Storytime - by Lisaralin

di Lisaralin
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Istinto materno ***
Capitolo 2: *** Prison de rêves ***
Capitolo 3: *** The surface of things ***
Capitolo 4: *** Conchiglie nel deserto ***
Capitolo 5: *** Desperate housewives ***
Capitolo 6: *** Do you want to build a snowman? ***
Capitolo 7: *** Lady Luck ***
Capitolo 8: *** Il mondo da un oblò ***
Capitolo 9: *** Perdere un amico ***
Capitolo 10: *** Forgotten but not lost ***



Capitolo 1
*** Istinto materno ***


Salve a tutti! Questa raccolta nasce da un gioco insieme a whitemushroom e altri amici: da bravi appassionati di Kingdom Hearts che siamo, ci è presa la pazza e insensata idea di scrivere storie brevi su personaggi estratti rigorosamente a caso dalla wikia di KH. Ciascuno ha la propria lista e ciascuno dovrà scrivere one shot o flashfic sui personaggi che gli sono capitati, senza la possibilità di rifiutare o cambiare. E voi non avete idea dei personaggi dimenticati dagli dei e dal mondo che strisciano sui fondali oscuri e melmosi della maledetta wikia!

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Personaggio: Kanga
Genere: Introspettivo, Missing Moments
Rating: verde
Avvertimenti: ambientata in un momento qualsiasi durante 358/2 Days. Odio il Bosco dei Cento Acri con tutte le mie forze.


Istinto materno

Ho sempre pensato di essere fortunata a vivere nel Bosco dei Cento Acri.
È un posto sicuro per una madre che deve crescere il proprio cucciolo da sola: tranquillo, privo di pericoli, pieno di animali sempre disposti a darti una mano nel momento del bisogno. Per questo non ho mai proibito a Roo di andarsene in giro da solo, ben sapendo che anche quando io non vigilo c’è sempre un occhio benevolo pronto a vegliare su di lui.
Almeno fino a oggi.
Stamattina la quiete secolare del Bosco è stata infranta da un clamore nuovo per le nostre orecchie abituate alla pace. Scalpiccio di zampe e zoccoli in corsa, rami spezzati, arbusti calpestati, e sopra tutto un coro cacofonico di squittii, cinguettii, ragli, grugniti, nitriti, persino la voce del vento tra le foglie sembra unirsi al grido unanime che si innalza verso il cielo: “L’Uomo in Nero! L’Uomo in Nero!”
Sono una dei pochi a precipitarmi in direzione del tumulto, saltando con tutta la forza e la velocità che le zampe mi consentono. Frotte di animali corrono terrorizzati nella direzione opposta, alcuni mi urtano nella fretta, altri mi gridano di scappare. Intravedo De Castor tuffarsi a capofitto in uno dei suoi cunicoli e Pimpi rannicchiato tutto tremante in un cespuglio, ma nessuno sembra in grado di spiegarmi cosa sta succedendo. La mia voce diventa roca a furia di chiamare il nome di Roo, e si perde nel caos della follia collettiva.
Poi una radura si apre tra le file ininterrotte degli alberi, e finalmente lo vedo.
L’Uomo in Nero.
In piedi al centro dello spiazzo erboso, alto, circondato da creature evanescenti, che tremolano e rilucono al sole come se fossero fatte di…acqua, non saprei come altro definirla. I mostri tengono a bada gli animali che hanno avuto il coraggio di attaccarli, e vedo gli artigli di Uffa affondare più di una volta, invano, nel loro strano corpo inconsistente. Lo straniero stringe in mano un oggetto, forse un’arma, che non riesco a riconoscere. È di colore blu brillante e percorsa da corde sottili che le dita guantate di nero dell’uomo pizzicano con velocità incredibile, intrecciandosi in una danza che cattura i miei occhi malgrado lo spavento e il cuore che minaccia di esplodermi nel petto.
Solo in un secondo momento la mia attenzione si sposta sul suo viso, e lo stupore cancella per un attimo ogni traccia di paura. Non ho visto molti umani nella mia vita, ma credo di saper riconoscere con sicurezza un cucciolo da un adulto della loro specie; e tra questo “Uomo in Nero” e un umano cresciuto c’è la stessa differenza che passa tra l’Eroe del Keyblade e il mago buffo dalla lunga barba e il cappello blu.
Il temibile Uomo in Nero non è altro che un ragazzino. Questa consapevolezza, improvvisamente, mi dà coraggio. Saprò poco di umani, ma di cuccioli posso ritenermi una vera esperta.
Tra le fronde di un albero scorgo finalmente la sagoma di Roo, saldamente aggrappato a un ramo, e mi basta uno sguardo per sincerarmi che è sano e salvo, al sicuro da ogni possibile attacco delle creature d’acqua.
I battiti del mio cuore si calmano del tutto.
Avanzo di un paio di salti, incurante dei mostri, scrutando il ragazzo umano con occhi che nessuno dei miei compagni possiede, oltre l’atteggiamento aggressivo e la sicurezza spavalda dei suoi gesti.
Sono certa che se fossi una madre umana disapproverei con cipiglio critico l’abito nero, gli stivaloni e i capelli dritti da bullo; ma è anche vero che troppo spesso i comportamenti deviati dei figli nascondono errori o negligenza da parte dei genitori. O semplice bisogno di attenzione.
“Cosa vuoi da noi?” grido, sforzandomi di superare il clamore della lotta e il suono della musica.
La musica.
Ci faccio caso solo adesso. L’oggetto blu non è un’arma, è uno strumento musicale. Le dita agili del ragazzo intessono un arazzo di note e accordi, una melodia vivace, frizzante, spigliata.
Piacevole.
Più che piacevole. Bella. Davvero bella.
“Perché ci attacchi con i tuoi mostri? Non ti abbiamo fatto nulla!”
Per tutta risposta il ragazzo interrompe la melodia e fruga in una tasca del cappotto, vi estrae un foglietto di carta spiegazzato che porta davanti al viso, e recita: “Se si viene scoperti dagli autoctoni durante una missione di ricognizione in un nuovo mondo, la procedura consiste nell’eliminare tutti i testimoni!” I suoi occhi, verdi come le acque dei ruscelli che scorrono tra le fronde del Bosco, sono attraversati da un’ombra di rimpianto e, forse, qualcosa di più profondo e senza nome. La sua voce tradisce un tremito nel pronunciare la frase successiva, che non ha nulla da spartire con le istruzioni sul pezzo di carta: “Saïx mi trasforma in un Simile se non faccio tutto bene stavolta!”
Fa per riportare le dita sulle corde del suo strumento, e mi accorgo che nel breve attimo in cui la musica si è interrotta le creature hanno iniziato a perdere consistenza, oscillando e sfaldandosi in tante piccole pozze d’acqua.
“Aspetta!” grido. “Questo Saïx non deve saperlo per forza, no?”
Il ragazzo esita per un attimo, e io approfitto del varco che mi concede: “Noi faremmo tutti finta di non averti visto. È più semplice, no?”
Dopo tanto caos, il silenzio scende sulla radura come una benedizione. Gli occhi di tutti gli animali sono fissi su di noi, mentre i mostri sono ormai ridotti a innocenti pozzanghere in cui si specchiano la luce del sole e il placido fluttuare delle nubi. La mano del ragazzo accarezza le corde con un movimento automatico, assente, ma senza produrre alcun suono. Tiene lo sguardo basso, e io faccio cenno agli altri di non muoversi, di non compiere atti avventati.
“Sei bravo a suonare” continuo, con un sorriso incoraggiante. “Perché non resti un po’ a riposare e a suonare qualcosa per noi? Poi ognuno per la propria strada, e sarà come se non ci fossimo mai incontrati.”
Per la prima volta il viso del ragazzo si schiude in un sorriso incredulo, e io capisco di averlo in pugno.
“Davvero vi piace la mia musica?”
Gli animali reagiscono prontamente alle mie occhiate più che eloquenti.
“Assolutamente” esordisce Uffa, come sempre il primo ad afferrare “Oserei dire invero di non aver mai sentito una ballata di simile purezza e maestria.”
Il ragazzo non crede alle proprie orecchie: “Saïx dice sempre che sembra una serie di artigli che sfregano contro una lavagna… “
“Questo Saïx è palesemente uno zotico ignorante che non capisce nulla di arte.”
Un altro paio di complimenti di questo tipo e il ragazzo è conquistato definitivamente dalla nostra parte.
Per un’intera giornata il Bosco dei Cento Acri si illumina di musica e canzoni, di risate, dell’allegria leggera di una festa inaspettata. Non ho paura di permettere a Roo di avvicinarsi allo straniero e posare le manine sulle corde del sitar, come lui lo chiama. Non ho paura di unire la mia voce al coro spensierato che si innalza volteggiando tra le fronde, guidato dalle sue note. Non conosco la storia dell’Uomo in Nero, e non la domando, ma mi fido del sentimento vivo e sincero che palpita dalla sua melodia.
Al calare della sera io e Roo siamo gli ultimi a salutarlo. So che non lo rivedremo più, ma non potrò mai dimenticare il suo sguardo esausto e felice mentre, con le labbra ancora macchiate di miele, ci fa l’occhiolino e sparisce come d’incanto tra le tenebre di un varco oscuro.

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Capitolo 2
*** Prison de rêves ***


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Personaggio: Quasimodo
Genere: Introspettivo, Malinconico, Triste
Rating: giallo
Avvertenze: ambientata poco prima di KH3D e dell'arrivo di Sora e Riku alla Cité des Cloches. Mi sono permessa di dare la mia (alquanto inquietante) interpretazione personale su cosa accade esattamente in questi "mondi prigionieri del sonno" di cui si capisce tanto poco. L'ispirazione me l'ha data il fatto che, proprio in questo mondo, la storia di Sora e quella di Riku contrastano l'una con l'altra, con tanto di Frollo che muore due volte e in modi (più o meno) diversi.
Sono presenti riferimenti vari al film Disney, al romanzo di Hugo e al musical di Cocciante (non potevo resistere) e, siccome siamo alla Cité des Cloches, anche il titolo è in francese: "prigione di sogni".



Prison de rêves

Parigi si sveglia e si sentono già le campane a Notre Dame!
Le monete tintinnano allegramente nel cappello colorato mentre lo zingaro, tra un occhiolino e un sorriso affascinante, cerca di strappare alle dame assiepate nella piazza un obolo per la sua canzone.
Non può rendersi conto del paradosso contenuto nelle sue parole.
Parigi si sveglia, come ogni mattina, ma non apre mai gli occhi davvero. Si sveglia da un sogno. Si sveglia in un sogno. Ogni giorno uguale al precedente ma diverso, come infinite variazioni sul tema di una commedia che vede sempre gli stessi attori calcare la scena. Ma una commedia non è la vita reale, e quando le luci si spengono e il sipario cala torna a disperdersi tra le brume del mondo dell’immaginazione.
Non so perché io sono l’unico tra gli attori a rendersiconto di cosa sta accadendo al nostro mondo. Mi tornano alla mente le lezioni di Frollo – non ricordo più se del Frollo gentile che mi ha salvato la vita per carità, o di quello che non riesce a celare il disprezzo quando posa lo sguardo sul mio corpo deforme, o di chissà quale altro dei tanti che ho incontrato in questo lungo sogno di sogni. Mi parlava degli antichi, della loro credenza che i doni degli dèi venissero sempre accompagnati da maledizioni, per pareggiare i conti sulla bilancia del fato: e così i più grandi veggenti del mito erano afflitti da cecità, e il genio andava a braccetto con la follia. Forse anche io sono così. Forse la mia capacità di vedere oltre l’apparenza è il dono con cui il Signore ha voluto compensarmi per la gobba con cui mi ha maledetto alla nascita.
O forse, più probabilmente, è solo l’ennesima condanna.
Provare invidia per la gente è sempre stata la mia condizione di vita. E ora, all’invidia per un corpo sano e una vita normale, si aggiunge l’invidia per l’inconsapevolezza. Loro continuano a vivere beati, ignari di trovarsi in un sogno. La loro memoria si dissolve a ogni risveglio, non porta traccia di tutti i frammenti di esistenza che hanno ripercorso e continuano a ripercorrere all’infinito, degli innumerevoli finali della commedia. Forse ricordano vagamente di aver sognato, e stiracchiandosi tra le coperte si compiacciono di essere sfuggiti dalle grinfie di un incubo; senza sapere che quello in cui hanno riaperto gli occhi non è che un altro, ennesimo sogno.
Io ho il dono di vedere, ma non di cambiare le cose. Non so come risvegliarmi dalla prigione di sogni. Non credo dipenda dalle mie sole forze. È il cuore stesso del nostro mondo a dormire, e forse solo un eroe venuto da chissà quale terra lontana potrà salvarci tutti e riportarci alla vita vera.
E mentre paziento, prego e aspetto, non ho altra scelta che sedermi tra il pubblico e fare da spettatore. Uno spettacolo diverso ogni giorno, senza neanche dover pagare il prezzo del biglietto.
E ne ho viste di storie, commedie e tragedie, addentrandomi lungo i bivi di tutte le realtà possibili, esplorando le alternative che mai sono state e che ottengono una vita, seppur illusoria, solo grazie ai sogni.
Ho visto Frollo vestire i panni del giudice e poi quelli del sacerdote, rintanato in uno stanzino umido e freddo tra i suoi esperimenti proibiti di alchimia. L’ho visto soffrire per l’ingratitudine di un fratello scapestrato, e discutere con un poeta girovago di filosofia, di Firenze e di Bramante. Ho visto il capitano Febo sposare la superba Fiordaliso e passare una vita intera a rimpiangere l’amore puro e sincero di Esmeralda. Ho visto il popolo della Corte dei Miracoli riversarsi per le strade di Parigi e prendere d’assalto la cattedrale, e lo zingaro Clopin accasciarsi trafitto da una salva di frecce sul selciato della piazza.
A volte sono salito sul palco, ho indossato una maschera e mi sono messo e recitare anch’io.
Ho provato in mille e più modi a conquistare il cuore della bella Esmeralda. In alcuni sogni avevo l’appoggio dei miei amici gargoyle; in altri loro erano davvero semplici figure scolpite nella pietra, e sono rimasti muti di fronte alle mie richieste di aiuto. A volte il sipario si chiudeva con Febo ed Esmeralda mano nella mano, che mi sorridevano pieni di gratitudine, e allora mi costava uno sforzo sovrumano ricambiarli con un sorriso mio, e convincerli che ero davvero felice per loro. Ma dopotutto, in questa eterna dimensione di sogni senza passato né futuro, sono diventato piuttosto bravo a recitare.
Altre volte – e quelli sono gli incubi peggiori – il corpo snello e bellissimo della mia amata pendeva lugubre da un cappio. Oscillava debolmente nella nebbia che precede l’alba, sulla stessa piazza dove un tempo era solita danzare al ritmo dei tamburelli. E io, dopo aver gettato dalla torre il sacerdote maledetto che l’aveva uccisa, le correvo incontro con i rintocchi cupi della grande Marie che mi rimbombavano nelle orecchie, e non desideravo altro che morire insieme a lei.
Gli attori possono indossare mille maschere in questo vortice di sogni. E così accade che il viso bello come il sole del capitano Febo nasconda un cuore nero e ingannatore, mentre dietro la tonaca lugubre di Frollo ci sia più umanità di quanto si possa pensare. O il contrario.
Eppure, ci sono dei finali che non si verificano mai, non importa quante volte lo spettacolo si ripeta, non importa quali scelte compiano gli attori.
La bella Esmeralda non si innamora mai del povero campanaro gobbo.
Sono arrivato alla conclusione che esistono leggi non scritte, granitiche e immutabili, che governano i mondi e da cui non si può scappare nemmeno attraverso i sogni. I diversi, gli esclusi, restano tali in ogni versione del sogno, in ogni replica dello spettacolo. Non esiste un mondo in cui gli zingari possono camminare a testa alta, mano nella mano con i loro fratelli dalla pelle chiara.
E in tutti i mondi, in tutti i sogni, su tutti i palcoscenici della mente, c’è una sola parola per descrivere le creature come me, maledette da Dio e dagli sguardi degli uomini.
La parola mostro.

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Capitolo 3
*** The surface of things ***


 

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Personaggio: Figaro
Genere: Introspettivo
Rating: verde
Avvertimenti: Figaro non compare nei giochi, ma è presente in numerose vignette del manga di KH1. La storia è ambientata in un ipotetico post-KH3.



The surface of things

La scatola è bassa e stretta, formato cassa da morto. Non c’è neanche lo spazio per sgranchire le zampe, e quei due buchi minuscoli su un lato sono appena sufficienti a far entrare il minimo sindacale di aria e luce.
Lo stomaco di Figaro rumoreggia disperatamente, ricordandogli che il suo carceriere non si è degnato di lasciarli nemmeno mezzo misero croccantino. Per tacere poi di altri bisogni più impellenti che riesce a ignorare solo in virtù del suo straordinario autocontrollo da gatto di classe.
Da qualche ora, ormai, il suo miagolio risuona molto più simile a una supplica che al verso di pura indignazione con cui la sua protesta è iniziata. Il maledetto umano che lo ha rinchiuso lì deve essere duro d’orecchie, oltre che gelido di cuore.
Sempre se lo ha davvero un cuore, quello lì. Figaro non ci crede molto: ha trascorso abbastanza tempo a Radiant Garden da conoscere tutte le voci che corrono su di lui e i suoi degni compari in camice bianco. Dispersi per anni dopo la caduta della Capitale della Luce, riapparsi all’improvviso nei sotterranei del castello e processati in direttissima con l’accusa di aver scatenato la catastrofe che ha trasformato la civile Radiant Garden nella Fortezza Oscura. Assolti, malgrado il numero impressionante di capi d’imputazione – alto tradimento, crimini contro l’umanità e tutte quelle cose lì – per intercessione del vecchio re, pare. Uno che era stato tradito da loro ma si è fatto venire la malsana idea di perdonarli. E così i criminali sono rimasti a piede libero, e ora sono i cittadini onesti, anzi i gatti domestici onesti come lui a pagarne le conseguenze.
I tentativi di ribaltare la scatola con il suo peso sono falliti. Non sa di che materiale sia fatta, ma di certo non è normale cartone come sembra. Non gli resta che miagolare fino a seccarsi la gola, forse qualcuno lo sentirà e verrà a liberarlo. Sa di non poter contare sul vecchio padrone: troppo anziano per contrastare l’aguzzino e i suoi sgherri, e ultimamente anche la sua memoria sta perdendo colpi. Probabilmente non ricorderà neanche di averlo perso. Erano venuti fino a Radiant Garden proprio per quello, perché il vecchio falegname sperava di trovare una cura nei filtri di Merlino…
Figaro ha solo commesso l’errore di perdere tempo e interessarsi troppo ai pesci nel quartiere delle fontane. Una distrazione fatale.
“Certo che sei rumoroso, sacco di pulci.”
Figaro si irrigidisce all’istante. Una voce, gelida e inconfondibile, e passi rapidi in avvicinamento. Si appiattisce sul fondo della scatola, pronto a vendere cara la pelle.
Il coperchio si sblocca con un click e una lama di luce al neon lo abbaglia per un istante di troppo. L’occasione è persa.
Dita lunghe e fredde lo serrano in una morsa, strappandogli un sussulto che gli fa rizzare il pelo, e lo sollevano in aria. Due braccia chilometriche, fasciate da un camice bianco, lo separano dal viso dell’odiato carceriere, e i suoi artigli graffiano solo l’aria.
“Vuoi stare fermo, gattaccio?!”
Gli occhi dello scienziato lo fissano gelidi – tutto in lui è gelido, i lineamenti spigolosi del viso, la curva severa delle labbra, persino la sua pelle pallida sembra emanare freddo. Figaro rabbrividisce.
Sa cosa verrà adesso. Un turbine di parole spaventose gli rimbalzano nella testa. Esperimenti. Cavia. Laboratorio. Dissezione. Le ha sentite decine di volte, sussurrate con paura dagli abitanti di Radiant Garden ogni volta che il discorso cadeva sugli apprendisti di Ansem il Saggio.
Le parole successive dello scienziato danno corpo ai fantasmi delle sue paure più terribili:
“Ho intenzione di fare buon uso di te.”


“Devi ammettere che è un po’ strano.”
Il ragazzo dai capelli argentati non sembra ostile. Non è freddo come l’altro scienziato, la sua presa è più delicata. Gli accarezza la testa in modo piacevole, e questo certamente è un buon segno. Per il momento, Figaro decide di non graffiarlo.
“Strano? Perché strano?”
Anche lo sguardo dello scienziato alto ha perso il gelo che lo contraddistingueva. I suoi occhi non lo trafiggono più con l’intensità di un rapace, ma scattano nervosi da un punto all’altro posandosi ovunque tranne che sul viso del ragazzo.
“È vero che desideravo tanto un gatto, Even. Qualcuno però mi disse che non se ne parlava. Che un animale nei laboratori, apriti cielo!” il ragazzo mima quella che a Figaro ricorda l’espressione ansiosa di Geppetto ogni volta che il suo burattino si mette nei guai. “Ma ero un bambino allora. Più di dieci anni fa.”
“Meglio tardi che mai, no?” la risatina di Even non è molto convincente. Imbarazzata a dir poco.
“Pensavo… “ continua lo scienziato biondo, le dita che tormentano gli orli delle maniche del camice, le spalle lievemente incurvate. Figaro si chiede come diamine abbia fatto ad avere paura di lui. Mai trarre conclusioni guardando solo la superficie delle cose, si appunta in un angolo del suo cervello felino.
“Pensavo che potesse essere un modo come un altro per… ricominciare da capo.”
Il ragazzo tace, apparentemente perso nei propri pensieri. Dal suo viso, nascosto in parte da un ciuffo di capelli, non traspare alcuna emozione.
I suoi gesti, però, sono inequivocabili. Figaro è un gatto domestico, e conosce bene i comportamenti degli umani. Sa cosa vuol dire quando ti abbracciano in quel modo, quando accostano la guancia al tuo pelo per sfregarvisi contro e iniziano a grattarti dietro le orecchie e sotto il muso. Significa che hai vinto, che ti adorano e starebbero a coccolarti per sempre, perché tu incarni per loro tutte quelle cose belle che sono la dolcezza, l’affetto, la protezione e il calore di una famiglia.
“Grazie, Even.”
Figaro si accoccola tra le braccia dell’umano e si mette a fare le fusa, godendosi le attenzioni del suo nuovo padrone.


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"As you are only able to see the surface of things, I should not expect you to appreciate my true might." (Vexen, Chain of Memories).
Ecco, se lo dice anche da solo. Questa storia è dedicata a tutti coloro che si fermano alla superficie delle cose e vedono e scrivono di Vexen (o Even) solo come uno scienziato senza scrupoli ricettacolo di ogni vizio e perversione umana.
 

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Capitolo 4
*** Conchiglie nel deserto ***


 

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Personaggio: il Tappeto Volante
Genere: Introspettivo, Malinconico
Rating: verde
Avvertimenti: temo di aver esagerato con il patetico, ma abbiate pietà, l'ho scritta in autobus.



Conchiglie nel deserto

La ragazza dagli occhi blu è venuta anche oggi, e come ogni volta mi ha chiesto di portarla da Agrabah fino alla Caverna delle Meraviglie.
Proprio così: me lo ha chiesto, con tanto di “per favore” e “grazie”. In alcune occasioni mi ha persino ricompensato per il disturbo, regalandomi dei piccoli monili a forma di spirale che lei chiama “conchiglie”.
Ho sempre pensato che Al e la sua principessa fossero delle eccezioni, perché in secoli di vita non c’è stato califfo, guerriero o visir che non mi abbia trattato come un cammello qualsiasi, balzandomi imperiosamente in groppa e costringendomi a macinare leghe al suo capriccio, o addirittura caricandomi di spezie e oro e facendomi fare da facchino nei suoi loschi commerci.
“Senza di te non saprei davvero come attraversare il deserto, Tappeto. Sono proprio fortunata ad averti incontrato.” Mentre lo dice mi accarezza il dorso con le dita avvolte nel guanto nero, e io agito le nappe, felice.
La sua gentilezza mi ha conquistato. Ormai ho imparato molte cose su di lei: so che viene da un altro mondo, e che il visir del suo regno (un individuo che sembra sgradevole quasi quanto il nostro vecchio Jafar) la invia ad Agrabah e nei territori circostanti per compiere delle “missioni”.
Gli esseri umani si somigliano tutti: diventano sorprendentemente loquaci in presenza di quello che ritengono soltanto un “oggetto”, e non pare loro vero di potersi sgravare la coscienza senza il rischio che i loro segreti vengano carpiti dalle orecchie sbagliate. Potrei recitare a memoria la lista dei nemici del sultano Ali-Akbar, e dei modi fantasiosi in cui si è sbarazzato di loro.
Anche in questo lei è diversa: cerca solo qualcuno che la ascolti, un confidente. Un amico.
“Io non dovrei neanche esistere, capisci?” mi ha detto una volta, sull’orlo delle lacrime. “Io sono una cosa… un fantoccio creato da qualcuno, un guscio vuoto senza un cuore!”
È in questi momenti che vorrei avere una bocca per gridarle quanto si sbaglia. E io cosa sono allora? vorrei dirle. Anche io sono una “cosa”. Tanti secoli fa uno stregone ha intessuto fili di vento del deserto con l’oro delle dune bagnate dal tramonto, ha aggiunto i baffi di una tigre per dare forza alla trama, e il cuore di zaffiri, rubini e topazi per creare un arabesco stupefacente di colori; e così sono nato. In me non esiste quell’organo gelatinoso che gli umani chiamano “cervello”, eppure sono perfettamente in grado di pensare e ragionare, e anche se non ho nessun “cuore” la magia che percorre ogni filo del mio ordito mi dà la certezza che quello che provo per i miei amici, per Al e per Jasmine, per il Genio, persino per il dispettoso Abu, sono sentimenti vivi e reali.
E anche tu sei bellissima come me, vorrei dirle ancora. Lo stregone che ti ha dato la vita ha rubato alla notte il suo manto per fabbricare i tuoi capelli, e la seta più impalpabile delle carovane dell’Est per rivestire la tua pelle. Deve poi averti animata con una scintilla di magia purissima, perché nei tuoi occhi c’è la stessa luce che brilla in quelli del giovane Eroe del Keyblade. In poche parole, ha creato un capolavoro.
E con che coraggio sostieni di non avere un cuore, tu che sei così dolce e gentile con una creatura che la maggior parte degli umani userebbe come mero scendiletto?
“Io svanirò, Tappeto” mi dici adesso. “So che è la scelta giusta, ma ho paura. I miei amici non si ricorderanno più di me. Tutti mi dimenticheranno, persino tu.”
Non ho una voce per confortarti e per rassicurarti che ciò che temi non avverrà mai, che il cervello degli umani sarà anche inaffidabile e soggetto al deterioramento, ma io non potrò mai dimenticarmi di te.
Però posso avvolgermi delicatamente intorno a te e sfregare il mio tessuto morbido contro la tua guancia, per asciugarti le lacrime e sperare che almeno per un attimo tu ti senta meno sola.



Conchiglie.
Come faccio a conoscere questa parola è davvero un mistero. Sono sicuro di non aver mai neppure visto il mare in tutta la mia vita, anche perché il Genio mi assicura che nel nostro mondo non esiste. E allora come ci sono finite queste conchiglie colorate nell’angolo di Caverna delle Meraviglie in cui conservo i miei piccoli tesori, i portafortuna e i ricordi di tanti secoli ormai sommersi dalle sabbie?
Ricordi…
Sembrerebbe che queste conchiglie siano qui per ricordarmi qualcosa, eppure non è così. Forse la mia trama magica si sta logorando, invecchia e perde colpi come il cervello degli umani.
Eppure ieri, quando Abu ha tentato di impadronirsene per giocarci, mi sono davvero arrabbiato. Gliele ho strappate di mano con furia, e ho sentito che per me erano qualcosa di davvero importante.
Penso che le nasconderò in un bel vaso di terracotta, per proteggerle dalla sabbia e dalle manacce dei ladruncoli come Abu. Le custodirò in attesa che l’amico sconosciuto che me le ha lasciate torni a riprendersele.
Un amico dimenticato, ma non perduto.

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Capitolo 5
*** Desperate housewives ***


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Personaggio: Jasmine
Genere: Introspettivo, Comico
Rating: verde
Avvertimenti: OOC puro. Non prendete questa storia troppo sul serio. Ho preso un po' di lieti fine Disney e li ho distrutti a martellate. Però mi sono divertita XD



Desperate housewives

Quando il gioco si fa duro, le vere donne scendono in campo.
Perché sì, il grande Eroe è partito Keyblade in resta per sigillare la serratura e salvare questo mondo dal collasso; ma se non ci fossimo noi Principesse a tenere in piedi la Fortezza Oscura con il potere dei nostri cuori di Luce, questa baracca crollerebbe in meno di dieci secondi. Sono certa che le cronache future non ci daranno mai abbastanza credito per questo. Sora passerà alla storia come il salvatore dell’universo, mentre noi rimarremo una nota stringata a piè di pagina, le fanciulle in pericolo soccorse dall’Eroe.
Ma pazienza, così va il mondo. Se usciremo sani e salvi di qui e se potrò tornare ad Agrabah dal mio Aladdin, mi riterrò più che felice.
Noi donne, si sa, siamo capaci di fare più cose contemporaneamente, perciò sorreggere la baracca non ci impedisce in alcun modo di chiacchierare (sfido Sora e i suoi amici a riuscire a fare lo stesso!). E quando raduni insieme sei ragazze giovani e belle la conversazione – dopo i convenevoli di rito sui tagli di capelli e le lamentele sul ciclo – approda ben presto a un unico argomento: gli uomini.
Biancaneve, Cenerentola e Aurora sono già sposate; anch’io ho intenzione di convolare al più presto a nozze con il mio Aladdin, perciò le sollecito a raccontare. Voglio sapere tutto della loro vita matrimoniale.
Quella di Biancaneve ad essere onesti non si rivela un granché, come ammette la giovane stessa tra molti sospiri. Il suo Principe si è stancato di lei a tempo di record, e ora la visita solo a cadenze occasionali – che solitamente coincidono con l’insorgere di certi bisogni impellenti – trascorrendo il resto delle sue giornate tra cacce e banchetti con i suoi vassalli. Biancaneve si strugge tra le mura fredde del castello, e la notte singhiozza contro il cuscino rimpiangendo un certo nano dall’aria burbera e il cuore indomabile che forse ancora la aspetta in una capanna nella foresta.
Ti sta bene, vorrei dirle, e solo la compassione per le sue lacrime mi frena la lingua. Così impari a sposare il primo che passa, senza neanche sapere il suo nome. Io conosco bene il mio Aladdin, e se solo lo sfiorasse l’idea di trattarmi in quel modo impiegherei un millisecondo a rispedirlo sulla strada polverosa da cui è venuto. Il mio matrimonio non farà mai la fine di quello di Biancaneve.
Cenerentola è solo appena più fortunata. Il suo Principe è un modello di virtù, anche troppo: alle cinque del mattino è già dietro la scrivania a firmare scartoffie e ricevere i sudditi, e la sua giornata è un susseguirsi continuo di impegni politici e diplomatici. Se però suo marito non ha tempo per lei, ci pensa la regina madre a tenere occupate le ore della povera Cenerentola, che si barcamena senza grandi successi tra lezioni di galateo, portamento, lingue straniere, diritto, danza, canto, pianoforte, pittura, diplomazia, araldica: a sentire la vecchia dama, una vera regina deve eccellere praticamente in tutto.
La suocera di Aurora per fortuna è già passata a miglior vita, ma con Malefica ancora a piede libero il principe Filippo è diventato un maniaco della sicurezza da rasentare il paranoico: in pratica tiene sua moglie segregata. O sarebbe più corretto dire teneva. Sappiamo tutti com’è andata a finire (non chiederò mai al principe Filippo di organizzare la sicurezza del mio palazzo, poco ma sicuro. Piuttosto riassumo Jafar).
Ne avrei di cose da dire anche ad Aurora e Cenerentola. Nessuno più di me conosce la gabbia dorata, il paradiso cinto da mura invalicabili. Loro lo hanno scoperto adesso, con il matrimonio, per me è sempre stata una condizione di vita. Una seconda pelle, un’ombra che segue e controlla ogni tuo passo, respiro, gesto. Una vita confinata.
Ma non sarà più così, non ora che c’è il mio Aladdin. Noi sfrecceremo liberi tra le nuvole e sfioreremo le creste delle dune dorate sollevando spruzzi di sabbia come fuochi d’artificio, ci capovolgeremo abbracciati tra le correnti di vento, rideremo fino a che il Tappeto non ci riprenderà al volo, e infine ci baceremo sotto la luna grande e misteriosa delle notti d’oriente. Così sarà la mia vita a fianco di Aladdin.
Malgrado i miei progetti grandiosi, però, la più invidiata qui dentro resta Belle. Il suo uomo (uomo?!) è venuto a cercarla e a combattere per lei, la forza del suo amore ha piegato le barriere tra i mondi per raggiungerla. Sono tutte attorno a lei, a sospirare con gli occhi sognanti e farle mille complimenti. Come se conquistare una bestia fosse qualcosa di cui vantarsi.
“Come fate a baciarvi?” non può fare a meno di chiedere Alice, con una punta di malignità. La principessa più giovane finora si è tenuta in disparte, il bel faccino imbronciato, perché è l’unica a non avere un uomo e quindi un argomento di conversazione. Crescerai, verrà il tuo momento, sto per dirle, ma lei mi squadra con quel suo sguardo da volpe e mi fredda con una domanda a bruciapelo: “E il tuo, di uomo, dov’è?”
Come Belle, anch’io arrossisco fino alle punte dei capelli e mi avvalgo della facoltà di non rispondere. Già. Una giusta domanda, maledetta ragazzina pestifera. Una domanda a cui non avevo ancora pensato.
Il mio uomo, il mio Aladdin dal sorriso affascinante, ha delegato il compito di cercarmi a un ragazzino di quattordici anni e a un buffone dalla pelle blu. Lui invece se n’è rimasto al calduccio ad Agrabah, e chissà in quale compagnia…
Il pensiero mi colpisce all’improvviso, a tradimento, come un fulmine. Forse le altre principesse non sono le uniche a trovare difficile la vita di corte. Forse il mio Aladdin sta cominciando a intravedere da lontano il luccichio della gabbia dorata, e cerca di ritrarsi.
Volto le spalle ad Alice, conscia del suo sguardo beffardo che mi brucia la schiena. La Fortezza Oscura e la salvezza dei mondi hanno perso ogni importanza per me. Nella mia testa ormai c’è spazio per un solo pensiero.
Devo tornare ad Agrabah al più presto. E se Aladdin mi ha tradito anche solo in sogno, giuro che lo riduco in poltiglia e lo do in pasto a Rajah.


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Note: la parte su Cenerentola è ispirata alla vicenda (in parte sicuramente romanzata) di una principessa storica, chi riesce a indovinarla?
 

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Capitolo 6
*** Do you want to build a snowman? ***


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Personaggio: Vexen
Genere: Introspettivo, Drammatico, Missing Moments
Rating: verde
Avvertimenti: mi sono divertita a utilizzare un film Disney non presente in KH, com'è facilmente intuibile dal titolo. L'idea la avevo da tanto tempo, ma non mi decidevo a scriverla perché mi sembrava banale. O almeno banale se scritta da me, che se parlo di Vexen finisco per andare a toccare sempre il solito argomento. Potevo fare di più, potevo fare altro; ma l'ispirazione chiamava, e alla fine ha vinto lei XD



Do you want to build a snowman?

La giovane principessa non crede ai suoi occhi. Il cristallo di ghiaccio cattura la luce delle lampade e accende un gioco di riflessi azzurri sul suo viso infantile, accentua il pallore di quelle guance quasi mai sfiorate dai raggi del sole.
Vexen lascia fluttuare il cristallo sul palmo aperto della mano, in silenzio. Attende che l’incredulità negli occhi sgranati della ragazzina faccia posto a una nuova comprensione. Solo allora permette al ghiaccio di scioglierglisi tra le dita.
La principessa sussulta, come risvegliata da un sogno. Vexen si concede un sorriso segreto, un angolo della bocca che si increspa appena verso l’alto. La preda è sua.
Xemnas – Lord Xemnas, come pretende di essere chiamato – sarà compiaciuto. Avrà la strega dei ghiacci che desidera, l’Organizzazione salirà a dieci membri e lui potrà tornarsene in santa pace all’amato laboratorio. Ha già sottratto troppo tempo alle sue ricerche per fare da balia a una ragazzina.
La principessa ora si mordicchia il labbro, lo sguardo basso. Le dita intrecciate giocherellano con la stoffa dei guanti. Pollice e indice scivolano esitanti sulla seta imbottita, come se volessero sfilarla via…
“Signor Vexen” dice infine, guardando negli occhi l’uomo che crede il suo nuovo precettore da due settimane: “Allora anche voi… siete come me?”
Il seguito è un copione già scritto. Qualche chiacchiera sull’importanza di osare, sulla responsabilità di chi possiede grandi poteri di usarli al servizio degli altri, soprattutto se si è alla guida di un popolo. Su quanto sarebbe sbagliato invece reprimere quei poteri. E poi tutta l’inevitabile sequela di “io sono come te, so come ti senti, posso capirti. Posso insegnarti.”
Vexen è sempre stato bravo a simulare le emozioni.
Prende fiato: “Principessa Elsa… “
Una serie di colpi alla porta interrompe il discorso sul nascere. Da fuori la stanza della principessa arriva una voce infantile, dal tono vagamente piagnucoloso:
“Elsa! Elsa, sei lì? Sempre a studiare? Dai, vieni a giocare con me! Dai! Solo per un’ora!”
La sorellina guastafeste. Vexen è grato di non dover fare da precettore anche a lei: avrebbe finito per fuggire da Arendelle lasciandosi indietro una statua di ghiaccio con le trecce a decorare il castello.
Per tutta risposta Elsa ritira la testa nelle spalle e congiunge le mani sulle ginocchia con aria sofferente. Il suo silenzio non scoraggia la principessa più giovane: “Ti prego Elsa! Costruiamo un pupazzo di neve?”
Il ricordo colpisce di sorpresa, vivido come un lampo. Vexen ha già sentito quella frase.
In un’altra vita.

“Ti prego Even! Costruiamo un pupazzo di neve?”
“Pensi che le pagine della relazione sull’esperimento 324 si scrivano da sole? Prima il dovere e poi il piacere, Ienzo.”
“Ma la neve dura poco a Radiant Garden… “
“Domani, Ienzo. Domani.”


“Signor Vexen?” la voce di Elsa è un sussurro. “Qualcosa non va?”
Perché quegli occhi colore del ghiaccio, improvvisamente…
Aggrappata sul fondo di quello sguardo c’è la solitudine. La carnagione pallida porta i segni di una vita confinata tra le solite quattro mura. Anche questo appartiene ad un’altra vita.

Non c’è mai stato un domani.
Un grido strozzato nella gola, gli occhi appannati da un velo di lacrime. Even protende una mano, ma è troppo tardi. Ienzo giace immobile a terra, e il Keyblade di Xehanort ora si solleva per ghermire lui. Quasi non se ne accorge.
Percepisce solo il pavimento che gli corre intorno ondeggiando, i brandelli di luce e di oscurità che volano via dal suo corpo.
E un pensiero, distinto sopra tutti gli altri, illogico e insensato. L’ultimo.
“Non abbiamo più costruito il pupazzo di neve.”


I colpi alla porta sono cessati.
“Dovresti andare da tua sorella.” È stata davvero la sua voce a parlare?
“Prima che… “
Si alza. Lord Xemnas può cercarsi le sue nuove reclute altrove. Una cosa è certa, uno scienziato del suo calibro non si trova tutti i giorni.
“Prima che… ?” la principessa trattiene il fiato, spaventata da una minaccia che nemmeno conosce. Ma forse, in qualche angolo nel cuore che ancora possiede, l’ha già intuita.
“Prima che sia troppo tardi.”
Le spire del varco oscuro nascondono le lacrime sul viso della futura regina di Arendelle.

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Capitolo 7
*** Lady Luck ***


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Personaggio: Yuna, Rikku & Paine
Genere: Commedia
Rating: verde
Avvertimenti: nessuno


Lady Luck

Tre contro uno. A prima vista potrebbe sembrare una passeggiata.
Il suo istinto di guerriera e cacciatrice di tesori però manda segnali d’allarme. Un avversario che accetta di affrontarne tre insieme in molti casi è solo uno spaccone che presto si pentirà della sua arroganza, ma questo avversario è troppo tranquillo, troppo sicuro di sé. Il viso disteso, un accenno di sorriso ad increspare appena la barba. Occhi chiari che sono lo specchio assoluto della serenità.
Con un’occhiata Paine abbraccia il teatro dello scontro. Alla sua destra Yuna, sguardo concentrato, espressione battagliera. Pronta a tutto. A sinistra Rikku, sorriso estatico, lampo di sfida. L’eccitazione della battaglia fa fremere ogni fibra del suo corpo sottile.
Pazienza, Rikku. Non tentare mosse azzardate.
E di fronte a lei lo straniero, serafico, avvolto nella tunica nera che grida a gran voce la sua appartenenza alle schiere dell’oscurità.
Il suo sguardo è fisso proprio su di lei.
“È il tuo turno.”
Paine scruta per l’ennesima volta le proprie carte. Al centro del tavolo, il tris di carte scoperte sembra tentarla con la promessa di guadagni favolosi, premi ricchi oltre l’umana immaginazione. Jack e re di cuori, nove di quadri. Non ha mai visto un mazzo con disegni così belli ed esotici. Il re di cuori brandisce una falce ed è circondato da una cascata di petali, il suo sguardo colore del mare buca la carta, magnetico, beffardo. La sta sfidando.
“Rilancio.”
Venti munny sul tavolo. Una formalità: la vera posta in gioco ha un valore ben più alto.
Paine sa già che non sarà lei a conquistarla: la sua mano è talmente scadente che tanto varrebbe giocare con due carte dei tarocchi al posto di quei fiori e picche di basso livello. Avrebbe le stesse possibilità.
Ma vince una, vincono tutte. Le Gullwings unite sono inarrestabili.
Porta a termine il bluff con una faccia da poker impeccabile e fa un cenno del capo verso Rikku:
“A te.”

“Rilancio, rilancio, rilancio!”
Una carta di cuori. Cuore dei Mondi, mandami una carta di cuori. Anche un due piccolo piccolo, ma una carta di cuori!
Lo straniero scopre la quarta carta sul tavolo. Sette di picche. Un inutile, inutilissimo sette di picche.
Cuore dei Mondi, potresti impegnarti un po’ di più…
Ma rimane un’ultima carta da scoprire, e la sua mano è buona. Non ha una sola possibilità.
“Il dio della fortuna è pazzo di me!”
Paine le lancia una di quelle sue occhiate torve che vogliono dire “Rikku, non parlare tanto per dare aria alla bocca”, ma non capisce che fa tutto parte della strategia. Tattica psicologica, si chiama! Deviare, confondere. Distrarre. Ma non si meraviglia che Paine non la conosca. Già è un miracolo che sappia cosa vuol dire “parlare”.
“Dio della fortuna?” lo straniero sembra divertito. “Io invece l’ho sempre considerata una donna. Una dama bellissima e capricciosa. Non possiamo sapere se ci concederà mai suoi favori, o se non si stancherà di noi dopo il primo bacio fugace, eppure non riusciamo a smettere di corteggiarla. E ci struggiamo per lei, sempre, nella speranza che almeno per un istante volga verso di noi il suo viso radioso. E quando questo succede, il nostro cuore è toccato per sempre, e nei tempi bui traiamo forza dal ricordo di quel suo unico, inestimabile sorriso.”
È bravo a parlare lo straniero. Molto. Forse, se la fortuna fosse davvero una donna, si farebbe incantare da parole ricamate e forbite come le sue. Ma Rikku non è una povera principessina romantica, e ci vuole ben altro per incantare lei.
“Non perdere tempo, pizzetto biondo!” lo provoca. “È perché ti piacciono così tanto le donne che vuoi la scarpetta? Cosa sei, un maniaco?”
Un altro sorriso enigmatico. “Voi tre damigelle siete attratte da tutto ciò che brilla, ma sottovalutate il potere di un oggetto legato in modo così indissolubile a una Principessa del Cuore.”
“Io so solo un cosa: che la scarpetta l’ho trovata io in quello scrigno. E quindi è mia. Mia e delle mie compagne. Ci faremo una cascata di munny!”
Trovata?” il sorriso dello straniero le fa salire la bile ogni secondo che passa, e Rikku giura che se le sue mani fossero appena un po’ più grandi le stringerebbe volentieri intorno al suo collo arrogante. “Hai un piede leggiadro, mia signora, ma dalla sua misura microscopica deduco che la legittima padrona dell’oggetto non sei tu.”
“Tu meno che mai, brutto… “
“Rikku, non dargli retta, ti prego. Vuole solo provocarti. Lascialo parlare.”
Yuna è provvidenziale quando si tratta di rimettere pace. Il suo sguardo d’incoraggiamento le ricorda che per un attimo è stata lei a cadere nella tattica psicologica del maniaco delle scarpette. Non deve succedere mai più.
“Hai ragione, Yuna. Sta a te. Affondalo!”

Altro giro di rilanci. Sono tutti così certi del favore della fortuna? Yuna guarda dubbiosa le due carte nelle proprie mani – curioso come si siano adattate alle sue dimensioni non appena le ha sfiorate. Ammette di non essere in grado di prevedere come finirà la sfida.
Il quintetto sul tavolo ora è al completo: un dieci di cuori chiude la serie. Rikku non riesce a trattenere un urletto di esultanza: è la prima a buttare giù la propria mano, mostrandola con orgoglio a tutti.
“Colore!” esclama soddisfatta. “Nessuno può battere un colore!”
Paine non ha fatto punti. Yuna ha una modesta doppia coppia, ma è il colore dell’amica il pezzo vincente per il momento. Getta un’occhiata alla scarpetta al lato del tavolo, incantata ancora una volta dal gioco di luce che dà vita a un mosaico di sfavillii colorati sulla superficie perfetta del cristallo. Rikku ha ragione: varrà come minimo migliaia di munny.
Lo straniero resta imperturbabile. L’incarnazione perfetta della faccia poker.
Poi volta le proprie carte.
Yuna trattiene il respiro. Asso di cuori. Regina di cuori. L’urlo di trionfo di Rikku si trasforma in un’imprecazione. La regina è giovane e bionda e ride, ride di gusto, sfacciata e crudele. Ride di loro.
“Scala reale.”
“Hai barato! Il tuo mazzo è truccato!” È un attimo. Rikku sfreccia verso la scarpetta proprio nell’attimo in cui la mano dell’uomo in nero sta per chiudervisi intorno. E… da dove diavolo è saltato fuori quello spillone?
Lo straniero grida e agita la mano di scatto. La scarpetta… le sembra muoversi a rallentatore, disegnando nell’aria una parabola perfetta. Un nastro che avanza fotogramma per fotogramma di fronte ai suoi occhi raggelati. Non riescono a reagire, né lei, né Rikku, neanche Paine con i suoi riflessi rapidi.
La loro cascata di munny si infrange in un tripudio di frammenti di cristallo.
Yuna continua a fissare i resti senza crederci, si sente una bambina a cui è appena caduta a terra la pallina di gelato ottenuta a prezzo di capricci immani. I gemiti di Rikku li sentiranno fino a Radiant Garden. Come minimo. Paine si limita a sbuffare, ma lei è sempre la prima a riprendersi.
“A quanto pare dama fortuna oggi non concederà i suoi favori a nessuno di noi” è incredibile come l’uomo in nero riesca a restare tranquillo anche in un momento come questo. Schiocca le dita e tutte le carte spariscono, lasciando libero il tavolo.
“Dato che il motivo del contendere è venuto meno, non c’è ragione di continuare a scontrarci.” La voce dell’uomo assume per la prima volta una sfumatura calda, sorprendentemente piacevole. Yuna riesce finalmente a staccare lo sguardo dai frammenti sparpagliati ed è sorpresa dal lampo di genuina galanteria che vede passare nei suoi occhi chiari. Non ha senso, ma le viene da pensare che se fosse un po’ più alta le farebbe battere il cuore entrare in un salone da ballo appoggiata al braccio di quel misterioso gentiluomo.
“Del tè con pasticcini aiuterebbe a riportare il sorriso sui bei visi di queste piccole, incantevoli signore?”


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Note: La versione di poker a cui gioca il quartetto è il cosiddetto Texas hold'em: due carte in mano per ciascun giocatore e tre scoperte sul tavolo, comuni a tutti i giocatori, a cui nel corso dei giri se ne aggiungono altre due.
Per i disegni sulle carte, ho preso spunto dal fatto che in Kingdom Hearts II alcune carte di Luxord ritraggono i membri dell'Organizzazione eliminati in Chain of Memories.

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Capitolo 8
*** Il mondo da un oblò ***


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Personaggio: Cleo
Genere: Demenziale, Introspettivo
Rating: verde
Avvertimenti: ... ho già scritto che è demenziale? No sul serio, con questo personaggio ero veramente in crisi. Per farmi perdonare, giuro che la prossima sarà seria. Serissima.

 

“E guardo il mondo da un oblò
mi annoio un po’”

(Gianni Togni, “Luna”)


Il mondo da un oblò

La pelata del vecchio sul trono più in alto è lucida almeno quanto la mia boccia di vetro.
“La vera Organizzazione XIII”, si fanno chiamare. Roba seria stavolta; il vecchio deve aver messo un annuncio sul giornale di quelli efficaci, qualcosa tipo “astenersi perditempo con la chitarra e figli dei fiori”. Le Tredici Oscurità. Dovrebbero incutere terrore, suppongo. Dovrei sentire la paura attanagliarmi le branchie e paralizzarmi le pinne a stare così vicino a questi loschi figuri.
La verità è che mi annoio. Tanto per cambiare.
Pensavo che una missione spionistica sarebbe stata un’eccitante distrazione dalla routine quotidiana. Cercate di capirmi: è come se voi foste incollati a un divano, con uno schermo davanti agli occhi che trasmette ventiquattro ore su ventiquattro un reality show sulla vita dei falegnami. Vi pare tanto strano che cercassi un modo qualsiasi per cambiare canale? E così, quando al quartier generale si è parlato della necessità di conoscere in anticipo le mosse del nemico ho cominciato ad agitare forsennatamente le pinne e sollevare schizzi dalla boccia nella speranza che qualcuno mi notasse. Il capitano Pippo se n’è accorto: l’ho sempre detto che è il più sveglio di tutto il gruppo.
Qualcuno sosteneva che fosse un compito troppo pericoloso per una creatura piccola come me: “Quelli sono dei pazzi!” continuava a starnazzare il mago di corte. Amico mio, avrei voluto dirgli, ho vissuto per decenni con un vecchio che si è costruito un burattino di legno e gli parlava convinto che fosse suo figlio. Il fatto che un giorno una fata abbia animato il fantoccio non rende certo la cosa meno inquietante. E dovrei temere i pazzi, io?
Qui nessuno parla con i burattini, per fortuna, ma in compenso il tipo abbronzato con i capelli d’argento intavola fior di monologhi con la luna a forma di cuore nel cielo. Roba che Amleto e il suo teschio correrebbero a nascondersi dietro una tenda per la vergogna, surclassati da tanta abilità oratoria.
L’altro tizio argentato, quello con l’Heartless gigante bodyguard, è quasi altrettanto logorroico, ma la sua scelta di argomenti è più limitata. I primi giorni mi sono divertita a contare quante volte dicesse “oscurità”, ma ho dovuto gettare la spugna quasi subito: non sono mai stata molto brava con i numeri oltre le migliaia. Noi pesci domestici non abbiamo tutte queste occasioni di studiare la matematica, sapete.
Faccia da X invece è il classico bel tenebroso del gruppo: poche parole e sguardi torvi verso tutto e tutti. Aria di malinconica sofferenza, brume da romanzo gotico perennemente addensate sulla sua fronte corrugata. Scommetto che le ragazze umane impazzirebbero per un tipo così.
Poi c’è il guercio, uno dei più pericolosi stando agli ex apprendisti di Ansem. Ogni tanto passa accanto al mio piedistallo e mi getta un’occhiata in cagnesco, ma anche per lui io non sono che un banale pezzo di arredamento. Che stupido. E brutto, anche: ringraziate che questa non è una storia illustrata, altrimenti saremmo costretti ad alzare il rating a rosso.
Una sola cosa tutti questi bruti hanno in comune: amano riempirsi la bocca di paroloni complicati. Oscurità, X-Blade, cuore dei mondi, convergenza temporale, guerre dei Keyblade… ma alla fin fine tutte le loro altisonanti riunioni potrebbero essere riassunte in un verbale di tre parole: “rivoglio i capelli!”. O forse era “conquistiamo l’universo”?
In momenti come questi mi manca persino Geppetto. Dico sul serio. Lo noto solo ora, ma Geppetto e Pinocchio ridevano un sacco quando erano insieme. Geppetto lavorava canticchiando, con Figaro che immancabilmente gli si strofinava contro le caviglie rischiando di farlo ruzzolare sul pavimento. Il Grillo raccontava belle storie accanto al fuoco, e sì, c’era anche l’oscurità, ma dopo un po’ di pagine veniva sconfitta. E quando la Fata Turchina veniva a trovarci, ogni tanto, se ci guardavi da lontano e con l’occhio un po’ distratto, ecco, forse riuscivamo persino a sembrare una famiglia normale. Forse.
E con questo potrei lasciarvi, perché è una bella conclusione in fin dei conti, ma so che voi lettori puntigliosi avete ancora una domanda. Lo so che ve lo state chiedendo. Come fa un pesce, vi vedo mentre agitate il vostro dito da maestrini, come fa un pesce a riferire ciò che ha spiato se non può parlare? Semplicissimo: Castello dell’Oblio, estrazione dei ricordi e puff! Ecco in men che non si dica un pratico mazzo di carte, grazie al quale potrete osservare anche voi il mio fantastico mondo da un oblò.

P.s. … speravate che vi rivelassi i nomi dei membri mancanti dell’Organizzazione, eh?


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Note: un piccolo appello per chi legge questa storia: potreste impiegare mezzo secondo del vostro tempo ad aiutarmi a far accettare Riku Replica tra i personaggi della sezione? Sono mesi che l'ho aggiunto (forse addirittura un anno), ma ancora non ha ottenuto la quota di voti necessaria a essere approvato come personaggio della sezione. Per ora non appare in questa raccolta, ma è un personaggio importante in un'altra mia storia e ci tenevo ad averlo. Per chi non sapesse come si fa a votare i personaggi, è semplicissimo: nella pagina principale della sezione "Kingdom Hearts" troverete in alto a destra il link "aggiungi personaggi" (la scritta non è molto visibile, in effetti). Cliccandoci sopra accederete al menu dove sono elencati i personaggi proposti per la sezione ma non ancora approvati. Da lì potrete votarli, e troverete anche il povero Riku Replica con 14 voti. Ah, già che ci siete votate pure Even, mi raccomando XD (non so chi lo abbia inserito, ma ha i miei più sentiti ringraziamenti!). Grazie a tutti e alla prossima storia :)

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Capitolo 9
*** Perdere un amico ***


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Personaggio: Terk
Genere: Introspettivo, Missing Moments
Rating: verde
Avvertimenti: nessuno.



Perdere un amico

Traditore!
La corteccia dell’albero è a pezzi e ora la zampa le fa un male del cavolo. La mette in bocca, magari la aiuterà a soffocare la dozzina di imprecazioni che le formicolano sulla lingua, se non a calmare il dolore.
E dire che le stava pure simpatica, quella Jane. È sveglia, le piace ridere, non se la prende per gli scherzi come quel musone di Kerchak, una tipa a posto, insomma. Niente male per una che è cresciuta tra gli umani. Ci sono cose, però, che Jane fa ancora fatica a capire. Se vuoi vivere con il branco devi rispettare il branco, e questo in primo luogo significa non rubarle Tarzan ogni volta che Terk ha voglia di giocare a rincorrersi, di nuotare insieme a lui, o di fare le gare sulle liane. Sono settimane che quasi non vede più l’amico di un tempo; lui la ignora, e per fare cosa, poi? Terk li ha visti giù alla cascata. Ore e ore a dondolarsi sulle liane e guardarsi negli occhi, neanche una parola, solo qualche verso stupido quando avvicinano i musi per… bleah. Roba da vomito.
Non riesce a resistere, deve sferrare un altro pugno. Stavolta immagina che il tronco abbia la faccia di Jane e colpisce con tutta la sua forza, sprigionando un boato spaventoso.
Il cuore le salta in gola mentre il sorriso orgoglioso le muore sulle labbra. Non è stata lei. No, il fragore è spaventoso, e dopo il boato iniziale non si ferma, anzi sembra amplificarsi in una serie di suoni uno più terrificante dell’altro: versi di belve feroci, schianti di tronchi divelti, cascate di rocce che fanno tremare la terra. È come se un branco di elefanti ubriachi si fosse messo d’improvviso a ballare la rumba.
Qualsiasi cosa sia, viene da molto vicino.
Dovrebbe voltarsi, correre a più non posso e fare rapporto a Kerchak, ma le zampe restano incollate al terreno. Se Tarzan fosse lì si scambierebbero un’occhiata complice e partirebbero all’avventura, terrorizzati ma allo stesso tempo incapaci di resistere al richiamo dell’ignoto. È quello che Terk si ritrova a fare adesso, quasi senza accorgersene. Tanto peggio per Tarzan. Al suo ritorno avrà qualcosa di memorabile da raccontargli, altro che le smorfie rivoltanti di Jane.
Un albero le offre riparo, permettendole di avanzare cautamente, coperta dal fogliame. Non ha mai sentito rumori così forti, a parte forse i tuoni durante un temporale e i boati del bastone di fuoco di Clayton. Ma l’essere al centro della radura, quando Terk si protende tra le liane per sbirciare, non somiglia affatto a Clayton, né tantomeno a un branco di elefanti.
Non ha peli sul corpo, e questo lo categorizza come un umano, ma ne ha tanti sulla testa, dritti e azzurri. È lui a emettere quei ruggiti come non se ne sentono neanche dalle zanne di Sabor, è lui a buttare all’aria tronchi, sassi e zolle di terra in un’esplosione di furia cieca e senza nome.
Ma sono gli occhi a lasciare Terk senza fiato. Non hanno pupille e sono completamente gialli e luminosi, simili a quelli di certi predatori notturni, oppure…
… oppure a quelli delle creature d’ombra che il Custode del Keyblade ha scacciato qualche mese fa dalla giungla.
L’urlo le sfugge prima che riesca a trattenersi, ma le dita restano serrate attorno al ramo stritolandolo nella presa, paralizzate dalla paura.
L’essere si volta verso di lei.
E di colpo è tutto finito. Terk si ritrova a fissare due occhi perfettamente normali, color ambra, ma simili in tutto e per tutto a quelli di un qualsiasi gorilla o umano. I pelli sulla testa sono tornati a posarsi sulle spalle, i tratti del muso non hanno più niente di terrificante. È talmente stupefatta che impiega qualche istante a rendersi conto che il silenzio è tornato a impossessarsi della giungla.
“Ti ho spaventata.”
La voce dell’umano è neutra. Non si sta scusando, si limita ad enunciare un dato di fatto. Ma non è nemmeno minacciosa. Terk si chiede come abbia fatto a non notare prima la cicatrice a forma di X che gli attraversa l’intera faccia.
“Certe volte invidio voi bestie” l’umano la guarda, ma sembra fissare un punto oltre le sue spalle, perso nella distanza. “Voi non sapete cosa significa perdere un amico.”
Veramente…
“Lea ha scelto il ragazzino e la marionetta” prosegue, incurante dei suoi versi di protesta. “Ma ti garantisco che pagherà per questo.”
Nel momento stesso in cui finisce di parlare l’umano scompare. È un battito di ciglia, un soffio di vento tra le liane, appena un fruscio che attraversa il sottobosco. Sparito come se non fosse mai esistito.
La devastazione che si è lasciato indietro rimane come unica testimonianza del suo passaggio. Terk contempla le cicatrici sulla terra, gli arbusti sventrati, le radici rivolte al cielo come le zampe di un insetto capovolto, poi ripensa ai suoi piccoli pugni sull’albero, alla corteccia sbriciolata ai suoi piedi.
Forse dovrebbe tornare da Tarzan. Perché Jane o no, devono esserci cose molto più terribili di un amico innamorato.

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Capitolo 10
*** Forgotten but not lost ***


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Personaggio: Biggs
Genere: Introspettivo, Malinconico, Missing Moments
Rating: verde
Avvertimenti: Biggs è uno degli annunciatori del Torneo Struggle in KH2. Non temete, nemmeno io sapevo chi fosse prima di pescarlo a caso dalla wikia! XD
Non ricordo se nel gioco Hayner & co vedano effettivamente la foto con Roxas proveniente dalla Crepuscopoli virtuale, ma sicuramente nel manga succede. Per cui nel caso mi appello alla versione cartacea XD



Forgotten but not lost

“Posso farti una domanda un po’ strana?”
Il mio primo pensiero è che voglia confidarmi qualche pena d’amore. Spiegherebbe lo sguardo basso e il rossore improvviso sulle guance, nonché la nota insicura che all’improvviso si è insinuata nella sua voce sempre allegra e squillante. Forse si vergogna di raccontarlo a Pence e Olette, penso. Magari ha bisogno del consiglio di un adulto, dell’opinione di un fratello maggiore più esperto della vita e delle donne.
“Puoi farmi tutte le domande che vuoi.”
Non negherei mai un favore al mio amico Hayner. Alcuni che lo conoscono poco lo prendono per un bulletto, ma fra le decine di ragazzini che frequentano l’arena Struggle lui è uno dei pochi che si ferma per aiutarmi a risistemare le mazze nelle griglie e a spianare la sabbia dopo una giornata di incontri. In cambio sa che può contare su gelati al sale marino gratis – le mie scorte non sono mai vuote – ed emozionanti nonché dettagliatissime analisi tecniche post gara. Una volta abbiamo fatto le quattro a commentare la celebre finale regionale tra Setzer e Irvine, un tre round a due ormai consacrato agli annali della storia. Sono cresciuto come figlio unico, ma avrei adorato un fratello minore come Hayner.
“Ti è mai capitato di provare nostalgia per qualcuno che neanche conosci?”
In effetti è una domanda strana. Ci penso su. Provo nostalgia per Helen, alle volte, anche se ormai è passato tanto tempo. E lei mi accusava proprio di non conoscerla, di non capirla. Di preferire lo Struggle a lei, e di tante altre cose per cui invece non provo affatto nostalgia. Ma quello è un capitolo della mia vita chiuso e finito.
“Le persone cambiano. A volte crediamo di non conoscere più chi amiamo, ma se c’è stato un legame, di qualunque tipo, allora è normale provare nostalgia.”
“No, no” Hayner si lascia scivolare sulla sabbia, l’espressione sconsolata. “Io non l’ho proprio mai vista questa persona.”
Dalla panchina al bordo dell’arena mi protendo in avanti, desideroso di capire e allo stesso tempo lievemente spaventato: non ho mai sentito Hayner fare discorsi così campati in aria, di solito è un ragazzo pragmatico, incredibilmente razionale. Sto per fare altre domande quando lui estrae qualcosa dalla tasca dei pantaloni e me la porge in silenzio. Una fotografia.
È stata scattata davanti al cancello della Vecchia Villa, uno dei ritrovi preferiti dei ragazzi di queste parti. In primo piano sorridono spensierati i membri della banda al gran completo: Pence colto con la bocca aperta, probabilmente sul punto di perdere l’equilibrio, la gentile Olette al suo fianco, e Hayner con il braccio attorno alla spalla di…
“Chi è questo ragazzo?”
“Appunto. Non lo conosciamo. Nessuno di noi lo ha mai visto in vita sua. Però… se guardo questa foto mi viene malinconia. E non so perché.”
Ed è come se si rompesse una diga. Qualcosa si spezza nella sua voce e forse anche più nel profondo, e un attimo dopo inizia a riversarmi addosso una storia strana e confusa di città virtuali, prescelti armati di chiave che viaggiano per i mondi combattendo l’oscurità e re-topi dalle orecchie tonde. Storie di un amico dimenticato, conosciuto in un’altra realtà e svanito dalle strade del mondo, sopravvissuto caparbiamente tra le pieghe dell’inconscio e sulla superficie lucida di quell’unica fotografia. Io rimango immobile sulla panchina e non lo interrompo neanche una volta.
Quando il silenzio torna a posarsi sull’arena trattengo il fiato. Con mia grande sorpresa, scopro che gli credo. Ad ogni singola parola.
Gli credo perché è un amico. Perché non avrebbe motivo di inventare una storia così assurda, e la luce nei suoi occhi non è quella di un pazzo. Gli credo perché troppe volte non ho creduto a Helen, e forse questa è l’occasione che la sorte mi offre per rimediare ai miei errori.
“Forse qualcosa di buono c’è nella malinconia che provi.”
Hayner alza lo sguardo verso di me, confuso ma allo stesso tempo speranzoso. Desidera un appiglio, gli leggo negli occhi scuri, un’ancora che lo aiuti ad accettare il dolore e andare avanti. È a questo che servono i fratelli maggiori.
“La malinconia è la prova che il tuo amico è esistito. Che in qualche modo esiste ancora, dentro di te. È la prova del legame che vi unisce. E forse un giorno potrebbe essere la chiave per ritrovarlo.”
Non so da dove mi vengano queste parole, io che nella vita non ho mai fatto altro che parlare di lavoro, del tempo, di ragazze e di Struggle. Ma riportano un sorriso sulle labbra di Hayner, e questo mi basta.
Per un po’ non c’è bisogno di aggiungere altro, e rimaniamo tutti e due in silenzio a contemplare il tramonto.


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Note: e con questa decima storia la mia raccolta è completa. Fino all'ultimo sono stata combattuta se estrarre o no altri dieci personaggi casuali una volta completata la lista, perché da un lato Kingdom Hearts è sempre stato uno dei miei fandom numero uno e mi piacerebbe scrivere di tutto e di tutti, ma dall'altro... troppi progetti in corso, meno tempo di quello che vorrei e che mi servirebbe in questo ultimo periodo, come si nota anche dal ritardo abissale con cui ho postato quest'ultimo capitolo. Perciò per il momento ho deciso di chiudere. Ciò non esclude che un giorno, in futuro, potrei cambiare idea :)
Grazie a tutti quelli che hanno seguito e commentato fin qui! E grazie a coloro che hanno votato per inserire Riku Replica nella lista dei personaggi della sezione, finalmente dopo ere geologiche ce l'abbiamo fatta!

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