Beast

di pandaisia
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 01. prologo ***
Capitolo 2: *** 02. Anche i Lupi Piangono ***
Capitolo 3: *** 03. La Morte ti ha sorriso ***



Capitolo 1
*** 01. prologo ***


01. PROLOGO

 

La famiglia Petty-FitzMaurice era quella che potremmo definire una famiglia per bene.
Sempre ben agghindati, i quattro membri di quella "perfetta" famiglia, pranzavano alle dodici in punto e cenavano alle sette ogni sera, non un minuto in più, non un minuto in meno. In sottofondo non potevano mai mancare gli ordini sussurrati alla servitù della padrona di casa ed il capofamiglia non scordava mai neppure una volta di sorseggiare del brandy nello studiolo posto al secondo piano. Lì, un caminetto riscaldava l'ambiente ogni dì e senza sosta veniva attizzato dalle mani esperte dell'uomo o più spesso da quelle smagrite delle cameriere. Sebbene il loro fosse l'ennesimo matrimonio di convenienza, i due coniugi avevano imparato a parlarsi con lunghe occhiate silenti e per placare la solitudine, avevano generato due giovani eredi. Vivevano in un'incantevole villetta poco fuori Manchester, Inghilterra, e per certo la loro era una posizione di tutto prestigio in quell'ambiente. Conosciuti, rispettati e da certi poco sciocchi persino temuti, gli abitatori di quella casa si destreggiavano in una vita apparentemente impeccabile, dietro vetrate colorate e sguardi severi. Tuttavia converrete con me quando affermo che ogni famiglia ha le proprie colpe, oscuri peccati commessi e mai riscattati, torbidi misfatti che farebbero venire i capelli bianchi persino alle peggiori donne di malaffare. Nel caso della famiglia in questione doveva essersi scatenata su di loro una strana malia, una maledizione ereditata dagli sbagli dei loro predecessori e forse anche dai loro.
Phillip Donovan Petty-FitzMaurice era uno stimato medico, aveva il vanto di curare l'isteria*, e sua moglie Enriette Marie non faceva altro che ciarlare, ciarlare ed ancora ciarlare su come andava il tempo, sui cappellini e sul malcostume di certe signore che si atteggiavano a borghesi quando in realtà erano solo della contadinotte arricchite. E lei lo sapeva, li conosceva i contadinotti giacché erano gli stessi con cui aveva passato l'infanzia nella villa in campagna della famiglia, osservandoli con sdegno e curiosità dietro le tendine trinate della sua stanza. Non aveva memoria d'esser corsa fuori per giocare coi figli del fattore, ne nessuno aveva mai ricordato quell'evento sorridendo, eppure in certe notti Enriette sentiva sotto i propri piedi la morbida consistenza del terriccio: da dove venisse quel ricordo, non lo sapeva. Non era mai stata una donna forte, quella lì, alternando periodi di profonda depressione a momenti d'alcolismo e gioia immotivata. Lei e Philip si erano conosciuti giovanissimi, adolescenti, figli di affaristi nel medesimo settore. Divennero ben presto una coppia, unitasi in matrimonio per volere dei genitori d'entrambi. Un contratto stipulato con due anelli e del pizzo bianco pallido. Nei vent'anni che si erano ritrovati a trascorrere fianco a fianco, nello stesso letto e sotto lo stesso tetto, erano state molte le volte in cui la cara Marie aveva storto il nasino ed altrettante quelle in cui Phillip l'aveva accontentata. Sciocchezzuole, ripeteva di tanto in tanto.
In venti lunghi anni di annoiate chiacchiere e discussioni, avevano ben pensato di procreare. Due volte. Due eredi, due figli. Un maschio ed una femmina, ed erano loro il vero ed inconsapevole problema di quella coppia non più giovane. Screanzati, li avrebbero chiamati, disgraziati, assassini, maledetti, blasfemi, imperdonabili. Se solo avessero aspettato un decennio o poco più, li avrebbero visti peccare dei peggiori reati di quella società perbenista nel quale ahimè avevano visto la luce. Dei peccati dell'ira, della lussuria, della cupidigia, della menzogna, del furto. Il pimogenito, Adrian Byron Petty-FitzMaurice, era un ragazzotto silenzioso e lo era stato sin dalla nascita, eppure pareva covare dentro di se sempre qualcosa pronto a mettere ferro e fuoco il suo animo. Estremamente irascibile, ma leale ed ambizioso, s'aggirava per le vie della città con estrema eleganza. Portava i capelli lunghi, infinitamente neri, ed i suoi occhi erano così azzurri quasi da far male. Parevano lame di ghiaccio, stralci di cielo strappati al firmamento illuminato dal sole nei giorni in cui, misericordiose, le nuvole scivolavano via sospinte dal vento. Non recavano però la stessa pace, ed erano invece capaci di narrare i più impudici pensieri di quello che bambino divenne uomo troppo presto, troppo curioso del mondo. Bramoso, scaltro, lesto con le mani ed ancor più con la lingua la giocava alla pari con la piccola di casa. La secondogenita si chiamava Caroline, e portava per secondo nome quello della figlia del Dio dei venti Eolo, Halcyone. Pareva essere l'antitesi del fratello. Aveva lunghi capelli ramati, boccoluti come quelli delle bambole di porcellana che sua madre le proibiva di toccare, e grandi occhi verdi come i prati intorno alla villa. Una bimba irruenta, intelligente e restia alle regole ed all'etichetta che tutti in quella casa parevano volerle impartire. Vestiti dei begli abiti della domenica, i due figli della coppia erano cresciuti ed altrettanto dabbene agghindati avevano fatto il loro ingresso in società danzando e dimostrando la loro intelligenza con bei paroloni e tante teorie. Avevano venti e diciotto anni, reduci da studi privati e spiccate discussioni nella biblioteca di famiglia, quando il mondo vorticò loro intorno dilaniandoli a tal punto da renderli protagonisti di una profezia che non era mai stata scritta, ne pronunciata.
Al rintocco della mezzanotte, il vento cambiò portando nella cittadina l'acre odore di fiere in lotta. Guinevere e Bersack giunsero in Inghilterra complice una fredda notte del milleottocentotrentatre. La prima imbarcatasi su un mercantile francese in cui ben pochi lavoratori erano rimasti in vita – ritrovarono le pareti tinte di rosso rubino e solo alcuni dei corpi dei marinai sbranati sino alle ossa – poggiò i propri piedini di fata sulla terra ferma che era da poco scoccata la mezzanotte in quello che decenni più tardi sarebbe stato chiamato un porto ed il secondo, correndo tra i boschi era giunto dalla più profonda e temibile Scozia. Come raggiunse Manchester la donna, poi, fu un mistero che sarebbe stato facilmente scoperto che solo si fosse studiata con maggiore attenzione la moria di uomini ed animali che quella si lasciava alle spalle. Come nessuno notò l'uomo, al cui seguito portava un branco di scavezzacollo ringhianti pronti a menar le mani, lo si sarebbe dovuto domandare alle bestie trovate uccise ai margini delle boscaglie. Si detestavano, potevano sentirsi dai lati opposti di quella cittadina addormentata. Persino l'odore dell'uno era ripugnante per l'altra ma per quell'unica volta avrebbero lavorato insieme, una volta soltanto e poi ognuno sarebbe tornato al proprio mondo ed alla propria
non-vita


 

*Isteria: è un termine che è stato utilizzato nella psichiatria dell'Ottocento per indicare una tipologia di attacchi nevrotici molto intensi, di cui erano generalmente vittime soggetti femminili. Il termine viene dal greco Hysteron, utero. Infatti nell'antica Grecia si considerava che la causa di sintomi di questo tipo nelle donne fosse uno spostamento dell'utero.

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Capitolo 2
*** 02. Anche i Lupi Piangono ***


02. ANCHE I LUPI PIANGONO

 

BERSACK

Il suono del sangue, così come quello dell'acqua che gocciola indisponente da alte inferiate arrugginite dal tempo e dalla copiosa pioggia, riempiva le sue orecchie in un fastidioso ticchettio. Pochi istanti ancora, lo sapeva, ed una nuova goccia avrebbe fatto tremare le sue mani. « Spostatela di lì! » Tuonò. Dalla penombra un paio di uomini dal capo chino si mostrarono. Indossavano abiti modesti: camiciole che avevano visto certo tempi migliori – molte lune addietro, per certo! - e calzoni sudici di fango e bagnati della pioggia di quell'illune notte. Due bardachta*, gli stessi che avevano portato notizie del dheis* Doran e del làmh* Abram, ed un giovane che Bersack neppure guardò coprirono il chiarore di quella pavida notte con le proprie figure. Qualunque cosa fosse avvenuta, il quel cerchio di antiche pietre nere, qualunque nefandezza avesse macchiato per sempre più di una mente, lì sarebbe rimasto un segreto. Un tacito ricordo, negli occhi di quanti quella notte avevano assistito alla venuta di un nuovo membro del gruppo. Non lo avrebbero mai accettato, una mosca bianca in mezzo a folte pellicce nere. Una piccola figura dai capelli ramati venne sollevata in maniera maldestra, tant'è che per un momento parve destarsi dal suo torpore mormorando qualcosa di non comprensibile. Un nome, forse, poche parole biascicate in quel sonno impostole. Rimase solo, il capoclan, rigirandosi nell'umido piazzale nel quale il rito si era compiuto. Incosciente, forse, che qualcuno sotto vento li stava osservando dall'alto d'una guglia non troppo lontana, Bersack si scrollò di dosso la stanchezza scuotendo la lunga chioma castana. Ribelle quanto il suo essere, quella si mostro leonina di ricci trattenuti per troppo tempo. « Mostrati! » Urlò, parlando ad una luna invisibile in quel cielo di cupo nero punteggiato di pigre stelle. Chiamava sua madre, come un infante affamato. In un sottile frusciare invece la morte si palesò, mostrando un nasino infrancesito dagli anni passati in quella terra di mangiatori di rane e due occhi felini e taglienti come rasoi. Non disse molto, incedendo silenziosa nella sua veste di seta. Sotto al pesante mantello scuro, un corsetto color borgogna nascondeva ciò che della sua cena le era rimasto aggrappato addosso. Come unghie, come fango, come sangue. Un altro passo, due ticchettii molesti. « Com'è andota? » Sussurrarono le sue labbra vermiglie, carezzandolo con lo sguardo lascivo di una gatta salottiera. Bersack, che fino a quel momento aveva trattenuto a stento il proprio disprezzo digrignando i denti dietro labbra serrate e contratte, le afferrò un polso e la strattonò. Lo sentì scricchiolare, sotto quella sua stretta. « Non dovresti essere qui, donna. Vattene! » Borbottò, lasciando sibilare la propria lingua. Maschilista, dal grutturale accento scozzese, detestava l'idea di aver quella damina uscita da una casa di bambole – maledette – al suo fianco in quell'interminabile obbligo. Ma lei non era dello stesso avviso di quel grosso cane da guardia spettinato dal vento. Lei abituata al lusso. Lei venerata come una Dea. Lei eterea ed eterna. Sollevò un sopracciglio, schioccando la lingua sul palato. « E per quale motivo, di grozia? » Per molti motivi. Tra tutti, non aveva pronunciato la verità dinanzi ai suoi fratelli di sangue e di maledizione. Non aveva detto loro con esattezza ciò che in quella landa tanto distante dalla loro dimora si stava compiendo. Le mogli di quegli uomini attendevano a casa, poche avevano ricevuto quel dono dalla forma di una pallida luna piena, e non avrebbero scaldato le loro brande per chissà quanto tempo. Non aveva raccontato, e trovare quella donna nello spazio che si erano ritagliati in una città chiassosa e polverosa, una donna come lo era Guinevere, sarebbe stato un affronto difficile da spiegare persino per lui che quel gruppo di fratelli lo domava. Ma se è vero che i cani ed i gatti si odiano, è vero anche che altre due razze si disgustano a tal punto da farsi la lotta da che il mondo è stato generato. Due razze che, occhi negli occhi, si scontravano in una piazza bagnata di fresco. « Perchè sono io che comando, nel mio quartiere. Vattene, prima che gli altri fiutino il tuo olezzo mortifero. » Guinevere sembrò esser stata punta sul vivo, ed allontanò con uno stizzoso gesto della mano il volto del suo naturale nemico: un alleato, per convenienza. Indietreggiò, con la medesima grazia di una ballerina gli girò intorno. Forse, qualche tempo addietro, aveva danzato leggiadra su un palcoscenico o due ringraziando con abili inchini e sorrisi imbarazzati. Di quel passato lontano la donna aveva rimpianti? Aveva dovuto abbandonare tutto per colpa di un infortunio mortale, o solo s'era accostata a quanto di più caro avesse? Quesiti a cui nessuno avrebbe risposto, sopratutto lei dal suo pericoloso sguardo di ghiaccio. Avrebbe voluto domandare da quando quello era il suo quartiere, quando era stato deciso, e quanti esseri pelosi avevano viaggiato in stive infestate di ratti carnivori ed immigrati clandestini – che poi, dall'alto del suo altezzoso carattere, non trovava le due cose molto diverse! - raggiungendo quella vecchia fabbrica ormai mangiata dalle fiamme. Il suo quartiere. Le venne da ridere, sadica assassina di giovani vite. « Quanti complimenti, per una sola notte. Ebbene me ne andrò, ma spero per la tua tosta pelosa che quella che i tuoi schiavi portavano fosse davvero la giovone giusta. » Due occhi neri pregarono di poterle dare fuoco, di ardere quella sua vanagloriosa presenza. Iridi scure di carbone, pece, vuoto. Iridi profonde incastonate nello sguardo di un uomo furioso. Le ringhiò di andarsene, prima di volgergli le spalle allontanandosi da quell'increscioso luogo. Mosse pochi passi, come la diva di uno spettacolo teatrale che questi non aveva mai avuto modo di vedere - troppo selvaggio, insisteva a dire, per prendere parte alla vita di uomini e donne con la cipria sulla punta del naso –, e si volse verso la femminea figura. Aveva la necessità d'avere l'ultima parola. « E' lei, prelevata direttamente dalla sua scuola. Adesso va, Guinevere. » La donna chinò il capo, silente segno di saluto che lo stesso Bersack ripropose ringhiando sottile. Ella scomparve come inghiottita dal buio suo amico, e lui ne fu lieto.
Stava per rientrare, mettere un piede davanti all'altro sino alla pesante porta di ferro battuto che li teneva tutti al sicuro, quando un gran chiasso lo immobilizzò. Immediatamente all'erta, la mano destra scivolò sul fianco alla ricerca di un pugnale conficcato nella cintura. Un pugnale d'argento dall'impugnatura di una strana pelle chiara, quasi diafana tant'era chiara. Una pelle vagamente umana. « Signore, ho sentito dei passi! » Una mezza tacca si fece largo tra tubi divelti dalle fiamme e pile di mattoni anneriti, uno di quelli obbligati a sottostare alle regole. Non gli era concesso ribellarsi, sebbene il suo athar* si trovasse altrove. Lui non avrebbe comunque potuto, perchè li temeva tutti. Temeva Bersack, e Mairì sua moglie. Temeva i lukoi*, e dunque anche se stesso. « Ero io. » Bugiardo. « Degli altri passi. » Uno sbuffo contrariato fece indietreggiare il giovane, avvezzo agli scatti d'ira dell'altro. Non vi era niente di buono, in quei soffi inattesi. « Ti ho detto che ero io, Thomas. Adesso lasciami solo. » Thomas era un giovane poco più che ventenne, azzannato in una notte di luna piena da quella che era la secondogenita del suo Signore. Si chiamava Diorbhal, ed aveva gli occhi neri di sua padre e la chioma ribelle della madre. Era scomparsa di sua volonta, fuggita chissà dove col favore della notte. Se Bersack aveva accettato la decisione della giovane figlia, il maggiore tra i suoi discendenti non aveva fatto lo stesso ed era morto nel cercarla. Mangiato dalle tenebre, riconsegnato squartato dalle stesse. Forse per quel motivo Thomas era tanto odiato, tanto ignorato e schernito e maltrattato da chiunque fosse imparentato con l'alfa per linea diretta. Colpevole di avergli distrutto la famiglia, il giovane ed inesperto lupo nero aveva corso per ore ed ore solo nella notte. Aveva imparato a vedere oltre l'osservabile e ad udire oltre l'udibile. « Sissignore! Volevo soltanto informarvi che siamo pronti per il trasporto, domani all'alba lasceremo la signorina dove avete deciso. »


 

CAROLINE
 

Piovevano gocce sottili e solitarie, cadevano ritmate quasi seguissero il rombo di una grancassa. Il cielo svettava sulle strade della cittadina come una pesante coltre di cenere fredda e posticcia, impalpabile. Avrebbe voluto sollevare una sola mano, una soltanto per acchiappare un ciuffo di quelle stesse nubi temporalesche per saggiarle: avrebbero avuto il sapore dello zucchero filato, e della neve appena caduta, della crema alla fragola e di baci gentili. Avrebbe avuto un buon sapore per lei che bramava nel vedere le saette, in lontananza, spaccare il mondo in due identiche metà. La giovane non aveva idea di dove si trovasse, ne ricordava esattamente ciò che l'aveva portata lì. Rimembrava solo di essere entrata in aula, nella scuola privata – un'università - che frequentava con il fratello, di essersi guardata intorno per poi fuggire sbattendo la porta prima ancora che l'insegnante giungesse. Era svanita. Forse qualcuno se n'era accorto, ma non le interessava granchè. Non avrebbe resistito un'ora, figuriamoci due, non sarebbe sopravvissuta e forse era ciò che l'aveva fatta scattare coi suoi lunghi capelli d'ebano e rame. Come un ricordo, come la memoria fallata di chi non ha più un passato, lei era sfuggita alle luci per cercare l'ombra, il fresco, la libertà. Quel desiderio le lambiva i fianchi come il più appassionato degli amanti, la stringeva e la ghermiva. Lei, che per nascita era una predatrice, si ritrovava ad essere invece la vittima di un qualcosa di difficilmente raggiungibile. La libertà, una dolcissima utopia. Suo padre e sua madre avevano invero imposto un veto a quella parola, decidendo a suo nome la maggior parte dei passi che avrebbe dovuto compiere. Ella sarebbe dovuta rimanere lì, come un gatto intento a graffiar porte che non si sarebbero certo aperte, attendendo e non desiderando affatto il proprio destino. Avrebbe preso marito nella media borghesia inglese, ed avrebbe generato almeno due pargoli urlanti che aveva idea l'avrebbero fatta divenire pazza. Non sapeva se, ancora una volta, sarebbe stata in grado di ribellarsi. Si mosse, i suoi abiti crepitarono e si strapparono in uno sbuffo contrariato. Scivolò sull'erba bagnata, nelle narici ancora l'odore di tempesta e di vento freddo e pungente. Non era triste, affatto, era lieta d'esistere e di poter fare della sua vita ciò che voleva, seppur per qualche ora. L'erba era fresca, sotto ai suoi piedi fasciati da scarpette nere, lucide. Gli occhi parevano velati di pianto come quelli di una ragazzina triste, bruttina, rifiutata dall'amore della propria vita. Ma che cos'era l'amore? Non lo sapeva neppure lei che tanto aveva spasimato, ed ansimato, eppure qualcosa la scuoteva, qualcosa di non ben identificato che tuttavia non profumava di violette e fiori di campo, piuttosto di guai.
Respirava, ed il suo petto si sollevava ed abbassava con una tale naturalezza che neppure se ne rendeva conto. I bambini lottano per respirare, gli adulti lo danno ormai per scontato. Quand'era piccola Caroline aveva rischiato di morire, una brutta tosse infatti l'aveva costretta a letto per mesi interi. Adrian, nel suo piccolo, le aveva fatto compagnia ogni volta che il loro padre lasciava la di lei grande stanza. Non rimembrava quasi più quelle vicende, eppure forse avrebbe dovuto. La pioggia le aveva bagnato le gambe, nude, ed il petto laddove l'abito giaceva strappato da lunghi graffi che ancora non aveva potuto vedere. I capelli si erano arricciati, molesti, scompigliati in croste e nidi in cui volentieri avrebbero fatto il nido orridi pennuti dalle piume nere come la pece. Tuttavia però, la frangetta spostata di lato le dava un'aria più bambina, innocente e spaurita Se l'avessero vista, malamente distesa sull'erba, l'avrebbero creduta morta, eppure si stava muovendo. Tutto in lei bruciava, quasi covasse una fiamma sempre eterna, ed era sveglia, vigile e silenziosa. Gli occhi verdi, più scuri che mai, osservavano il cielo e si chiudevano di tanto in tanto quando le ciglia erano troppo cariche di stille di pioggia. Non era pianto, quello che le rovinava sulla guance pallide, screziate dall'ombra di lentiggini che da tempo l'avevano abbandonata. Non riuscì ad alzarsi, quella povera figlia di Eva, da quel nefasto umore che le aveva cinto la vita. Le aveva domandato di ballare, ed ella era stata costretta ad accettare. Da quanto si trovava lì? Un pensiero oscuro tanto quanto la notte stessa le si insinuò nel capo, e non ci furono tentativi che andarono in porto. Ella non se lo scrollò di dosso come avrebbe fatto con una sudicia coperta. Invero si alzò, con gli occhi addolorati ad ogni movimento. Corse, scivolò sul verde di quel prato che non sapeva dove fosse e dove si trovasse. Caroline era una donna fatta e finita sotto espressioni fanciullesche e sguardi saccenti. Era capelli intrecciati lungo la schiena, adesso arricciati ed intrigati tra ciuffi d'erba e piccoli insietti, occhi verdi come le piante che stava osservando, adesso cerchiati di sonno e stanchezza. Era labbra piene, sorrisi stentati, risate sguaiate. Si perse diverse volte prima di calarsi il cappuccio sul capo, incontrando la pioggia che anche quel giorno avrebbe marchiato la sua vita. Quando trovò la giusta via di casa, il sole faceva nuovamente capolino tra nubi grigie ed iraconde. Non aveva idea dell'ora che fosse, ma la porta di casa sua era socchiusa. Era strano, estremamente insolito come l'ombra frusciante che le era parso di aver visto qualche volta durante quel suo lungo pellegrinare.
Mosse pochi passi al primo piano di casa Fitz-Maurice, dopo essersi chiusa la porta alle spalle, prima di notare che non vi era anima viva. Nessuna madre, nessun padre. Neppure Adrian. « C'è nessuno? Cameriere, dove siete? » Sussurrò, un fil di fiato che persino lei stessa faticò ad udire. Qualcuno però, tra quelle mura rabbuiate dalle pesanti tende di velluto, aveva sentito il suo richiamo. In religioso silenzio una mano la afferrò per un braccio, attirandola con forza nel corridoi che se percorso sino alla fine l'avrebbe condotta ad un piccolo bagno di servizio. Istintivamente cercò di proteggersi, di nascondere il volto deturpato dalle occhiaie e dalla stanchezza. Non udì alcun rimprovero, soltanto un fragoroso schiocco, il più forte che avesse mai udito. Uno schiocco che graffiò le pareti ricoperte di floreale carta da parati rosata. Uno schiocco che distrusse i cristalli celati dietro pesanti sportelli di lucido legno massello. Il volto le bruciò, e solo allora si rese conto di ciò che le era appena accaduto. « Adrian, che cosa stai facendo? » Si portò una mano ala guancia, allarmata e sorpresa. Suo fratello non aveva mai alzato una mano su di lei. Ma se il suo mantello copriva le ferite, il colletto inamidato della camicia di lui non nascondeva un collo arrossato e violaceo, escoriato da qualcosa che non poteva vedere. Cercò di toccarlo, quel lungo collo, ma non vi riuscì. Venne fermata prima, un nuovo schiaffo colpì quelle sue dita affusolate e sporche di terra. « Ti punisco! Sono giorni che ti copro, con nostro padre e nostra madre. Che nascondo la tua evanescente figura. » La voce tagliente di suo fratello la ferì più di ogni schiaffo. I suoi occhi gelidi le scavarono dentro, quasi volessero vedere da soli ciò che ella aveva combinato nella sua presunta sparizione. Eppure non aveva alcun ricordo delle ore trascorse, del tempo che l'avevano aggettivata come evanescente. Come un fantasma. Caroline soffiò, figlia dei venti, rimirandosi nelle iridi del fratello. Non comprendeva davvero che cosa quello stesse dicendo. In un primo momento aveva creduto fosse ubriaco, ma le sue labbra non odoravano di liquore, aveva allora pensato la prendesse in giro con quel suo solito modo di fare burbero ed incattivito. Aveva ancora una volta sbagliato, perchè il maggiore tra i due stava esprimendo tutta la sua preoccupazione, ed il suo orrore nel vederla in quelle condizioni. Glielo lesse nello sguardo, che non stava giocando. « Giorni? Sono uscita questa mattina insieme a te, oggi è martedì e ne sono certa perchè ogni martedì abbiamo lezione insieme. » Scosse il capo, stringendosi nel cappotto che ritrovato poco lontano dalla sua figura distesa sul prato aveva coperto ferite che lei stessa non aveva notato. Si era premurata di scappare, stringendo il proprio corpo in quel tiepido tepore. Quando suo fratello, allarmato dalla sicurezza con cui aveva parlato, si ritrovò a scuotere la testa ella sollevò le sopracciglia e si fece pallida in volto. « No, Caroline. Tu non sei mai entrata in aula con me, e oggi è giovedì. »

 

 

 

*Bardachta: guardie e sentinelle tra i lupi mannari.
*Dheis e Làmh: destro e sinistro dell'alfa.
*Athar: altro modo per definire l'alfa tra i lupi mannari.
*Lukoi: o lupi. Il modo in cui si chiamano tra di loro i lupi mannari.

Dai miei studi in merito – varie ricerche su google – ho estrapolato questa gerarchia ispirata ai libri della famosissima scrittrice Laurell K. Hamilton. I nomi, di mia invenzione, sono spiegati tra parentesi.

Alfa o Athar ( il lupo più potente del gruppo, solitamente il capobranco. Spesso con Alfa mi riferisco a colui il quale morde un umano trasformandolo in mannaro, divenendo dunque per quella persona il proprio mentore, capo o padrone. Athar significa padre, in irlandese. )
Dheis ( secondo in comando – il braccio destro dell'Alfa. Il termine porta il significato di destro, ma anche di diritto, in irlandese. )

Làmh ( secondo in comando – il braccio sinistro dell'Alfa. Il termine porta il significato di mano, o braccio, in irlandese. )
Bardachta ( i capi delle guardie e delle sentinelle tra i lupi mannari. )
Lukoi ( il nome con cui i lupi definiscono loro stessi ed i loro compagni. )
Mhathair ( la compagna dell'Alfa. Dall'irlandese, significa madre. )
Chroì ( gli spiriti dei lupi mannari passati a miglior vita. Fanno parte di questa categoria i mannari che dopo la morte sono stati mangiati dai membri del gruppo. Dal significato di cuore, in irlandese, specifica quale parte secondo i lupi mannari contenga la forza del mannaro ormai privo di vita. )

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Capitolo 3
*** 03. La Morte ti ha sorriso ***


03. LA MORTE TI HA SORRISO



GUINEVERE


Passeggiava tra pallide lapidi mangiate dal muschio e dagli anni trascorsi. Passeggiava, madame, recando sul capo un ombrellino di pizzo e seta nera. Totalmente inutile, se il cielo avesse preso a piangere ancora una volta. Totalmente inutile comunque, giacché lo utilizzava per ripararsi dalla luce delle stelle. Ad ogni passo sulla sua gola dondolava una goccia rubino, quasi fosse una pozza di sangue insinuatasi là tra le scapole. Una pietra grossa e pesante, sgrezzata dalle mani di qualche artista gioielliere della bella Parigi. Guinevere si dondolava dalle punte ai tacchi, rimuginando sorniona tanto quanto un grosso gatto da salotto. Eppure nessuna parte della sua esile figura ricordava quella di un felino, se non gli occhi e le labbra. Così taglienti, così affilate, così seducenti. Vestiva d'un lungo abito di seta color degli occhi di sua madre. Verde bottiglia, e blu cobalto. Ricordava quelle due pietre, nonostante fossero passati secoli dal momento in cui l'aveva viste l'ultima volta. Le donò uno sguardo innamorato, osservando il cielo. Sua madre portava il nome di Astra, ed era così bella che da bambina ella le danzava intorno sulla punta dei piedi desiderando d'esser come lei. Di tutte quelle preghiere, ben poco aveva ottenuto. A differenza della genitrice, però, Guinevere era sopravvissuta alla pestilenza del milletrecentoquarantasette. Quel morbo nero appestò Marsiglia partendo dal porto, laddove infetti e cadaveri attraccarono le loro bigie imbarcazioni di morte, la giovinetta sedicenne e la madre all'epoca erano semplici prostitute e campavano in una piccola casa a ridosso del mercato del pesce. Poco più avanti, si ergeva una casa di piacere. La loro casa di piacere, quella in cui lavoravano aprendo le cosce per soddisfare qualche marinaio grassoccio e unto. Molti amanti, avevano avuto le donne, molti bambini uccisi ancora nei loro ventri. Guinevere aveva dato un nome ad ognuno di loro, feti abbandonati e persi nei canali. Divenuti pasto dei pesci. Tra i suoi amanti però ce n'era uno che non apprezzava le carni più esperte della madre, e che desiderava lei pagando oro soltanto per parlarle. "Non ti fidare dei marinai", le diceva sempre Astra, ma quello non era un marinaio. Alle prime avvisaglie di pestilenza, ai primi bubboni sul corpo, le due donne vennero cacciate e private di quei pochi denari raccattati dalle braghe calate di chissà chi.
Giunta dinanzi alla tomba di Lucille Decroix, ella si fermò. Quando la odiava, quella baldracca. La odiava e l'amava, madre della di lei più dolce maledizione. Sotto il terreno, dinanzi a quella lapide, non v'era niente che terra ed una bara vuota. Lucille Decroix non era morta, ma giaceva non più viva in qualche letto freddo riscaldata soltanto dal bollore d'un corpo prossimo a divenire cena per lei e la sua corte. Lucille Decroix, matriarca della famiglia dall'omonimo nome, era nata tra le sponde del Nilo ed addolorata dalla morte del suo mondo di sabbia e divinità inesistenti, era scivolata nel Mediterraneo portata come concubina a chissà quale italico patrizio. Quello la prese come amante, soggiogandola, e quando ancora portava il nome di Lux, diede alla luce numerosi figlioli morti tra gli ultimi portatori del gladio. Sarebbe perita anche lei, data in pasto alle bestie dalle lunghe zanne ed il mantello d'oro, se non fosse stato per la magia: assai potente ed altrettanto innata, l'aveva sacrificata e s'era sacrificata divenendo serva delle tenebre e del sangue d'ogni uomo. Schiava, indossante abiti di pregiata fattura, aveva condannato alla stessa sorte il suo ultimo, e ventenne, figliolo. Luca secoli più tardi prese nome assai diverso, accentato e sinuoso come un serpente covato in seno. Lucàs Decroix era stato per Guinevere una sciagura perché, conducendola al fatal respiro, l'aveva salvata ed ella aveva sorriso alla morte come il mostro dalle labbra scarlatte di trucco che era.
Il figlio della schiava l'aveva tratta in inganno, millantando di poterla redimere da quel passato di giovane donna di malaffare, e con siffatta truffa l'aveva legata a se con un doppio nodo scorsoio. Se l'uno fosse caduto, l'altra sarebbe morta. Ma l'uomo del suo cuore e delle sue maledizioni era perito per mano degli uomini di lettere ed ella, addolorata, era tuttavia sopravvissuta. Così come la madre, spinta alla temporanea pazzia da quell'attacco disumano. Ma come avrebbero potuto loro, bestie macellaie e mietitrici, parlare di umanità quando nelle loro vene scorreva denso rubino rubato ad uomini qualsiasi? Con quel pensiero la bella Guinevere si riscosse, e baciate due dita della mancina le poggiò sulla lapide a salutare la donna con tacito rispetto. « Madame. » Una voce bassa, pochi passi tra le pietre umide di quell'altrettanto bagnato cimitero. Aveva piovuto per tutto il dì, ed ella aveva semplicemente dormito ascoltando di tanto in tanto i tuoni lontani. Allora, quando quegli scoppi le riempivano le orecchie, apriva gli occhi nel profondo buio del suo rifugio e, fasciata di candide sete arricciate, attendeva che quel sonno obbligato tornasse a stringerla tra le braccia come un possessivo amante. Disprezzava quei suoi simili decisi a camminare durante le giornate assolate, pronti a sudare ed arrischiarsi alla morte pur di assecondare quel loro desiderio di passeggiare col petto gonfio di boria. Si sarebbero stupidi,i comuni mortali, di quanti di loro vivevano tra quelle strade e quei tetti così deliziosamente appuntiti. « Gustave, ditemi. » Si voltò placida, le labbra inclinate in un sorriso da gatta. Non era stata lei a renderlo ciò che era, bensì uno dei suoi amanti prediletti. Portava il nome di Dandelion quel farabutto, ed in ogni modo aveva tentato d'ucciderla. Non era ancora giunta la di lei ora però, ne sarebbe mai giunta. Nonostante ella non fosse la madre di Gustav, giovane dai capelli castani pettinati all'indietro, nutriva per lui una sorta d'affetto. Forse si trattava di pena, forse dispiacere. Eppur lo comprendeva almeno un poco, e non lo disprezzava com'altri vampiri avevano fatto nel vederlo giungere con la prediletta dei Decroix. Gustave viveva a Parigi, in quartiere vecchio e dismesso, e non aveva casa quando Dandelion lo trovò. Se ne stava in una cantina, umida e gelida, con sua madre e le sue due sorelle minori: due infanti o poco più. Avevano solo una stufa, e la usavano per ogni cosa. La usavano per cucinare, quando potevano, e per riscaldarsi, per far bollire l'acqua piovana con cui a turno si lavavano. Lo portò via una sera che elemosinava un lavoro da spazzacamino poco lontano dal luogo in cui sarebbe sorta la torre di ferro, imprigionandolo nelle dorate stanze del proprio appartamento. Per quanto quello pregasse di lasciarlo andare, di lasciarlo correre da chi necessitava di lui, l'uomo gli negava quella possibilità con voce grave e sguardi disgustati. Lo tenne, come proprio giocattolo personale, per assai molto tempo ed in fine lo prese per la gola portandolo ad un passo dalla morte: nessuno vuole davvero morire, lo sapevano loro che con la nera tunica e la falce andavano a braccetto. « Quel giovane sta giungendo, è assetato. » Gustave divenne una creatura notturna ed altrettanto rapidamente com'era scomparso dalla vita della piccola e spezzata famiglia, aveva fatto ritorno in quella cantina: non aveva trovato nessuno, o almeno nessuno in vita, fatta eccesione per la sorella più piccola. Una bambina ch'egli nascose nella soffitta dell'abitazione di Dandelion, e che lui non trovò tappata bene lassù in alto. Quando, per l'ennesima volta, il giovane desiderò di morderla e dissanguarla, la portò al cospetto del proprio creatore ed egli non la volle, non la accettò. Disse di metterla alla porta. Fu in quel frangente che Guinevere lo conobbe, spaventato per la possibilità di vedere quella dolce creatura diventare una prostituta sul ciglio di un marciapiede. "Lo farò io, se tu non hai abbastanza fegato da farlo!" Aveva sussurrato al proprio amante, e seduta sul di lui grembo l'aveva sbeffeggiato. "Se lo farai, Guinevere, non sarai più ben accetta in questa casa, ne in nessuna di quelle della mia genia." Un sussurro ferino, quello dell'uomo dai lunghi crini castani e dagli occhi di rugiada, eppure ella s'era alzata e, smossa la veste che indossava, aveva afferrato la creatura e l'umana trascinandoli via. "A mai più, mio amato!" Furono quelle le ultime parole pronunciate al cospetto di un Dandelion assai stupito, che giurò vendetta. Marcy non divenne mai una di loro, ma perse la vita in quella cupa transizione che l'avrebbe altrimenti resa immortale: debole ed ammalata, prossima alla morte per colpa della tosse, aveva chiesto che ciò accadesse quanto prima consapevole di non superare quel lento e sudicio processo. « Ebbene, offritegli qualcosa da sorseggiare. » Soffiò, così come allora, con la sola differenza che la vergine giunta tra le mani della giovane francese non morì mai per mano sua, giacchè giaceva senza vita già perduta nella vera morte. Gustave non s'era mai ripreso da quel brutto fatto. « Sarà fatto, Madame. » Il giovane annuì, sparendo nell'ombra di quella notte ben poco illuminata. Pochi passi, e solitaria s'ergeva una cripta dalle fattezze greche. Pareva un tempio, ma le colonne dagli intarsi corizi reggevano il pesante portone erano di nera ardesia.


ADRIAN


Doleva, il corpo dell'erede della famiglia Fitz-Maurice. Doleva come se l'avessero sbattuto contro una parete e bastonato in ogni dove. Doleva come se fosse stato trafitto da lunghe lame di vetuste baionette. Doleva ad ogni passo, mentre seguitava a camminare senza rendersi conto di dove stesse andando. Aveva atteso che il sole calasse e la pioggia diminuisse, dopodiché Adrian era semplicemente uscito senza proferir parola a nessuno se non alla sorella che ancora l'odiava per quello schiaffo schioccatole in piena guancia: l'aveva vista massaggiarla, ed egli s'era scusato con una lunga occhiata prima di sfuggire ai dubbiosi sguardi altrui: d'ogni cosa si sentiva sporco e colpevole, eppure dentro al petto qualcosa sgomitava perché quella grave sensazione svanisse lasciando il posto all'immotivata arroganza ed all'attraente boria che gli avrebbe disteso il volto. Un fruscio, ed il lento peregrinare del giovane errante s'arrestò. Immobile, tra due lapidi ormai senza nome, egli si guardò intorno senza veder nessuno. Gustave, in un attimo, si palesò al suo sguardo abbandonando il suo nascondiglio: scivolò semplicemente giù dall'albero su cui s'era appollaiato, ed atterrando sulle suole delle scarpe, si raddrizzò alto e pallido come una statua. Si scambiarono un lungo sguardo, intenso, ed avrebbero potuto accanirsi l'uno sull'altro se sono il fato l'avesse voluto.
« Seguimi, Adrian Fitz-Maurice, la nostra signora mi ha detto d'accontentare la tua sete. » Fece invece il francese, la voce mellifua e gentile. Lui si avvicinò, d'un passo e di uno ancora, osservando il mailcoach della cravatta del giovane rampollo inglese. Lì dietro, malamente coperto, vi era un circolare segno che conosceva sin troppo bene. I cerchi perfetti di due denti lunghi ed affilati. La cravatta, borgogna, odorava un poco di sangue. Adrian se ne accorse, per certo, e coprì il collo con una mano. « No. » Sentenziò, ma non indietreggiò spaventato bensì mosse un passo avanti. Gustave l'afferrò per un gomito, e scuotendolo se lo trascinò dietro con incredibile forza ed altrettanta ferocia: lo sentiva, sentiva quanto fosse agitato e preoccupato. Egli, di certo, non comprendeva perché gli avessero fatto ciò. Non comprendeva perché avesse almeno quattro morsi sul corpo altrimenti chiaro e deliziosamente muscoloso. A quel pensiero, egli, si leccò le labbra truffaldino trattenendo un grazioso sorriso sornione. « Devi farlo, invece, o morirai tra le più atroci sofferenze. Vuoi forse morire? » Parlava ad Adrian come se fosse un cucciolo un poco sciocco e di certo tocco, lo carezzava con le parole e con gli sguardi: quel giovane inglese gli piaceva molto, lo trovava oltremodo fascinoso ed inquietante. Lo avrebbe conosciuto certamente meglio, dopotutto portava al collo il monile che era stato forgiato per la propria sorella. Adrian rimase in silenzio, soffocato dalla preoccupazione. « Se morire significa non essere più questa orrida bestia quale sono, allora sì. Desidero morire con tutto il cuore. » Adrian aveva la voce bassa, colma di disprezzo. Sciocchezze, che assurdità. Pensò Gustave schioccando la lingua sul palato, assai piccato da cotanta stupidità e fermandosi dinanzi a lui lo schiaffeggiò. Così, semplicemente, lo colpì con la destra su entrambe le guance e non gli permise in alcun modo di ricambiare quel gesto assai grave. Lo sentì irrigidirsi, e bestemmiare a mezza bocca contro ogni divinità esistente. Lo trascinò un poco più forte, e giunti nei pressi della medesima cripta in cui s'era ritirata Guinevere, egli lo rassettò e gli sistemò i capelli all'indietro sulla testa. Doveva essere perfetto, gli disse, giacché di lì a qualche minuto avrebbe incontrato sua madre, ed i suoi fratelli. Egli non comprendeva, o per lo meno fingeva di farlo.
La cripta non era altro che uno stanzone vuoto, spoglio, in cui alti candelabri gocciolavano sul pavimento cera scarlatta odorosa di buono: quell'odore gli punse lo stomaco, e la gola riarsa si strinse un poco di più. « Prima che tu lo chieda, sì è sangue l'odore che ti sta facendo tanto angustiare. Sangue nei ceri, per l'esattezza. Sangue di vergine, è sublime. » La voce di Gustave rimbombava nell'ambiente in cui si trovavano, e che s'apprestavano a raggiungere. Nei pressi della parete dinanzi all'ingresso v'era la statua di una donna dai lunghi crini ondulati, ed il francese ne sfiorò gli occhi proferendo solenni parole di ringraziamento: un click, ed una scala nascosta si palesò nella navata centrare di quel luogo. Tra i candelabri, il pavimento scivolò via mostrando la discesa verso gli inferi. Fu quello il pensiero del giovane uomo, che si lasciò condurre osservando intorno a se ogni piccolo anfratto abilmente scavato nella roccia. V'erano loculi rotondi, poco più grandi di una testa umana, ed erano proprio ciò che conservavano: crani, integri e scarnificati, con lunghe zanne al posto dei canini o degli incisivi. Sotto ogni loculo, v'era inciso in bella grafia su di una targhetta d'ottone un nome. Contò due Charlotte, un Thimothy, due Edgard ed uno Sherlock. L'ultimo che vide, prima di venir trascinato via con una spinta, era Lucàs. « Chi sono? » S'azzardò a domandare, mentre di lui al posto della fame s'allargava il terrore. Gustave non rispose, in un primo momento, armeggiando con la serratura di un portale di ferro su cui s'aggrappava una pianta assai violetta. « I nostri defunti, coloro i quali vogliamo ricordare in eterno. » Si decise finalmente a rispondergli, la voce solenne ed assai bassa. « Perchè soltanto le teste? » A quel quesito, nessuno ebbe l'ardire di trovar soluzione. Non il francese, non quelli che in silenzio li spiavano. Discesero un'altra solitaria rampa di scale, assai più larga e curata della precedente, ritrovandosi in salone rotondo poco più grande di una comunissima sala da ballo. Le pareti scure, illuminate d'oro da fiaccole ardenti, risplendevano laddove la luce sfiorava vecchi quadri dalle cornici di metalli preziosi. Il soffitto a volta pareva esser stato costruito sotto ad un lago, ed erano molte le creature che si vedevano transitare lassù sopra di loro. In fine, da qualche parte, suonava una lenta melodia al pianoforte: non seppe dire, egli, da dove provenisse, ma quel luogo lo faceva sentire quasi amato. Una sensazione assai piacevole, assai rassicurante, assai senza alcuna ombra di dubbio tremendamente pericolosa.
« Ti presento Alice, mio adorato Adrian, si offre a te questa notte: il suo corpo vergine ed il suo sangue, perchè tu ti nutra di lei. Non è vero, cara? » Voce di donna lo fece voltare: la riconobbe in pochi ed inutili battiti di ciglia. Al suo fianco una giovane vestita d'una pallida veste, annuiva piano. Quella che aveva parlato l'aveva incontrata la notte in cui era uscito a cercare sua sorella: passeggiava da sola lungo la via del fiume e s'era finta stupida d'incontrare un giovane a quell'ora tarda. Lui, sul primo momento, l'aveva scambiata per una prostituta ed ella l'aveva preso in giro dicendogli che non erano certo i soldi a mancarle. Dopo quel momento, ogni ricordo s'era fatto confuso e frusciante. « Voi. » Pronunciò Adrian, spaventato e disturbato da tale eterea visione: quella donna ogni modo gli provocava una assuefazione, una sorta di intorpidimento del corpo. Si sentiva assai leggero, frastornato ed inebetito. Ogni di lui scaltrezza, svanita. « Il mio nome è Guinevere, fatene tesoro mio giovane adorato. Presto sarete un vampiro, ed il sarò vostra madre per l'eternità. » Pronunciò la donna, immobile al suo posto. Aveva le mani in grembo e gli occhi fissi in quelli del ragazzo inglese. Il suo accento infrancesito ed un poco pezzente, completamente svanito. « NO! » Urlò Adrian, coprendosi le orecchie con le mani pallide: la voce della donna pareva il suono delle unghie su una superficie liscia, delle forchette contro i piatti di porcellana buona. Non riusciva ad ascoltarla, ed ogni cosa intorno a lui vorticava. In un limbo di straziante dolore, sentiva di star sanguinando. Un dolore alle membra, un dolore all'anima, che pareva dolore fisico. « Non accetto un no come risposta. » Adrian urlò ancora, inneggiando al nome della madre e della sorella. Al sentir nominare Caroline, Guinevere rise di gusto sollevando il capo al soffitto di vetro. Per quella oramai non c'era più redenzione, ed ella ben lo sapeva. Pochi passi verso la vergine vestita di candido pallore di seta, e la baciò sulla fronte augurandole piano buona fortuna. Il giovane, disteso supino sul pavimento, tremò. Alice fece lo stesso, e quasi le cedettero le gambe quando uno stiletto argenteo le si conficcò un poco nelle carni del collo sino a farlo sanguinare: l'intera sala, adombrata ma popolosa, tremò e spasimò per quel delizioso odore. « Mio Signore. » pigolò la giovane, che non doveva avere più di sedici anni. A piccoli passi lo raggiunse, lo scosse, lo osservò sollevare il capo e comprese che era troppo tardi per fuggire. Lucenti zanne s'erano fatte spazio al posto dei canini di Adrian, che l'osservava famelico con gli occhi iniettati di scarlatto rubino. Il volto, una maschera di pallida cera contratta di profonde vene del medesimo vermiglio. Le pupille, assai dilatate, sembravano quelle di un gatto selvatico. « Non sono il tuo signore. » Sentenziò, arrochito, prima di spingerla sul gelido pavimento di marmo. « Non sono il tuo signore. » Ripeté, ed un nuovo grido riempì l'aria: urla di donna. Urla di una vergine che non avrebbe mai posto la propria innocenza nelle mani del proprio amato.

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