La rovina della Torre Pokémon.

di Afaneia
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Università degli Studi di Azzurropoli. ***
Capitolo 2: *** Seel, di nuovo. ***
Capitolo 3: *** Jonathan Silph. ***
Capitolo 4: *** Gengar. ***



Capitolo 1
*** Università degli Studi di Azzurropoli. ***


Eccomi di nuovo qua!

Questa storia nasce come un sequel, inizialmente non previsto, de La Spettrosonda. A differenza di quest'ultima però, che almeno nella mia mente era concepita come una sorta di Poképasta, questa ha più le caratteristiche di un vero e proprio racconto breve, forse un po' noir, per così dire. Devo segnalare anche un linguaggio leggermente più volgare rispetto al mio solito, niente di sconvolgente, comunque.

Anche stavolta non mi aspetto acclamazioni, sono consapevole che la storia potrebbe non piacere a tutti, ma io mi ci sono appassionata tantissimo fin dal primo momento, a tal punto da girare per giorni con il mio quaderno ovunque andassi per continuare a scrivere. Quindi ho deciso di postarla nella speranza, forse vana, che sia un prodotto gradevole per i lettori anche solo un quarto di quanto lo è stato per me.

Non posso esimermi dal ringraziare profondamente e sentitamente Sky98, senza il cui prezioso suggerimento questa storia non sarebbe mai venuta alla luce.

Detto questo, vi lascio alla lettura.

Enjoy!

Afaneia





La rovina della Torre Pokémon


«Ebbene, i francesi non si sono vendicati del traditore; gli spagnoli non hanno fucilato il traditore; Alì, sepolto nella sua tomba, ha lasciato impunito il traditore; ma io, tradito, assassinato, gettato vivo in una tomba, da cui sono uscito per miracolo, io debbo vendicarmi, ed il cielo, giusto punitore dei malvagi, mi ha inviato a punire, ed eccomi qui.»


Alexandre Dumas, Il Conte di Montecristo.


Capitolo I – Università degli Studi di Azzurropoli.


Sua madre lo guardava con una tristezza che con l'amnesia non aveva niente a che fare. Lo guardava studiare gli enormi manuali che si era procurato, manuali di fisica della materia, atomica e subatomica, ma anche libri più dimessi e vecchi, testi di scienze occulte, esoteriche, sovrannaturali. Non diceva nulla, ma egli, Sakaki – aveva ormai accettato l'idea di chiamarsi così – sapeva che era preoccupata e infelice. Talora, quando sollevava gli occhi stanchi e arrossati dalle sue letture, la sorprendeva a osservarlo, con occhi ancora più stanchi e cerchiati dei suoi – ma per una stanchezza che proveniva dall'interno, come per una qualche melanconica rassegnazione. In quei momenti, quando i loro occhi s'incontravano da una parte all'altra del tavolo, al di sopra di quella muraglia invalicabile che i suoi libri e il loro silenzio costituivano tra di loro, Sakaki avrebbe voluto chiederle perché fosse tanto triste. Ma poi non trovava il coraggio, un paragrafo, il titolo di un capitolo lo attraevano e lui riprendeva a studiare, vagamente imbarazzato, e lei riprendeva a osservarlo in silenzio.

Finalmente, una sera, quando da una finestra aperta provenivano le voci concitate di sua sorella e di un'amichetta che giocavano in giardino, un sussurro timidamente divertito, ma appena accennato, infranse quella barriera invisibile tra di loro: «Neppure a scuola hai mai studiato così tanto.»

Sakaki levò gli occhi su di lei, cercando di non mostrarsi troppo stupito, e si scontrò col suo sguardo incerto, implorante. Voleva disperatamente parlare con lui, stabilire un contatto, cercare di ritrovare, in quel giovane uomo che studiava forsennatamente dall'altro lato del tavolo, il proprio figlio. Si domandò da quante sere quella donna stesse riflettendo su quella frase, ne stesse misurando il suono nella bocca chiusa, accordasse tra loro le parole...

«Io... non mi ricordo la scuola» disse seccamente, impacciato, attirando a sé con una mano un libro di fisica teorica da cui voleva confrontare una nozione. Era vero: non ricordava di aver mai frequentato la scuola, sebbene fosse evidente che l'aveva fatto, dal momento che sapeva leggere e scrivere e capiva un po' di fisica. Tuttavia, quando tornò a concentrare la propria attenzione su sua madre, vide sul suo viso una tale quantità di delusione per quella secca, imbarazzata risposta, che chiuse bruscamente il libro, pur lasciandovi due dita come segno, e si schiarì la voce. «Ero bravo?»

Era un tentativo di conversazione che sarebbe stato patetico anche tra due estranei, Sakaki se ne rendeva conto persino dall'abisso della propria ignoranza in fatto di convenzioni sociali. Ma purtroppo, questo era quello che erano ora lui e sua madre: due estranei. Ed egli si rendeva conto anche troppo bene che avrebbe dovuto essere grato per quel patetico tentativo, in quanto era molto di più di ciò che avrebbe mai più potuto avere con suo padre. Probabilmente anche sua madre condivideva la sua stessa consapevolezza, visto che il suo volto s'illuminò di un timido sorriso radioso.

«Piuttosto bravo, direi. Insomma... normale.»

«Normale?» Sakaki cominciava già a trovare assai difficile portare avanti quella conversazione. «Che voti prendevo?»

«Oh... sempre la sufficienza» garantì la donna con convinzione. Poi, dopo un attimo di silenzio, nel disperato tentativo di non lasciar morire quella conversazione, per quanto patetica e imbarazzante essa fosse, soggiunse guardando i suoi libri: «Non andavi matto per la fisica.»

«Suppongo di no» mormorò Sakaki, profondamente tentato di chinare nuovamente lo sguardo sui propri studi. Entrambi si guardarono imbarazzati per qualche momento, dopodiché la donna riprese la conversazione: «Come mai questo interesse per la fisica?»

Sakaki considerò per un momento se doveva dirle la verità: osservò per un momento, senza realmente vederli, i titoli dei suoi libri. Poi, schiarendosi la voce: «Penso che possa aiutarmi a capire cosa mi è successo nella Torre.»

I sorriso di sua madre scomparve subitaneamente: ella lo guardò confusa, disarmata, prima di distogliere lo sguardo da lui, come se non sapesse come prendere la sua affermazione. Sakaki esitò alla sua reazione. «Ho... detto qualcosa che non va?»

«No... no, certo che no. Non me l'aspettavo.»

Sakaki la scrutò senza capire. Che cosa esattamente non si aspettava? Che lui avrebbe fatto tutto quanto di possibile vi fosse al mondo per sapere qualcosa di più riguardo a quanto gli era accaduto durante quella terribile notte? O semplicemente che dopo tutto ciò avrebbe ancora osato pronunciare il nome di quel luogo?

Sua madre intrecciò le mani in grembo e puntò lo sguardo fuori dalla finestra. Sentendosi in qualche modo sollevato da quell'interruzione, e contemporaneamente sentendosi un mostro per provare sollievo, Sakaki riaprì il suo manuale di fisica dei quanti.

«Hai sempre detto che avresti voluto studiare storia, se fossi andato all'Università» proruppe infine la donna, come buttando fuori quelle parole tutte d'un fiato. Sakaki alzò immediatamente lo sguardo: sua madre si torceva le mani in grembo fin quasi a graffiarsene i dorsi, con lo sguardo ostinatamente infisso su quella finestra e gli occhi colmi di lacrime.

«Come?»

«È così» proseguì la donna senza guardarlo. Aveva la voce incrinata dal pianto. «Tu odiavi la fisica. Ti ho mandato anche a ripetizione. Volevi fare storia. Amavi la storia, con tutti i nomi e le date e le battaglie e tutto il resto. E ora... e ora non mi guardi più neppure in faccia, per studiare tutti questi libri di fisica, per tutto il giorno. E tutti i tuoi manuali di storia, tutti questi anni di studio... inutili, ormai, e solo per quella Torre!»

Sakaki non ricordava di aver mai visto sua madre così disperata e ferita. Certo, non che ricordasse di aver visto molto spesso sua madre in qualsiasi circostanza.

«Mamma...» balbettò confuso. «Ti prego, non ti arrabbiare. Ricordo ancora qualche nome, qualche data...» Era vero: se frugava attentamente nella propria memoria, rinveniva qualche grande condottiero, qualche data fondamentale per la fondazione di Kanto... tutto quello che probabilmente faceva parte del sostrato conoscitivo fondamentale di ogni persona sulla regione, che anche non avesse compiuti studi particolareggiati. «Ma non sono più il ragazzo che è entrato in quella Torre e tu lo sai meglio di me. Ti prego, non ti arrabbiare.»

Pronunciando quelle parole, chiamando mamma quella donna che che per lui era poco meno di un'estranea, Sakaki non poteva non sentirsi orrendamente in colpa: sentiva come di stare usurpando la madre di qualcun'altro, parlandole come se lui fosse davvero il figlio che lei aveva perduto dentro quella Torre. Ma no, Sakaki non era quel figlio, né mai lo era stato o sarebbe potuto esserlo: l'uomo che era uscito dalla Torre, nudo e congestionato dal freddo, non era lo stesso ragazzo che vi era entrato. No, quel ragazzo era morto, perduto per empre, gli spiriti l'avevano ucciso: Sakaki era nato quando aveva aperto gli occhi su quel nero buio imperscrutabile e quando una voce gli aveva chiesto qual era il suo nome. No, Sakaki era un uomo nuovo, non votato che alla vendetta, per quanto si ostinasse a restare in quella casa, illudendo, in modo forse crudele, quella buona, dolce, infelice donna che in lui cercava suo figlio.

Alle sue parole, ella ricadde quasi immobile sulla sedia, senza protestare, forse pentita di aver infierito su di lui per qualcosa di cui realmente non aveva colpa: solo i suoi occhi resistettero per un istante, ma poi, lentamente, si chinarono.

Sakaki non aveva più voglia di studiare. Chiuse il libro, imprimendogli un colpo forse un po' troppo violento rispetto alle sue intenzioni, perché vide sua madre sobbalzare sulla sedia, e uscì in giardino, all'aria aperta.

A pochi metri da lui, sua sorella giocava con la sua amichetta, ma Sakaki non le degnò di uno sguardo. In quella notte chiara e senza vento, illuminata da un'ancora corposa falce di luna calante, come ignorare l'ingombrante presenza della Torre Pokémon?

Rimase a lungo immobile, quasi spossato, a inspirare profondamente l'aria della notte. La cima della Torre brillava di luna. Sakaki la guardò con dolorosa attenzione.

«Mio Dio, perché?» mormorò, come se davvero sperasse di ricevere una risposta da quell'edificio silente. «So che cosa mi avete fatto, ma perché tutta questa crudeltà? Questo ancora non riesco a capirlo.»

Ma i minuti trascorsero su di lui silenti come soffi di vento, taciti come segreti, mentre lui cercava invano le sue risposte dentro quelle finestre, nere come orbite vuote.


Sua madre era stata contraria fin dal primo momento all'idea dell'Università.

Innanzitutto, la retta per l'Ateneo di Azzurropoli era molto costosa: altre città, come Zafferanopoli o Aranciopoli, erano assai più economiche. Ma Sakaki era inflessibile: solo Azzurropoli aveva un corso di laurea specifico per l'Elettronica quantistica*, che era, almeno secondo le sue supposizioni, la materia più utile ai suoi scopi. Inoltre, sua madre era perplessa anche circa le sue capacità. Non che glielo avesse detto chiaramente. Si era limitata a obiettare timidamente: «Sakaki, la fisica è una materia molto difficile. Anche ragazzi molto brillanti l'abbandonano, ragazzi che non...» Non aveva terminato la frase, ma non ve n'era bisogno: Sakaki sapeva cosa intendeva dire. Ragazzi che non avevano perduto la memoria, ragazzi che si ricordavano almeno di aver frequentato una scuola, di aver odiato la fisica...

Dopo lunghe sere di discussione, avevano raggiunto un compromesso: dal momento che mancavano ancora sei mesi all'inizio del nuovo anno accademico, Sakaki sarebbe andato ad Azzurropoli ad assistere almeno a qualche lezione, per accertarsi di quale fosse effettivaente la realtà universitaria.

Per quel motivo quel lunedì mattina Sakaki, che aveva attraversato il modernissimo sotterraneo costruito per collegare Lavandonia e Azzurropoli evitando il traffico di Zafferanopoli, prese posto in un'aula poco affollata della Facoltà di Scienze Matematiche, Fisiche e Naturali per seguire la sua prima lezione di elettronica quantistica. Si sentiva eccitato, eccitato e nervoso, all'idea di poter finalmente avvicinarsi anche di un solo, ridicolo passo al raggiungimento del suo obiettivo.

Ma per le successive due ore di lezione egli non poté fare altro che rimanere seduto a bocca aperta di fronte a un panciuto professore di mezza età che spiegava un qualche argomento di cui lui non aveva compreso neppure il nome, alleggerendo di tanto in tanto la spiegazione con battute amichevoli a sfondo scientifico di cui lui neppure riusciva a cogliere il senso. Sakaki ascoltava basito: era vero che le lezioni erano cominciate da svariati mesi, ma quello era un corso del primo anno. Era davvero così difficile?

Al primo quarto d'ora accademico se la svignò dalla porta in fondo all'aula, agitato e tremante, con le mani gelide e ciononostante sudate, ben deciso a non rimanere lì per un minuto di più. Mentre i corridoi attorno a lui si affollavano di studenti, con le loro tracolle e le loro borse di pelle, i loro libri e i loro appunti, Sakaki si appoggiò a una parete per riprendere fiato: il cuore gli batteva all'impazzata. Si sentiva umiliato, confuso, ma soprattutto si sentiva messo alle strette: no, sua madre aveva ragione, quella materia era troppo difficile per le sue capacità. Avrebbe impiegato anni anche solo per padroneggiarla decentemente, e non avrebbe comunque mai raggiunto un livello di conoscenze teoriche e pratiche tale da permettergli di...

Ma allora che fare? Abbandonare il suo progetto? No, impossibile, impensabile. Nulla gli era rimasto che non fosse la sua vendetta: aveva perduto sua madre e sua sorella, per quanto esse fossero lì per lui e pronte ad amarlo, poiché egli non ricordava di averle mai amate a sua volta in vita propria. Egli era dunque orfano e senza amici. Aveva perduto tutte le conoscenze che aveva accumulato nei suoi diciotto anni di vita: dei suoi giovanili studi di storia, non ricordava niente che non fossero risibili conoscenze superficiali e particolari. Più che mai a quel pensiero si sentì solo al mondo. No, per essere nato dentro la Torre Pokémon, ora la vendetta era l'unica ragione della sua esistenza e a essa doveva aggrapparsi a qualsiasi costo, non vi poteva rinunciare, soprattutto, non prima ancora di iniziare...

Si passò le mani fredde sul viso accaldato, col cuore che ancora gli martellava dolorosamente il petto. Aveva bisogno di una toilette, voleva sciacquarsi la faccia, rallentare la corsa furiosa dei propri pensieri. Ma quando si staccò dalla parete, si rese conto di non essersi appoggiato semplicemente contro il muro: alle sue spalle c'era una bacheca per gli avvisi in sughero. Li scorse distrattamente con gli occhi, sperando di distogliere per un attimo l'attenzione dai propri pensieri.

E poi, ecco. Si sentì stupido, tardo e sciocco per non avervi pensato prima. A pochi metri da lui c'era una sala studio deserta: vi corse dentro, prelevò un foglio bianco dal cassetto di una stampante e con un pennarello nero, nella grafia più grande che gli riuscì di produrre, scrisse: Cercasi neolaureato/a in Elettronica quantistica per importante ricerca applicata. Astenersi perditempo. Dopo un attimo di esitazione, aggiunse: Possibilità di ritorno economico e il proprio numero di telefono e tornò ad affiggere il suo annuncio sulla bacheca, sovrastando senza ritegno annunci di stanze in affitto e offerte di ripetizioni.

Quel pomeriggio, Sakaki tornò a Lavandonia con la piacevole sensazione di aver concluso qualcosa. Non era certo che qualcuno avrebbe risposto al suo annuncio, e anche se così fosse stato, che questo qualcuno avesse le conoscenze tecniche per poterlo aiutare. Tuttavia sentiva di averlo compiuto davvero, un passo in avanti sulla sua strada verso la vendetta.

Nel frattempo, pensò compiaciuto, poteva dedicarsi alla ricerca dei fondi.


*Il mio amore per la fisica è stato intenso, ma purtroppo era destinato a finire e ho mollato quel corso di studi molto tempo prima di poter anche solo concepire l'Elettronica quantistica. Tuttavia, guardando un po' di vecchi documenti, ho pensato che potesse essere la materia più adatta per quello che vuole realizzare Sakaki... se aveste idee migliori, fatemelo sapere!



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Capitolo 2
*** Seel, di nuovo. ***


Buon pomeriggio!

Non ho molto da dire riguardo a questo capitolo, suppongo che si spieghi tutto da solo. Non posso tuttavia non soffermarmi ringraziare con tutto il mio affetto la mia carissima crystal_93 per la sua recensione e per aver inserito la storia tra le seguite!

Baci,

Afaneia



Capitolo II – Seel, di nuovo.


[...] Io questo ciel, che sì benigno

appare in vista, a salutar m'affaccio,

e l'antica natura onnipossente

che mi fece all'affanno. A te la speme

nego, disse, anche la speme; e d'altro

non brillin gli occhi tuoi se non di pianto.


Giacomo Leopardi, La sera del dì di festa.



Nessun lavoro normale avrebbe mai potuto permettergli di guadagnare una somma tale da finanziare gli esperimenti: Sakaki se ne rese conto già dopo poche settimane quando, pur continuando contemporaneamente a studiare con interesse la fisica e l'elettronica quantistica, cominciò a considerare seriamente le proprie prospettive future.

Non esistevano vere e proprie occupazioni che potesse intraprendere. Non aveva una laurea, ovviamente, a malapena possedeva un diploma superiore, e in ogni caso non aveva idea di come lo avesse conseguito. Non aveva conoscenze tecniche o capacità pratiche in nessun campo specifico: anche grazie a qualche parola illuminante di sua madre, comprese entro breve di essere una figura essenzialmente improponibile sul mercato del lavoro. Sua madre cercò ovviamente di non scoraggiarlo, anzi di stimolarlo a mettersi in gioco, e sorprendentemente gli giunsero svariate proposte di lavoro: più volte ella tornò a casa informandolo che il giornalaio era disponibile a offrirgli un posto all'edicola all'angolo, che il bar a sud del Tunnelroccioso cercava un cameriere, che il Supermarket aveva bisogo di un commesso... ma per quanto sapesse di darle un dolore, Sakaki rifiutà tutte quelle offerte, dettate dalla pietà che gli abitanti di Lavandonia provavano per la sola vittima del loro cieco silenzio. Persino il signor Fuji, il sindaco, gli fece avere discretamente un invito a un colloquio per un impiego all'anagrafe. Di tutti i lavori propostigli, questo era probabilmente l'unico che potesse offrirgli una vera e propria prospettiva di avanzamento di carriera, ma Sakaki la rifiutò egualmente, con più decisione delle altre. Sapeva che quello era l'unico modo che il signor Fuji avesse per fare ammenda del fatto di averlo deliberatamente abbandonato all'interno della Torre, senza tuttavia dover riconoscere apertamente di avergli fatto del male: nell'ottica di mantenere il segreto della Torre, bisognava negare che quel luogo fosse pericoloso. Il medico stesso che si era occupato di lui aveva attribuito la sua amnesia a nient'altro che una forte impressione che aveva agito su una mente già debole, ma del tutto slegata da qualsiasi cosa presente nella Torre Pokémon. E del resto, quali prove c'erano del fatto che le cose stessero diversamente? A una qualsiasi analisi, quell'edificio non ospitava che tombe, inquietanti, certo, ma assolutamente inoffensive. Dunque non c'era nessun modo di dimostrare razionalmente, senza chiamare in causa i fantasmi, che fosse stata la Torre a fargli perdere la memoria.

Nessuno più di Sakaki comprendeva del resto la necessità di tacere al riguardo, e come avrebbe potuto? Più di chiunque altro egli era vicino al cuore profondo di quel mistero. Ciò tuttavia non toglieva niente al suo rancore verso l'uomo che, secondo tutte le leggi di Lavandonia ma contro ogni legge umana, l'aveva volontariamente abbandonato dentro la Torre. Più volte, incrociandolo per strada o vedendolo durante qualche apparizione pubblica, egli si sentì infiammare di un rancore sordo, paralizzante. Si sarebbe vendicato anche del signor Fuji, un giorno – si sarebbe vendicato per tutto.

Forse questa sua insofferenza nei confronti del signor Fuji, insofferenza ch'egli proiettò ben presto su tutto ciò che con la politica e le leggi aveva a che fare – poiché era appunto in nome della legge che era stato lasciato solo a fronteggiare il proprio destino – contribuì in qualche modo alla sua scelta di vita... non avrebbe saputo dirlo.

L'idea di rubare i Pokémon si formò in lui quasi contro la sua volontà, quando una mattina a colazione, guardando un telegiornale (sua madre lo stimolava a tenersi aggiornato su ciò che lo circondava, nella vana speranza che ricordasse qualcosa, o che almeno reimparasse a conoscere il mondo), vide un servizio su una banda di ladri di Pokémon che aveva effettuato un colpo all'Altopiano Blu. Inizialmente non vi prestò una particolare attenzione, ma quando a pranzo sua madre e sua sorella presero a commentare con orrore la crudeltà di quei ladri, Sakaki si rese conto con stupore di non essere affatto disgustato come loro da quegli eventi: essi incontravano la sua più assoluta indifferenza.

Si guardò bene dal confidare loro questi sentimenti: non voleva addolorarle inutilmente più di quanto già facesse ogni giorno. Ma quando quella sera si ritirò al buio nella sua camera, egli rimase a lungo pensierosamente seduto sul letto, ad accarezzare il suo Meowth che gli dormiva sulle ginocchia. Si sentiva confuso dai propri stessi sentimenti, ch'erano del resto quelli di un uomo nella mente di una creatura appena nata. Era davvero disposto ad arrivare tanto lontano per conseguire la propria vendetta?, si domandava. La risposta che a ogni momento gli veniva alle labbra, e che lo spaventava molto più della domanda stessa per la portata delle sue conseguenze, era che sì, lo era. E ciò che soprattutto lo confondeva era che questa consapevolezza non era affatto il frutto di una tragica, fatale lotta interiore: non nutriva semplicemente alcun dubbio o scrupolo. Egli voleva quella Spettrosonda e non vi era alcuna legge morale, alcuna pietà umana capace di contrastare questo obiettivo. Nulla lo turbava più del pensiero di non ottenere ciò che voleva, non c'era nulla che suscitava in lui la benché minima emozione, se non il desiderio della rivalsa.

La sua mano si muoveva incessantemente, con gesto quasi meccanico ma non privo di un certo affetto, sulla schiena del suo Pokémon dormiente, sereno, vicino al suo cuore.

«Tu non mi odierai, vero?» Le sue labbra si muovevano come per una volontà propria, articolando pensieri tutti loro. «No, tu non mi giudicherai mai, non è così? Tu sai perché devo farlo. Non ho altra scelta... ma tu non mi abbandonerai, no, tu non lo farai. Ci siamo salvati a vicenda, io e te. Sì, io e te, tu ed io: non abbiamo bisogno di nessuno.»

Ma se davvero voleva intraprendere questo percorso, non era a Lavandonia che poteva farlo: era una cittadina troppo quieta, troppo tranquilla...e del resto, a che pro restarvi più oltre? Quella città non aveva più niente da dargli, né lui poteva fare nulla per essa, non ancora, quantomeno: un giorno l'avrebbe liberata dalla mefitica, opprimente presenza della Torre, ma ancora non ne aveva gli strumenti, e proprio per procurarseli doveva andarsene. E poi, e poi... perché approfittare oltre di quelle miserabili che in lui non avrebbero mai ritrovato il figlio e il fratello che avevano perduto? Sakaki non avrebbe mai potuto amarle (e nel profondo, forse neppure gli interessava), esse da lui non avrebbero mai riottenuto che una goffa gratitudine. No, esse non avrebbero fatto che impacciarlo, ed egli non avrebbe potuto che mortificare il loro affetto con la propria freddezza. Non c'era più nulla a legarlo a Lavandonia.

Il mattino seguente parlò con sua madre. Ella fin da subito gli parve turbata e addolorata e per giorni cercò di convincerlo a cambiare idea: giunse persino a implorarlo di tornare all'idea dell'Università... forse anche lei, come lui, aveva compreso che quella sua intenzione di allontanarsi da Lavandonia sarebbe stata per sempre e che lei l'avrebbe perduto per la seconda volta, e definitivamente. Ma Sakaki fu irremovibile, per quanto ragionevole: non le chiese che il necessario per pagare tre mesi di affitto e di vitto, poiché era convinto, in quel lasso di tempo, di riuscire a trovare di che pagarsi da vivere – quanto onestamente, questo rimase non detto.

Gli occorsero svariate settimane di discussione per convincerla, ma finalmente sua madre cedette alle sue preghiere, forse sperando tacitamente che, concedendogli quella libertà, egli le si sarebbe avvicinato un po' di più, e Sakaki fu libero di partire per Azzurropoli, da dove non aveva alcuna intenzione di farle aver sue notizie.




La berlina nera coi finestrini oscurati si fermò davanti a una modesta casetta piccolo borghese nel centro di Lavandonia. Subito l'autista scese ad aprire la portiera posteriore: ne uscì un uomo alto, dal volto maschio e volitivo, che indossava un nero completo gessato, tagliato su misura, e un impermeabile scuro. Doveva avere circa trent'anni.

Percorse il vialetto a passi svelti e giunto alla porta, come se fosse la cosa più naturale del mondo e si aspettasse di essere atteso, suonò il campanello. Trascorsero pochi momenti: egli pareva perfettamente a suo agio, immobile sulla soglia di quella casa così comune, col suo completo firmato e le mani nelle tasche dell'impermeabile, ad aspettare.

Nessuno chiese chi fosse, ma l'uomo percepì con la coda dell'occhio la tenda di una finestra che veniva spostata per guardare il vialetto. Un momento dopo, la porta si spalancò bruscamente, ma sua madre, o la donna che biologicamente era sua madre, invecchiata di dodici anni rispetto al loro ultimo incontro, non gli gettò affatto le braccia al collo. Rimase piuttosto immobile sulla soglia, con sguardo gelido che però celava – egli aveva ormai imparato a riconoscere quell'emozione – un fondo di terrore.

«Che ci fai qui?»

La voce di sua madre vibrava di rabbia e di paura, ma Sakaki non poté impedirsi di sorridere. Le tese le braccia, chiedendole, in tono apertamente provocatorio: «Non abbracci il figliol prodigo, mamma?»

Il volto di sua madre non ebbe cedimenti. «Vattene» disse con voce bassa e rabbiosa. «Non vogliamo avere niente a che fare con te.»

Il sorriso di Sakaki si spense immediatamente. « Fammi entrare, forza» ordinò con voce secca, spingendola dentro senza mezze misure. Forse intimorita dalla possenza della sua figura, sua madre arretrò senza protestare, limitandosi a guardarlo astiosamente.

Sakaki richiuse la porta, gettando uno sguardo attorno a sé nel piccolo ingresso che aveva ancora bisogno di una buona mano di bianco da tanti anni prima. Sì, tutto era come ricordava dai pochi mesi che aveva trascorso in quella casa, più di dieci anni prima.

«Che ci fai qui?» ripeté la donna nervosamente, senza distogliere gli occhi da lui. Si stringeva con le mani le braccia magre. Sakaki abbassò lentamente gli occhi su di lei e lo studiò a lungo, senza fretta, deliberatamente.

«Mi disprezzi?» chiese con calma.

Lo sguardo di sua madre si fece se possibile più duro: «Ho sentito cos'hai fatto.»

«Ah, sì?»

«Sì.»

«Nessuno mi ha mai accusato di niente. Che cosa avresti sentito?»

«Smettila! Lo sai benissimo» proruppe la donna: aveva gli occhi lucidi e le tremava il labbro inferiore. Sì, era terrorizzata da lui, ma egualmente lo affrontò con un ardimento che da lei Sakaki non si sarebbe mai aspettato. Ricordò che c'era stato un tempo, tanti anni prima, in cui l'aveva ammirata per il coraggio di allevare da sola due figli, di guardare negli occhi un ragazzo che non si ricordava neppure chi lei fosse. «Nessuno lo ha capito, ma io lo so che ci sei tu dietro tutto quello che sta succedendo. Pensi forse che sia stupida? La droga e i Pokémon e... mio Dio, Sakaki, come hai potuto? Quel casinò illegale ad Azzurropoli...»

«Non è illegale» protestò Sakaki quasi con stanchezza, passandosi una mano sul volto, ma la donna lo aggredì con furia se possibile maggiore: «Certo, non è illegale, ma solo perché qualcuno ha regalato a quel deputato della maggioranza una villa con piscina sull'Isola Cannella! Pensi forse che sia una stupida? Li leggo i giornali!»

Quella sciocca donna di provincia aveva capito molto più di svariati detective incaricati di cercare prove di corruzione a suo carico, pensò Sakaki in un breve attimo di compiacimento. Le concesse un sorriso: «Brava, complimenti.»

«Ma, Sakaki... quell'omicidio, ad Azzurropoli!»

Era a questo, dunque, che voleva arrivare. Sakaki contrasse le labbra per un attimo e impiegò qualche secondo a ricordare: sì, uno dei suoi scassinatori, che aveva pensato bene, qualche settimana prima, di aspettarlo all'uscita del suo ufficio per chiedergli una grossa somma, in cambio del suo silenzio su segreti che a lui parevano molto importanti e compromettenti, pur non avendo in realtà alcuna prova concreta con cui ricattarlo. Gli era dispiaciuto dare l'ordine di eliminarlo, ricordò con una fitta di disagio alla bocca dello stomaco, ma non aveva avuto scelta. Come avrebbe potuto altrimenti guadagnarsi il rispetto dei suoi tirapiedi? Si massaggiò con le dita la radice del naso, sospirando: «Non avevo scelta. Mi stava ricattando.»

«Ma l'hai ucciso tu, tu!» gridò sua madre, pestando disperatamente i piedi al suolo: sembrava sconvolta all'idea che lui non comprendesse la gravità della colpa di cui si era macchiato. Ma la pazienza di Sakaki si era decisamente assottigliata negli ultimi dodici anni e di certo non era più abituato a sentirsi contraddire come un ragazzino.

«Stai zitta, cretina! Non l'ho premuto io quel grilletto e non ci sono prove del contrario, quindi puoi pure smetterla di berciare. Nessuno ti crederebbe mai, comunque.»

Ma la voce di sua madre era assai più fredda e misurata quando rispose con calma: «A me non servono le prove.»

Stavolta Sakaki si limitò a sbuffare senza risponderle: non aveva tempo da perdere per litigare con quella donna. Si guardò nuovamente attorno nell'ingresso umido, con la vernice vagamente scrostata dagli angoli, come per far mente locale, e si schiarì la voce. «Dov'è mia sorella?»

«A casa del suo ragazzo.» La voce di sua madre era ancora dura e fredda, ma Sakaki si limitò ad assentire col capo: «Meglio così. È con te che volevo parlare»

«Io non ho niente da dirti.»

«Io sì e tu mi ascolterai. Ho intenzione di comprare questa casa.»

Sua madre spalancò gli occhi per la sorpresa e indietreggiò di qualche passo, scrutandolo come se lo vedesse per la prima volta. Esitava, cercando di comprendere il vero significato delle sue parole. «Erediterai questa casa alla mia morte. Non hai bisogno di acquistarla.» Pareva che quell'obiezione tanto banale fosse la sola cui riusciva a dar forma concreta nella propria mente.

«No» ammise Sakaki con semplicità. Da una tasca interna dell'impermeabile estrasse un libretto per gli assegni e una stilografica nera. «Hai ragione, non ho alcun bisogno di comprare questa casa. Ti sto facendo uno splendido regalo, in effetti. Hai già in mente una cifra in particolare?»

Gli occhi di sua madre vagavano da lui alla mano con cui reggeva il libretto, privi di comprensione. «Questa casa non è in vendita» disse infine, tentando di dare alla propria voce una parvenza di risolutezza. Ma Sakaki rise della sua opposizione.

«Oh, sì, che è in vendita. E credimi, sono il miglior acquirente che potresti desiderare. Te la pagherò il doppio di quanto varrebbe sul mercato. E in più vi comprerò una splendida casa da un'altra parte. Celestopoli, magari. Ti piacerebbe?»

«Perché vuoi questa casa?» chiese infine sua madre. Pareva quasi arresa. «Cosa te ne fai? Puoi avere case molto più belle, in città più importanti...»

«Io ho case più belle in città più importanti» replicò quegli come parlando a una persona molto tarda. «Ma se vuoi saperlo, te lo dirò. Ho bisogno di una casa vicina alla Torre Pokémon per condurre degli esperimenti... e per lo stesso motivo, temo che tra qualche mese Lavandonia non sarà più un posto tranquillo per vivere. Pertanto mi è parso generoso da parte mia allontanarvi da qui prima che i prezzi delle case crollino vertiginosamente. Ora, se vogliamo concentrarci, penso che un paio di milioni siano proprio...»

«È per la Torre, quindi.»

Quando Sakaki chinò gli occhi su di lei, vide che lo guardava fissamente, come se avesse appena compreso una terribile verità. «È tutto per la Torre. Tutti questi anni, questi traffici, questi omicidi... è sempre stato tutto per la Torre.»

«Tutta la mia vita è sempre stata tutta per la Torre!» replicò Sakaki. Discutere con quella donna lo stava spossando più di quanto avesse voluto. Si passò una mano sul volto, appoggiandosi con la spalla alla parete. «Tu non hai mai capito.»

«No, sei tu a non aver capito.»

Egli allontanò bruscamente la mano dai propri occhi e le rivolse tutta la sua attenzione. «Come, prego?»

«Non eri tenuto a fare niente per la Torre. Sapevi perfettamente che ciò che avevi perduto era irrecuperabile. Ma egualmente hai voluto fare tutto questo per qualche strano motivo che solo tu conosci, sprecare tutta la tua vita e le tue forze per...»

«C'era forse qualcos'altro che potevo fare?» sbottò Sakaki con un movimento secco. «Ma se lo sai anche tu che non mi rimaneva più niente, neppure il mio nome! Avevo forse qualche altro motivo per cui spendere la mia vita?»

«Avevi me, tua sorella... no, non dirlo» soggiunse sua madre, come prevedendo la sua obiezione. «So che non ci conoscevi, come noi non conoscevamo te, perché eri diverso dal Sakaki che avevamo perduto. Ma noi eravamo pronte ad amarti e ad aiutarti egualmente e ci abbiamo provato in tutti i modi in cui abbiamo potuto... tuttavia non te ne è mai importato. Eri tu a credere di non avere più niente. Hai preferito creare un impero criminale che cercare di ricostruire un rapporto con la tua famiglia...»

Senza neppure accorgersene, come incalzato, Sakaki era indietreggiato fino alla porta. Era davvero così debole da farsi spaventare da quella donna? Si riscosse quando con le spalle urtò la vecchia porta di legno un po' scrostata sui margini, vicino agli infissi. «Stai dicendo una marea di stronzate. Mi stai confondendo. Voi donne fate sempre così.»

«Allora è per questo che te ne sei andato?»

Me ne sono andato perché non vi amavo, ma vi ero abbastanza grato da non coinvolgervi nella mia vita, avrebbe potuto risponderle: ma non era questo che bisognava dire. Non poteva permettersi di perdere altro tempo con lei. La scostò bruscamente e si appoggiò al piccolo mobile dell'ingresso che ospitava il telefono, un blocco per gli appunti e un vaso di fiori finti che ricordava ancora da tanti anni prima.

«Due milioni e trecentomila è molto più di quanto chiunque dotato di un minimo di cervello sarebbe disposto a pagare» affermò, cercando di dare un tono deciso e sferzante alla sua voce. «Per la casa lascio scegliere voi. Guarda degli annunci e fammi sapere se c'è qualcosa che ti interessa.»

«Straccia l'assegno.»

Sakaki levò gli occhi su di lei in un moto di sorpresa: «Come...?»

«Straccialo» ripeté sua madre. «Non li voglio quei soldi.»

«Senti, se stai bluffando per averne di più, basta che me lo dici. Io di questa casa ho bisogno in tempi brevi...» cominciò Sakaki spazientito, ma la donna non lo lasciò finire: «Te la lascio, ma non te la vendo. Accetto solo l'altra casa, ma a Zafferanopoli, non a Celestopoli. Non voglio che tua sorella sia troppo lontana dal suo ragazzo, le spezzerebbe il cuore. E tuo padre riposa ancora qui.»

«Posso far traslare le sue spoglie...»

«Ha scelto lui Lavandonia» lo interruppe sua madre, come se la discussione fosse per lei conclusa. «Non sarò certo io a strappare il suo corpo da qui, o da Seel.»

«Seel?»

Per un attimo Sakaki rimase spiazzato. Risalì per un attimo con la memoria ai primi giorni della sua esistenza: aveva la vaga sensazione di ricordare un Seel, che forse era stato importante, ma non conservava memorie precise. Distolse rapidamente lo sguardo da lei, tornando a compilare l'assegno, per non mostrare il suo disagio e la sua lacuna, ma la donna l'aveva già percepito.

«Sì, Seel. L'unico Pokémon di tuo padre.» Gli rivolse un'occhiata accigliata. «Non te lo ricordi? No, che sciocca... non puoi. È per lui che sei rimasto nella Torre, quella notte.»

«Quella notte...»

La stilografica nera tremò per un attimo nella sua mano e una grossa goccia d'inchiostro si gonfiò in fondo alla sua firma, ma Sakaki non se ne accorse, come non si accorse di aver trattenuto per un attimo il respiro. Seel...

Sì, ricordava tutto. Seel, il nome inciso sulla lapide che aveva ospitato il suo tormento. I suoi occhi l'avevano letto per tutta la notte e sua madre doveva averglielo spiegato... ma erano dodici anni che non ci ripensava!

«Me lo ricordo benissimo» disse seccamente. Concluse la firma con uno svolazzo e staccò l'assegno.

«No, non puoi ricordartelo.»

«Ricordo che me l'hai raccontato.» Sventolò per un attimo l'assegno, per accertarsi che l'inchiostro fosse asciutto, e glielo porse: ora si era dominato a sufficienza da guardarla negli occhi. «Tieni, fanne quel che ti pare.»

«Strappalo, ho detto. Non lo voglio qui. Prenditi pure la casa.»

Questo Sakaki non se l'era aspettato. Certo, aveva previsto proteste, pianti, scenate, netti rifiuti o persino richieste economiche spropositate, ma... questo no.

«Perché?» Non vi fu risposta. «Voglio dire, so che disprezzi i miei soldi. Ma perché mi regali la casa?»

Anche stavolta non vi furono esitazioni, non cedimenti nella voce di sua madre né nel suo sguardo, quando disse molto lentamente: «Vuoi forse farmi credere che non te la prenderesti con la forza, se te la negassi? Preferisco dartela di buon grado, senza pantomime. Tutto ciò che posso fare è rifiutare il tuo denaro.»

Per qualche strano motivo, l'assoluta certezza con cui ella aveva pronunciato queste parole lo ferì profondamente, forse perché egli era consapevole che quella era la verità, anche se non sarebbe mai stato in grado di ammettere neppure nell'intimità del proprio animo a quale estremo di crudeltà era giunta la sua vita. Rimase per svariati secondi immobile di fronte a lei, sbigottito, incapace di articolare parola o di pensare a qualcosa da replicare a quella terribile accusa. Non aveva mai pensato seriamente, in termini concreti, a come avrebbe agito di fronte al suo rifiuto di vendergli la casa, ma in quel momento si rendeva conto che sarebbe stato davvero capace di prenderla con la forza e questa consapevolezza lo riempiva di mortificazione e disprezzo per se stesso: sentimenti, questi, che aveva da tempo dovuto seppellire nel profondo del proprio animo, per andare avanti col perseguimento del suo obiettivo finale...

«Non l'avrei mai fatto» disse, davvero sinceramente in quel momento, e la sua voce suonò più debole e incerta. «Non farei mai qualcosa del genere... alla mia famiglia.» Quest'ultima parola gli costò un notevole sforzo di riflessione per essere pronunciata: non pensava mai a se stesso come al genere di uomo che ha una famiglia in qualche parte del mondo.

«Non ci hai mai considerate la tua famiglia. Non mentire a te stesso: non sei mai stato mio figlio. Ho capito da tempo che il mio Sakaki da quella Torre non era mai uscito...»

«Ma vi sono grato egualmente per avermi accolto.» Per qualche motivo, la sua protesta ebbe un suono debole e poco convinto.

«Sì, lo sei, ma questo non ha significato niente.»

Sakaki si morse le labbra. Non gli veniva in mente niente da replicare e se il suo primo impulso era di affermare con vigore la falsità di quell'accusa, per contro non gli veniva in mente alcuna prova contraria. Era vero che, a parte la gratitudine, non aveva mai provato il benché minimo trasporto verso nessuna di loro; tuttavia...

«Finiamola con queste stronzate. L'assegno lo lascerò qui, fanne pure quel che ti pare. Devolvilo in beneficienza, per quanto mi riguarda.»

Appoggiò ostentatamente l'assegno sul tavolino, ma sua madre non lo degnò di un'occhiata. Bene, non gli importava nulla di quello che ne avrebbe fatto: se gli avesse permesso di risparmiare due milioni, tanto meglio per lui. Si schiarì nuovamente la voce: «Quando pensi che sarete pronte per lasciare la casa? Come ti ho detto, ne ho bisogno il più presto possibile, perciò...»

«Se troviamo un altro posto dove stare, un paio di mesi saranno più che sufficienti.»

«Per la nuova casa non c'è problema, puoi scegliere quella che vuoi.»

«Suppongo che dovrei ringraziarti per la tua generosità.»

Sakaki finse di non aver notato il suo sarcasmo sferzante. Ripose il libretto degli assegni nell'impermeabile e si mise le mani in tasca. «Molto bene. Il mio avvocato ti telefonerà in settimana per le formalità, il notaio e tutto il resto. Tutto in regola, come puoi vedere.»

«Oh, non ne dubito.»

Egli non riusciva a ricordare l'ultima volta che qualcuno si era preso gioco di lui a quel modo, ma in quel momento non gli importava: nessuno era lì per assistervi e lui aveva appena ottenuto ciò per cui era tornato a Lavandonia dopo tutti quegli anni. Perciò protese la mano e disse semplicemente: «Porgi tu i miei saluti a mia sorella, io non posso fermarmi.»

La sua mano restò vuota a mezz'aria. Sua madre incrociò ostentatamente le braccia sul petto, guardandolo con aria di sfida. Sakaki decise di ritirare semplicemente la mano e aprì la porta senza fare una piega. Eppure, prima di uscire, si ritrovò a dire quasi contro la sua volontà: «Mi farai sapere se avrete bisogno di qualcosa.»

Ma dalle sue spalle non gli giunse alcuna risposta ed egli uscì senza guardarsi indietro.

Non aveva ancora raggiunto il cancelletto che il suo autista si precipitò ad aprirgli la portiera, ma proprio quando stava per risalire a bordo, Sakaki cambiò idea.

«Devo andare in un altro posto» disse ruvidamente. «È meglio che ci vada a piedi. Vai ad aspettarmi all'uscita della città, verso l'imbocco del Percorso Otto... c'è uno slargo dove puoi parcheggiare.» Non aveva voglia di essere seguito. Sakaki accarezzò brevemente il capo di Persian, che dormiva oziosamebte sul sedile posteriore dell'auto, poi diede l'ordine di chiudere la portiera e di partire.

Attese che la macchina si fosse allontanata, prima di incamminarsi a sua volta. Erano passate da poco le sei e mezza, considerò mentre camminava a passi lenti, quasi senza accorgersene, verso nord... era tutto come ricordava. Eccola là, la casa del signor Fuji, il maledetto sindaco... il vecchio Centro Pokémon aveva rinnovato l'insegna, ora era assolutamente identico a quelli di tutte le altre città kantensi. La strada verso il Tunnelroccioso avrebbe avuto bisogno di un po' di manutenzione, le erbacce crescevano troppo fitte, le buche erano profonde...

Non si accorse neppure di essere arrivato, forse perché non aveva compreso neppure lui, all'inizio, dove aveva intenzione di andare. Ma quando, sollevando lo sguardo cogitabondo, si ritrovò davanti al pesante portale di legno massiccio con le borchie di ferro, in quel momento aperto, ma ancora per poco, non poté fare altro che scuotere leggermente il capo ed entrare con un sospiro di rassegnazione. Tanti anni prima, in procinto di lasciare Lavandonia, aveva giurato a se stesso che quando fosse rientrato nella Torre Pokémon, sarebbe stato con una Spettrosonda in mano, ma ora che si ritrovava nuovamente lì, si rendeva conto di quanto futile e vano fosse stato il suo proposito. Non avrebbe mai potuto resistere al suo richiamo, il richiamo dell'unica madre che avrebbe mai potuto avere. Aveva potuto ignorarne la voce da Azzurropoli, in quella metropoli così caotica e rumorosa, ma lì, in quella città silenziosa, la chiamata della Torre era troppo forte per rimanere inascoltata.

Non era rimasto quasi più nessuno, i pochi turisti venuti a onorare le tombe dovevano ormai aver abbandonato le aule cupe. Sakaki non era più tornato al suo interno dalla notte in cui aveva aperto gli occhi, ma egualmente i suoi piedi lo condussero da soli lungo le scale, come per una strada nota alla memoria e consunta dall'abitudine. Ricordava tutto di quel mattino e quelle scale glielo richiamarono alla mente con tale dolorosa, vivida intensità che a un tratto dovette fermarsi, aggrappandosi al corrimano, e passarsi una mano sugli occhi per non cedere all'impressione suscitatagli da quei ricordi. Tutto gli tornava violentemente alla mente: le lunghe ore trascorse immobile sulla tomba, la sensazione di gelo contro la pelle nuda; il rumore dei portali che si riaprivano contro la luce del giorno, lo sciamare della folla su per i corridoi, le grida di trionfo, le braccia calde e le lacrime ribollenti di quella donna, che solo dopo aveva scoperto esser sua madre, la coperta ruvida gettata a ricoprirgli le membra... Non c'era stata notte in cui non aveva sognato tutte quelle sensazioni – per non parlare del primo e più importante dei suoi sogni e dei suoi ricordi, l'insostituibile e inestimabile, quello in cui una voce invisibile nella luce abbagliante gli domandava: Qual è il tuo nome?

E allora perché, di tutti questi ricordi che conservava con precisione incalcolabile e che costituivano l'essenza stessa dell'intero suo essere e la cagione di tutte le sue scelte, non aveva mai più pensato a Seel?

Prima ancora di vedere la lapide, avrebbe potuto pronunciarne a memoria l'epitaffio: A Seel, amato compagno di avventure, fino all'ultima ora fedele. E lo recitò egualmente, quando finalmente si trovò davanti alla lastra tombale sulla quale era venuto al mondo...

Rimase a lungo in piedi, immobile, silenzioso davanti a quella semplice tomba. Avrebbe potuto toccarla, sentirne la consistenza dura e fredda sotto le dita, ma non ne aveva bisogno: la ricordava già con eloquente chiarezza su tutto il proprio corpo, come se la stesse saggiando in quel preciso momento. E allo stesso modo avrebbe potuto andare via subito dopo averla vista, ma egualmente rimase lì, con le mani affondate nelle tasche dell'impermeabile nero.

Era per Seel, dunque, che era accaduto tutto ciò. Era per Seel che aveva scelto, in un attimo fatale che aveva deciso per sempre di tutta la sua esistenza, di trascorrere la notte là dentro: allora chissà per quale motivo, quando sua madre gliel'aveva raccontato, non vi aveva dato peso... eppure era per lui, dopotutto, che egli si era ritrovato a fondare il Team Rocket, ad aprire il Casinò di Azzurropoli, a rapire tutti quei Pokémon e rivenderli sul mercato nero, a uccidere quell'uomo...

«È sempre stato per te, dunque» mormorò. «Se non fosse stato per te, tutto questo non sarebbe mai esistito. Come ho potuto credere che non fossi importante, che non girasse tutto intorno a te...»

Che ne sarebbe stato della sua vita, se in quel momento cruciale egli avesse amato un po' meno il Pokémon di suo padre, che ora non ricordava neppure? Che uomo sarebbe diventato il giovane Sakaki? Un uomo onesto, un uomo migliore... Certo, ma non aveva senso chiedersi ora tutto ciò. Era sempre stato chiaro che quel ragazzo stupido e sentimentale era morto quella notte senza aver mai rivisto la sua mamma e averle chiesto scusa per il dolore che le aveva arrecato, mentre l'uomo che quella notte era nato su quella tomba non aveva niente a che fare né con lui, né con quella donna, né con Seel. Eppure...

Si massaggiò la fronte con la mano e poi gettò uno sguardo al suo orologio da polso d'oro. Erano quasi le sette, ma in quel momento la sua attenzione fu richiamata da un altro pensiero che lo colpì come se fosse d'importanza fondamentale: se non fosse stato per Seel, non avrebbe mai posseduto quell'orologio. Era un pensiero stupido, persino ridicolo, ma in quel momento assurdamente doloroso, tale da dilacerargli quasi il petto: quale sarebbe stato il più felice, tra l'uomo vivo che possedeva un orologio d'oro e quello, morto, che avrebbe invece serbato memoria di un Seel ormai scomparso, perduto negli abissi del tempo?

«Se non fosse stato per te...! Se non fosse stato per te...!»

Le sue parole echeggiarono tra le volte ricurve tanto a lungo che non sembrarono neppure più le sue proprie parole, ma come pronunciate dalle mura stesse. Era già successo, tanti anni prima, che le sue parole stesse echeggiassero su quelle medesime pareti e ritornassero a investirlo, a ricordargli che nessuno mai avrebbe risposto alle sue domande... E ora la tomba stessa pareva schernirlo, Sakaki avrebbe potuto giurare di sentirla ridere della sua domanda e incalzarlo: Cosa saresti stato, se non fosse stato per me?

Sakaki si volse seccamente per andarsene in un turbinio di stoffa nera. Era stato un errore venire lì, ora lo sapeva, la Torre lo aveva ingannato un'altra volta: non gli avrebbe mai dato alcuna risposta, se non quella che lui solo le avrebbe strappato con la forza.


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Capitolo 3
*** Jonathan Silph. ***


Un immancabile ringraziamento, accompagnato da un bacio, a crystal_93 per l'altrettanto sua immancabile recensione al precedente capitolo!

Afaneia


Capitolo III – Jonathan Silph.


«È che quello che lui ha fatto crea un precedente, e che se per un primo furto occorre una certa risoluzione, per i seguenti basta solo cedere alla spinta. Tutto ciò che avviene in seguito avviene solamente per inerzia. Quello che vorrei dirgli è che spesso un primo gesto che si fa quasi senza pensare, delinea irrimediabilmente la nostra figura e comincia a tracciare un segno che, in seguito, tutti i nostri sforzi non riusciranno mai a cancellare.»


André Gide, I falsari.


Jonathan Silph era un ragazzo magro dall'aria trasandata, con pochi soldi in tasca e un'intelligenza geniale nascosta dietro un paio di occhiali dalla montatura fuori moda. Sakaki lo aveva conosciuto grazie a una recluta che aveva infiltrato all'Università di Azzurropoli e che gli aveva passato sottobanco una copia della sua tesi di laurea. Era un progetto geniale: un oggetto pratico, leggero ed economico da produrre che avrebbe permesso di catturare e tenere un Pokémon sempre con sé, sostituendo le Ghicocche, che richiedevano un processo di coltivazione e lavorazione lungo e laborioso noto solo a pochi artigiani, e conservando un prezzo accessibilissimo. Geniale, si era detto Sakaki consultando febbrilmente le pagine della tesi nel suo ufficio sul retro del Casinò Rocket. Jonathan Silph era il suo uomo.

Lo aveva contattato via posta, con un'elegante lettera che lo informava che le sue doti erano state notate e che gli si offriva un posto di ricercatore per un importante laboratorio privato, in quel momento impegnato in un progetto che riguardava l'Elettronica quantistica. Era una lettera vaga e ambigua, che forse sarebbe risultata sospetta a un umo solo un po' più maturo di lui; ma Jonathan Silph era un giovane neolaureato disoccupato, squattrinato e pieno di entusiasmo e di voglia di mettersi in gioco: Sakaki non dubitava che un ragazzo con queste qualità – un ragazzo, perché aveva ventisei anni, quattro in meno di lui – avrebbe accettato l'invito a un colloquio per discutere di questo posto di lavoro.

Jonathan Silph aveva accettato.

Per qualche motivo, quando Sakaki gli aveva esposto la sua idea di costruire uno strumento capace di rendere visibile e in qualche modo soggetti a un contatto i fantasmi, Jonathan Silph non aveva avuto alcuna esitazione, che era l'unico ostacolo che Sakaki paventava, in quanto ciò presupponeva di possedere la reale, fondata convinzione che i fantasmi esistessero. Ma Jonathan Silph era uno scienziato entusiasta, che si rifiutava di negare una possibilità se non su basi certe. Perciò, quando Sakaki gli aveva chiesto cautamente se credesse ai fantasmi, la sua flemmatica risposta era stata: «La loro esistenza non è mai stata dimostrata, ma una tale possibilità non interferisce con nessuna legge fisica di mia conoscenza. Dunque, perché no?»

Per questo motivo Sakaki aveva voluto acquistare la vecchia casa dei suoi genitori. Quando controllò i suoi conti bancari, poche settimane dopo l'incontro con sua madre, si rese conto che l'assegno non era mai stato versato. Non fece commenti. Sua madre aveva voluto una modesta casa a Zafferanopoli, proprio come aveva detto, niente di più di un appartamento con tre stanze nella periferia orientale della città.

Sakaki aveva bisogno della casa a Lavandonia per installarvi un laboratorio, ora che finalmente poteva permettersi la strumentazione necessaria. Certo, ora che era ricco, avrebbe potuto permettersi anche molti più scienziati, ma quello di assumerne solo uno era una precisa scelta. Innanzitutto, voleva tenere i suoi esperimenti segreti per non doverne rendere conto al governo e non rischiare di perdere il brevetto; e poi, soprattutto, egli sentiva che la Spettrosonda celava il grande segreto del suo cuore e non poteva permettere che troppi esseri umani ne venissero a parte.

Ma se Sakaki aveva pensato di approfittarsi semplicemente del genio di Jonathan Silph, scoprì ben presto di essersi sbagliato. Si prese svariati giorni liberi per aiutarlo a stabilirsi nella casa di Lavandonia e sorvegliare con lui i lavori di assemblamento del nuovo laboratorio, che occupava tutto il vecchio garage; ogni sera, che trascorrevano cenando con cibi da asporto al vecchio tavolo in cucina, consultavano i progetti tra infinite discussioni. Riuscirono a raggiungere un accordo almeno sulla natura degli Spettri, basandosi sui ricordi di Sakaki e sui principali testi di esoterismo: se esistevano, concluse Jonathan dopo innumerevoli ore, doveva trattarsi di entità che, per nascondere la propria vera forma, alteravano lo stato del gas che li componeva eccitandone gli elettroni... o qualche cosa del genere.

«Se riusciamo a dissipare l'energia di cui si servono per eccitare gli elettroni, vedrai che funzionerà» gli spiegò sorridendo di soddisfazione. Sakaki non poté che credergli sulla parola.

Quando il laboratorio fu ultimato, Sakaki tornò ad Azzurropoli e Jonathan Silph cominciò a lavorare per ore e ore al giorno: gli uomini che lo sorvegliavano di nascosto, installatisi nelle case circostanti, riferivano che non usciva dalla proprietà se non per consumare i pasti o per eseguire complicate misurazioni con strumenti di precisione all'interno della Torre Pokémon. Sakaki andava a trovarlo a sere alterne e durante le loro cene si faceva descrivere dettagliatamente i suoi progressi.


«Sei sicuro di volerla chiamare Spettrosonda?»

Stavano fumando in giardino, dopo aver cenato, quella sera. All'udire questa domanda, Sakaki distolse gli occhi dalla sommità della Torre e li posò su di lui.

«Certo, Spettrosonda» replicò lentamente, con sufficienza, quando fu certo che Jonathan aveva voluto chiedergli proprio questo. «Credevo fossimo d'accordo.»

«A dire il vero, non ne abbiamo mai parlato» replicò Jonathan scrollando le spalle. «L'hai sempre chiamata così, ma...»

Sakaki si accigliò: era vero, l'aveva sempre chiamata così, nella sua testa, fin dal primo momento in cui ne aveva concepita l'idea: gli era venuto spontaneo chiamarla così anche con Jonathan, senza neppure pensarci. Si costrinse a sorridere: «Hai ragione, l'ho sempre chiamata così. Non ti piace?»

«Oh, non è che non mi piaccia, è solo... Beh, se l'idea è quella di lanciarla sul mercato, magari potrebbe servire un nome più commerciale.»

Sakaki tossicchiò discretamente, stringendosi nelle spalle. Aveva detto a Jonathan che il suo progetto era quello di lanciare la Spettrosonda sul mercato non appena ottenuto il brevetto, e in effetti quella non era una bugia, o almeno non completamente: aveva comunque intenzione di farlo dopo pochi anni, ma non prima di...

«Spettrosonda va bene» disse con calma forzata. Non gli andava di discutere di quell'argomento.

«Lo trovo poco immediato, sai. Pensavo a una cosa istintiva, tipo Rivelaspettri o qualche cosa del genere...»

«Spettrosonda va benissimo» sbottò Sakaki seccamente, gettando la sigaretta a terra e calpestandola nervosamente col tacco della scarpa. Jonathan scoppiò a ridere, alzando le mani sopra il capo con le palme aperte, di una risata franca e schietta: «Va bene, va bene... come vuoi! Sei tu quello che paga. Era solo un'idea.»

Tieni pure per te le tue idee, fu il suo primo pensiero, ma Sakaki riuscì a trattenersi e gli rivolse un sorriso falso e stucchevole. Eppure Jonathan si fidava persino dei suoi sorrisi ipocriti: aveva una fiducia incrollabile nel mondo e nella gente, e Sakaki l'aveva scelto anche per questo. Non poteva permettere che nutrisse dei sospetti sulla vera natura della provenienza dei suoi fondi. Certo, ovviamente Jonathan aveva capito che c'era qualcosa di illegale nel denaro che scorreva a fiumi e nella segretezza dei loro esperimenti, ma si limitava probabilmente a sospettare che fossero solo espedienti per evadere il fisco, e Sakaki era ben lungi dall'idea di disilluderlo. Aveva bisogno di Jonathan Silph, nonostante tutto, molto più di quanto non avesse bisogno di uno qualunque degli altri suoi adepti.

Rimasero in silenzio ancora per qualche minuto, in piedi nel giardino buio, immerso in quella città muta e dormiente. Sakaki si sentiva tranquillo e rilassato, con le mani nelle tasche della giacca e gli occhi quietamente puntati sulla cima della Torre. Jonathan finì la sua sigaretta e se ne accese subito un'altra: Sakaki notò con la coda dell'occhio il vago tremore delle sue mani. Non era la prima volta che aveva l'impressione che, nonostante le apparenze di tranquilla rilassatezza, quel lavoro segreto e la sensazione di reclusione lo stessero stressando molto.

Il suo telefono trillò per un messaggio ricevuto. Sakaki lo lesse rapidamente e lo cancellò subito: era un messaggio cifrato che lo avvisava che la partita di Voltorb che aveva inviato nella regione di Unima, dove erano molto richiesti perché introvabili, era appena partita su un cargo. Sentì su di sé gli occhi di Jonathan, ma si sforzò di non darvi peso: non voleva mostrarsi a disagio.

«Non è il tuo solito telefono.»

La sua espressione rilassata gli si congelò sul volto. Non avrebbe mai creduto che Jonathan avrebbe prestato attenzione a quel dettaglio. Si costrinse nuovamente a sorridere con leggerezza, mentre rimetteva il telefono in tasca. «No, hai ragione. Questo è quello del lavoro. Ho scordato di spegnerlo.» Non poteva fargli credere di averlo cambiato, dal momento che aveva usato l'altro, quello per le varie comunicazioni, solo poche ore prima per ordinare la cena.

«Oh, certo» disse Jonathan annuendo, ma per la prima volta Sakaki ebbe l'impressione di sentire una vibrazione di dubbio nella sua voce. Ma il giovane aveva già distolto lo sguardo ed egli non poté che rimproverarsi di star diventando paranoico: non era impossibile che si fosse insospettito per un dettaglio tanto irrilevante, astratto e svagato com'era.

«Stai fumando troppo» lo rimproverò per cambiare argomento. Jonathan si strinse nelle spalle.

«È la noia. Non c'è niente da fare qui.»

Non aveva tutti i torti, considerò Sakaki guardandosi attorno. Aveva trascorso solo pochi mesi a Lavandonia, ma non gli era difficile immaginare quanto noioso dovesse essere vivere da solo in una città funebre come quella.

«Hai ragione. Se gli esperimenti vanno a buon fine, in capo a qualche mese potrai tornare a casa.»

«Oh, non mi sto lamentando. Mi piace davvero questo lavoro.»

La compagnia di Jonathan Silph cominciava ad farsi pesante: non si poteva certo dire che avesse una personalità particolarmente interessante, in effetti. Sakaki si stiracchiò ostentatamente e guardò l'orologio che portava al polso (non era quello dorato: per qualche strano motivo, si era ritrovato a odiarlo e l'aveva regalato a una delle sue amanti). «Penso proprio di dover tornare ad Azzurropoli: si sta facendo tardi e domani mi aspetta una levataccia. Ritornerò a trovarti dopodomani sera. Hai bisogno che ti faccia portare qualcosa?»

Jonathan fece rapidamente mente locale e gli rispose di no, scostandosi dagli occhi i capelli spettinati e accendendosi una nuova sigaretta. Si separarono in silenzio.


«Sei un figlio di puttana!»

Sakaki, che già stava per spingere la porta per entrare, all'udire questo grido provenire dall'interno ebbe abbastanza prontezza di spirito da soffermarsi per qualche secondo sull'uscio, con la mano ancora sulla maniglia: un momento dopo, l'inconfondibile suono di un oggetto di vetro che si frantumava appena aldilà della porta gli diede ragione della sua prudenza. Sakaki attese ancora qualche istante prima di entrare, per accertarsi che non vi fossero altri proiettili pronti ad accoglierlo appena varcata la soglia. Poi, con un profondo sospiro, spinse cautamente la porta ed entrò.

Jonathan Silph era seduto su una poltrona che doveva aver spinto personalmente nell'ingresso, con addosso una tuta sgualcita (non sapeva stirare), gli occhi pesantemente arrossati e i capelli sporchi. Sakaki lo fronteggiò freddamente, chiudendo la porta alle proprie spalle.

«Sei ubriaco» constatò semplicemente.

«Mi hai mentito» gracchiò Jonathan. Gli puntò addosso un accusatorio dito tremante e ripeté: «Mi hai mentito.»

«Complimenti» disse Sakaki con calma. «Ci hai impiegato un sacco di tempo, ma ci sei arrivato. Due anni, mi pare?»

«Non prendermi in giro» ringhiò Jonathan. Aldilà della nebbia che l'alcol gli aveva calato sugli occhi, il suo sguardo era mortalmente serio. Sakaki si ripropose di non tirare troppo la corda: per terra accanto alla poltrona vedeva il collo di una bottiglia ancora piena e non aveva bisogno di particolari sforzi di fantasia per immaginare in quale modo essa avrebbe potuto trasformarsi in un'arma. Non cercò di avvicinarsi troppo, ma cacciò le mani in tasca, mantenendo una prudente distanza.

«Mi hai mentito» ripeté ancora Jonathan. Sembrava sconvolto. «Ho scoperto tutto. Il Team Rocket. Tutto.»

«Dammi quella bottiglia, Jonathan» disse finalmente Sakaki, cercando di mantenere un tono di voce calmo e chiaro. Gli porse la mano. «Hai bevuto abbastanza.»

Jonathan ignorò la sua mano tesa. «Hai finito di darmi ordini, stronzo. Ho scoperto i tuoi piani. Ho scoperto chi sei, cosa fai...»

Veramente pensavi che un semplice casinò bastasse a finanziare tutto questo?, stava per dirgli Sakaki, ma non gli parve una mossa furba in quella circostanza. Non perse tempo a chiedergli come avesse fatto a scoprirlo, non gli interessava. La sua mente stava già lavorando rapidamente su come risolvere quel problema.

«Possiamo scendere a compromessi, Jonathan. Posso fare di te un uomo molto ricco...»

Si rese conto di aver imboccato una strada sbagliata una frazione di secondo prima che la bottiglia di brandy che aveva intravisto poco prima attraversasse la stanza in volo verso di lui e sibilasse accanto al suo orecchio, per poi schiantarsi contro lo stipite della porta. Ma dopo un iniziale tuffo al cuore, si sentì sollevato: non vedeva altri oggetti nelle vicinanze che Jonathan potesse utilizzare come arma.

«Non voglio diventare molto ricco! Sono un uomo onesto!»

«Jonathan...»

«Tu vendi i Pokémon!» proruppe quegli, con un tono che da solo bastava a esprimere tutto il suo orrore. «Li vendi! E vuoi vendere anche gli Spettri!»

Sakaki si strinse nelle spalle. Aveva previsto fin dall'inizio una qualche discussione di questo genere, ma aveva sempre pensato che sarebbe avvenuta dopo aver ottenuto il brevetto della Spettrosonda, quando ormai il parere di Jonathan Silph non avrebbe più avuto importanza. «Gli Spettri sono malvagi, Jonathan. Puoi credermi, io li conosco.»

«Oh, già, la tua storiella strappalacrime... come ho potuto dimenticarla?» gli fece eco Jonathan. «Che stupido sono stato a crederti. Stupido, stupido! Il povero ragazzino che perde la memoria a causa dei fantasmi cattivi...»

«Non era una storiella strappalacrime» lo interruppe Sakaki. Si avvicinò a una finestra con passo nervoso e scostò la tendina bianca per guardare fuori la gigantesca ombra della Torre ricoprire Lavandonia. «Era la verità.»

Jonathan roteò gli occhi. «Oh, sicuro, come tutte le balle sul progresso della scienza che mi hai raccontato.»

«La storia del mio passato è l'unica cosa vera che ti ho raccontato.» Sakaki lasciò ricadere la tendina e si volse ad affrontarlo, appoggiandosi al muro con le spalle. «Puoi credermi. Ho davvero perduto la memoria quella notte nella Torre, ed è per questo che voglio la Spettrosonda.»

Jonathan lo fissò lungamente, come riflettendo sulle sue parole. Si passò stancamente le mani sugli occhi arrossati e mormorò: «Credevo che volessi catturare gli Spettri per cercare di riavere la memoria della tua infanzia.»

Sakaki rise di una risata priva di gioia. «Non m'importa niente di quei ricordi, ormai appartengono a un'altra persona, non a me. Una persona che è morta. Cosa dovrei farmene dei ricordi di un altro?»

«E allora...?»

«Vendetta, Jonathan. Pura e semplice vendetta. Ti dispiace se fumo?» Poiché Jonathan si limitava a fissarlo stupidamente, Sakaki si accese con la massima calma una sigaretta senza attendere risposta. Ora che l'altro non aveva più niente a disposizione con cui minacciarlo fisicamente, sentiva di avere di nuovo la situazione sotto controllo. «Quegli Spettri mi hanno catturato e io voglio catturare loro, impossessarmi della loro casa e della loro serenità, che è tutto ciò che essi lottano per mantenere. È questo che io chiamo una vendetta ben fatta, Jonathan. Ma di più: come essi mi hanno umiliato, io voglio umiliare loro rendendoli schiavi. Essi mi hanno denudato davanti alla città intera e io mostrerò e venderò i loro corpi all'intero mondo. Non ti ho completamente mentito sui miei piani: voglio davvero commercializzare la Spettrosonda.»

Le sopracciglia di Jonathan si corrugarono. «Ma...»

«Non subito, ovviamente. Quello era il mio piano originario: perché non vendere Spettrosonde, così che chiunque potesse profanare la Torre Pokémon, turbando il loro secolare riposo, e catturare gli Spettri come comunissimi Pokémon? Era una buona idea. Ma poi mi sono detto: perché non massimizzare il mio profitto? Con un'unica Spettrosonda, il Team Rocket catturerà tutti gli Spettri della Torre e li rivenderà come assolute rarità. Chi non sarebbe disposto a sborsare milioni per accaparrarsi un vero fantasma che qualcun altro ha catturato per lui? Ma dopo una decina d'anni, forse meno, gli Spettri si saranno diffusi in tutto il mondo, vuoi fuggiti, vuoi liberati per noia. Colonizzeranno le grotte, gli edifici antichi e abbandonati... e allora, ogni Supermarket venderà una Spettrosonda tascabile. In tutto il mondo non esisterà più un solo posto sicuro dove essi potranno rifugiarsi e trovare pace, perché ovunque essi si nasconderanno, chiunque sarà in grado di identificarli. Quel giorno la mia vendetta sarà davvero compiuta, finalmente.»

Jonathan, che lo aveva ascoltato rapito, impiegò quache istante a rendersi conto che il suo discorso era finito. Assentì gravemente.

«Un ottimo piano, Sakaki, davvero. Subito dopo aver ottenuto il brevetto, mi avresti fatto uccidere, per evitare che potessi rivendere i progetti o passare a produrre Spettrosonde per altri. Così da garantirti l'esclusiva assoluta. Con tutti i ricavati illeciti, non avresti avuto problemi a rinnovare il brevetto a tuo piacimento...»

Però, tutto sommato, quello scienziato stralunato non era poi tanto stupido come Sakaki l'aveva sempre ritenuto, o forse era l'alcol a farlo ragionare meglio. Comunque, egli mentì con noncuranza. «Certo che no. Tu mi servirai per lavorare alla versione tascabile della Spettrosonda, e ovviamente per eventuali altri progetti successivi. Ma per quale motivo usi il condizionale? Te l'ho detto, possiamo ancora trovare un compromesso, dico davvero. Se è così importante per te, passeremo alla commercializzazione subito dopo il brevetto...»

Ma Jonathan non sembrava neppure più ascoltarlo. Ora taceva semplicemente, tenendosi il volto tra le mani, coi gomiti puntati sulle ginocchia. Chissà perché, dopo qualche secondo, quel silenzio gli parve più minaccioso delle sue grida sconclusionate: Sakaki lo fissava in attesa, sentendosi più nervoso via via che il tempo passava.

Finalmente, Jonathan si alzò in piedi, scostandosi i lunghi capelli unti dagli occhi, e le braccia gli ricaddero poi lungo i fianchi, coi pugni stretti. Ma quando levò lo sguardo su di lui, i suoi occhi erano decisi e taglienti, per nulla appannati dall'alcol, e Sakaki ne sbigottì.

«No, Sakaki.» Anche la sua voce era sorprendentemente fredda. Se non fosse stato già appoggiato al muro, forse Sakaki sarebbe indietreggiato. «No. Abbiamo chiuso.»

Non era possibile, stava bluffando. Doveva stare bluffando. «Senti, Jonathan... ora non esagerare.»

«Tu mi hai mentito.» Jonathan continuava a guardarlo dritto negli occhi, senza segni di cedimento. Sakaki cominciò a dubitare che stesse fingendo. «Sei un mostro, Sakaki. Io non pretendo di essere migliore di te: ho accettato di fare tutto in nero, di tenere gli esperimenti segreti per non pagare le tasse... ma non ho mai fatto del male a nessuno, e se ho agito disonestamente, non l'ho fatto davvero che per amore della scienza, a differenza tua. Ma ora non voglio più avere niente a che fare con te.»

«Molto bene, allora.» Non sarebbe certo stato lui a chiedergli di ripensarci. Mancava poco alla conclusione della prima parte del progetto, Jonathan lo sapeva, doveva essere consapevole che andandosene avrebbe perduto tutto, ogni speranza di ricerca e di guadagno. Meglio lasciare che fosse lui a tornare in ginocchio a pregarlo di riprenderlo con sé. Spense stizzosamente la sigaretta nel vecchio posacenere sul davanzale. «Sei libero di andartene. Nessuno ti farà del male. Non potrai mai completare la Spettrosonda senza finanziamenti, quindi non disturbarti a portare via i progetti...»

«È qui che ti sbagli, Sakaki.» Per la prima volta, lo sguardo di Jonathan si accese di una malignità che Sakaki non si sarebbe mai aspettato. No, non stava bluffando, si rese conto con orrore. «Non sei il solo ad apprezzare il mio genio. E non sei di certo l'unico uomo ricco di questa regione.»

Solo in quel momento Sakaki comprese appieno la portata abissale, mostruosa della rabbia e del tradimento di Jonathan Silph. No! La Spettrosonda, che celava il grande segreto della sua vita...

«Non oseresti.»

Non era una sfida, era una supplica, nell'unica forma in cui era in grado di esprimerla. Ma il ghigno che si dipinse sul volto di Jonathan Silph lo fece ammutolire.

«Tu hai sempre pensato che fossi stupido, ma non è così. Ho riflettuto, sai? Qualche cosa ce l'hanno insegnata, all'Università, sulle normative e sulle equipe di ricerca. Noi non abbiamo contratti, certificazioni, permessi... la nostra società non è mai esistita come tale, dunque io non ti devo niente, e non c'è niente che dimostri che tu hai a che fare con quei progetti.»

«Non puoi farlo» mormorò Sakaki, appoggiandosi con tutto il proprio peso contro il muro. Gli venivano meno le forze.

«Sei certo che non possa farlo, Sakaki? Ti sorprenderò. Sei stato tu a parlarmi di vendetta e forse non avresti dovuto farlo. Hai fatto male a cercare di approfittarti di Jonathan Silph.»

Quando Jonathan gli passò accanto per l'ultima volta, aprì la porta e la richiuse dietro di sé, Sakaki non ebbe moto. Rimase stupidamente immobile, appoggiato al muro, con gli occhi spalancati e vacui, incredulo e impotente alla sola idea di essersi lasciato ingannare da quello scienziato eccentrico e un po' stupido. Continuò a fissare il vuoto anche mentre il rombo fastidioso della vecchia automobile scassata di Jonathan, che si allontanava, portava via con sé l'unico vero obiettivo della sua vita.

Il suo telefono suonò ma Sakaki se ne rese conto solo dopo svariati squilli. Rispose a fatica, con movimenti goffi, impacciati: «Pronto?»

Si sentiva la mente leggera e ovattata, come se tutti gli stimoli esterni gli arrivassero con qualche secondo di ritardo. Erano le reclute che circondavano la casa per sorvegliare tutti i movimenti di Jonathan.

«Capo, Silph se ne sta andando. Dobbiamo lasciarlo andare?»

Sakaki non rispose. La sua mente stava lavorando a rilento, faticosamente. Era la prima volta, dopo la prima in assoluto e più grande, che qualcuno si prendeva gioco di lui in quel modo.

«Capo? Ha sentito?»

«Lasciatelo andare.»

«Sta uscendo da Lavandonia, capo. Ne è sicuro?»

Vi fu un lungo attimo di silenzio. Finalmente, con voce un poco più decisa, egli disse: «Sì, ne sono sicuro. Lasciatelo andare.»

Concluse la telefonata senza aggiungere altro. Voltandosi, scostò per un momento la tendina bianca, giusto in tempo per vedere la vecchia automobile sferragliante voltare l'angolo per sempre. Gli sarebbe bastata una telefonata e quella macchina sarebbe finita fuori strada, Jonathan Silph sarebbe scomparso per sempre, l'unico altro essere umano a conoscere il segreto della Spettrosonda e della sua anima... ma non telefonò e lasciò che quel maledetto pazzo uscisse dalla sua vita, per il momento.

Prese a percorrere l'ingresso a grandi passi, mentre la sua mente lavorava febbrilmente. La situazione non era del tutto incontrollabile, non ancora: la Spettrosonda non era ancora irreparabilmente al di fuori della sua portata. Al contrario, il tradimento di Jonathan poteva rivelarsi un insospettato vantaggio. Aveva già investito moltissimo denaro per quel progetto, e di certo avrebbe dovuto spenderne ancora svariate volte tanto prima di arrivare alla brevettazione. Ma ora Silph si sarebbe rivolto ad altri sponsor, avrebbe ricevuto nuovi fondi... certo, magari avrebbe fondato una sua propria azienda. Bene, concluse finalmente tra sé, che Jonathan Silph si divertisse pure con i suoi giocattoli e le sue strampalate invenzioni: un giorno, Sakaki si sarebbe vendicato anche del suo tradimento e tutto quanto Jonathan Silph fosse riuscito a creare fino a quel momento sarebbe stato suo.

Stava per accendersi un'altra sigaretta quando lo sguardo gli cadde sulla pozza di brandy allargatasi al suolo tra i cocci di vetro. Probabilmente non era una buona idea accendere una fiamma vicino all'alcol: la scavalcò in una sola falcata e si diresse alla porta.

Fu allora che gli venne l'idea. Si guardò pensierosamente attorno, soppesando l'ingresso con lo sguardo. Non aveva più bisogno di quell'inutile casa, ormai, ora che il laboratorio aveva perso la sua utilità. A che pro tenerla più a lungo, con tutti i tediosi ricordi che a essa erano collegati?

Prese di nuovo il telefono che aveva insospettito Jonathan già svariati mesi prima e richiamò la recluta. Gli ordinò di procurarsi del cherosene.

«Cherosene, capo? Ho capito bene?»

Normalmente, Sakaki gli avrebbe dato dell'idiota, ma in quel momento si sentiva troppo eccitato per farlo.

«Sì, hai capito bene. Stanotte ce ne andiamo, ma prima faremo a Lavandonia un regalo che non dimenticherà facilmente.»

Quella notte, Sakaki osservò estatico la casa dove la sua famiglia – la famiglia del Sakaki che era morto – si era amata, aveva vissunto e pianto ben tre morti, e dove per poco la Spettrosonda non era venuta alla luce, bruciare.

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Capitolo 4
*** Gengar. ***


Capitolo IV – Gengar.


Dolcissimo, possente

dominator di mia profonda mente;

terribile, ma caro

dono del ciel; consorte

ai lùgubri miei giorni,

pensier che innanzi a me sì spesso torni.


Giacomo Leopardi, Il pensiero dominante.



La luce nel suo ufficio nella Palestra di Smeraldopoli che da poco si era conquistato era spenta. Sakaki sedeva immobile alla sua scrivania, mollemente adagiato sulla morbida poltrona di pelle.

Rifletteva.

Dopo quasi trent'anni di lavoro, aveva avuto la Spettrosonda tra le mani per pochissimo tempo, finché quel ragazzino taciturno non era venuto a impossessarsene. Eppure, per qualche motivo, questo non gli dispiaceva tanto come aveva pensato in un primo momento. La Spettrosonda era entrata in produzione, solo questo importava: entro pochi mesi sarebbe diventata uno strumento immancabile nell'armamento di qualsiasi allenatore e non vi sarebbe stato alcun luogo al mondo dove i suoi aguzzini avrebbero potuto trovare riparo, come egli stesso aveva profetizzato già da tempo. Che cosa importava se non aveva potuto trarne un profitto? Quello non sarebbe stato che un gradevole ornamento a una vendetta già di per sé perfettamente compiuta. Quel piccolo, ambizioso allenatore avrebbe aperto la strada a una innumerevole serie di profanatori dei misteri della Torre... ma non sarebbe di certo stato il primo in assoluto, pensò sorridendo.

La notte in cui aveva fatto ritorno al suo luogo natale era stata l'idilliaco coronamento della sua esistenza: egli non poteva ricordarla senza provare un senso di voluttà, di compiacimento che superava ogni altra sensazione mai provata. Era stata una gioia più profonda del guadagno, più totalizzante del potere, più inebriante del sesso. Socchiuse gli occhi per immergersi più profondamente nel ricordo di quella notte: gli sembrava di provare di nuovo ciascuna sensazione con tutto il proprio essere. Riviveva tutto con la medesima intensità: risentiva nelle narici l'odore della fredda pietra umida e della muffa, rivedeva la molle luce lunare che dalle alte finestre proiettava liquide pozze d'argento sul pavimento, riudiva l'echeggiare sonante dei suoi passi che rimbombavano tra le volte ricurve...

A Seel, amato compagno di avventure, fino all'ultima ora fedele. Aveva sostato a lungo di fronte alla lapide, percependola con tutti i propri sensi, come ritrovando un amore perduto, quasi a saziare una brama annosa. Per quanto tempo aveva desiderato trovarsi di nuovo lì, con una Spettrosonda tra le mani? Aveva assaporato quel momento voluttuosamente, senza fretta, per goderne ogni singolo istante, ogni minima sfumatura, dopo trent'anni che a quella notte erano stati interamente devoluti.

Solo dopo interminabili minuti, quasi a malincuore, se ne era strappato. Aveva salito le scale con passi lenti e misurati, gustando anche quel percorso con piacere inimmaginabile, ma non senza scopo: quel giorno c'era stato il funerale di un anziano Ninetales che era stato sepolto svariati piani più sopra. Egli si era diretto alla sua tomba, certo – per chissà quale interiore, forse insensata convinzione – che sarebbe stato proprio quello il luogo dove più facilmente avrebbe incontrato gli Spettri.

La lapide era nuova, lucida e bianca proprio come quella mattina di tanti anni addietro egli aveva visto quella di Seel. Anche su quella tomba Sakaki si era soffermato a lungo, pensierosamente: al funerale, cui aveva assistito dal fondo della sala affollata, aveva intravisto la famiglia a lutto. Eppure nessuno si era fermato a tenere compagnia a quel povero Ninetales, tutti insensibilmente l'avevano abbandonato subito dopo la cerimonia. Davvero quel povero ragazzo che egli stesso un tempo era stato e che in quello stesso luogo, pochi piani più sotto, aveva per sempre cessato di esistere trent'anni prima, davvero era stato lui l'unica persona in tutta la storia della Torre ad amare così tanto un Pokémon defunto da volerlo accompagnare fino alla fine nel suo ultimo viaggio? Eppure Sakaki non era riuscito a condannare la sua sciocchezza nel suo cuore, né vi riusciva suo malgrado ora, a distanza di mesi, mentre riviveva quell'avvenimento nella propria mente.

Quella notte aveva atteso come supponeva di aver fatto in quella che l'aveva preceduta di tanti anni, seduto sulla tomba con la schiena appoggiata alla lapide; ma quella volta – e il suo cuore tutt'ora si riempiva di eccitazione e soddisfazione al solo ricordo – egli teneva stretta in mano, appoggiata contro il ginocchio reclinato, una lunga Spettrosonda grigia...

Aveva atteso attraverso la notte senza fretta, coll'animo tutto pervaso da una straordinaria, ineffabile pace. Non nutriva alcun dubbio che gli Spettri sarebbero venuti: egli lo percepiva con sconcertante certezza nel proprio animo.

E in effetti, erano arrivati.

Sakaki li aveva percepiti nel buio prima ancora di vederli o sentirli. Era rimasto immobile, col respiro trattenuto, il cuore che palpitava nel petto e il sangue che gli scorreva fremendo nei polsi, quasi appiattito contro la dura lapide bianca di un defunto a lui sconosciuto; e poi, quando a quelle presenza ch'egli soltanto avvertiva nel buio si erano assommate le risate (ah!, quelle stridule risate sguaiate, agghiaccianti! Quale ricordo fortissimo del primo suo minuto di vita! Egli era rabbrividito e rabbrividiva tuttora al solo pensiero di quelle risate che avevano echeggiato per anni lungo i suoi incubi) ecco, allora egli era balzato in piedi e con calma voce profonda aveva parlato rivolto all'oscurità.

«Eccomi, sono tornato.»

Tutto era divenuto silenzio, un silenzio nel quale le sue parole avevano cessato di ripetersi nello spegnersi lento della propria eco. Allora, prima che le presenze avessero avuto modo di fare alcunché, con un unico gesto egli aveva alzato la Spettrosonda e l'aveva avviata: un fiotto di luce aveva folgorato la sala e Sakaki aveva visto di nuovo, ma da vincitore!, quegli Spettri neri dalle orbite vuote che avevano avuto ragione della sua mente.

«Qual è il vostro nome?»

Non aveva saputo trattenersi dal chiederlo, con foga selvaggia e un senso di onnipotenza, con una risata forse più agghiacciante delle loro, mentre con un flebile ronzio la Spettrosonda terminava l'identificazione e disperdeva l'energia usata dagli Spettri: e allora, e allora... egli finalmente aveva visto, dopo una vita spesa per quel solo attimo, i loro corpi!

E in un solo, cruciale istante egli aveva compreso a chi apparteneva la voce. I loro occhi si erano incontrati per un istante, ma non occorreva di più. Era un Pokémon unico, diverso dagli altri: il suo corpo appariva più solido, di un viola scuro che era come fumo divenuto carne, i suoi occhi erano malvage pozze rosse, e il suo ghigno bianco che si allargava sulla sua faccia deforme...

No, non era davvero occorso di più. Sebbene questo non fosse stato previsto nel suo piano originale, egli aveva saputo all'istante cosa fare, e senza soffermarsi a riflettere, senza rischiare di perdere quell'occasione irripetibile, aveva afferrato una Ultraball e l'aveva gettata.

Forse era stata una follia, eppure ora, seduto di fronte alla Ultraball poggiata sulla sua scrivania, Sakaki era certo di non aver vissuto per nient'altro che per catturare quella creatura. Che curiosa fatalità: se Jonathan Silph non l'avesse tradito e non avesse fondato una sua propria azienda con cui brevettare le sue ball...

La sua mano accarezzò la prigione del suo persecutore con un gesto che tradiva una sorprendente dolcezza. Quando la Ultraball si era richiusa e aveva smesso di vibrare, quella notte, tutti gli altri Spettri si erano defilati tra alte strida di terrore, ma questo non aveva importanza: Sakaki aveva catturato quella voce che era stata la prima che avesse udito nella sua vita, l'entità che, con ogni probabilità, gli aveva sottratto la memoria...

Proprio quell'entità era ora dinnanzi a lui, prigioniera per sempre della sua volontà. Non c'erano parole umane che potessero descrivere l'universo di sensazioni che quella consapevolezza cagionava in lui. Le sue dita continuavano a percorrere senza sosta un loro enigmatico percorso sulla superficie liscia di quella gabbia sferica, quasi con amore, come a volerla baciare con la sola pelle dei polpastrelli. Chissà quante ore aveva già trascorso ripetendo quel gesto, che era possesso e passione e mille altre emozioni...

«Signore, il ragazzo si sta avvicinando alle porte della Palestra. Che facciamo?»

Le sue dita si soffermarono sulla sfera lucida, ma egli non ne distolse lo sguardo. Con un lento, riflessivo movimento, dopo svariati secondi, premette il pulsante dell'interfono.

«Lasciatelo entrare.»

Gettò un rapido sguardo al vecchio Persian, che dormiva sul tappeto ai suoi piedi, e gli accarezzò il capo con un gesto consumato e fiacco, quasi meccanico, ma ancora affettuoso, come in quelle vecchie coppie che hanno trascorso assieme tutta la vita, e per cui ogni carezza non è che un riassunto di anni e anni di parole e di promesse e di esperienze, che non vale la pena ripetere, ma che ogni tanto fa piacere ricordarsi a vicenda.

Quel ragazzino che gli aveva strappato la Spettrosonda dalle mani aveva affrontato le sue reclute all'ultimo piano della Torre Pokémon e aveva liberato il signor Fuji. Questo non gli dispiaceva: non aveva mai voluto ucciderlo. Un bello spavento era tutto quanto egli meritasse, per la sua vigliaccheria, nell'economia della sua vendetta.

Il ragazzino gli aveva strappato anche il controllo della Silph Spa. Questo gli dispiaceva di più: quale magnifica occasione di guadagno, peraltro legale, sarebbe stata quell'azienda che aveva acquistato assai rapidamente un incredibile monopolio economico sulla regione di Kanto e sulla limitrofa Johto! Quella era l'unica vendetta che non era riuscito a condurre fino in fondo, considerò oziosamente, abbandonandosi contro lo schienale della poltrona di pelle e congiungendo pensierosamente la punta delle dita sotto il mento. Ma pazienza: non poteva davvero ottenere tutto, sarebbe stato pretendere troppo per chiunque. Si sarebbe accontentato del ricordo del piacere violento che aveva provato nel prendere possesso con la forza della titanica, pretenziosa sede di Zafferanopoli. Decisamente sarebbe stato un piacevole ricordo da portare con sé quello del terrore che aveva visto radicarsi negli occhi di Jonathan Silph quando aveva fatto irruzione, circondato da soldati armati, all'ultimo piano dell'edificio dove il suo presidente si era rifugiato e, cedendo a un certo gusto per la teatralità, gli aveva detto sorridendo: «Grazie per la Spettrosonda, Jonathan.»

Com'era cambiato Jonathan in quegli anni! Aveva stentato a riconoscere, in quell'uomo di mezza età con gli occhiali di corno e gli ordinati capelli già brizzolati, il composto completo blu in tre pezzi, quel ragazzo sciatto e spettinato con cui aveva trascorso tante sere fumando in giardino... Eppure l'aveva ritrovato egualmente, da qualche parte in fondo ai suoi occhi, e l'angoscia tremante della sua voce quando gli aveva chiesto piangendo di non fare follie, di limitarsi a prendere l'azienda (che sciocco! Davvero aveva pensato che si sarebbe macchiato le mani col suo miserabile sangue di traditore?), l'aveva ripagato di ciò che gli aveva fatto quel giorno a Lavandonia. Certo, sarebbe rimasto volentieri assai più a lungo a torturarlo sadicamente nel suo ufficio, velatamente minacciandolo di morte e strappandogli con perverso piacere suppliche e concessioni, preghiere e proposte di riscatto... Ma tutte le cose belle devono finire, dopotutto, e a quella aveva posto termine il ragazzino taciturno dagli occhi scuri, che con pochissime vittorie su di lui aveva mandato in fumo la sua vendetta su Jonathan Silph e, con la prossima che era certo non essere lontana, il suo impero criminale.

Sì, ora che la maggior parte del suoi piani era stata sventata, Sakaki sapeva che era solo questione di tempo prima che le prove a suo carico lo inchiodassero definitivamente alle attività criminose di Team Rocket. Anche questo era accaduto a causa di quel piccolo allenatore, certo, eppure verso di lui Sakaki non provava sentimenti di rancore o di rivalsa: nel profondo del suo cuore, egli sentiva già da tempo che, ora che la Spettrosonda era stata creata e l'obiettivo della sua vita realizzato, Team Rocket aveva esaurito tutta la sua funzione e la sua ragion d'essere e che non c'era più alcun vero motivo di proseguirne l'attività. Non aveva fondato Team Rocket che in nome della sua vendetta e anche se, doveva riconoscerlo, vi erano state occasioni in cui la brama di guadagno aveva preso il sopravvento su altri istinti ed egli se ne era lasciato trascinare, l'arricchimento e la criminalità non erano mai stati nella sua mente fini a se stessi.

Guardò l'orologio: secondo i suoi calcoli, quel piccolo ragazzo taciturno non avrebbe dovuto impiegare più di un'ora a percorrere la Palestra e sconfiggere gli altri allenatori. Allora avrebbe finalmente scoperto che era lui, Sakaki, a essere contemporaneamente il Capopalestra di Smeraldopoli e il supremo boss del Team Rocket, tutti i pezzi del puzzle sarebbero stati al loro posto... non aveva tempo da perdere, decise prima di allungare la mano a premere il pulsante dell'interfono.

«Sì, signore?»

«Chiama il Primo Ministro. Ho un affare urgente da discutere con lui.»

«Subito, signore.»

Molto presto, presumibilmente subito dopo la sfida che lo attendeva di lì a pochi minuti, sarebbe stato costretto a lasciare Kanto, se non voleva restare ad assistere al crollo del Team Rocket e sprofondare assieme a esso. Non che un'eventualità del genere lo cogliesse impreparato, ovviamente: aveva deciso già da tempo che se ne sarebbe andato presto, ma di certo non da solo.

Accarezzò un'ultima volta l'Ultraball sul tavolo e se la fece scivolare in tasca: a nessun costo l'avrebbe abbandonata, non dopo tutto ciò che aveva fatto per ottenerla. Le sue dita vi indugiarono a lungo prima di lasciarla, quasi a volerle ricordare l'eternità che ora li aspettava e che avrebbero affrontata insieme, in quanto mai più lo Spettro sarebbe stato libero e lontano da lui: i loro destini erano sempre stati indissolubilmente legati, dopotutto.

La sua segretaria gli passò la videochiamata del Primo Ministro direttamente sullo schermo principale: Sakaki vi si rivolse sorridendo. Era l'ultimo tratto ascendente della sua gloriosa parabola, l'ultimo atto del dramma della sua vita. «Buonasera, Ministro. Come sta?»

Ascoltò educatamente, per svariati minuti, le sue lamentele sui vari membri del Governo e sulle prossime elezioni, annuendo di tanto in tanto, aspettando con consumata strategia politica il momento migliore per venire al punto, sempre conservando un'espressione assorta e partecipe, pensierosa. Finalmente, quando il Primo Ministro parve disposto ad ascoltarlo a sua volta, congiunse nuovamente le punte delle dita sotto al mento, come se avesse appena concluso una profonda riflessione, e cercando di reprimere nella propria voce una vibrazione di compiacimento, domandò: «Ha più ripensato a quella mia proposta di costruire una Torre Radio a Lavandonia, Ministro?»


Fine.



Questo ultimo capitolo ha avuto una genesi un po' particolare. L'avevo già completato insieme a tutto il resto della storia durante la stesura principale, ma era essenzialmente brevissimo, più un vero e proprio epilogo, e già così mi soddisfaceva molto; ma durante una lezione, mentre stavo pensando a come migliorarlo, si è quasi riscritto da solo: non era previsto che Sakaki tornasse nella Torre Pokémon, né che catturasse Gengar (perché è appunto lui lo Spettro che cattura, se non fosse chiaro, e che si trattasse di un Gengar era chiaro nella mia mente già dalla stesura de La Spettrosonda). Insomma, Sakaki in questo capitolo ha fatto praticamente tutto da solo.

Che dire? Sono davvero grata a tutti anche solo per aver aperto le mie storie e non posso che augurarmi, dal profondo del mio cuore, che possano esservi piaciute anche solo un decimo di quanto a me è piaciuto scriverle.

Devo ringraziare con tutto il mio affetto crystal_93, Mad_Dragon e Sky98 per aver recensito; in particolar modo, rinnovo il mio ringraziamento a quest'ultimo per avermi suggerito la trama.

Un abbraccio e un bacio a tutti!

Afaneia


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