Il Bambino Voodoo di Belinda Nero (/viewuser.php?uid=35203)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1 ***
Capitolo 2: *** 2 ***
Capitolo 3: *** 3 ***
Capitolo 4: *** 4 ***
Capitolo 5: *** 5 ***
Capitolo 6: *** 6 ***
Capitolo 1 *** 1 ***
IL
BAMBINO VOODOO
C'era
una volta una palude.
Ed
un bambino veggente.
Nel
villaggio sorto poco distante le acque torbide, erano molte le storie
fantastiche che lo riguardavano. Circolavano di bocca in bocca, da
padre a figlio, da nonno a nipote.
Si
narrava che la madre, la potente strega Queen Merleen, l'avesse
concepito nel giacere con un alligatore della palude.
Una
variante del racconto descriveva il modo in cui la donna era riuscita
ad estrapolare il seme dall'animale per inserirlo infine nel proprio
ventre materno.
Il
parto era avvenuto una notte di luna nuova: durante il travaglio la
donna aveva urlato tanto forte da essere udita fino al villaggio. Le
sue grida lancinanti avevano riempito l'aria e trasportate dal vento,
erano risuonate come cupi echi provenienti dalla terra dei morti.
Ogni
abitante del villaggio si era sentito gelare il sangue nelle vene e
nessuno quella sera aveva osato avventurarsi oltre il proprio uscio:
chiuse le porte, sigillate le finestre, nelle loro dimore uomini e
donne avevano acceso proprio le candele bianche acquistate da Queen
con lo scopo del tenere lontani i tormentati spiriti dei defunti,
quelli che la donna aveva richiamato intorno a sé nel dare
alla
luce, o meglio al buio, il suo primogenito.
Al
settimo mese, completamente sola, Queen Merleen aveva partorito un
bambino prematuro, sottopeso e innaturalmente freddo che, tuttavia,
era riuscito a sopravvivere.
Espulso
dal proprio ventre ed inciso il cordone ombelicale che fino a quel
momento l'aveva legata indissolubilmente alla sua creatura, la donna
aveva preso fra le mani il suo neonato umido di sangue ed umori
materni e lo aveva alzato al cielo, consacrandolo alla notte con una
risata ed un mormorio agghiacciante.
Queen
Merleen aveva deciso di chiamare suo figlio Vanth,
il
nome della dea alata della
morte e Janas
in
onore alle
fate custodi dei defunti.
Gli
occhi liquidi e vispi del bambino, di un verde simile all'acqua
melmosa della palude, possedevano una pupilla sottile e verticale
come quella dei rettili: il segno di una natura misteriosa che
accrebbe la fama del bambino-rettile, o come più tardi venne
chiamato nel villaggio, il bambino
voodoo.
Queen
Merleen era una potente strega veggente.
Con
quarantadue anni e tre dolorosi aborti alle spalle era ancora una
donna affascinante, con scuri, lunghi capelli ricci ed occhi neri,
imperscrutabili. Sulla sua carnagione caramellata spiccavano i
tatuaggi azzurri, simboli arcaici e frasi scritte in una lingua
dimenticata da molto tempo.
Possedeva
un corpo sensuale, con seni e fianchi prosperosi e lunghe gambe
sinuose ad intravedersi negli spacchi delle sue lunghe gonne
strappate e rattoppate solo in alcuni punti.
Tuttavia
il suo viso era solcato da profonde rughe d'espressione, la sua
schiena ingobbita nascondeva la forma del pesante seno carico di
latte e il ventre gonfio del recente parto non si sarebbe
più
ridotto col tempo. Le labbra piene e carnose nascondevano una
dentatura guasta mentre le mani erano diventate scheletriche, simili
a spogli rami d'albero.
Per
compensare lo sfiorire della bellezza, aveva aumentato il numero di
preziosi monili che era sempre stata abituata ad indossare al collo,
nelle braccia, intorno ai polsi; ed aveva smesso di lasciare i
capelli sciolti, preferendo legarli in una treccia che brillava ormai
di ciocche argentate.
Fu
evidente fin da subito che Vanth Janas era molto diverso dalla madre.
I
suoi occhi erano chiari ma lo erano anche i capelli biondi, lisci e
setosi. La carnagione era lattea quanto la luna e il suo corpo era a
sangue freddo, come quello dei rettili.
Per
celebrare la nascita dell'unico figlio vivo, la donna aveva
sacrificato un serpente e mischiato il suo veleno al latte offerto a
Vanth.
Quella
fu solo la prima di una lunga serie di pozioni che preparò
al
bambino che crebbe lì, nella casa materna, una
casupola impiantata su una palizzata in mezzo alla palude dalle acque
verdastre; per accedervi, coloro che si rivolgevano alla donna per
farsi predire il futuro, preparare misture o garantirsi un patto con
gli inferi, utilizzavano una barchetta sempre disponibile sulla
vicina spiaggia come fortuito mezzo di galleggiamento.
L'acqua
non era troppo fonda ma era torbida e il pericolo maggiore era
costituito dagli alligatori che vi nuotavano dentro. Eppure chi
decideva di rivolgersi alla veggente aveva già superato il
concetto
di paura.
Un
cartello a forma di freccia, impalato nel terreno umido della
spiaggia ed orientato in un punto non ben definito al centro della
palude, forniva una vaga indicazione ai viaggiatori.
Queen
Merleen. Veggente e strega. Per di là.
Nonostante
i termini “veggente” e “strega”
rappresentassero
un'inquietante minaccia, da tempo nessuno aveva più tentato
di
uccidere la potente Queen. In passato qualcuno era stato tanto
coraggioso ed ebbro di sé da provarci: la fine era stata
sempre la
stessa, per tutti.
Le
ossa ritrovate sulla spiaggia, sparpagliate. Nessuna traccia del
cranio, conservato invece dalla strega come agghiacciante tazza per i
propri intrugli magici. La famiglia del malcapitato sterminata da
sconosciute malattie letali.
Tutti
al villaggio poco distante la palude ed ancora, nei territori
adiacenti, conoscevano la strega e ne temevano i sortilegi, ma
avevano presto compreso che era preferibile servirsi dei suoi poteri
piuttosto che tentare di eliminarla.
Erano
molti i clienti della strega veggente, così le maledizioni
rimbalzavano da un uomo ad un altro, in una sorta di gioco malefico.
Chi veniva colpito da un malocchio, rispondeva al nemico con la
stessa moneta.
Al
sicuro nella sua casa, protetta dalla propria magia nera e dalla fama
che si era cucita addosso, Queen Merleen si occupava indisturbata
dell'istruzione magica di suo figlio, da cui sembrava ossessionata.
Insegnò
a Vanth Janas la lingua arcaica dei malefici, come preparare
correttamente una bambola voodoo, che ingredienti utilizzare per
ottenere la pozione desiderata, i rituali corretti da effettuare per
accogliere gli spiriti nel mondo terreno.
Gli
spiriti, come il bambino apprese, erano volubili ed egoisti. Coloro
che erano morti con sentimenti quali odio, dolore, vendetta nel
cuore, camminavano in un limbo tetro, incapaci di trovare la pace
sufficiente a scordarsi della vita terrena per passare oltre: ecco
perché era semplice richiamarli sulla terra umana e servirsi
di
loro.
Tutto
ciò però aveva un prezzo: sacrifici. Animali.
Umani. E nel peggiore
dei casi, gli spiriti potevano prendere il sopravvento sul veggente
ed ottenerne il controllo.
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Capitolo 2 *** 2 ***
Ad
appena sei anni Vanth poteva già vedere i morti.
Il
primo spettro gli apparve un pomeriggio autunnale.
Queen
Marleen aveva accolto in casa un noto cliente piuttosto facoltoso che
aveva ottenuto denaro sufficiente a mantenere due mogli e svariati
figli: i soldi li aveva ottenuti grazie alla magia nera operata dalla
donna.
La
strega era una donna senza alcuna morale: fin tanto che i suoi
clienti le offrivano quanto lei chiedeva, era disposta a servirsi dei
propri poteri per qualsiasi fine.
Era
rea di svariati omicidi, di arricchimento, di malocchio, di malattie,
così come di matrimoni e gravidanze.
Il
piccolo Vanth era stato mandato a raccogliere erbe intorno alla
torbida palude e, prestando attenzione ai movimenti degli alligatori,
il bambino aveva raggiunto un punto dove i piedini toccavano il fondo
melmoso ed incontravano con le dita animali che non si potevano
intravedere dallo strato superficiale di acqua verdastra. L'odore era
pungente ma Vanth vi era cresciuto dentro tanto a lungo da
considerarlo assolutamente normale. I mortali insetti che gli
ronzavano vicino erano tenuti a bada dal repellente unguento che si
era spalmato addosso, sul corpo nudo.
Non
indossava mai troppi abiti. L'afa e l'umidità del luogo
contribuivano a rendere calda e pesante l'aria. Solo i capelli lunghi
fin le spalle erano stati legati in treccine avvolte in strisce di
tessuto colorato.
Attraversata
la palude sopra quella che sembrava una cassa da morto, Vanth era
avanzato fra canne ed elofite e aveva raggiunto infine una porzione
precisa dell'umida spiaggia adiacente, dove sapeva crescevano le erbe
di cui Queen Merleen avrebbe avuto bisogno la notte stessa.
Nel
raccogliere le lunghe, sottili foglie di una pianta paludosa, cadde
in trance e raggiunse un grado di concentrazione a cui non era mai
arrivato prima.
Il
corpo scivolò a terra, privo di forza. Le iridi si
schiarirono
progressivamente, mutando da verdi in bianche. Un processo
inquietante di cui non era consapevole, mentre la sua pupilla da
rettile si allargava e diventava l'unica nota di colore nel suo
sguardo vacuo ed assente.
Davanti
ai suoi occhi si materializzò una ragazza avvolta in una
vestaglia
da notte lercia di sangue rappreso lungo il petto. Le mani strette
intorno al cuore, i rossi capelli ispidi e sporchi lasciati sciolti
sul viso spettrale.
“Chi
sei?” domandò flebilmente Vanth, rivolgendosi alla
figura
femminile che avanzava verso di lui senza che i piedi affondassero
nel terreno divenuto lattiginoso.
“Riesci
già a vedermi” replicò lei, sorridendo:
ma aveva una guancia
sfregiata in putrefazione, così riuscì solo ad
inclinare gli angoli
delle labbra in un ghigno spaventoso.
“Sono
morta” aggiunse con la voce femminile, metallica
“hai paura?”.
No,
Vanth non provava paura. Era stato cresciuto nella simile prospettiva
che un giorno anche lui avrebbe visto e parlato ai morti.
Così
scosse la testa.
“Sono
felice di non averti spaventato” concluse lei, dissolvendosi
lentamente insieme alla fredda nebbia che si era levata dal terreno
fangoso.
Tornato
in sé, con gli occhi che riprendevano colore e le gambe che
tornavano nuovamente salde, Vanth si era alzato in piedi. Il cuore
gli batteva forte, il respiro era irregolare, ma non corse da sua
madre a riportarle la notizia: sapeva che non poteva disturbarla, non
in quel momento. La sentiva urlare, invocare e pregare,
laggiù,
nella palafitta che intravedeva all'orizzonte in quell'aranciato
tardo pomeriggio; e poi doveva finire di raccogliere le erbe.
Più
tardi Vanth tornò da Queen.
La
madre era stanca e spossata. Aveva borse bluastre sotto gli occhi ed
i capelli più unti del solito.
“Hai
trovato le mie erbe?” gli chiese nervosa, ottenendo da lui un
silenzioso cenno d'assenso.
La
donna allora soffermò più attentamente lo sguardo
sul suo bambino
sporco da capo a piedi di fango essiccato. Fra i capelli chiari aveva
bava di ragno, fili traslucidi di una ragnatela attraversata.
Percepiva
qualcosa di diverso in lui. Un'aura nuova. Ed ebbe una rivelazione.
Sgranò
gli occhi, inclinò le labbra in un ghigno mostrando i denti
cariati.
Sollevato il figlio a sé, lo avvolse in un abbraccio stretto
ed
urlò: “mio figlio, mio figlio ha visto un morto
oggi!”.
Era
orgogliosa di lui. Aveva atteso quel giorno da che lui era nato, la
prova che il suo bambino era davvero sangue del suo sangue: uno
stregone come lei.
Tuttavia
un'ombra di angoscia le attraversò gli occhi, l'istante
dopo. Venne
colta da frenesia: doveva impartirgli una lezione, la più
importante
di tutte; e lo doveva fare subito.
Lo
appoggiò a terra ma non gli diede il tempo di fare altro che
seguirla, poiché gli aveva preso il polso e lo trascinava
dietro sé
di alcuni passi verso la stanza della divinazione, un rudimentale
ambiente arredato da una libreria ricolma di manuali, una rozza
poltrona intagliata in un tronco circondata da candele sempre accese,
bambole voodoo ricoperte di spilli gettate per terra o al contrario,
disposte con cura sopra il lettino di Vanth, rilegato ad un angolo.
Recuperato
un lungo coltello, Queen Merleen costrinse il figlio ad appoggiare la
mano su un tavolino; sopra vi appoggiò la propria sinistra.
Con un
gesto rapido lacerò la carne di entrambi, la lama del
coltello che
inchiodava entrambi oltrepassando pelle, tendini, ossa fino a
sfiorare il legno sotto la manina di Vanth. Urlarono entrambi, di
dolore il primo, di eccitazione la seconda. Lui cercò di
divincolarsi, ma la lama affondava meglio ed aumentava la sofferenza.
“Non
muoverti o peggiora!” esclamò la donna, ridendogli
in faccia.
Le
lacrime scendevano copiose lungo le guance del bambino.
“Non
frignare!” lo rimproverò lei con un tono severo
“senti il mio
sangue che sgorga sulla tua ferita?” gli chiese “lo
senti?!” lo
incalzò più forte.
Lui
annuì con la testa, mentre la fitta della carne lacerata
superava la
soglia della sua sopportazione: sentiva la testa girare e i sensi
abbandonarlo.
“Non
lasciarti sopraffare dal dolore, figlio mio! Da adesso in poi dovrai
farci i conti ogni giorno! Se permetti a loro
di approfittarne, non sopravviverai!” spiegava sua madre, ma
Vanth
percepiva la sua voce lontana, flebile.
“Stai
con me, Vanth Janas! Stai con me!”.
Con la
mano libera, Queen Merleen afferrò il mento del bambino; gli
alzò
il viso, perché la potesse guardare con lo sguardo vacuo. Il
sangue
usciva copioso da entrambe le mani.
“Guardami
Vanth” gli urlò contro e lui recuperò
parziale coscienza.
“Mamma..”
piagnucolò sconsolato, mentre il dolore era tanto acuto da
annullarsi. Sentiva solo quello, ma la mente era tanto sconvolta da
una simile sensazione da non riuscire a percepirlo neppure
più. Come
se la lama non avesse troncato solo la mano, ma anche i nervi fino al
cervello.
“Ecco..
sì, così tesoro mio.. così, lo senti?
Sta passando. Io e te ora
siamo insieme. E non sentiamo il dolore. Lo stiamo superando insieme.
Sei uno stregone Vanth Janas! E ora sai cos'è il dolore e
sai che
non puoi permettergli di comandarti”.
Disse
questo e finalmente estrasse la lama da entrambi i palmi. A quel
punto Vanth perse i sensi.
Al suo
risveglio si ritrovò nel suo lettino, la mano medicata e
fasciata e
sua madre seduta alla poltrona di legno, con gli occhi spalancati e
la bocca aperta, come se si fosse addormentata in quella posizione.
In realtà, non era più in sé. Uno
spirito era entrato in lei, ma
Vanth percepiva che sua madre aveva il controllo della situazione.
Qualche
decina di minuti dopo, le candele accese si spensero ad una folata di
vento impercepibile. E si riaccesero l'attimo dopo. Sua madre era di
nuovo Queen Merleen.
Spostò
lo sguardo scuro fino ad incontrare il suo. Gli sorrise.
“Stai
bene Vanth?”.
Lui
annuì ma sopportava a fatica il dolore.
“Vieni
qui” lo spronò Queen, battendosi le mani sulle
proprie ginocchia.
Vanth notò che sua madre non si era fasciata il palmo
ferito, ma il
suo sangue aveva smesso da solo di fluire. Un miracolo o piuttosto
opera della magia nera.
Vanth
la raggiunse. Si sedette in braccio a lei.
“Descrivimi
lo spettro che hai visto” lo esortò la madre con
sguardo
inquisitorio.
“Era
una ragazza.. piccola.. bianca, con del sangue sul petto”
rispose
lui “e mi sorrideva”.
“Mh”
mugugnò criptica Queen “e ti ha detto
qualcosa?”.
“Che
era felice di non avermi spaventato”.
Queen
Merleen annuì e socchiuse gli occhi “sembra uno
spirito gentile”
rifletté “ma stai in guardia” aggiunse
mentre gli passava le
mani fra le treccine. Aveva paura per suo figlio.
“Lei
ti apparirà ancora” spiegò “e
sarà la tua guida nel mondo dei
morti”.
Il
bambino parve perplesso. Sua madre non gli aveva mai parlato di cose
simili. Cos'era una guida? La osservò curioso, con gli
occhietti
lucidi per il bruciore della ferita. Aveva le gote rosse, i capillari
evidenti sulla carnagione chiara.
Nonostante
ciò Vanth si sforzò di prestare attenzione alle
parole della madre
che gli spiegavano il nuovo mistero.
Ogni
veggente possedeva una
guida nel limbo:
null'altro che uno spirito tormentato quanto gli altri ma per qualche
ragione più consapevole e potente.
Per
tante ragioni ad un veggente era richiesto di addentrarsi nel limbo
dei morti: per riuscire a parlare con un defunto, per cercare
un'anima da sacrificare in un rito, per richiamare un parente
trapassato al cospetto di un famigliare vivo.
Raggiungere
il triste limbo dei lamenti non era cosa semplice: attraverso uno
stato di divinazione l'anima del veggente era costretta a scindersi
dal corpo.
Da
quel momento, la vita era a rischio. L'anima, collegata al corpo
attraverso un “filo rosso”, aveva un tempo limitato
oltre il
quale il legame si sarebbe dissolto per sempre, impedendo
così al
veggente di percorrere il tragitto a ritroso.
La
guida
aveva il compito di preservare il legame fra l'anima e il corpo del
veggente, muovendosi come una sorta di suo intermediario
nel limbo.
Gli
spiriti del limbo erano infatti rancorosi ed invidiosi. Anime
affamate e crudeli con l'unico obbiettivo di vendicarsi dei torti
sofferti in vita.
Uno
spettro consumava la propria vendetta se riusciva ad approfittare dei
poteri del veggente oppure lo privava della vita; la guida impediva
che ciò accadesse.
“Ora
ti racconterò una storia” disse allora Queen ed
iniziò a narrare
la vicenda di un'altra veggente, vissuta secoli prima.
La
donna, tale Lane Eusten, era dotata di impressionanti
abilità, ma
peccava di curiosità e narcisismo.
Un
giorno le apparve la sua guida personale, ma lei incominciò
a
rifiutare costantemente i servigi dello spettro poiché era
certa di
non aver bisogno della sua protezione.
Incominciò
ad avventurarsi da sola nel limbo. Distaccava l'anima dal corpo e
percorreva la spiaggia lattiginosa della terra dei morti dove le onde
di un oceano bianco le lambivano i piedi.
Ed
ecco il giorno fatale: nella coltre nebbiosa si delineò
ancora una
volta la sagoma dello spettro, la sua guida.
“Chi
cerchi, veggente?” le domandò lo spettro che
avrebbe potuto
avventurarsi nel limbo al suo posto per convocare il defunto che lei
cercava, salvandola così dal destino che l'attendeva.
Lei
avrebbe potuto accettare il suo aiuto e tornare salva nel proprio
corpo; ma come detto in precedenza, lei era certa di sapersela cavare
in ogni situazione. Anche nella terra dei morti da cui era
ossessionata.
Così
continuò a camminare. Ignorò la domanda della sua
guida che si fece
da parte ancora una volta. Lei si spinse oltre; intorno a lei apparve
un'altra sagoma. Un'altra. Ed un'altra ancora. Ben presto fu avvolta
da spiriti nutrenti livore.
Lei
perse la rotta. Si ricordava un nome, colui che stava cercando, ma
non riuscì a proseguire; le voci degli spettri intorno a lei
erano
insistenti e soffocanti. Lamenti e preghiere, invocazioni e minacce.
Il
vociare straziante distrusse la sua coscienza e lei perse memoria di
sé stessa; non fu più in grado di tornare
indietro.
Il
tempo a sua disposizione finì e il corpo di Lane Eusten
perse il
soffio vitale che lo animava. Il filo rosso si spezzò e la
carne
morì, le membra poi marcirono. La donna rimase intrappolata
per
l'eternità fra le anime angosciate, completamente dimentica
della
sua identità.
“Vedi
Vanth” proseguì Queen Merleen dopo aver concluso
il triste
racconto “sopravvivere nel limbo senza guida non è
certo
consigliabile! Verresti presto circondato da spettri, come accaduto a
Lane Eusten e la loro tristezza ti soffocherebbe l'anima”.
In
un'ampolla, su uno scaffale, c'era un fiore mantenuto florido dalla
magia. La veggente allungò la mano e lentamente
ruotò le dita in
senso antiorario. Vanth vide i petali del fiore blu sfiorire,
ingiallire, infine marcire mentre il gambo si ripiegava su
sé
stesso.
“Mi
accadrebbe quello?” domandò timidamente il bambino
in direzione
della madre e lei annuì con cenno greve.
“La
tua guida è forte abbastanza da impedire ad altri spettri di
avvicinarsi a te e potente a sufficienza da cercare un defunto nel
limbo al tuo posto. Non devi far altro che servirti di lei”.
“Lei
allora mi aiuterà?”.
Gli
occhi scuri della donna erano imperscrutabili, come pozzi scuri senza
uscita. Era impossibile decifrare il suo sguardo.
“Lo
farà.. ma in cambio vorrà qualcosa da te. Ti
farà una sola, unica
richiesta in tutta la tua vita. Qualcosa di preciso che scoprirai
presto e ascoltami bene Vanth Janas! Dovrai accontentarla
qualsiasi
cosa ti chieda, andasse anche oltre la tua volontà. Non
rischiare di deludere la tua guida nella terra dei defunti,
perché
potresti finirci tu stesso dentro e non trovare pace per
l'eternità”.
Vanth
Janas ebbe un tremito e si strinse alla madre, cercando
rassicurazioni. Era uno stregone, un futuro veggente, ma per il
momento era un bambino qualsiasi, puro ed innocente.
La
donna sapeva quanta preoccupazione gli scuoteva l'animo; lei stessa
ne aveva provata in seguito alla sua prima divinazione, quando le era
apparsa la sua guida personale, lo spirito dell'uomo che da anni le
stava affianco. Uno spettro tuttavia crudele con cui aveva dovuto
imparare presto a fare i conti.
Vanth
nascose il viso contro il suo seno e piagnucolò un poco.
Queen lo
strinse e lo cullò per qualche minuto, cantilenando la
vecchia
filastrocca di sempre, quella che narrava la triste storia di un uomo
consumato da un amore non corrisposto, costretto a vagare nella terra
dei morti alla ricerca del suo cuore spezzato e putrefatto.
Andava
Jack Jack
nel
limbo dei morti|
vagava
affranto
sommesso
era il pianto|
cercava
il suo cuore
putrefatto
d'amore|
eterno
era il viaggio
in
quel freddo paesaggio
Quando
le rime finirono, Vanth era già più calmo: si
scostò dal petto
della madre, sospirò. Il suo sguardo si concentrò
nuovamente sulla
mano ferita di Queen. La prese fra le sue più piccole, le
baciò il
dorso insanguinato.
“E
a te mamma.. fa male?” le domandò tirando su col
naso.
“No”
replicò lei.
Rimasero
abbracciati ancora qualche istante; poi sua madre lo strinse e,
inaspettatamente, pianse anche lei lacrime amare. Gocce chiare e
salate le scivolarono sugli zigomi, sulle guance, infine morirono fra
i capelli di Vanth.
Il
bambino credette fosse per il dolore alla ferita che la madre
provava, nonostante l'avesse negato; ma non era quella la ragione.
Queen
Merleen guardò il suo bambino negli occhi. E improvvisamente
esclamò: “promettimi, promettimi che sopravviverai
bambino mio! Lo
farai vero? Perché la vita è quanto di
più importante abbiamo noi
tutti”.
Spaventato,
Vanth rimase in silenzio e la donna sospirò desolata.
Gli
permise allora di scendere dalle sue ginocchia e lo esortò a
completare una bambola voodoo che il bambino aveva iniziato il giorno
precedente.
Creare
fantocci ad immagine delle persone su cui si sarebbe scatenato il
malocchio era il passatempo preferito di suo figlio.
Vanth
si sedette a terra. Incrociò le gambe e fissò il
suo lavoro
incompleto: a quella bambola mancavano ancora i capelli e la faccia
che avrebbe dipinto con qualche difficoltà ora che aveva una
mano
tagliata.
La
concentrazione sul suo “gioco” gli permise di
distrarsi e
dimenticarsi, per il momento, delle parole materne.
Dall'altra
parte della stanza Queen Merleen lo osservava, fiera.
E poi
percepì un alito caldo. La sensazione nota di avere qualcuno
accanto.
Metallica
una voce le sussurrò all'orecchio “tuo figlio
diventerà potente”.
Lei
chiuse gli occhi.
“Spero
abbastanza” aggiunse laconica.
|
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Capitolo 3 *** 3 ***
Vanth
Janas sedeva sulla poltrona della madre, le gambe oltre il bordo
della seduta lignea ma i suoi piedi non giungevano a toccare il
pavimento.
La
poltrona era ancora molto grande per il suo corpo esile che
sprofondava fra luride coperte: era cresciuto d'età, ma il
resto era
rimasto piccolo e gracile.
Con le
spalle ben appoggiate allo schienale, Vanth sembrava fissare
intensamente un punto lontano, lo screpolato legno dall'altra parte
della stanza.
L'umidità
e le tarme lo avevano lacerato nel profondo. Tutta la palafitta
sembrava sul punto di implodere su sé stessa ed emetteva
continuamente sinistri rumori; era curioso non fosse stata ancora
risucchiata dalle acque della palude.
Il
giorno in cui Queen Merleen l'aveva fatta costruire molti anni prima,
nessuno avrebbe potuto immaginare che un simile, folle progetto
sarebbe sopravvissuto tanto bene alle intemperie del tempo.
La
dimora sopra la palude e nella palude, era una palafitta composta da
due stanze attigue. Tramite una vecchia, robusta scala ben impiantata
nel terreno melmoso, si poteva raggiungere l'ingresso dell'abitazione
ed accedere al primo ambiente: nient'altro che un'anticamera spoglia
ad eccezione di qualche sedia traballante, di un tavolino con sopra
un teschio umano e di alcuni scaffali di legno sopra i quali erano
state disposte ampolle e boccette contenenti resti di inquietante
natura.
Occorreva
superare l'anticamera e scostare i lunghi drappi di pesante velluto
verde, ormai consumato, per accedere alla sala della divinazione ed
ottenere un'udienza esoterica. Naturalmente nessuno si azzardava ad
entrare senza consenso.
C'era
una sorta di campanello che permetteva ai clienti di segnalare la
loro presenza alla veggente: consisteva in un spesso e lungo spago
che, tirato verso il basso, consentiva ad un mucchio di ossa cave,
svuotate dal midollo e legate al soffitto, di sbattere le une contro
le altre.
Normalmente
non c'era bisogno di farle tintinnare. Queen Merleen sapeva
esattamente chi e quando sarebbe arrivato. Così all'arrivo
diceva
semplicemente “vieni avanti”.
Anche
suo figlio possedeva lo stesso talento, purché ancora acerbo.
Diversamente
dalla madre che percepiva nella mente le immagini nitide dei suoi
visitatori, prima ancora che questi decidessero di imbarcarsi verso
la palafitta di Queen Merleen, Vanth non coglieva che frammenti,
pensieri, idee, la maggior parte del tutto sconnessi gli uni dagli
altri, seppur abbastanza chiari da farsi un quadro approssimativo.
Le sue
doti mediatiche promettevano di superare quelle materne, ma per il
momento erano ancora nel pieno dello sviluppo: così si
trattava di
comporre un puzzle mentale.
A
lampi gli arrivavano alla mente immagini circa la linea delle
sopracciglia dei futuri avventori, il profilo degli zigomi, la
lunghezza del naso, la forma della dentatura, la carnagione.
La
stessa mancanza di precisione dei suoi poteri influenzava anche la
confezione delle bambole voodoo: per crearne di efficaci, aveva
sempre bisogno di una descrizione molto accurata della vittima, oltre
che di alcuni altri ingredienti fondamentali.
Lentamente
gli occhi di Vanth cominciarono a schiarirsi. Il verde divenne sempre
più pallido, fino a mutare in bianco.
Stava
entrando in uno stato di divinazione.
Accadeva
ormai spesso, ma Vanth non era ancora in grado di controllare appieno
il processo. A volte era trascinato nel limbo senza desiderarlo,
poiché era la sua guida a volerlo incontrare. Quello era il
caso.
Davanti
allo sguardo chiaro di Vanth si materializzò Taja.
Era
una bella ragazza e doveva esser stata giovane al decesso. Gli occhi
scuri erano soddisfatti poiché Vanth aveva già
provveduto a
soddisfare la sua unica e sola richiesta, così come Queen
Merleen
una volta gli aveva detto di fare.
Anche
il suo aspetto era più florido rispetto ad un tempo. Era
ancora
avvolta dalla vestaglia sporca di sangue, ma i capelli erano ora
puliti, la corporatura più aggraziata e la guancia non
mostrava
segni di putrefazione.
Quel
giorno tuttavia, Taja era nervosa. Il suo sguardo saettava da un
punto all'altro, ma i suoi occhi erano ciechi. Non possedeva sensi
definibili umani. Il collegamento con il veggente avveniva attraverso
le loro anime, nonostante lei fosse avvolta dalla coltre grigia del
limbo ed emettesse a sua volta pulsazioni grigie.
Lo
spettro era preoccupato. Si contorceva mossa da spasmi. Vanth la
osservava digrignare i denti e incurvare la schiena in una postura
che un essere umano non avrebbe potuto assumere.
“Cosa
succede Taja?” le domandò.
“C'è
agitazione” rispose lei “qualcosa di grave sta
succedendo”.
Era
insolitamente vaga. Normalmente sapeva rispondere in dettaglio ai
suoi interrogativi. Ora era confusa.
“Riesci
a spiegarmi?”.
Lei
scosse la testa.
Qualcosa
che andava oltre la consapevolezza di uno spirito. Qualcosa che
nemmeno uno spettro sapeva intravedere. Qualcosa di grave era
realmente successo.
“Fai
di tutto.. fai di tutto per scoprirne la causa”
ordinò la ragazza;
e poi scomparve di colpo, lasciando dietro di sé un acre
odore di
morte.
Gli
occhi di Vanth tornarono verdi.
|
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Capitolo 4 *** 4 ***
Stava
arrivando un uomo.
Lo
sentiva.
Lo
stava aspettando da giorni.
Le
immagini si alternavano senza una sequenza logica.
Di
corporatura media. Capelli castani. Ventinove anni. Già
padre.
Apparentemente
un uomo come tanti.
Eppure
c'era qualcosa in lui di singolare che suscitava il suo interesse.
Da
tempo non percepiva un'aura tanto inquieta.
Si era
sforzato di captare maggiori informazioni su di lui, testando il
limite massimo delle proprie capacità.
Aveva
infine compreso che non poteva sapere più di quanto avesse
già
intuito.
Certo,
i suoi poteri non erano ancora pienamente spiegati, ma c'era
dell'altro: era come se quell'uomo avesse costruito intorno a
sé un
muro che la mente di un veggente non poteva oltrepassare.
Non
riusciva ad interrogare il passato, né a prevedere il
futuro. Taja
non era d'aiuto, da tempo irraggiungibile, persa chissà
dove. Doveva
esserle capitato qualcosa di tremendo. Dunque per il momento aveva
rinunciato ad avventurarsi nel limbo.
L'uomo
era arrivato fino alla spiaggia verso le sei di sera. Con la mente
annebbiata, Vanth lo osservò leggere la freccia che ancora,
dopo
anni, indirizzava verso Queen Merleen al centro della palude.
Attese
estenuanti minuti prima che l'uomo trovasse abbastanza coraggio da
salire sulla barchetta messa a disposizione per “i viaggi
nell'oltretomba”, definiti ironicamente tali dagli abitanti
del
villaggio vicino.
L'uomo
non era del luogo, giungeva da molto lontano. Vanth non avrebbe
saputo dire quanto lontano.
Infine,
l'uomo spinse la barchetta sull'acqua fetida della palude e vi
saltò
dentro. Remò lentamente seguendo l'indicazione della vecchia
freccia.
Vanth
perse il contatto ma non importava, perché presto lui
sarebbe
arrivato.
Il
veggente uscì dalla porta d'ingresso e si sporse dalla
balaustra di
legno umido, interrotta in un solo punto da una scala a pioli che
consentiva l'accesso alla palafitta.
Un
alligatore placido nuotava intorno ai pali infissi verticalmente, a
sostegno del tavolato orizzontale che reggeva l'abitazione. Vanth lo
conosceva: era Mr. Jambo.
Il
bambino voodoo conosceva molte cose sugli alligatori, animali
estremamente attivi, carnivori e pericolosi. Nella libreria erano
numerosi i volumi a loro dedicati. Essere informato su flora e fauna
della palude era semplicemente fondamentale se si viveva in una
palafitta immersa in quell'ambiente.
Aveva
visto Mr. Jambo nascere dal suo uovo: si ricordava ancora le crepe
del guscio, un occhio chiaro che lo fissava e le zampette unghiate
che lottavano per aprirsi un varco verso l'esterno. Vanth non l'aveva
aiutato come avrebbe fatto la madre premurosa, se fosse sopravvissuta
alla trappola umana che l'aveva uccisa: era rimasto a fissarlo nella
schiusa, finché il piccolo si era riuscito a liberare da
solo e
svelto era scivolato fino all'acqua per immergervisi.
Mr.
Jambo era un caimano dagli occhiali e il primo alligatore che Vanth
aveva visto venire al mondo: l'animale aveva ora poco più di
tre
anni, ma aveva già raggiunto i due metri di lunghezza.
Era un
alligatore solitario: aveva sovvertito la struttura sociale del
gruppo e ad essa aveva preferito un atteggiamento fortemente
territoriale.
La sua
area era intorno a quei pali e più di una volta l'aveva
difesa in
modo estremamente aggressivo da altri alligatori, sfociando infine in
un comportamento cannibalesco.
Vanth
ammirava il giovane caimano, tanto forte ed indipendente. Il bambino
lo avrebbe riconosciuto fra mille. Percepiva una forte
affinità con
Mr. Jambo ed era convinto che anche l'animale l'avvertisse con lui.
C'era
in effetti un tacito accordo fra loro.
Vanth
permetteva all'alligatore di indugiare intorno alla sua casa, mentre
l'animale evitava di scegliere lui e i suoi clienti come preda del
giorno.
La
voce che quel ragazzo fosse effettivamente figlio di un alligatore si
era rinforzata da quando nel villaggio era giunta voce che Vanth
Janas avesse un simile rettile come guardiano alla casa.
“Sta
arrivando un uomo” sussurrò Vanth in direzione di
Mr. Jambo
“permettigli il passaggio”.
Come
se avesse intuito le parole umane, il caimano diede un vigoroso colpo
di coda e si spostò di lato.
Ancora
lontano, dall'altra parte della palude, l'uomo non smise di remare,
seppur lentamente poiché non voleva attirare l'attenzione su
di sé.
Evitò
accuratamente di passare troppo vicino a quelli che erano alligatori
galleggianti a filo d'acqua. Fece attenzione a non incuneare la
barchetta in un canneto o in mezzo alle spesse radici acquatiche
delle piante paludose.
Quando
scorse finalmente la casa di Queen Merleen, sospirò di
sollievo.
Almeno fino a quando notò un altro alligatore nuotarvi
intorno; ma
rimaneva laterale rispetto alla scala. Così, ingoiando
saliva a
vuoto, decise che giunto fino a quel punto non poteva tornare
indietro senza un nulla di fatto. Si avvicinò alla scala.
L'alligatore rimase immobile. L'uomo gettò la piccola ancora
oltre
l'acqua e salì i pioli instabili.
Salì
sul tavolato e oltrepassata l'inusuale soglia, si ritrovò in
un
luogo avvolto dalla penombra. Un tanfo di putrefazione ed erbe lo
costrinse a portare una mano davanti al naso.
Le
uniche fonti di luce erano le candele e i pallidi raggi solari che
attraversavano l'ingresso alle sue spalle.
Sugli
scaffali, i vasetti contenenti resti animali, le ceramiche, i teschi
umani luccicavano di un brillio inquietante; così l'uomo fu
sul
punto di voltarsi e scappare.
Vanth
percepì la sua paura e ridacchiò; l'uomo allora
sobbalzò in
direzione dei drappi verdi che impedivano al suo sguardo di vedere
altro: ora sapeva con certezza che la casa era abitata come sperava,
ma non riusciva a scorgere chi avesse riso di lui.. la donna? Non era
sicuro.
"Benvenuto”
esclamò Vanth “avvicinati per favore" aggiunse il
veggente
con la vocina acuta ed allegra, così in contrasto con
l'ambiente.
L'uomo
scoprì di essere rimasto paralizzato dalla suggestione.
"Per
favore, Dassen"
lo incoraggiò Vanth con più enfasi, rivelandogli
così che sapeva
il suo nome. Il suo tono era dolce, leggermente infantile "voglio
vedere come sei fatto" disse.
Dassen
costrinse ogni fibra del suo essere ad avanzare. Vi riuscì
dopo
qualche istante. Mosse solo tre, quattro passi, sufficienti a
scostare i drappi e a vedere in volto il giovane ragazzo che sedeva
composto sulla scomoda poltrona.
Doveva
avere sui dodici anni. I capelli biondi erano legati in lunghe
treccine appoggiate sulle spalle. In testa indossava una bandana
azzurra, ma il suo corpo era fasciato da una tunica marrone. Alle
caviglie nude c'erano preziose cavigliere d'oro.
Ciò
che destò maggiormente il suo stupore fu però lo
sguardo del
fanciullo. Era di un verde spento quanto le acque che aveva
attraversato; eppure animato di una scintilla unica, brillante.
“Tu
cerchi Queen Merleen, ma lei non abita più in questa
casa” esclamò
all'improvviso Vanth e Dassen sussultò “ora lei
abita nel mondo
dei morti” concluse il bambino.
La
luce tremolante delle candele tracciava giochi d'ombra sul suo viso
minuto, facendolo apparire innaturalmente scheletrico. L'espressione
di Dassen divenne funerea e sbiancò in volto.
Pochi
cercavano ancora Queen Merleen.
La
notizia della sua morte era volata come trasportata da ali e si era
diffusa in poco tempo.
La
potente strega era stata trovata sulla spiaggia, poco distante dal
cartello che lei stessa aveva impiantato nel terreno fangoso. La
salma mostrava lacerazioni in più punti e al corpo mancava
un
braccio, una parte di busto e l'intera gamba sinistra. Sul petto i
segni della dentatura degli alligatori.
Queen
Merleen era morta in modo misterioso e il suo cadavere era stato un
succulento banchetto per la fauna del luogo, prima che qualcuno del
villaggio avesse diffuso la notizia del suo decesso.
Nessuno
aveva osato toccare la salma della potente strega, per il timore di
incappare in una maledizione postuma. In seguito, era stato
organizzato per lei un rude funerale e, chiusa in una bara di legno
pregiato, era stata seppellita in una buca: non occuparsi del
cadavere avrebbe potuto significare avere a che fare con il suo
spirito rabbioso per l'eternità. Ed era anche peggio.
“Avevi
bisogno di parlarle” continuò il bambino
“ma ora so con certezza
che non conosci la ragione che ti ha spinto a cercarla”
decretò,
cogliendo il dubbio nella mente di Dassen.
L'uomo
si ritrovò la gola secca: come poteva quel bambino saperlo?
Forse
era evidente: chiunque andava lì per parlare con Queen
Merleen.
Eppure era vero, non sapeva il motivo che l'aveva spinto ad
attraversare la palude pur di farlo, quasi un incantesimo
ipnotizzante.
“Vieni
più vicino” lo esortò Vanth e l'uomo
obbedì, succube.
La
luce delle candele intorno alla poltrona, finalmente, permise al
bambino voodoo di scrutare i lineamenti di quel viso che nella sua
testa era rimasto sgranato per molto tempo.
Dassen
aveva il viso quadrato, una fronte ampia, due sopracciglia scure e
cespugliose, sotto le quali si intravedevano gli occhi azzurri. Il
naso era lungo e sottile, la bocca piccola e serica. La carnagione
sarebbe stata naturalmente chiara, ma il sole aveva baciato il suo
viso abbronzato. Profumava di fiori e vestiva all'orientale, come
quei mercanti del sud est che raramente aveva incontrato.
Si
ricordava di Kiir, cliente di sua madre, vecchio uomo con baffi neri
e bava alla bocca. Dopo la scomparsa di Queen Merleen, non aveva
più
fatto visita.
“Sai
chi sono?” domandò Vanth. L'uomo scosse la testa.
“Mi
chiamo Vanth Janas” si presentò il bambino
“e sono il figlio di
Queen Merleen”.
L'uomo
recepì la notizia ma era decisamente paralizzato per reagire.
“Dammi
le tue mani” lo esortò Vanth “mostrami
il loro palmo”.
Se non
riusciva a leggere più di così la sua mente,
avrebbe letto le sue
mani.
Dassen
porse le mani al veggente che le afferrò con le proprie.
Sotto la
luce tremolante delle candele, il bambino studiò le mani
dell'uomo e
confronto la loro diversità. Era essenziale osservarle
entrambe:
nella destra intravedeva le modifiche del carattere operate tramite
la volontà, nella sinistra le caratteristiche innate.
Le
scrutò per qualche minuto.
Dassen
era un uomo comune con una vita comune di media lunghezza.
Non
possedeva talenti spiccati. Una predisposizione per il pragmatismo e
il raziocinio. Paura di lasciarsi andare in amore, contrapposta alla
celata dolcezza d'animo. Scarso accenno al lato mistico ed esoterico
della vita. Due figli.
La
linea della vita era interrotta da brevi trattini, trascurabili, ad
eccezione di uno.
“Vedo
una disgrazia, molto recente” disse con voce tetra
“che interrompe la
linea della tua vita”. Questo lo lasciò
sbalordito; il bambino non capiva: una simile nefasta linea non poteva che esser
simbolo di recente decesso: eppure l'uomo era vivo davanti a
lui! Dassen era scampato alla Manan, la morte.
Come vi era riuscito?!
Dassen
mostrò un'espressione perplessa.
“Disgrazia recente?”
domandò incerto.
Vanth
era sicuro che ciò che aveva visto nelle mani dell'uomo
avesse avuto
ripercussioni nella memoria, procurandogli l'evidente amnesia.
Più
trascorreva il tempo in compagnia di quell'uomo, più si
accorgeva
che c'era qualcosa di inquietante in lui. Non comprendeva cosa e in
quale misura. Era una sensazione pulsante che per esperienza sapeva
di dover tenere in considerazione, ed era certo avesse a che fare con
quanto Taja gli aveva riferito.
Come
poteva del resto un semplice uomo ergere una barriera simile a
protezione dei propri ricordi? Normalmente Vanth avrebbe potuto
leggerli con discreta semplicità nonostante lui li avesse
apparentemente rimossi; non ci riusciva, come se in effetti Dassen
non possedesse affatto memoria.
“Raccontami
chi sei” lo esortò “hai
famiglia?”.
Era
curioso che un veggente ponesse una simile domanda. Eppure il muro
intorno alla mente del visitatore aveva impedito a Vanth di sondarla.
Come
un antico eco, emersero nella testa del bambino parole materne.
"Se
accadrà qualcosa che non saprai prevedere od intuire allora,
figlio
mio, quello è semplicemente il tuo destino a cui non potrai
opporti
in alcun modo".
Quell'uomo
faceva parte del suo destino?
“Io..ho
una moglie” replicò Dassen “e due
figlie”.
“Qual'è
il tuo mestiere?”.
Non
era un mercante e Vanth già lo sapeva. Aveva le mani
callose, un
uomo abituato a mestieri più rudi.
“Non
lo so” esclamò infine l'uomo “davvero,
io non lo so”.
Il suo
sguardo vagava inquieto per la stanza. Cominciò a
focalizzarsi sui
vasetti che contenevano occhi umani immersi in liquidi giallognoli.
Cosa ci faceva in un posto simile? E perché non riusciva a
ricordare
la propria vita? Sentì il terrore paralizzarlo una seconda
volta.
Vanth
sorrise. Non di compassione, ma di eccitazione. Aveva uno strano
enigma davanti agli occhi e avrebbe dovuto risolverlo da solo. Senza
Queen Merleen ad aiutarlo, senza Taja.
Alla
mente si riaffacciarono le ultime frasi della sua guida: “c'è
agitazione, qualcosa di grave sta succedendo; fai di tutto.. fai di
tutto per scoprirne la causa”.
“Se
vuoi ricordarti tutto, io posso aiutarti” esclamò
Vanth Janas.
L'uomo
riportò l'attenzione sul bambino.
“Puoi
farlo davvero?” chiese e il veggente annuì.
“Preparerò
una pozione. Ma avrò bisogno di alcuni ingredienti che solo
tu puoi
procurarmi”.
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Capitolo 5 *** 5 ***
Dassen
impiantò la pala nel duro terreno.
Aveva
scelto la notte per scavare. La buca adesso era molto fonda e le
narici erano impregnate dell'odore della terra umida e smossa.
La sua
fronte era imperlata di sudore, così si passò il
dorso di una mano
sopra al viso, per arginare le gocce salate.
Sentiva
i battiti del cuore rimbombargli nella cassa toracica e l'eco
risuonare in un cupo rumore fino alle orecchie. La testa gli
martellava forte.
Non
era stato semplice trovare la tomba del padre, perché non
ricordava
di averne avuto uno.
In
effetti una mattina si era svegliato prendendo atto di avere anche
una moglie.
Si era
ritrovato davanti agli occhi una donna in sovrappeso con la vista
miope, il grembiule sempre infarinato e l'abitudine di mettergli le
mani addosso in continue carezze ed abbracci: lo irritavano.
Le sue
figlie, giovani donne sgraziate, erano in età da marito ma
nessun
uomo aveva avanzato nei loro confronti proposta di matrimonio,
così
le ragazze vivevano ancora nella casa natia.
Non
ricordava nulla di loro.
Si era
sentito lo stomaco bruciare e la testa vorticare. Un mostro a
divorargli il cuore.
Così
era scappato, sapendo che in qualche modo doveva raggiungere la
terra della veggente.
Un
solo nome nella testa e non quello della moglie, ma Queen
Merleen.
Aveva
bisogno di incontrare quella donna e parlarle. Sentiva che solo lei
sarebbe stata in grado di dare una risposta a tutto.
Aveva
usato quella consapevolezza come una bussola, percorrendo la propria
strada in lungo ed in largo, alla ricerca di qualcuno che gli
indicasse la via.
L'aveva
trovata, rimanendo tuttavia deluso. La donna apparteneva
all'aldilà,
ormai.
Al suo
posto il figlio di Queen Merleen. Nient'altro che un bambino. Che gli
aveva domandato di procurarsi l'osso di un morto. Di un famigliare
per la precisione, meglio se il padre.
Così
era tornato indietro, nella terra che non sentiva propria, nella
patria in cui sua moglie lo aveva atteso angosciata per la sua
scomparsa, ma speranzosa di rivederlo.
“Oh
sia lodato il cielo, sei tornato!” aveva esclamato, per poi
aggiungere “cosa? il nome di tuo padre? Oh povero Dassen,
possibile
che non ricordi neppure questo?”.
“Voglio
sapere anche dove è seppellito” aveva aggiunto
l'uomo “per
portargli dei fiori..”.
Non
era vero, una menzogna.
La
notte stessa si era avventurato fra lapidi di legno scuro, fino a
trovare quella desiderata su cui era inciso “Paull
Hartmen”.
Si era
inginocchiato. Con gli occhi fissi al terreno, aveva appoggiato la
pala affianco le proprie ginocchia.
“Salve
padre” lo aveva salutato parlandogli, come potesse sentirlo
da là
sotto “ti ricordi di me? Perdonami perché io
invece non ricordo
te; ma trafugherò ugualmente la tua bara”.
Agli
occhi di un figlio grato, quel gesto sarebbe sembrato empio e
sacrilego; ma suo padre non era che un semplice estraneo per lui,
ora: quindi perché avrebbe dovuto farsi tanti scrupoli a
strappargli
dallo scheletro l'ulna o il femore?
Si
umettò le labbra e, alla luce di una fiaccola,
osservò il baratro
che aveva creato: là in fondo, marcito, il legno che
conservava il
corpo del padre formicolava di vermi e altre disgustose creature. Si
calò nella buca, avendo cura di non crepare ulteriormente la
cassa
con il proprio peso. Alzò il coperchio e scoprì
liquame ed ossa più
che sufficienti ad un incantesimo maledetto.
Avrebbe
condannato il padre ad un limbo eterno? No, il veggente gli aveva
giurato che quella pratica non avrebbe intaccato il suo sonno, se non
per un breve momento: certo, sempre che l'osso fosse stato rimesso al
suo posto, una volta ultimato il rito. Dassen non era certo si
sarebbe preso un tale disturbo.
Chiuse
il coperchio e, mormorando una preghiera per la pace dell'anima sua
piuttosto che del morto, ricoprì della terra accumulata la
cassa,
fino a ricompattarcela sopra.
Qualcuno
avrebbe potuto sospettare qualcosa, il giorno dopo, alla luce del
sole; ma chi sarebbe mai andato a controllare la tomba di un uomo
morto almeno dieci anni prima?
Dassen
infilò l'ulna del padre in un sacco e se ne andò
veloce.
Qualche
giorno più tardi incontrava Vanth Janas.
Aveva
portato con sé tutto l'occorrente: l'osso del morto, un
proprio
vestito e un'offerta per gli spiriti, la capretta che ora belava
spaventata e che aveva faticosamente trasportato in bilico
sull'imbarcazione, attraverso la palude.
L'aveva
infine issata sulle spalle per salire la scaletta e raggiungere
così
la palafitta del veggente.
Vanth
lo invitò ad avanzare e Dassen ebbe un tuffò al
cuore al scorgere
gli occhi bianchi dello stregone: senza anima, senza vita, ma lui
sembrava presente. O quantomeno, fisicamente. Era spaventoso.
“Taja”
invocava “Taja”. Vanth non la scorgeva nel limbo
dei morti. Tornò
indietro, nel proprio corpo. In tempo per vedere che la capretta era
riuscita a liberarsi dalla presa dell'uomo, scalciando furiosa.
Dassen
aveva un'espressione truce e confusa a tempo stesso sul volto.
“Taja?”
ripetè l'uomo fra sé e sè. Conosceva
quel nome.. ma a chi, a chi
apparteneva? E perché percepiva un legame?
Il
cuore gli batteva molto forte e non aveva tempo di badare alla
capretta che zompettava in giro, sopra il legno consunto della
palafitta: inavvertitamente l'animale rovesciò il contenuto
di
ampolle e flaconi, oltre a sgabelli, libri.
Belò
forte, triste, ma Dassen non provò alcun moto di
compassione: no,
non l'avrebbe salvata dal crudele destino che l'attendeva.
Nella
vita precedente che non gli apparteneva più, aveva avuto
molta cura
degli animali. Non era stato altro che un mite pastore. Con le
proprie mani aveva aiutato molte pecore a partorire e salvato decine
di agnelli. Aveva permesso al suo gregge di prosperare. Si era
nutrito di latte e formaggio, aveva mantenuto la propria famiglia con
la lana.
Ora
avrebbe sacrificato una capretta a sangue freddo: era questo
ciò che
gli chiedeva Vanth Janas e non si sarebbe tirato indietro.
Afferrò
la testa della capretta con la mano sinistra e con la destra la
sgozzò sopra al pavimento stesso.
Il
rito aveva inizio.
Le
gambe dell'animale cedettero quasi all'istante e il corpo si
accasciò
su sé stesso.
Con le
mani imbrattate di sangue animale, l'uomo prese l'osso del padre e lo
gettò nel liquido scuro; in seguitò si taglio il
palmo della mano e
gettò sopra anche il proprio di sangue. Prese il vestito,
gli diede
fuoco e gettò anche quest'ultimo incrediente sul legno del
pavimento
che non bruciò insieme al tessuto.
Aveva
obbedito ad ogni ordine di Vanth Janas che ora cadeva in stato di
divinazione, gli occhi che diventavano bianchi.
Un
fumo acre si era levato in aria. Non alimentate, le fiamme delle
candele attorno crebbero da sole, guizzando in aria come lingue
rapaci. Calò un freddo innaturale sulla pelle di Dassen che
ebbe la
percezione di udire voci tutt'intorno.. solo una sensazione?
Scosso
da tremiti, Vanth Janas cominciò a fremere sulla poltrona. I
movimenti divennero più forti, il suo corpo si
agitò finché le sue
membra sembrarono scosse da mani invisibili. Era una scena
agghiacciante.
Dassen
mosse qualche passo indietro, ma la voce del bambino lo raggiunse,
intrappolandolo.
“Non
puoi più andare via” decretò il
veggente “ti inseguirebbero!”
ed erano parole che sapevano di maledizione. Il suo viso fine,
elegante di fanciullo, ora era deformato dal ghigno sulle sue labbra.
Il suo
corpo prese a scomporsi sulla poltrona.
Le
finestre chiuse si spalancarono all'istante e il vento impetuoso
soffiò dentro all'ambiente in cui il sangue del capretto
aveva già
cominciato a scomparire, assorbito dall'assetato legno del pavimento.
La
casa era viva. O lo erano gli spiriti, in quel momento.
Vanth
Janas si ritrovò catapultato sulla spiaggia del limbo. Al
sottile
confine fra vita e morte. Di nuovo e da solo.
Scrutò
l'orizzonte bianco, fumoso e lattiginoso. Intravide sagome grige
chiaro, muoversi al di là della barriera che lo separava dal
non
ritorno.
Il suo
corpo era sulla poltrona. Ma lui era altrove. Il suo spirito si era
levato e aveva raggiunto la dimensione dove normalmente Taja lo
attendeva. Ma lei non c'era.
Tutti,
lì intorno, erano in agitazione almeno quanto aveva visto
lei
l'ultima volta.
Sua
madre l'aveva messo in guardia: rischioso muoversi nel limbo senza
guida. Avrebbe dovuto obbedirle, ancora una volta; eppure sentiva un
forte richiamo. Il suo destino, ne era certo, lo stava spingendo in
quella direzione: a sfidare i moniti materni.
Doveva
proseguire, quella era la sua strada. Avrebbe osato avventurarsi fra
i morti, questa volta. Come un tempo aveva fatto Lane Eusten.
Uno
spettro gli si avvicinò. Non distinse le fattezze, ma
l'odore sì.
In qualche modo.. famigliare..?
“Dov'è
la tua guida, veggente?”
Era
un'anima tormentata, molto pericolosa.
“Non
è qui” replicò Vanth, raccogliendo la
concentrazione sufficiente
a mascherare l'agitazione.
“E
chi cerchi nel limbo, ragazzo? Noi
possiamo
aiutarti”.
Il
plurale non lo confuse: non era insolito che uno spettro ne facesse
uso per indicare se stesso. Nell'aldilà la consapevolezza di
essere
stato un tutt'uno svaniva e lasciava spazio ad una pluralità
di
coscienze; e a volte accadeva che diverse anime si fondessero in una
sola. Il principio era quello di rafforzarsi e completarsi. Quello
era il caso.
Vanth
Janas sapeva che doveva servirsi di quell'essere: in mancanza di
Taja, poteva approfittare di un altro spettro desideroso di
compiacerlo.. ma a quale prezzo? Del resto era ormai fatuo
domandarselo.
Anche
fosse tornato indietro, quello spirito lo avrebbe inseguito e
perseguitato. Si erano fiutati a vicenda e Vanth aveva percepito una
grande aura intorno allo spettro: abbastanza forte da potersi imporre
come una guida per un giovane veggente.
Non
c'era tempo per riflettere molto: intorno a loro si stava
già
radunando un coro di voci imploranti. Sentiva il collegamento con il
proprio corpo farsi labile ogni minuto di più. O tornava
indietro
rischiando l'ira dello spettro o sarebbe presto trapassato.
“Paull Hartmen”.
“So
dove trovarlo. Lo condurrò a te”
decretò lo spettro. Non
camminava. Si spostava da un punto all'altro con continue
apparizioni.
In una
di quelle apparizioni, Vanth fu certo di aver visto lo spettro
dividersi in tre parti, prima di ricompattarsi come una goccia di
mercurio. Era dunque un essere piuttosto giovane poiché
faticava a
rimanere perfettamente unito nelle sue triplici anime.
“Quale
offerta ripagherebbe la tua gentilezza?” domandò
Vanth. Il bambino
sapeva ormai bene che nessun spettro offriva servigi senza ottenere
nulla in cambio.
A
quella domanda, intorno a lui vorticarono tre emozioni contrastanti.
Era lo spettro a provarle: rancore, invidia e.. compassione.
“Il
tuo destino” pretese il triplice
essere “che sta per compiersi".
La
presenza scomparve con una risata spettrale.
Vanth
fu ricacciato a forza nel proprio corpo. La sensazione era quella
già
provata, la stessa di sempre, ma ugualmente violenta e dolorosa. I
movimenti frenetici delle sue membra contorte si arrestarono.
Tornò
in sé.
Riaprì
gli occhi che erano stati chiusi fino a quel momento, lentamente. Con
la vista bianca focalizzò l'uomo che era rimasto tutto quel
tempo
fermo, in silenzio, la gola secca.
Qualche
secondo e il bambino ebbe la percezione di un'altra anima nella
stanza.
“Tuo
padre è fra noi, Dassen” sussurrò
debolmente.
Paull
Hartmen apparì nel fumo grigio che si era levato dal tessuto
bruciato. Non era lontano ad assomigliare all'uomo che era stato in
vita. La sua anima aveva trovato la pace del sonno eterno, non
turbato più da alcun sentimento.. almeno fino a quel momento.
Paull
Hartmen era stato un uomo mingherlino, dai grossi baffi neri, con
occhi benevolenti e portamento fiero. Ora era circondato da un alone
dorato.
Non
vedeva, come del resto nessun spirito riusciva a fare. Ma sentiva. E
sembrava disorientato, come da prassi. Tutti gli spiriti, se
richiamati sulla terra, si sentivano spiazzati, persi.
“Perdonami,
gloriosa anima” si rivolse a lui Vanth Janas attraverso la
propria
mente. Aveva gli occhi fissi su un punto imprecisato della stanza,
nonostante lo spettro fosse davanti a lui, visibile nella nube
grigia.
“Il
veggente stregone Vanth Janas ti ha richiamato a sé. Intende
interrogarti e ti prega di rispondere al suo umile appello”.
L'anima
di Paull Hartmen si dimenò nella sua gabbia di fumo.
“Ti ascolto”
replicò ella, semplicemente.
“Percepisci
l'uomo qui, vicino a me? E' tuo figlio. Una disgrazia l'ha colpito e
rammenta ben poco di sé stesso. E io non sono in grado di
scorgere
il suo passato o il suo futuro”.
Lo
spettro si innervosì.
“Quello
non è mio figlio” replicò secco.
La sua
voce, tombale, era salda e sicura: ma la udiva solo Vanth Janas. Le
sue sopracciglia saettarono verso l'alto, nella fronte. Cosa? Non era
suo figlio?
“Non
hai generato tu questo uomo?” insistette Vanth Janas.
“La sua carne è carne
della mia” rispose l'anima di Paull “ma chi
abita il suo corpo non è mio erede”.
A quel
punto, Vanth si sentì spiazzato. Perse sicurezza; ma Queen
Merleen
l'aveva messo in guardia abbastanza bene da sapere cosa fare.
Continuare ad interrogare, scoprire in fretta e reagire.
“Sai
intravedere chi occupa il corpo di tuo figlio?”
domandò ancora
Vanth e Paull annuì.
“Egli
è uno spettro antico e rancoroso. Eliminalo o ti
porterà alla
rovina”.
Scomparve.
Il fumo si dissolse. La testa di Vanth ricadde in avanti, il mento
contro lo sterno nel petto. Le candele tornarono a bruciare
lentamente. Il vento lasciò spazio ad una piacevole brezza.
Il
tessuto smise di bruciare. Tutto si arrestò.
Passò
qualche istante. Immobile, Dassen aveva gli occhi sbarrati e il fiato
corto. La cute pallida e il sudore ghiacciato nella schiena. Aveva..
sentito. Sì, aveva udito un morto parlare! La voce di un
padre che
non era il suo: “egli
è uno spettro antico e rancoroso. Eliminalo o ti
porterà alla
rovina”.
Vanth
riaprì gli occhi e sollevò la testa. Era
intontito ma
sufficientemente lucido da alzarsi in piedi, barcollando.
Ora
capiva tutto. Non aveva potuto leggere la mente di quell'uomo
perché
non era definibile tale. Non aveva scorto ricordi, perché
non ne
aveva di umani. E il futuro di uno spettro in un corpo umano era
precluso ai suoi acerbi poteri. L'anima originale di Dassen?
Distrutta.
Era
senz'altro ciò da cui Taja aveva tentato di metterlo in
guardia. La
fonte della grave agitazione nel limbo. Uno spettro reincarnato: era
davanti a lui.
Alzò
di scatto la mano destra, quella che tanti anni prima era stata
tagliata dalla madre e che ora si era rimarginata in una cicatrice
spessa e bianca.
Aprì
le dita a ventaglio, in direzione di quell'uomo che celava in
sé uno
spettro dalla natura misteriosa. Mormorò parole in lingua
arcaica,
sconosciuta, nera.
Non
abbastanza velocemente.
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Capitolo 6 *** 6 ***
Dassen
ridacchiò. “Ora ricordo”
esclamò calmo e serafico.
Intorno
a lui si materializzò una barriera traslucida rossa, uno
scudo. Il
suo sguardo si fece crudele e vendicativo.
“Ingenuo
marmocchio” esclamò mentre Vanth si accorgeva con
orrore che lo
spettro incontrato nel limbo aveva intaccato i suoi poteri e
ciò gli
impediva di scagliare un malocchio sufficiente a distruggere lo
spettro reincarnato.
Aveva
aiutato un'anima dannata a ricordarsi di sé stessa e si era
indebolito. Un errore tremendo che sua madre non avrebbe mai
commesso. L'uomo annuì. Aveva letto quel pensiero nella
mente del
veggente.
“Già,
Queen Merleen non l'avrebbe mai commesso” confermò
Dassen “piccolo
crudele assassino. Hai goduto nell'uccidere tua madre?”.
Vanth
sgranò gli occhi, le pupille da rettile dilatate
“chi sei?” osò
domandare mentre si trascinava in avanti, lentamente. Come sapeva di
sua madre.. di lui?
Dassen
portò una mano al petto “io? Sono colui che per
anni ha protetto
Queen Merleen nella terra dei morti”.
Il
veggente conosceva bene il suo nome e non l'aveva dimenticato. Nelle
orecchie ancora la voce della madre e la litania crescente
d'invocazione.. “Selander..
Selander..”. La
guida di Queen Merleen.
“Selander”.
L'uomo
sorrise. L'odore che emanava in quel momento era terribile.
Più del
sangue rappreso. Più di un corpo in putrefazione. Vanth fu
costretto
a stringere gli occhi perché bruciavano. Si sentì
soffocare.
“Cosa
voglio?” esclamò Selander, leggendo fra i pensieri
di Vanth “te”
rispose.
Il
bambino perse l'equilibrio e cadde in ginocchio; a nulla gli valse
tentare di reggersi ad uno scaffale di legno. Nella caduta ruppe un
prezioso cimelio, ricordo della madre.
“Queste
membra sono deboli” specificò Selander toccando il
corpo che una
volta era stato Dassen, un uomo che mai più avrebbe trovato
il
conforto dell'aldilà.
“La
lurida puttana di tua madre ha tentato di proteggerti fino alla fine;
ma il tuo corpo appartiene a me, da sempre”
commentò lo spettro.
Selander
schioccò le dita e gli arti di Vanth si contorsero fino a
spezzarsi;
non era un'illusione. Il bambino gridò. Dagli occhi
sgorgarono le
lacrime ma si ricordò che non poteva cedere al dolore, la
vecchia
lezione di sua madre. Si ribellò. Fece appello ad ogni
stilla di
potere, scoprendo che era dannatamente poca.. lo spettro.. lo spettro
nel limbo lo aveva privato della forza necessaria persino a
sopravvivere.. Vulnerabile, si sentì perso. Ed infine
morì.
Quella
notte l'anima di Vanth Janas abbandonò la materia e si
rifugiò nel
limbo, diventando come gli spettri che per anni aveva consultato,
insoddisfatti e dannati.
Era
una notte buia di luna nuova.
Il
corpo di Vanth era ancora caldo quando Selander se ne
impossessò.
Riverso a terra, il nuovo Vanth Janas riaprì gli occhi verdi
melma.
Si alzò in piedi, le ossa frantumate e le articolazioni
slogate; ci
fu un cric
netto
a cui ne seguì un altro ed un altro ancora, mentre il corpo
si
ricomponeva e Selander tastava il piacere di avere una nuova casa da
abitare. Qualche attimo e gli arti furono ricomposti.
Accasciato
a terra il corpo di Dassen ormai vuoto, come il guscio spezzato di un
mollusco. Era stato un uomo che si era semplicemente trovato al posto
giusto nel momento giusto: una disgrazia
inevitabile.
Per
festeggiare la propria vittoria, Selander afferrò per le
braccia il
corpo. Lo trascinò lungo il pavimento, lo alzò di
peso ed infine lo
gettò oltre la balaustra, nella torbida acqua della palude.
Un
caimano nelle vicinanze si mosse placido, colpi di coda ben
assestati, fino a raggiungere il cadavere che galleggiava.
Aprì le
fauci e le richiuse sopra al corpo, trascinandolo con i denti fino
alla spiaggetta vicina dove lo avrebbe divorato con calma.
“Sì,
amico rettile, sì. Sbrana, divora!”
esultò Selander con la vocina
di Vanth.
Chiuse
le finestre e si sedette sulla poltrona di Queen Merleen. Ah che
soddisfazione possedere quanto lei aveva posseduto! Iniziava la sua
nuova vita, ma non sarebbe stato solo.
Osservò
le proprie nuove mani e le strinse a pugno: fra le dita
sentì fluire
una forte energia vitale, ancora acerba ed in qualche modo..
indebolita? Era certo fosse questione di attimi. Presto avrebbe preso
totale controllo di ogni fibra di quel corpo ed allora avrebbe
compiuto il primo rito.
Anni
prima era stato lui a sussurrare a Queen Merleen che il loro
figlio avrebbe sviluppato grandi poteri.. essenziali per potersi di
nuovo impiantare nel mondo materiale con fattezze umane.
Sì,
Queen Merleen aveva partorito nient'altro che un nuovo contenitore
umano per la propria guida spettrale.
Una
vecchia lezione riecheggiava nell'aria. Una lezione sulle guide
nell'aldilà.
“..
ascoltami bene Vanth Janas! Dovrai accontentarla qualsiasi cosa ti
chieda, andasse anche oltre la tua volontà.
Non rischiare di deludere la tua guida nella terra dei defunti,
perché potresti finirci tu stesso dentro e non trovare pace
per
l'eternità”.
La
donna era stata una strega prima ancora che una madre. Una veggente
votata all'occulto e alla sopravvivenza.
Quando
la sua guida gli aveva domandato un nuovo corpo in cambio dei suoi
servigi nel limbo, lei non aveva neppure tentato di opporsi. In fondo
la natura non l'aveva creata per procreare ed avere bambini.
Gli
aborti spontanei erano stati il segno della sua inadeguatezza a
crescere un feto e la prova più tangibile che non fosse
destinata ad esser madre.
Quindi
Vanth Janas era figlio di Selander prima che suo. Un bambino
contenitore generato davvero da un rettile, poiché Selander
aveva
posseduto Queen Merleen proprio con le fattezze di un enorme
alligatore.
Eppure,
nel crescere quel bambino la donna vi si era affezionata. E se non
poteva rivelargli il suo destino poiché nessun veggente
può
mostrare il percorso ad un altro, lo avrebbe istruito il più
possibile in previsione del giorno in cui il padre avrebbe preteso il
frutto del proprio seme.
Ma
Vanth Janas le aveva squarciato il ventre: lo stesso utero che lo
aveva partorito e condannato al suo maledetto futuro. L'aveva infine
gettata nella palude, un banchetto squisito per gli alligatori.. ed
era stata Taja a costringerlo all'empio gesto.
Era
stata quella la demoniaca richiesta. “Uccidi
Queen Merleen”.
Taja
che ora appariva davanti a Selander mostrando un sorriso amaro.
“Sei
stata brava” decretò il vecchio spettro nel corpo
del fanciullo.
Lei
sembrò sospirare d'orgoglio, un lieve alito di vento che
accarezzò
le labbra di Vanth, ora di Salander. Lui e la sua antica sposa erano
stati complici in quell'oscuro progetto.
“Aiutami
ad impossessarmi di Vanth Janas e torna in vita con me, di nuovo
insieme, per sempre”.
Lei
era pronta a resuscitare. Sarebbe rinata nel corpo di una neonata.
Una madre stava partorendo nel villaggio vicino. Tutto era pronto per
essere compiuto e il rito poteva avere inizio.
Ma
poi gridò con orrore “fai in fretta amore..
perché sta
arrivando!”.
Improvvisamente
Taja fu avvolta da fiamme azzurre, affamate. La sua anima prese fuoco
e bruciò. Pezzo dopo pezzo si incenerì
velocemente.
Nel
suo nuovo corpo umano, Salander non poté frapporsi e
salvarla. Urlò
di rabbia mentre ebbe la rivelazione che qualcuno, anzi qualcosa,
aveva privato temporaneamente il corpo di Vanth dai poteri
sufficienti a contrastare ciò che accadeva davanti ai suoi
occhi.
Ecco perché impossessarsi di Vanth era stato tanto semplice!
Le
fiamme guizzarono in tre grosse lingue brucianti. L'anima di Taja si
ridusse completamente in polvere e il fuoco azzurro ingoiò
la sua
cenere spettrale, rafforzandosi notevolmente.
A
nulla le era valso nascondersi tutto quel tempo. L'Essere l'aveva
seguita ed infine trovata.
La
sposa era stata divorata.
Dopo
anni d'attesa, il triplice spettro ebbe potere sufficiente a
comparire con lineamenti vagamente umani, nel fumo del sacrificio
compiuto.
Il
volto triangolare possedeva due larghi occhi ovali ed un mento
aguzzo. Privo di orecchie e narici emetteva un ronzio sinistro dalle
labbra sottili e seriche. Lo spettro aveva l'aspetto di un feto, ma
tre erano le anime che vi abitavano dentro.
I
figli abortiti di Queen Merleen. La vera
minaccia che aveva sconvolto il limbo. Poiché se reincarnati
i
dannati figli della veggente erano un pericolo ben più grave
del
vecchio spettro.
I
feti desideravano quanto Salander aveva già ottenuto: il
corpo di
Vanth, loro fratello. La possibilità di esistere, finalmente.
Grida
si levarono nella fetida aria notturna. La terra sotto la palude
vibrò. La palafitta crollò su se stessa.
Più
lontano, nella spiaggetta di terra fangosa, Mr. Jambo lacerava il
cadavere dell'uomo di nome Dassen.
I suoi
occhi gialli si inumidirono nello sforzo di inghiottire, ma
ciò non
gli impedì di tenere lo sguardo fisso sulla sua vecchia
dimora
fatiscente, quando era stato l'unica vera padrona della palafitta, la
potente e temibile Queen Merleen.
Era
tornata. Fecondata da un rettile, ora era lei stessa un alligatore.
Nata in uovo, sotto gli occhi del suo bambino ormai morto.
Impotente,
mentre osservava i figli mai nati consumare il loro rito in una notte
di luna nuova.
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