personale.
 
Ma allora perché mi sento così triste?
 
 
La vita riprende.
Io e Ben ci sentiamo regolarmente e lui non torna più sull’argomento né accenna alla mia reazione, ma a volte lo sento teso.
Neppure io ne parlo.
Mi chiedo a volte se dovrei, se non sarebbe meglio scusarmi e accantonare la cosa.
Ma non voglio riaprire quel discorso, perché ho paura di reagire di nuovo come un’isterica.
Il risultato è che entrambi ci maceriamo nei dubbi… o almeno, io lo faccio.
E i dubbi centuplicano fino a diventare un tarlo infame, che mi rode l’anima con il pensiero che se ho creato una spaccatura nel nostro rapporto e se questa spaccatura si ingigantirà al punto da divorarci… bè, chi potrò ringraziare se non la sottoscritta, alias l’eterna fallita?
 
L’unica soluzione che ho è lavorare fino a sfinirmi, così non mi risparmio.
Mi adatto in breve all’ambiente e riemerge quella Ginevra sicura di sé nel lavoro che ero prima di Ben.
Vero che ero una Ginevra-solo-lavoro.
E che non mi piaceva nemmeno quella me.
Ma lo troverò mai un equilibrio?
Comunque, il teatro è in subbuglio per la prima di una commedia e siccome io sono interiormente mille volte più in subbuglio del teatro intero, sul posto di lavoro risulto calma, posata, sicura di me, capace di placare gli animi.
Il direttore di scena si complimenta addirittura, io lo guardo come se fosse pazzo e si allarmasse per nulla.
Capirai… un inglese!
Poi, la sera prima del debutto, sto aiutando Liam quando mi arriva una chiamata di Ben.
Gli faccio un cenno ed esco a rispondere.
Ci raccontiamo qualcosa del lavoro, lui mi chiede se sto bene, come vanno i preparativi, se sono tutti impazziti e come me la cavo.
Il bello è che lui ha lavorato qui, quindi conosce tutti e non ci mette nulla a immaginare e interpretare le varie situazioni.
Quando gli dico dei complimenti che mi hanno fatto sembra molto colpito, io invece sono quasi indifferente… insomma, io prima gestivo un lavoro più stressante e più complesso.
Ma Ben quella Gin non la conosce… forse pensa che sono un’impedita, se mi fa i complimenti per una cosa del genere…
Mi do una scrollata mentale.
Ora mi faccio paura davvero.
Di punto in bianco, mi chiede:
«Gin, ma tu come stai? Dico veramente»
E io, che da giorni rispondo un costante, fermo e testardo “bene”, non faccio in tempo a far partire il disco solito.
«Mi manchi troppo» dico, di getto.
Entrambi restiamo un attimo in silenzio, poi mi faccio coraggio e proseguo:
«Mi sei mancato sempre… ma in questi giorni è stato tutto più difficile…e lo so che la colpa è solo mia, ma…»
«No, piccola, non dire così. Anche io mi sento in colpa. Capisco che ti ho ferita, ma ti giuro che non volevo. Davvero, l’ho detto in automatico, non pensavo di ferirti…»
«Lo so, l’ho capito… Mi spiace essere sempre quella che crea i problemi e tu quello che deve sopportarne le conseguenze. Io ci provo, a cambiare, ma…»
«Gin, non devi cambiare…»
«Sì, invece» mi impunto «Per me, e per noi. Non voglio farmi sempre così male da sola… ma soprattutto non voglio farne a te. Mi dispiace»
«Anche a me, tanto»
«Ti amo» gli dico, per la prima volta dalla nostra litigata.
«Anche io» sospira «Iniziavo a temere che non me lo avresti più detto»
Rido, e ride anche lui.
Quando ci salutiamo, mi sento più tranquilla, ma quando rientro e Liam mi osserva e poi mi chiede, nel suo caratteristico modo brusco, se finalmente intendo darmi una calmata, scoppio in lacrime.
Lui si allarma e si imbarazza, ma alla fine, tra i singhiozzi, viene fuori tutta la storia, più tutto il corollario del Gin-pensiero.
Liam è atterrito e, alla fine, commenta con un brusco:
«Fuck you, crazy girl!»
In più, sostiene che se lui fosse stato Ben me lo avrebbe detto dopo tre secondi.
Io mi offendo:
«Ben non ti somiglia per niente!»
«Allora non tirare troppo la corda, visto che sei fortunata» dice, secco.
Ci rimugino su.
Ha ragione.
 
Lo abbraccio e mi scuso e lui mi tira i capelli, rabbonito.
Il giorno dopo, però, trovo un muffin appena arrivata al lavoro.
Ringrazio Liam, che fa finta di nulla, e ci buttiamo nella frenesia da ultimo giorno.
Saltiamo il pranzo, per cena non torno a casa: alle 21 sono sporca, stanca, accaldata e in salopette di jeans, che affianco il fonico per l’allaccio dell’audio della telecamera con cui registreremo la prima (idea mia: retaggio di ufficio stampa).
Fatto anche questo: si aprono le porte al pubblico.
La platea si riempie e mi sento pervadere dell’emozione che il teatro mi trasmette sempre: quell’aria magica e senza tempo che solo lì trovo.
Adesso, però, sono ben lontana da pensieri puri e rivolti all’arte: sogno solo di schiantarmi su una sedia e dormire (tanto ho visto tutte le prove), quando il direttore di sala mi fa un cenno.
Mi avvicino e mi chiede di portare a un ospite della prima fila un libretto autografato dagli attori.
Annuisco e mi avvio, mentre già si abbassano le luci.
Guardo l’appunto: posto 8.
È centrale, cavolo.
Mi fermo a lato del corridoio per vedere come passare senza coprire tutti, quando all’improvviso lo vedo.
 
Mi si ferma il cuore.
Seduto in prima fila, con una giacca scura, i capelli ribelli che gli ricadono sulla fronte e un’aria impassibile… c’è Ben.
Caccio un signorile urlo alla Tarzan di pura gioia e mi fiondo verso di lui, che sorride, si alza e apre le braccia per accogliermi.
 
Per me e solo per me.
 

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Capitolo 7
*** Questa notte ***


Buon compleanno, Ben 






No words.
 
Si dice così, credo.
Altro non mi viene in mente.
 
Forse è la mancanza di sonno.
Forse.
 
Ieri sera ho guardato la prima della commedia per la quale ho lavorato seduta per terra dietro le quinte, tra le gambe di Ben, che teneva il mento poggiato sulla mia spalla, mi accarezzava ritmicamente il fianco e fissava l’azione scenica come se al mondo non esistesse altro.
Come fa sempre.
Teatro o cinema, non fa differenza.
Ha l’occhio dell’addetto ai lavori.
Per lui non è un discorso di trama, di filo logico, di emozione.
È il gesto, l’occhiata, la mano, il battito di ciglia.
Sono cose che io nemmeno vedo.
Così ho girato il capo e ho osservato lui, il suo modo di guardare, che mi affascina più di ogni altra cosa.
L’espressione concentrata, la consapevolezza che non si riuscirebbe a distrarlo nemmeno pestandolo, il calore del suo corpo allacciato al mio: è stata la prima più bella di sempre.
 
Quando si è chiuso il sipario, Ben si è risvegliato, mi ha presa per mano e ha salutato tutti: attori, regista, addetti ai lavori.
E ce ne siamo andati.
 
Abbiamo camminato a piedi mano nella mano, parlando del suo volo, del film che sta girando, del mio lavoro in teatro.
Mi ha portata a casa sua, ha chiuso la porta della sua camera, mi ha spogliata con una lentezza estrema, ha voluto lasciare la luce accesa e ha fatto l’amore con me in un modo che nemmeno credevo possibile.
Voglio dire: tra noi c’è chimica, ed è fantastico.
Il sesso è grandioso.
Sempre.
Ma stanotte…
 
Dopo, mi ha abbracciata, coccolata e vezzeggiata per ore.
Ore.
E, quando ormai credevo che si fosse addormentato e fissavo il soffitto come una che ha una visione estatica e prolungata in corso, lui si è alzato sul gomito e mi ha detto:
«Non pensavo che qualcuno potesse farmi stare male come hai fatto tu in questi giorni»
L’ha detto con un tono piano, come se commentasse una cosa ovvia.
Io, per una volta nella vita, sono rimasta zitta.
E lui ha continuato:
«Hai cambiato tutto: le priorità, i rapporti umani, persino il mio lavoro. E mi piace da impazzire… e mi fa una paura fottuta. E quando ti sei arrabbiata così tanto con me io… pensavo di uscire di testa e, insieme, mi chiedevo se non sarebbe stato meglio, se mi avessi lasciato. Per riprendere i fili, per rimettere insieme… quello che facevo prima. La mia vita. La mia carriera»
Ha esitato un attimo, ma io mi sono limitata a seguire con il dito il profilo del suo petto, come se quello che diceva non mi interessasse.
«Mi sono chiesto anche se saprei stare senza di te, a questo punto. Poi mi sono chiesto come fai a farmi incazzare come hai fatto recentemente… e come hai fatto a farmi innamorare così»
 
Mi ha preso la mano.
Io ho alzato gli occhi a incontrare i suoi.
«E cosa ti sei risposto?» chiedo, piano.
Lui sospira.
«Che se fossi minimamente intelligente scapperei. TJ dice che dovrei farlo»
«Se fossi intelligente non ascolteresti TJ»
«Sarei stupido a ignorare il mio agente»
«Sei stupido a chiamarlo»
«Non l’ho chiamato. Ho fatto talmente schifo sul set dopo la nostra litigata che è venuto a darmi una lavata di testa. E mi ha detto che secondo lui è tutta colpa tua»
«Capisco»
 
Ci guardiamo, per un attimo infinito.
 
«Quindi?»  chiedo, poi.
«Quindi mi ha suggerito di prendere un aereo, venire a Londra e chiudere con te»
«E tu cosa gli hai detto?»
«Che avrei preso un aereo, sarei venuto a Londra… e ti avrei chiesto se mi vuoi sposare»





*


Scusate, non so come mi sia venuto in mente.
Ma davvero.
Non è nella scaletta della storia e non era nemmeno nel mio cervello, fino alle 16.10, quando ho arginato il delirio della mia capa, quindi ho aperto un foglio bianco e ho buttato giù...questo.
Non so cosa sia, né perché... ma me ne vergognerò domani.

A tutti voi che mi leggete: grazie.





 

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Capitolo 8
*** Sms e mail notturne ***


 

Ginevra,
Londra, 5:31 a.m.

 
 
Buongiorno!
Mi spiace aver perso la tua chiamata l’altro giorno, sorry sorry sorry. La prima è andata bene, grazie per il pensiero Sere. È oggi che hai quella presentazione? In bocca al lupo! Miss you every day, G.
 
*
 

Ginevra,
Londra, 5:33 a.m.

 
Ps: MI SPOSO!!!!!!!!!!!!!
 
*
 

Serena,
Monaco, 7:35

 
GINEVRA MORELLI!!!!!!!!!!!!!!!
 
*
 

Ginevra,
Londra, 9:12 a.m.

 
Presente. Inutili le maiuscole, non ti sento urlare: siamo troppo lontane. Dormo che non ho chiuso occhio e poi ti chiamo così ti racconto. Bacio!
 
*
 

Serena,
Monaco, 8:13

 
COL CAZZO!!!!! CAPITO!!!! CHIAMAMI SUBITO!!!! CHE CAVOLO SIGNIFICA MATRIMONIO????
 
*
 

Serena,
Monaco, 8:15

 
DI CHI È QUESTA IDEA BRILLANTE, EH?! SCOMMETTO CHE È TUA! ANZI, SCOMMETTO CHE È SUA! BE’ DIGLI DA PARTE MIA CHE È UN COGLIONE!!!!
 
*
 

Serena,
Monaco, 8:19
 

NON SARAI ANDATA DAVVERO A DORMIRE??????????
 
*
 

Serena,
Monaco, 8:27

 
Gin, dai, non ti ammazzo prima di sentire la tua versione… Non torturarmi, chiamami. PERÒ POI NON È ESCLUSO CHE TI AMMAZZI COMUNQUE!!!!
 
*
 

Serena,
Monaco, 9:45
 

NON CI CREDO CHE DORMI SECONDO ME VUOI SOLO FARMI UN DISPETTO!!!!
 
*
 

Serena,
Monaco, 9:58

 
Entro in riunione ma volevo prima dirti che sei una stronza. Ne avrò per tre ore, penso. Se non mi chiami dopo vengo a Londra a cercarti!!!!!!!!!!!!!!!!!!
 
*
 

Ginevra,
Londra, 12.54 a.m.

 
Sere, ma hai il ciclo? O sei sotto scadenza? Occhio che se vai avanti così metterai il Valium nel caffè…. Ho provato a chiamarti, è sempre staccato. Devo andare al lavoro…
 
*
 

Serena,
Monaco, 15.03

 
Gin sono scappata un attimo in bagno perché se no morivo ma sono ancora incastrata con questi stronzi delle protesi. Non vedo l’ora di sentirti. A dopo xxx
 
*
 

Ginevra,
Londra, 2.30 p.m.

 
Le sofferenze corporali ti addolciscono, eh?! :)
 
*
 

Serena,
Monaco, 18.45
 

CHIAMAMI!!!!!!!!!!!!
 
*
 

Ginevra,
Londra, 5.53  p.m.
 

Non posso, sono in teatro!! :( Ascolta, viene a prendermi Ben e andiamo a cena….ti spiace se ti chiamo domani?
 
*
 

Serena,
Monaco, 19

 
CERTO CHE MI DISPIACE!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
 
*
 

Ginevra,
Londra, 6:03 p.m.

 
Ve bene, allora ti chiamo prima del ristorante, ma mi spiace avere poco tempo per chiacchierare… Dopo cena?
 
*
 

Serena,
Monaco, 19:06
 

Ho una cena con dei colleghi…. Li manderei a cagare, per te, ma immagino che dopo cena Ben pensi di scoparti fino all’alba…
 
*
 

Ginevra,
Londra, 6:12 p.m.
 

:))))))))))))))))))))))))))))))))))))))))))))))))))))))))))))))))))))))))))))))
 
*
 

Serena,
Monaco, 19:30

 
Lo so che lo ami. Ma stai attenta per favore!!!!!!
 
*
 

Ginevra,
Londra, 6:52 p.m.

 
Lo amo da impazzire. Sono pazza di lui. non ci capisco più niente, so solo che è la cosa più stupenda che mi sia mai capitata nella vita e io lo amo lo amo LO AMO!!! Sere, è tutto per me… dimmi che stai dalla mia parte! Ne ho bisogno!!!
 
*
 

Serena,
Monaco, 20:02

 
Ma certo che sto dalla tua parte, che cavolo dici?! Non so se sto dalla sua, perché sarà meglio per lui se non ti fa mai nemmeno aggrottare la fronte perché altrimenti lo ammazzo! Ma…Gin, sei davvero, davvero sicura? Vuol dire per sempre! Parliamone, ti prego! Xxx
 
*
 

Ginevra,
Londra, 7:32 p.m.

 
Sere, lo so che è per sempre. Lo voglio! Ma tranquilla, non ci sposiamo subito… So che stiamo insieme da poco, so che per lui mi sono trasferita… Ma è Ben, il mio Ben. Ne vale la pena, lo so.
 
*
 

Serena,
Monaco, 20:40

 
Definisci “non subito”!
 
*
 

Ginevra,
Londra, 7:53 a.m.

 
Ne abbiamo parlato tanto e io lo voglio e lui lo vuole ma sappiamo entrambi che ci sono mille questioni: la lontananza, il suo lavoro, la mia vita da inserire in un binario… Lo vogliamo, lo faremo, ma non domani né il giorno dopo quindi tranquilla! Prima vado un po’ con lui a Los Angeles, non so bene quando…. Devo trovare una dimensione mia qui… a parte lui, ovvio, ma lui è il mio mondo!
 
*
 

Serena,
Monaco, 21

 
Va bene allora…. Tuo padre fa ancora in tempo a ucciderlo!!! Non abbandono la speranza!!!!!!!!!!
 
*
 

Ginevra,
Londra, 8:04 p.m.

 
SERENA!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
 
*
 

Serena,
Monaco, 21:06

 
Magari in America ti innamori di qualcun altro! Magari tuo padre ti segrega in casa! Magari vieni a vivere in Germania con me!! … Magari è ora che entro, mi aspettano. Bene, la condanna a morte è sospesa…finché non parliamo. Ma nutro grandi speranze su tuo padre!
 
*
 

Ginevra,
Londra, 8:09 p.m.

 
Sere, inizia a cercare il vestito da damigella… giallo limone, direi!
 
*
 

Serena,
Monaco, 21:11
 

STRONZA!!!!!
 
 
*
 

Ginevra,
Londra, 2:13 a.m.

 
 
Cara Sere,
 
malgrado io ci scherzi su, so che sei preoccupata per me e questo pensiero non mi fa dormire bene… quindi eccomi qui, in piena notte, a scriverti questa email.
Prima cosa: la mail non sostituisce il telefono.
Lo so,  non lo faccio per vigliaccheria, giuro.
Anche il telefono non sostituisce il vederci di persona, purtroppo.
Ma il fatto è che siamo lontane e, anche se entrambe facciamo fatica a convivere con questa cosa, purtroppo è la realtà.
Devo dire che Londra mi piace da morire.
È piena di vita, di gente, di  cose, di…tutto.
Colori, suoni, voci, arte, strade, negozi, teatri, quartieri incredibili.
È come stare a mille.
E quando c’è Ben è ancora più bella… Lo so, ora dirai che mi sto rimbecillendo – se non è già successo – ma il fatto è che io nemmeno immaginavo che una persona potesse farti stare così.
Così bene… e così male.
Non te ne ho parlato perché me ne vergogno, so che è un problema mio, ma… qualche settimana fa Ben ha rilasciato un’intervista dove diceva di essere single. Mi ha spiegato che lui vuole proteggere la nostra privacy e che detesta il pensiero della stampa che ficca il naso nella sua vita e lo capisco, ed è da lui.
Ma io ci sono rimasta male, perché non me l’aspettavo.
E mi sono sentita la fidanzata invisibile (fa molto melodrammatico, ma insomma…).
Poi abbiamo parlato, ma c’era abbastanza freddezza tra noi.
E così è venuto a Londra, a chiedermi scusa e a chiarire… e poi me l’ha chiesto, Sere!!
Non potevo crederci, pensavo di avere capito male…. Vorrei riuscire a spiegarti cosa ho provato ma non ne sono capace, so solo che il mio cervello era un turbinio di pensieri, emozioni…
Peccato che la prima frase che mi sia uscita sia stata “Le mie paranoie non sono un buon motivo per propormi il matrimonio”.
Ben per mi ha spiegato le sue motivazioni, ne abbiamo parlato tutta la notte.
Dice che assolutamente non me lo ha chiesto per me, ma per lui e che le mie paranoie non c’entrano.
Anzi.
La sostanza è stata questa: l’ho fatto incavolare seriamente a forza di paranoie e problemi, che con la distanza sono amplificati, quindi per un momento ha pensato di lasciarmi.
Cioè, non proprio di lasciarmi: ha pensato a come sarebbe stata la vita se fosse tornato single.
Sai… libertà, non dover rendere conto a nessuno di nulla, poter prendere gli aerei che vuoi, fare gli orari che vuoi…
E dice che si è sentito terribilmente solo e sperduto.
Che io sono entrata nella sua vita (Io!! Ancora non mi sembra vero…anche se lo so che è vero!) e che senza di me non vuole starci, anche se a volte è dura.
E stare insieme, per due adulti, vuol dire prendersi delle responsabilità.
Se stai per dire (o anche solo per pensare) che stare insieme non significa per forza sposarsi, non farlo.
Per me è così.
E anche per lui.
Scegliere una persona per tutta la vita.
Sapere che lui è l’uomo che io ho scelto per me, che mi impegno con lui e solo con lui.
Che sarà lui e nessun altro, per sempre.
Sere, io lo voglio.
Davvero: non sono mai stata più sicura di qualcosa in vita mia!
 
Ora, veniamo all’”attesa”: come ti dicevo ne abbiamo parlato tanto (dopo che ho rischiato di soffocarlo abbracciandolo e urlando sì sì sì sìsìsìsìsìsìsìsìsììììììììììì!!!!) e abbiamo deciso che abbiamo tutto il tempo.
Questo non toglie serietà all’impegno, ma non dobbiamo correre: le nostre famiglie devono avere il tempo di metabolizzare e noi due dobbiamo trovare una stabilità geografica, almeno!
Fatto ciò… abito giallo limone per te! J
 
Scusa per le confuse spiegazioni, amica mia, ma io sono davvero tanto felice, entusiasta, grata e innamorata follemente! Di lui e solo di lui!! detto ciò, coglierò il tuo suggerimento pomeridiano e andrò svegliarlo per avere… il secondo round!
 
A presto, ti voglio bene,
Gin
 

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Capitolo 9
*** L'America ***


 
Otto mesi dopo
 
 
Sono seduta sulla mia valigia, in aeroporto, e sfoglio pigramente Vanity Fair.
 
Nella mia nutrita pila di giornali fa bella mostra di sé anche Vogue Sposa.
Del resto, io sto per sposarmi.
Continuiamo a rimandare la data, ma va benissimo così.
Del resto, il mio fidanzato è un attore famoso e capisco bene che fa una vita un po’ complicata.
Corre di qua e di là per il mondo per casting, provini e incontri con registi.
In più, ha famiglia a Londra, ha me tra Londra e l’Italia e il suo agente fa pressione sempre di più perché passi il suo tempo in America.
Tutto questo non mi spaventa.
Capisco che Ben è in una fase cruciale della sua carriera e voglio essere forte per due, per entrambi noi.
Più la sua agenda si riempie di impegni, più io cerco di liberare la mia.
Sono consapevole del fatto che una vita con lui sarà una vita raminga, per almeno altri dieci anni.
Ma lui ama il suo lavoro e a me va bene così.
Solo che cercare un lavoro stabile penalizzerebbe la mia relazione e io me ne rendo conto.
Il lavoro teatro per un po’ è andato bene, ma di per sé è imprevedibile e poi io non voglio essere legata.
Speravo che avremmo vissuto a Londra, ma considerando che Ben ha trascorso sette di questi ultimi otto mesi in America a questo punto mi sembra poco probabile.
 
Ma, ehi!
Siamo giovani, innamorati e senza legami fissi.
Io ero in affitto, lui ha lasciato casa a suo fratello.
Ce la caveremo, basta stare insieme.
Il resto non conta.
Sono disposta a un po’ di instabilità per avere Ben.
 
Mollo Vanity e prendo in mano Vogue.
Guardo le foto degli abiti e degli allestimenti e la mia mente torna a quattro mesi fa, quando Ben è comparso all’improvviso a Londra e, senza darmi neppure il tempo di stupirmi, mi ha trascinata in aeroporto e mi ha portata a Parigi, per quattro magici giorni.
Una fuga romantica da guinness dei primati.
Dopo Parigi, siamo stati a Berlino e dopo Berlino a Siviglia.
Ben cerca di dedicarmi quanto più può del suo pochissimo tempo e io sono felice come non mai.
L’idea del matrimonio elettrizza entrambi.
Facciamo i piani più folli, facciamo disperare le nostre madri e poi molliamo tutto e scappiamo via per un weekend.
Siamo due vagabondi… Ma che possiamo farci?
 
Chiamano il mio volo e mi affretto verso l’imbarco.
Stavolta parto davvero e vado a Los Angeles anche io.
 
 
*
 
Il volo è infinito e quando sbarchiamo sono stravolta.
 
Nascondo il viso stanco dietro gli occhiali da sole e mi muovo indecisa in questo aeroporto immenso e sconosciuto.
C’è gente di tutti i tipi.
Mentre fisso perplessa una lunga coda ad un bar, sento due braccia che mi afferrano la vita e mi tirano indietro, verso un petto solido.
Chiudo gli occhi e respiro il suo profumo.
 
Ben è qui.
 
 
La luce di Los Angeles mi abbaglia.
È tutto così bianco, così ricco, così da film.
Le palme, le strade, la gente.
Ben guida sicuro in mezzo al traffico e tiene la mano destra sul mio ginocchio.
Io gioco con le sue dita e mi guardo attorno, avida di scoprire di più su questa parte della sua vita che mi è ancora sconosciuta.
Quando arriviamo sgrano gli occhi di fronte alla villa che ci aspetta.
«Wow» dico, colpita dalla ricchezza e dalle dimensioni.
«Bella, eh?» dice Ben, sorridente «C’è anche la piscina in giardino»
«Cavoli. È per questo che non vuoi tornare a Londra, eh?» dico, scherzando.
Lui mi prede la valigia dalle mani.
«No… Londra è una città stupenda, ma qui c’è una cultura cinematografica diversa… E poi c’è sempre il sole… Ah sì, aspetta: ora c’è anche la mia ragazza!»
Rido e mollo il bagaglio a mano per lanciargli le braccia al collo.
«Per ultima? Dopo il sole e la cultura cinematografica?»
Lui mi morde piano un labbro e poi dice:
«Sai qual è la parte più bella della casa? La mia camera da letto!»
Impossibile fraintendere lo scintillio nei suoi occhi.
Fingo di pensarci su.
«Ah sì? Mmm… ma prima vedrei volentieri la piscina…»
Ben sbuffa e io ridacchio, poi mi trascina in casa.
 
Pregusto già il momento in cui saremo finalmente soli…
E, invece, lui quasi inciampa su un cane.
Mormora una mezza imprecazione, mentre l’animale gli azzanna indispettito i jeans.
«Oh, dai, Zeus» sospira lui «Lasciami!»
Sto ancora fissando il cane, perplessa, quando da una porta esce ancheggiando una ragazza bionda, alta e per giunta mezza nuda.
Io sbarro gli occhi e quella miagola e si lancia addosso a Ben.
Lui, imbarazzato, le dà una pacca sulla spalla, si tira indietro e si allunga a prendermi la mano.
Io quasi inciampo sul cane a mia volta, goffamente.
La ragazza mi guarda come se fossi un’aliena.
Ben mi presenta e sottolinea chiaramente, almeno tre volte, “la mia ragazza”.
La vichinga sembra sempre più perplessa.
«Quale ragazza?» dice.
Io stringo gli occhi, minacciosamente.
In quel momento arriva il coinquilino di Ben: lo riconosco dalle foto che ho visto.
Abbraccia la ragazza e, distrattamente, le accarezza il seno (ma è matto? Ci siamo noi due, qui!), intanto dà il cinque a Ben e poi squadra me.
 
Io sono stanca, sfatta per il volo e inizio francamente ad essere di malumore, ma voglio sforzarmi di essere gentile.
Questo ragazzo vive con Ben, dopotutto.
Non voglio creare problemi in casa… Tranne, magari, bandire l’accesso alle vichinghe?
Comunque.
Gli tendo la mano e lui me la stringe un secondo, annoiato.
Poi chiede qualcosa a Ben con un accento americano talmente stretto che non capisco nulla.
Intanto, la vichinga mi osserva come se io fossi una strana attrazione turistica e io ricambio l’occhiata.
L’amico di Ben le sta praticamente togliendo il reggiseno.
Mi sembra il caso di andare.
Mi schiarisco rumorosamente la voce e Ben, che sta dicendo che siamo entrambi stanchi per cui stasera staremo a casa (sì, grazie!), capisce al volo e mi dirotta verso un arco nel muro.
Attraversiamo un soggiorno enorme e luminoso e, mentre lui mi tira per mano e quasi corre in camera sua, mi sembra di sentire la voce della vichinga chiedere se davvero Ben sta insieme a me.
 
 
Me lo dimentico.
Nelle ore che seguono me lo dimentico.
Mi dimentico ogni cosa e la mia vita si riduce a essere quello che sta dentro le pareti della sua stanza.
Facciamo l’amore finché praticamente io non crollo addormentata.
Quando mi sveglio sono intontita e mi fa male tutto.
Ben mi prepara un panino e io mi addormento di nuovo.
Quando mi sveglio, c’è il sole e Ben mi tiene stretta.
Indossa solo i boxer e mi sembra che sia sempre più bello, con quella barba corta e i capelli scarmigliati.
Sorrido pigramente e lui mi solletica la schiena con le dita.
Rabbrividisco di piacere e mi stringo a lui.
Gli bacio il petto e sbadiglio.
«È ancora giorno… Possiamo uscire» bisbiglio.
Ben ride.
«No, piccola. È di nuovo giorno, semmai. Sei arrivata ieri!»
«Cosa?»
Mi sollevo su un gomito, ma poi crollo di nuovo sui cuscini.
«Ma come può essere?» borbotto.
«Tranquilla» risponde «È il volo. E il fuso orario. E l’attività fisica» sorride malizioso.
Io affondo il viso nel suo petto.
«Mi sei mancato» bisbiglio.
«Anche tu»
Sento che mi bacia i capelli.
«Sei rimasto sempre qui con me?»
Annuisce.
«Certo»
«Ma… ho dormito quasi un giorno!»
«Ma io non voglio stare da nessun’altra parte, se non qui con te»
«Sposami» gli dico.
Lui ride.
«Non vale. Te l’ho chiesto prima io!»
 
 
***
Incredibile: sono tornata! 
Quanto mi mancavano questi due!! Sono imperdonabile... Ma ora sono tornata :)
Sapete dove trovarmi per ogni informazione:
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Buona lettura,
Joy

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Capitolo 10
*** Socializzare? ***


Che bella è, Los Angeles?
 
Fa caldissimo, c’è un sole incredibile.
Ci sono le palme.
Il cielo è di un blu abbagliante.
Cammino per strada con Ben in infradito, jeans e canottiera e ancora mi sembra incredibile essere davvero qui.
«È bellissimo!»
Ben mi stringe la mano.
«È bella l’atmosfera, se sei un attore. Ma ci sono città americane stupende davvero… Tipo San Francisco. Ti ci porto presto»
Gli rubo un bacio.
«Bene, fantastico! Ehi, vuoi sposarti qui?»
Lui ride.
«In spiaggia? In infradito?»
«Perché no?» fingo di pensarci su «Non sarebbe male. Potremmo dire a tutti di venire vestiti con gonnellini di paglia»
Ben scoppia a ridere, poi scuote il capo.
«Non vuoi sposarti a casa tua, in Italia?»
Sospiro e poi annuisco.
«Sì… Ma solo se sei d’accordo anche tu»
«A me basta che tu mi dica dove e io ci sarò»
 
Ci guardiamo intensamente, come penso sappiano fare solo sue idioti innamorati pazzi.
 
*
 
Passiamo tre giorni in romantico isolamento, poi la realtà bussa alla nostra porta.
 
Ben deve darsi da fare per un’audizione importante e deve mettersi a studiare seriamente, ma prima propone di andare a un party in piscina, dove mi presenterà i suoi amici americani.
Sono entusiasta: in questi giorni siamo stati sempre da soli, ma so che lui, ormai, in America ha un giro di amici, com’è normale che sia visto che, dal suo primo film di Narnia, passa mesi e mesi in America ogni anno.
Sono tutti attori, ma è normale: in questa città anche i baristi sono praticamente dei modelli e mentre ti servono il caffè ti spiegano che sono attori esordienti ma in procinto di sfondare.
La concorrenza è davvero tremenda.
Per cui è doppiamente bello che Ben abbia degli amici che lo supportino e lo introducano nei giri “giusti”, visto che lui non vive qui in pianta stabile.
 
Andiamo alla festa insieme al suo coinquilino Tom (con il quale il dialogo si è praticamente fermato al saluto al mio arrivo), accompagnato da una ragazza che non è la vichinga dell’altra volta: questa è altissima e bruna.
Gli sorrido, cordiale, e gli chiedo come sta la sua ragazza (perché quella che stava spogliando l’altra volta è la sua ragazza…vero?).
Mi guarda come se fossi pazza.
Non mi degna di una risposta e due minuti dopo è avvinghiato alla mora.
Io mi volto verso Ben, senza parole.
Lui alza gli occhi al cielo e, in italiano, mi spiega che Tom ha “qualche problema con le relazioni stabili”.
Oh. Vedo.
 
Arriviamo alla festa e, prima di entrare, Ben mi abbraccia forte e mi dice di non preoccuparmi perché tutti mi adoreranno e comunque è una cosa rilassata tra amici.
Gongolo per le sue premure… Almeno finché non vedo quanto è “rilassata” la cosa.
Innanzitutto, la piscina è costruita nel retro di una villa megagalattica.
Solo il giardino sembra un parco naturale.
Ci sono due campi da volley, uno da tennis e una zona in cui si innalza un falò.
Inoltre, c’è un patio smisurato con divani candidi.
Sbatto le palpebre, senza parole, e Ben mi stringe dolcemente la mano.
«So che all’inizio sembra assurdo» mi bisbiglia «Ma qui è normale»
«Sembra di essere in un film!» ribatto, quasi smarrita.
Insomma… questo sarebbe un normale pomeriggio tra amici?
E per “festa” allora cosa intendono?
Noleggiare uno shuttle per la Luna?
Ben mi dà un bacio al volo.
«Lo so! Fantastico, eh?»
Mah, insomma…
A me veramente mette un po’ di ansia.
Ma comunque sorrido timidamente e avanzo insieme a Ben.
Tom molla la tizia senza alcuna remora e si avvicina a delle ragazze decisamente poco vestite, afferrandole con le sue braccia muscolose.
Quelle strillano e lo baciano allegramente; una gli infila chiaramente la lingua in bocca e lui ricambia allegramente.
Io lancio un’occhiata preoccupata alla ragazza che è venuta con lui, ma lei è intenta a spogliarsi: si sfila gli short e la canotta, poi toglie anche il pezzo di sopra del costume e si lancia in piscina, beata.
 
Oh, bene.
Che coppia, ragazzi.
 
La sto ancora guardando mentre sguazza, quando sento Ben tirarmi dolcemente per mano.
Due ragazzi e due ragazze si avvicinano sorridenti: tutti abbracciano Ben calorosamente.
Le due tipe anche troppo calorosamente.
Una bacia Ben quasi sull’angolo della bocca, lui ride ma si allontana discretamente.
Quindi me li presenta: Sarah, Josh, Cindy e Travis.
Io sorrido e stringo la mano a tutti, ma loro mi degnano appena di un’occhiata.
Sarah si appiccica al fianco di Ben, ma lui garbatamente si scansa e mi passa il braccio sulle spalle.
Io intreccio la mano alla sua e la guardo fissa, finché quella fa un passo indietro, scocciata, e si allontana senza salutare.
La sua amica Cindy fissa perplessa le nostre mani intrecciate; i due ragazzi sembrano non vederci neppure.
Chiacchierano tutti per un po’ di un tale Austin che a quanto pare ha fatto un grosso, grosso provino che è andato molto, molto male e poi ci lasciano soli.
Ben mi accompagna verso il bar e mi prende un’aranciata, mentre per sé stappa una birra.
Mi lancia un’occhiata indagatrice mentre io sorseggio piano la bibita.
«Ascolta, Gin» mi dice, serio «Questa città può spaventare: è tutto ricco, nuovo, esagerato. Lo capisco, davvero. Queste persone sono miei amici e io ci sono affezionato, ma ora qui ci sei tu e l’importante è che tu sia a tuo agio. Quindi, se non ti trovi bene me lo dici e ce ne andiamo, ok? Abbiamo tutto il tempo per socializzare»
Io sorrido.
«Capito. Ma va tutto benissimo! Sono felicissima di conoscere i tuoi amici, davvero!»
«Sicura? Perchè…»
«Certo che sono sicura!» taglio corto.
 
Lui scrolla il capo, mi prende per mano e ci avviciniamo agli altri.
 
*
 
Dicevo sul serio: io voglio conoscere i suoi amici.
 
Mi sta venendo il dubbio, però, che ai suoi amici freghi ben poco di conoscere me.
 
Sono seduta da mezz’ora su una sdraio e stringo il bicchiere ormai vuoto tra le mani.
Attorno a me ci sono sei ragazze che sembrano tutte delle modelle e che mi ignorano bellamente.
Ogni volta che provo a dire qualcosa è come se fossero sorde.
Per cui, al terzo tentativo ci ho rinunciato.
Sto al mio posto e cerco di rimanere calma e ogni volta che Ben guarda verso di me gli sorrido, sperando di apparire rilassata.
Ma sono sempre più tesa.
Di norma, io sono una che non ha problemi a socializzare.
Anzi.
Potrei far parlare persino un muro… Ma questa gente?
Le ragazze parlano solo di diete, ragazzi, scopate, provini, diete.
Ce ne fosse una che mi avesse chiesto come mi chiamo, per dire.
Da dove vengo o cosa faccio lì.
 
Però non devo essere ingiusta: una reazione l’ho suscitata.
Quando ho addentato un panino al salame mi hanno guardata come se fossi un dinosauro, poi hanno squadrato i miei fianchi e, piene di riprovazione, si sono voltate dall’altra parte.
Benissimo.
Ostentano tutte abbronzature perfette, fisici quasi anoressici e un totale rifiuto per il cibo, che però non si estende anche all’alcool, a quanto pare.
Una tizia, Shannon qualcosa, si è alzata tre minuti fa, si è sfilata il reggiseno, ha fatto la ruota sull’erba come se niente fosse ed è andata a prendersi una birra.
L’ha scolata praticamente alla goccia ed è stata salutata da un’ovazione generale dei ragazzi, radunati in acqua.
Ben è l’unico che è rimasto in silenzio e io l’unica che quasi soffocava con l’aranciata.
Lei ha fatto finta di nulla ed è tornata impettita a sedere, con le tette (chiaramente rifatte) all’aria.
Ogni tanto, qualcuna qui lancia via un pezzo di abbigliamento.
E sono già mezze nude.
Capisco, sono i loro amici, ma…
Ho ascoltato almeno tre conversazioni in cui le ragazze si lamentavano di ragazzi qui presenti e poco dotati o poco capaci.
Almeno quattro di loro sono andate a letto con Tom, il coinquilino di Ben.
E, a quanto pare, è per questo che la ex di Tom, Destiny, le odia a morte.
È seduta in un angolo, da sola, che prende il sole in topless e finge di non vedere che le sue sedicenti “amiche” le ridono dietro e Tom si limona qualunque donna gli capiti a tiro.
 
Coraggio, Destiny, alla fine sono arrivata io a farti da sfigata di spalla.
 
Ad un certo punto, le ragazze si alzano tutte insieme e si mettono in marcia come se fossero una squadra militare.
Io salto in piedi in ritardo, presa di sorpresa.
Cindy sghignazza chiaramente nella mia direzione e si sfila gli short.
È bassa ma ha due belle gambe, la maledetta.
E chiaramente lo sa, da come sculetta.
Si dirigono tutte verso la piscina e ci saltano dentro alla rinfusa.
Si attaccano ai colli dei ragazzi, si sfilano i costumi.
Ma che cavolo?!
Io resto paralizzata e vedo Ben issarsi velocemente fuori dalla piscina.
Cindy lo afferra per una gamba e fa il gesto di sfilargli il costume.
Lui le allontana la mano con un sorriso, ma con un gesto fermo.
Poi viene verso di me.
Mi prende per il braccio e mi dirotta verso i divanetti.
Passiamo accanto alla reietta Destiny e lei mi lancia un’occhiata compassionevole.
Ben afferra un asciugamano e si asciuga velocemente, poi si siede e mi tira vicino a sé.
Io guardo per terra e lui mi abbraccia.
«Basta piscina, per oggi» mormora «Stai un po’ qui con me»
Si sdraia sull’ampio divano candido e io mi stendo accanto a lui; la sua mano sale subito ad accarezzarmi i capelli.
Giocherella con i miei ricci, mentre entrambi fissiamo la battaglia che impazza in piscina.
Ben si schiarisce la voce:
«Ti stai annoiando?» chiede.
Io fisso i corpi perfetti che si agitano in acqua.
«No» rispondo «Certo che no»
«Bene»
Una pausa.
«Sono state carine, con te?»
Io esito.
«Sì»
«Oh, bene» Ben sembra più tranquillo «Temevo che non le avresti trovate troppo… stimolanti, ecco. Ma sono brave ragazze»
Io non ribatto.
Sicuramente non sono particolarmente brillanti, ma non mi sembra il caso di spiegargli che quella che non è all’altezza, ai loro occhi, sono io.
Loro sono belle, fisicate e glamour: sono io quella fuori posto.
Nascondo le gambe sotto l’asciugamano di Ben, quasi inconsciamente.
«Lo so che sembra tutto un po’ forzato» insiste lui «Però sono simpatici. Davvero»
 
Resto in silenzio.
Cosa dovrei dirgli?
Che non mi piacciono?
Sarei superficiale: non ci ho neppure parlato, si può dire.
Che non mi hanno nemmeno rivolto la parola?
Sembrerei lagnosa e io non voglio esserlo.
Non voglio essere patetica e incapace di inserirmi in un qualsiasi ambiente: se così fosse, come potrei sperare di portare avanti un rapporto con una persona che in questo ambiente passa la quasi totalità del suo tempo?
Va bene: sono attori e sono ricchi.
Saranno un po’ superficiali e presuntuosi, non è la fine del mondo.
Quando li conoscerò meglio si sistemeranno le cose.
E, se continueranno e non piacermi, pazienza.
Chi dice che devono piacermi?
Li vedrò qualche volta e basta.
Sospiro e mi rannicchio tra le braccia di Ben.
«Se a te piacciono, piacciono anche a me» dico.
E lui sorride.
Mi bacia e il resto del party mi diventa indifferente.
 
 
La sera, Tom propone di far qualcosa tutti insieme: io e Ben e lui e la tizia che si è portato a casa dalla piscina e che – udite udite – non è la stangona mora.
Questa è bionda.
Ma non è la vichinga.
Inizio a pensare che Tom abbia dei problemi, detto tra noi.
Voglio dire: ok non avere relazioni stabili, ma le sue non durano nemmeno una giornata.
Non credo sia molto normale.
Ben rifiuta garbatamente e dice che ha voglia di stare un po’ con me e di scusarci.
Tom e la tizia mi guardano a bocca aperta, come se si stessero chiedendo cosa ho di così speciale per far sì che Ben li ignori.
L’attenzione di lui dure tipo due secondi, mentre la ragazza continua a squadrarmi, finché Ben non le chiede se c’è qualche problema.
Lei alza le spalle.
«Se non ne hai tu! Ciao, Ben!»
Io stringo i denti.
Ben sembra sul punto di dire qualcosa, ma ci ripensa.
 
Usciamo a cena e poi mi porta in un locale.
Ci divertiamo, ridiamo, flirtiamo.
Io mi rilasso, finalmente.
Stretta tra le sue braccia, Los Angeles mi sembra bellissima.


***
Buongiorno!
Ho cambiato giornata per gli aggiornamernti di questa storia: il fandom di Ben è ufficialmente assegnato al martedì ;)
Per tutte le novità sapete dove trovarmi: 
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Buona lettura,
Joy

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Capitolo 11
*** Il provino ***


 
Ok, ora capisco cosa intendeva dire Ben quando sosteneva che questa città è bella a colpo d’occhio ma poco profonda.
 
Sono seduta sconsolata sul terrazzo, al sole.
Si muore di caldo, ma mi vergogno a stare qui in bikini mentre le stangone di Tom entrano ed escono, inorridendo per via della mia cellulite appena mi scorgono.
Ben sta studiando per la sua audizione da due settimane.
 
Non l’ho mai visto così.
 
Diventa sempre più nervoso e, più si innervosisce, meno si riesce a parlargli.
Parlargli nel senso chiedergli se vuole mangiare qualcosa, non parlargli nel senso di distrarlo.
Si è barricato in camera e sopravvive a forza di sigarette e birra.
Io sto sclerando.
Ma seriamente.
Non parla, non ride, non smette, nemmeno mi guarda in faccia.
Non dorme.
Stanotte non è venuto a letto.
Ieri Tom ha alzato il volume dello stereo a palla per offrire alla modella di turno un improvvisato party in salotto e io stavo proprio per chiedergli educatamente se poteva abbassare giusto un po’ il volume, quando Ben è uscito urlando dalla camera.
Non l’ho mai visto urlare così.
Sono rimasta di sale.
Tom si è limitato a spegnere lo stereo e a rintanarsi in camera con la ragazza.
Dopo un po’, sono iniziati i gemiti e le urla.
Ben è uscito di nuovo ed ha semplicemente mollato un calcio alla porta di Tom.
È seguito il silenzio.
 
Io sono rimasta interdetta.
Ma chi è, questo tizio?
Non è certo il mio Ben!
 
Mi sistemo il pareo mentre una nuova ragazza, mai vista, esce in terrazzo.
Mi guarda e sgrana gli occhi, poi abbassa lo sguardo sul suo fisico perfetto.
Quando si volta soddisfatta, rivolgo una smorfia alla sua schiena.
 
Molto maturo, Gin.
È che sono così stanca.
 
Fa un caldo insopportabile e io non ce la faccio a non vedere Ben.
Non voglio certo che mi faccia da balia, ma sta barricato a cinque metri da me e io qui sembro una reietta!
Sono uscita, ho fatto passeggiate, ho letto, ho ascoltato musica (in cuffia), ma adesso basta.
Non ne posso più.
Non sono abituata ad essere ignorata da lui.
Tra l’altro, non può vivere così.
 
 
Mi alzo di scatto e marcio decisa verso la nostra stanza.
Apro la porta senza bussare e Ben fa un salto sulla sedia.
Mi guarda, furente, ma io rifiuto di farmi intimidire.
«Non osare dirmi nulla» gli dico «Guardati: fai schifo. Vai a farti una doccia e vieni a mangiare qualcosa»
Lui serra le labbra e io incrocio le braccia.
Ci guardiamo in cagnesco.
Dopo un attimo, Ben batte le palpebre e sospira.
Poi mi tende le braccia.
Io resto immobile.
«Vai a farti una doccia»
Giro sui tacchi ed esco.
 
Gli preparo dei sandwiches e gli verso del succo d’arancia, poi faccio il caffè.
Lui arriva in accappatoio, con i capelli ancora bagnati e la barba lunga e prima di sedersi mi tende di nuovo le braccia, senza parlare.
Stavolta mi avvicino e lui mi stringe forte.
Affondo il viso nella sua spalla e restiamo immobili per un po’.
Lui mi accarezza la schiena e si scusa a bassa voce.
Mi dice che è nervoso, che i provini lo esauriscono e lui esce di testa quando si sente così sotto pressione.
Che non è assolutamente colpa mia e che gli dispiace essersi fatto vedere così da me.
Io resto in silenzio, cercando di assorbire l’impatto di questa sua vita che vedo e che mi sembra in tutto e per tutto folle.
Poi lui si siede e mangia, ma mi tiene la mano come se temesse di vedermi scappare via.
Io gli accarezzo distrattamente il braccio con la punta delle dita, mentre lui fa fuori tutti i panini.
«Che fame» dice, dopo un po’.
«Per forza» rispondo, atona «Non mangi da giorni»
Lui inghiotte un boccone enorme e posa la mano sulla mia gamba, risalendo sotto il pareo.
Io resto immobile e silenziosa.
Lui allontana il piatto, ma la mano resta sulla mia gamba.
«Mi dispiace, davvero» dice, ancora «Speravo di non mostrarti ancora questo lato nevrotico di me»
Ride per stemperare la battuta.
«È solo che questa città è davvero competitiva, Gin. Le audizioni sono sempre pienissime e ci sono migliaia di attori con curriculum migliori del mio. È difficile affermarsi qui… Molto più di quanto non avessi previsto»
«Ma tu sei affermato» obietto.
«No. Per gli standard americani assolutamente no. Qui l’unica cosa degna di nota che ho fatto è stato il primo film su Narnia. Qui contano solo i kolossal e io ho fatto prevalentemente produzioni minori o indipendenti. Devo fare di meglio, Gin»
Le sue mani tracciano dei cerchi sulla mia pelle e io chiudo gli occhi.
Lui si sporge verso di me.
«Il mio agente mi ha proposto un paio di grossi progetti, ma su uno c’è molta incertezza. Devo dare il massimo. TJ mi ha chiamato anche oggi e mi sta facendo pressioni per il provino»
Sento le sue dita abbassare la spallina del mio top e le sue labbra baciarmi delicatamente la pelle.
Sa che odio il suo agente e non insiste.
«Mi dispiace tanto, Gin» dice, dopo un po’.
Mi bacia la spalla, poi il collo.
Le sue mani mi alzano il pareo.
Inizio a rilassarmi.
Mi scosto i capelli dal collo e mi protendo verso di lui: non gli servono altri inviti.
Mi mordicchia la pelle della spalla mentre fa per sfilarmi la canottiera, ma io gli scosto le mani.
«Ben, che fai?» gli dico «Non vorrai assomigliare a Tom, per la miseria!»
 
Finiamo in camera, a fare l’amore.
A letto e poi nella doccia.
Dopo la doccia, obbligo Ben a sdraiarsi sul letto.
Lui fa per protestare, ma a metà di una frase si addormenta praticamente di botto.
Non fosse che sapessi che non è il suo caso, lo scambierei per un drogato, per via dei picchi adrenalinici.
Sospiro e lo copro con il lenzuolo.
 
*
 
Dopo questo episodio, Ben cerca di darsi una regolata.
 
Continua a studiare come un forsennato, ma almeno mangia regolarmente e si lava.
È chiaramente nervoso, ma cerca di dominarsi, almeno quando ci sono io.
Non so come aiutarlo.
Mi sento impotente.
Sono abituata a un Ben rilassato, sorridente e divertente.
Sempre amorevole, sempre dolce.
Non so cosa fare con i suoi nervi e le sue idiosincrasie.
Non voglio essere invadente e, sinceramente, non so quanto mi permetterebbe di avvicinarmi.
Abbiamo fissato una tregua e ci atteniamo a quella.
Vedo che quando sta per esplodere esce di casa.
Si porta sempre il copione.
Se lo porta anche a letto, a momenti.
Beve molto e dorme poco.
Io mi tengo occupata e non dico nulla.
È adulto, non gli serve una madre.
Ma non riesco a non preoccuparmi per lui.
 
Siccome non conosco nessuno, se esco sono da sola.
Mi sta benissimo.
Passeggio con l’iPod nelle orecchie e mi godo il sole.
Cerco di non pensare a Ben che chiede a Tom di farmi compagnia: entrambi abbiamo annuito davanti a lui e poi abbiamo ripreso a ignorarci.
L’altra mattina Destiny è passata a casa e ha fatto una scenata a Tom, che è rimasto impassibile.
Nel suo letto c’era una rossa mai vista: hanno riso di Destiny per mezz’ora.
Che testa di cazzo.
Ma non mi sembra il momento di parlarne a Ben.
 
*
 
Quando Ben finalmente affronta il provino, io tiro un sospiro di sollievo.
Torneremo alla normalità, finalmente!
 
Invece, se possibile, nei giorni successivi lui è ancora più angosciato.
Dice non aver fatto bene, di non essere soddisfatto, di aver sbagliato tutto.
È depresso.
Non so come aiutarlo.
Mi taglia fuori da tutto.
Non sembra lui.
Inizio a passare sempre più tempo fuori casa: mi sembra di soffocare, lì dentro.
Di notte Ben è distante, oppure è senza freni.
Fa l’amore con me voracemente, ma poi lo sento che non dorme.
Ieri notte, quando è rotolato dalla sua parte di letto, gli ho dato le spalle e ho detto:
«Devi smetterla»
Lui mi ha posato una mano sul fianco, ma non ha detto nulla.
 
Ora passeggio sotto le palme che rendono celebre questa città, ma nemmeno il sole e i colori sgargianti riescono a rasserenarmi.
Né ci riescono i negozi. O i gelati.
Passeggio, accaldata e insoddisfatta.
E nervosa.
Mi infastidiscono tutti, questi aspiranti attori e modelle.
Mi sembrano vuoti e sciocchi e, all’improvviso, mi prende una grande nostalgia di casa.
Mi siedo su un muretto e mi stringo le ginocchia al petto.
 
Le mie belle ginocchia tutt’altro che anoressiche.
 
Sto cedendo all’autocommiserazione e proprio non mi va giù.
Sospiro e spengo l’iPod, riponendolo in borsa.
Poso il mento sulle ginocchia e i miei occhi si perdono nell’orizzonte.
Ma, all’improvviso, mi raddrizzo.
Quello non è…
 
È Ben, che corre verso di me.
Salto giù dal muretto e gli corro incontro: finiamo l’uno tra le braccia dell’altra in mezzo alla strada.
Le macchine suonano, furiose, e lui mi spinge verso il marciapiedi.
Camminiamo abbracciati e lui mi riempie di baci, freneticamente.
E, insieme ai baci, di scuse balbettate.
«Non so come scusarmi…davvero… perdonami…ti prego, ti prego…»
«Non so arrabbiata, Ben» rispondo «Sono preoccupata…»
Tanto era ansioso per il provino, quanto lo è ora con me.
Sembra terrorizzato all’idea che io possa essermi fatta una nuova idea di lui e ci metto parecchio a rassicurarlo.
È vero che io non lo avevo mai visto nel pieno del lavoro… Ma, ecco, non pensavo fosse così.
Ammetto che pensavo che il suo lavoro fosse fatto di apparenza e glamour, più che di isteria.
Sono troppo ingenua, forse?
Ben si scusa infinite volte.
E infinite volte io gli dico che è tutto a posto.
 
Ci prendiamo un paio di giorni e mi porta a Venice Beach: l’oceano è immenso, gelido e blu.
La sabbia è bianchissima.
Sembra una cartolina.
Giochiamo come due bambini, ci rincorriamo in acqua, ci tuffiamo.
Scansiamo alghe grandi come atolli.
Prendiamo il sole.
Il primo giorno lui si arrossa terribilmente, a differenza mia, e la sera finiamo in un hotel tranquillo, con Ben che si piazza nella vasca, intenzionato a non uscirne più.
È così dolce, rosso come un peperone.
Lo prendo in giro, ridiamo, gli faccio un massaggio con la crema doposole.
Restiamo a letto per ore infinite.
E tra noi è tutto meraviglioso, come sempre.
Ben è particolarmente dolce e attento, sebbene io insista nel dirgli che voglio conoscere ogni aspetto della sua vita.
Mi sembra il minimo.
È schivo sulla questione provini, ma ammette di dover imparare a darsi una regolata: dopotutto, non è più solo ad affrontare le cose.
 
Se stiamo insieme - se pensiamo a una vita insieme, e noi lo facciamo - me lo deve.
 

***
Buongiorno!
Come vedete, Gin è alle prese con la vita americana di Ben... E non sono sempre scoperte piacevoli!
Per seguire le sue peripezie (nonché le mie e quelle di Hermione e Caspian!) cliccate qui: https://www.facebook.com/Joy10Efp?ref=hl
Baci e buona lettura,
Joy

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Capitolo 12
*** Tensione ***


 
Questi giorni a Venice sono un regalo.
 
Una mini luna di miele.
Nessuno che ci disturba, nessun amico strano, nessuna sensazione di inadeguatezza.
Solo io e Ben.
 
È incredibile come, con lui, qualsiasi posto o situazione sia perfetta.
Non ho mai bisogno di altro.
Non sono mai triste, stanca, infelice o annoiata.
Ben mi completa.
Di più. In un certo senso, mi riempie.
È come se in me non mancasse più niente, come se fossi piena di felicità, come se rabbia o mancanza o odio non potranno mai affliggermi, perché non c’è una stilla libera dentro di me che possano attaccare.
 
 
Ben si riprende.
Si rilassa e torna quello di sempre.
Però io voglio sapere di più del suo lavoro e di quello che c’è attorno al suo mondo.
Capisco di aver sottovalutato la sua professione e, peggio, di aver sottovalutato i suoi dubbi e le sue paure.
E non posso perdonarmi di aver sottovalutato qualcosa che riguarda Ben.
Quando gli chiedo di spiegarmi, lui è generoso come sempre.
All’inizio fa un po’ di resistenza, ma poi mi parla a cuore aperto.
Mi spiega che questo ambiente è molto diverso da quello inglese.
Che qui il cinema è titanico ma competitivo all’ennesima potenza.
Che la concorrenza è senza pari.
Ma se sfondi a Los Angeles sei a posto.
Il problema è che meno sei inserito nel giro e più fai fatica ad entrarci.
Di norma, quelli che ingranano con una buona parte, poi devono stare certo attenti a non scegliere brutti copioni, ma hanno moltissime occasioni di scelta.
Invece, se hai fatto qualcosina, se sei bravino, se hai recitato in qualche filmetto, è davvero difficile.
E dal tono con cui dice “qualcosina”, “bravino” e “Filmetto” intuisco che non deve avere avuto molti riscontri positivi.
 
 
E c’è un’altra cosa, a quanto pare, ma quella viene fuori due giorni dopo.
 
Siamo a letto e Ben è sul fianco, voltato verso di me.
Con le dita traccia delle spirali immaginarie sulla mia pelle nuda e accaldata.
Di norma farei fatica a seguire il discorso… ma stavolta no.
«In che senso, è difficile?» chiedo, seria.
«Oh, dai, Gin» sospira lui «Sono miei amici e io ci sono affezionato… Ma sono tutti attori con grandi ruoli e grandi conoscenze. A volte è difficile essere loro amico, ecco»
«Non capisco» obietto «Quale amico ti farebbe pesare i suoi ruoli e le sue conoscenze?»
«Non me li fanno pesare. Ma ovunque andiamo… Tutti li conoscono, i paparazzi li inseguono, i fan li fermano. Conoscono registi e produttori, non devono chiedere per fare casting. Sanno sempre tutto. Conoscono tutti»
Esito per un attimo, mentre accarezzo la sua spalla nuda, poi dico:
«Ben, sono nati qui. Sono figli di attori famosi, o di agenti importanti, o di grandi registi. Per forza conoscono tutti. Tu sei nato a Londra, hai studiato all’Università, sei figlio di due psicologi che volevano altro da te che non party e vita sregolata. Hai dovuto lottare per convincere i tuoi che questo è il mestiere che vuoi fare. Hai un sostrato diverso»
Gli poso la mano sul viso e lo guardo negli occhi, prima di scandire chiaramente:
«Per tua fortuna»
Lui non ribatte, ma io insisto:
«Per fortuna che ce l’hai. Questo fa di te una persona educata, preparata e che sa stare al mondo. Nel mondo vero, intendo, non nel mondo di Hollywood»
Lui sospira.
«Ma se voglio fare l’attore è qui che devo stare»
«Non necessariamente…»
Si alza sul gomito, improvvisamente agitato.
«Gin, è importante per me. Ho 32 anni. È già tardi! Se non sfondo adesso…»
Mi tiro a sedere e mi copro con il lenzuolo.
«Va bene, allora stai qui. Siamo qui insieme. Però non mi piace questa cosa»
Mi fermo prima di dire che i suoi amici non mi piacciono proprio.
Non è giusto dargli anche questo peso.
Cerco di essere obiettiva.
«Ben, so che non sei il tipo da chiedere aiuti. Se però stare con queste persone ti frustra, allora devi cambiare approccio. Non voglio che diventi uno schizzato depresso, capito?»
Lui sorride.
«Non lo diventerò. Ma, amore… Mi spiace essere insopportabile, ma la vita di un attore è fatta di lunghe attese… e io lo so che le gestisco male»
«Posso capirlo. Non me lo immaginavo, tutto qui, ma sono stata io a valutare male la situazione: l’incertezza mette ansia anche a me. Solo che non l’avevo associata a questo tipo di vita… sembra tutto così glamour!»
«È solo apparenza» bisbiglia lui, tirandomi su di sé «Solo apparenza…»
 
Rotoliamo tra le lenzuola, ma una parte del mio cervello sta ancora valutando le sue parole.
Pensavo che i suoi amici non mi piacessero perché appartengono a un mondo che a me non interessa, non piace e di cui non condivido le abitudini e i valori.
Certo, il mio fidanzato lavora in quel mondo.
È solo che… lui è Ben.
È una categoria a parte.
Ha una testa, dei valori.
E ora interviene anche questo pensiero: lui si sente inferiore a loro, perché non ha lo stesso successo.
Non lo ammetterebbe mai, ma so che è così.
Non inferiore in termini competitivi, perché Ben non è uno che ragiona così, ma temo che si senta inadeguato al contesto.
I suoi amici mi piacciono sempre meno.
Sono io che sbaglio, se credo che Ben e Los Angeles siano su due pianeti molto lontani l’uno dall’altro?
Vorrei rifletterci su, ma Ben si mette sopra di me e affonda il viso nel mio petto.
E ogni altro pensiero mi esce di mente.
 
*
 
Quando torniamo a Los Angeles, mi colpisce il pensiero che questa città non mi sembra più così bella.
 
Cioè, sì… Il cielo, le palme, il sole.
Ma non c’è molto altro.
So che non devo farmi suggestionare dai miei pregiudizi.
Aspettiamo i risultati del casting.
Ben si sforza palesemente di tenere a bada l’ansia e io cerco di aiutarlo tenendolo occupato.
Andiamo al cinema, a teatro.
E usciamo con i suoi amici.
Non c’è modo di evitarlo, naturalmente.
Usciamo per locali, andiamo a ballare.
Ben è sempre al mio fianco e, con lui vicino, è facile ignorare il fatto che gli altri mi ignorano.
Soprattutto le ragazze.
I ragazzi prendono atto del fatto che Ben sta con me e mi parlano.
Se proprio volessi essere puntigliosa, potrei dire che mi guardano come se fossi tappezzeria e certamente non come guardano le ragazze di qui… Ma evitiamo la puntigliosità.
Non posso non ammettere che le ragazze americane sono in generale bellissime.
Finte, magari, ma bellissime.
Ma pazienza.
 
Dicevo: in generale, i ragazzi sono abbastanza simpatici.
Profondi quanto una pozzanghera e completamente insensibili, ma simpatici.
Le ragazze, invece, sembrano odiarmi.
E non so perché, io non ho fatto niente.
A tratti mi chiedo se non sia per Ben e, per quanto io sia gelosa, potrei anche capirlo.
Spicca tra gli altri in un modo che non ha uguali.
Qui sono tutti alti, abbronzati e muscolosi; lui è elegante, educato e composto.
È unico e senza pari.
Sono così orgogliosa di lui… Vorrei solo che potesse vedersi nel modo in cui lo vedo io.
 
I locali che frequenta di solito sono chiassosi e glamour.
Non molto da Ben, per la verità.
La sua aria non del tutto rilassata me lo conferma.
Ma, a quanto pare, questi sono i locali in cui si deve bazzicare per fare gli incontri giusti.
Insomma, mi sembra anche un po’ eccessivo.
Il lavoro è una cosa, lo svago un’altra.
Tranne che a Los Angeles, dove non c’è nulla, nulla, che non sia finalizzato a essere scelti per il film della vita, evidentemente.
 
*
 
Dopo un po’, persino io inizio a risentire della tensione.
 
È tutta tensione, qui.
Tutta attesa, finti sorrisi, conoscenze utilitaristiche.
È uscire per farsi vedere e per vedere chi c’è.
Chi non c’è è out.
Inizio a capire le pressioni che TJ fa su Ben.
Visti i ritmi, immagino che ogni volta che lui scappava da me al suo agente prendeva un colpo.
Un’occasione sprecata.
Un’altra.
Un’altra.
 
E poi, alla fine, arriva l’esito del provino.
E non è un esito positivo.
Lo scopriamo una sera, dopo cena, ammassati in un locale pieno di gente.
Un attimo io e Ben siamo rilassati e abbracciati, con lui che mi mormora all’orecchio che il mio vestito è bellissimo ed è proprio ora di andare a casa, e un attimo dopo arriva un gorilla che gli dà il cinque e lo abbraccia come se Ben fosse il suo gemello perduto.
Presentazioni, strette di mano, complimenti a valanga… e poi arriva la staggiata.
«Oh, fratello, a proposito» fa il gorilla in tono fintamente dispiaciuto «Hanno preso me per quella parte, mi spiace amico. Mi ha chiamato poco fa il regista!»
A me cade la mascella, ma a onore di Ben devo dire che si comporta in modo ammirevole.
Sorride, naturale, e gli stringe la mano come se fosse davvero felice.
Quello si pavoneggia un po’ e poi se ne va a dare la notizia in giro.
 
Gli occhi di Ben si abbassano al pavimento e io gli prendo la mano.
Un attimo dopo arrivano Tom e Josh.
Per la prima volta posso dire che tra me e Tom passa un lampo di comprensione.
Tiro dolcemente Ben per la mano.
«Dai, amore» dico «Portami a bere qualcosa»
 
Saliamo in macchina mollando qui gli altri senza dire una parola e giriamo per le strade.
È tutto illuminato e aperto.
Josh sembra intuire che Ben non ha voglia di compagnia, perché guida fino a un bar lontano, abbastanza dimesso.
Dentro c’è pochissima gente.
Prendiamo un tavolo e ci portano birre (per loro), milkshake (per me) e patatine (per tutti).
Alla faccia della dieta che vorrei fare.
Ben non beve.
Io gli poso la mano sulla gamba.
So che di fronte agli altri lui è più riservato e io rispetto questa caratteristica.
Soprattutto adesso.
Josh e Tom lo forzano a bere, gli dicono che va bene così, che quello è un coglione, che ci saranno altre occasioni e che è ok.
Io mi devo ordinare di non urlare loro addosso.
«Ben, amore» dico, decisa, zittendo gli sproloqui di Tom «D’accordo, è andata male. Lo capisco e questa cosa non va certo sminuita, perché so che era importante per te»
Tom e Josh si scambiano un’occhiata perplessa: probabilmente non è nella loro tattica, parlare tanto.
O forse non sanno usare le subordinate, penso malignamente.
«Tuttavia, fa parte del gioco. E tu lo sai. E per quanto questa città voglia farti credere che è tutto facile e bello e veloce, chiaramente non è così. Non starò a dirti che non era l’occasione giusta e che ne capiterà un’altra perché è scontato e tu sei una persona troppo intelligente per tollerare delle ovvietà… Ma una cosa te la dico: non cadere nell’autocommiserazione perché è una cosa da idioti. Piuttosto, datti da fare»
Josh e Tom sono decisamente allarmati, a questo punto, ma Ben alza gli occhi e mi rivolge un sorriso tirato.
Io mi sporgo a baciarlo.
«Ti amo» mormoro, pianissimo.
Lui annuisce e allunga la mano verso la sua birra.
«Anche io» dice.
E mi bacia.
 
Tom e Josh mi guardano con nuovo rispetto, ma io ho occhi solo per Ben.

 

***
Buongiorno!
Come promesso, eccomi qui con i miei adorati Gin e Ben!
L'America non fa loro troppo bene, eh?! (Barnes, è colpa tua, sono suggestionata da quello che combini tu!)
Bene, che dirvi? Sapete dove trovarmi per qualsiasi informazione, dubbio o richiesta:https://www.facebook.com/Joy10Efp

Grazie, come sempre, a tutti voi!
Buona lettura,
Joy

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Capitolo 13
*** Volere tutto, volere Hollywood ***


Questa mattina ho aperto io la porta di casa quando ho sentito il campanello suonare.
 
Ben era a letto e voglio che dorma il più possibile, perché possa rilassarsi un po’.
Tom non c’era, tanto per cambiare.
Ho aperto la porta e mi sono trovata davanti Destiny.
«Oh» ho detto «Ciao»
Lei mi ha squadrata dalla testa ai piedi, poi ha fatto un cenno con il capo.
«Ciao. C’è Tom?»
«Bè, veramente no. Non so dov’è» dico subito, prima che mi faccia altre domande.
Ben si tiene fuori dalle storie di Tom e io voglio fare altrettanto.
 
Lei sospira e si sfila gli occhiali da sole.
È davvero bella.
E sembra tristissima.
«So che mi dirai di no, ma tanto…» attacca con tono aggressivo «Posso entrare?»
Serro le labbra.
«Se per entrare intendi in camera di Tom, allora no. Se ti va un thè freddo, invece, volentieri»
Sembra stupita.
Mi lancia un’occhiata indagatrice e annuisce.
Io la faccio entrare e prendo caraffa e bicchieri, che porto sul terrazzo.
Lei si siede disinvolta, come se conoscesse bene la casa.
Penso che sia proprio così.
Prende un bicchiere, ringrazia a bassa voce, e per un po’ resta in silenzio, meditabonda.
All’improvviso chiede:
«Come ti trovi qui?»
«Benissimo» rispondo.
«Davvero?» sembra divertita «Ti piace il clima, immagino. Le belle case. Ma… la compagnia?»
Ora.
Capisco che Destiny abbia il dente avvelenato, ma sarebbe meglio se se la prendesse con Tom invece che con me.
Ribatto fermamente:
«Mi piace stare con Ben. Per il resto, francamente, trovo che Londra sia una città immensamente più bella»
«Oh, Londra» lei scrolla le spalle «Sì, certo, ogni tanto bisogna farsi vedere anche lì, ma per il resto… La vita è qui»
«Dal mio punto di vista, francamente “farsi vedere” conta meno di zero. Io parlavo proprio della città»
«Certo, tu non sei un’attrice. Per te è diverso»
Lo dice con un tono ovvio e io stringo i denti.
Intendiamoci: a me di fare l’attrice fregherebbe meno di zero e non ne sarei mai capace, per altro… Ma perché, Destiny ha vinto qualche Oscar?
Non mi risulta proprio.
Qui tutti fanno gli attori.
Quelli che poi, però, lavorano davvero sono una percentuale minima.
«Ah sì?» faccio, innocente «Immagino che per te cambi molto, invece»
Lei mi lancia un’occhiataccia.
«Io lavoro come modella, faccio delle pubblicità importanti…»
 La interrompo.
«Oh capisco. Allora sono sicura che ci vedi anche meglio di me e sai valutare davvero Los Angeles»
«Allora non sei così dimessa come sembri» risponde, secca «Te ne stai sempre lì, in silenzio… Iniziavo a chiedermi come faceva Ben a stare con te»
 
Ok.
L’ho fatta entrare con le migliori intenzioni, davvero.
Mi spiace per come Tom e i suoi amici la trattano.
Ma se tira fuori Ben le stacco la testa a morsi.
 
«Destiny» le dico, scandendo bene le parole «Di “dimesso” io qui vedo solo una certe parte di quozienti intellettivi»
Lei ghigna.
«Certo, naturalmente. Ma, diciamocelo, qui fa poi la differenza?»
«Per me sì»
«Ecco perché sbagli» mi gela «Ecco perché non ti inserirai mai in questo ambiente. Guardaci pure dall’alto in basso, ma resta il fatto che non sei proprio il tipo di donna che qui fa scalpore»
«Io non sono venuta qui per fare scalpore! Io non ho nulla a che fare con quelle come voi!»
Sbatto il bicchiere sul tavolo e sto per buttarla fuori di casa, quando lei dice:
«Per questo è strano che Ben stia con te»
 
Ha toccato un nervo scoperto e dalla sua occhiata capisco che lo sa.
 
Prosegue:
«Ginny, non ce l’ho con te, ma devi capire che qui nessuno ti ha accettata. È strano vedere Ben con una ragazza… come te»
Mi squadra e non dice nulla, ma io mi stringo bruscamente nell’accappatoio.
«Cosa vorresti dire?»
«Bè, che lui è sempre stato con modelle, con attrici…»
«Guarda che lo so. Ma è il passato»
«Sì…» per la prima volta sembra insicura «Sì, con te sembra felice… Sta persino lontano dai party più sfrenati, ma tu non puoi non sapere che prima non viveva così. Anzi, che se vuole vivere qui non può fare così. Non gli basterà più. Qui tutti sono a mille, sono sulla cresta dell’onda: macchine, case, feste esagerate… E pensi che lui vorrà starsene a casa con te?»
Non le darò la soddisfazione di rispondere.
All’improvviso, lei fa un passo in avanti e mi sfiora il braccio.
Io mi tiro indietro.
«Non avercela con me: voglio solo aprirti gli occhi. Ben vuole questa vita, o non sarebbe qui»
«È qui per lavoro»
Lei scuote il capo.
«È qui per lo stesso motivo per cui tutti siamo qui. Perché restiamo qui. Perché qui c’è Hollywood. Se lui non volesse tutto questo sarebbe con te a Londra. Ma è qui, Ginevra, perché lui è come tutti noi. Vuole tutto. Vuole Hollywood»
 
Ci guardiamo, io in cagnesco e lei con un’espressione che non so decifrare, e in quel momento entra Ben.
Indossa solo i boxer e deve essersi appena alzato.
Si ferma di botto quando vede Destiny; sembra imbarazzato.
«Ciao, Ben» gli dice lei «Non preoccuparti, ti ho visto altre volte in boxer, vieni pure»
Io prendo i bicchieri e li porto in cucina, perché sarei capace di urlare.
Come osa dire una cosa del genere in mia presenza?
Sento Ben rispondere qualcosa a bassa voce.
Mi tremano le mani: devo darmi una calmata.
So che aveva una vita prima di me.
Non ne ha mai fatto mistero.
Ma so anche cosa c’è tra me e Ben.
Prendo fiato e mi passo le mani sugli occhi.
All’improvviso, sento una mano afferrarmi delicatamente il braccio e faccio un salto per la paura.
«Ben, oddio!» gli dico «Ma sei matto?»
«Gin, tutto bene?» mi chiede invece lui «Cosa voleva Destiny?»
Prima che io possa dire qualcosa, lei ci raggiunge in cucina.
«Oh, niente…» mi anticipa «Volevo vedere Tom, ma Ginevra mi ha detto che non c’è. Ben, tu non sai per caso…»
Lui scuote il capo.
«Destiny, mi dispiace, ma sai come la penso. È una cosa che riguarda voi due e non puoi parlarne con me»
«Fedeltà maschile, eh?» cerca di scherzare lei, ma ha il viso tirato.
Mi farebbe quasi pena, se non fosse che le strapperei i capelli.
«Va bene. Ho capito. Vado»
«Destiny…» fa Ben «Ascolta, mi dispiace davvero, ma non cercare di tirare Gin dentro questa storia, ok? Non voglio che debba sentirsi sotto pressione per te e Tom»
«Come sei protettivo, Barnes!»
Lui resta serissimo.
«Destiny, lei vive qui e Tom anche. E tu lo sai»
«Certo, certo. È stata solo molto gentile, tutto qui. Sai, non è che con me lo siano in molti. Me ne vado, comunque. A presto»
Mi lancia un’ultima occhiata e bisbiglia:
«In bocca al lupo»
Poi se ne va.
 
Quando sentiamo la porta d’ingresso chiudersi, Ben mi accarezza il fianco.
«In bocca al lupo per cosa?» chiede, perplesso.
Io sto già rimuginando se raccontargli della conversazione… Ma Ben ha preso le mie difese. L’ha mandata via. Cosa direbbe, che ascolto una gallina che nemmeno conosco e non lui?
Scrollo le spalle.
«Oh, per la vita qui» dico con noncuranza.
Lui mi sorride e mi bacia sulle labbra.
«Ma a te non servono gli auguri, sei bravissima e ti adatti a tutto!»
Sorrido debolmente.
Facciamo colazione in terrazza e mio sforzo di non pensare a Destiny.
 
 
La sera andiamo a ballare in uno dei soliti locali in cui il gruppo di Ben si reca puntualmente.
Ci sono un paio di produttori importanti e Ben ha un amico che glieli presenta.
Benissimo.
Spero possano sollevarlo un po’ dopo l’ultimo provino.
Sono seduta su un divano e acanto a me Cindy ridacchia e dice a una sua amica:
«Guarda, che ne pensi del mio vestito? È bello, vero? Certo… non tutte possono permetterselo!»
Mi guardano entrambe e ridacchiano.
Io faccio finta di non sentirle.
Ben, dove sei? Dai, torna, ti prego.
 
Ma lui torna dopo quasi un’ora.
Si siede subito accanto a me.
«Scusa, mi spiace amore. Ti sei annoiata? È che dovevo proprio…»
«No, no» rispondo, tranquillizzata dalla sua presenza «Va tutto bene»
Lui mi sfiora la fronte con un bacio.
«Sicura? Ti diverti con gli altri?»
Perché, secondo te qualcuno mi parla?
Mi sforzo di sorridere e annuisco.
 
Quando torniamo a casa però non posso trattenermi dal chiedergli:
«Ben, ma tu davvero non torneresti a Londra?»
Lui sembra perplesso.
«Bè… Non ora, almeno. Perché, tu vuoi…»
Pausa.
«No. No, dicevo per dire»
Sorride e mi bacia la mano.
«Spero che l’America possa piacerti, amore» mi dice «Io la adoro!»
«Già, anch’io» ribatto.
 
Ma continuano a tornarmi in mente, fastidiosamente, le parole di Destiny.

 

***
Buongiorno!
Buon martedì e buoni Gin&Ben :)
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Buona lettura e grazie di essere con me,
Joy

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Capitolo 14
*** E' solo una tua fantasia, vero? ***


Ho capito cos’è che mi stona.
 
Sono stesa a letto e guardo il soffitto.
È qualche giorno che non riesco a dormire bene.
Ben, accanto a me, riposa agitato.
Mi stavo oziosamente chiedendo per quale motivo non riesco a rilassarmi e l’ho capito improvvisamente.
 
Sono troppo rilassata.
 
Cioè: qui non si fa niente.
In questa città non si lavora.
O meglio, il concetto di lavorare qui è diverso.
Si lavora andando ai party, uscendo, andando nei locali giusti.
Si fanno audizioni e servizi fotografici.
Ma le giornate sono fatte solo di quello.
Come fanno?
Dove trovano stimoli e curiosità?
Sembra una vacanza infinita… e dopo un po’ secondo me annoia.
Non si può passare la vita andando alle feste.
La vita è fatta di lavoro, studio, incontri…. C’è altro, oltre al divertimento.
Anche perché, quando fai solo quello, alla fine non ti diverti più.
È sempre un cercare di bere di più, trovare una festa ancora più esclusiva, fare ancora più tardi.
È la chiave di questa città: di più. Di più. Di più.
 
Io sono stanca.
Me ne rendo conto all’improvviso.
Sono annoiata.
Questa vita non fa per me.
Mi volto sul fianco e osservo Ben mormorare qualcosa nel sonno.
Sono convinta che non faccia bene neppure a lui: non l’ho mai visto così stressato e irrequieto.
Eppure, sembra trovarsi benissimo.
Quando è sveglio è sempre sorridente, sempre allegro… Ma, forse perché io lo conosco bene, noto quanto sia in tensione.
Quanto sia sopra le righe.
È innaturale.
 
Gliene parlo a colazione, con l’irruenza che mi contraddistingue.
So che di solito tendo a dire quello che penso con naturalezza, ma Ben mi conosce.
Sa che sono fatta così e lo ha sempre apprezzato.
E uno dei motivi per cui stiamo così bene insieme è il fatto che tra noi c’è dialogo.
Per cui resto stupita quando lo vedo mettersi sulla difensiva.
«In che senso sono nervoso? Non è vero! Non è per il provino, davvero. Sto bene»
«Non parlavo del provino, Ben. Mi sembra che tu sia parecchio stressato e secondo me non è il lavoro: è la vita che fai qui»
Lui ride.
«Oh, dai, Gin! Come fa a stressare la vita di qui? È praticamente una vacanza continua!»
«Appunto!» dico, trionfante «È proprio questo che è stancante! Non ci sono stimoli…»
«Io qui ci lavoro» risponde lui.
E, di nuovo, mi sembra sulla difensiva.
Gli prendo la mano.
«Amore, non sto dicendo che non lavori. Sto dicendo che mi sembra una realtà che mette molta pressione. E che dopo un po’ anche le più belle vacanze stancano»
«A me Los Angeles piace!»
«Davvero?» mormoro «Perché ti vedo…diverso. Non vai a teatro, leggi poco… Non è da te, tu ami queste cose!»
«Ma sì, mi piacciono sempre! Ma, ascolta: questa non è Londra. È una città diversa, c’è sempre il sole… è bello poter andare in giro!»
Mi mordo la lingua prima di dirgli che lui non va “in giro” ma fa comunella con quattro idioti senza prospettive.
Ci riprovo:
«Sono solo un po’ stupita dal fatto che mi sembra un ambiente culturalmente poco stimolante»
Notate la diplomazia: non ho nominato i suoi amici.
Ma Ben non sarebbe Ben se non mi capisse al volo.
Toglie la mano dalla mia e si infila in bocca una cucchiaiata di cereali.
«Un ambiente…. O degli amici?» mi chiede, dopo un po’.
Sospiro.
«Ben, io… Non sono loro, davvero»
 
Certo che sono loro, invece.
 
Se fossero delle persone “normali” non penso ci troveremmo a fare questo discorso.
Ma gente che vive in ville con piste da bowling e campi da tennis privati, piscine megagalattiche e dieci stanze per gli ospiti, non è gente normale.
Non sa cosa succede nel mondo normale, santo cielo!
Ti credo che si preoccupano solo di divertirsi e dare feste esclusive: vivono fuori dal mondo.
Va detto che per loro è normale: questo ambiente è normale.
I loro genitori sono persone che hanno fatto le stesse, identiche cose.
Ma – scusate tanto – la vita vera non è così.
 
Cerco un modo per dirlo gentilmente, ma Ben mi anticipa:
«Gin, pensi che sia cieco? Lo vedo, che li tratti con sufficienza»
«Cosa?» resto scioccata.
Ieri sera siamo andati a una festa e io sono stata puntualmente ignorata dalla comitiva: i miei vestiti non vanno bene, il mio fisico non va bene, i miei capelli non vanno bene.
Non c’è una cazzo di cosa che va bene in me, secondo loro, e Ben osa darmi la colpa?
Passi Destiny, visto che anche secondo lei io faccio la superiore… Ma Ben!
Stavolta mi incazzo seriamente.
 
«Ben, ti prego, dimmi che stai scherzando» dico, gelida «Oppure sei cieco e non vedi come mi trattano in tuoi sedicenti amici?»
Lui posa la tazza e si volta a guardarmi.
«Cosa stai dicendo? Come ti trattano, scusa?»
Io batto le palpebre.
Seriamente?
«Ben, è… Sono… Insomma, non lo so, non abbiamo molto in comune» dico, nervosa «Ma questo non li autorizza a trattarmi come se fossi invisibile! Se mi parlano, lo fanno per prendermi in giro»
«Ma… di chi parli?»
«Di quella Cindy! E comunque, in generale…»
«Oh» Ben fa una faccia strana «Non preoccuparti di Cindy, non è che sia… Comunque. Non credo che gli altri si comportino come lei»
Io drizzo le antenne.
Cosa vorrebbe dire?
«Cosa vuol dire “non preoccuparti di Cindy”?»
Ben sospira e io lo guardo in cagnesco.
«Oh, ok, va bene» risponde «Non volevo dirtelo perché è una sciocchezza, ma lei… Ha mostrato un certo interesse per me, lo scorso inverno. Ma non è successo assolutamente niente, le ho spiegato che siamo solo amici e quindi non c’è di che preoccuparsi, davvero»
 
Sono scioccata.
 
Quella mosca fastidiosa di Cindy ci ha provato con Ben?
Con il mio Ben?
Ma come osa?!
Come osa lanciarglisi addosso ogni volta che la vediamo, spogliarsi davanti a lui alle feste in piscina e cercare di toccarlo con ogni scusa?
Ben mi posa una mano sulla gamba.
«Gin, non c’è mai, mai stato niente tra me e lei» dice, serio «Non volevo dirtelo perché pensavo che saresti stata gelosa, ma non ce n’è motivo»
 
Ok, va bene.
Calma, Gin.
Calma.
 
Lo so che sono irrazionale e non devo.
«Va bene» dico, a denti stretti «Lo so che sono gelosa e che esagero, lo so… Ma tu non dovresti tacermi le cose. Non sono stupida»
Ben fa una faccia stupita.
«Amore, ma io non penso che tu sia stupida!» mi accarezza la guancia «Solo che vivevamo lontani e so che è una cosa che può dare fastidio, è legittimo. Ma tu non devi preoccuparti. Di nessuna donna»
Chiudo gli occhi e gli afferro la mano, per trattenerla a contatto con il mio viso.
«Ok. Però scusa se te lo dico… Ma non mi va bene che si spogli davanti a te come se niente fosse…»
«Non lo fa…»
«Invece sì» apro gli occhi e gli rifilo un’occhiataccia «E lo sai! L’altro giorno, in piscina!»
«Va bene, va bene… Hai ragione e lo so. È una ragazza…» fa una pausa «Più disinvolta, ecco. Ma io non vedo nessuna, eccetto te»
Questo mi pacifica con il mondo, lo ammetto.
Se già Cindy mi stava antipatica, ora la detesto proprio.
Ma è facile non pensare a lei quando Ben mi prende tra le braccia.
È facile non pensare a niente.
 
 
Più tardi usciamo e facciamo un giro in macchina, perché fa davvero troppo caldo.
Ben adora guidare e a me rilassa da morire stare in auto, con la radio in sottofondo e lui accanto.
Socchiudo gli occhi e mi godo il sole.
Parliamo poco, ma il silenzio tra noi non è pesante.
Fermo a un semaforo, Ben sposta la mano sul mio ginocchio.
Ci guardiamo e ci sorridiamo, poi sussultiamo entrambi quando sentiamo dei colpi contro un vetro.
 
Ti pareva.
Quando si dice parlare del diavolo…
 
È Cindy.
Apre la portiera con disinvoltura e si catapulta in macchina, senza che nessuno la abbia invitata.
«Ciaooooo!» miagola «Che caldo, per fortuna stavi passando, Ben! Ho riconosciuto la macchina e ho pensato: che bello, è venuto a salvarmi!»
Io fisso stoicamente il panorama, in silenzio.
Non stava passando, per prima cosa: semmai stavamo passando.
E poi non è venuto a salvare te, ma è fuori con me.
Ma Cindy si comporta sempre così: non mi parla e, se lo fa, è per dire qualcosa di sgarbato, che poi finge di smentire con una risatina ipocrita.
Benissimo.
Io resto zitta e guardo fuori dal finestrino.
È ora che Ben si rende conto di come vanno le cose tra me e i suoi amici, quando lui non mi sta accanto.
E Cindy non ha l’intelligenza di indovinare che non dovrebbe parlare solo a lui, come se io non esistessi.
Continua a rivolgergli battute spiritose e, dal sedile posteriore, allunga continuamente la mano per sfiorargli le braccia, i capelli.
Ben parla poco, io resto zitta.
Cindy nemmeno se ne accorge.
All’improvviso chiede:
«Ben, ci vieni al barbecue di domani, vero?»                    
Ben fissa la strada.
«Non so» risponde «Amore, ci andiamo al barbecue di domani? O vuoi fare qualcos’altro? Vuoi che ti porto fuori, magari?»
La sua mano si stacca dal volante e accarezza il mio ginocchio.
Anche io fisso la strada, divertendomi a immaginare che espressione potrà mai avere Cindy ora.
Peccato non vederla.
«Veramente preferirei andare via per un paio di giorni, che ne pensi?» rispondo, girandomi a guardare Ben «Mi avevi parlato di Palm Springs…»
Ben annuisce.
«Certo. Va benissimo. Quello che vuoi, piccola»
Ignoriamo Cindy, esattamente come lei ha fatto prima con me, mentre ci sorridiamo.
Ma lei si sporge in avanti e fa una risatina falsa.
«Palm Springs?» chioccia «Oh, dai, Ben, ma ci andiamo tutti insieme fra due settimane! È il compleanno di Luke, lo sai!»
«Sì, ma ultimamente sono stato parecchio impegnato con i provini e ho trascurato Gin… Preferisco prendermi qualche giorno e stare un po’ con lei»
Cindy è talmente incredula che ci mette un po’ a elaborare.
«Cioè… Non vuoi venire? Ma perché? Porta anche lei, piuttosto!»
Io serro i denti, ma stavolta vedo che Ben reagisce allo stesso modo.
«Cindy, io non la porto da nessuna parte. Andiamo insieme dove ci va di andare»
«Ah…sì…certo, certo!» lei tenta di recuperare «Ma sono sicura che Ginny ha voglia di venire, dico bene?»
Mi volto, sorridendo.
«Senza offesa, ma preferisco Ben. Sceglierei comunque e sempre Ben»
Lui ride e si protende a darmi un bacio sulla guancia.
«Grazie» mi dice.
Cindy sembra attonita.
«Oh, Ben, mi fai scendere qui? Vado a fare shopping per la festa di stasera… Voi venite, vero? Dovete! Dai Ginny ti prego, vieni!»
 
Ah, adesso sono interpellata?
 
Sorrido di nuovo.
«Vedremo»
Ben accosta e lei scende.
Ci saluta con un cenno vago e se ne va sculettando.
Mi astengo da qualsiasi commento, perché non voglio essere malvagia.
Ben tace per un po’ e poi mi chiede:
«Perché non me lo hai detto? Non sono cattivi… Ma capisco che qui sia diverso. L’ho sperimentato anche io»
Io giocherello con le dita della sua mano destra e ci rifletto su.
È una situazione che migliorerà?
Diventeranno anche miei amici, alla fine?
Mi ripeto che io ho scelto Ben e non loro, comunque.
Quando non mi trovo circondata da gente estranea recupero la prospettiva: sono solo colleghi di Ben.
Sono solo amici di Ben.
Perché dovrebbero influenzare la mia vita?
Perché dovrei correre da lui a lamentarmi come una vecchia isterica e noiosa?
Appunto.
Ce la faccio da sola.
Non è mica la fine del mondo.
 
 
Ma, alla festa di quella sera, scopro che Cindy desidera chiaramente compiacere Ben, perché appena mi vede corre ad abbracciarmi.
E io, che normalmente abbraccio chiunque, mi ritraggo impacciata perché è strano.
Non è sincero.
Ma lei mi afferra per mano e mi trascina nel gruppo delle ragazze.
Faccio in tempo a lanciare un’occhiata rassegnata a Ben; lui ride e mi manda un bacio.
Vengo abbracciata smancerosamente da varie tizie e poi coinvolta in una conversazione di cui non capisco nulla, che riguarda un casting per modelle.
Dopo dieci minuti inizio a scalpitare.
Queste non fanno altro che berciare tra loro di gente a me sconosciuta e intervallare le chiacchiere a selfie di gruppo fatti con i cellulari, per i quali si mettono tutte in posa come nemmeno a una sfilata.
Terrorizzata, mi propongo come fotografa.
Per carità, che io faccio schifo in foto, ci manca solo di lasciarne testimonianza.
Cento scatti dopo, le ragazze si lanciano addosso ai ragazzi, li abbracciano, si mettono in posa con loro.
E il teatrino ricomincia.
Vado a sedermi su un divano e li osservo da lontano.
Non credo di essermi mai sentita meno parte di qualcosa in vita mia.
 
E poi, all’improvviso, eccolo.
Il mio porto sicuro.
Ben emerge dal gruppetto chiassoso e mi cerca con lo sguardo.
Mi vede e viene verso di me sorridendo.
Mi si siede accanto e intreccia le dita alle mie, mentre mi racconta di quello che gli ha detto Tom: un nuovo casting per il quale potrà incontrare il regista nei prossimi giorni, perché sarà a Santa Barbara per dei meeting.
«Vuoi vedere Santa Barbara?» mormora, le labbra sulle mie.
Io sorrido e penso che farei qualunque cosa per vederlo felice.
 
Veniamo interrotti dal ritorno delle ragazze, che sciamano sul divano in massa.
Ben mi resta accanto e io mi rilasso, per la prima volta nella serata.
Mi versa dello champagne, ma io arriccio il naso e, dopo un sorso, gli passo il bicchiere.
Lui sorseggia e scambiamo due parole con Destiny, che è un pesce fuor d’acqua quanto me, ma se non altro ha i vestiti giusti e il fisico americano.
E li sfoggia senza problemi, visto che è mezza nuda.
Mi chiede se voglio fare shopping con lei, ma io rifiuto garbatamente.
Se crede di potermi influenzare o manipolare si sbaglia di grosso.
Sarò fuori posto, qui, ma non sono scema.
 
Almeno, ne sono convinta fino al momento di andare via, quando faccio una corsa in bagno mentre Ben saluta gli amici.
Trovo Cindy davanti allo specchio con alcune delle sue fedelissime (ma come fa ad essere dappertutto?) e io bofonchio un ciao e mi infilo in una toilette libera.
Le sento spettegolare animatamente e poi uscire.
Tiro un sospiro di sollievo ma, quando esco, me la trovo davanti, sola.
«Oh, ciao!» fa, fintamente allegra «Posso?»
Io annuisco, ma lei non entra.
Si appoggia allo stipite e mi osserva mentre mi lavo le mani.
Guardo lo specchio di fronte a me e i nostri occhi si incrociano sulla superficie riflettente.
«Allora» inizia «Come va con Ben?»
«Benissimo!»
«Ah, sì…» risatina «In effetti sembrate felici…»
Sembriamo?
«Perché lo siamo»
«Ah, bè…. Ma non sembra sempre così?» altra risatina «È così per tutti, no?»
Io mi volto e rispondo, pacata:
«Non ne ho idea. A me è successo solo con Ben»
Stavolta ride di gusto.
«Ah, sei così candida! Ma lo capisco, davvero… Lui è l’attore famoso, tu lo conosci per caso, sembra tutto un sogno e bla bla bla, giusto?»
«Veramente no. È tutto molto vero e concreto, con Ben»
Altra risata.
«Ma figurati»
 
La guardo negli occhi, dura.
Lei smette di ridere.
«Non che siano fatti tuoi» dico, a bassa voce «Ma io e Ben ci sposiamo»
Lei si zittisce di botto, come se le avessi dato uno schiaffo.
Poi boccheggia.
«Cosa?»
Incrocio le braccia.
Non le darò la soddisfazione di ripeterlo, perché non sono fatti suoi.
Mannaggia alla mia boccaccia: perché mi faccio provocare?
La soddisfazione di averla messa al tappeto dura qualche minuto, durante il quale lei cerca palesemente di riprendersi.
E, ancora, è capace di sputare veleno:
«Ben non ci ha detto nulla»
Stavolta rido io.
«Non mi stupisce: non sono fatti vostri»
Altro schiaffo metaforico.
«E l’anello?» chiede, dopo un po’.
«L’anello?»
«Sì. Se fosse vero… Avresti un anello»
«Ma scherzi? Ti pare che un anello renda vera una relazione?»
«Certo!» fa lei, come se la pazza fossi io.
Poi ghigna.
«Che stupida sono! È solo una tua fantasia, vero?»
«Cosa?»
«Tu ci speri! Te lo sogni! Ma Ben…»
Scuote il capo e ride.
Io faccio due passi avanti.
«Sai una cosa, Cindy?» dico «Innanzitutto non sono fatti tuoi. Poi, mi stai anche sulle palle, quindi non intendo parlarti dei fatti nostri»
Lei ansima.
«Sei solo una piccola bugiarda… Ma ti pare che Ben Barnes sposerebbe te?»
«Di sicuro non sposerebbe una battona come te»
 
Appena le parole mi escono di bocca arrossisco.
L’ho detto perché lo penso, ma non mi è mai uscito nulla di così cattivo e volgare di bocca.
Mai.
Come ho fatto ad abbassarmi a questo livello?
Non faccio in tempo a pentirmene, che lei sputa fiele:
«Ah sì? Sei solo invidiosa! Tu vorresti essere come me, come noi! Belle e ricche e famose… Che ne sa una poveretta come te? Non hai niente per piacergli!»
Mi impongo di restare immobile e controllare il tono della voce.
«Come te? Nemmeno se fossi sola al mondo vorrei mai essere come te»
 
Mi volto e mi dirigo decisa verso la porta, quando sento un rumore che mi fa saltare il cuore in gola.
Mi volto e vedo che Cindy ha lanciato la borsetta contro lo specchio, rompendolo in mille pezzi.



***
Buongiorno, amati lettori!
Perdonate il ritardo di un giorno nell'aggiornamento, ma lunedì ero via e non avevo il pc con me, quindi sono slittate sia "Le Cronache" che questa storia.
Ma ora siamo in pari! 
Per qualsiasi aggiornamento o informazione, sapete dove trovarmi: 
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Buona giornata e buona lettura,
Joy

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Capitolo 15
*** Quando esattamente è prima o poi ***


Devo essere sconvolta per la discussione di ieri sera, di cui non ho fatto parola con Ben, e che cerco di archiviare nella mente bollandola come “farneticazione di una pazza”.
 
Ma devo essere sconvolta davvero, perché quando lui mi chiede perplesso se ieri ho notato qualcosa di strano in Cindy rispondo di no e ascolto Tom parlare di una cristi isterica e di una scenata che ha fatto ieri al locale.
Mi fingo perplessa.
Ben sembra quasi preoccupato, Tom invece no.
«Dai, sai com’è» gli dice «Magari era un po’ fatta»
Io taccio e sfoglio una rivista.
 
Più tardi, però, quando siamo soli gli dico:
«Ieri Cindy mi ha fatto notare che non porto un anello»
Ben sta leggendo un copione.
«Anello?» fa distratto.
«Sì. Un anello che rappresenti un impegno vero tra noi»
Ben alza gli occhi distrattamente.
«Eh?»
Io reprimo un sospiro.
«Lo sai com’è, no? Un anello di fidanzamento»
«Ah. Vuoi un anello?»
 
Arrossisco.
Ecco, ho fatto la figura dell’idiota.
Vaffanculo a Cindy.
E poi perché mi faccio condizionare dai vaneggiamenti di quella gallina?
E perché Ben, comunque, si è rimesso a leggere quel maledetto copione?!
Stiamo parlando di cose serie, insomma.
Mi schiarisco la voce.
«No, Ben, non voglio niente o, per lo meno, niente che io debba costringerti a fare. Lo dicevo perché mi ha fatto riflettere la questione: insomma, mi sembra folle il fatto che, senza un anello di diamanti, per alcune persone non si possa parlare di matrimonio»
«Infatti» dice lui «Non penso che tra noi occorrano simboli»
Gli sorrido, rassicurata.
«Certo che no. Insomma, il matrimonio è la cosa importante. Non certo gli anelli o i regali»
«Chi si sposa?» dice Tom, che passa in quel momento con in mano i suoi guantoni da box.
Si allena almeno due volte al giorno, è un po’ fanatico.
«Oh, io e Ben» rispondo, allegra.
Lui si immobilizza, poi si volta lentamente e fissa Ben con occhi allarmati.
«Cosa?» bisbiglia, terrorizzato.
 
Insomma.
Ho preso atto delle sue relazioni instabili, ma non è che in questo salotto c’è un pazzo rivestito di tritolo.
Solo due persone che vogliono sposarsi, santo cielo!
Ben ridacchia.
«Ma sì, Tom, stai calmo. Mica ci sposiamo oggi!»
Tom ansima comunque, come se avesse corso una maratona stabilendo il record mondiale.
«Ma…ma…perché?» chiede, basito «Perché, Ben?»
Scappa da ridere anche a me, vedendo la sua faccia.
«Perché vogliamo stare insieme?» suggerisco, garbata.
Lui mi fissa come se avessi annunciato che sto per scalare a mani nude l’Everest, poi fissa di nuovo Ben, il quale annuisce.
«Ma per stare insieme non serve mica sposarsi!» esclama Tom.
«Dipende da come intendi lo stare insieme» obietto io.
Tom mi ignora, ma dice:
«Barnes, tu sei uscito di testa!»
«Perché?»
«Ma la tua carriera!» esplode l’altro «Insomma, non credevo mica che intendessi seriamente portare avanti questa cosa!»
 
Questa cosa?
Sarei io, la cosa?
 
Sto per lanciare una scarpa in testa a Tom, quando Ben – sempre concentrato sul copione – dice:
«Ma smettila. Perché, tu pensi di non sposarti mai?»
«Ma cosa c’entra? Di certo non ora!»
«Appunto. Nemmeno io mi sposo ora. Nessun problema, come vedi»
 
Cosa?
Cosa ha detto?
Ok, non abbiamo fissato una data, ma non stiamo nemmeno pensando di sposarci “prima o poi”.
Giusto?
Non me lo sono sognato io, vero?
 
«E questo cosa vorrebbe dire?» salto su.
Ben mi guarda, perplesso.
«Niente. Che non abbiamo una data»
Sia lui che Tom mi fissano e io mi agito sul divano, a disagio.
Ok, non devo esagerare.
Ma sento una nota stonata in tutto questo.
«Del resto… che fretta c’è?» prosegue Ben, distogliendo lo sguardo «Siamo giovani, abbiamo tutto il tempo. Non dobbiamo mica fare le corse»
 
Oddio.
Perché non mi guarda?
Perché dice una cosa del genere di fronte a Tom?
Ginevra, stai calma.
Non esplodere.
 
Faccio una cosa che – devo dire – mi rende fiera di me.
Scrollo le spalle come se non fosse importante, afferro Vanity Fair e, prima di aprirlo, dico con noncuranza:
«Certo»
Scende il silenzio.
Tom esita, poi si allontana scrollando il capo.
Ben continua a leggere, sempre senza alzare gli occhi.
Aspetto di sentire la porta di Tom chiudersi, poi salto in piedi e in due passi sono accanto a Ben.
Gli strappo di mano il copione e me lo nascondo dietro la schiena.
«Che c’è, Gin?» fa lui.
Io lo guardo intensamente.
«Cosa volevi dire, prima?»
«Cosa? Quando?»
«Due secondi fa!»
«Ma niente, cosa ho detto?»
 
Ah, fa anche il finto tonto.
Benissimo.
 
Resto in piedi davanti a lui e dico:
«Barnes, io ti conosco come le mie tasche e faresti bene a ricordartelo, prima di dire stupidaggini. Posso interpretare ogni tuo sguardo e anticipare ogni movimento che fai. E se ti chiedo una spiegazione, è perché tu non sei mai elusivo e, soprattutto, non tiri mai fuori argomenti importanti senza guardarmi negli occhi. Se lo fai, allora c’è qualcosa che ti disturba e faresti meglio a dirmi cos’è, visto che il tema della conversazione era il nostro matrimonio»
Lui prende chiaramente tempo.
«Gin, non è niente, davvero. Cosa ho detto? Solo che non c’è fretta! Lo abbiamo sempre detto, entrambi! Anzi, ti ricordo che sei stata tu a dire che dovevamo prenderci tempo»
«No» lo fermo subito «Io ho detto che non dovevamo affrettare le cose, considerando i cambiamenti in corso nelle nostre vite e la lontananza, ma io non ho mai, mai, parlato di “prima o poi lo faremo, forse”»
«Ma è lo stesso! E io non ho detto “forse”!»
«No, per niente!»
Ci fissiamo, in cagnesco.
«Gin, lo sai che devo incontrare quel regista, lo sai che è importante. Non ho testa per una discussione fondata sul niente, ora»
Tende la mano per avere il copione, ma io resto immobile.
«Ben, lo sai vero che se tu mi chiedessi in qualsiasi momento di sposarci, a prescindere dai sogni folli di castelli nel verde e lune di miele dall’altra parte del mondo che facciamo da mesi, io ti direi di sì immediatamente, vero? Lo sai? Perché se tu ora ti alzassi e mi dicessi che vuoi andare all’ufficio civile – o dove cavolo si va in America – anche senza le nostre famiglie e senza un minimo di preavviso, io verrei con te senza pensarci due volte!»
Lui batte le palpebre.
«Certo. Lo so» dice, in tono neutro.
 
Ma è il modo di rispondere a una donna che ti sta dicendo che farebbe qualsiasi cosa per te?
 
«Chiedimelo» dico «Chiedimelo adesso»
Giuro che non avrei mai pensato di poter stare così male nel vedere la sua espressione ora.
Confusione?
Paura?
Non lo so, ma ha lo sguardo di qualcuno che vorrebbe essere dovunque ma non qui, davanti a me.
Ma com’è possibile?
Ben, che mi ha chiesto di sposarlo quando io non lo avrei neppure immaginato.
Ben, che mi ha cambiato la vita.
Ben, che si è innamorato di me quando io non avrei neppure mai creduto possibile che un miracolo del genere potesse accadere.
 
Lui non dice nulla e io mi volto e esco di casa.
 
*
 
Non so nemmeno dove sono andata.
 
Ho camminato e camminato e continuavo a rivedere nella mente lo sguardo spaventato di Ben.
Ma di cosa ha paura?
Mi ha chiesto lui di sposarlo!
Cosa, cosa è cambiato?
Quattro settimane fa passeggiavamo lungo questa strada e scherzavamo sul fatto di sposarci in spiaggia!
E ora…
Cerco di dirmi che è stressato, che è nervoso, ma sono scuse che suonano vuote alle mie stesse orecchie.
Stiamo parlando di matrimonio.
Di una vita insieme.
Se un provino basta a fargli considerare con orrore la prospettiva, allora come possiamo affrontare i giorni che verranno?
Se ogni volta che va in ansia – e mi pare di capire che, a causa del suo lavoro, ci vada spesso in ansia – mette in discussione anche me, allora cosa ci resta?
Non avrei mai creduto che sarebbe successa una cosa del genere.
La mia favola meravigliosa.
 
Cammino, cammino e alla fine mi ritrovo sulla porta di casa, con più dubbi di prima.
Di casa sua, penso per la prima volta.
Casa sua e di Tom.
Io non c’entro niente qui.
Quasi non vorrei entrare, ma dove potrei andare?
E poi non posso evitare di confrontarmi con lui su questo problema.
E, pur maledicendomi per la mia debolezza, ammetto che ho bisogno di vederlo.
Di farmi rassicurare da lui.
 
Apro la porta e muovo un paio di passi nella casa buia.
Non c’è nessuno, è chiaro.
Contro ogni buonsenso, giro per le stanze e accendo le luci, sperando di trovare Ben.
Ma non c’è.
Non è nemmeno in camera, che mi aspetta per parlarmi, preoccupato perché sono andata via arrabbiata.
Mi siedo sul letto e, a rallentatore, mi viene in mente.
Questa sera c’è una festa a Las Vegas, con quel maledetto produttore che Ben deve incontrare.
Pensavo che non ci sarebbe andato?
Veramente sì.
Me lo aspettavo, dato che me ne sono andata da sola, arrabbiata.
Mi aspettavo che venisse a cercarmi, o almeno che mi aspettasse a casa.
Io lo avrei fatto, per lui.
Ma, certo, non sono io quella con i dubbi sul nostro futuro, a quanto pare.
Prendo il cellulare e trovo tre messaggi:
 
Dove sei?
 
Gin, c’è la festa, stasera… te lo ricordi, vero?
 
Non sei tornata e io devo andare. Chiamami.
 
E basta.
Non come stai.
Non scusa.
Non parliamo.
 
Niente.
 
*
 
Quando torna io sono a letto, al buio.
Lo sento entrare barcollando e urtare il comò, poi sedersi pesantemente sul letto.
Io resto immobile.
Allunga una mano per cercarmi, a tentoni.
«Gin?» biascica.
Sembra ubriaco.
Resto zitta e lui si spoglia e si sdraia accanto a me.
 
Per la prima volta da quando lo conosco dormiamo dandoci le spalle.
 


***
Buongiorno!
Ditelo, che vi mancavano gli arrovellamenti mentali di Gin! :D
Dunque, l'aggiornamento della prossima settimana potrebbe arrivare con un giorno di ritardo (quindi mercoledì e non martedì), perchè sarò di nuovo via senza il computer...
E, come sapete, lunedì aggiorno "Le Cronache" e martedì Gin e Ben: potrebbe scalare tutto di un giorno, ma come sempre vi avviserò su Facebook, a questo link: 
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Buona lettura!
Joy

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Capitolo 16
*** Tempo ***


La cosa tremenda, quando litighi senza gridare e senza piangere, è che ti resta addosso quella freddezza raggelante.
 
È così che mi sento stamattina.
Non sono arrabbiata, sono ferita.
Ferita e quindi confusa e, di conseguenza, spaventata.
E fredda.
Fredda e analitica e distante.
 
Ben, a differenza mia, è agitato, nervoso e gesticola molto.
E alza persino la voce, cosa inconcepibile per lui.
«Cosa vuoi che ti dica?» sta dicendo adesso, alterato «Sei arrabbiata perché non ho fatto i salti di gioia alla tua idea improvvisata?»
 
È un’ora che parliamo.
Io non ho quasi chiuso occhio e mi pulsano le tempie per la stanchezza e il nervosismo.
Lui, di contro, era davvero sbronzo, quindi ha dormito pesantemente, si è alzato per dare di stomaco ed è tornato a letto, per ripiombare in un sonno comatoso.
Cosa che mi ha fatta incazzare ancora di più.
 
«Oh, improvvisata» ribatto, secca «Capisco. Quindi questi mesi che abbiamo passato a parlare di matrimonio cos’erano? Uno scherzo?»
Lui sbuffa.
«Lo sai che non è così!»
«No, invece non lo so. Se tu vuoi stare con me, se vuoi sposarmi, allora di cosa hai paura? Lasciamo da parte tutte le divertenti speculazioni su feste folli e trovate brillanti… e cosa resta?»
Lo guardo in cagnesco e scandisco:
«Resta l’impegno, Ben. E quello o vuoi prenderlo, o non vuoi»
Lui sta zitto e io lo incalzo.
«E se il fatto che io ti dica che sarei pronta a sposarti adesso, mentre io sono in pigiama e tu in mutande, e a te sembra uno scherzo stupido la dice lunga! È offensivo! Tu non ci credi davvero!»
«Certo che ci credo! Ma non vedo il motivo di litigare su una cosa tanto ridicola!»
«Ridicola? Cosa sarebbe ridicolo? Voler sapere che intenzioni hai?»
«Lo sai che intenzioni ho!»
«Credevo di saperlo, fino a ieri. Poi tu hai scherzato con il tuo coinquilino, dicendo che prima o poi farai questo passo, ma tanto siamo giovani quindi non c’è motivo di agitarsi tanto. Poi, se ben ricordi, io ti ho chiesto spiegazioni e tu sei entrato in panico. E fammi il favore di non negare, perché è un insulto all’intelligenza!»
Lui sospira e si appoggia ai cuscini.
«Mi esplode la testa» borbotta «Tutto quello che volevo era parlare con te di ieri sera e invece tu non fai che aggredirmi!»
Mi sforzo di non urlare.
«Mi hai lasciata qui, da sola, ieri» dico, piano.
Lui si rimette subito sulla difensiva.
«Sai quanto ci tenevo! Cosa dovevo fare, non andare?»
 
Sono ferita.
Chiudo gli occhi.
«Per me, non potevi farlo? Non sapevi dov’ero e sapevi che ero ferita… e non mi hai nemmeno chiamata»
Lui distoglie lo sguardo.
«Pensavo volessi stare sola» farfuglia «E comunque… quel produttore parte oggi per l’Arizona e sai quanto volevo incontrarlo… Tom si è dato tanto da fare e…»
La sua voce sfuma e io resto in silenzio ad assorbire l’impatto delle sue parole.
È più importante un contatto di lavoro di me.
Vorrei dire che non sono così superficiale da fare questi conti meschini, ma non sarebbe vero.
Che poi… è superficialità?
Sto guardando l’uomo che amo.
Che dovrebbe diventare mio marito, il mio compagno di vita.
Non credo sia così irragionevole pensare di venire per prima.
Lui viene per primo, per me. Sempre.
 
Forse, se riuscissi a piangere, scaricherei la tensione se non altro.
Ma non ci riesco.
 
«Ti ricordi quando mi hai portata a Parigi, per il mio compleanno?» gli chiedo «Quando siamo saliti sulla Torre Eiffel?»
Ben non risponde, ma so che ci sta pensando.
A come eravamo ebbri di felicità e a come ridevamo mentre lui urlava che se non lo avessi sposato subito si sarebbe buttato di sotto.
Ed era vero, io lo so.
E lo sa anche lui.
Dopo un po’, allunga una mano verso di me.
«Ascolta» mi dice «Fammi spiegare. Non è che non voglio che ci sposiamo, lo sai che ti amo. Ma… se questo progetto partisse, c’è la seria possibilità che mi impegni molto tempo. E tu non sai come vanno le cose su un set, ma tra preparazione e riprese per un anno almeno io sarò lontano. E ti voglio con me, davvero, ma adesso è troppo… complicato»
Non prendo la sua mano.
«Ben, questo è il tuo lavoro. Sarà sempre complicato, visto che non lavori in un ufficio»
«Stavolta è diverso, è un progetto enorme! Davvero, Gin, ti prego: ti prego, abbi pazienza!»
Mi volto a guardarlo.
«Avere pazienza non è un problema. Sapere cosa vuoi tu invece sì»
«Gin, io ti voglio!» si protende verso di me «Io ti amo e lo sai! Mi dispiace… Solo che temevo che avresti preso male questa cosa del film e non sapendo come dirtelo… Ho fatto un casino. Ma, davvero, non è niente!»
«Cosa vuoi davvero, Ben?» gli chiedo piano.
Lui mi stringe.
«Amore, sono un bastardo egoista ma io ti amo. Lo sai. Però, sì, questo film è importante… voglio te e voglio il film. Entrambi. Ti prego, non dirmi di no. È un’occasione enorme, per me»
«Fammi capire. Cosa mi stai chiedendo?»
«Un anno. Un anno in America. Ti prego! Dopo ci sposiamo e compriamo un rudere in Toscana»
Mi scappa un mezzo sorriso.
«Tra tutte le tue folli proposte su dove vivremo, questa è di gran lunga la peggiore»
Lui ridacchia, le sue mani che si muovono sulla mia pelle.
 
Un anno qui.
A me fa schifo questo posto.
 
Ma respingo il pensiero.
Glielo devo. Lo devo a Ben.
È il suo lavoro e lui lo ama tantissimo e io mi sono sempre ripromessa che non gli avrei chiesto sacrifici per me.
Del resto, se gli chiedessi di rinunciare, non sarei un’egoista?
Se non fosse questo progetto ne verrebbe un altro.
Se voglio stare con lui devo capire la sua vita e il suo lavoro.
 
Ben mi spinge sulle lenzuola e io lo lascio fare.
Mi bacia e mi ripete che mi ama, che vuole stare con me, mi chiede scusa infinte volte.
«Non si tratta di perdonare» mormoro, con le labbra sul suo petto «Non sono arrabbiata, sono ferita»
«Non lo sopporto» mi prende il viso tra le mani «Non sopporto di averti fatto del male. Mi dispiace, mi dispiace!»
Lo perdono troppo in fretta?
Ma io odio essere arrabbiata con lui.
Odio il mio mondo quando va sottosopra.
Restiamo a letto, stretti l’uno all’altra, mentre Ben mi racconta dell’incontro di ieri sera.
È entusiasta, lo si capisce al volo.
Per quanto mi ripeta che la serata è stata altrimenti noiosa, che ha esagerato nel bere perché era nervoso per la nostra situazione e perché si sentiva solo senza di me, capisco che freme d’impazienza.
Ad un certo punto, tra le sue parole e il filo dei miei pensieri, mi addormento.
Non so bene quando, ma mi sveglio che è ormai tardo pomeriggio tardo, accaldata e avvolta nelle lenzuola ormai sgualcite.
Alzo la testa dal cuscino e vedo subito Ben, seduto in poltrona e con un copione tra le mani, che muove le labbra senza emettere suono.
Fa così perché sta già provando le battute.
Ripiombo tra le coltri e chiudo gli occhi.
Mi sveglia lui più tardi, con baci insistenti.
Io riemergo dal torpore a fatica, ma Ben sembra stare molto meglio.
Si sdraia accanto a me e preme il corpo contro il mio, mentre con le dita traccia dei disegni immaginari sulla mia schiena.
Scosta le spalline della mia canotta e me la abbassa, scoprendo il seno.
Io mi sento frastornata, dalla stanchezza e forse dai miei pensieri confusi.
Mormoro una richiesta al suo orecchio e gli mordicchio il lobo e lui annuisce.
Corre in bagno a riempire la vasca e, mentre io mi lavo i denti, lui si spoglia e scavalca il bordo, sedendosi.
Sono ancora mezzo addormentata quando mi sfilo le culotte e il top, mentre lui mi guarda con gli occhi scuri che mandano lampi.
Quando alzo le braccia per legarmi i capelli in un nodo in cima alla testa, lui mi tende la mano per aiutarmi a scavalcare il bordo.
«Vieni qui, amore» mormora, prima di prendermi tra le braccia.
Affondo il viso sulla sua gola e penso che è qui che voglio stare.
È qui che sono a casa.
Lui mi mordicchia dolcemente la pelle della spalla, il collo, le labbra.
Mi giro per sedermi su di lui.
Facciamo l’amore con gli occhi incatenati e io sospiro il suo nome e mi affido a lui e niente esiste se non se le sue braccia, le sue labbra e la sua pelle attorno a me.
 
 
*
 
A cena mangiamo una pizza.
La volevo da tanto e Ben mi porta, a sorpresa, in un ristorante italiano.
Scuote il capo e dice che è assurdo stare con qualcuno che vuole mangiare solo cucina italiana, per di più all’estero, ma quando ci sediamo il cameriere non mi porge il menù: dice che “il signore ha già ordinato tutto” e mi augura buon appetito, versandomi il vino.
Io guardo perplessa Ben, ma lui si limita a sorridere e a chiedere una birra.
E mi servono la mia pizza preferita, ma di questo non mi stupisco.
Resto incantata, invece, quando scopro che Ben ha ordinato tutti i dolci che ci sono sul menù, più alcuni che ha chiesto di preparare apposta.
«Diventerò grassissima!» gli dico, mentre lui mi imbocca con un cucchiaio per farmi assaggiare il tiramisù.
«A me piacerai sempre» ribatte, con quel sorriso che farebbe capitolare chiunque.
«Non posso non pensare che eri abituato a un diverso tipo di donna» dico, dubbiosa «Ogni volta che metto il naso fuori casa e vedo le modelle che si aggirano ovunque»
Ben sorride di nuovo e, sotto il tavolo, mi accarezza una coscia.
«Allora propongo di non uscire più di casa» mormora al mio orecchio «Restiamo in camera tutto il giorno, tutti i giorni»
Rido.
«Per quanti giorni?»
«Tutti i giorni, che domande! Tutti i nostri giorni!»
«E il tuo lavoro?» lo pungolo scherzosamente.
«Al diavolo il lavoro!» risponde lui, mentre gli brillano gli occhi «Sei così bella… Così bella che non capisco più niente…»
Siamo seduti vicini, con le mani intrecciate.
Il suo braccio sinistro mi circonda la vita e, mentre mi bacia, finalmente mi rilasso.
Chiudo gli occhi e mi faccio cullare dalla musica discreta, dal suo profumo così familiare.
 
E poi, all’improvviso, sentiamo uno strillo femminile.
«Ben! Ben!»
Lui alza gli occhi e il suo viso si illumina mentre sorride.
«Ciao, Amanda!» dice, sorpreso, alzandosi.
 
Io mi volto e vedo in piedi dietro di me una sorridente Amanda Seyfried.
 
 
 ***
Buongiorno!
Con un po' di ritardo, ma ecco il nuovo capitolo! Ieri, invece, ho aggiornato "Le Cronache"!
Sapete che per ogni informazione potete trovarmi qui: 
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Buona lettura!
Joy

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Capitolo 17
*** Un avvertimento ***


Amanda Seyfried ha lavorato con Ben in passato.
 
Insieme hanno girato il film “The big wedding”.
Io e Ben non stavamo ancora insieme e, vista la pessima riuscita della pellicola in termini di critica e di incassi, non ne abbiamo neppure mai molto parlato.
Più che altro, Ben mi ha raccontato aneddoti riguardanti il suo compleanno, perché ha compiuto 30 anni sul set, mentre giravano.
I suoi sono andati a trovarlo, visto che non poteva tornare a casa.
 
Amanda sembra simpatica.
È disinvolta e sorridente e, quando Ben mi presenta, mi abbraccia.
«Non sapevo avessi messo la testa a posto, Barnes» gli dice poi.
Lui ride.
«Nemmeno io, finché non ho incontrato Gin» risponde, stringendomi la mano.
Lei si siede con noi e gli racconta allegramente del suo ultimo fidanzato che, però, a quanto pare ama meno del suo cane.
Quando vede la distesa di dolci sul nostro tavolo mi sorride e dice che sono una ragazza fortunata.
Lo so bene, cara mia!
 
Finché non torniamo a casa, Amanda è solo un simpatico incontro.
Quando rientriamo, poi, mi esce decisamente di testa perché Ben è chiaramente intenzionato a proseguire il discorso sul “restare blindati in camera”.
Per fortuna riesco a tenere il reggiseno addosso fino a quando chiudiamo la porta, perché in questa casa non si sa mai da dove uscirà qualche amica di Tom.
Poi cadiamo sul letto avvinghiati ed è pace e beatitudine fino al giorno dopo.
 
*
 
La mattina dopo, Ben mi sorprende portandomi la colazione a letto.
 
Stiamo mangiando quando sentiamo bussare e Tom mette dentro la testa, euforico.
Ben mi copre con il lenzuolo e gli lancia un’occhiataccia.
«Ehi! Sei impazzito?»
«Scusa, scusa! Ehi, hai saputo chi è tornato? Amanda Seyfried!»
«Sì» annuisce Ben «L’abbiamo incontrata ieri sera»
«E bè? È sempre una gran figa?»
«Tom» Ben gli lancia un’occhiataccia «Datti una regolata!»
«Perché?» ride l’altro «Ti dà fastidio se parlo così di una tua ex? Ma tu non pensavi al matrimonio?»
Se ne va ridendo.
 
Noi restiamo per un attimo in silenzio.
«Bene» dico poi, mentre Ben mi scruta, ansioso «Mi sembra davvero felice per noi due»
Lui fa un sorrisetto.
«Ascolta, per quanto riguarda Amanda…ecco…»
Non sembra sapere come terminare la frase e questo mi dice già tutto.
«Siete stati insieme?»
«No, ci siamo frequentati un po’… Non è durata molto, lei è sempre in giro»
«Ah, davvero?» dico, scherzando «Come ti capisco… sai, anche il mio fidanzato è sempre in giro!»
Lui ride.
«No, amore, non hai idea…. Io sono uno che viaggia davvero poco rispetto ad Amanda e a gente che lavora quanto lei»
«Oh» arriccio il naso «Più di te? Ma…»
Lui mi accarezza il braccio.
«Lavorare ad alti livelli significa essere sempre in giro: non è solo girare un film. Sono le promozioni, i servizi, le campagne… è tutto»
 
Sono sempre più perplessa riguardo questo aspetto della sua vita, ma come faccio a dirglielo?
È il lavoro che ama.
E io non sono sua madre.
Sono colta dal lieve dubbio di essere codarda a non dirgli quello che penso, ma temo di passare per provinciale e sciocca, quindi bevo un sorso di thé e gli chiedo di parlarmi di Amanda.
«C’è poco da dire… Ci siamo frequentati un po’, ma nulla di che. È simpatica ma non siamo compatibili. E basta»
«Come sei evasivo!»
«Non sono evasivo» risponde «Ti dà fastidio?»
Gli lancio un’occhiatina in tralice.
«Affatto! Perché, ti sembro una persona gelosa?»
Lui mi morde scherzosamente un braccio e io strillo.
«Chi, tu? Ma per favore!»
 
*
 
Due giorni dopo, mentre Ben è fuori casa per un appuntamento con il suo agente, non posso fare a meno di ripensare a questa conversazione, quando leggo in rete di un’intervista ad Amanda Seyfried, in cui parla di Ben come dell’uomo più sexy, desiderabile e affascinante del mondo.
Il che è verissimo.
Mando giù meno volentieri la dichiarazione “Certo, sono follemente innamorata di lui… chi non lo sarebbe?”.
Si sa che i giornalisti esagerano, giusto?
 
Odio questa città di merda.
 
*
 
Rivediamo Amanda due sere dopo, a una festa.
 
Arriva accompagnata da un tizio alto e con la barba e la cosa mi rincuora.
Tra l’altro, non vorrei sembrare acida ma non mi sembra particolarmente bella.
Destiny la batte di sicuro.
E anche la maggior parte delle donne che si vedono in giro a Los Angeles.
È bassa e scialbina, non il tipo di modella stangona che ti fa sentire inadeguata.
Tengo Ben per mano quando lei ci vede e viene a salutarci.
Tom, che è vicino a noi, ghigna, ma Amanda mi saluta affettuosamente, poi saluta Ben e parla tranquillamente con entrambi noi.
È gentile.
Simpatica.
Dai, le perdono quell’uscita sul mio fidanzato: rispetto agli amici di Ben, con me è davvero gradevole.
Ci invita persino a cena a casa sua ma, mentre io sorrido, Ben rifiuta in modo garbato ma fermo.
Lei mette il broncio scherzosamente e dopo poco se ne va.
Io non posso trattenermi dal guardare Tom con aria trionfante: visto, stronzo?
 
*
 
Eppure, in un certo qual modo, l’arrivo di Amanda sembra estromettermi ancora di più.
Non è lei, almeno non in apparenza.
È sempre gentile e sorridente con me, non somiglia per nulla a Cindy e alla sua cricca.
Eppure, pian piano, sembra circondare Ben.
È presente a tutte le serate, i party e le anteprime cui presenziamo noi.
E, cosa ben peggiore, segue Ben ad ogni casting o incontro di lavoro che ha in agenda.
 
Non me ne rendo conto subito – come potrei, del resto? – ma ci pensa Destiny ad aprirmi gli occhi.
 
Una mattina la incontro in giro e lei mi offre un caffè.
Sto per rifiutare, quando noto la sua espressione tesa e accetto.
Ci sediamo ai tavolini di un bar e io giocherello nervosamente con le chiavi che tengo in mano, mentre Destiny si guarda attorno disinvolta, saluta dei conoscenti (con i quali si scatta un paio di selfie con i telefonino, tanto per andare sul sicuro) e poi torna a sedere.
Mi fissa in silenzio mentre beviamo il caffè, poi chiede:
«Allora, come va?»  
«Benissimo, grazie, tu?»
Lei mi rivolge un’occhiata penetrante.
«Oh, il solito» risponde «Sono impegnatissima con dei lavori… Sai, è davvero massacrante ma sento delle vibrazioni molto positive e…»
Di fronte alla mia espressione scettica quasi si mette a ridere.
«Oh, ok, ok» si corregge «È un periodo di merda, se vuoi sapere la verità. Contenta?»
«No» ribatto, stupita «Mi spiace per te»
Lei batte le palpebre un paio di volte.
«Sei così candida» dice, poi «Davvero… sei strana»
Scrollo le spalle.
Ormai l’ho capito che qui sono una mosca bianca…
Ma, ehi, io non voglio mica essere falsa e arrivista come la maggior parte della gente che vedo in giro!
Sono strana per i loro standard?
Benissimo.
Ne sono fiera.
 
Poi Destiny dice:
«Anche tu non sembri al top»
Mi stringo nelle spalle.
«Sarà il caldo»
Lei mi rivolge un’occhiataccia.
«O magari è Amanda Seyfried?»
Io mi irrigidisco subito.
«Cosa? E perché?»
Lei sbuffa.
«Senti, ho saputo che ti sei scontrata con Cindy. Va in giro a dire delle cose orribili su di te»
Cerco di sembrare indifferente.
«Vuoi dire più orribili di quelle che dice su chiunque? O ancora più acide e quindi ha stabilito un nuovo record mondiale?»
Destiny ridacchia.
«Senti, è vero ma… Cindy è pericolosa. E conosce tutti, tienilo ben presente. E le voci che circolano non vanno bene»
«Che voci?»
«Dice che l’hai aggredita in un locale perché sei gelosa di lei»
Io rido.
«Ma figurati se potrei mai essere gelosa di una come Cindy!»
Destiny assottiglia lo sguardo.
«Ginny, devi stare attenta. È il discorso che ti facevo l’altra volta… Agli occhi della maggior parte della gente di qui tu hai tutti i motivi per essere gelosa di Cindy»
«Ah sì?» ribatto, tagliente «Perché è magra?»
Destiny crolla il capo.
«Perché ha i contatti giusti, i soldi e sì, anche il fisico. Senti, lo so che non è vero, non ci ho mai creduto… Ma siamo solo io e te in tutta Los Angeles a non crederci»
«Me ne frego di Los Angeles» ribatto, spavalda.
 
Dentro di me ripenso alle parole di Ben.
Un anno.
Cerco di non rabbrividire.
E se tornassi in Italia?
Però… vorrebbe dire ricominciare con un rapporto a distanza.
Non sarebbe un passo indietro?
 
Destiny richiama la mia attenzione.
«Allora non vuoi proprio capire» dice.
Io mi chiudo in un silenzio ostile.
Ho capito benissimo.
So cosa conta qui, ma non sono le cose che contano per me.
Se Cindy qui è una persona che detta legge io me frego.
La prossima volta, magari, una borsa la tiro in testa a lei, così salviamo uno specchio.
 
«Senti, Ginny» mi dice ancora «Cindy va dicendo in giro che stai supplicando Ben di stare con te e che lui è stanco ma non vuole scaricarti perché gli fai pena»
Io sbianco.
Stringo il bordo del tavolo fino a farmi male alla mano.
«Cosa… cosa? Come si permette, quella…»
Non mi viene una parola abbastanza brutta per descriverla e rimpiango di essermi pentita di averla definita una vacca.
Sono stata troppo gentile.
«L’altro giorno ero a un casting e l’ho sentita dirlo a delle sue amiche… e ad Amanda Seyfried»
«Conosco Amanda» dico, per evitare di dare giudizi su Cindy, che sicuramente Destiny pubblicherebbe sul gazzettino locale.
Non mi fido nemmeno di lei, anche se sembra avere intenzioni non troppo ostili.
«E sai tutta la storia?» chiede «Di lei e di Ben?»
Annuisco, a denti stretti.
Non mi dà fastidio che lui abbia avuto una vita, prima di me: non sono così irragionevole.
Ma mi infastidisce - e molto – doverne parlare con chiunque non sia Ben.
Soprattutto con gente da cui mi tengo alla larga.
Destiny sembra sulle spine, poi dice piano:
«Lo sai che è stata una cosa seria?»
«No, non è vero» dico, furiosa.
 
Ma perché ogni parola che chiunque mi dice sembra volermi ferire apposta?
Ma cosa vogliono da me?
 
Lei tende una mano e copre la mia, sul tavolo.
Sembra dispiaciuta.
«Ascoltami, è la verità. Io stavo con Tom e frequentavo casa loro: conosco bene Ben. Quando ha incontrato Amanda… ha perso la testa. Lei lo ha fatto dannare, è una tipa molto elusiva. Oggi c’è, domani chissà. Sono stati mesi di tira e molla: spariva, poi riappariva. Non gli dava certezze. Ma lui era molto preso»
«Lui a me ha detto un’altra cosa»
Lei scrolla la testa.
«Ti direbbe la verità?»
Mi sforzo di non abbassare gli occhi mentre valuto la cosa.
Forse… forse no.
Voglio dire, Ben sa che sono gelosa e ammetto che mi sono dimostrata irrazionale con lui in passato.
Ma mi mentirebbe?
Non ne vedo la ragione, abbiamo sempre parlato onestamente del nostro passato.
Certo, rispetto al suo il mio scompare, ma…
 
Tiro via bruscamente la mano.
«Io credo a Ben» rispondo, secca.
«Ascolta, lo so che non vuoi credermi, ma…»
«Che ragioni avrei di crederti? Tu non sei mia amica!»
Lei sembra spiazzata.
«Io non ti odio» dice.
«Bè, grazie tante, ma è per questo che qui avete dei rapporti personali di merda. L’amicizia non è “non odiare” qualcuno e se vi basate su questo discrimine, per forza avete delle relazioni inconsistenti!»
«Forse» non sembra importarle «Ma qui oggi ci sei e domani chissà. E avrai altri contatti, altre persone attorno»
«Io non mi circondo di contatti. Mi circondo di amici»
«E qui quanti ne hai?» contrattacca «Ci sono solo io a dirti la verità»
«E chi mi dice che è la verità? Perché dovrei fidarmi di te?»
«Non ho motivo di farti del male»
«Come non ce l’ha Cindy, immagino!»
«No, invece lei lo ha: Cindy ha una cotta per Ben da sempre. Per questo ti odia. Io non ti odio: sei strana, questo sì, e sei indifesa… Non so perché, ma mi spiace davvero…»
«Bè, grazie tante ma io non voglio fare pena a nessuno!»
«Non è questo, non mi fai pena. È che sei così… inconsapevole. E questo mondo è spietato, mentre tu sei così piena di fiducia»
«Non dovrei fidarmi di Ben? Ma di te sì, invece? È questo che mi stai dicendo?»
Lei sospira.
«Senti, Ben sembra davvero felice con te. È cambiato molto e ti ha portata qui e io so benissimo – come lo sa Cindy – che non lo avrebbe fatto se tu non fossi importante per lui. È stato sempre attento a non introdurre le sue storie nel nostro gruppo, in modo che poi lasciarsi non creasse imbarazzi o difficoltà. E invece tu sei qui»
E, di nuovo, lo dice come se fosse stupita.
«Però» continua «Non dirmi che non lo vedi cambiato anche tu. È come se fosse stato in vacanza… Ma la realtà lo sta risucchiando di nuovo. Te l’ho già detto: se non volesse questa vita, se non volesse sfondare, non sarebbe qui. Sarebbe da qualche altra parte, con te, a fare il fidanzato per bene. E invece è qui. E, cosa peggiore, obbliga te a stare qui, quando è chiaro che a te questo posto non piace e non ti fa bene. Basta guardarti in faccia per capirlo. Se qui da qualche mese e hai già un’altra faccia»
 
Non voglio dare ragione a Destiny.
Mi impiccherei piuttosto che dare ragione a Destiny.
 
Resto a braccia conserte e con un’aria di sfida stampata in faccia.
Lei aspetta un mio commento, ma resto muta.
«Gin» dice allora «Guarda che Amanda ha ripreso a ronzare attorno a Ben. Va ai suoi stessi casting, fa di tutto per incontrarlo. Ieri li ho visti pranzare insieme. Davvero, lo so che non ti fidi di me… Ma ricordatelo. Io te l’ho detto. Stai attenta ad Amanda»
 
Nemmeno le rispondo.
Prendo la borsa e me ne vado, senza salutare.
 
*
 
Ovviamente, non sono capace di dimenticare questa conversazione né di non arrovellarmici sopra.
 
E ci scommetto che Destiny l’ha fatto apposta, ma ora mi ha instillato il tarlo del dubbio.
Cerco di vedere la cosa spassionatamente.
Sono colleghi. Che male c’è a pranzare insieme?
E, al limite, se fosse vero che Ben per lei ha provato dei sentimenti importanti… cosa vorrebbe dire?
Anche io mi sono innamorata, in passato.
Ma poi ho incontrato lui e da lì la mia vita è cambiata.
Punto.
Per lui può benissimo essere accaduta la stessa cosa.
Amanda può essere solo un contatto di lavoro.
 
Cerco di reprimere una fitta d’ansia.
Sarà di certo così.
 
Girovago per le strade del centro e poi, stanca e accaldata, rientro a casa.
Faccio una doccia, mi metto a prendere il sole in giardino.
Ben e Tom sono fuori per provini.
Leggo un po’, poi prendo il cellulare e mando un sms a Ben per chiedergli come va la giornata.
Lui risponde: Deludente. A dopo. Xxx
Ah, benissimo.
 
Il fatto è che qui, a parte la turista, non ho nulla da fare.
E di turistico non c’è niente, una volta che ti sei stancato di vedere le palme.
E gli attori in giro per strada.
Quando Ben rientra è quasi sera e io gli corro incontro felice.
Sembra quasi sorpreso della mia irruenza.
«Ehi» dice «Tutto bene?»
«Sì! Ma ora che sei a casa è meglio!»
Sorride e mi dà un bacio distratto, poi dice:
«Ascolta, mi spiace lasciarti sempre sola, ma Amanda Seyfried vuole presentarmi un regista… Ti spiace se vado a cena con loro due stasera?»
Loro due non include anche me, vero?
Gli lascio un secondo, giusto in caso volesse dirmi “Ma naturalmente io senza di te non vado, amore” … Ma lui resta in silenzio, speranzoso.
Cosa posso dire?
È lavoro dopotutto.
«… Certo. Non c’è problema!»
«Grazie» mi dà un bacio veloce «Faccio una doccia e vado!»
 
Scappa in camera e io resto lì, impalata, in soggiorno.
 
Fantastico.



***
Buongiorno!
Solo una parola per ricordarvi che mi trovate qui per ogni cosa: https://www.facebook.com/Joy10Efp?ref_type=bookmark
Buona giornata!
Joy

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Capitolo 18
*** La situazione va peggiorando ***


La situazione va peggiorando.
 
Non vorrei sembrare paranoica o magari ossessiva, ma mi scopro a guardare Ben con occhi nuovi nei giorni seguenti e quello che vedo – mi spiace dirlo – non mi aggrada.
 
Affatto.
Ma neanche un po’.
 
Sì, certo, lo so cosa state per dire: Gin paranoica.
Gin che ascolta Destiny invece del suo ragazzo.
Gin con il continuo complesso di inferiorità, che riesce sempre a sabotarsi da sola e a mandare tutto all’aria.
 
Queste cose le so anche io.
Ma…
 
Tre giorni fa Ben aveva una cena di lavoro a suo dire molto importante.
L’invito non si estendeva ai partner degli attori coinvolti, quindi gli ho fatto il nodo alla cravatta e l’ho salutato con un bacio, raccomandandogli di farmi sapere come andava.
«Prega per me!» mi ha detto.
Certo.
È quello che faccio sempre.
Secondo voi si è ricordato di chiamarmi?
 
Ah, certo, cosa significa, direte voi.
Non è che si può stare sempre con il cellulare in mano.
Non abbiamo mica 15 anni.
Non è che può stare sempre lì a pensare a me: sta lavorando.
Certo, io mi aspetto che cinque secondi per scrivere un sms, nel lasso di tempo tra le 19 e le 5 di mattina, uno li trovi… Ma sono dettagli.
Sono dettagli anche il fatto che, a quanto pare, tempo per avvisare Tom e cricca di come era andata li ha avuti, eccome.
Mentre io preparavo la colazione, da brava fidanzata zerbino, e il signorino dormiva, sono entrati (in modalità Attila che tutto distrugge) una pletora di amici di Tom e Ben che hanno fatto irruzione in camera nostra e lo hanno tirato giù dal letto.
Poi lo hanno trascinato in soggiorno, festeggiando la meravigliosa notizia lavorativa di Ben.
Quale, vi state chiedendo?
Ottima domanda: me lo chiedevo anche io, mentre stavo lì, da una parte e non considerata da alcuna anima vivente nella casa.
E, colmo dei colmi, finita la festicciola improvvisata Ben se ne è anche tornato a letto.
 
 
Due sere fa siamo stati all’ennesima festa insipida, fatta di alcool, droghe e modelle anoressiche.
Ben è stato risucchiato nel vortice delle sue conoscenze e, dopo poco, io sono rimasta indietro.
Sono rimasta lì, impalata, con un sorriso finto stampato in faccia, mentre osservavo il mio ragazzo ridere e parlare con gente di cui io nemmeno conosco il nome e che lui invece tratta come fratelli ritrovati.
Lo so, qui usa così.
All’improvviso mi è sembrato di soffocare e sono uscita.
Sono andata in giardino e, poi, presa da una determinazione improvvisa me ne sono andata.
Ho chiamato un taxi e sono tornata a casa.
Era mezzanotte e mezza.
Ben se ne è accorto alle 6 di mattina.
Il cellulare che suonava mi ha svegliata.
Ho risposto, mezza addormentata.
«Gin, dove sei?» mi ha chiesto.
«A casa» ho biascicato, mezza addormentata.
«A casa? Ma perché? Stai male?»
«No… ero stanca»
Una pausa.
«Ah» ha detto poi, freddo «Bè, potevi dirmelo. Mi sono accorto che non c’eri e mi sono spaventato»
Ho guardato l’ora.
«Ben, sono andata via più di cinque ore fa. Grazie per aver notato che mancavo ed esserti preoccupato per me, amore»
Lui è rimasto in silenzio di fronte al mio tono acido.
«Bè… Toccava a te avvisarmi. E poi c’è un casino di gente qui e io non…»
Non so esattamente cosa “lui non” perché gli ho attaccato il telefono in faccia.
E, per fortuna, sono rimpiombata nel sonno, così per qualche ora ho evitato di pensare.
 
 
Il giorno dopo non ne abbiamo neppure parlato, perché lui ha dormito, poi si è fatto una doccia, poi siamo usciti di nuovo.
Siamo finiti all’ennesimo party di merda.
E, alla lista di cose che non sopporto, se ne è aggiunta una nuova: le donne che gli si strusciano addosso.
Ma seriamente.
Senza proprio nessun pudore.
Lo fanno con tutti, a dir la verità, ma capite come la cosa mi consoli poco.
Ben è mio e guai a chi osa toccarlo.
Però evito di dirlo.
Mi sembra che anche lui potrebbe defilarsi, invece di rimanere immobile e ridere come un cretino, cosa che ha fatto per tutta la festa.
Oh, dai, sono ingiusta: alla fine si è animato.
 
Quando è arrivata Amanda, per la precisione.
 
*
 
È a questo che penso oggi, mentre mangio dell’ananas e mi impiastriccio le mani di succo.
Sto guardando un film in lingua, in modo da restare concentrata il più possibile per capire le parole.
Al momento, mi sembra vitale.
Temo che se mi deconcentrassi, anche solo per un secondo, finirei per spaccare tutto quello che mi trovo sotto mano.
 
Quando Ben rientra, sto ancora guardando la tv.
Mi saluta e mi dà un bacio distratto in testa, poi va in camera.
E la realtà mi colpisce ancora più forte.
Quando mai Ben non mi ha chiesto come stavo?
O non si è interessato a cosa stavo facendo, per quanto fosse una cosa banale?
Da quando Ben non ha due minuti per me?
Da quando non si accorge se io gli sono attorno o no?
Ed è questa la cosa che mi sembra più offensiva di tutte: se non trovi tempo per una persona, vuol dire che di quella persona non te ne importa nulla.
 
Finisco il film, poi mi alzo, mi lavo le mani in cucina e vado in camera.
Ben è seduto sul letto e parla animatamente al cellulare.
Io vado in bagno e mi faccio una doccia.
Quando esco, sono avvolta nell’asciugamano.
Lui mi lancia un’occhiata distratta, io apro l’armadio.
Tiro fuori dei jeans e un top.
Finisco di asciugarmi e faccio cadere a terra il telo, quindi prendo la crema per il corpo.
Mentre me la spalmo, sento una delle sue mani – le sue mani calde ed eleganti - che si posa sul mio fianco.
Sta ancora parlando al cellulare.
Mi scosto bruscamente.
Vado a lavarmi le mani e, quando torno, mi faccio una treccia.
Ben saluta e attacca, poi si mette alle mie spalle e mi dà un bacio sulla spalla nuda.
«Ciao» mormora.
Mi stringe, ma io gli scosto le braccia.
«Ciao» dico, atona.
Infilo la biancheria e mi contorco per chiudere il reggiseno.
Lui viene ad aiutarmi.
«Che c’è?» chiede.
«Niente»
Mi allontano e prendo i jeans.
«Sicura?»
«Certo»
«Oh… ok. Fa caldo per i jeans. Metti un vestito»
«No, vanno bene questi»
E poi ho la cellulite Ben, come le tue care amichette non smettono di osservare compiaciute.
«Ma c’è una festa in piscina… Secondo me saresti più comoda con un vestito»
«Non vengo» rispondo, lapidaria, aggiustandomi addosso il top.
Poi prendo gli orecchini.
«Cosa?» fa lui «Perché?»
Io scrollo le spalle e inizio a truccarmi gli occhi.
«Gin! Cosa c’è?»
«Mmm… non saprei» rispondo, come se non fosse importante «Magari non mi va di vederti mentre altre donne ti si strusciano addosso, ti abbracciano e trovano ogni scusa per toccarti. O magari la compagnia fa schifo. O magari sarà l’ennesima serata di merda noiosissima e io preferisco farmi due passi da sola, che dici?»
Lui sgrana gli occhi.
«Cosa? Ma… Sei arrabbiata?»
 
Alzo gli occhi e incontro i suoi nello specchio.
«Dovrei?» chiedo, tranquillamente.
«No! Cosa ho fatto?»
«Non hai fatto niente? Sicuro? Benissimo»
Prendo la borsa ed esco.
 
Lui mi corre dietro.
«Cos’è successo? Cosa ho fatto?»
«Scusa, non hai appena detto che non hai fatto niente?» chiedo.
«Ehi!» mi prende per un braccio «Cosa sono questi giochetti? Cosa vuoi dire?»
Scrollo le spalle.
«Niente. Lasciami il braccio»
«No! Senti, sono stanco, è stata una giornata pesante e…»
Non mi trattengo.
«Oh, povero piccolo tesoro, ma certo. Sarai stanchissimo, a forza di essere invitato a pranzi e cene varie. E i party! Che vita stressante, povero amore…»
Ben inarca le sopracciglia.
«Cosa vorresti dire?» ripete, gelido.
«Quello che ho detto. Che sei sempre stanco, che ti lamenti in continuazione dello stress, ma ti farei presente che la massima fatica che fai è andare alle feste. Ora, ostinati pure a sostenere che questa è la vita vera, ma io ti faccio presente che ti sbagli di grosso. Nella vita vera si lavora, si sta con gli amici e con la propria fidanzata. Cosa invece tu stia facendo, ormai, io non lo so più» 
Ben sembra furioso.
«Senti, sono stanco» ribatte «Se è per questo tu sei sempre di malumore, ma mi sembra che la tua massima fatica sia quella di guardarti un film o fare una passeggiata. Ah, certo, anche lamentarti»
 
Io faccio un passo indietro, come se mi avesse dato uno schiaffo.
«Se mi lamento è perché odio questa città! E se ben ti ricordi, ci sto solo per te!»
«Se è tanto un sacrificio e devi lamentarti ogni giorno, detestare i miei amici e la mia vita, allora forse non è il caso che ti fermi oltre!»
 
«Ehi! Cosa succede? Perché urlate?»
Tom è comparso nell’ingresso e ci guarda perplesso.
Ben non gli risponde.
Mi tende una mano, probabilmente perché si rende conto di quanto mi abbiano fatto male le sue parole.
Mi si riempiono gli occhi di lacrime e mi volto per aprire la porta.
Esco in strada; Ben mi segue.
Mi afferra il braccio, io mi divincolo.
Mi cade la borsa mentre mi metto a correre e lui si ferma per prenderla, poi mi corre dietro.
Non sono arrivata alla fine dell’isolato che mi ha già acchiappata.
Mi stringe il braccio mentre io singhiozzo.
Mi copro la bocca con una mano e cerco di calmarmi, di pensare lucidamente, ma tutto quello che sento è il mio pianto e il nodo che mi chiude la gola.
Ben mi prende per le spalle e poi mi abbraccia.
Mi accarezza la schiena.
«Mi dispiace» mormora, mentre io piango e i miei singhiozzi vengono attutiti dalla sua maglietta sgualcita dal caldo.
«Non volevo, davvero»
La sua voce è calda e rassicurante, mi tocca i capelli e il suo corpo aderisce al mio.
Normalmente mi rifugerei nel suo abbraccio, ma stavolta no.
 
Quando riesco a riprendere fiato, gli mollo un pugno sul petto.
Lui fa una smorfia, ma non dice nulla.
Cerca di prendermi la mano, io arretro.
«Gin, non volevo, te lo giuro» mi prende il viso tra le mani «L’ho detto per rabbia, lo giuro! Perdonami!»
Io tiro su con il naso ed evito il suo sguardo.
«Scusa, piccola, scusa. Ti prego, non piangere» ripete, baciandomi la fronte.
Mi bacia le palpebre e poi le lacrime che ancora mi scendono dagli occhi.
Io resto inerte.
«Dai, torniamo a casa…»
Non mi muovo e lui sospira, ma mi riprende tra le braccia.
Restiamo lì, immobili, non so dire per quanto tempo.
Ben mormora scuse per tutto il tempo e mi accarezza la schiena.
 
Quando alla fine mi prende la mano e mi indirizza verso casa, io mi muovo automaticamente, senza alzare lo sguardo da terra.
Le sue parole continuano a rimbombarmi in testa.
Mi muovo come un automa e mi accorgo che siamo in casa solo quando Ben mi fa sedere con dolcezza sul letto.
Si inginocchia davanti a me e posa le mani sul materasso, circondandomi i fianchi.
«Gin» dice «Guardami»
 
Forse dovrei.
È che, davvero, al momento è più semplice fissare il pavimento.
 
Lui accosta il viso al mio, le labbra alla mia fronte.
«Ti prego» mormora.
Io resto zitta.
Dopo un po’ sospira e dice:
«Ascolta, ho detto una cosa imperdonabile, ma ti giuro che non dicevo sul serio. Mi è uscita. Perdonami. Ti va se usciamo, beviamo qualcosa e ne parliamo?»
Dopo un attimo, scuoto il capo.
«Vai via» gli dico «Voglio stare sola»
«No, Gin, ti prego… non punirmi, dai»
Mi copro gli occhi con la mano.
Sono stanchissima, all’improvviso.
«Vai» ripeto.
«Ma tu cosa fai?»
Sembra allarmato.
Io scuoto il capo.
«Dormo. Ho sonno. Per favore, lasciami in pace»
Lui non si decide.
«Ascolta, mi giuri che ti metti a letto? Che non te ne vai?»
 
Rinuncio a chiedergli se invece non ne sarebbe contento.
Un problema in meno.
 
Non rispondo e crollo all’indietro, sulle coperte.
Mi copro gli occhi con un braccio.
Ben esita, poi si alza e va in bagno.
Quando esce lo sento trafficare con i cassetti, poi sento il materasso abbassarsi quando si siede accanto a me.
Sento le sue labbra sul viso.
«Torno presto, piccola. Ti porto qualcosa? Vuoi mangiare?»
Continuo a non rispondere.
Fingo di perdermi in questo stato di ottundimento.
Non è neppure così male.
Mi evita di pensare, se non altro.
 
«Gin, ti amo» mi dice, in un ultimo tentativo di richiamare la mia attenzione.
Io non rispondo.
Lui mi solleva le gambe sul letto e mi appoggia la testa sul cuscino.
Poi posa le labbra sulla mia guancia.
«Dormi, amore mio. Domani parliamo… è tutto a posto, te lo giuro»
 
Mi volto sul fianco.
Mi addormento fissando il muro, apaticamente.
 
 
La mattina dopo mi sveglio e Ben non è nel letto.
Non mi arrabbio neppure.
Guardo l’ora.
Ho dormito dodici ore.
Mi sembra che i pensieri riprendano a scorrere dal momento esatto in cui si sono fermati ieri.
Ben. Ben. Ben.
 
Non provo rabbia.
Credo non sia neppure delusione.
Ma mi sento spossata.
Come se avessi lottato inutilmente.
Ho dormito vestita: mi spoglio e faccio una doccia, quindi infilo un vestito ed esco.
 
Mi godo il sole caldo sulla pelle e cammino senza meta per le strade.
È presto, la città dorme ancora.
Entro in un bar e chiedo un succo.
Mentre aspetto mi guardo attorno e poso gli occhi sulla grande televisione a parete.
Stanno trasmettendo uno di quei Tg per celebrità così in voga.
E il servizio di grande richiamo riguarda la nuova coppia di Hollywood: Ben Barnes e Amanda Seyfried.
 
Non capisco le parole.
Fisso solo lo schermo, in cui campeggia un fermoimmagine di Ben e Amanda che si baciano.

***
Buongiorno!
La situazione tra Gin e Ben si va complicando ogni minuto che passa, come potete vedere...
Fatemi sapere cosa ne pensate, io intanto vado a prendermi una brioche! :)
Per qualsiasi necessità mi trovate qui:
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Buona lettura,
Joy
 

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Capitolo 19
*** Non te ne sei nemmeno accorto ***


Non so quanto tempo sia passato quando vedo comparire Ben.
 
Sono ancora nel bar e rigiro tra le mani una tazza di caffè freddo che non ho toccato.
Lo vedo passare quasi di corsa davanti alla vetrina e gettare un’occhiata veloce dentro.
Quando mi vede si ferma di colpo.
Ci fissiamo, immobili.
Lui sembra sconvolto.
Prende fiato e poi si avvicina alla porta ed entra.
Si siede al mio tavolo.
Io ho abbassato gli occhi e tamburello con le dita sul piano di formica.
La sua mano copre la mia.
«Gin…» inizia.
«Non mi toccare» lo gelo, tirando via la mano.
Lui le tende entrambe sul tavolo.
«Ti prego, non respingermi. Lasciami spiegare…»
«Spiegare» ripeto in tono piatto «Spiegare. Cosa c’è da spiegare, Ben?»
«Ascolta, non c’è assolutamente niente tra me e Amanda e…»
Alzo gli occhi e lui ammutolisce nel vedere la mia espressione.
«Ah, niente? Benissimo. Allora significa che baci qualsiasi donna ti capiti a tiro, anche se non te ne importa niente?»
Sospira.
«Lo sai che non è così! Non ho fatto niente, non l’ho baciata! Io…»
Alzo le spalle.
I miei occhi cercano lo schermo del televisore, che ha ritrasmesso lo stesso servizio innumerevoli volte.
 
Ogni volta fa più male.
 
Neanche a farlo apposta, stanno ritrasmettendo quel servizio.
Non dico nulla, non ce n’è bisogno.
Quell’immagine vale più di mille parole.
Ben si passa una mano tra i capelli, frustrato.
«Ascoltami: non è come sembra! È solo uno stupido fotogramma… è stata Amanda, mi si è avvinghiata addosso, ma credo non volesse…»
«Ah, credi non volesse?» ringhio io «Ma davvero? E allora queste settimane, le telefonate, i messaggini, i provini, le cene… Anche in quel caso “non volevate”?»
Lui sussulta.
«Gin, ma io… Amanda è solo una collega…»
Lo guardo negli occhi, in silenzio.
Lui si agita sulla sedia.
«Davvero? Solo una collega?»
Annuisce.
«E perché viene sempre ai tuoi casting?»
«Per lavoro…»
«E perché uscite a cena e andate alle feste insieme?»
«Ma… è sempre per quello, per lavoro…»
«E perché non me lo hai detto, che ti eri innamorato di lei?»
Vedo un lampo passare nei suoi occhi: chiaramente non se lo aspettava.
«No, io…»
«Non dirmi bugie» lo interrompo «Non essere così vigliacco da dirmi altre bugie. Non è che tu possa peggiorare la situazione, ormai»
Lui esita, poi mi tende la mano.
«Usciamo, va bene? Facciamo due passi»
 
Sto per rifiutare, quando mi accorgo che ci fissano tutti.
Una parte di me quasi ne è contenta.
So quanto Ben detesti le malelingue e i pettegolezzi, quindi l’idea di umiliarlo mi solletica la mente.
Alla fine, però, cedo e raccolgo quei piccoli pezzetti di me che sono rimasti.
Mi alzo e prendo la borsa per andare a pagare.
Ben fa il consueto gesto di prendere il portafoglio, ma io ringhio:
«Non osare!»
Resta senza parole, mentre tendo i soldi alla cassiera.
Lei mi guarda e, inaspettatamente, mi fa un sorriso e una carezza sulla mano.
Cerco di ricambiare il sorriso e mi dirigo alla porta.
Ben me la apre, ma lo ignoro.
Vado a destra, a caso, e cammino.
Lui mi si precipita accanto.
«Ascolta, lo so, sei arrabbiata. Hai ragione, è colpa mia, però ti prego fammi spiegare. Andiamo a casa e…»
Mi fermo di botto.
«Ben» rispondo «Ma tu sei davvero così idiota da pensare che tornerei con te a casa tua? O da qualsiasi altra parte?»
Ben sbianca.
«Cosa vuoi dire?»
«Mi sembra ovvio, francamente, ma in caso tu ti sia definitivamente instupidito sarò più chiara»
Lo guardo dritto negli occhi.
«Non voglio vederti mai più» scandisco.
Lui deglutisce.
«Gin, ti prego no, non farmi questo. Ti prego…»
«Non farmi questo?» ripeto, incredula «E quello che TU hai fatto a ME?»
«Te lo giuro, non c’è niente tra me e Amanda!»
Vorrei essere capace di ridergli in faccia ma, al momento, devo concentrarmi sul non vomitare.
Scrollo il capo e riprendo a camminare.
«Gin, ascolta, ascolta! Va bene, è vero… Quando l’ho conosciuta, tra noi due… C’era di più, per me» dice.
E sembra costargli uno sforzo immenso.
«Però è finita. È finita molto prima che conoscessi te!»
«Sì, ho visto come è finita!»
«Gin, ieri mi si è lanciata addosso all’uscita di una festa. Io stavo parlando con Tom, non me ne sono nemmeno accorto. Ho sentito qualcuno urtarmi e avvinghiarsi, ma non avevo nemmeno visto che era lei! Credevo fosse inciampata scappando via dai paparazzi! E prima che me ne accorgessi mi ha baciato… Ma te lo giuro, te lo giuro, mi sono staccato subito! Davvero!»
Mi prende per il braccio e mi fa voltare.
«Gin, lo so che quella foto che hai visto sembra chissà cosa, ma ti giuro che non è stato un bacio! Davvero! I paparazzi sono famosi per immortalare scene equivoche e venderle ai giornali! Io non sto con Amanda, sto con te!»
«Stai con lei molto più che con me» ribatto «Lei ha il tuo tempo, la tua attenzione. Io no»
«Non è vero!» si corregge subito, notando la mia espressione «Senti, lo so che sto lavorando tanto ma ti giuro che non c’entra Amanda! Non ho fatto niente per vederla di più! Non la cerco e non…»
«E non la respingi nemmeno»
«Ma è una collega!»
«Una collega» ripeto «Una collega con cui ultimamente ti piace molto stare, a quanto ho visto»
Lui deglutisce.
«Erano solo cene di lavoro» mormora.
«Ah sì? Per questo non volevi che venissi? Perché parlavate di lavoro?»
«Sì! Lo so che ora sembra folle, ma non volevo che ti annoiassi!»
«Ben, io mi annoio sempre!» gli urlo contro «Tu non fai altro che andartene in giro e che io ci sia o non sembra fare differenza, per te!»
«Senti, lo so che qui l’ambiente è difficile, ma io…»
«No» lo zittisco «Non provare nemmeno a riproporre l’ennesima conversazione in cui mi blandisci dicendo che questo posto è pieno di squali. Non so come ho fatto a non capirlo prima, ma non è Los Angeles. Sei tu! Sei tu che hai cambiato atteggiamento e priorità e questa persona che sei io non la riconosco»
«Gin, non è vero! È come sempre, tra noi»
«Ah sì? Quindi secondo te noi siamo questi due, che litigano sempre, che sono scontenti, che fanno fatica a parlarsi apertamente?»
Sembra smarrito, alle mie parole.
Sospiro e chiudo gli occhi.
«Non te ne sei nemmeno accorto. Per te va bene così»
«No, io… Ascolta, cosa vuole dire? Ma certo che siamo noi! È solo che tra lavoro e stress è un po’ più complicato di prima, ma…»
«Un po’ più complicato di prima» ripeto, incredula «E immagino tu stia per dirmi che è solo una fase»
Non lo dice per via del mio tono caustico, ma chiaramente lo aveva sulla punta della lingua.
 
Mi copro gli occhi con una mano.
«Certo, come no»
«Gin, ascolta, lo so che sei arrabbiata, ma ti prego, pensaci su e vedrai che il tuo malumore dipende da… bè, da questo casino» conclude precipitosamente.
 
Il mio malumore?
 
«Non vorrai anche farmi passare per quella paranoica, spero!» ringhio «Oppure, aspetta… Fammi indovinare: sono i tuoi amichetti che ti hanno convinto che io non sono capace di gestire questo ambiente e sto uscendo di testa?»
«No» nega, precipitosamente.
Ma glielo leggo negli occhi.
E lo stesso fatto che cerchi di tranquillizzarmi come se quello che è successo non sia un fatto di una gravità inaudita non è la prova che, tutto sommato, lo pensa anche lui?
«Non è che magari sei tu, invece, ad essere cambiato? Non è che sei tu ad essere egoista, viziato e superficiale?»
Lui sussulta e vedo che esita prima di replicare.
«D’accordo, lo so, hai ragione. Scusa…»
 
E qui vado veramente fuori di testa.
Gli tiro uno schiaffo e lui incassa in silenzio.
«Non osare darmi ragione come se fossi una pazza!» urlo «Pensi di cavartela solo dicendomi “sì, hai ragione”?»
«Tesoro, no, non lo penso» cerca di prendermi la mano «Ma so che sei poco lucida, al momento, e che hai ragione ad essere arrabbiata e a farmi una scenata. Vorrei solo che potessimo parlarne con calma»
«No» ribatto, furiosa «Non c’è niente da dire perché io con te non vengo da nessuna parte! Né ora né mai più!»
Ben sgrana gli occhi.
«Cioè… Mi stai dicendo che vuoi lasciarmi?»
«Non è questione di chi lascia chi, Ben. Sei tu che hai distrutto tutto»
Lui mi afferra un braccio.
«Gin, ma siamo noi due! Noi due possiamo superare tutto!»
Scuoto il capo.
«Ben, io avrei fatto qualunque cosa per te… Ma come fai a chiedermi una cosa del genere?»
«Gin, davvero, quel bacio non significa niente!»
«La correttezza e l’orgoglio per me significano qualcosa, Ben! Non si tratta nemmeno di perdonarti: ti amo talmente tanto che forse potrei anche farlo, ma… La fiducia? Il rispetto?»
«Ma io ti rispetto, Gin!»
«No, tu non sai quello che dici! Questo lo chiami rispetto?»
Lui si passa una mano tra i capelli, nervosamente.
«Senti, così non risolviamo niente… andiamo a casa, calmiamoci e…»
«No»
«Gin, ti prego…»
«No»
 
Apre la bocca per discutere ancora, ma gli suona il cellulare.
E sullo schermo vedo lampeggiare il nome di Amanda.
Serro le labbra e lui si affretta a rifiutare la chiamata.
Non fa in tempo a metterlo in tasca che suona di nuovo.
È ancora lei.
Lui rifiuta ancora, lei richiama.
 
E io faccio una cosa di cui non vado fiera, ma la testa mi sta esplodendo e le mani mi tremano al pensiero di Amanda che bacia Ben al punto che sarei capace di strozzarla se la avessi davanti.
Comunque.
Strappo il cellulare di mano a Ben e lo lancio in mezzo alla strada, dove si fracassa.
Lui resta per un attimo immobile e poi urla:
«Gin, cazzo! Ho tutti i miei contatti lì dentro!»
 
Lo sapevo.
Stiamo parlando di noi, di lasciarci.
Io lo sto lasciando e tutto quello a cui lui pensa è il cellulare.
 
Mi volto e mi incammino.
E Ben non mi segue nemmeno.
 


***
Eccomi in anticipo, cari lettori!!
Martedì ho una conferenza stampa e non vorrei che saltasse l'aggiornamento, quindi oggi ho pubblicato eccezionalmente sia Gin&Ben che Le Cronache (fandom Narnia).
Dalla settimana prossima tutto torna regolare!
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Buona lettura e buon inizio settimana,
Joy

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Capitolo 20
*** Posso fidarmi? ***


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La mattina del nuovo giorno vede apparire una me a dir poco esausta.
 
Non ho dormito, non ho mangiato e non sono dell’umore per tollerare uno sciopero degli aerei.
Sapevo che lo spirito di Fantozzi non poteva abbandonarmi in una giornata del genere.
 
Mi allontano dal desk delle informazioni dell’aeroporto LAX di Los Angeles, furente.
Questo posto rigurgita di gente che corre avanti e indietro.
La confusione non fa che acuire il senso di pesantezza che mi porto addosso.
Mi metto in coda per un caffè e fisso il pavimento.
Che faccio ora?
Piantono l’aeroporto in attesa che si sblocchi qualcosa?
Cerco un B&B?
Vorrei dormire perché mi sento esausta ma ho paura di lasciare i miei pensieri a briglia sciolta.
Meglio rimanere concentrati su questioni più elementari… Tipo mettere un passo dietro l’altro.
 
Mi sento spintonare bruscamente: tocca a me.
Ordino a mezza voce un espresso doppio (come se qui sapessero davvero cos’è un espresso) e rovisto nella borsa alla ricerca del portafogli.
All’improvviso sento una mano posarsi sul mio braccio.
Alzo gli occhi e sussulto.
 
È Amanda.
 
È vestita con dei jeans strappati, un maglione informe e porta un cappellino da baseball e degli occhiali scuri.
Per qualche inspiegabile motivo, mi sorride.
Mi sorride come se fosse felice di vedermi, la stronza.
Ignora la mia espressione omicida e chiede due muffin.
«Uno anche per te, Ginny» dice «Hai l’aria un po’ stanca… tutto bene?»
 
Tutto bene?
Ma come osa chiedermi una cosa del genere?!
 
Certa che sarei capace di prenderla a calci davanti a tutti, mi volto e me ne vado senza degnarla di una parola.
Lei mi rincorre.
«Ginny! Cosa succede?»
Per sua sfortuna io sono più alta e ho le gambe più lunghe, quindi per reggere il mio passo deve quasi correre.
Mi infilo in un bagno e vado a lavarmi le mani, fingendo di non sentirla.
Quando mi si affianca sembra ancora perplessa.
«Non sarai arrabbiata per quella storia di Ben?» chiede, angelica «Voglio dire… lo sanno tutti che i paparazzi esagerano!»
Io mi sciolgo la coda e mi intreccio nuovamente i capelli, con precisione.
Osservo le mie occhiaie nello specchio e penso che nemmeno il trucco migliore riuscirebbe a coprirle.
«Fammi capire» ribatto, lentamente «I paparazzi ti hanno spinta addosso a Ben? Ti hanno chiesto di baciarlo?»
Lei tergiversa.
«No, ma… insomma…» fa una risatina scema «Quello poi non era nemmeno un bacio vero…»
Mi volto a guardarla e la mia espressione le spegne il sorriso.
Fa persino un passo indietro, ma io la afferro per la maglietta.
«Ah, no?» ribatto «Bene, mi fa molto piacere sapere che una cosa che a me ha distrutto la fiducia nel mio fidanzato a te sembri divertente, ma sai una cosa? A me non fa ridere per niente»
Lei tenta di divincolarsi.
«Ma… Non esageriamo… Insomma!»
Stringo più forte la sua maglietta.
«Del resto, non vedo cosa potevo aspettarmi da una che va in giro a dichiarare che quando canta pensa al sesso orale e cambia fidanzati come le mutande»
 
Lei sbianca.
 
Sì, mi sono documentata.
Sempre, sempre conoscere il proprio nemico.
È una regola che ho letto da qualche parte.
 
«Scherzavo. Sono cose che dico alla stampa per ridere…»
«Scommetto che fanno ridere te e tutte le galline che ti somigliano. E basta»
Forse in inglese “gallina” non rende l’idea come in italiano, ma direi che il messaggio le è arrivato forte e chiaro.
«Bè, non c’è da comportarsi così. Io ho solo…»
«Tu hai solo, cosa? Chiamato incessantemente il mio ragazzo? Tentato di incontrarlo in ogni occasione? Fatto la gattamorta? Sì, certo. Oltre a quel bacio, naturalmente. Bè, sai che ti dico? Se Ben è così stupido da trovarti attraente, allora io non lo voglio. Perché sarebbe veramente un idiota a non vedere la squallida persona che sei e questo lo rende troppo stupido perché possa piacere a me. E detto questo sparisci dalla mia vista prima che ti prenda a schiaffi qui, davanti a tutti»
 
Amanda apre la bocca ma non dice nulla.
Si volta e se ne va.
Bene. Per quanto sia inutile, almeno una cosa l’ho chiarita.
Esco dal bagno e torno nella zona delle partenze.
 
*
 
Mi sento la testa pesante.
 
Mi si chiudono gli occhi e lotto per tenere la testa sollevata, mentre davanti ai miei occhi continuo a vedere l’espressione triste di Ben e attorno a me si susseguono imprecazioni e discorsi di passeggeri stanchi.
Mi strofino gli occhi pesti e cambio posizione delle gambe, incrociate sopra il borsone che mi sono portata dietro.
Dovrò anche recuperare la mia roba… O no?
Ben può anche buttarla, tanto ormai…
 
 
«Ehi» una mano gentile mi scuote delicatamente.
Sobbalzo.
Ma dormivo in piedi?
Mi volto, confusa, e vedo Ben accovacciato accanto a me.
Anche lui ha l’aria stravolta e sembra insieme preoccupato e intenerito.
«Tesoro, vieni qui»
Si sporge per prendermi tra le braccia e io resto inerte.
Lo sto sognando?
Ma sembra di no: sono le sue braccia, è il suo odore.
Lui mi accarezza la schiena dolcemente.
«Ti pare che puoi dormire seduta per terra in un aeroporto?» mi rimprovera a bassa voce «Sciocca testona»
Io cerco di raddrizzarmi ma lui mi stringe di più.
Mi mormora parole dolci accarezzandomi i capelli.
E, finalmente, io mi sciolgo in lacrime.
 
 
Quando, alla fine, Ben riesce a convincermi a salire su un taxi sto ancora singhiozzando.
Se mi erano rimaste forze, ora le ho ufficialmente finite.
Ho pianto e pianto ma questo dolore che sento non sembra placarsi.
Ben è rimasto in silenzio.
Si è limitato ad abbracciarmi e poi, dopo quelle che mi sono sembrate ore, a raccogliere il mio borsone e a trascinarmi fuori.
Io ho scosso la testa e puntato i piedi, ma lui è stato inamovibile e io sono così stanca, così stanca…
«Gin, non puoi stare qui! Cosa pensi di fare? Di dormire in aeroporto? Il minimo è che ti derubino: non riesci nemmeno a tenere gli occhi aperti!»
E, alla fine, ho smesso semplicemente di oppormi.
Gin-l’automa si è fatta trascinare per mano – nemmeno fossi una bambina piccola – mettere su un taxi e lì finisce la fase cosciente.
Devo essere crollata.
 
Mi sveglio quando Ben mi scuote delicatamente e mi aiuta a scendere, perché incespico da sola nei miei piedi.
Lui mi circonda la vita con il braccio, mentre con l’altra mano regge il mio borsone, e mi accompagna in casa.
Dentro, Tom sta leggendo qualcosa e lo vedo lanciarmi un’occhiata indagatrice.
Mi volto dall’altra parte.
«Tom, ci lasci soli per favore?» chiede Ben.
L’altro si alza e scompare alla velocità della luce.
Ben mi accompagna in camera e chiude la porta.
Io resto immobile e lui mi sospinge dolcemente sul letto.
Si siede accanto a me e io mi stringo nelle spalle perché temo che voglia parlare e proprio non ce la farei a sentire altre parole.
Altre scuse.
Altre bugie.
Ma lui si limita a sciogliermi la treccia e a passarmi una mano tra i capelli.
Poi mi aiuta a sfilarmi il giacchino, mi toglie le scarpe e mi fa sdraiare.
Si siede sul bordo del letto e mi posa una mano sulla guancia.
Io lo guardo e penso di avere l’aria di un animale ferito, perché lo vedo rabbuiarsi.
«Dormi» mi dice «Io sono qui»
 
Due secondi dopo sono già crollata.
 
*
 
La prima cosa che faccio quando mi sveglio è fare una doccia.
 
Quando torno in camera ci trovo Ben, con in mano un vassoio.
Mi sorride timidamente e posa il vassoio sul letto.
Io mi siedo su una sedia, frizionandomi i capelli con l’asciugamano.
Ben mi porge una tazza di thè, ma io scuoto il capo.
«Dovresti mangiare…» inizia lui.
«Tu non sei mia madre» lo fermo io «Non approfittarti del fatto che ieri ero troppo stanca per litigare»
Lui sospira e si passa una mano tra i capelli.
«Non voglio farlo. Ero così preoccupato… Non rispondevi al telefono, ma ero sicuro che, testarda come sei, ti avrei trovata in aeroporto»
«Ora mi vesto e ci torno» ribatto, secca.
«Inutile, ho controllato. C’è ancora sciopero»
Gli rivolgo un’occhiata truce, ma lui non si scompone.
Dopo un attimo si avvicina di un passo e io mi irrigidisco.
 
«Ho sentito che ne hai dette quattro ad Amanda» dice poi.
Io alzo il mento.
«Non vedeva l’ora di venirtelo a raccontare, eh? Ah, certo, dimenticavo… Lei ti racconta tutto!»
«No, non più… Sai, non ho più un telefono!»
Io stringo gli occhi e lui ridacchia.
«Senti, testona» mi dice «Amanda è venuta qui, ieri, e io non l’ho neppure fatta entrare in casa. Mi ha detto che l’hai minacciata e io le ho risposto che non ha ancora sentito le mie, di minacce, se per colpa sua ti perdo»
Scuoto il capo.
Non so se mi fido.
Lui sembra intuirlo.
«Puoi chiedere a Tom e ti dirà che…»
«Secondo te io mi fido di Tom?» lo interrompo.
Lui sospira.
«Giusto» ribatte mestamente.
Restiamo in silenzio per un attimo, quindi chiede:
«E di me ti fidi?»
«Posso fidarmi?» rispondo «Dimmelo tu»
«Sì» risponde senza esitazione.
Io resto muta.
 
Lui si avvicina di un paio di passi e, prima che io possa fermarlo, si mette in ginocchio e tira fuori una scatolina dalla tasca.
 
«Gin» dice, mentre un diamante purissimo cattura e riflette le luci della stanza «Di nuovo… Mi vuoi sposare?»



***
Buongiorno!
La vostra stordita autrice non solo si stava dimenticando di aggiornare con il nuovo capitolo, no: non paga, ha anche preparato tutto e poi erroneamente cancellato quanto da pubblicare!
E siamo solo a martedì!!
Ricominciamo: ecco a voi Gin e Ben!
Come potete vedere, la mia fantastica gemella Susan non solo mi ricorda (come la migliore delle coscienze!) quanto mi perdo per strada, ma ha anche realizzato questo fantastico banner!!! Grazie, grazie gemella!! <3
Ora che abbiamo dato un volto a Gin, tocca a voi dirmi cosa ne pensate!
E, per informazioni, foto e sveglie all'autrice, ecco dove trovarmi: 
https://www.facebook.com/Joy10Efp?ref_type=bookmark
Buona lettura,
Joy

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Capitolo 21
*** Non lo so ***


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«Non lo so»
 
Non trovo parole che esprimano meglio il casino che ho in testa.
Lui sembra afflosciarsi.
«Gin, ti giuro che io e Amanda…»
«Stai zitto!» ringhio «Non parlarmi di Amanda mentre sei lì a parlare di matrimonio!»
 
Mi alzo e getto a terra l’asciugamano.
Cammino, nervosa, mentre Ben resta inginocchiato a terra.
È quasi surreale.
Me lo ha chiesto davvero, eppure…
 
«Perché?» chiedo.
«Cosa?»
«Me lo avevi già chiesto. Cosa significa questa scena?»
«Bè, mi sembrava che dovessimo ribadire cosa desideriamo e…»
«E tu desideri questo?»
«Certo!» sembra scandalizzato «Perché, tu no?»
«Non lo so» ribatto «Cioè, ovvio che voglio, non ne ho mai dubitato. Ma non sono più certa che sia la cosa giusta»
«Ma certo che è giusto! Non puoi dirmi che nel giro di due giorni hai cambiato idea sul voler passare la vita con me!»
«Infatti. Ma, nel corso di questi mesi, ho iniziato a chiedermi se tu vuoi davvero passare la tua vita con me»
«Ma se ti sto dicendo…»
«Me lo dici perché lo vuoi, perché hai paura o perché al momento è la cosa più comoda da fare?»
 
Ben si alza in piedi.
«Senti, ho sbagliato e lo so, ma seriamente pensi una cosa del genere?»
«No. La temo, il che è peggio»
«Tesoro, ci serve solo tempo…»
«A me servono solo certezze» lo gelo.
«Più di così?» chiede timidamente, avvicinando l’anello a me.
«È solo un anello» dico, spenta.
«Cosa? Ma non avevi detto che era il simbolo di un impegno?»
«Sì. E tu non avevi risposto che per te era un simbolo senza valore?»
Ben ammutolisce.
 
Lo so, non glielo sto rendendo facile, ma devo dirlo:
«Pensi di scaricarti la coscienza così facilmente?»
 
*
 
E così abbiamo litigato.
 
Per ore.
Abbiamo gridato e pianto.
E il problema è che non abbiamo risolto la questione.
Lui dice che vuole stare con me.
Io so che voglio stare con lui.
Allora perché le cose non vanno più a posto?
 
*
 
Ben è chiaramente spaventato nel riprendere la sua solita vita.
 
Non vuole lasciarmi sola, ma io in questo ambiente proprio non mi incastro.
Non c’è niente da fare.
E, vista la situazione attuale, la poca voglia che avevo di cercare di sembrare contenta di essere qui si è definitivamente esaurita.
Ieri sera, ad esempio, siamo usciti e io non ho detto una parola.
Sono rimasta seduta da sola, in silenzio, con l’unica compagnia del mio bicchiere.
Ben faceva la spola tra me e il resto dei suoi amici, prendendo chiaramente nota del fatto che né a me né a loro frega niente di comunicare.
Prima cercavo di rendergli più facile la situazione, sedendomi con loro e cercando di parlare e di non far vedere quanto mi pesava.
Ma adesso… a che pro?
Perché?
Se nella mia vita cade tutto a pezzi seriamente devi preoccuparmi che Ben stia tranquillo e sereno?
Non dovrebbe essere lui a preoccuparsi che stia bene io?
Così, l’ultima maschera di urbanismo è caduta ed è quanto mai chiaro che io non farò più il minimo tentativo di nascondere che la gente che lui frequenta per me vale meno di zero.
 
Ben cerca di passare più tempo con me, devo ammetterlo.
Ma sembra incastrato.
Lo osservo, per giorni.
Si nega le feste, ma è chiaro che gli pesa.
Parla con gli amici e lo vedo pendere dalle loro labbra per i dettagli sui casting, sui lavori, sui contratti.
Sulle feste e sulle modelle e sugli attori.
Andiamo via un weekend, da soli, ma qualcosa si è rotto tra noi.
Non litighiamo, apparentemente è tutto perfetto – l’hotel di lusso, le cene romantiche – ma… questi non siamo noi.
Io non dormo più bene.
Anche Ben è chiaramente a disagio.
Si chiude in se stesso, gli vanno male due casting.
Ne ha un terzo dieci giorni dopo il nostro rientro a Los Angeles, ma non si presenta nemmeno.
Passa una giornata intera in camera, chiuso in un silenzio che mi spaventa e con la testa fra le mani.
E, se una parte di me si spaventa ancora a vederlo così, un’altra si innervosisce e basta.
Ma insomma, cosa sarà mai?
Non è morto nessuno!
Deve imparare a dare il giusto peso alle cose!
 
Eppure, visto che sembra ricaduto in un’apatia preoccupante, lo spingo ad uscire.
Lui sembra spaventato, dice di no più volte.
Ma perché sono così stanca?
«Ben» gli dico, atona «Esci con i tuoi amici, per favore. Cosa stai cercando di dimostrarmi? Che vuoi diventare un monaco tibetano?»
Lui mi guarda confuso.
«Voglio stare qui con te»
«No» rispondo «Tu vuoi uscire e vuoi divertirti. Lo so, te lo vedo negli occhi ogni volta che guardi Tom uscire di casa. Vai. Io non voglio certo metterti il guinzaglio!»
«Vieni anche tu» dice, speranzoso.
Scuoto il capo.
«Dai, Gin, ti prego! Usciamo a divertirci!»
Mi mordo un labbro prima di dirgli che io non mi diverto affatto, ma lo capisce comunque.
Sembra indeciso, ma io lo spingo ad andare.
«Vai. Sono stanca, voglio andare a letto presto»
Tentenna e io so perché.
Ha paura che glielo rinfacci.
Mi sforzo di non iniziare un’altra litigata e gli chiedo di ordinarmi una pizza.
 
*
 
Quando alla fine esce io inizio a guardare un dvd, ma mi stanco subito.
 
Mi metto a letto con un libro e, ad un certo punto, mi addormento senza accorgermene.
Mi sveglio quando sento delle mani insistenti corrermi addosso e far cadere il libro che ho appoggiato scompostamente sulla pancia.
Sbatto le palpebre e, nel chiarore della luna che filtra dalle tende semiaperte, vedo Ben sfilarsi la camicia e stendersi accanto a me.
Mi volto sul fianco, pigramente.
Lui si avventa sulle mie labbra, il suo fiato odora di alcool.
La barba mi punge il viso, mentre le sue mani mi imprigionano.
Quando ci separiamo con il fiato corto, non posso fare a meno di chiedergli:
«Ehi… quanto hai bevuto?»
Lui non risponde mentre, con mani impazienti, strattona le mie culotte di pizzo.
«Gin… perché non mi vuoi più?» biascica, con voce rotta.
«Non è vero, Ben» mormoro «Come potrei non volerti?»
Lui china il viso sulla mia pelle, voracemente.
Non risponde, ma le sue labbra sembrano volermi mangiare.
Mi morde la spalla e io mi muovo, infastidita.
«Piano…» mormoro, passandogli una mano tra i capelli.
«Tu non vuoi più…» dice, con voce rotta.
«Ben, certo che ti voglio… Fai solo piano, ok?»
Ma niente, non mi ascolta.
Non sono nemmeno sicura che parli con me; forse ce l’ha con se stesso.
Però è strano, sembra andare per conto suo.
Non si è mai comportato così.
Gli accarezzo la schiena e le spalle, sperando che si calmi, ma lui mi si struscia addosso e all’improvviso allunga velocemente una mano sulla mia biancheria.
Gli prendo la mano e intreccio le dita alle sue, poi cerco le sue labbra, ma lui mi allontana.
Mi irrigidisco all’istante.
«Ben, cosa succede?» chiedo, senza preoccuparmi di bisbigliare per salvare l’atmosfera.
Ma lui sembra sempre perso nel suo mondo alcolico e borbotta qualcosa di poco chiaro mentre cerca di sfilarmi la canotta.
Gli prendo il polso.
«Fermo! Cosa stai combinando? Io sono qui, mi vedi?»
Chiaramente non gliene importa, visto che mi tiene ferma con le gambe e si divincola per liberare il braccio.
Lo spingo.
«Spostati! Subito!»
«No…» si oppone, debolmente.
Io riesco a sedermi.
Accendo la luce e lui si ripara gli occhi, come se gli desse troppo fastidio.
Sono furiosa, ma è talmente sbronzo che una scenata nemmeno se la ricorderebbe.
Lo guardo per un po’, in silenzio, cercando di decidere se urlargli addosso o tirargli invece un secchio d’acqua.
Ben sembra disorientato.
Mi guarda strizzando le palpebre e poi allunga una mano per accarezzarmi una gamba.
Lo respingo e mi alzo, prendendo il cuscino.
 
Vado in sala e mi butto sul divano.
 
*
 
Mi sveglio – non so bene a che ora – quando Tom fa irruzione in casa, con due stangone al fianco.
Più addormentata che spaventata, registro la sua occhiata compassionevole quando mi vede dormire sul divano.
Le ragazze sembrano senza parole e lui si affretta a dirottarle in camera.
Cerco di addormentarmi di nuovo, ma un po’ per il caldo che inizia a farsi sentire e un po’ per i pensieri che si risvegliano non ce la faccio.
Mi alzo, raccolgo i capelli in un nodo disordinato in cima al capo ed esco.
Cammino sotto il sole già caldo e mi chiedo, per la milionesima volta, cosa devo fare.
 
Quando torno, accaldata e affamata, trovo Ben in preda alla consueta nevrosi da casting.
Ha un copione in mano e due occhiaie spaventose.
Appena apro la porta mi lancia un’occhiata colpevole e il suo viso sembra farsi ancora più pallido.
«Gin…» inizia.
Io prendo della biancheria pulita.
«Hai finito in bagno?» chiedo.
Annuisce e io mi dirigo verso la doccia.
Dopo un attimo mi raggiunge.
Faccio finta di non vederlo mentre mi spoglio.
«Ecco, io…» dice «Ieri sera…»
Non dice altro e resta lì, torcendosi le mani, mentre io faccio scorrere l’acqua.
 
Non voglio aiutarlo.
Non che, in ogni caso, saprei cosa dire.
O almeno, cosa dire senza prenderlo a calci.
 
E mi dà anche fastidio il fatto che resti lì, imbambolato, senza riuscire ad articolare qualche parola.
Esco e mi porge l’accappatoio.
Io mi lavo il viso e i denti e lui è ancora sempre lì, muto.
Poi Tom gli urla qualcosa dall’ingresso e allora guarda l’orologio e impreca.
«Devo andare» mi dice.
Incontro i suoi occhi nello specchio e faccio un cenno con il capo.
Lui si avvicina e mi bacia una spalla.
«Scusami per ieri notte» mormora prima di uscire.
 
Io resto a fissare la porta che si è chiusa nel riflesso dello specchio.
 
 
 
 ***
Buongiorno!
Una nota veloce: se seguite la mia pagina Facebook (che è questa:
https://www.facebook.com/Joy10Efp?ref_type=bookmark ) saprete che ho aperto un blog, dove ripubblico le mie storie Efp.
E, ovviamente, non potevo non iniziare dalla prima, One love! Se volete darci un'occhiata, ecco il link: 
http://dreamerjoy.blogspot.it/
Per il bellissimo banner grazie alla mia gemella Susan!
E per ogni cosa sapete dove trovarmi :)
Buona lettura,
Joy
 
 
 

 
 

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Capitolo 22
*** Il coraggio di crescere ***


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Per te, nonna. 
Quanto mi manchi, sempre!




Alla fine, la decisione che devo prendere è semplice.
 
Non la pensavo così fino a due ore fa.
Poi ho ricevuto una chiamata di mia madre che, in lacrime, mi ha annunciato che la nonna sta molto male.
 
Mi è crollato il mondo addosso.
 
Mi sono sentita come qualcuno che, fino a questo momento, si è affannato a inseguire qualcosa di irreale ed effimero.
Mentre le immagini di tutta una vita mi si riversano addosso, vedo mia nonna ridere, cucinare, raccontarmi delle storie.
Mi ricordo di quando mi consolava se mi facevo male e mi applaudiva quando ero brava a scuola.
Di come si inorgogliva per i miei successi.
E io cosa ho fatto?
Sono sparita, concentrandomi su me stessa.
Come se il resto della mia vita non avesse valore.
Come se io - che sono la mia famiglia, le mie emozioni e i miei ricordi - non valessi più niente.
Come se ci fosse solo Ben e Ben, splendendo, avesse reso Gin solo una sua pallida ombra.
 
E realizzo, per la prima volta davvero, quanto sono lontana anche fisicamente dalle persone che amo.
Loro sono dall’altra parte del mondo e io qui, sola e impotente.
 
Mai nella vita mi sono sentita smarrita come oggi.
 
*
 
Quando Ben torna io sto chiudendo un borsone.
 
Si ferma sulla porta e sembra che gli cadano le braccia.
«Cosa succede?»
«Mia nonna sta male. Torno a casa»
Dopo un attimo, chiede:
«Sei seria?»
 
Alzo lo sguardo dalla borsa, dove sto frugando per controllare di avere i documenti, e lo fisso.
«Certo che sono seria! Cosa vuoi dire?»
Lui fa un gesto con la mano.
«Mah… spiegami. Male quanto? E… ti sembra il caso di preparare le valigie?»
Io stringo gli occhi.
«Male molto e quindi sì, decisamente mi sembra il caso di preparare le valigie»
Ben muove un paio di passi per la stanza, poi dice:
«Senti, aspetta un attimo… Aspetta che ti diano notizie precise e poi magari…»
«Poi? Magari?» la mia voce si alza pericolosamente «E se magari arrivo troppo tardi?»
Lui non risponde subito, poi mormora:
«Senti, siamo dall’altra parte del mondo… Non puoi comportarti come ti bastasse prendere un autobus per arrivare a casa. Pensaci un attimo. Sono ore e ore di volo, se poi trovi un posto… Ore in cui non potrai ricevere telefonate né nulla. E se poi arrivi e non è niente?»
 
Non posso credere che sia serio.
 
Aspetto un attimo, giusto per assicurarmi che non stia scherzando.
Ma pare di no.
«Ben» rispondo allora «Io spero tu stia scherzando. Mi stai suggerendo di fregarmene?»
«Ti sto suggerendo di essere razionale, il che è diverso»
«Razionale? Razionale?» ripeto «La sto perdendo e io sono dall’altra parte del mondo!»
Mi si rompe la voce, ma lui sembra comunque insensibile alla cosa.
«Appunto. Comunque non faresti in tempo. Ti conviene aspettare e poi magari partire… quando saprai qualcosa di sicuro»
Io resto immobile a fissarlo.
Lui sospira.
«Gin, ascoltami. Mi spiace, davvero… Ma tanto tu cosa puoi fare? Aspetta e vedi cosa ti dice tua madre: se la situazione migliora, benissimo… Se no, almeno saprai cosa devi fare e…»
«Quello che devo fare» scandisco «È stare con la mia famiglia! Hanno bisogno di me!»
Lui scuote il capo.
«Sei tu che hai bisogno di loro…»
«Certo!» ribatto «E dovrei vergognarmene, scusa? La mia famiglia è il mio punto fermo! Ti sembra strano che io la cerchi quando succede una cosa del genere? Quando mi sento sola e spaventata?»
Ben mi guarda con qualcosa che sembra compassione.
«Gin, sei grande ormai, non puoi dirmi una cosa del genere! Tua nonna… è anziana. Ha fatto la sua vita. Queste cose succedono… E se tu reagisci così mi dimostri che non sei matura come pensavo! Vivere in America non è uno scherzo, devi tenere conto delle implicazioni. E le implicazioni sono che non puoi correre dalla mamma appena qualcosa non va come vuoi tu»
 
Mi si rompe qualcosa dentro.
 
Credevo di aver accettato il fatto che Ben mi avesse delusa.
Credevo che, forse, la rottura si potesse riparare.
Ma, a quanto pare, mi stavo solo illudendo.
Stavo rimandando l’inevitabile.
Consapevolmente, perché non volevo accettarlo.
 
Incrocio le braccia sul petto.
«Fammi capire» dico «Sarei stupida a preoccuparmi per mia nonna solo perché è anziana?»
«Non farmi dire cose che non ho detto. Solo che…è normale, ecco»
Batto le palpebre.
«Oh, certo, è l’andamento della vita… Lo so. Ma, a parte il fatto che non penso sia mai facile accettare davvero l’idea della morte delle persone più care, a me non sembra normale prenderla con questa freddezza. Se non è importante la famiglia, cosa lo è?»
Non risponde.
Forse pensa che sia una domanda retorica.
«Ben, sono seria» lo incalzo «È una domanda vera. Cosa lo è? La carriera? Il lavoro? La tua nuova vita?»
Lui si passa una mano sugli occhi.
«Non ricominciamo, dai» risponde «Non c’entra, adesso»
«Non c’entra?» ripeto, gelida «Ah no? Mi spiace contraddirti, ma è la riprova di quello che ormai sapevo già. Questo te che dà importanza solo al lavoro e alla bella vita… Tu non sei l’uomo di cui mi sono innamorata!»
«Ah, certo, adesso è colpa mia!» salta su lui.
«Ben, mi hai detto di fregarmene!» urlo io «Ti ho detto che mia nonna sta morendo!»
«E io ti ho dato un consiglio! Ma se non te ne frega niente e vuoi correre come una pazza all’altro emisfero della Terra, allora bene! Fai buon viaggio!»
Sbatte rabbiosamente l’iPhone sul letto e va in bagno.
Chiude la porta con un calcio e quel rumore mi risuona dentro.
Mi passo una mano sugli occhi.
Sono stanchissima.
Esito un attimo, ma so che devo farlo.
 
Mi avvicino alla porta del bagno e la apro, piano.
Ben, senza maglietta, è davanti al lavandino.
Alza gli occhi, ha un’espressione furiosa.
«Non voglio litigare» mi avverte «Ho una cena importante, di lavoro. E…»
Io sospiro.
Ma non posso certo dire che non me lo aspettassi.
Il lavoro. Ancora.
Come sempre.
 
«Se fosse successo a te, io sarei venuta ovunque tu avessi voluto» dico, piano «Se fosse successo a te io mi sarei preoccupata di come stai tu e non di come sto io»
Ci guardiamo, in silenzio.
«Gin» dice poi lui, a disagio «È ovvio che mi dispiace»
Scuoto il capo.
«No, non è vero. Ma va bene così»
Lui sembra non capire.
«Senti, non sono un mostro! Mi dispiace, naturalmente, ma tanto cosa puoi farci?»
«E di avermi deluso non ti dispiace?» bisbiglio io.
Lui si copre gli occhi con la mano.
«Sembra che quello che faccio, ultimamente, a te non vada mai bene»
«Io non capisco, Ben. Cos’è successo? Dove ho sbagliato?»
Mi guarda.
«Non hai sbagliato. Ma… nemmeno io»
«Allora, semplicemente, non siamo adatti? Così, all’improvviso?»
«Certo che siamo adatti» replica, automaticamente «Se tu mi ami, allora…»
«Ben, ma certo che ti amo» lo interrompo «Ti amo come non credevo nemmeno che fosse possibile amare qualcuno… e per questo non volevo vedere»
«Cosa?» bisbiglia.
«Che tu non…»
 
Non riesco nemmeno a dirlo.
Lo guardo, pallido e immobile, e mi si stringe il cuore.
Alla fine, tutto quello che serve è un po’ di coraggio, giusto?
 
Lentamente, mi sfilo il solitario dall’anulare.
Ben mi guarda appoggiarlo con delicatezza su un mobiletto.
Alzo gli occhi, ci fissiamo ancora.
Contro ogni mio più disperato desiderio, lui non dice niente.
 
Sento il cuore andare in mille pezzi mentre mi volto e me ne vado, in silenzio.
 
 

***
Buonasera!
La vostra Joy domani parte per le sospirate ferie!
Scusate se posto con qualche ora di ritardo, ma è una giornata a dir poco delirante!
Nei miei piani, le storie che sto postando - quindi questa e Le Cronache - non subiranno ritardi, ma vi invito come sempre a tenere d'occhio la mia pagina Facebook per qualsiasi comunicazione!
Eccola qui:  
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E ora c'è anche un blog: http://dreamerjoy.blogspot.it/
Buona lettura e buona estate!
Joy

Ps: dite la verità... me ne vado su liete note, eh?! ;)
 
 
 
 
 
 
 

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Capitolo 23
*** Sei mesi dopo ***


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Milano,  sei mesi dopo

 
 
 
Sto osservando la pioggia battere ritmica sul marciapiede.
Milano è così grigia quando piove.
Sembra senza vita.
Batto un paio di volte la punta dell’ombrello a terra e osservo le pozzanghere infrangersi sotto i passi frettolosi e seccati dei passanti.
 
Una mano gentile si posa sul mio braccio.
«Ciao, Gin!»
Mi volto e finisco dritta tra le braccia accoglienti di Lidia.
 
*
 
Siamo seduta al tavolo di un ristorante del centro.
Mi sento sempre a disagio quando piove: ho troppe cose gocciolanti che non so dove mettere.
Lidia, invece, è impeccabile come sempre.
Niente riesce a sgualcire la piega dei capelli o l’abito perfetto che indossa.
Mi liscio velocemente un riccio ribelle, imbarazzata.
Chissà come le sembro in disordine.
 
Quasi mi avesse letto nella mente, lei alza gli occhi dal menù e mi sorride.
«Stai benissimo, mia cara» dice.
Io sorrido in risposta.
Quando arriva il cameriere ordiniamo due insalate.
«Ma tu non odiavi l’insalata?» domanda, divertita.
Io scrollo le spalle.
«Si cambia»
I suoi occhi si fanno subito attenti.
«E sei così magra sempre in nome del cambiamento?» chiede, pacata.
Di nuovo, io scrollo le spalle.
«No, è che ci voleva»
Lei tamburella con le dita sul tavolo.
«Come stai?» chiede.
«Benissimo» rispondo, pronta.
Sembra trattenersi a fatica dal sospirare.
«E Ben?»
Alzo le spalle, cercando di ostentare un’aria indifferente.
All’improvviso, Lidia sembra tristissima.
«Colin mi ha detto di averlo incrociato a Los Angeles… Gliene ha cantate quattro per come si sta comportando ultimamente e…»
Alzo una mano per fermarla.
«Non voglio saperlo. Non voglio sapere niente»
«Ma, Gin…»
«No, Lidia, sono serissima. Se intendi parlare di… di lui… Mi alzo e me ne vado, chiaro?»
Lidia fa una faccia tristissima.
«È colpa mia» bisbiglia.
«Cosa? No!»
«Sì, invece: è colpa mia e di quel maledetto film che non è nemmeno andato in porto!»
Io scuoto il capo.
«Lidia, non puoi prenderti le colpe per le decisioni di due adulti. È andata così. E basta»
«Tutto qui?» chiede lei dopo un minuto.
Annuisco.
«Oh, Gin. Lo so che fa male. Ma come posso aiutarti se ti chiudi a riccio?»
«Nessuno può aiutarmi» rispondo, categorica «Non mi serve nulla, quindi non preoccuparti»
 
Lei scuote la testa, ma per fortuna arrivano le insalate.
Prima che possa riprendere il discorso le chiedo notizie dei figli e del marito.
Lei cerca di riportare la conversazione su Ben, ma sbatte contro un muro di gomma.
Poi cerca di farmi parlare di me ed è anche peggio.
Mi chiudo a riccio, rispondo a monosillabi.
Sono scortese, lo so bene, e mi dispiace molto perché Lidia è così gentile…
Ma proprio non ce la faccio.
 
 
Ogni istante della mia giornata è consacrato al compito di evitare di pensare a Ben.
Non ci riesco e ormai lui è il sottofondo monotematico di ogni mio giorno.
Sono talmente rassegnata alla cosa che quasi riesco a conviverci in pace.
 
Lidia, con un sospiro, decide di lasciar perdere.
«Come va il lavoro?» chiede, dopo qualche minuto di pesante silenzio.
«Bene» rispondo, atona.
«Che effetto fa tornare al tuo lavoro nella comunicazione? Ora che hai fatto altre esperienze, magari…»
Scuoto il capo.
«Non dovevo mollare» ribatto «Del resto, questo è il mio lavoro. E questa città è molto competitiva»
«Milano? Bè, sì… Ma dopo Londra e Los Angeles…»
Stringo gli occhi.
È quasi un dolore fisico.
So che non lo fa con cattiveria, ma mi scopro a guardare l’orologio.
Non vedo l’ora di potermene andare.
Perché, perché ho accettato di incontrarla?
È come spargere sale su una ferita aperta.
 
Lidia, di nuovo, sembra capirlo.
Si scusa per avermi trattenuta e insiste per pagare lei il pranzo.
Io, il mio, non l’ho quasi toccato.
L’abbraccio in cui mi avvolge sul marciapiedi esterno è protettivo e sembra non volermi lasciare andare.
«Abbi cura di te» mormora, mentre io la ricambio velocemente e mi allontano decisa.
 
Ma è tardi.
Non c’è più niente di me da trattenere.
 
 
 
 
 ***
Buon pomeriggio!!
Sono - di nuovo - in ritardo... Ma eccomi qui!
Vi chiedo scusa ma sono in vacanza senza il mio pc e per questo vi raccomando, come sempre, di tenere d'occhio la mia pagina Facebook per tutti gli aggiornamenti: 
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Come sapete, sul mio blog sto ripubblicando One Love, la mia prima storia su Gin e Ben: http://dreamerjoy.blogspot.it/
Per tutto il resto, c'è la lettura!
Buone vacanze!
Joy
 
 

 

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Capitolo 24
*** Il tempo che passa non ha più importanza ***


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Buon compleanno, Ben






Il tempo che passa non ha più importanza.
 
La mia vita scorre in modo ripetitivo.
Ed è molto strano, considerando il lavoro che faccio.
Per fortuna avevo ancora qualche contatto e sono riuscita a trovare un posto di assistente in uno studio di comunicazione.
In sei mesi ho seguito due campagne stampa.
Rientro nella meccanicità della vita di un ufficio.
Non lesino le forze, né gli straordinari.
Ma non mi appassiono più al lavoro.
Non mi interessa più.
Sono brava, ma neppure questo mi importa.
I miei colleghi sono abbastanza simpatici, ma io mi tengo alla larga da loro.
Ogni tanto vedo qualcuno dei vecchi amici che avevo a Milano, ma è difficile: tutti vogliono sapere cosa ho combinato, perché ero partita, come mai sono tornata.
Altre spiegazioni.
Altre bugie.
Naturalmente ho parlato con i miei genitori, ma per il resto evito il più possibile di rivangare il passato.
Tranne che con Serena, naturalmente.
Quando sono tornata in Italia sono corsa da lei e sono rimasta in casa sua per tre giorni, a piangere.
Lei era preoccupatissima e furiosa e ci è voluto del bello e del buono per impedirle di comprare un biglietto aereo per Los Angeles e spaccare la faccia a Ben.
E magari, al ritorno, passare da Londra per avvisare i suoi genitori di che imbecille hanno messo al mondo, in caso non se ne fossero resi conto.
So che, a parti inverse, avrei fatto lo stesso per lei, ma solo sentire il nome di Ben mi fa venire i crampi allo stomaco.
La supplico di smetterla e alla fine la spunto.
Serena è talmente preoccupata per me che quasi manda a monte il suo viaggio di lavoro in Austria.
Quando non glielo permetto, mi lascia le chiavi del suo appartamento a Milano.
E da qui cerco di ricominciare.
 
Ma non mi interessa più.
 
*
 
Due mesi dopo il pranzo con Lidia sto rientrando a casa e parlo al cellulare con Valeria, un’amica che cerca di convincermi ad andare a mangiare una pizza da lei.
Non ne ho voglia.
Non ho mai voglia di fare nulla, né di vedere gente.
Non riesco a fingere di essere felice e rilassata e detesto l’idea di avere gli occhi preoccupati di tutti sempre addosso.
Non ho fame, non ho voglia di uscire.
Mi tengo alla larga da ogni giornale di cinema o gossip e vivo in un bozzolo fatto di…
Bè.
Di me e basta.
 
Ringrazio fermamente Valeria e rifiuto di uscire.
Svolto nella via di casa e il cellulare mi suona di nuovo.
Lorenzo.
Alzo gli occhi al cielo.
È uno dei miei amici e io non mi ero mai accorta che avesse un debole per me…
Ma tant’è.
Per quanto al momento io non sia interessata al mondo esterno, le sue intenzioni sono palesi anche alla sottoscritta.
È sempre gentile ed educato, ma parecchio insistente.
Ma anche se non lo fosse io non voglio nessuno.
E ieri sera, quando me lo sono trovato fuori dall’ufficio, gliel’ho detto chiaro e tondo, in faccia.
E allora perché oggi mi chiama di nuovo?
Se me ne fregasse qualcosa non risponderei, ma al momento il mio senso di delicatezza scarseggia.
 
«Pronto» rispondo, secca.
Lui mi saluta, chiede come sto, lo sento tergiversare imbarazzato.
Io sono quasi al portone e con una mano frugo nella borsa alla ricerca delle chiavi.
«Dimmi, ti serve qualcosa?» lo esorto, brusca.
«Mmm… No… è che ieri spero di non averti spaventata e…»
Spaventata?
«Perché dovresti avermi spaventata, scusa?» chiedo.
Lo so, sono stronza.
So anche che non se lo merita… Ma davvero non ce la faccio.
«Eh, perché… Magari sono stato precipitoso e allora…»
Sospiro.
«Senti» lo interrompo «Mi dispiace. Dico davvero. Ma ieri non scherzavo: io non sono disponibile ad avere una storia, una relazione o quello che è. Non scherzo e non faccio giochetti. E se vuoi che restiamo amici, ti prego: non tirare più fuori questa storia»
 
È il discorso più lungo che faccio da un mese a questa parte e Lorenzo dovrebbe ringraziarmi, visto che l’ho fatto solo in nome dell’amicizia che ci lega.
Sarei stata tentata di urlargli addosso e poi di bloccare il suo numero, ma… Non è colpa sua.
Nemmeno mia, a dirla tutta.
Comunque.
 
Spingo il cancelletto mentre lui balbetta qualche scusa e trattengo un altro sospiro impaziente.
E poi non sento più nulla perchè il cellulare mi cade di mano.
 
Davanti a me, con le mani in tasca e la schiena poggiata al muro, c’è Ben.
 
Per un secondo che mi paralizza temo di avere le allucinazioni.
Lui si raddrizza e mi fissa, in silenzio.
Sento il mio cuore battere furiosamente e mi chiedo se per caso non sta per venirmi un infarto.
 
È qui.
Com’è possibile?
 
Indossa dei jeans scuri, le scarpe da tennis, la giacca di pelle su una maglietta chiara.
Fa un passo verso di me e io, automaticamente, ne faccio due indietro.
Ben si ferma e alza una mano come a dire che è tutto a posto.
Ma non è così.
Per niente.
Non è affatto a posto.
Ammetto che, per i primi due mesi, ho fantasticato che tornasse da me.
E, pur rimproverandomi per la mia debolezza, sognavo di sentirmi di nuovo euforica, come è sempre stato con lui.
Non avrei mai immaginato che sarei arrivata a sentirmi male fisicamente, ma è così.
Mi sudano le mani e mi sento debolissima.
Mi passo una mano sugli occhi e cerco di respirare per non cadere stesa a terra.
 
Poi lui parla.
«Gin…» dice, muovendo un altro passo.
Io arretro ancora e sbatto contro il cancelletto.
Siamo immobili, entrambi.
Non so quanto tempo passa, quando, alla fine, faccio un giro molto molto largo per evitare di passargli vicino e con mano tremante accosto le chiavi alla serratura.
Tremo talmente tanto che non riesco ad infilarle.
Lo sento alle mie spalle, che allunga una mano per aiutarmi.
Io mi rannicchio contro il portone e non giro il viso.
Lui mi prende di mano la chiave e la infila nella serratura, poi apre.
Si scosta di un passo, ma mi sfiora la schiena con la mano.
Io trasalisco.
«Immaginavo che non volessi vedermi, ma…» sembra spaventato «Non pensavo che… bè, che non mi avresti nemmeno salutato»
 
Non rispondo.
Obbligo i miei piedi a muoversi e spingo il portone.
Ben sfila delicatamente la mano dalla chiave e la porta gli si chiude in faccia.


***
Buongiorno carissimi lettori!
Sono tornata dalle ferie e quindi la mia latitanza è ufficialmente terminata!
E, guarda caso, torno oggi, giorno del 33esimo compleanno del mio diletto Ben Barnes!
Mi scuso per i ritardi, ma ora - salvo impedimenti lavorativi - sarò molto puntuale!
E anche quando sarò in trasferta (cosa che - ahimè - capiterà prestissimo), ritarderò massimo di un giorno, ma non sparirò più!
Come sempre, vi ricordo di controllare la mia pagina Facebook per tutti gli aggiornamenti:
 https://www.facebook.com/Joy10Efp?ref=bookmarks
E, finite le ferie, è tempo di darsi da fare con il blog: http://dreamerjoy.blogspot.it/
Spero di esservi mancata!
Buona lettura,
Joy
 

 
 
 
 
 
 

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Capitolo 25
*** Mi sembra un incubo ***


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Per fortuna non mi è corso dietro.
 
Lo so che è un pensiero idiota da formulare, mentre arranco in casa come una che è in preda a una sincope.
Sbatto contro il tavolo mentre mi lascio cadere sul divano.
Annaspo in cerca di aria, nemmeno avessi corso la maratona.
 
Ben.
 
Mi sembra… un incubo.
Un sogno irreale, ma di quelli che non vanno a finire bene.
Non voglio pensare.
 
 
Mi lascio cadere sul divano e chiudo gli occhi.
Ho imparato bene, in questi mesi.
Non so come faccio, ma riesco a non pensare.
Mi astraggo dalla realtà e sto lì, vegetando.
Non so quanto tempo passa, quando sento bussare delicatamente alla porta.
Non rispondo.
Dopo un po’ sento il campanello.
Io resto immobile.
«Gin»
 
È la sua voce.
 
«Gin, il telefono» insiste «Le chiavi»
Ah, ho abbandonato anche le chiavi?
Pazienza.
 
Chiudo gli occhi.
 
*
 
Quando mi sveglio è buio e mi fa male un braccio per via della posizione innaturale in cui l’ho costretto.
 
Mi alzo, vado in bagno.
Poi mi accosto alla porta e guardo dallo spioncino.
Fuori non c’è nessuno, ma quando apro trovo sullo zerbino il cellulare e le chiavi.
 
 
La mattina dopo, quando mi alzo e mi preparo velocemente, sono quasi stupita del fatto che non sto pensando a Ben.
Non più del solito, almeno.
Non penso a ieri, penso a lui in generale… come faccio sempre.
Poi suona il campanello.
Scatto automaticamente il portone, perché a volte la vicina (che è un po’ sorda e cieca) suona a caso a tutti i condomini.
Dopo due minuti, invece, mi bussano alla porta.
Apro uno spiraglio e, sul pianerottolo, trovo Ben che regge un sacchetto di brioche e due bicchieri di cartone del bar.
«Ciao» bisbiglia «Pensavo che magari ti andava una brioche»
 
Lo guardo.
È vestito come ieri, a parte per la maglietta diversa: quella di oggi è verde scura.
Ha due occhiaie molto evidenti ed è pallido.
Come sempre, gli dona.
Tutto dona, a quest’uomo.
 
Con un colpo secco, richiudo la porta sul suo viso speranzoso.
 
*
 
Quando esco per andare al lavoro, è fuori dal portone.
Cerca di parlarmi, di chiamarmi, ma io mi comporto come se fossi cieca e sorda.
A parte per il fatto che imbocco a tutta velocità il cancello, nemmeno stessi andando a correre.
Imbocco la strada che porta alla metro stringendo furiosamente i manici della borsa.
 
Che cosa sta succedendo?
Cosa vuole?
Perché questo tormento deve ricominciare?
 
Ben mi segue, io allungo il passo.
Lui cerca di raggiungermi, di parlarmi, io mi infilo al volo nel bar vicino casa.
Mi accosto al bancone e rivolgo uno sguardo spaventato al barista.
«Ciao, cara» fa lui «Il solito caffè?»
Annuisco senza parlare e intanto Ben mi si affianca.
Mi sposto di un paio di passi, ma il bancone è terminato.
«Gin, dai, ti prego» mormora lui «Voglio solo parlare»
 
Parlare.
Vuole parlare.
E quando io volevo parlare e lui non c’era mai?
Vuole parlare dopo otto mesi d’inferno in cui non sono più stata capace di vivere.
 
Serro le labbra e giocherello con il cinturino dell’orologio, fingendo di non sentire.
Lui mi tocca la spalla e io mi ritraggo.
«Ehi» il barista si è voltato con il mio caffè e ha notato il mio gesto.
«Tutto bene?»
Scuoto il capo.
«Cosa? In che senso? Ci sono problemi con questo ragazzo?» serra le labbra «Ascoltami bene, lascia in pace questa ragazza, capito? Qui non permetto di dare fastidio alle ragazze!»
Ben alza le mani in segno di pace.
«Non ho fatto nulla!» esclama «Non le ho fatto nulla»
 
Non mi ha fatto nulla.
 
Divertente.
 
Lascio un Euro sul bancone e me ne vado senza toccare il caffè.
 


***
Buongiorno carissimi lettori!
So che avete notato che questi capitoli sono più corti, ma è una scelta voluta: vorrei rendere l'idea del vuoto che ha colto Gin ed è difficile farlo se lo riempio di parole :)
Del resto, lei è parole e sensazioni e pensieri... è normale che avvertiate uno stacco! :)
E veniamo alle notizie pratiche... Gli aggiornamenti tornano normali, visto che sono tornata al lavoro.
Questo weekend (lunedì prossimo compreso) però sarò in trasferta... Spero di riuscire ad aggiornare le Cronache lunedì; se non riuscissi slittiamo con entrambe le storie di un giorno ciascuna (quindi Cronache martedì e Gin e Ben mercoledì).
Spero di no, ma in ogni caso controllate su Facebook per sicurezza: 
https://www.facebook.com/Joy10Efp
E vi ricordo anche che sto ripubblicando "One love", la mia prima storia su Gin e Ben, sul mio blog: http://dreamerjoy.blogspot.it/
Detto questo, buona lettura!
Baci,
Joy

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Capitolo 26
*** Ma io non sono più lei ***


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Non mi ha seguita in ufficio, per fortuna.
 
Il barista deve averlo trattenuto.
Mi rintano nella mia stanza e non esco neppure per la pausa pranzo.
Bevo thè e caffè e salto il pasto, ma ormai non è più un problema.
Non ho più molto appetito, ultimamente.
Lavoro fino a tardi e, anzi, mi fermo di proposito di più, anche quando ho terminato tutto il lavoro che avevo.
Quando finalmente esco dall’ufficio, mi dirigo sui Navigli e passeggio un po’, cercando di mettere ordine nei miei pensieri.
 
Perché è tornato?
Cosa vuole?
 
La mia mente gira in tondo senza arrivare a nessuna conclusione e, alla fine, mi dirigo verso casa.
 
 
Lo trovo lì, sul portone.
Sembra più stanco di stamattina e abbastanza infreddolito.
«Fai sempre così tardi, la sera?» dice, mentre io infilo le chiavi nella serratura, ignorandolo «Gin, perché non mi vuoi parlare?»
Di nuovo, gli chiudo la porta in faccia.
 
 
La mattina dopo lo trovo fuori dal portone, ancora con il caffè in mano.
Me lo porge, mentre io fingo di non vederlo nemmeno e cammino spedita per il marciapiede.
La sera faccio di nuovo tardi e me lo trovo ancora fuori dalla porta.
Lo ignoro, insensibile alle sue suppliche.
Mi dispiace…
 
No, non è vero.
Non ce la faccio, semplicemente.
Non posso parlargli di nuovo.
Permettergli di riprendersi tempo, attenzioni.
Mi manderebbe in pezzi e io non ho più pezzi da raccogliere.
Se ne andrà, lo so.
 
Magari è solo una visione.
 
 
Mi suonano alla porta e io ignoro il campanello.
Però poi sento la voce della signora che abita sul mio stesso pianerottolo chiamarmi.
Apro uno spiraglio: è lei.
Nessun pericolo.
La faccio entrare e lei mi spiega che il condominio si è lamentato per via di quel ragazzo che sta sempre accampato accanto al portone.
Scrollo le spalle.
«Non so che dirle» rispondo, vaga.
Lei mi guarda, seria.
«Dice di essere qui per te»
«Non è vero»
«Cara, spero non sia un problema per te… Ma devi risolvere questa situazione»
«Non vedo di quale situazione si tratti» rispondo io, atona «Io non lo conosco e non posso farci niente. Chiami la polizia, se vuole. Arrivederci»
La metto alla porta senza tanti complimenti e lei se ne va sbuffando e minacciando di chiamare l’amministratore dello stabile.
«Faccia come crede» è il mio saluto garbato, prima di serrare la porta.
 
Lo so, la vecchia Gin non l’avrebbe mai fatto.
Ma io non sono più lei.
 
*
 
Il giorno dopo piove, ma Ben, come da copione, è fuori per strada.
Sembra che non gliene freghi niente dei condomini, come a me non frega niente di sentire la sua voce che mi chiama.
All’apparenza, almeno.
Vado in ufficio. Lavoro. Torno a casa.
Quando torno, lui non c’è.
 
È finita, allora.
Ecco quanto è profonda la sua dedizione.
Dovrei stupirmi, ormai?
Non credo proprio.
 
*
 
Sto uscendo dalla doccia quando sento bussare.
 
Stringo in vita la cintura dell’accappatoio e poi apro appena la porta.
Una signora anziana, dall’aria dolce e gentile, mi saluta sorridendo.
È la signora del piano di sopra, un po’ sorda: quella che suona sempre a tutti, anche alle 7 della domenica mattina.
Io però non riesco ad avercela con lei, perché è davvero gentile.
Sorrido anche io e mi scuso perché non sono vestita.
 
Ma, quando apro la porta per farla entrare, resto congelata: due o tre passi a sinistra c’è Ben, immobile.
 
Lei previene qualsiasi mia reazione, scusandosi per l’orario e mettendomi una mano gentile sul braccio.
«Mia cara, mi spiace disturbarti, ma questo simpatico giovane è stato a casa mia oggi… Non mi sembrava giusto lasciarlo fuori, sotto la pioggia. E poi, a quanto pare, i vicini iniziavano a farsi strane idee sui ladri d’appartamento e quindi sono scesa a farci due chiacchiere»
 
In qualsiasi altro momento mi preoccuperei molto per una dolce, ingenua signora che esce di casa per andare a fare due chiacchiere con uno sconosciuto accampato accanto al suo portone.
Adesso, però, ho ben altre preoccupazioni in testa.
 
Incrocio le braccia sul petto in un gesto involontario di difesa.
La signora lo nota e mi sorride, rassicurante.
«Credi che potremmo entrare un attimo, cara?» mi chiede.
 
Io guardo Ben e lui guarda me.
 
Scuoto il capo.
«No, mi spiace» rispondo, a bassa voce.
«Oh, ma certo vorrai vestirti, però…»
«No» la interrompo «Non voglio vederlo»
La signora sembra pensarci su.
«Oh, lui me lo aveva detto che eri ostinata… Ma forse potremmo prendere un caffè?»
Mi passo una mano sugli occhi, cercando di controllarmi.
Il fatto che questa signora mi sia simpatica non mi impedisce di aver voglia di urlarle contro.
 
Secondo lei io ho voglia di prendere un caffè con l’uomo che mi ha rovinato la vita?
 
Scuoto il capo di nuovo, in silenzio.
Lei sorride, come se invece avessi acconsentito.
È Ben che fa un passo indietro.
«Grazie» le dice «Ma non voglio obbligare Gin ad ascoltarmi. Però lei è stata gentile, davvero»
«Mio caro ragazzo!» fa lei, per tutta risposta «Invece dovresti proprio obbligarla ad ascoltarti!»
Un’espressione tormentata passa sul viso di Ben, ma poi lui fa un gesto di diniego con il capo.
«No, non posso. Non dopo tutto quello che ho fatto. Io…»
«Ma cosa pensi di fare?» chiede lei «Di rimanere di sotto?»
Lui scrolla le spalle e fa un sorriso triste.
«Non so ma… Non è che mi importi poi molto di dove sto»
Poi mi guarda.
«Io… Gin, io…»
Non rispondo.
E chiudo la porta.
 
Due secondi dopo il campanello suona di nuovo.
 
Mi detesto, ma vado ad aprire.
 
Ben è sparito, ma la signora è sempre lì.
«Allora» fa, tutta allegra «Ce lo prendiamo, questo caffè?»



***
Buongiorno!
Niente ritardi con questa storia, per fortuna!
Trasferta finita, uscito trailer 2 di The Seventh Son, pillola di Your right mind (che adesso ha il brillante titolo di Jackie&Ryan...!) e promo breve di Sons of Liberty... Ma niente Barnes a Venezia! Meno male, perchè io ero via :)
Bene, dopo avervi aggiornato sulla mia fonte di ispirazione, smetto di sproloquiare e vi lascio i link per contattarmi:
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Buona lettura,
Joy

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Capitolo 27
*** Colpe ***


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È la signora a prepararmi non il caffè ma la cena, alla fine.
 
Mi scodella un bel piatto di pasta davanti agli occhi, mentre io piango come una fontana e la storia degli ultimi mesi viene fuori a singhiozzi.
«Ma pensa!» commenta lei, schioccando la lingua «E così quel giovanotto è un attore? E come mai io non lo conoscevo?»
Sto per rispondere “perché non ha mai recitato in Beautiful”, ma mi esce solo un singhiozzo desolato.
«Comunque… Magari è poco noto, ma di certo è affascinante! Così educato, poi! E quell’accento inglese!»
 
Sarebbe poco noto perché non lo conosce lei?
No, ma… un attimo! Ma a me cosa importa?
 
Scrollo le spalle.
«Ah sì, cara, starai per dirmi che al giorno d’oggi gli attori devono essere belli per forza… Ma quando uno così ti suona alla porta non dovresti piangere disperata, sai?»
Mi passo una mano sugli occhi.
Le è per caso sfuggito il senso del discorso dell’ultima mezz’ora?
Bevo un po’ d’acqua e mi sforzo di controllare la voce.
«Non importa» rispondo «Grazie di avermi ascoltata, a quanto pare avevo bisogno di parlarne…»
«Ma certo che ne avevi bisogno, piccola! Sei esplosa, letteralmente! Non fa bene tenersi tutto dentro»
«Non è che, se ne parlo, la situazione migliora» commento, lugubre «E poi… Non mi fa bene parlarne. O pensarci»
La signora mi rivolge un’occhiata penetrante.
«Perché, vuoi dirmi che, anche se non ne parli, lui non è sempre nei tuoi pensieri?»
Io batto le palpebre.
«Mi sono abituata. Non ci do peso»
Lei sembra scandalizzata.
«Ma mia cara, come puoi vivere così?»
«Mi riabituerò» taglio corto, brusca «Anzi, mi sono già abituata. Ho un lavoro, ho la mia vita. Lui è un capitolo chiuso»
La signora sorride.
Sembra compatirmi ed è una cosa che non sopporto.
«Se posso permettermi» dice, garbata «Non mi sembra che questo capitolo sia così chiuso…»
Mi alzo in piedi di scatto.
«Senta, è stata gentile, davvero. Grazie per la cena. Sono molto stanca e…»
«Cara» mi interrompe lei, per nulla impressionata dal mio scatto «Fingendo di non vederlo non sistemerai le cose. E ti farai del male, il che è peggio»
«Non c’è niente da sistemare!» urlo «E cosa c’è di peggio, eh?»
Lei sospira.
«Bè, mi sembra chiaro. Tu soffri e lui anche»
«No» nego subito io.
Lei mi rivolge un’occhiata decisa.
«No, tu non soffri… o no, non soffre lui?»
 
Io resto in silenzio.
È anche troppo ovvio quel che penso.
La signora prosegue:
«Sai, quando sono scesa a parlarci non voleva salire da me. Non voleva disturbare, ma l’ho convinto. Povero ragazzo, era fradicio! Ti ha aspettato tutto il giorno sai? Sotto la pioggia, per giunta. E anche ieri… L’ho visto dalla finestra, non si è mai mosso. Gli concederai, spero, che se non soffrisse come un cane non si umilierebbe così»
Mi premo le dita sulle tempie.
Non voglio, non posso permettere a questa idea di radicarsi nella mia mente, o non riuscirò più a cancellarla.
A impedire che una stupida speranza mi faccia credere che…
Resto in silenzio, ma scuoto ancora il capo.
No, non è vero.
Non è vero che lui soffre, non è vero che gli importa di me.
«Tesoro» insiste lei «Lui ha sicuramente sbagliato. Tu lo sai e lui lo sa, perché me lo ha detto oggi. Ma vuole rimediare. Permettigli di scusarsi con te»
«No»
«Perché?» chiede.
 
Io resto muta.
Passa un minuto.
«Perché?» mi incalza «Perché pensi che cederesti? Perché non riusciresti a comportarti da dura? Perché vuoi punirlo?»
«Perché non posso fidarmi!» sbotto «Perché se gli permetto di convincermi che è tornato… Poi cosa farò? Mi fiderò di nuovo? Mi innamorerò di nuovo? E poi? Quando lo rifarà, non sarò stata la più stupida cretina sulla faccia della Terra?»
La signora accoglie il mio sfogo con un sorriso.
«Oh, bene, brava!» mi esorta «Sfogati, parliamone! Ti fa bene… molto meglio che rimuginare da sola nella tua testa! Se non ti confronti con qualcuno, rischi di non vedere dove sbagli. E se non lo vedi, come fai a correggere l’errore e a ricominciare?»
«Io?» trasecolo «Io sbaglio? E poi io non voglio ricominciare!»
«Questa, mia cara, è una fandonia talmente evidente che non la commenterò neppure, se non ti dispiace» ribatte, soave «Per il resto, ricorda sempre che l’errore non sta mai da una sola parte. Certo, vista la situazione possiamo tranquillamente dire che lui è stato cieco ed egoista, ma se tu gli avessi parlato apertamente, se fossi stata sincera con lui, non pensi che avreste potuto risolvere le cose prima?»
«No, non lo penso» ritorco «Per prima cosa era talmente palese che stavo male, che soffrivo, che per capirlo non serviva un genio e se lui non lo ha visto è perché non ha voluto. E poi, quando gli ho detto che non volevo stare in America, lui ha deciso comunque che preferiva il lavoro!»
 
La signora si riempie il piatto di pasta e impugna la forchetta.
Ingoia un boccone, quindi mi sorride e dice:
«Cara, questo è davvero sciocco e presuntuoso da parte tua»
Ci resto talmente male che non riesco a rispondere, per un momento.
E lei ne approfitta per incalzarmi:
«Quindi la colpa è sua per due motivi: perché è stato egoista, ma soprattutto perché non ti ha capita. Ma non ti sembra che sia presuntuoso pretendere che lui viva sulla lunghezza d’onda dei tuoi stati d’animo? Un rapporto vero è fatto di fiducia e confidenza. Tu non puoi semplicemente aspettare che lui capisca: devi aiutarlo a capire»
«Ma Ben non voleva capire!»
«No, cara, altro errore: Ben ha capito. Lo dimostra il fatto che è qui. Sì, ci ha messo del tempo… Ma ce l’ha fatta. Da solo. E tu, invece?»
«Io?»
«Sì, tu. Tu cos’hai capito di lui?»
«Lei… lei sta dicendo che è colpa mia?» la mia voce sale di un’ottava per l’indignazione «Che io dovevo capire qualcosa?»
«Certo. Tu non vuoi che lui stia bene?»
«Ma io ho fatto di tutto perché lui stesse bene!»
«Cara, è proprio quello che ti sto spiegando: sei convinta di aver fatto tutto bene, mentre gli errori sono tutti di lui, ma non è vero. Una relazione è come una società: tutti devono impegnarsi, non uno sì e l’altro no»
«Io mi sono impegnata!» urlo «Porca miseria! Io ho fatto di tutto! Io avrei fatto qualunque cosa per lui!»
«Ma non gli concedi cinque minuti per scusarsi, dopo che è venuto qui per te?»
«Io…»
«Tu hai paura di lui e vuoi punirlo»
«No!» inorridisco.
«Oh, sì che vuoi punirlo… e ti dirò, non è che devi perdonarlo subito!» mi strizza l’occhio «Veniamo a lui: anche lui ha delle belle colpe. È insicuro e anche egoista, ma è un uomo cara. Loro non sono come noi. Fanno fatica a gestire lo stress e sono incapaci di fare più cose insieme. Ah, povere donne! Ma non divaghiamo… Certo eri consapevole che il signorino si è scelto un mestiere in cui idiosincrasie e protagonismo la fanno da padroni»
Mi rivolge un’occhiata decisa, come accusandomi di aver sottovalutato qualcosa, e io bofonchio un assenso.
«Bene. Naturalmente, la teoria e la pratica sono alla fine due cose molto diverse… Ma lui aveva bisogno di appoggio, di comprensione, e tu sei stata dura, distante e lo hai giudicato, per cui…»
«Oh, certo!» esplodo «Io sono stata dura, distante e l’ho giudicato! Questo secondo Ben, naturalmente»
 
Ma perché questa vecchia ascolta lui e non me?
Sarà colpa mia, dopo come mi ha trattata?
 
«Oh no» ribatte lei, felice come una pasqua «Lui si è assunto tutte la colpe e di te mi ha detto solo cose positive»
Resto di sasso.
Lei sorride, angelica.
Sembra un gatto che gioca con il canarino.
«Lui si assume le colpe – tutte – e non si dà pace. E comunque, mia cara, permettimi di farti notare un’ultima cosa: dopo gli sbagli, dopo le recriminazioni… Lui è tornato. E magari pensavi che la vostra storia fosse finita, magari pensavi che non lo avresti rivisto più, ma lui adesso è qui ed è chiaro cosa vuole. Quindi ti manca solo da chiederti cosa vuoi tu e cosa sei disposta a fare per ottenerlo»
Io crollo a sedere sulla sedia.
Mi sento come se i miei pensieri, imbrigliati a forza in questi mesi, corressero impazziti.
Vengo bombardata da emozioni che ho cercato di tenere a bada e mi sento frastornata.
«Non è vero che è chiaro cosa vuole» bisbiglio «No, il problema non è quello che voglio io, ma quello che vuole lui»
La signora sbuffa.
«Cara, lui ha sbagliato. Ma ora è qui. E non puoi non riconoscerlo. Se non ti volesse, non sarebbe venuto. Non puoi perdonargli il passato? Se non lo fai, ricorda che la colpa diventa tua – e non più sua – per la fine di questa storia»
«Quella storia è già finita»
«È finita perché tu non lo vuoi più o è finita perché pensi che lui non ti voglia più?»
 
Insomma.
Questa signora mi sta uccidendo.
 
Lei sembra capire che al momento la strozzerei volentieri, perché lascia perdere la cena e si alza.
«Spero di averti aiutata a riflettere. Ti dico solo un’ultima cosa: se lui è qui, significa che è pronto a riconoscere i suoi errori e a rimettersi in gioco. È tornato e tornare non è mai una cosa da poco. Poi, come andrà il futuro non lo sa nessuno… Ma tu sei sicura che valga la pena gettarlo via così? Questa è una seconda opportunità, ragazza mia! Pensaci bene!»
Detto questo, mi fa una carezza sulla spalla e infila la porta.
Io neppure mi alzo.
Resto lì, intontita, a fissare la cena che si raffredda.
Le parole della signora continuano a vorticarmi in testa e si mescolano ai ricordi, alle emozioni che credevo di aver seppellito.
Io non l’ho dimenticato, e lo so bene.
Ma non so se sono pronta ad ascoltarlo, perché ascoltarlo significa che gli crederò, e se gli credo di nuovo cosa succederà?
Non posso passarci di nuovo.
Non ce la farei.
 
Non voglio vederlo.
 
È una decisione che mi strazia l’anima, che mi costa ogni singola stilla di determinazione, ma so che è per il mio bene.
Se lo vedo, se ci parlo… Non sarò più capace di essere forte.
Mi sgretolerò in pezzi.
Di nuovo.
 
Getto la cena nella spazzatura e vado a farmi una doccia.
Aspetto che l’acqua calda sciolga la tensione del mio corpo e, per prolungare quel calore, decido di lavarmi i capelli.
Esco dal bagno avvolta nell’accappatoio e mi spazzolo i capelli.
Sono in camera.
Guardo verso la finestra, ma poi mi impongo di tornare in bagno.
Prendo l’asciugacapelli.
 
Ho ancora i capelli umidi quando decido che non ce la faccio più.
Mollo il phon e, vestita solo di pantaloncini e una canottiera, mi fiondo per le scale e corro ad aprire il portone.
Mi catapulto fuori e, sul momento, non vedo nulla.
Mi guardo freneticamente attorno e mi sento chiamare.
È la sua voce.
Mi volto e lui è già davanti a me, che mi tende le braccia.
Gli corro incontro e, mentre lui mi stringe forte, io scoppio a piangere con il viso affondato nella sua spalla.
 
 
***
Buongiorno, adorati lettori!
Volevo ringraziarvi tantissimo per il vostro meraviglioso supporto: "And the reason is you" e "Nothing Else Matters" sono le storie più popolari di questo fandom e non sapete quanto questo mi renda orgogliosa e felice!
La mia prima storia è nata in questo fandom e sapete quanto Ben Barnes sia al centro di tutte le mie storie!
Grazie davvero per il vostro meraviglioso supporto! <3
Detto questo, vi lascio ricordandovi la mia pagina Facebook: 
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E il mio blog, dove sto ripubblicando "One love": http://dreamerjoy.blogspot.it/
Siccome parto per una trasferta (di nuove -.-), se lunedì non riuscissi ad aggiornare Le Cronache slitteremmo di un giorno con tutti gli aggiornamenti, ma se controllate Facebook vi tengo aggiornati.
Vi adoro!
Joy

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Capitolo 28
*** E adesso? ***


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Non so nemmeno come facciamo a salire in casa.
 
Siamo stretti l’uno all’altra e continuiamo a baciarci.
Un gradino alla volta, un passo dopo l’altro, alla fine Ben sbatte con la schiena contro la porta e quella si apre, visto che non l’avevo chiusa a chiave.
Lui mi trascina dentro, io lo spingo verso la camera.
Cadiamo avvinghiati sul letto.
Sento le sue mani accarezzarmi febbrilmente.
«Gin, amore mio…» lo sento bisbigliare «Dio, quanto mi sei mancata!»
Io singhiozzo.
Lui mi bacia il viso, centimetro per centimetro…
 
E poi, all’improvviso, succede.
Non so come mai, ma sento salirmi dentro un’ondata d’ansia.
Sto cedendo.
E non so perché.
Voglio dire, lo so che lo amo e sono attratta da lui, ma non può accadere una cosa del genere.
Adesso possiamo anche perdere il controllo, ma dopo cosa succederà?
Non posso portare il peso di un altro sbaglio.
 
Le parole della signora mi riecheggiano nella mente e mi confondono anche di più.
È orribile, ma sento il desiderio di punirlo.
Lo sento accanto a me, rilassato e a suo agio, e io mi sento impazzire.
Di desiderio, di amore, ma anche di rabbia.
È una sensazione stranissima.
 
Lo spingo di lato, improvvisamente, e lui mi lascia fare: si stende sulla schiena e mi prende su di sé.
Osservo i suoi occhi scurissimi, le labbra tumide di baci.
Dei miei baci.
Mi detesto per essere così debole, per desiderarlo così tanto.
Ma, soprattutto, sono ben consapevole che io non posso cedere così miseramente.
Senza un dopo.
Senza certezze.
Eppure, Ben per me è una calamita, è sempre stato così.
Arrabbiata con lui, con me stessa, con il mondo, gli passo le mani sul corpo in un gesto bramoso più che delicato, poi gli strattono rabbiosamente la maglietta.
Lui si solleva, ubbidiente, per aiutarmi a spogliarlo, ma quando cerca di baciarmi di nuovo io giro il capo.
Ben mi bacia la spalla, mi accarezza dolcemente la schiena con dita lievissime.
Io lo spingo sul materasso.
 
Lui piomba steso e sgrana leggermente gli occhi: non sono mai stata una tipa prepotente, né a letto né fuori dal letto.
Comunque, solleva le mani verso di me.
Mi sfiora il viso, ma io gli respingo la mano.
Fa per dire qualcosa, quando io mi chino a baciargli il petto e l’addome.
Allora geme e inizia a respirare pesantemente ma, quando allungo la mano verso il bottone dei suoi jeans mi prende per il polso.
Alzo gli occhi per incontrare i suoi.
Ci fronteggiamo in silenzio, poi lui si muove lentamente per venirmi incontro.
Mi fissa, mentre protende le labbra verso le mie.
Io giro il capo, interrompo il contatto visivo.
 
Ben si lascia cadere all’indietro, la sua presa sul mio polso si allenta.
Io resto inginocchiata, immobile.
«È… una vendetta?» chiede poi lui, a bassa voce.
Io non rispondo.
Sto fissando il materasso.
Il silenzio diventa pesantissimo, poi Ben sospira.
«Me lo merito, lo so, ma… è che da te io… Non me lo aspettavo»
Faccio un gesto, stizzita.
«Ah, certo!» ribatto, rabbiosa «Perché io non posso? Perché devo usarti qualche cortesia?»
Lui stringe le labbra.
«Non devi, ma…»
Poi si muove sotto di me.
«Potresti spostarti, per favore?»
Io lo scavalco poco gentilmente e mi rimetto in piedi, dandogli le spalle.
Due secondi dopo lo sento dietro di me.
«Possiamo parlare?» bisbiglia.
 
Io resto immobile.
Lui non mi tocca.
 
Dopo qualche infinito minuto lo sento prendere la sua maglietta e infilarsela velocemente.
Dei passi, poi la porta di ingresso si chiude piano.
 
*
 
La mattina dopo sono uno straccio.
 
Non ho chiuso occhio.
Non ho fame, lo stomaco è annodato.
Il correttore non riesce a coprire le occhiaie e il fard non nasconde il colorito smorto.
Non ho la minima voglia di andare a lavorare.
Solo alzarmi dal letto mi è costato uno sforzo tremendo.
E, quando scendo, Ben è fuori dal portone e la signora è accanto a lui, che lo difende da due condomini furiosi.
Tutti si voltano a guardarmi quando compaio: otto paia di occhi che mi accusano di cose diverse.
Fingo di non vederli e accelero il passo.
Non sono neppure arrivata alla fermata della metro quando inizia a piovere.
 
Piove per tutto il giorno e, quando la sera rincaso, sono fradicia.
Il mio malumore è stato generosamente inzuppato da un diluvio torrenziale.
Mi trascino fino al portone e lui è lì.
Zuppo più di me, immobile, con le braccia incrociate e chiaramente intirizzito.
Mi faccio forza e lo supero senza dire nulla.
Salgo in casa e non ho fatto in tempo a posare la borsa che già mi bussano.
Apro la porta con rabbia e sul pianerottolo la signora di ieri mi guarda con espressione di rimprovero.
«Vuoi che quel povero ragazzo muoia di polmonite?» chiede, dura.
E dire che di solito è così spumeggiante e gentile!
Io batto le palpebre.
«Chi glielo ha chiesto di restare lì sotto? Io no di certo»
Lei incrocia le braccia sul petto.
«I vicini hanno chiamato la polizia!»
«Benissimo» ribatto, gelida «La saluto»
Richiudo la porta prima che possa farmi un nuovo lavaggio del cervello.
Vado in bagno, cercando di tacitare la mia coscienza.
 
Quando esco, faccio per dirigermi in camera quando una luce blu proveniente dalla finestra mi fa precipitare ad affacciarmi.
Porco mondo!
C’è davvero la polizia!
Due agenti sono scesi da un’auto blu, lasciando i lampeggianti accesi, e stanno parlando con Ben.
Il mio cuore – che credevo non funzionasse più da mesi – improvvisamente si ridesta.
Lo osservo: bagnato, infreddolito, con le spalle curve.
Sembra sconfitto.
Eppure parla con la polizia senza alzare la voce, senza fare scenate.
Mi concedo un minuto per osservarlo imbambolata, poi mi riscuoto all’improvviso e mi fiondo alla porta.
Mentre corro per le scale perdo persino un infradito.
Mi catapulto fuori dal portone e faccio sobbalzare i tre che stanno ancora parlando.
«Scusate, scusate!» grido, rivolta agli agenti «Mi spiace, io… Voglio dire, non c’è pericolo…»
I due mi guardano a bocca aperta.
Mi rendo conto con un attimo di ritardo che sono bagnata, avvolta in un accappatoio e scalza, per giunta.
 
Maledetti vicini impiccioni.
 
Mi stringo nell’accappatoio, cercando di racimolare un po’ di dignità, e raddrizzo le spalle.
«Insomma, quello che volevo dire è che lui non rappresenta un pericolo per il palazzo, né per i suoi abitanti»
La mia arringa non sembra impressionarli.
Uno mi sta ancora fissando incredulo.
L’altro si schiarisce la voce e dice:
«Signorina, questo ragazzo è accampato qui fuori da giorni. Mi sta dicendo che è una cosa normale?»
«Ma non fa del male a nessuno!»
«I condomini si sono lamentati e io le dico che qui non può stare. È un suo amico?»
Faccio un cenno con il capo e lui aggrotta le sopracciglia.
«Sicura?»
Cenno più deciso.
«Bene. Allora o sale con lei o viene via con noi»
 
Cosa posso dire?
 
«Sale con me» ribatto, a denti stretti.
Faccio un passo verso il portone e Ben mi fissa.
«Vieni» mormoro.
Lui sembra indeciso, allora marcio verso di lui e lo afferro per il braccio.
«Buonasera» saluto gli agenti.
Per tutta risposta, uno di loro risponde:
«La prossima volta che litigate, risolvete le vostre questioni personali senza scomodare un palazzo intero!»
Noi saliamo le scale con l’aria di due bambini in castigo.
 
*
 
Quando entriamo indico a Ben il bagno.
«Vai a farti una doccia calda» gli dico.
«No, grazie» risponde lui «Vai prima tu»
«Io ho appena fatto una doccia» rispondo, irragionevole.
Sono sporca e sto lasciando impronte sul pavimento.
Lui incrocia le braccia.
«Non dovevi scendere così»
«Oh, infatti! Dovevo lasciare che ti portassero via, accidenti a me! Dovevo farmi gli affari miei!»
Vado in camera e torno con un telo pulito che gli lancio con poca grazia.
«Vai, cerca di non ammalarti: se muori qui i vicini ti seppelliranno nel locale della caldaia»
Le sue labbra morbide si piegano in un sorriso divertito.
«Cedo alla motivazione razionale»
 
Sparisce in bagno e io mi accascio sul divano.
 
E adesso?
 
 
 
 
***
Buongiorno, carissimi lettori!
Eccomi qui, non in ritardo come temevo :)
Non sto ad annoiarvi, vi ricordo solo un paio di cose.
Primo: la mia pagina Facebook, qui  
https://www.facebook.com/Joy10Efp
Secondo: il mio blog, in cui ripropongo la prima storia su Gin e Ben, qui   http://dreamerjoy.blogspot.it/
E, in ultimo, l'altra storia che sto scrivendo al momento, "Le Cronache di Narnia e di Hogwarts", qui  http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=2569037&i=1
Buona lettura!
Joy 

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Capitolo 29
*** Non ci sono solo io ***


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Quando Ben esce dal bagno capisco subito la portata dell’errore che ho fatto.
 
Indossa solo il telo annodato sui fianchi, è a petto nudo, scalzo, e si sta frizionando i capelli bagnati.
Il mio corpo reagisce con un’esplosione di calore inaudita.
Accidenti a lui.
 
Per di più, come se niente fosse, viene a sedersi sul divano.
Io mi rannicchio di riflesso nell’angolo opposto.
Non ci guardiamo, ma l’aria si satura di elettricità, fino a quando la stanza mi sembra rimpicciolirsi.
È come se minuscole particelle scintillassero tra noi.
E io me lo ricordo.
Mi ricordo come mi sentivo bene, come mi sentivo viva… prima.
Mi paragono a quella che sono adesso e riconosco che sono una pallida ombra della me che ero.
 
Mi sto concedendo un attimo di autocompatimento, quando Ben dice:
«Ho ottenuto quella parte che volevo. Quella con il produttore irlandese»
Io non credo alle mie orecchie.
È venuto qui per vantarsi?
Per dirmi definitivamente addio?
Bè, più definitivo dell’addio a Los Angeles non vedo cosa ci possa essere.
«Fantastico» ribatto, gelida «Congratulazioni. E questo miserabile siparietto cosa significa? Girate il film nel mio cortile, per caso?»
Lui sorride e si volta a guardarmi.
«Ho rifiutato»
 
Sto attenta a controllare la mia espressione.
Cosa… Cosa vorrebbe dire?
Un milione di domande si affollano nella mia mente, ma io scrollo le spalle come per dirgli che non mi importa.
Mi alzo e vado in bagno rimuginandoci sopra ma, quando sono di nuovo pulita e stavolta anche asciutta, evito il salotto e vado in camera a vestirmi.
Quindi torno di là e metto sul fuoco dell’acqua.
Rovisto nell’armadietto in cerca di una tisana e prendo una tazza.
 
Non lo sento alzarsi, ma all’improvviso è dietro di me.
«Ho rifiutato» ripete, il suo alito sul mio collo.
Sobbalzo per lo spavento e le sue braccia mi circondano, per evitare che io fracassi la tazza.
Il mio cuore batte furiosamente.
Le sue mani sfilano la tazza dalle mie e la posano sul bancone, poi tornano a posarsi sulla mia pelle.
«Stavo impazzendo, senza di te. E, senza di te, il lavoro non mi rende felice»
Resto immobile, pietrificata.
Sento il suo calore circondarmi, la sua pelle profumare di bagnoschiuma.
E lo sento, attorno a me.
Lotto per non cedere alla lusinga del suo odore, del suo calore, e Ben riprende a parlare:
«Quando te ne sei andata… Mi sono buttato sempre più nel lavoro. Volevo quella parte più che mai. Pensavo che, se me l’avessero data, sarei stato di nuovo bene, avrei ritrovato la pace… E poi, quando è arrivata, tu non c’eri e niente aveva senso… Niente era più bello, senza di te»
 
Non so cosa dire.
È quello che sognavo di sentire da lui, lo so…
E allora perché non esulto?
Perché non mi rilasso?
 
Resto immobile e Ben, dolcemente, mi fa voltare verso di lui e mi prende il viso tra le mani.
Mi guarda – e io non ho mai saputo resistere a quello sguardo – e continua:
«Gin, ti prego, dimmi che puoi perdonarmi. Dimmi che puoi darmi un’altra opportunità. Lo so che ho sbagliato, capisco che mi sono comportato molto male. Ma ho capito che io ti voglio. Ero confuso e accecato dalle possibilità lavorative… e sì, avevi ragione quando dicevi che non ero più sicuro. Non è che non fossi sicuro di noi, ma… ammetto che a volte vedevo la nostra storia come un peso per la mia carriera. Vedevo che odiavi Los Angeles, che non ti piaceva la vita che facevo… Ma continuavo a pensare “solo un film, solo una grossa parte, e poi smetto”… e poi ho capito che era come dicevi tu: non ce la facevo a smettere. Era come una droga, volevo di più»
C’è un attimo di silenzio, poi io chiedo:
«Come l’hai capito?»
Sul suo viso passa un’ombra di imbarazzo.
«Vorrei dirti che sono diventato improvvisamente intelligente, ma la verità è che Colin è venuto a cercarmi a Los Angeles e mi ha detto che Lidia ti aveva vista qui a Milano»
«Ah» commento, spenta.
«Poi mi ha dato uno schiaffo… e poi mi ha tenuto una lezione su come si cresce e si sta al mondo»
Fa una smorfia buffa, ma capisco che se ne vergogna.
Da parte mia, dovrei dire di esserne contenta?
«Quindi sei tornato da me perché te lo ha detto Colin?»
«No! Io volevo tornare, ma… Ecco… Mi vergognavo. Sapevo che non ti saresti fidata di me e… bè, ero sicuro che mi avresti respinto e quindi…»
«E quindi non valeva la pena provare? Perché non volevi rischiare di prenderti un no?»
Lui sospira.
«Non ne vado fiero, ma… sì, avevo paura. E continuavo a rimandare, a rimandare… E stavo sempre peggio. Non sono stati dei bei mesi»
«Davvero?» rispondo, gelida «I miei sono stati fantastici, invece»
I suoi occhi spettacolari si fanno tristi.
Mi accarezza appena il braccio.
«Sei così magra…» bisbiglia.
«Sarai felice» ribatto, impietosa «Non preferisci le donne magre e belle?»
Ben sgrana gli occhi.
«Gin, ma tu sei sempre stata bellissima!»
«Tu non mi facevi sentire bellissima» lo aggredisco, velenosa «Tu mi hai fatto sentire inadatta, brutta, sciocca e…»
Ben fa un passo indietro, mortificato.
«Non è vero! Non puoi accusarmi di una cosa del genere! Io non ti ho mai voluta diversa!»
«Ah no? Allora ero un peso pur essendo magnifica? Ero giusta anche se ti vergognavi di me?»
«Ma non è vero!»
«E invece sì!» urlo, furiosa «Con il tuo disinteresse hai dimostrato quanto non te ne fregava niente se i tuoi amici mi trattavano come una merda! E se non fregava a te, figuriamoci a loro!»
«Gin, non puoi darmi la colpa delle tue insicurezze! Se tu ti sentivi inadeguata a me dispiace, ma più che dirti che non lo sei io cosa posso farci? Devi imparare da sola a credere in te stessa!»
«Non osare farmi una paternale! Di chi è la colpa se io mi sento insicura? Mi hai mai dato modo di essere diversa?»
Lui digrigna i denti.
«Allora le tue paranoie sarebbero colpa mia?»
«Sì! Perché tu non mi dai sicurezza!»
«E la sicurezza di cui ho bisogno io?»
«Tutto gira intorno a te, Ben! Io devo dare e tu devi prendere! Ma quando serviva un appoggio a me tu cosa hai fatto? Ti sei fatto i cavoli tuoi! Ti sei preoccupato sempre di te!»
«Questo non te lo permetto!» adesso sta urlando anche lui «Tu sei insicura Gin e io ho provato e provato a darti certezze! Ma non posso passare ogni singolo giorno a sostenerti! Per stare insieme anche tu devi imparare a camminare sulle tue gambe! Non posso passare ogni singolo secondo della mia vita a rassicurarti!»
«Ah, bene, ora è colpa mia! Ma certo! Io che non sono bella, non sono magra e non sono famosa! E sono pure una rompicoglioni! Bè, sai cosa ti dico? Se questa è l’opinione che hai di me…»
«Io ti amo, stupida!» urla lui «Sono venuto qui per dirtelo, mi sono umiliato per poterti vedere! E speravo che almeno avrei avuto la possibilità di dirtelo!»
«E speravi che io te lo rendessi facile, immagino» lo schernisco «Che fossi qui a dirti “Oh, Ben, grazie che sei venuto a raccogliermi, come sei magnanimo, ti prego riprendimi con te come se non fosse successo niente, come se non mi avessi rotta in mille pezzi e poi non mi avessi anche calpestata”!»
C’è un attimo di silenzio in cui ansimiamo entrambi, poi io proseguo un discorso che era iniziato con tono di scherno ma che ora di divertente non ha proprio più nulla:
«Bè, sai cosa? Invece tu mi hai distrutta. In mille piccolissimi pezzi. E poi, giusto per essere sicuro, mi hai frantumata in ogni singolo pezzetto. E adesso vieni a dirmi che ti dispiace?»
Lui fa un gesto di sconforto.
«Lo so, è inadeguato, ma… mi dispiace. Ti prego, perdonami. Dammi la possibilità di farmi perdonare»
Mi guarda con quei suoi bellissimi occhi imploranti mentre io incrocio le braccia sul petto e rispondo tranquilla:
«No»
 
*
 
Sto ancora piangendo.
 
Guardo l’ora: le quattro di mattina.
Non riesco a smettere di piangere.
E la cosa che mi fa più male, per una volta, non è lui o il pensiero di lui.
 
Sono io.
 
Da quando io sono un tale mostro?
Ripenso allo sguardo di Ben quando gli ho risposto che no, non l’avrei perdonato.
A come sembrava sconfitto.
E mi vergogno del senso di potere e di esultanza che ho provato.
Io non voglio essere una persona che gode nel fare del male a qualcuno.
E il fatto che io sia così distrutta non mi autorizza ad essere un’arpia.
Singhiozzo, disgustata da me stessa.
Mi ha chiesto scusa.
È venuto dall’America fin qui per chiedermi scusa.
L’ho fatto aspettare dei giorni fuori dal portone, nemmeno fosse un cane con la rabbia.
E poi ho goduto ad insultarlo e a ferirlo.
Perché io lo so che ha ragione, in parte.
L’ho capito.
 
Ho un brivido di disgusto nei confronti di me stessa mentre ripenso alla nostra conversazione e mi vedo pretendere di essere ascoltata e capita e rassicurata.
Non so se sia stato il discorso dell’altro giorno della mia vicina, ma ora vedo le cose con più chiarezza.
Non ci sono solo io.
E sì, Ben mi ha fatto del male…
Però ha ragione quando dice che io lo assillo per avere sicurezze.
Ma questa è una mancanza mia, non sua.
Forse, se io non fossi la persona paranoica che sono, non avrei visto un nemico in ogni donna più magra e bella di me.
E, magari, avrei potuto affrontare la cosa con più equilibrio, anziché pretendere che lui la risolvesse per me.
 
Certo, rimane tutto il resto.
Il suo lavoro.
La vita che vuole fare.
Eppure… Rivedo Ben sotto la pioggia, che aspetta per parlarmi.
Per vedermi.
 
Tutto l’odio e il dolore di questi mesi sembra sfocarsi.
C’è ancora la pena, ma è mista a compassione.
Io non posso vederlo soffrire.
Non sopporto di sapere che gli ho fatto del male.
Volontariamente.
Per ferirlo.
 
Cerco di calmarmi, cerco di ripetermi che questa è la strada che ho scelto quando l’ho mandato via.
Ho preso una decisione.
L’avevo presa anche prima.
Quando l’ho lasciato, quando ho scelto di non cercarlo.
Perché non sono abbastanza coraggiosa da riuscire a chiudere questa porta?
 
Sono rosa dai dubbi.
Una parte di me vuole scusarsi, vuole ascoltarlo… Anche solo per chiudere con lui in un modo civile.
Io l’ho amato. Lo avrei sposato.
Non voglio che mi odi, non posso sopportarlo.
L’altra parte mi accusa di essere una stupida, patetica bugiarda che cerca solo la scusa per rivederlo.
 
E, di nuovo, rivedo i suoi occhi scuri mentre mi implora di perdonarlo.
 
*
 
Alle cinque e mezza ho preso una decisione.
 
Afferro il telefono e, anche se ho cancellato il suo numero, non faccio sforzi di memoria nel digitare le cifre familiari.
Staccato.
Il mio cuore perde un colpo, poi mi viene l’idea di provare sul numero inglese.
Risponde al primo squillo.
Non dormiva neanche lui?
«Gin?» chiede, semplicemente.
Non so cosa volevo dire, ma scoppio a piangere.
Lui dice solo:
«Arrivo» e riattacca.
 
Mi soffio il naso, mi sciacquo il viso e mi infilo le Converse, poi scendo ad aspettarlo.
La notte è fredda e umida, ma non faccio in tempo a rimpiangere di non aver preso una giacca perché Ben appare di corsa da dietro l’angolo.
È un pensiero idiota da formulare in un momento del genere, ma mi viene in mente il suo odio per il jogging.
E ti credo che lo odia: è ridicolo quando corre.
È scoordinato e in forma quanto un novantenne sovrappeso.
 
Quasi mi scapperebbe da ridere, ma ricomincio a piangere.
E, stavolta, non protesto quando lui, con il fiatone, mi prende tra le braccia.


***
Buongiorno, amati lettori!
Solo un secondo, per ricordarvi tre cose:
la mia pagina Facebook: https://www.facebook.com/Joy10Efp/timeline
il mio blog (in cui ripubblico le mie storie, a partire da Gin e Ben): http://dreamerjoy.blogspot.it/
l'altra storia che sto scrivendo, un crossover tra Narnia e Harry Potter (fandom: Le Cronache di Narnia): http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=2569037&i=1
Detto questo, non mi resta che augurarvi buona giornata!
Vostra,
Joy
 

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Capitolo 30
*** Potrò sempre aspettare te ***


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«Come hai fatto, ad arrivare subito?» chiedo, nel silenzio.

 
La mia stanza è buia, ma la finestra aperta lascia intravedere le prime luci del giorno.
Sono distesa sulla schiena e Ben è steso sul fianco, accanto a me.
La sua testa è posata sulla mia spalla, la barba corta mi solletica la pelle.
Una delle sue mani è abbandonata tra i miei capelli, mentre con l’altra mi accarezza la pancia.
 
Siamo entrambi nudi.
Abbiamo appena fatto l’amore.
Non potrei chiamarlo in un altro modo.
 
È stato come tornare a casa.
A casa con lui.
E per quanto io non volessi e nonostante tutta la paura… essere tra le sue braccia mi ha fatto dimenticare i dubbi.
Anche lui sembrava un disperso che ha ritrovato la strada.
Ed è stato dolce e bello e meraviglioso più che le altre volte… o forse mi è sembrato così perché temevo che non sarebbe più successo?
O perché l’ho visto piangere e mi sembra che, se qualcuno piange mentre condivide qualcosa di tanto bello con te, allora è davvero tuo?
 
Sto pensando a questo mentre fisso il soffitto.
Non posso fingere che lui non ci sia, perché mi abbraccia e intreccia una gamba alle mie, come se non sentisse di essermi abbastanza vicino.
Eppure…
Vorrei restare così per sempre.
Senza chiedermi cosa dovremo fare tra poco.
«Ho preso una stanza nell’hotel in fondo alla strada» mormora Ben, punteggiandomi di baci lievissimi la spalla e il braccio «Volevo esserti vicino…»
Volto appena il capo e osservo la sua testa bruna.
«Malgrado io non ti abbia aperto il portone?»
«Soprattutto per quello» fa una smorfia e posa la testa sul cuscino, accanto alla mia.
Con il naso mi sfiora la guancia, poi mi bacia lievemente.
«Volevo vederti… Non sapevo dove trovarti, Lidia e Colin non mi hanno voluto dire nulla… Poi mi è venuta in mente Serena. E quindi ho comprato un biglietto aereo»
«E se non fossi stata a Milano?»
«Bè, sapevo che Lidia ti aveva vista, ma comunque il passo successivo era andare dai tuoi»
«Mio padre ti avrebbe ucciso!»
«Lo immaginavo, ma… sarebbe andato comunque bene, se ti avessi trovata»
Ci penso su.
«E la casa? Come l’hai trovata?»
«Sapevo l’indirizzo, no?» sembra stupito «È casa della tua migliore amica!»
Io aggrotto la fronte.
«Quando te l’ho mai detto?»
«Mah, tempo fa…» mi accarezza i capelli, meditabondo «Forse non eri neppure venuta a Londra…»
«Così tanto tempo fa?» mi stupisco «Come fai a ricordartelo?»
La sua mano si immobilizza, poi mi dice, con tono sorpreso:
«Gin, ma… è una cosa che riguarda te. Che mi hai detto tu! Ti pare che non me lo ricorderei?»
 
Io resto senza parole.
È una cosa da Ben… da Ben com’era prima.
Quello che non mi avrebbe mai ferita, quello che mi metteva sempre al primo posto.
E questo particolare mi provoca uno strano sussulto interiore, come se vedessi contemporaneamente il vecchio Ben e quello nuovo… o è sempre la stessa persona e io vedo una spaccatura a causa di quello che è successo?
Sono in confusione totale.
Mi servirà una vita per metabolizzare tutto questo.
 
All’improvviso, Ben si alza sul gomito e si mette sopra di me.
Mi prende il mento tra due dita e mi fa voltare in modo che le nostre fronti si sfiorano.
«Dimmi che ti sono mancato» bisbiglia.
I suoi occhi bruciano nei miei, pur nella poca luce.
Io deglutisco.
Lui mi bacia.
Mi sento sciogliere.
Provo a lottare contro questa sensazione di stordente dolcezza, contro i miei stessi sentimenti, ma con scarsa convinzione.
E poi lui si ferma.
«Dimmi che mi vuoi» ripete «Dimmi che mi ami»
Io scuoto la testa, in un gesto di paura più che di negazione.
Lui mi afferra il viso con entrambe le mani.
«Gin, io ti amo» mi dice, convinto «C’è una cosa sola che so, adesso, ed è che ti amo»
 
Mi viene di nuovo da piangere, accidenti a lui.
 
Ben bacia ogni mia singola lacrima, finché non mi stringo a lui, finché non lo prego di restare con me.
«Dimmi che mi ami» mi supplica ancora.
Ma io non riesco a parlare.
 
Facciamo di nuovo l’amore ed è persino più bello di prima.
Io scoppio a piangere e lo sento mormorarmi che, per lui, io sono tutto.
 
*
 
Dormiamo a tratti.
 
Sono su un fianco e lui è raggomitolato contro la mia schiena, con un braccio che mi circonda la vita, quando il mio cellulare inizia a suonare.
Lo sento sussultare quando si sveglia di colpo.
Mi allungo verso il comodino per prendere il telefono e Ben, irrazionalmente, mi stringe di più con il braccio.
È l’ufficio.
Guardo il display, poi spengo il cellulare senza il minimo rimpianto.
«Chi era?» mormora lui, assonnato.
«L’ufficio»
«Che ore sono?»
«Le 10.45»
«Oh» affonda il viso nei miei capelli e la sua mano mi accarezza «Ma non abbiamo dormito molto…»
Io chiudo gli occhi.
«Non vado in ufficio, infatti»
Lo sento sospirare.
«Stiamo a letto tutto il giorno?» chiede, felice.
«Ben, francamente non so cosa succederà quando ci alzeremo da questo letto…»
Il suo braccio serra la presa, poi lui si protende per avvolgermi nel lenzuolo.
«Allora dormi» mi dice «Restiamo qui. Io resto comunque con te»
 
Mi addormento con queste parole nelle orecchie.
 
*
 
In un momento imprecisato del pomeriggio mi sveglio.
 
Lui mi sta baciando dolcemente il collo.
Resto immobile, ma Ben mi tira vero il suo petto.
Appoggiato su un gomito, mi posa il mento sulla fronte.
«Lo so che sei sveglia» bisbiglia, prima di baciarmi il naso.
Ha una luce così calda negli occhi.
Ho come la sensazione che non sia passato un attimo e, contemporaneamente, che sia trascorsa una vita.
Chiudo gli occhi, cercando di non pensare.
Ben continua imperterrito a baciarmi e io tremo tra le sue braccia.
Mi rifiuto di aprire gli occhi: ce l’ho con il mio corpo traditore.
E con quella metà della mia testa che mi sussurra, incoraggiante, che è inutile cercare di resistergli.
 
All’improvviso, lui chiede a bassa voce:
«Tua nonna?»
Io mi irrigidisco, mentre una stilettata di dolore ormai noto mi impedisce di parlare.
Istintivamente vorrei scansami, vorrei scostare quella mano che mi accarezza, ma mi sforzo di dominarmi.
Non è colpa sua, razionalmente lo so.
Ma…
Lui espira.
«Mi dispiace» bisbiglia «Mi dispiace di non esserci stato… per te»
 
Non gli rispondo.
E, dopo un po’, mi addormento di nuovo.
 
*
 
Mi sveglio quando sento un peso che abbassa il materasso.
 
Apro gli occhi – ormai non so neppure più che ore sono – e vedo Ben, vestito, che mi sorride.
«Ora di cena» dice «Che dici, ti alzi?»
Io mi metto a sedere a fatica.
Lo stare a letto mi ha rintronata.
O forse è la mancanza di sonno dei giorni precedenti.
Oppure è Ben.
 
Sono dolorante.
Il mio stesso corpo mi ricorda quanto la mia vita sia cambiata e non sia più abituata a tutto questo.
Faccio una smorfia e lui si siede accanto a me e mi circonda con un braccio.
«Vuoi fare una doccia? Ho ordinato la pizza, ma arriva fra mezz’ora»
Mi sfrego gli occhi.
Magari una doccia mi sveglia.
 
Resto sotto l’acqua per un tempo infinito e intanto spero con tutte le mie forze che, quando uscirò, lui sarà sparito.
Non posso affrontarlo.
Non so cosa fare.
 
Ma, ovviamente, lui c’è.
 
Sento il citofono, poi Ben che parla.
E, dopo un paio di minuti, viene a bussarmi.
«Tutto bene? La pizza è arrivata»
Mi asciugo e mi vesto, cercando di farmi coraggio.
Quando esco dal bagno, vedo che Ben ha apparecchiato la tavola.
Mi scosta la sedia con un sorriso.
«Prego» mi dice.
Mi siedo, esitante, e lui mi posa davanti un cartone con la mia pizza preferita, quella con la bufala e i pendolini.
Chiudo gli occhi.
Il mio vecchio Ben.
«Non è esattamente una cena romanticissima…» dice lui, sedendosi di fronte a me «Con i cartoni e tutto il resto. Però posso fare di meglio… Se me lo permetterai»
Il suo tono è speranzoso e io apro gli occhi per guardarlo.
Non so cosa dire.
Abbasso gli occhi sulla pizza.
Ne taglio un pezzetto, ma non ho fame.
Cincischio con il cibo mentre Ben mangia di gusto.
Quando arriva a metà pizza si accorge che io non sto mangiando.
«Che c’è?» chiede «Ho sbagliato pizza?»
«No. No va benissimo. Solo… Non ho fame»
Lui aggrotta le sopracciglia.
«Gin, che storia è? Devi mangiare!»
Mi innervosisco subito.
«Cosa vorresti dire? Non ho fame! E non ho cinque anni, per cui…»
«Non è per la storia della linea, vero?»
«No!»
«Non dirmi bugie!»
Sembra furioso e questo fa imbestialire anche me.
«Se proprio vuoi saperlo» ribatto, sbattendo il tovagliolo sul tavolo «Sei tu che mi hai tolto la fame! E non per un fatto di linea o cosa, ma perché mi hai tolto anche la voglia di fare qualsiasi altra cosa!»
 
Dopo questo mio sfogo restiamo entrambi in silenzio, a fissarci.
Passano minuti interi, poi lui fa un gesto con la mano.
Di sconforto, credo.
Ha le labbra serrate e non capisco se è arrabbiato o spaventato o confuso.
O tutte e tre le cose.
 
Mi faccio forza e parlo per prima:
«Scusa. Mi ero ripromessa di non… Di non comportarmi così. Fai finta di non aver sentito»
Lui sgrana gli occhi.
«E come faccio?» chiede «Come dovrei fare, secondo te?»
Io sospiro.
«Ben, ascolta, non voglio che diventiamo due persone che passano il tempo a rinfacciarsi le cose. Io di sicuro non voglio farlo. Quindi non parliamone più»
«Gin, è proprio questo l’errore!» si oppone lui «Se ne parlassimo, se tu mi urlassi addosso ogni offesa che ti sei tenuta dentro… Poi almeno saremmo liberi. Staresti meglio»
Inorridisco.
«Sei pazzo? Io non voglio urlarti addosso! E, per quanto io possa essere arrabbiata o ferita tu non sei certo un bersaglio!»
«Ma è colpa mia!»
«È stata colpa anche mia» rispondo.
 
Mi costa fatica ammetterlo.
Ma non per la verità in sé, che alla fine ho capito.
Non ho problemi a riconsiderare un errore.
Mi costa fatica perché finora mi ero rifugiata nella convinzione che la colpa fosse sua e che io avevo fatto del mio meglio.
Mentre ora…
Come faccio a convivere con l’idea che non ho fatto abbastanza per salvare la storia della mia vita?
 
Ben si alza e mi si avvicina, quindi si inginocchia al mio fianco.
«La colpa è soprattutto mia» dice, fermo.
Annuisco.
«Sì. E non lo dico per ferirti, giuro. È stato… Io ho sbagliato a non essere sincera con te, a non dirti come stavo e cosa pensavo davvero delle tue scelte… Ma non volevo stressarti ulteriormente. Capisco che non è una scusa, ma mi sembrava che non riuscissimo più a parlare. Lo so, dovevo cercare un modo nuovo e non abbandonarmi all’autocompatimento»
Sospiro, poi gli sorrido mestamente.
«Che io sia una gran paranoica lo sai già, ma mi scuso per come le mie paure mi hanno impedito di comportarmi da persona matura»
Ben mi prende una mano.
«Gin, è colpa mia» dice, di getto «Io ti vedevo… Lo sapevo che stavi male, l’avevo capito… Eppure ho fatto finta di non vedere, perché era più comodo. E ieri… io voglio che tu ti senta sicura di me, ma non avevo il diritto di rinfacciarti delle insicurezze che ho contribuito a costruire»
Restiamo entrambi in silenzio, poi io chiedo:
«Perché sei qui?»
«Per te» risponde senza esitare.
«Perché? Cosa vuoi?»
Lui deglutisce.
«Perché tu sei casa mia» dice, dopo un po’ «Perché io posso anche girare il mondo… Ma alla fine desidero solo tornare a casa. Con te. Noi due e basta»
 
Io resto muta.
«E tu?» mi chiede, accarezzandomi la mano con il pollice.
«Per me tu sei sempre stato la mia casa»
Sorride, sembra sollevato.
«Perché, credevi di no?» domando «Io l’ho sempre saputo, Ben. Per me è sempre stato chiarissimo»
Lui si morde un labbro.
«Scusami per come mi sono comportato. Per tutti quei mesi in cui ti ho resa infelice» mormora.
Non rispondo e lui si affretta ad aggiungere:
«Lo so, è facile dire “scusa”… Non penso che le cose si sistemino così in fretta. Però… tu vuoi ancora stare con me? Se mi dici di sì… ti giuro, farò qualsiasi cosa!»
 
Mi sento combattuta come non mai.
Lo guardo e ammetto che una parte di me - una grossa parte – vorrebbe solo dire di sì.
Però... come posso fingere che questi mesi non siano esistiti?
 
Ben mi legge il tormento negli occhi e sospira.
«Non devi rispondermi ora» mormora, baciandomi la mano «Posso aspettare. Potrò sempre aspettarti»


***
Buongiorno, carissimi lettori!
Dunque dunque... Sono stata via nel weekend e, per questo, ho anticipato la pubblicazione delle Cronache, ma con Gin e Ben per fortuna sono nei tempi! :)
Detto questo... Mancano due capitoli, io ve lo dico.
Concludere questa storia mi fa davvero troppo strano, tanto che non capisco più se sono soddisfatta o no!
Non inizio a ringraziarvi ora che altrimenti mi commuovo, ma vi ricordo dove trovarmi:
Facebook: https://www.facebook.com/Joy10Efp?ref=bookmarks
Blog: http://dreamerjoy.blogspot.it/
La mia altra storia aperta: http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=2569037&i=1
Buona lettura!
Joy

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Capitolo 31
*** Sì o no ***


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I giorni seguenti sono strani.
 
Irreali.
 
Io e Ben siamo spesso insieme.
Ci cerchiamo, quasi affannosamente.
Eppure, a tratti, sento ancora in me quella voglia di respingerlo, di tenerlo alla larga.
Lui ne soffre. E io anche.
Penso quasi di fare più male a me stessa che a lui.
E, dopo quei momenti di rabbia, mi torna un bisogno spasmodico di vederlo, di sapere che è ancora qui.
 
Che io voglia godermi il potere di saperlo così succube?
Che io voglia vedere fin dove posso spingermi?
Avendolo sempre adorato, come ho fatto, voglio forse dimostrarmi adesso che anche io posso essere per lui quello che il nord è per l’ago di una bussola?
O voglio solo che soffra come ho sofferto io a Los Angeles?
 
O, magari, sto solo impazzendo e non capisco più cosa mi succede.
 
 
Ci sto riflettendo su da giorni.
Anche questa mattina, a letto, mentre Ben si fa la doccia.
Ieri sera volevo resistere, ma non ce l’ho fatta.
La sera prima l’ho trovato di nuovo fuori dalla porta.
E così, tra le suppliche e le debolezze di entrambi, cediamo in continuazione.
Quando siamo separati, è atroce.
 
Lo ammetto, ho sempre una paura folle che se ne vada.
Tre o quattro giorni fa, per fare un esempio, in preda a uno dei miei scatti d’ira repentini l’ho trattato malissimo.
Ci siamo visti con l’idea di vedere un film, ma dopo cinque minuti abbiamo lasciato perdere.
Eravamo sul divano e ci baciavamo, quando lui ha detto che gli mancano le mie curve.
Me lo dice spessissimo e, se si astiene dal fare commenti sul cibo, mi porta in continuazione da mangiare e controlla sempre cosa ho nel piatto e quanto ne mangio.
Ho provato a spiegargli un paio di volte che non ho problemi alimentari; semplicemente, non avendo mangiato per un po’, ho meno fame.
Non mi sto volontariamente privando del cibo: non mi va proprio.
Non l’avessi mai detto; ne ha fatto tragedie.
E siccome l’altro giorno non avevo voglia di ripetere la discussione (né di dirgli che, se sono tesa e non mangio è per colpa sua), ho finto di pensarci su e poi ho chiesto se non voleva magari che mi rifacessi le tette, così sarei stata magra ma dotata… Non avrebbe preferito che fossi più tipo da modella?
Ben è rimasto scioccato e, dopo il primo sbalordimento, si è infuriato.
Abbiamo litigato e se ne è andato sbattendo la porta.
Bene – ho pensato – va bene così.
Dieci minuti dopo tremavo in preda all’ansia che se ne fosse andato all’aeroporto.
Mi ha chiamata cinque ore dopo (cinque ore e quattordici minuti, per essere precisi) e solo allora ho ripreso a respirare.
 
C’è una costante in queste liti: è lui che chiede sempre scusa.
Io di solito non parlo.
Mi tengo tutto dentro e non so nemmeno io come districare questa matassa aggrovigliata di sentimenti, rancore, paure che ho dentro.
Ben sembra aver paura che io mi rompa in mille pezzi e io sto iniziando a chiedermi se non sono sull’orlo del collasso.
Lo detesto: non deve stare con me per compassione.
Che poi… stare.
Stiamo insieme?
Di sicuro non siamo divisi.
Ma che cos’è, questa situazione?
Ben me lo chiede ogni giorno; io ogni giorno svicolo.
 
Adesso, animata da un’improvvisa risolutezza, mi alzo e mi infilo in bagno, sorprendendo Ben.
È ancora in doccia, ma mi tende la mano con aria invitante.
Entro e mi stringo a lui e il suo corpo bagnato aderisce al mio.
Mi lascio insaponare e coccolare e mi rifugio tra le sue braccia, nascondendo il viso nell’incavo del suo collo.
Rifletto sulle sue parole mentre mi abbraccia: è questo che significa sentirsi a casa?
 
*
 
La sera Ben mi convince a uscire.
 
Facciamo due passi e la situazione tra noi è subito strana.
Dormiamo insieme, lo so, e lui è spesso da me, ma adesso mi sembra di vivere un paradosso.
Ben fa per prendermi la mano, ma io le ho già infilate in tasca.
Ci resta male, lo capisco anche se non lo dice.
Cosa siamo, quindi?
Una coppia?
Non sembriamo una coppia.
Di sicuro, non siamo la coppia che eravamo prima.
E lo so che lo squilibrio di questa situazione dipende tutto da me, perché sono io che non riesco a chiarirmi le idee.
Devo dare atto a Ben che lui si comporta benissimo.
È affascinante, premuroso, gentile e meravigliosamente affettuoso.
Come è sempre stato prima dell’America.
Sono io che non ho più un equilibrio.
Lo voglio e, insieme, ne ho paura.
 
Quando ne parliamo, non riesco a spiegarglielo meglio.
E dire che ne parliamo spessissimo.
«Ben io ti amo» gli ripeto oggi, mentre passeggiamo per Parco Sempione «Questo non è in dubbio, non lo è mai stato. Ma… Non mi fido»
«Non ti fidi di me» replica lui e sembra straziato.
Non riesco a non prendergli la mano.
«No, non di te. Di me. Non so se riesco a fidarmi di nuovo… A ricominciare. Non riesco a non pensare che potrebbe succederci di nuovo e io non ce la farei»
«Ma non succederebbe di nuovo» ragiona lui «Perché ci siamo già passati e quindi…»
«Ben» lo interrompo, delicatamente «Ti prego, non prenderla come un’accusa, ma il tuo lavoro…»
Lui si agita subito.
«Ma ho rinunciato a quel film!»
«Sì» rispondo, paziente «È stato un bel gesto, davvero, però…»
«Un bel gesto?» ripete, incredulo «Scherzi, vero? Non mi capiterà più una parte del genere!»
Mi irrigidisco subito.
«Senti, lo hai deciso tu, è inutile che me lo rinfacci. Ma è un problema, tra noi, e mi sembra evidente, visto che ci scanniamo appena si tocca l’argomento»
Lui non ribatte e per un po’ passeggiamo in silenzio, poi mi tira verso di sé.
«Io so fare solo questo» bisbiglia «Ho sempre voluto solo essere un attore… Ma cambierò, per te»
Io rimango attonita.
«Se il mio lavoro deve allontanarci, allora io non me la sento. Non me la sentirei di partire per qualche meta senza di te, né di lasciarti indietro. Non mi va bene questa situazione, mi fa stare male. Se…»
«Ti fa stare male rinunciare al lavoro» lo interrompo e gli poso dolcemente un dito sulle labbra «Ascoltami: io lo so quanto ci tieni e non voglio, assolutamente non voglio, metterti nella posizione di scegliere tra me e una cosa che ami così tanto»
«Amo te di più» dice risoluto.
Io scuoto il capo, ma lui insiste:
«Gin, senza di te io non stavo bene in America! Avevi ragione sulla vita che si fa lì! Io… non fa per me. Alla lunga… quella vita mi cambia e a me non sta bene»
«Ma ti affascina» finisco io per lui «Puoi dirlo, non è una colpa»
Lui sembra circospetto.
«Posso farne a meno»
«No. Non voglio privarti di qualcosa che per te è importante. Ho sempre immaginato la nostra vita insieme come qualcosa di ricco e soddisfacente, non come un patto di non belligeranza»
Lui fa un sorriso triste.
«E se la vita fosse così? Un compromesso continuo?»
Inorridisco.
«Non posso farti vivere nel compromesso»
«Dici delle cose bellissime e fai scelte difficilissime per me… Ma poi mi tieni lontano, Gin, e questo mi uccide. Non è il lavoro… sei tu che mi fai male, adesso»
È una supplica che mi spezza il cuore.
«Ben, non sopporto di…»
«Dimmi che mi ami»
«Lo sai che è così»
«Dimmelo»
«Ti amo»
«Dimmi che mi perdoni»
«Ti ho già perdonato. Potrei portarti rancore?»
«E allora… stai con me. Resta con me»
«Sono con te» replico, distogliendo lo sguardo.
Lui mi posa due dita sotto il mento per farmi alzare il viso.
«Fammi stare con te» chiede.
Annuisco.
«Sei sempre con me»
«Non è vero. Hai costruito un muro e io… Io non riesco a raggiungerti! Cosa posso fare, Gin?»
Poso il capo sulla sua spalla.
«Non lo so, Ben»
 
*
 
Ho mollato il lavoro senza rimpianto (è tra le cose che non riuscivano più ad appassionarmi. Quello e tutto il resto), ma devo comunque recuperare un po’ di cose.
 
Quindi, oggi lascio Ben a letto e vado in ufficio a prendere quel poco che ho mollato lì.
Uscendo mi chiedo di sfuggita che prenotazione deve aver fatto Ben in hotel. A tempo indeterminato?
Sbrigo quello che devo fare velocemente e ne approfitto per fare due passi.
Inutile dire che i miei pensieri vorticano sempre su Ben.
Sulla nostra situazione.
 
È buffo, perché io ho sempre odiato le situazioni irrisolte.
Per me è tutto sempre bianco o nero… Come è possibile che mi trovo a sguazzare in questo mare di grigio?
Ben dice che lui è sicuro e io sono quella incerta.
In realtà, io so benissimo cosa vorrei.
È solo che temo che tra quello che voglio e quello che potrò avere in realtà ci sia una forbice.
Ben dice di essere disposto a rinunciare a tutto, ma quanto potrà stare lontano dal suo lavoro?
Siamo seri: se non è questo film, sarà un altro.
Ci saranno altre audizioni, per forza.
È giusto che sia così.
E quindi, cosa succederà?
A tratti vorrei avere la forza di scoprirlo, ma per la maggior parte del tempo penso che ignorare il passato sia un errore da sciocchi incoscienti.
Ho già visto cosa significa vivere in quell’ambiente.
Non siamo compatibili.
Punto.
 
Provo una stilettata di dolore solo a formulare il pensiero.
Prendo il cellulare di tasca e chiamo Ben.
Risponde subito e io esordisco con un:
«E se andassimo sulle montagne ad allevare mucche?»
Lui scoppia a ridere.
«Come Heidi?» chiede «Però ti ci vedo, vestita da contadinella…»
«Stupido» rispondo, ma mi viene da ridere «Era una soluzione geniale, invece»
«Sì, certo… Tu che allevi mucche. Geniale proprio, tesoro»
«Sarei bravissima!»
«Certo, certo…»
«Ben, sono serissima!»
«Ne parliamo a pranzo, Heidi? Ti passo a prendere?»
«Ma non eri a casa?»
«Sono uscito. Devo fare una commissione e ho bisogno di te»
«Che commissione?»
«Una piccola cosa. Mi aiuti?»
«Certo, ma… Di che si tratta?»
«Normale amministrazione, perché?»
«Oh. Non sapevo se…»
«Se?»
«Se è una cosa tipo “ritorno alla realtà”» borbotto.
«Questa è la realtà» fa lui.
«Per niente!»
«Invece sì»
Mi mordo la lingua.
Non voglio discutere ancora.
Ripetiamo sempre le stesse cose e sta diventando insostenibile.
«Dove sei? Ti raggiungo?» chiedo.
«Gin, se non ti va bene questa situazione allora chiediti cosa vuoi»
Stringo forte il telefono.
«Ma io lo so già, ricordi? Voglio la favola»
«Noi ce l’abbiamo, la favola. Siamo due persone che hanno avuto la fortuna di trovarsi e tu non puoi comportarti come se questo dono incredibile non valesse niente!»
All’improvviso sembra furioso e, ovviamente, mi innervosisco anche io.
«La nostra favola ha fatto alquanto schifo»
«Niente è facile nella vita, Gin. Ma, se hai la fortuna di avere tra le mani qualcosa per cui vale la pena lottare, allora…»
«E tu saresti quello che lotta?» mi infervoro.
«Sì» risponde, lapidario «Lo sto facendo per te, ogni giorno. Magari sbaglio, magari non sono perfetto, ma io ci metto tutto me stesso. Tu, invece, non lotti più. E sai quanto me che questa non sei tu, Gin»
 
Gli attacco il telefono in faccia, furiosa.
E ferita.
Perché lo so che ha ragione.
Devo prendere una decisione, ne sono consapevole.
E la questione, ridotta ai minimi termini, è semplice: o lo lascio andare, per sempre, o scelgo di buttarmi.
E, se mi butto, lo faccio davvero.
Mi basta formulare il pensiero per essere di nuovo assalita dai dubbi.
Gli ho detto che lo amo. Perché è vero.
Ma, se lo amo, allora cosa sto chiedendomi? Non ho già le risposte?
Oppure è vero il contrario: non basta l’amore?
 
Sì? O no?
Qual è la risposta giusta?
 
 
*
 
Quando raggiungo Ben sono ancora confusa e, pertanto, di umore litigioso.
 
Ma non faccio in tempo ad aprire bocca, perché lui mi viene incontro e mi afferra per un braccio.
«Vieni!» mi dice.
E inizia a camminare con quelle sue falcate lunghe, quasi trascinandomi.
«Dove andiamo?» chiedo.
«Zitta e cammina!»
Si volta per sorridermi, ma continua a tirarmi per il braccio.
Camminiamo veloci fino al parco di Porta Venezia.
«Che roba» borbotta lui, mentre avanziamo verso il laghetto «E questo lo chiamate parco? Ah, mi manca Londra!»
«Anche a me!» ansimo, mentre mi scosto i capelli dal viso.
Ben si ferma e si volta verso di me.
Mi solleva i capelli scompigliati dal collo e poi mi alza il cappuccio della felpa.
«Ehi, non fa così caldo…» mormora, improvvisamente dolce.
Appoggia le labbra sulla mia fronte e mi abbraccia e io, riluttante, mi accosto a lui.
Riesce persino a smorzare la mia voglia di litigare, il bastardo.
Mi sfrega le mani sulle braccia e sulla schiena, come a volermi scaldare.
Io non ho freddo, ma comunque lo lascio fare perché mi fa sentire protetta.
È così facile sentirsi bene, quando c’è Ben.
Se solo non ci fosse sempre quella vocina insistente che mi fa temere il peggio…
Dopo un po’, Ben allenta la stretta delle braccia e mi posa le mani sui fianchi.
Restiamo vicini – io con il capo sulla sua spalla e lui con il mento poggiato sui miei capelli – e sento la sua accarezzarmi dolcemente.
«Perché siamo qui?» mormoro.
È un giorno lavorativo e non c’è molta gente.
Essendo una giornata grigia, così tipica di Milano, anche i bambini presenti sono pochi.
E questo angolo di parco è molto tranquillo.
«Perché volevo stare un po’ con te» bisbiglia lui, in risposta.
Alzo il capo e gli sorrido, senza ironia.
Un sorriso vero.
«Ah… perché nei giorni scorsi non eri con me?»
Anche lui sorride.
«Ma io voglio stare sempre con te» risponde.
E mi bacia il naso.
«Per cui…»
Si zittisce e fa un passo indietro, lanciandomi un’occhiata strana.
«Sì?» dico io.
Lui fa un respiro profondo e poi dice:
«Stavolta voglio farlo bene, ti avviso prima»
«Cosa?» rispondo, perplessa «Cos’è che devi fare?»
Ben mi afferra una mano e la stringe forte.
Poi, lasciandomi senza parole, si mette in ginocchio.
«Cosa fai?» chiedo, attonita.
«Guai a te se scappi!» mi minaccia lui, serissimo, rafforzando la presa sulla mia mano.
Poi si infila l’altra in tasca e tira fuori un astuccio.
 
Chiaramente è un astuccio di Tiffany.
 
 
Io resto zitta, ma ho le gambe che tremano.
Non so bene cosa provo: è un mix di stupore per il gesto inaspettato, ansia al ricordo di una camera da letto americana in cui è avvenuta una scena tristemente simile e gioia all’idea che lui stia facendo il gesto più tradizionale e romantico al mondo.
Ok, lo so, mi è già successo.
Eppure… mi sento frastornata, come la prima volta.
 
Ben mi sta stritolando la mano, per cui faccio una smorfia.
«Non scappo» bisbiglio, con la voce ridotta a uno squittio.
Lui ha un’espressione concentratissima.
«Ok, bene» risponde, a fatica «Perché ho appena… No, seriamente, ho appena realizzato che per aprire la scatolina devo lasciarti la mano… Se scappi mi incazzo davvero, ok?»
Scoppiamo a ridere entrambi, lui sempre in ginocchio e io con la mano libera premuta sulla bocca.
Un signore anziano ci passa vicino e ci guarda sconcertato; noi ridiamo ancora di più.
Quando alla fine riusciamo a smettere io ho mal di pancia dal gran ridere e persino Ben, che è perfetto ed elegante in ogni situazione, sembra in difficoltà.
«Va bene» dice «Non doveva succedere. Ricomincio, ok?»
Le mie labbra tremano per un sorriso.
«Vuoi lasciarmi la mano, prima di ricominciare?» chiedo.
«Posso fidarmi?» chiede lui, con un’occhiata truce.
«Ah, non lo so» gli sorrido «La fiducia è una cosa che si conquista, non che esiste e basta»
Lui mi guarda malissimo e io ridacchio.
«Allora, cosa vuoi fare?» domando «Scegli di fidarti?»
Lui ci pensa su, poi la sua espressione si ammorbidisce.
«Io mi fido di te» bisbiglia.
Mi lascia la mano.
Le nostre dita si sfiorano in una lenta carezza e lui tiene gli occhi fissi nei miei.
Io non mi muovo.
 
Va bene, lo ammetto, per un nanosecondo l’idea di mettermi a correre mi ha attraversato la mente, ma solo per il piacere infantile di provocarlo, di fargli un dispetto.
 
Eppure… è così teso e ha un’aria talmente vulnerabile che non potrei mai giocargli un tiro del genere.
Resto immobile e lui prende fiato.
Continuiamo a guardarci negli occhi e all’improvviso gli chiedo:
«Perché mi guardi così?»
«Non mi ero mai reso conto della posizione di vantaggio in cui si trovano le donne, mentre noi stiamo inginocchiati per terra»
Io faccio una smorfia.
«Tu non sembri in svantaggio, se ti consola»
Dico davvero: sembra mangiarmi con gli occhi, sono io che mi trovo in difficoltà.
«Io sono in difficoltà da mesi, senza di te, ma pur di trovarmi qui, adesso, sopporterei qualcosa di molto peggiore»
 
Ormai lo sapete: io ho la tendenza a parlare sempre, a sproposito o meno.
E, anche adesso, mi viene voglia di dire qualcosa, ma mi mordo la lingua.
È giusto concedergli lo spazio per parlare.
Stavolta tocca a lui.
 
Mi sforzo di non incrociare le braccia per non sembrare ostile e vengo attraversata dal pensiero che probabilmente sembro un’idiota che non sa dove mettere le mani.
Poi mi esce tutto di testa, quando Ben mi rivolge un sorriso timido e dolcissimo.
Apre la scatolina e un diamante purissimo scintilla nella luce ovattata del giorno.
Io però quasi non lo guardo, perché sono troppo occupata a contemplare lui, l’espressione dei suoi occhi, la piega seria delle labbra.
Non l’ho mai visto così nervoso.
E, quasi mi avesse letto nel pensiero, la prima cosa che dice è:
«Non mi sento molto lucido, quindi scusami se dirò cose con poco senso»
Ho la gola secca, per cui mi limito ad annuire.
Lui prende ancora fiato.
«C’è un milione di cose che vorrei dirti e in questi giorni non facevo che pensare a come esprimere tutto, a cosa dire prima… E adesso ho la testa vuota e tutto quello che avevo provato non me lo ricordo più e, comunque, forse non aveva molto senso, per cui… L’unica cosa che io so con sicurezza è che ti amo. E l’unica cosa che desidero è avere te. Stare con te tutti i giorni. Io non voglio mai più stare lontano da te»
Mi lancia un’occhiata da sotto quelle ciglia lunghe e scure e prosegue:
«Quando te l’ho chiesto a Los Angeles… sì, l’ho fatto perché speravo di rimediare alla spaccatura che si era creata tra noi. Ma adesso… Io non mi sono mai sentito così. Io non voglio sposarti per non perderti né per convincerti che ti sbagli e che possiamo essere ancora felici. Io voglio sposarti perché senza di te niente ha senso. Il mio lavoro, la mia vita… E tutto quello che faccio. Non è bello, né colorato, se tu non ci sei. Non leggo, non mi piace la musica, i film mi annoiano. Quando tu ci sei, invece, c’è colore nella mia vita. Posso imparare dai miei errori, ma questo è un vuoto che non posso colmare da solo. Non voglio stare con te come un egoista che ha bisogno di qualcuno, ma come qualcuno che ha visto che differenza c’è tra stare con te e senza di te e ha capito che, senza, non ce la fa. Sei tu la persona che mi completa, Gin»
Esita un attimo prima di aggiungere:
«Mi vuoi sposare?»
 
Io sono senza parole.
Lo so, è già successo.
So anche che Ben per me ha fatto gesti mirabolanti e ha detto cose stupende, nel corso della nostra storia.
Eppure, stavolta è diverso.
Forse perché so che siamo davvero a un punto di svolta.
Questa domanda cambierà davvero le cose tra noi: da qui non si torna indietro.
E, guardandolo, mi sembra di non averlo mai visto deciso e sicuro come lo vedo oggi.
 
C’è un attimo di silenzio e, stavolta, è Ben quello che sembra non riuscire a tacere.
«So che hai paura» aggiunge, precipitosamente «Però, Gin, noi possiamo davvero cambiare le cose. Ho dato disdetta dall’appartamento a Los Angeles… E sì, in parte l’ho fatto perché a te non piace, ma anche perché questi ultimi mesi sono stati… Bè, non voglio tornarci. Possiamo andare insieme a Londra. Oppure possiamo stare qui, se vuoi. Io posso prendermi un anno, posso non lavorare e tu…»
«Ben!» lo interrompo «Aspetta, riprendi fiato! Vuoi continuare a parlare finché non dico sì?»
Sto scherzando, ma un’ombra passa nei suoi occhi.
«Potrebbe essere un’idea» dice.
Io mi passo una mano nei capelli.
«Ok, hai ragione» dico «È giusto che ne parliamo e che prendiamo una decisione definitiva. Alzati e…»
«No»
«Cosa?»
«Non mi alzo finché non mi rispondi»
«Oh, Ben, dai… dobbiamo parlare di tante cose e…»
Mi interrompo, perché vedo la sua aria decisa.
È testardo come un mulo, lo so bene.
Sospiro e scuoto la testa.
«Quindi, niente Los Angeles?» domando.
Lui annuisce.
«Lo sai che non voglio che rinunci a…» inizio, ma lui mi interrompe:
«Non voglio tornarci. O, almeno… Se lavoro ancora dovrò andarci per forza, ma non voglio vivere lì. Non fa bene né a te né a me. La persona che sono quando sto lì… Non sono io»
«Se però vuoi lavorare a certi livelli, è l’America il posto giusto»
«Sì. Però io voglio vivere a certi livelli, non solo lavorare. E, se per avere una grossa parte, devo pagare con la mia infelicità personale, allora…»
«Ma Ben, tu adori recitare!»
«Sì, certo. Non voglio smettere. Ma anche a Londra ci sono opportunità. Certo, non grandi come quelle americane, ma non è detto che le grosse produzioni siano per forza quelle giuste. Devo ammettere che, caratterialmente, io fatico a rapportarmi con quelle situazioni. Invece…. Se ti dicessi che ho ricontattato il mio manager a Londra per tornare in teatro?»
«Davvero?» chiedo, stupita.
Io adoro vedere Ben recitare in teatro: secondo me è un contesto molto più adatto a lui e lo fa emergere molto di più.
Mi sorride.
«So che tu sei a favore del teatro… Devo dire che anche il mio vecchio manager mi trova più adatto e non è giusto non ascoltare dei buoni consigli solo perché non dicono quello che io voglio sentirmi dire»
«Non posso permetterti comunque di fare un sacrificio del genere per me»
Lui fa una smorfia.
«Non hai capito, Gin. Io vado a Londra. Ci vado comunque, ma spero, davvero spero con tutto il cuore, che tu venga con me»
«Ma se poi lo rimpiangessi?»
«Non vorrei escludere il cinema del tutto. Ma, se ti va, possiamo tornare insieme in America per i miei casting. Anzi… se volessi cercarti un nuovo lavoro, che ne diresti di farmi da assistente?»
«Te lo scordi» rispondo, subito «Non saremmo d’accordo su niente e litigheremmo sempre»
«O magari no» obietta lui «So che è difficile crederlo, ma tu mi aiuti a controllare quel lato estremo di me che recitare non fa che amplificare. L’ho capito dopo, ma ora lo so. Tu sei il mio equilibrio, Gin. Io ho bisogno di te»
«Lo dici per convincermi»
«Lo dico perché la vita che possiamo avere insieme può essere fatta di viaggi, di lavoro, di famiglia. Noi due insieme. Tu per me non sei un pacco che devo portarmi dietro. Io voglio il tuo consiglio e voglio che tu sia con me, ovunque andrò»
 
Sembra così sicuro.
E io…
 
Sposto il peso da una gamba all’altra e Ben dice:
«Parliamo di quello che vuoi tu, invece»
«Lo sai cosa voglio»
«Secondo me non lo sai più nemmeno tu, piccola. E non urlarmi contro, perché lo sai che ho ragione. Tu vuoi stare con me?»
Io esito, ma penso che mi si legga in faccia la risposta.
«Se vuoi stare con me, abbiamo due strade: o mi dici di sì e mi rendi l’uomo più felice del mondo, oppure prendi tempo e mi costringi a trasferirmi nel tuo cortile, con gli effetti che già sappiamo sui vicini»
Mi scappa un sorriso.
«Se mi dici di no, invece» insiste «Non me ne andrò comunque e sarò costretto a perseguitarti… Fino a quando ci ripenserai e mi dirai che vuoi stare con me»
Mi viene da ridere.
«Ben, io…»
«Tu hai paura. Lo so. Ce l’ho anche io, cosa credi? Ma, tra averti e stare senza di te mi fa decisamente più paura la seconda cosa»
Ci penso su.
«Ti amo, Gin» dice Ben «Ti prego, permettimi di renderti felice. Non sbaglierò più, lo prometto!»
Stavolta rido davvero.
«Non puoi farmi una promessa del genere, Ben! Come farai a mantenerla?»
«Sposami e vediamo!»
«Non è una sfida»
«Allora sposami e obbligami a mantenerla» scherza.
«Non ci penso nemmeno!»
«E allora… sposami perché lo vuoi anche tu?»
 
Un’emozione improvvisa mi stringe la gola e gli occhi mi si riempiono di lacrime.
 
«Certo che lo voglio… Ma…»
«Gin, ti prego. Un altro “ma” potrebbe uccidermi. Fidati di me, vuoi?»
 
Lo so, mi ero ripromessa di non farlo mai più.
Ma guardo Ben, i suoi occhi sinceri, pieni d’amore.
Per me.
E tutto quello che mi tratteneva, tutte le mie paure scivolano via di fronte a quella prospettiva.
Tra averti e non averti, mi fa più paura la seconda cosa.
Ho già sperimentato come sto senza di lui.
E, se io lo voglio e lui anche, perché non dovrei credere che siamo forti abbastanza da combattere insieme, stavolta?
 
Prendo tempo e mi asciugo gli occhi.
Ben mi fissa, speranzoso, ma non so se la mia risposta potrà andargli bene.
«Dimostramelo» gli dico «Dimostrami che mi ami e che posso fidarmi di te. Quello che ti prometto io, adesso, è che non avrò pregiudizi»
Lui si rilassa.
E mi sorride.
 
Si alza (con una gamba dei jeans completamente imbrattata di fango) e viene verso di me.
Io faccio un passo indietro, ma lui mi prende la mano.
«Non azzardarti ad allontanarti da me» scherza, ma solo in parte.
«Non ho detto sì» rispondo io, guardinga.
Ben mi prende tra le braccia.
«Lo so» risponde, accarezzandomi il viso «Ma io sono un uomo fiducioso»
 
E mi bacia, impedendomi altre proteste.
 
  
 
***
Buongiorno!
Dico solo... meno uno!!
Vi ricordo che mi trovate qui: 
https://www.facebook.com/Joy10Efp?ref=bookmarks
E qui: http://dreamerjoy.blogspot.it/
Grazie di tutto, solo questo!
Buona lettura,
Joy

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Capitolo 32
*** Epilogo ***


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Devo dire una cosa: guardare Ben recitare dal vivo, su un set, è un’esperienza unica.
 
Oltre ad essere bravissimo, è anche educato e gentile e tutti gli vogliono bene (e non è vero che io sono di parte).
E, quando si cala nel personaggio e si estrania dal mondo, è eccezionale.
Non so come faccia ad ignorare tutta la gente che gli gravita attorno: anche se in scena è solo, o con un collega, qui gira gente di ogni tipo. È un delirio.
Io sarei imbarazzatissima, ma Ben è sempre a suo agio.
Adoro guardarlo.
 
Mi sistemo meglio sulla sedia, soddisfatta, e subito una premurosa ragazza mi si avvicina.
«Hai fame?» chiede, solerte «Sete? Posso portarti qualcosa?»
Scuoto il capo, ringraziandola a bassa voce.
Ecco, se c’è una cosa che mi sembra eccessiva è questo zelo.
Gente che ti ordina una macchina quando tu non ti sei nemmeno ancora alzato dalla sedia, o ti ha ordinato il pranzo quando tu stesso non sai neppure se hai fame.
Insomma.
Che esagerazione.
 
Questo dà fastidio anche a Ben, lo so.
Quando ne parliamo, anche lui è esasperato.
Poi, alla fine, ci ridiamo su.
A volte medito di chiedere qualcosa di davvero difficile (tipo pesto fatto con basilico coltivato espressamente sul terrazzo di casa mia), giusto per vedere fino a dove queste assistenti possono spingersi, ma alla fine lascio perdere e, al massimo, chiedo che mi trovino giornali italiani, così leggo notizie nella mia lingua.
 
 
Siamo a Budapest, dove Ben sta girando una miniserie storica per la televisione.
Trovo estremamente affascinanti le serie in costume e qui tutti sono gentili e amichevoli, per cui ci troviamo molto bene.
È una fortuna, visto che siamo qui da due mesi e dobbiamo restarci ancora parecchio.
Ben è felicissimo di questo lavoro: quando abbiamo letto insieme la sceneggiatura era entusiasta.
Adora la storia.
 
 
La regista urla proprio adesso uno STOOOOP! e tutti (operatori, fonici, macchinisti, addetti ai lavori, attori) riprendono a parlare tutti insieme, come se fino a un attimo prima fossero congelati.
Vedo Ben slacciarsi velocemente la redingote, parte del costume di scena, e sfilarsela dalle spalle mentre cammina a grandi passi verso di me.
Una costumista la acchiappa al volo per evitare che finisca per terra.
In maniche di camicia, Ben mi tende le braccia mentre io gli corro incontro.
«Ehi, ehi!» mi rimprovera, mentre gli stringo le braccia al collo «Cosa avevamo deciso a proposito del fare tutto con calma?»
«Tu lo hai deciso! E comunque io faccio tutto con calma!» ribatto, stringendolo.
Restiamo per un po’ zitti, abbracciati e fermi in mezzo a un turbinio di gente che corre in tutte le direzioni.
Poi Ben mi allontana appena da sé e mi bacia sulle labbra.
Ci stiamo ancora baciando, quando una voce gioviale ci richiama all’ordine:
«Ehi, voi due!»
Noi ci voltiamo, sorridendo, ancora abbracciati.
«Ciao Kari» la saluto.
 
Kari Skogland è la regista della serie e io la trovo davvero simpatica e paziente.
Per gran parte è merito suo se il clima qui sul set è così allegro e tranquillo.
È una donna dai modi spicci, ma è affezionata a Ben e me in modo sincero.
«Tutto bene?» mi dice ora, saltando i saluti «Quando abbiamo iniziato a girare questa mattina non c’eri…»
Malgrado le mille cose di cui deve occuparsi, è sempre premurosa con me.
«Solo perché avevo sonno e sono rimasta a letto» le sorrido «Davvero, sono solo pigra!»
Rivolgo un’occhiata significativa a Ben e aggiungo:
«Non dovete preoccuparvi. Nessuno di voi. Siete molto cari e dolci, ma anche alquanto assillanti e a me non serve una balia»
Stempero il rimprovero baciando Ben sulla guancia e lui sorride pentito, mentre la sua mano sinistra scende ad accarezzarmi la pancia.
Kari sorride, notando il gesto.
«Hai ragione, non dobbiamo starti addosso: sei perfettamente in grado di dosare le forze. Certo, hai sposato l’uomo più preoccupato e assillante del mondo, ma immagino che tu già lo sappia!»
Io scoppio a ridere e Ben fa una smorfia.
«Io non sono preoccupato né assillante!» esclama.
«Sì, è vero» concordo «È premuroso ma rigidamente inglese nel lasciarmi i miei spazi… O almeno, lo era finché non sono rimasta incinta»
Lui mette un finto broncio.
«Quante storie! Potrò preoccuparmi per mia moglie e mio figlio, o no?»
Kari scuote il capo.
«Gin, non so come fai. È dolce e tenero… Ma non so proprio come fai!»
Le sorrido.
Lei è nervosa e brusca come io non potrei mai essere.
«Veramente l’ho sposato perché è così meraviglioso… Ma non dirglielo, ok?»
Ridono entrambi e Ben mi bacia la fronte.
«E non ti ha detto quanto ho dovuto faticare per farle dire di sì» commenta.
«Mmmm… veramente ho ceduto subito» dico io.
Poi noto l’occhiata di lui, dolcemente esasperata, e rettifico:
«Quasi subito»
Ben – che è sempre stato l’inglese compassato che in pubblico è la discrezione fatta persona, almeno fino al matrimonio – mi bacia di nuovo.
Ci sorridiamo, guardandoci negli occhi, e Kari sbuffa, divertita.
«Ben, quando scendi sulla Terra potresti portare tua moglie a mangiare. Va bene che è forte ed energica, ma comunque deve mangiare per due!»
Lui annuisce e la ringrazia.
Kari gli dà sempre delle pause lunghe quando io sono in circolazione e cerca di condensare le scene girate in notturna da quando ha notato che io tendo a seguire Ben sul set.
Davvero, sembrano due chiocce.
Non vogliono che mi alzi presto (anche se, ad essere sincera, ho sempre un sonno incredibile, quindi spesso mi perdo le scene che girano all’alba), né che faccia tardi la sera o che non mi riposi dopo pranzo.
E fortuna che erano tutti preoccupati che la vita su un set cinematografico, per una donna incinta, poteva essere troppo stressante!
A tratti mi sembra di avere uno stuolo di balie qui raccolto solo per me.
 
Adesso, la regista mi fa una carezza sui capelli e si allontana.
«Hai fame, amore?» mi chiede Ben «Andiamo a mangiare? O vuoi tornare in albergo?»
«Dipende da quanto sei stanco tu» rispondo, intrecciando le dita alle sue «Giri da ore… Io invece non faccio che dormire!»
«Piccola, è normale che tu sia stanca, lo sai. E meno male, perché ero così preoccupato all’idea che queste riprese ti stancassero troppo…»
«Tesoro, ma se non faccio che passare dal letto a comode sedie e dalle sedie al letto! Non preoccuparti!»
Lui ha sempre un’espressione tormentata.
«Ma durano tanti mesi e siamo lontani da casa e poi…»
Gli poso un dito sulle labbra.
«Sì, e poi è un’occasione fantastica, il clima è bello, il progetto è interessante, le persone sono fantastiche e mio marito ha la possibilità di ricoprire un ruolo intrigante. In più io e tuo figlio stiamo benissimo e non vorremmo essere da nessun’altra parte, per cui non vedo cosa ci sia da preoccuparsi»
Lui sorride.
«Va bene, la smetto»
Ci sorridiamo, guardandoci negli occhi e, come sempre, il mondo circostante scompare.
Ho ancora le farfalle nello stomaco (oltre al bambino) ed è una cosa meravigliosa.
 
«Ehi, piccioncini!»
Ancora?
Ecco… L’altra cosa di cui potrei lamentarmi del set è che non c’è privacy.
Non che io e Ben dobbiamo nasconderci, è chiaro.
 
È Neal Cassidy, un collega di Ben.
Ci si avvicina e mi sfiora la pancia.
«Ehi, ciao, bambino misterioso!» dice «Allora, di’ la verità: sei un maschio o una femmina?»
Io e Ben ridiamo.
Abbiamo deciso di non chiedere il sesso del bambino, ma qui tutti fanno scommesse a ripetizione.
Neal mi chiede come sto, poi intavola con Ben una conversazione sulla prossima scena che gireranno insieme.
Mio marito mi abbraccia e all’improvviso, nel mezzo di una frase, si zittisce.
Sposta una mano sulla mia pancia e io la copro con la mia.
Ci rivolgiamo uno sguardo di adorazione pura.
«Scalcia?» ride Neal.
«Eccome!» sorrido io.
Ben mi stringe forte.
«Allora, Barnes, che effetto fa?» chiede l’altro.
Ben sembra faticare a trovare le parole:
«È come se… Non so, sai che il bambino c’è, ma è come un’idea astratta. Voglio dire, io sono sempre io, non lo sento dentro di me. E poi lo sento scalciare e…»
Non trova le parole, ma Neal sorride.
«Bene, vi lascio soli. Il vostro tempo insieme è già abbastanza contato senza che io vi tenga qui, in piedi. E poi, Gin, devi riposarti»
 
Io roteo gli occhi.
Un altro.
 
Lo salutiamo e andiamo a mangiare.
Potremmo andare in mensa, con tutti, ma quando possiamo preferiamo salire in camera, in modo da stare un po’ soli.
Mangiamo e poi finiamo sdraiati sul letto, stretti uno all’altra.
Ben posa subito le mani sulla mia pancia.
«Che terremoto!» sorride, quando il bimbo tira un calcio.
Ho appena mangiato, quindi è iperattivo per via delle calorie.
Io mi rannicchio tra le braccia di Ben e sospiro, felice.
Lui mi prende una mano, la bacia, e raddrizza il solitario che brilla al mio anulare, vicino alla fede.
Poi infila una mano sotto gli abiti e si sfila la catenina sottile cui appende la sua vera nuziale quando recita.
Gli prendo l’anello di mano e glielo infilo all’anulare.
Lui mi sorride e si china a baciarmi.
«Mmm» mormoro, dopo un po’ «Resta qui con me, ti prego»
Lui affonda una mano nei miei capelli, chinandosi a baciarmi di nuovo.
«Se fai così» mormora, con le labbra sulle mie «Non scenderò più. Verranno a cercarci. Questa serie durerà all’infinito»
Io ridacchio.
«Bè, qui si sta bene…»
«Gin» fa lui, subito serio «Ancora due mesi e poi torniamo a casa. Non parliamo di ritardi perché uscirei di testa. L’ho già detto a Kari: altri due mesi e poi io ti riporto in Italia, riprese o non riprese»
«Ma lo sai che può succedere che le riprese accumulino del ritardo e…»
«Piccola» mi interrompe, categorico «Sei già di sei mesi. Tra due mesi sarai di otto e io non voglio rischiare che il bambino nasca lontano da casa. I tuoi e i miei ci uccideranno!»
«Uffa» borbotto io «Siete tutti dei rompiscatole. Io sto benissimo e il bambino anche, alla faccia delle tragedie che hanno fatto i nostri genitori quando siamo partiti»
 
Quando siamo arrivati a Budapest io ero già incinta di quattro mesi e le nostre famiglie hanno urlato allo scandalo all’idea che passassi quattro mesi su un set.
Invece è tutto meraviglioso e, fosse per me, ci passeri anche un altro anno.
Ma, ovviamente, il bimbo ha la precedenza.
Abbiamo deciso che partorirò in Italia e che staremo lì per almeno il primo anno del bambino.
Quando ci siamo sposati, un anno fa, abbiamo abitato per un po’ a Londra, mentre Ben recitava in teatro, e il resto del tempo lo abbiamo passato in Italia.
Però siamo consapevoli che dovremo garantire al bambino un po’ di stabilità.
 
«Io e il bambino possiamo venire con te sul prossimo set?» lo prego.
Ben mi accarezza la guancia.
«Amore, non voglio girare niente finché sarà piccolo… Per almeno un anno e mezzo o due voglio stare a casa con te»
Io sorrido.
«Ma dopo possiamo venire?»
Lui si appoggia sul gomito per guardarmi e i suoi occhi splendono d’amore.
«Certo» mormora «Io non voglio stare lontano da voi»
 
*
 
E così, alla fine, io e Ben ci siamo sposati.
 
La vera ansia era vivere senza di lui, me ne sono resa conto quasi subito.
Accantonata la rabbia e il desiderio di ferirlo, cosa restava?
Solo l’amore.
Mi sono re-innamorata di lui in un attimo, come la prima volta.
Dico re-innamorata, sebbene io non abbia mai smesso di amarlo, perché tutto quello che era successo a Los Angeles ci aveva allontanati e aveva scavato un solco tra noi, ma, una volta deciso che lui restava il centro del mio mondo, è svanito tutto ed è rimasto l’amore.
 
È rimasto lui.
 
Solo Ben, come sempre.
 
Perché, in fondo, c’è una sola ragione per tutto questo e la mia ragione, come sempre, è solo lui.
 
 
 
***
Questa è la storia più personale e introspettiva fra tutte quelle che ho scritto e la prima cosa che voglio dirvi oggi è che non riesco ad esserne soddisfatta.
Vorrei essere stata capace di dare a Gin tutt’altro spessore, di renderla più vivida e viva…
All’inizio era un tormento, poi semplicemente ho deciso di fregarmene e di lasciar correre le dita sulla tastiera del pc… Fino ad arrivare qui.
Non voglio sembrarvi a caccia di compimenti: davvero sono talmente coinvolta in questa storia da non riuscire a valutarla;
posso solo dire che il sostegno delle mie meravigliose amiche, dono di Efp, mi sono sembrato a volte così immeritato da confondermi, persino.
E sì, dico a voi, mie meravigliose Susan, Nadie e Clairy! 
Se non fosse stato per voi, questa stesura sarebbe stata ancora più faticosa.
Grazie per ogni istante che passate con me <3
E grazie a tutti voi che mi seguite, leggete o che siete capitati qui per caso: siete un vero, meraviglioso dono!
Gin e Ben al momento vanno in pausa… 
Questo percorso è stato catartico per certi versi e sebbene io sia convinta di aver scritto di meglio, il meglio avrei voluto darlo alla mia Gin.
Se saprò farlo in futuro ne sarò felice.
E spero sempre, e ancora, che sarete con me.
Grazie a tutti,
Joy
 
 
 
 

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