Paure bianche

di LadySparrow
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Inevitabile ***
Capitolo 2: *** Ben ***
Capitolo 3: *** La ferita ***
Capitolo 4: *** Onirica realtà ***



Capitolo 1
*** Inevitabile ***


Paure bianche

 

Capitolo 1
 

 

Inevitabile
 

“Non abbiamo scelta,” dichiarò Hanna “ dobbiamo mandarla in una clinica psichiatrica.”
Clarice si sedette sul divano, spossata. “Perché dobbiamo portarla lì? Non potremmo trovare un’altra soluzione?”
“Quale soluzione, Clarice?” chiese spazientita. “Sono due anni che papà se ne è andato e da quel momento Ethel non si è più ripresa.”
“So benissimo che sta male, ma non credo che mandarla in una clinica psichiatrica sia meglio per lei. E poi anche noi abbiamo sofferto molto per la morte di nostro padre.” Hanna si portò una mano alla fronte e si voltò, dando le spalle a sua sorella.
“È stato un trauma, no?” continuò ostinatamente Clarice “Forse a lei serve solo più tempo, non credi?”
L’altra rimase girata, senza rispondere. “Hanna? Hanna almeno puoi guardarmi quando ti parlo?” La sua voce divenne quasi stridula per la tensione.
Hanna si voltò di scatto e le due donne si guardarono dritto negli occhi. “L’hai vista?” urlò con voce tremante “Riesci veramente a vedere come sta nostra sorella? Ha le allucinazioni, parla da sola e non riesce a dormire a causa degli incubi.” Si bloccò per un istante, continuando a tenere lo sguardo fisso in quello della sorella. “Non possiamo più tenerla con noi, ha bisogno di aiuto.”
Clarice scosse la testa “Non voglio rinchiuderla lì dentro.”
“Noi non possiamo aiutarla.” ribadì Hanna con forza “Non abbiamo scelta!”
Clarice si alzò in piedi, sdegnata. “ Maledizione Hanna! C’è sempre un’altra scelta.” Le si avvicinò “Sai perché vuoi mandarla in una clinica? Perché a quell’egoista del tuo ragazzo questa situazione non va più bene! E tu ti stai facendo condizionare.”
Hanna divenne furiosa “Come ti permetti? Jack non c’entra assolutamente niente.” Erano solamente a pochi centimetri di distanza l’una dall’altra. “E poi a me sembra che in questa situazione la parte dell’egoista la stia facendo proprio tu.”
Clarice rise nervosamente” Senti, se non vuoi più occuparti di nostra sorella dimmelo subito, perché in tal caso me ne prenderò cura io.” Disse, guardandola con sguardo furente.
Hanna stava per rispondere, quando la porta del salone si aprì e dalla camera da letto Ethel avanzò lentamente verso di loro: i suoi occhi, celesti, erano vacui, le sue labbra violacee, e tendeva le braccia davanti a sé come se fosse cieca.
Le sorelle la guardarono con occhi spalancati. “Ethel, cara, cosa stai facendo?” sussurrò Clarice “Non stavi riposando?”
“Le farfalle bianche.” mormorò Ethel con aria sognante “ Vedo le farfalle bianche.” Sorrise dolcemente, ma il suo sguardo era perso nel vuoto.
Clarice andò versò di lei “ Ethel, tesoro, sei molto stanca. Perché non torni in camera da letto?” Tese le braccia in avanti per afferrale le mani, ma l’altra indietreggiò immediatamente, inorridita. Clarice sobbalzò, seriamente preoccupata. “Ethel? Che cosa è successo?”
Gli occhi di Ethel si spostavano freneticamente da quelli di Clarice a quelli di Hanna. Spalancò la bocca ma riuscì a parlare con fatica “Le farfalle …” singhiozzò violentemente, portandosi le mani alle labbra. “Le farfalle bianche sono morte.” Le si leggeva il terrore negli occhi. “Sono tutte morte! Ed è tutta colpa mia! Sono stata io ad ucciderle!” gridò disperatamente, con tutta la forza che aveva. Poi, stremata, cadde a terra in ginocchio.
Le sorelle si precipitarono verso di lei per aiutarla. La presero da sotto le braccia e con fatica la rimisero in piedi. Clarice le carezzò il viso “Stai tranquilla, tesoro, tra un po’ starai meglio.” Ethel aveva gli occhi semi chiusi e non dava alcun segnale di avere recepito le parole di sua sorella. Hanna e Clarice si guardarono, i loro occhi erano gonfi di lacrime trattenute. “Te l’avevo detto.” sussurrò Hanna. L’altra non rispose; poi si voltò verso Ethel ” Dai Ethel, andiamo.” disse, esortandola con estrema delicatezza. “Stasera verrai a dormire a casa mia.” Tenendo la sorella per un braccio, si avviò verso la porta per uscire dall’appartamento.
Hanna aprì loro la porta e l’ultima cosa che vide prima di richiuderla fu la rassegnazione negli occhi di Clarice.

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Capitolo 2
*** Ben ***


Capitolo 2
 
Ben
Hanna il giorno dopo andò a lavorare con le immagini della sera precedente stampate nella mente. Aveva dormito molto poco, ma doveva cercare di tranquillizzarsi e, soprattutto, di rimanere concentrata: essendo una professoressa di storia, era fondamentale per lei avere la situazione sotto controllo quando entrava in classe, altrimenti gli studenti non l’avrebbero ascoltata.
Appena entrò nella sala professori, Ben Davis le andò subito in contro e le diede un piccolo bacio sulla guancia. “Ciao Hanna!” la salutò,sorridendole.
Lei ricambiò il sorriso “Ciao Ben. Sembri molto contento stamattina.” notò; era piuttosto raro vederlo veramente felice per qualcosa.
“Sì.” ammise “Lucy mi ha appena inviato un messaggio avvisandomi che il compito di biologia le è andato molto bene. Per lei era importante, sai quanto tenga a diventare un medico.” Ben insegnava storia, proprio come Hanna, e sua figlia era la sua gioia più grande.
Hanna avrebbe voluto sinceramente condividere la contentezza di quella notizia, anche perché conosceva Lucy e la riteneva una ragazza estremamente dolce, ma il sorriso che delineava le sue labbra era tutt’altro che felice. ”Sì. Devi essere molto fiero di lei.”
Fu in quel momento che Ben si accorse che era molto pallida ed i suoi occhi erano gonfi e stanchi.
“Hey!” esclamò a bassa voce, mettendole con delicatezza una mano sulla spalla. “Ti senti bene?”
“Sì,sì.” si affrettò a rispondere “È solo che…”
“Hai dormito poco.” Concluse lui.
Risero entrambi. Hanna aveva sempre apprezzato la premura con cui Ben le rivolgeva le domande, senza risultare in alcun modo invadente. “Sì, in effetti ho dormito molto poco.”
“Ma è successo qualcosa?”
Era preoccupato, Hanna lo capì dal repentino cambiamento d’espressione dei suoi occhi. Si guardò intorno per accertarsi che nessuno fosse particolarmente interessato alla loro conversazione: c’erano altri due insegnanti nella sala, ma sembravano molto intenti a correggere dei compiti. Abbassò lo sguardo “Credo…” si rese conto di non sentirsi veramente pronta a parlare di quell’argomento. ”Credo che manderemo Ethel in una clinica psichiatrica. Non può più stare con noi, ha bisogno di aiuto.”
Risollevò gli occhi verso il viso di Ben, che ne avvertì tutta l’angoscia. “Oh!” mormorò, spalancando gli occhi “Hanna, mi dispiace molto.” Improvvisamente si sentì impotente: avrebbe voluto dirle parole di conforto più sincere, più profonde, ma, in quell’istante, quella fu la sola frase che riuscì a pronunciare.
Lei fece un mezzo sorriso “Lo so, Ben. Lo so, tranquillo. Non c’è bisogno di parole, davvero.” Gli posò affettuosamente una mano sulla guancia, mentre lui lasciò che la mano che ancora le teneva sulla spalla scivolasse lungo il braccio, facendole una carezza, in un breve attimo di tenerezza.
Hanna si diresse verso la porta.
“Jack lo sa?” Le domandò ad un tratto.
Lei si voltò “Sì,certo. Ne abbiamo parlato.” Mentì.
Si rigirò per uscire dalla stanza.
“Hanna?” la chiamò nuovamente Ben.
“Sì?”
Per un istante che gli parve eterno si soffermò a guardarla “Buona lezione.” disse infine.

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Capitolo 3
*** La ferita ***


Capitolo 3
La ferita
 
Hanna uscì dall’aula con un fortissimo mal di testa. Chiuse la porta dietro di sé e rimase sul corridoio, lasciando la borsa a terra. Si poggiò con la schiena al muro e chiuse gli occhi. Il vociare dei ragazzi non era forte, ma in quel momento persino il più piccolo rumore sarebbe stato deleterio per la sua testa. Si portò una mano alla fronte.
“Hey Hanna!”
Riaprì immediatamente gli occhi. “Ben…” disse con fatica, anche parlare le provocava fastidio. “Anche tu hai finito la lezione?”
“Sì, qualche minuto fa; però credo che sia andata meglio della tua, vista la tua espressione.” scherzò, riuscendo a strapparle un sorriso.
“No, il problema è che la testa mi sta facendo molto male.”
“ Probabilmente hai dormito troppo poco.” Disse lui, apprensivo. “Per oggi hai finito, no? Perché non torni subito a casa, così ti riposi?”
 Hanna annuì “Sì, hai ragione.”
“Ti accompagno alla macchina.”
Lei raccolse la borsa da terra per rimettersela sulla spalla.
“Aspetta!” la bloccò Ben “Te la porto io.”
Lo guardò per un istante, stupita. “Grazie.” disse infine. Ben era un uomo veramente gentile.
“Di niente, figurati.”
Uscirono nel cortile. Hanna iniziò a rallentare il passo, senza neppure rendersene conto.
Ben la guardò di sottecchi; voleva distrarla dalle sue preoccupazioni. “Sai, Lucy deve fare una ricerca di storia …”.
Lei scosse appena il capo, uscendo dal groviglio dei suoi pensieri. Si voltò verso di lui “Ah! E qual è l’argomento?”
Ben sollevò leggermente le sopracciglia e a Hanna venne da sorridere: era buffo quando faceva quell’espressione.
“La nascita dei regimi totalitari nel XX secolo. Perché sorridi?”
“Per la tua faccia, sembri vagamente perplesso.”
“In effetti un po’ lo sono” ammise lui, continuando a tenere le sopracciglia alzate “Lucy non è particolarmente ferrata in storia, la ritiene una materia noiosa.”
“È comprensibile. D'altronde lei è più portata per le materie scientifiche. Tu eri bravo in matematica?”
Ben ci pensò un attimo “Effettivamente no. Credo che “mediocre” sia l’aggettivo più adatto.”
Risero entrambi. Ad un tratto lui si fermò, poco prima di arrivare al cancello. “Comunque sarebbe molto contenta se tu la aiutassi.” Disse, guardandola in viso. “Se puoi, naturalmente.” aggiunse.
“Io?” chiese, sorpresa “Ben, ma anche tu sei un professore di storia!”
“Sì, lo so” distolse lo sguardo da quello di lei, sentendosi un po’ a disagio. “Il fatto è che con me non vuole farla perché dice che sono troppo pignolo.” Rivelò, accentuando l’ultima parola con una smorfia.
Lei sorrise, divertita. “Capisco.” annuì “Comunque, se a lei fa piacere, la aiuto volentieri.”
Nonostante gli occhi di Ben fossero celesti, Hanna non li aveva mai visti così limpidi e luminosi. “Grazie” disse “Sono sicuro che Lucy lo apprezzerà molto."
 Ripresero a camminare. Usciti dal cancello, Hanna si diresse verso la sua auto e lui la seguì.
“Sei sicura di riuscire a guidare? Vuoi che ti accompagni? Potresti lasciare la macchina parcheggiata qui e riprenderla direttamente domani…” “No, no Ben, tranquillo.” lo interruppe lei “Non ti preoccupare, ce la faccio a guidare fino a casa.”
“Va bene, come preferisci”. Fece scivolare la borsa dalla spalla sinistra e gliela restituì. “Almeno ti senti meglio?”
“Sì, sto meglio. Ho ancora mal di testa, ma appena arriverò a casa credo che andrò subito al letto. E…” fece una piccola pausa “Grazie, per tutto quanto.”
“Tu pensa solamente a stare tranquilla, ok?” le sorrise.
“Sì, certo.”
“Ci vediamo domani. Ciao Hanna.”
“Ciao Ben.”

Arrivata a casa, Hanna si sedette sul divano. Prese la testa fra le mani, poggiando i gomiti sulle ginocchia. In quel momento avvertì una fitta di dolore particolarmente forte.
All’improvviso sentì scorrere dell’acqua. Sollevò la testa, il rumore proveniva dal bagno. Hanna impiegò qualche secondo per realizzare ciò che stava accadendo: se Jack non c’era e lei non aveva lasciato alcun rubinetto aperto, doveva esserci un’altra persona dentro casa.
Si alzò lentamente. Clarice aveva le chiavi del suo appartamento, quindi pensò che probabilmente le avesse riportato Ethel.
Si diresse verso il bagno a piccoli passi.
“Ethel?” chiamò “Ethel, sei tu?”
Nessuna risposta.
Sentì un brivido di paura scenderle lungo la schiena.
Aprì la porta del bagno “Eth…” Sgranò gli occhi. Aggrappato al lavandino, con la testa china sotto di esso, c’era un bambino: le punte dei suoi piedi toccavano appena il pavimento, la sua testa era completamente bagnata, e l’acqua continuava a scendergli ai lati del viso.
Hanna era paralizzata, ma non urlò. Quella situazione le sembrò talmente surreale che per un attimo pensò di trovarsi in un sogno.
Il bambino scese dal lavandino. Si voltò verso di lei, con l’acqua che dalla testa gocciava sul pavimento e fu solo allora che Hanna si accorse che in testa aveva una grande ferita.
“ Mi fa tanto male la testa.” Mormorò lui con voce atona.
Nel frattempo, l’acqua continuava a scorrere.



Grazie a tutti per le recensioni e, soprattutto, per i consigli. :)

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Capitolo 4
*** Onirica realtà ***


Onirica realtà

Onirica realtà

Le ginocchia di Hanna cominciarono a tremare, la casa iniziò a girarle intorno e senza neppure rendersene conto cadde a terra priva di sensi.

Era svenuta all’entrata del bagno, eppure quando si risvegliò non era più lì ma nel salotto, distesa sul tappeto. Con fatica, sollevò la schiena per mettersi seduta. Si portò una mano dietro la nuca; le faceva male, probabilmente aveva battuto sul pavimento.

Avvertiva ancor una sensazione di stordimento, non riusciva a ricordare perché fosse svenuta, poi ad un tratto le tornò in mente, in un flash, l’immagine di un bambino con la testa insanguinata e il lavello del bagno aperto.

Forse si era trattato di un incubo. Forse, pensò, riacquistando lucidità, si era addormentata sul divano e, girandosi, era caduta finendo sul tappeto.

Si convinse di ciò, ma, suo malgrado, alzatasi in piedi si guardò attorno. Non udiva alcun rumore né le sembrava che qualcosa fosse fuori posto.

Si diresse in cucina e guardò l’orologio appeso alla parete: erano le 22:00 e suo marito non era ancora tornato.

Ad un tratto udì una vocina sottile, quasi un sussurro, la voce di un bambino.

D’istinto si immobilizzò, sgranando gli occhi e concentrandosi solamente su quel suono. Nel suo incubo il bambino stava in bagno ma quella voce proveniva dalla camera da letto.

Uscì dalla cucina con estrema lentezza nel tentativo di fare meno rumore possibile. La sentì con maggiore chiarezza finché, avvicinatasi alla porta della camera da letto, riuscì a distinguere ogni parola. “Le farfalle bianche sono morte. Le farfalle bianche sono morte.” La voce continuava a ripetere la stessa frase ancora e ancora.

Hanna rifletté per un istante, non era la prima volta che udiva quelle parole; poi si ricordò: Ethel aveva detto la stessa cosa, ma con tono molto più addolorato.

Aprì appena la porta della camera. La stanza era completamente buia. Aprì la porta un po’ di più per poter vedere qualcosa. La luce proveniente dal corridoio mostrò una figura piccola, seduta per terra accanto al letto. Hanna socchiuse gli occhi per mettere meglio a fuoco ed una morsa di terrore le prese lo stomaco perché il bambino che vide era identico a quello che aveva sognato, ma stavolta non aveva alcuna ferita. La guardò negli occhi “Le farfalle bianche sono morte. Le hai uccise tu?” mormorò. Le sue pupille erano grigie e il suo sguardo era vuoto.

Hanna terrorizzata chiuse immediatamente la porta, poggiandosi ad essa con la schiena. Chiuse gli occhi per cercare di comprendere ciò che aveva appena visto. Possibile che stesse ancora sognando? Hanna aprì gli occhi, corse verso la cucina e controllò nuovamente l’ora: le 22:05. Si rese conto che era tutto eccessivamente  realistico per essere un sogno; il tempo scorreva in modo troppo regolare e in quel momento capì che mai si era addormentata; era svenuta a causa di quel bambino e ciò significava che era reale, doveva essere reale.

Si precipitò verso la borsa, ancora poggiata sul divano e cercò il cellulare. Compose il numero di suo marito. Due squilli, poi un suono gracchiante “Jack? Jack? Mi senti?”

“Pron-to? Han-na?” La sua voce le arrivava ad intermittenza.

“Jack?”

 “Han-na? Che co-sa…c’è?”

“Mi senti? Dove sei?” la sua voce prese una tonalità isterica.

“No… non ti…sen-to…a-aspet-ta che mi…”

Per un paio di secondi lei non sentì più alcun suono, poi udì nuovamente la voce del marito e questa volta distintamente.

“Hanna? Mi senti adesso?”

Lei cercò di tranquillizzarsi. “Sì, adesso sì.”

“Ti sento agitata. Che cosa è successo? Perché mi hai chiamato?” non sembrava preoccupato, bensì spazientito.

“C-come perché ti ho chiamato?” non capiva. “Di solito non torni così tardi dal lavoro. Quando vieni a casa?”

“Che vuol dire “quando vieni a casa?” Hanna, io sto lavorando, non mi sto divertendo e poi ti ho lasciato anche un messaggio nella segreteria per avvisarti che sarei tornato molto tardi.”

Era veramente arrabbiato. Lei guardò il telefono poggiato sul mobile del corridoio e solo allora si  accorse che stava lampeggiando.

“Ah! Mi dispiace. Io… non ci ho fatto caso. È solo che…”

“Cosa? Che c’è? Senti, devo tornare a lavorare.”

“È successa una cosa… perlomeno, io credo che sia realmente accaduta. Comunque…”

Dall’altro capo del telefono Jack fece una smorfia di disappunto, pensando che la storia di Ethel avesse scosso seriamente i nervi di sua moglie.

La voce di Hanna cominciò a tremare;ormai la controllava a stento. “Non mi sento molto bene. Ti prego,” chiuse gli occhi, sperando di ricevere una risposta positiva “puoi tornare a casa, adesso?”

“Come?! Tesoro, ascoltami, sei molto stanca. Perché non vai al letto e ne parliamo con calma domani?”

Hanna non riuscì a trattenere le lacrime. “No, no jack, non ce la faccio a dormire. Sono troppo spaventata!”

“Sei spaventata? Perché?” si sentì terribilmente confuso dal comportamento di sua moglie “Qualcuno è entrato dentro casa?”

“Sì, qualcuno è entrato.” gli rispose, sentendosi estremamente rincuorata dal fatto che suo marito le avesse fatto quella domanda.

Quello che aveva visto era talmente surreale che ancora non era stata in grado di raccontarlo.

“Chi? Un ladro?”

“No, almeno non penso…”

“Allora chi?”

“Un bambino.”

“Un bambino?” in iniziò seriamente a perdere la pazienza “Un bambino.” Ribadì “Tu mi hai chiamato perché un bambino è entrato in casa nostra.” Il suo tono era diventato sarcastico.

“Sì Jack, ma…”

“No Hanna.” la interruppe bruscamente, con voce bassa nel tentativo di trattenere la rabbia “Tu adesso vai a dormire e domani mattina, sperando che tu sia un po’ più lucida, parleremo di questa storia.” Chiuse la telefonata.

Lei per qualche istante rimase pietrificata, in piedi, davanti al divano. Senza neppure rendersene conto si sedette. Aveva ancora il cellulare attaccato all’orecchio. Neanche riusciva a pensare. Poi ad un tratto cominciò a realizzare la situazione: suo marito quella sera non sarebbe tornato e lei non aveva la minima intenzione di addormentarsi dentro quella casa, da sola. Fu presa da una crisi di panico e cominciò a singhiozzare, talmente forte che quasi le mancò il respiro.

Non poteva lasciare che la paura prendesse il sopravvento, doveva reagire. Improvvisamente fece un altro numero di telefono.

“Pronto? Ben?” desiderava tenere a bada i singhiozzi ma non riusciva a riprendere padronanza di sé.”

“Pronto? Hanna? Ma… stai piangendo?” Ben era perplesso.

“No, cioè… un po’.” Alzò gli occhi al soffitto, cercando di calmarsi al fine di articolare una frase che avesse senso compiuto.

“Hai da fare?”

“Intendi ora?”

“Sì.”

“No, veramente stavo per andare al letto. Lucy credo si sia appena addormentata.”

“Posso venire da te?”  

“Venire da me? Ora? Ma… perché hai il respiro affannato? Jack non è in casa?” Ben non sapeva più quale domanda rivolgerle.

“No, Jack non c’è. Ben, ti prego, non riesco a rimanere qui da sola.”

Lui inconsapevolmente sgranò gli occhi, stentando a credere a ciò che aveva sentito. Hanna sembrava disperata e lo aveva appena implorato di starle vicino.

“Sì, sì certo. Vieni se ti fa stare meglio.”

Lei riuscì finalmente ad accennare un sorriso. “Grazie Ben, grazie.”

“Sei in grado di guidare? Vuoi che ti venga a prendere io?”

“No, tranquillo. Ce la faccio. Arrivo subito…grazie.”

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