Out of the blue

di Aisidion
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** All-time low. (V) ***
Capitolo 2: *** This is what I like to call insanity. (M) ***
Capitolo 3: *** They'd kill to see you fall. (M) ***
Capitolo 4: *** Dead flowers. (V) ***
Capitolo 5: *** Toxicity ! (V) ***
Capitolo 6: *** I'm tired so let me be broken. (M) ***
Capitolo 7: *** 11 aprile, giornata estetica. (M) ***
Capitolo 8: *** GIMME YOUR HANDS, 'CAUSE YOU'RE WONDERFUL! (V) ***
Capitolo 9: *** Comequando fuoripiove. (V) ***
Capitolo 10: *** Exile. (M) ***
Capitolo 11: *** You don't remember!, you don't remember!, why don't you remember my name? (V) ***
Capitolo 12: *** I think I'm paranoid and complicated. (V) ***



Capitolo 1
*** All-time low. (V) ***








I've never done good things
I've never done bad things
I never did anything out of the blue
Want an axe to break this ice
Wanna come down right now
Ashes to ashes, funk to funkie
We know Major Tom's a junkie
Strung out in heaven's high
Hitting an all-time low
 
 
Depressione senza fine: all-time low. Parlava di questo, David Bowie, nella sua canzone che amo di più; Ashes To Ashes, dall'album Scary Monsters And Super Creeps. E' del 1980, ma a me piace pensarlo come del '79: ultimo sprazzo di quella follia trasgressiva, lancinante e radicale che aveva elettrizzato gli anni Settanta. David li aveva cavalcati con maestosa creatività, a fianco del suo alter ego teatrale Ziggy Stardust, emblema della rockstar media che dopo l'enorme successo si lascia completamente andare a sè stessa, percorrendo un cammino che spesso fa rima con droga, alcohol e morte. Eclettico e visionario, fu il primo ad affrontare questo tema e al tempo stesso a distaccarsene prudentemente: Ziggy Stardust lo stava annientando a poco a poco, e pochi anni dopo fu costretto ad inscenare il suo suicidio in un concerto. In Ashes To Ashes viene invece ripreso un altro personaggio fittizio, di 11 anni prima: l'astronauta Major Tom. L'avevamo lasciato in attesa di atterrare sul suolo lunare...Ricordate? 
"Ten, nine, eight, seven, six, five, four, three, two, one, liftoff. This is Ground Control to Major Tom"...
 Lui che pregava di riferire alla moglie che la amava molto più di quanto non credesse, si accorge ormai troppo tardi di essere stato solo manipolato, sfruttato; un burattino vittima di un disegno ben preciso, ossia quello di una campagna mediatica sulle missioni spaziali. L'astronave è in orbita, non atterra più; il mite Major Tom si ritrova ad essere il protagonista di un orribile incubo. Letteralmente, stando al testo: L'"urlo del nulla" mi uccide/ [...]Oramai relegato nell'infinità del cielo/ Attraverso una depressione senza fine.
Il rock progressivo fa il resto: la canzone non avrebbe la stessa carica struggente, disillusa e amareggiata senza le acide e stridule chitarre dal motivetto ripetitivo, ma indimenticabile. Un po' da thriller, a dirla tutta; e infatti il gusto dell'orrido è anticipato dal titolo dell'album. L’avrò ascoltata più o meno un centinaio di volte, ma… W-O-W.
Non c’è niente che equivalga le pulsioni vitali che emana questa canzone, e che trasferisce per via diretta nelle mie viscere semplicemente attraverso il senso dell’udito. Il risultato? Ogni volta che ascolto, mi sembra di capirmi meglio. E non solo me stessa, ma tutto il mondo.
A parte che è sempre stato il mio senso migliore, l’udito. Miope come pochi, con un tatto quasi nullo –e non intendo in senso letterale-, un gusto soggetto a cambiamenti repentini. L’olfatto pure non mi salverebbe  la vita in nessuna situazione.
Ma non bastano i cinque sensi, per navigare nell’oceano della realtà, e di questo me ne sono resa amaramente conto nella prima pubertà.  Passai numerosi anni a chiedermi se non sarebbe stato meglio avere un’infanzia non dico terribile, ma reale, invece di essere vissuta il più possibile nella bambagia. Figlia unica? Spesso mi chiedono; si, e allora? Rispondo, scontrosa. Ma poi realizzo che forse qualcosa c’entra. Ero molto idealista e orgogliosa di me, proprio come adesso: solamente, non avevo mai vissuto nessuna DELUSIONE. Non sapevo proprio che volesse dire. Mentre ora, ci nuoto dentro, per dirne una. E’ facile fare il collegamento mentale adolescenza->ragazzo->delusione.
Già. Ma anche certe “amiche” non scherzano.
Ma la musica no. Quella non delude mai. E sono sicura che anche lei la pensa esattamente come me.





 

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Capitolo 2
*** This is what I like to call insanity. (M) ***


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Capitolo 3
*** They'd kill to see you fall. (M) ***


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Capitolo 4
*** Dead flowers. (V) ***





 


Well, when you're sitting there
In your silk upholstered chair
Talking to some rich folks that you know
Well I hope you won't see me
In my ragged company
You know I could never be alone

Take me down little Susie, take me down
I know you think you're the queen of the underground
And you can send me dead flowers every morning
Send me dead flowers by the mail
Send me dead flowers to my wedding
And I won't forget to put roses on your grave






Una delle esperienze più alienanti che una persona possa fare nell’arco di un’esistenza è non riconoscere più un amico. Mi balzano alla mente i Pink Floyd quando, dopo la produzione di “Wish you were here”, nel leggendario 1975, non riconobbero assolutamente l’ex membro del gruppo, Syd Barrett, apparso improvvisamente negli studi di registrazione. Eppure era proprio lui; in mano una busta della spesa, appariva ora come un individuo anonimo, depresso, malato; completamente calvo, grasso e con le sopracciglie rasate come se avesse voluto sradicare a forza ogni traccia di espressione dallo sguardo vivace e scintillante che lo aveva sempre caratterizzato. Non lo riconobbero.
Forse David Gilmour avrebbe però preferito non riconoscerlo per primo. La verità, si sa, è sempre così dannatamente nuda,  così ferocemente semplice. Forse sarebbe stato meglio crogiolarsi nell'illusione che quell’uomo dal pallore malsano e dallo sguardo vitreo fosse un comune passante, o meglio, un ammiratore: sì, un fan che si era introdotto a forza negli studi per conoscere il suo gruppo preferito al completo. Invece no, era proprio uno di loro, anche se l’aria da ospedale che esalava indossando quella camiciola bianca si trovava ad essere ancora una volta terribilmente aliena dall'eccentrico e stravagante taglio degli abiti risalenti agli anni più genuini dei Pink Floyd, spesso enfatizzato da tinte scure. 


Penso di aver provato una sensazione simile, quel pomeriggio. Erano le due meno un quarto di un torrido, plumbeo 31 maggio, e stavamo camminando verso casa sua, la mia amica ed io; eravamo da poco uscite da scuola, e avevo bisogno di un libro per preparare un'ultima, estenuante interrogazione di recupero. Quel libro era il motivo per cui mi stavo dirigendo a casa sua: niente più, niente meno. Erano anni che non andavo da lei per qualcosa che non fosse scolastico o burocratico o diplomatico. Ma fu in quel momento che ebbi la netta sensazione di parlare con un estraneo imprecisato.


Fino a quel momento, mi ero costretta a pensare che sì, lei era sempre la stessa, preferiva magari uscire con altra gente ma era sempre la mia amica delle medie, con la quale ogni giorno sopportare la monotonia era più facile, con cui parlavo ore ed ore al telefono, d'estate, perchè non c'era più la quotidianità scolastica, e con cui ridevo in continuazione, mi divertivo e andavo al cinema il sabato pomeriggio. Insieme fin dalle elementari, ci eravamo divise al liceo, ma il rapporto era sopravvissuto al limbo della lontananza e continuava ad esserci. Sembravo mancarle molto, e quando per me fu il momento di cambiare scuola, mise anima e cuore nel convincermi a venire nella sua. Vedrai ti piacerà, hai fatto l'iscrizione?, mi manchi troppo, ti amo!: queste frasi sono ancora ben marchiate, a ferro e fuoco, nella mia mente.
Peccato che, una volta decisami a iscrivermi in quel liceo e in quella classe, iniziò deliberatamente a ignorarmi. Come la cartuccia del Game-Boy se ti cadeva per terra, sembrava aver cancellato i dati relativi al nostro rapporto. Inizialmente, mi chiesi dove sbagliavo per ottenere la sua indifferenza. Ero troppo diversa da alcune compagne altezzose di quella classe, alle quali lei passava i compiti in cambio di un invito a uscire con loro? Pareva proprio così. Forse perchè mi vestivo esattamente come mi tirava ogni giorno, magari con magliette di un gruppo musicale che esprimesse la mia identità, invece di seguire sempre e comunque la massa. Forse perchè non mi davo da fare a farmi conoscere il più possibile dentro quella scuola, e per conoscere intendo il senso carnale del termine. Non che lei ci riuscisse, per carità. Il suo era un mimetizzarsi, un confondersi, un annullarsi, in un gruppetto di oche pronte a diffamare chiunque non ne facesse parte. E io le ero servita come appoggio, era questa la sconvolgente realtà dei fatti. Un'amica ancora più sfigata di lei, ancora meno inserita di lei, che la elevasse al cospetto delle oche, per far vedere che anche lei aveva qualcuno e che, al momento buono, poteva distaccarsene quando le pareva. Un sussidio, una scala, un montacarichi.


Soffrii, e anche molto. Poi cominciai a pensare che lei non aveva il diritto di farmi tutto questo, gratuitamente. E presi a infischiarmene. Ma non c'era ancora stato il punto di non ritorno: l'amara consapevolezza che la persona che ti camminava a fianco era una sconosciuta.


"Come va con quel ragazzo?" Ci stava chattando prima, in autobus; le feci quella domanda per colmare un po' gli eventuali vuoti che si sarebbero potuti creare. Fino a due anni fa, era pazza di lui.
"E' un cretino, infatti guarda, mo' non gli rispondo più."
"Perchè? A me sembrava interessante."
"Ma dai, viene da una famiglia veramente di bassa estrazione sociale, non hanno manco un libro in casa. Non capisco se è perchè non c'hanno un soldo o perchè sono ignoranti."
"Embè, magari lui è un ragazzo in gamba."
"Se, come no, è stato pure bocciato tre volte!"
"Magari ha comunque un sacco di interessi, la scuola non è tutto. Con Daniele sei amica, anche se ora lavora e fa il cameriere."
"Ma Daniele ha una famiglia importante. Sai che suo padre è un dirigente?"
"Ah, gli sei amica per quello?"
"No, ma che c'entra! Però la cultura ti forma la mente, non la puoi rifiutare così."
"Ma magari lui è comunque coltissimo."
"Assolutamente no! Non si farà mai una carriera così, non si farà mai una famiglia. La cultura ti forma la mente..."
"...Ma non il cuore! Se sei una brava persona non hai bisogno di tre lauree per farti una famiglia."
"Insomma, lui è una capra, e io non voglio frequentare uno così."
Era come parlare con una delle spocchiosissime madri di famiglia di "Orgoglio e pregiudizio". O con un muro di gomma; potevi anche ordinargli di prendere la palla con un atteggiamento da generale nazista, ma lui te la rispediva indietro il 100% delle volte. E le sue risposte, che percepiivo monotone e inflessibili come le note di un disco rotto, provenivano da un luogo a me totalmente ignoto...Che non era il suo cervello, nè la sua mente. 
Ricordo che subito dopo, dei corvi presero a gracchiare. Me li immaginai stagliarsi, con le loro sagome aguzze, nerissimi e lucenti contro il cielo fosco. Uno scenario di morte; potevo forse loro dare torto? Era la morte della libertà di pensiero della mia ex-amica.


Beh, quando te ne stai seduta là seduta sulla tua sedia tappezzata di seta
A parlare con qualche ricco popolare che conosci
Beh, spero che non mi vedrai nella mia logora compagnia
Sai che non potrei mai stare solo


Vieni a prendermi piccola Susie, vieni a prendermi
Lo so che pensi di essere la regina della metropolitana
E puoi spedirmi fiori appassiti ogni mattino
Mandarmeli per posta, mandarmeli al mio matrimonio
E stai sicura che non dimenticherò di mettere delle rose sulla tua tomba



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Capitolo 5
*** Toxicity ! (V) ***



 


Conversion, software version 7.0, 
Looking at life through the eyes of a tire hub, 
Eating seeds as a past time activity, 
The toxicity of our city, of our city, 
 
New, what do you own the world? 
How do you own disorder, disorder, 
Now, somewhere between the sacred silence, 
Sacred silence and sleep, 
Somewhere, between the sacred silence and sleep, 
Disorder, disorder, disorder. 
 


Era un concetto talmente importante che decise addirittura di scriverlo alla lavagna, per poi rimarcarlo due o tre volte col gesso, un cilindro di bianca sabbia arida, secco e sdrucciolevole. Per un secondo scarso, il quadrante dell’orologio riverberò la luce di un lampo: le nove e quaranta di un plumbeo, arrugginito lunedì di fine settembre. Come promesso da tempo, dopo qualche minuto una pioggia torrenziale prese a scrosciare incessantemente, e la prof non poté fare a meno di tirare in ballo la variabilità atmosferica degli ultimi tempi per accattivare il suo discorso; gli occhi le brillavano quando capiva che la metafora che stava facendo era azzeccata, due occhietti ibridi puntuti e vivaci, e un sorriso forzato le tagliava il profilo in un’espressione melodrammatica, quasi teatrale. Sì, era decisamente un’attrice mancata.
-Panta rei. Tutto scorre, o meglio ancora; tutto cambia. E’ chiaro?
La ragazza spalancò gli occhi di riflesso; un forte flashback le si impose a forza nella giovane memoria.
Faceva la terza media quando aveva sentito parlare per la prima volta di Eraclito e del suo scritto più famoso, e se il ricordo le era rimasto così impresso era perché le era presa la mania di registrare i professori col cellulare; aveva addirittura rischiato di non essere ammessa agli esami, perché la madre di una sua compagna aveva fatto la spia. Che stronza che era, pensò. Nel mirino c’erano quella di inglese, che talvolta imbastiva prediche di una moralità improponibile per dei ragazzini di tredici anni, e quella di spagnolo, con quell’accento di borgata che faceva sbellicare tutti. Le sue registrazioni avevano avuto un discreto successo a scuola, in palestra lei le faceva sentire alle amiche; improvvisamente riudì le loro risatine isteriche e, a dirla tutta, tirate; a differenza sua, loro il buon senso ce l’avevano eccome. Sorrise tra sé e sé.

Era davvero un’ottima scusa per registrare lui.

Era il suo prof preferito, il primo e l’ultimo ad averle fatto amare la filosofia. E anche la religione, perché fondamentalmente era quella la sua cattedra. In una scuola paritaria cattolica come quella, si trattava di due ore abbastanza intense: ma a dir la verità, era la sua presenza stessa, enigmatica e forte e affascinante e inimitabile, a farle amare ed imparare con estrema passione tutti i concetti che lui sciorinava con altrettanto ardore. Forse calcava troppo la mano con la filosofia: dopotutto, era una classe acerba di una scuola media, formata da ragazzini vivaci e scanzonati, dei quali una buona parte sarebbe finita al professionale e un’altra al tecnico. Nella sua mente sentì premere il pulsante play di un file ormai impolverato e archiviato da fin troppo tempo: una sua registrazione amatoriale e grezza, anche se il Nokia che aveva all’epoca era piuttosto all’avanguardia, dove però la sua voce profonda e nobile, probabilmente la più calda e sensuale voce di uomo che le sue orecchie ebbero la fortuna di poter ascoltare, tagliava nettamente il silenzio che doveva esserci in  classe e che segnalava una certa autorità da parte dell’insegnante. Bastava la sua voce, a renderla in grado di poterlo amare.

Ancora …

Come se tutti i parametri temporali, spaziali, tutti i vincoli e i limiti dei quali lui amava riempirsi la bocca non fossero mai esistiti davvero: un enorme, chiassoso abbaglio, una messinscena fin troppo ardita manovrata dal suo cervello. Si ritrovò a pensare che solo ed esclusivamente l’amore ha a che fare, in un modo arcano e senz’altro soprannaturale, con l’immortalità. Durante le sue orazioni –ah!, è infatti troppo riduttivo chiamarle spiegazioni-, lui batteva il chiodo sul fatto che Dio è immortale e che anche l’amore lo è, quindi Dio è amore. Sentiva i brividi sulla pelle, sentendogli pronunciare la parola amore. Ma la ragazza aveva smesso ben presto di credere in Dio, o forse le era sembrato sempre di crederci ma, anche in questo caso, si trattava di un pretesto per tentare di entrare nel mondo dell’uomo che amava, per penetrare nei meandri più reconditi della sua mente eclettica e stimolante e tuttavia perfettamente incline a credere in qualcosa che, secondo lei, non era razionalmente possibile. Puoi metterci in mezzo anche il tuo caro Dio, fatto sta che io ti amerò per sempre, pensava, e si sentì sconfitta in partenza in questa battaglia con un sentimento più sconfinato del cosmo intero, sul quale regnava sovrano. Un altro lampo, con conseguente boato, la ridestò dai suoi pensieri.

Sì, certi rapporti erano tossici: e più pensava a questa affermazione più sentiva il forte desiderio di accendersi una sigaretta nel cortile di scuola. Toxicity, scrisse in un carattere pseudo street-style sul quaderno di greco, e adornò la scritta di simboli pacifisti e rock. Inevitabilmente, nella sua mente si stagliò netto un fotogramma, quello di uno sguardo scuro quanto il suo, un po’ vacuo poiché saturo di troppe cose che si potessero individuare tutte nello stesso istante, per cui alla fine ti lasciava sempre quel senso di vuoto interiore.  

Cosa era cambiato da allora?

Si rimproverò quasi all'istante di aver formulato quella domanda così retorica e ambigua allo stesso tempo; la risposta poteva essere tutto come niente. Da una parte, era indubbiamente più adulta e responsabile, infinitamente più sicura di sè, per non parlare della cultura che si era fatta, volente o nolente, stando a marcire in quel liceo classico. Aveva avuto delle storie semiserie di amore, era in grado di guidare una macchina, sapeva gestire qualche contante e poteva bere quanto le pareva. Eppure, davanti all'amore era ogni volta tredicenne: come se a quell'età avesse solo iniziato una lunga relazione travagliata con la droga più potente al mondo. Che luogo comune, pensò; ma niente più dell'amore poteva essere paragonato a una sostanza tossica di cui abusare continuamente e senza più freni inibitori, eliminati dalla sostanza stessa. 

Non importa a che età hai iniziato, ormai ci sei fin troppo dentro da poter fare finta di essere in grado di smettere anche domani. Solo quando te ne inquini il corpo fino all'inverosimile puoi dire di essere in pace col mondo; allo stesso modo, puoi dire di essere stato all'inferno solo nel momento in cui te ne privi all'improvviso. E' il tuo stesso corpo a rigettare la droga, fosse per te ti faresti fino alla fine dei tempi, ma ti fa stare male, troppo male, il fisico non la regge proprio. Ma il tuo cervello ormai è arenato, e rincari le dose in nome di un'appannata ricerca della felicità più estrema. Ah!, quanta imprudenza! Eccoti in overdose. Ora la tua vita è appesa a un filo, forse sei già morto ma non te ne sei accorto, e la sofferenza subita rasenta la dimensione del sovrumano. Ormai soffri al posto di mangiare, soffri al posto di dormire e al posto di respirare. Il tempo passa, e ti ritrovi ad ammettere che sei sopravvissuto. Ora si tratta solo di superare qualche crisi temporanea di astinenza, e sai già che ce la farai. Dopotutto, quella sostanza non era poi così speciale, e puoi farne tranquillamente a meno. E riprendere a respirare, piano, dopo una salita che ti ha fatto mancare l'aria.









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Capitolo 6
*** I'm tired so let me be broken. (M) ***


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Capitolo 7
*** 11 aprile, giornata estetica. (M) ***


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Capitolo 8
*** GIMME YOUR HANDS, 'CAUSE YOU'RE WONDERFUL! (V) ***


 
Dice che le sue vene sono autostrade, per quanto sono sporgenti.
 
Non si immerge in acqua a meno che non sia molto calda, in modo da essere un pesce bollito quando esce.
 
La sua ragazza del liceo era anoressica-bulimica.

La sua ragazza del liceo si chiamava Francesca.

Ha una fossetta sul mento, una sul naso; anche le sue guancie sono state pizzicate dagli angeli.

Devo assolutamente scoprire se ne ha anche sulla schiena.

Dice di non aver mai fumato una sigaretta in vita sua.

Sull’alcool, invece, non ha mai detto una parola. 

E’ ossessionato dal tempo che passa.

I suoi fratelli hanno uno dieci e uno quindici anni più di lui.

Ama i cantautori italiani.

Dice che da adolescente era molto vergognoso.

Lo è anche ora.

Non so cosa darei per vederlo vergognarsi profondamente di sé. Quelle poche volte che è successo, è stato sublime.

Ha fatto volontariato per dieci anni, con dei malati di Alzheimer; ha smesso perché stava invecchiando con loro.

Suo padre era un pittore.

Ha finto di offendersi quando ho detto che non aveva preso da lui.

Col tempo la sua adorabile pronuncia toscana si è affievolita.

Dice che si considera un romano adottivo.

Cammina perfettamente.

Dice che quando avevo quattordici anni gli sembravo l’incarnazione della donna-angelo.

Si è sempre stupito per la magrezza dei miei polsi, delle mie mani e delle mie caviglie.

Diceva che l’apparecchio da denti mi stava bene.

Una volta, per farmi una specie di complimento, si è lanciato in una metafora assurda, dicendo che nel mio caso l’intelligenza era inversamente proporzionale al peso.

Non sa fare i complimenti.

Ha una scrittura criptica, minuta, dinamica, inclinata verso destra.

Non è di destra, anzi.

E’ anarchico.

E’ femminista.

Quando mi ha detto di essere femminista avrei voluto abbracciarlo.

Il suo colore preferito è il rosso.

Dice che il protagonista de Il rosso e il nero di Stendhal è lui.

Un giorno leggerò Il rosso e il nero.

Ha una fenice tatuata sull’avambraccio destro, ma io non l’ho mai vista.

Se l’è fatta tatuare dopo la prima laurea.

Mi chiedo da cosa sia risorto, quali siano le ceneri della sua vita.

Indossa sempre scarpe di cuoio, nere, a punta, delle quali ha chissà quante paia. 

Io ne ho contate tre diverse.

Le sue mani sono affusolate, agili, inquiete, di un’eleganza straordinaria.

E’ nato sotto il segno dei Pesci, del quale condivide ogni  caratteristica.

Ha una fede inossidabile, che rispetto anche se francamente non capisco.

Ha i capelli lisci, castani e sottili.

E’ laureato in lettere classiche e teologia.

La sua voce è calda, profonda, accogliente.

Dice che non si vede né come marito né come padre.

Penso che in realtà potrebbe essere un ottimo padre.

Quando gli ho chiesto se fosse gay, ha negato con tutte le sue forze.

Vorrei che capisse che per me non c’è nulla di male.

Vorrei che capisse che di me si può fidare.

Vorrei che capisse che con me può lasciarsi andare.

Vorrei che capisse che lo amo come nessuno ha mai amato nessuno.

Le sue guancie sono di una morbidezza inaudita.

Fa di tutto per essere in forma.

Per quanto mi sforzi, non riesco a immaginarlo con una donna della sua età; preferirei vederlo con un uomo.

E’ alto un metro e ottantatre.

E’ sottopeso.

E’ piuttosto narcisista.

Non si rende conto che questo nasconde una profonda insicurezza.

Ha posato come modello.

Un giorno ha insinuato che chissà, forse un giorno potrei vedere le sue foto degli anni da modello.

Non le ho ancora viste.

A volte, penso che il suo sia stato un atto mancato di esibizionismo.

E’ l’unico cattolico che conosco che non è allo stesso tempo bigotto.

Penso che creda per aggrapparsi disperatamente a qualcosa, per non lasciare che i suoi tormenti lo divorino.

So solo che ci farei l’amore, con i suoi tormenti.

Forse sarebbe tutto più semplice se non ci fossero quei dannati vent’anni di differenza.

Se avesse la mia età, sono certa che non mi piacerebbe nemmeno lontanamente. Non sarebbe lui.

Non siamo né amici, né amanti. Siamo qualcosa.

Amo quel qualcosa.

Quando ce l'ho davanti, vorrei semplicemente urlargli: “Dammi le tue mani, perché sei meraviglioso”.

A primo impatto non si direbbe affatto un uomo profondo.

A primo impatto è colloquiale, quasi invadente, scherzoso, frizzante.

Con me, non ha problemi a mostrare la sua vera anima.

Ha il tic di mangiarsi le unghie.

Sorride spesso.

Ha una risata sguaiata.

Mi ha sempre consigliato libri e film dalle forti emozioni.

I suoi occhi sono incavati, color dell’ambra, a tratti tagliuzzati di verde.




 

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Capitolo 9
*** Comequando fuoripiove. (V) ***


 
6 luglio 2013
H 17:00
 

Perché nessuna parola è in grado di descrivere la sensazione che si prova quando piove?

 
Forse lui lo sa; gliel’ho appena chiesto via messaggio, anche se non avrei dovuto cercarlo. So già che non mi risponderà. C’è chi aspetta la pioggia per non piangere da solo, aveva osservato Jim Morrison. Sono una di quelle persone.
 

H 19:58
C. V. D., non mi ha risposto. La mia vita sa di schifo ora. Continuo a stillare lacrime dagli occhi, non vedo l’ora di essere al pub solo per poter bere. Anzi, comincio a bere da ora, in modo da essere subito un po’ brilla: ma quanto sono intelligente! 
Questa vita mi va stretta; da domani comincio a leggere libri. Sono già a metà bottiglia, sento lo stomaco frizzare, le gambe molli, leggere. Questa vita mi contorce, mi logora le carni, mi apre le vene. E io le ricambio il favore autodistruggendomi. Se arriva mia madre nascondo la bottiglia nel cestino dell’immondizia, penso; è stranamente vuoto, niente pacchetti finiti di Marlboro Gold, niente fazzoletti, niente appunti di scuola stracciati in otto parti. Qualcuno mi sta chiamando, senza nemmeno guardare chi è faccio tacere l'iPhone spostando la levetta sulla sinistra. Lasciatemi perdere! Ho bisogno di stare da sola. Ho bisogno di stare male, perché odio tenere tutto dentro. Voglio affrontare il dolore faccia a faccia.
Ho quasi finito la bottiglia, mi mancano due dita. Tra un’ora devo essere sotto casa di Miriam. Mi è venuto il singhiozzo, sembro un’ubriacona dei cartoni animati. Ho finito la birra. Se solo tu ti lasciassi amare da me, dannazione! Eppure non mi pento di averti inviato quel messaggio. Ma non importa: ti lascerò andare come è giusto che sia, senza costringerti ad amarmi, proprio perché ti amo.
 
 
 
8 luglio 2013
H 05:19


Piove ancora … Troppe emozioni … La pioggia io la lego all’infanzia, a casa mia, a quando tutto era ancora bello.

 
Alla fine mi ha risposto, l’adorabile stronzo, che stronzo non è.  Non mi aspettavo che mi rispondesse, in modo così sommesso poi, roba che se fosse stato per il mio istinto sarei corsa sotto casa sua, in quel quartiere malandato dove abita, solo per poterlo abbracciare. Invece devo trattenermi e aspettare minimo ventiquattro ore, come monsieur si è degnato di fare.
È l’alba, il mio momento; la nascita di una speranza feconda, le aspettative, il futuro. Sbuffi di rade nuvole diafane, bruciacchiate dall’aurora, intorpidiscono la volta celeste, qua e là sbiadita di indaco. È un’alba sobria, delicata, elegante, quasi come se non volesse disturbare nessuno mentre annuncia un nuovo, ennesimo dì.
Vorrei scrivergli, ma è meglio di no. Non voglio farmi vedere così disponibile, così pronta. Voglio essere io a dominare. Sono io quella più forte tra i due, proiettata nel futuro anziché nel passato, quella che serba ancora intatto il potere della giovinezza, quella giovinezza che lui mitizza e per la quale smania. È lui l’inconfessabile solitario, il disperato; al minimo stimolo poetico si lascia andare a dolcissime malinconie, a struggenti rimpianti. Io lo conosco bene. Come poteva ignorare brutalmente un così languido invito a lasciarsi andare, a poter finalmente esplodere?
Lo ammetto; se non mi avesse risposto, avrei quasi sicuramente accarezzato l’idea di chiudere la partita con lui, una volta per tutte. E al diavolo le sensibilità letterarie, l’incanto della passione; io voglio vivere, avrei pensato,fanculo gli uomini maturi, con i loro fantasmi del passato e una caterva di problemi: se li risolvessero da soli!
Certamente, avrei sofferto. Ieri ero sulla buona strada per ricominciare a vivere male. Ho passato una notte orribilmente triste e confusa, la percezione che sarei potuta entrare in qualsiasi tunnel della disperazione: cibo, alcol, fumo, tutte scorciatoie per evirare la sofferenza. Scorciatoie fasulle, che non portavano da nessuna parte, ma alle quali non ero in grado di rinunciare per il troppo dolore. Dove avrei trovato la  forza?

Non ho chiuso la partita, purtroppo o per fortuna, questo dipenderà dall'esito finale. Non voglio fare pronostici; andrà come deve andare. Fu la sua risposta, alle 16:11 di un pomeriggio gemello a quello del giorno prima, a fare in modo che non mi arrendessi. Ero al mare, pioveva. Leggere quel messaggio mi dette la stessa sensazione di scrutare il mare. Avrei voluto fare mia quella livida distesa di acqua, assaporarne i suoi segreti, allo stesso modo in cui avrei voluto proteggerlo, quell’uomo, essere la sua ancora di salvezza, assorbire tutti i suoi tormenti, le sue sofferenze, le sue vergogne. So che posso farlo, se me lo permetterà. Lui si lascia andare solo se i suoi acutissimi sensi percepiscono devozione, calore, casa. Deve potersi fidare di me, prima di poter riversare il mare che ha dentro. Ma a quel punto, se davvero riuscirò ad arrivarci, so che non ci saranno eguali nel suo modo di amare. Mi sazierà di acqua cristallina, pesci, scaglie di luce, infinito benessere; e fulmini e tempeste quando piove.


 

 

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Capitolo 10
*** Exile. (M) ***


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Capitolo 11
*** You don't remember!, you don't remember!, why don't you remember my name? (V) ***


NdA: E' strano, per una persona come me, quasi sempre proiettata nel futuro "vicino" - potrei usare la laconica espressione di "vivere alla giornata", ma la verità è che il presente, secondo me, non esiste - lasciarsi sopraffare dai ricordi, specie quando NON vorresti ricordare. Quindi sono giunta alla conclusione che devo affrontarli di petto, invece di arginarli. E con questo sfogo credo di averli esorcizzati una volta per tutte. Credo. E... Basta. Non ho nient'altro da dire. Tutto il resto è rumore.





9 maggio 2014  h 19:55




Sono qui. A cinque metri dal mare, insieme alla mia ombra distorta dalle dune della sabbia, sempre più stretta e lunga, come le torri delle cattedrali gotiche. Arriva a sfiorare appena la battigia, per poi confondersi fra le vibranti scaglie d'acqua: la accolgono in un abbraccio argenteo. Decido di voltarmi verso il sole; a quest'ora non brucia più, si fa sempre meno incandescente e più dorato, mellifluo, carezzevole. Sono un'anima solitaria, leopardiana forse.


You don't have a soul. You are a soul. You have a body.


Banalmente, penso all'ultimo verso de L'infinito.
Un anno fa successe, di avere davanti ai miei occhi quel corpo così bramato, quel viso così agognato; e poi non lo rividi più. Era una mattina insolitamente fredda e metallica. Il cielo coperto, il vento impetuoso. Un'atmosfera cupa, a tratti apocalittica. Io e lui, vestiti di nero come se fossimo ad un funerale - e tutti gli altri. Famiglie, bambini, maestre. In tiro per la celebrazione dei 50 anni della scuola. Ancora oggi, non riesco a fare a meno del suo ricordo.


Vivevo sepolto nei ricordi,
annaspando
per respirare un futuro migliore



Continuo a sognarlo ed ogni volta è un bagno di sudore e sofferenza. Un sogno ricorrente, in cui passato e presente si fondono in un solo luogo, in un solo copione. Tutto è invano, tutto è inutile. Avverto distintamente la sua presenza, ma non riesco a vederlo. Avviene in genere dopo giornate dense di impegni, in cui il suo pensiero non mi ha minimamente sfiorato; un orribile colpo basso che mi rifila la mia mente come a voler urlare STAI MALE, STAI MALE E NON LO SAI.


Am I pathetic?

Sì. E' un male sotterraneo, che esce allo scoperto di notte o quando meno me lo aspetto, scatenato da qualcosa, come la metafora in Joyce. Resuscitato dal mio inconscio ogni qualvolta ne ha l'occasione, mi fagocita, facendomi sua preda.

Non vedo più il sole. Si è eclissato dietro le casupole dei pescatori. Rade nuvole addossate all'orizzonte conferiscono un magnifico effetto  striato, intermedio fra l'ocra e il rosa antico, a un cielo limpido e indiscutibilmente sereno. Mi approprio di quella sensazione di pace, mi ci abbandono, il rosa diffuso seda i miei tormenti, li culla facendoli tacere per un poco.
Mi arrendo all'evidenza che, se voglio sopravvivere, non c'è altra via che non quella di liberare i miei pensieri, per poi lasciarli volare, liberi, nell'aria. Eccomi: la Pandora del nuovo millennio. Il sarcasmo scolpisce un sorrisino tirato sulle mie labbra. Inspiro forte e il mistero del mare penetra in me. Non finisce qui.

That's it sir
You're leaving
The crackle of pig skin
The dust and the screaming
The yuppies networking
The panic, the vomit
The panic, the vomit
God loves his children
God loves his children, yea



Mi accorgo della presenza di un uomo, la macchina fotografica al collo. Mi chiedo se ha scelto di ritrarre anche me in tutto questo tempo o se invece mi ha evitato, un fastidioso ostacolo che si interpone tra lui e il panorama. Forse è un soggetto interessante, una giovane che scrive su un quadernino, ispirata da un languido tramonto sulla spiaggia. Forse non lo è. Non mi è dato saperlo.
Eppure vorrei percepirmi. Come percepisco io le altre persone, da quelle amiche a quelle estranee. Percepisco sprazzi del loro temperamento, frammenti dell'anima, parti sconnesse delle loro paure, ambizioni, idee, emozioni. Perché non posso conoscere l'effetto che faccio? Vorrei che la mia vita fosse ripresa da una telecamera esterna, per poter riguardarla scorrere quando ne ho voglia. Invece non vedrò mai nemmeno il mio volto, in tutta la mia vita.

Siamo i nostri più grandi estranei.







 

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Capitolo 12
*** I think I'm paranoid and complicated. (V) ***


Si stava rivelando una giornata faticosa. La mattina avevo seguito le lezioni, riuscendo a 
malapena a percepire cosa fosse importante trascrivere sul quaderno degli appunti e cosa 
no. L'accecante sole romano mi stordiva con tutta la sua esuberanza. Fenomenicamente 
era ancora estate: lo avvertivo dal sudore esponenzialmente più copioso a mano a mano che 
la mattina si trasformava in pomeriggio, specie a quell'ora indefinita tra il mezzodì e le 
due. Ora in cui non c'è da preoccuparsi per nulla, dicono, che non sia il pranzo. Difatti 
tornai a casa, per poi ripiombare fuori, trangugiato un altro caffè, verso un quarto alle 
quattro. Questa volta, per avere informazioni su un corso di inglese.

Il colloquio non durò molto: il tempo di venire a sapere che la mia "idoneità linguistica di 
livello B2", strappata all'università e della quale tanto mi gonfiavo la coda di pavone, in 
quell'ufficio con le sedie rosso fuoco e le riviste scientifiche in inglese non aveva nessuna 
efficacia. Il distacco con il quale quella donna - mezza età, finto biondo, ingannevole parvenza 
britannica: in pratica, una menzogna vivente - me lo comunicò mi fece agitare. Forse ero 
stanca, forse era il caldo, le sedie di plastica rosse o la sindrome premestruale.
Per dissimulare sciolsi il braccio puntato ad angolo acuto verso di lei, e lo posi mollemente 
sul viso con fare fintamente meditativo. Reputavo ridicola quell' incongruenza tra 
strutture pubbliche e private, e saccente il suo modo di fare. Non volevo stare lì un minuto 
di più. Dissi che ci avrei pensato e scomparvi.

Di nuovo fuori, di nuovo vento, di nuovo nella frenesia socio-psico-scolar-burocratico-
lavorativa metropolitana. Avvertivo un'aria stanca in tutti i quartieri, il tirare avanti, 
pachidermico, di chi andava avanti per inerzia. In tram, la netta consapevolezza che anche 
quel giorno non avrei studiato fece annidare, da qualche parte dentro lo stomaco, un 
sottile senso di colpa. Sottile, ma fastidioso. Mentre ricordavo a quello che gli psicanalisti 
dicono essere il mio Super-Io che la mancanza di concentrazione era un sintomo più che 
accreditato della PMS, realizzai che mi ero dimenticata di scendere alla mia fermata.

Ecco, appunto.

E pensare che vivevo là da quando avevo tre anni. Ah!, ma sarebbe durato ancora per poco, 
ne ero sicura. Sarei andata in Erasmus, oh sì!, magari a Vienna o a Praga. Altro che corso di 
inglese!
La mente proiettata su quell'idea come fosse un dardo, attraversai la strada per pigliare il 
tram che andava dalla parte opposta. Vecchi, tanti, con le badanti, arabi che blateravano 
cose incomprensibili, adolescenti, le sacche per lo sport a braccio. Due ragazzini sui dieci, 
massimo undici anni. Avevo scordato le cuffiette, così mi sintonizzai, seppur 
involontariamente, sulla loro conversazione.

-Andiamo a piazzale Dunant!
-A fare cosa?
-Boh, a fare un giro! O scendiamo qui?
Ma ormai le porte si erano chiuse, stridendo atrocemente.
-Anzi!, scendiamo a S.Giovanni di Dio e ci facciamo tutta la scarpinata giù per la via! Che 
ne dici?
Il tram ripartì con qualche sobbalzo.
-Certo che è proprio handicapace questo tram.
-Hahaha, veramente!
-E se andiamo a stazione Quattro Venti? Ci sei mai stato?
-Dove? Ah, sì... La pista di pattinaggio,...!
-Ehi! Ho un'idea: andiamo dentro la stazione a guardare i treni che passano!

Di colpo quella mi sembrò l'idea più geniale di sempre. Quella semplicità, quel candore di 
pensiero mi avevano spiazzato.
L'immagine di due giovanissimi amici, seduti lì tra quello spiazzo erboso e quell'altro 
caseggiato urbano affumicato dallo smog, intenti ad osservare il passaggio di uno di quei 
disgraziati scalcagnati treni regionali che non passano mai, la luce ambrata 
del tardo pomeriggio, mi sembrò perfetta. Stavo vivendo la scena di un film, da comparsa però.

-Ciao, ATAC!
Esclamò il ragazzino più vivace al momento di scendere. Sorrisi. Loro due come un'iride nel 
grigiore in cui aleggiavano. La loro purezza mi aveva contagiato, rigenerato anzi. Arrivata a 
casa però, quasi piansi: quale era stata l'ultima volta in cui mi ero stupita per qualcosa? 
Stavo diventando parte del grigiore senza accorgermene.



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