La rovina della Torre Pokémon. di Afaneia (/viewuser.php?uid=67759)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Università degli Studi di Azzurropoli. ***
Capitolo 2: *** Seel, di nuovo. ***
Capitolo 3: *** Jonathan Silph. ***
Capitolo 4: *** Gengar. ***
Capitolo 1 *** Università degli Studi di Azzurropoli. ***
Eccomi
di nuovo qua!
Questa
storia nasce come un sequel, inizialmente non previsto, de La
Spettrosonda. A differenza di quest'ultima
però, che
almeno nella mia mente era concepita come una sorta di
Poképasta,
questa ha più le caratteristiche di un vero e proprio
racconto
breve, forse un po' noir, per così dire. Devo segnalare
anche un
linguaggio leggermente più volgare rispetto al mio solito,
niente di
sconvolgente, comunque.
Anche
stavolta non mi aspetto acclamazioni, sono consapevole che la storia
potrebbe non piacere a tutti, ma io mi ci sono appassionata
tantissimo fin dal primo momento, a tal punto da girare per giorni
con il mio quaderno ovunque andassi per continuare a scrivere. Quindi
ho deciso di postarla nella speranza, forse vana, che sia un prodotto
gradevole per i lettori anche solo un quarto di quanto lo è
stato
per me.
Non
posso esimermi dal ringraziare profondamente e sentitamente Sky98,
senza il cui prezioso suggerimento questa storia non sarebbe mai
venuta alla luce.
Detto
questo, vi lascio alla lettura.
Enjoy!
Afaneia
La
rovina della Torre Pokémon
«Ebbene,
i francesi non si sono vendicati del traditore; gli spagnoli non
hanno fucilato il traditore; Alì, sepolto nella sua tomba,
ha
lasciato impunito il traditore; ma io, tradito, assassinato, gettato
vivo in una tomba, da cui sono uscito per miracolo, io debbo
vendicarmi, ed il cielo, giusto punitore dei malvagi, mi ha inviato a
punire, ed eccomi qui.»
Alexandre
Dumas, Il
Conte di Montecristo.
Capitolo
I –
Università degli Studi di Azzurropoli.
Sua
madre lo guardava
con una tristezza che con l'amnesia non aveva niente a che fare. Lo
guardava studiare gli enormi manuali che si era procurato, manuali di
fisica della materia, atomica e subatomica, ma anche libri
più
dimessi e vecchi, testi di scienze occulte, esoteriche,
sovrannaturali. Non diceva nulla, ma egli, Sakaki – aveva
ormai
accettato l'idea di chiamarsi così – sapeva che
era preoccupata e
infelice. Talora, quando sollevava gli occhi stanchi e arrossati
dalle sue letture, la sorprendeva a osservarlo, con occhi ancora
più
stanchi e cerchiati dei suoi – ma per una stanchezza che
proveniva
dall'interno, come per una qualche melanconica rassegnazione. In quei
momenti, quando i loro occhi s'incontravano da una parte all'altra
del tavolo, al di sopra di quella muraglia invalicabile che i suoi
libri e il loro silenzio costituivano tra di loro, Sakaki avrebbe
voluto chiederle perché fosse tanto triste. Ma poi non
trovava il
coraggio, un paragrafo, il titolo di un capitolo lo attraevano e lui
riprendeva a studiare, vagamente imbarazzato, e lei riprendeva a
osservarlo in silenzio.
Finalmente,
una sera,
quando da una finestra aperta provenivano le voci concitate di sua
sorella e di un'amichetta che giocavano in giardino, un sussurro
timidamente divertito, ma appena accennato, infranse quella barriera
invisibile tra di loro: «Neppure a scuola hai mai studiato
così
tanto.»
Sakaki
levò gli occhi
su di lei, cercando di non mostrarsi troppo stupito, e si
scontrò
col suo sguardo incerto, implorante. Voleva disperatamente parlare
con lui, stabilire un contatto, cercare di ritrovare, in quel giovane
uomo che studiava forsennatamente dall'altro lato del tavolo, il
proprio figlio. Si domandò da quante sere quella donna
stesse
riflettendo su quella frase, ne stesse misurando il suono nella bocca
chiusa, accordasse tra loro le parole...
«Io...
non mi ricordo
la scuola» disse seccamente, impacciato, attirando a
sé con una
mano un libro di fisica teorica da cui voleva confrontare una
nozione. Era vero: non ricordava di aver mai frequentato la scuola,
sebbene fosse evidente che l'aveva fatto, dal momento che sapeva
leggere e scrivere e capiva un po' di fisica. Tuttavia, quando
tornò
a concentrare la propria attenzione su sua madre, vide sul suo viso
una tale quantità di delusione per quella secca, imbarazzata
risposta, che chiuse bruscamente il libro, pur lasciandovi due dita
come segno, e si schiarì la voce. «Ero
bravo?»
Era
un tentativo di
conversazione che sarebbe stato patetico anche tra due estranei,
Sakaki se ne rendeva conto persino dall'abisso della propria
ignoranza in fatto di convenzioni sociali. Ma purtroppo, questo era
quello che erano ora lui e sua madre: due estranei. Ed egli si
rendeva conto anche troppo bene che avrebbe dovuto essere grato per
quel patetico tentativo, in quanto era molto di più di
ciò che
avrebbe mai più potuto avere con suo padre. Probabilmente
anche sua
madre condivideva la sua stessa consapevolezza, visto che il suo
volto s'illuminò di un timido sorriso radioso.
«Piuttosto
bravo,
direi. Insomma... normale.»
«Normale?»
Sakaki
cominciava già a trovare assai difficile portare avanti
quella
conversazione. «Che voti prendevo?»
«Oh...
sempre la
sufficienza» garantì la donna con convinzione.
Poi, dopo un attimo
di silenzio, nel disperato tentativo di non lasciar morire quella
conversazione, per quanto patetica e imbarazzante essa fosse,
soggiunse guardando i suoi libri: «Non andavi matto per la
fisica.»
«Suppongo
di no»
mormorò Sakaki, profondamente tentato di chinare nuovamente
lo
sguardo sui propri studi. Entrambi si guardarono imbarazzati per
qualche momento, dopodiché la donna riprese la
conversazione: «Come
mai questo interesse per la fisica?»
Sakaki
considerò per
un momento se doveva dirle la verità: osservò per
un momento, senza
realmente vederli, i titoli dei suoi libri. Poi, schiarendosi la
voce: «Penso che possa aiutarmi a capire cosa mi è
successo nella
Torre.»
I
sorriso di sua madre
scomparve subitaneamente: ella lo guardò confusa, disarmata,
prima
di distogliere lo sguardo da lui, come se non sapesse come prendere
la sua affermazione. Sakaki esitò alla sua reazione.
«Ho... detto
qualcosa che non va?»
«No...
no, certo che
no. Non me l'aspettavo.»
Sakaki
la scrutò senza
capire. Che cosa esattamente non si aspettava? Che lui avrebbe fatto
tutto quanto di possibile vi fosse al mondo per sapere qualcosa di
più riguardo a quanto gli era accaduto durante quella
terribile
notte? O semplicemente che dopo tutto ciò avrebbe ancora
osato
pronunciare il nome di quel luogo?
Sua
madre intrecciò le
mani in grembo e puntò lo sguardo fuori dalla finestra.
Sentendosi
in qualche modo sollevato da quell'interruzione, e contemporaneamente
sentendosi un mostro per provare sollievo, Sakaki riaprì il
suo
manuale di fisica dei quanti.
«Hai
sempre detto che
avresti voluto studiare storia, se fossi andato
all'Università»
proruppe infine la donna, come buttando fuori quelle parole tutte
d'un fiato. Sakaki alzò immediatamente lo sguardo: sua madre
si
torceva le mani in grembo fin quasi a graffiarsene i dorsi, con lo
sguardo ostinatamente infisso su quella finestra e gli occhi colmi di
lacrime.
«Come?»
«È
così» proseguì
la donna senza guardarlo. Aveva la voce incrinata dal pianto.
«Tu
odiavi la fisica. Ti ho mandato anche a ripetizione. Volevi fare
storia. Amavi la storia, con tutti i nomi e le date e le battaglie e
tutto il resto. E ora... e ora non mi guardi più neppure in
faccia,
per studiare tutti questi libri di fisica, per tutto il giorno. E
tutti i tuoi manuali di storia, tutti questi anni di studio...
inutili, ormai, e solo per quella Torre!»
Sakaki
non ricordava di
aver mai visto sua madre così disperata e ferita. Certo, non
che
ricordasse di aver visto molto spesso sua madre in qualsiasi
circostanza.
«Mamma...»
balbettò
confuso. «Ti prego, non ti arrabbiare. Ricordo ancora qualche
nome,
qualche data...» Era vero: se frugava attentamente nella
propria
memoria, rinveniva qualche grande condottiero, qualche data
fondamentale per la fondazione di Kanto... tutto quello che
probabilmente faceva parte del sostrato conoscitivo fondamentale di
ogni persona sulla regione, che anche non avesse compiuti studi
particolareggiati. «Ma non sono più il ragazzo che
è entrato in
quella Torre e tu lo sai meglio di me. Ti prego, non ti
arrabbiare.»
Pronunciando
quelle
parole, chiamando mamma quella donna che che per
lui era poco
meno di un'estranea, Sakaki non poteva non sentirsi orrendamente in
colpa: sentiva come di stare usurpando la madre di qualcun'altro,
parlandole come se lui fosse davvero il figlio che lei aveva perduto
dentro quella Torre. Ma no, Sakaki non era quel figlio, né
mai lo
era stato o sarebbe potuto esserlo: l'uomo che era uscito dalla
Torre, nudo e congestionato dal freddo, non era lo stesso ragazzo che
vi era entrato. No, quel ragazzo era morto, perduto per empre, gli
spiriti l'avevano ucciso: Sakaki era nato quando aveva aperto gli
occhi su quel nero buio imperscrutabile e quando una voce gli aveva
chiesto qual era il suo nome. No, Sakaki era un uomo nuovo, non
votato che alla vendetta, per quanto si ostinasse a restare in quella
casa, illudendo, in modo forse crudele, quella buona, dolce, infelice
donna che in lui cercava suo figlio.
Alle
sue parole, ella
ricadde quasi immobile sulla sedia, senza protestare, forse pentita
di aver infierito su di lui per qualcosa di cui realmente non aveva
colpa: solo i suoi occhi resistettero per un istante, ma poi,
lentamente, si chinarono.
Sakaki
non aveva più
voglia di studiare. Chiuse il libro, imprimendogli un colpo forse un
po' troppo violento rispetto alle sue intenzioni, perché
vide sua
madre sobbalzare sulla sedia, e uscì in giardino, all'aria
aperta.
A
pochi metri da lui,
sua sorella giocava con la sua amichetta, ma Sakaki non le
degnò di
uno sguardo. In quella notte chiara e senza vento, illuminata da
un'ancora corposa falce di luna calante, come ignorare l'ingombrante
presenza della Torre Pokémon?
Rimase
a lungo
immobile, quasi spossato, a inspirare profondamente l'aria della
notte. La cima della Torre brillava di luna. Sakaki la
guardò con
dolorosa attenzione.
«Mio
Dio, perché?»
mormorò, come se davvero sperasse di ricevere una risposta
da
quell'edificio silente. «So che cosa mi avete fatto, ma
perché
tutta questa crudeltà? Questo ancora non riesco a
capirlo.»
Ma
i minuti trascorsero
su di lui silenti come soffi di vento, taciti come segreti, mentre
lui cercava invano le sue risposte dentro quelle finestre, nere come
orbite vuote.
Sua
madre era stata
contraria fin dal primo momento all'idea dell'Università.
Innanzitutto,
la retta
per l'Ateneo di Azzurropoli era molto costosa: altre città,
come
Zafferanopoli o Aranciopoli, erano assai più economiche. Ma
Sakaki
era inflessibile: solo Azzurropoli aveva un corso di laurea specifico
per l'Elettronica quantistica*, che era, almeno secondo le sue
supposizioni, la materia più utile ai suoi scopi. Inoltre,
sua madre
era perplessa anche circa le sue capacità. Non che glielo
avesse
detto chiaramente. Si era limitata a obiettare timidamente:
«Sakaki,
la fisica è una materia molto difficile. Anche ragazzi molto
brillanti l'abbandonano, ragazzi che non...» Non aveva
terminato la
frase, ma non ve n'era bisogno: Sakaki sapeva cosa intendeva dire.
Ragazzi che non avevano perduto la memoria, ragazzi che si
ricordavano almeno di aver frequentato una scuola, di aver odiato la
fisica...
Dopo
lunghe sere di
discussione, avevano raggiunto un compromesso: dal momento che
mancavano ancora sei mesi all'inizio del nuovo anno accademico,
Sakaki sarebbe andato ad Azzurropoli ad assistere almeno a qualche
lezione, per accertarsi di quale fosse effettivaente la
realtà
universitaria.
Per
quel motivo quel
lunedì mattina Sakaki, che aveva attraversato il
modernissimo
sotterraneo costruito per collegare Lavandonia e Azzurropoli evitando
il traffico di Zafferanopoli, prese posto in un'aula poco affollata
della Facoltà di Scienze Matematiche, Fisiche e Naturali per
seguire
la sua prima lezione di elettronica quantistica. Si sentiva eccitato,
eccitato e nervoso, all'idea di poter finalmente avvicinarsi anche di
un solo, ridicolo passo al raggiungimento del suo obiettivo.
Ma
per le successive
due ore di lezione egli non poté fare altro che rimanere
seduto a
bocca aperta di fronte a un panciuto professore di mezza età
che
spiegava un qualche argomento di cui lui non aveva compreso neppure
il nome, alleggerendo di tanto in tanto la spiegazione con battute
amichevoli a sfondo scientifico di cui lui neppure riusciva a
cogliere il senso. Sakaki ascoltava basito: era vero che le lezioni
erano cominciate da svariati mesi, ma quello era un corso del primo
anno. Era davvero così difficile?
Al
primo quarto d'ora
accademico se la svignò dalla porta in fondo all'aula,
agitato e
tremante, con le mani gelide e ciononostante sudate, ben deciso a non
rimanere lì per un minuto di più. Mentre i
corridoi attorno a lui
si affollavano di studenti, con le loro tracolle e le loro borse di
pelle, i loro libri e i loro appunti, Sakaki si appoggiò a
una
parete per riprendere fiato: il cuore gli batteva all'impazzata. Si
sentiva umiliato, confuso, ma soprattutto si sentiva messo alle
strette: no, sua madre aveva ragione, quella materia era troppo
difficile per le sue capacità. Avrebbe impiegato anni anche
solo per
padroneggiarla decentemente, e non avrebbe comunque mai raggiunto un
livello di conoscenze teoriche e pratiche tale da permettergli di...
Ma
allora che fare?
Abbandonare il suo progetto? No, impossibile, impensabile. Nulla gli
era rimasto che non fosse la sua vendetta: aveva perduto sua madre e
sua sorella, per quanto esse fossero lì per lui e pronte ad
amarlo,
poiché egli non ricordava di averle mai amate a sua volta in
vita
propria. Egli era dunque orfano e senza amici. Aveva perduto tutte le
conoscenze che aveva accumulato nei suoi diciotto anni di vita: dei
suoi giovanili studi di storia, non ricordava niente che non fossero
risibili conoscenze superficiali e particolari. Più che mai
a quel
pensiero si sentì solo al mondo. No, per essere nato dentro
la Torre
Pokémon, ora la vendetta era l'unica ragione della sua
esistenza e a
essa doveva aggrapparsi a qualsiasi costo, non vi poteva rinunciare,
soprattutto, non prima ancora di iniziare...
Si
passò le mani
fredde sul viso accaldato, col cuore che ancora gli martellava
dolorosamente il petto. Aveva bisogno di una toilette, voleva
sciacquarsi la faccia, rallentare la corsa furiosa dei propri
pensieri. Ma quando si staccò dalla parete, si rese conto di
non
essersi appoggiato semplicemente contro il muro: alle sue spalle
c'era una bacheca per gli avvisi in sughero. Li scorse distrattamente
con gli occhi, sperando di distogliere per un attimo l'attenzione dai
propri pensieri.
E
poi, ecco. Si sentì
stupido, tardo e sciocco per non avervi pensato prima. A pochi metri
da lui c'era una sala studio deserta: vi corse dentro,
prelevò un
foglio bianco dal cassetto di una stampante e con un pennarello nero,
nella grafia più grande che gli riuscì di
produrre, scrisse:
Cercasi neolaureato/a in Elettronica quantistica per
importante
ricerca applicata. Astenersi perditempo. Dopo un attimo di
esitazione, aggiunse: Possibilità di ritorno
economico e il
proprio numero di telefono e tornò ad affiggere il suo
annuncio
sulla bacheca, sovrastando senza ritegno annunci di stanze in affitto
e offerte di ripetizioni.
Quel
pomeriggio, Sakaki
tornò a Lavandonia con la piacevole sensazione di aver
concluso
qualcosa. Non era certo che qualcuno avrebbe risposto al suo
annuncio, e anche se così fosse stato, che questo qualcuno
avesse le
conoscenze tecniche per poterlo aiutare. Tuttavia sentiva di averlo
compiuto davvero, un passo in avanti sulla sua strada verso la
vendetta.
Nel
frattempo, pensò
compiaciuto, poteva dedicarsi alla ricerca dei fondi.
*Il
mio amore per la
fisica è stato intenso, ma purtroppo era destinato a finire
e ho
mollato quel corso di studi molto tempo prima di poter anche solo
concepire l'Elettronica quantistica. Tuttavia, guardando un po' di
vecchi documenti, ho pensato che potesse essere la materia
più
adatta per quello che vuole realizzare Sakaki... se aveste idee
migliori, fatemelo sapere!
|
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Capitolo 2 *** Seel, di nuovo. ***
Buon
pomeriggio!
Non
ho molto da dire riguardo a questo capitolo, suppongo che si spieghi
tutto da solo. Non posso tuttavia non soffermarmi ringraziare con
tutto il mio affetto la mia carissima crystal_93 per la sua
recensione e per aver inserito la storia tra le seguite!
Baci,
Afaneia
Capitolo
II –
Seel, di nuovo.
[...]
Io questo
ciel, che sì benigno
appare
in vista, a
salutar m'affaccio,
e
l'antica natura
onnipossente
che
mi fece
all'affanno. A te la speme
nego, disse,
anche la speme; e d'altro
non
brillin gli
occhi tuoi se non di pianto.
Giacomo
Leopardi, La
sera del dì di festa.
Nessun
lavoro normale
avrebbe mai potuto permettergli di guadagnare una somma tale da
finanziare gli esperimenti: Sakaki se ne rese conto già dopo
poche
settimane quando, pur continuando contemporaneamente a studiare con
interesse la fisica e l'elettronica quantistica, cominciò a
considerare seriamente le proprie prospettive future.
Non
esistevano vere e
proprie occupazioni che potesse intraprendere. Non aveva una laurea,
ovviamente, a malapena possedeva un diploma superiore, e in ogni caso
non aveva idea di come lo avesse conseguito. Non aveva conoscenze
tecniche o capacità pratiche in nessun campo specifico:
anche grazie
a qualche parola illuminante di sua madre, comprese entro breve di
essere una figura essenzialmente improponibile sul mercato del
lavoro. Sua madre cercò ovviamente di non scoraggiarlo, anzi
di
stimolarlo a mettersi in gioco, e sorprendentemente gli giunsero
svariate proposte di lavoro: più volte ella tornò
a casa
informandolo che il giornalaio era disponibile a offrirgli un posto
all'edicola all'angolo, che il bar a sud del Tunnelroccioso cercava
un cameriere, che il Supermarket aveva bisogo di un commesso... ma
per quanto sapesse di darle un dolore, Sakaki rifiutà tutte
quelle
offerte, dettate dalla pietà che gli abitanti di Lavandonia
provavano per la sola vittima del loro cieco silenzio. Persino il
signor Fuji, il sindaco, gli fece avere discretamente un invito a un
colloquio per un impiego all'anagrafe. Di tutti i lavori propostigli,
questo era probabilmente l'unico che potesse offrirgli una vera e
propria prospettiva di avanzamento di carriera, ma Sakaki la
rifiutò
egualmente, con più decisione delle altre. Sapeva che quello
era
l'unico modo che il signor Fuji avesse per fare ammenda del fatto di
averlo deliberatamente abbandonato all'interno della Torre, senza
tuttavia dover riconoscere apertamente di avergli fatto del male:
nell'ottica di mantenere il segreto della Torre, bisognava negare che
quel luogo fosse pericoloso. Il medico stesso che si era occupato di
lui aveva attribuito la sua amnesia a nient'altro che una forte
impressione che aveva agito su una mente già debole, ma del
tutto
slegata da qualsiasi cosa presente nella Torre Pokémon. E
del resto,
quali prove c'erano del fatto che le cose stessero diversamente? A
una qualsiasi analisi, quell'edificio non ospitava che tombe,
inquietanti, certo, ma assolutamente inoffensive. Dunque non c'era
nessun modo di dimostrare razionalmente, senza chiamare in causa i
fantasmi, che fosse stata la Torre a fargli perdere la memoria.
Nessuno
più di Sakaki
comprendeva del resto la necessità di tacere al riguardo, e
come
avrebbe potuto? Più di chiunque altro egli era vicino al
cuore
profondo di quel mistero. Ciò tuttavia non toglieva niente
al suo
rancore verso l'uomo che, secondo tutte le leggi di Lavandonia ma
contro ogni legge umana, l'aveva volontariamente abbandonato dentro
la Torre. Più volte, incrociandolo per strada o vedendolo
durante
qualche apparizione pubblica, egli si sentì infiammare di un
rancore
sordo, paralizzante. Si sarebbe vendicato anche del signor Fuji, un
giorno – si sarebbe vendicato per tutto.
Forse
questa sua
insofferenza nei confronti del signor Fuji, insofferenza ch'egli
proiettò ben presto su tutto ciò che con la
politica e le leggi
aveva a che fare – poiché era appunto in nome
della legge che era
stato lasciato solo a fronteggiare il proprio destino –
contribuì
in qualche modo alla sua scelta di vita... non avrebbe saputo dirlo.
L'idea
di rubare i
Pokémon si formò in lui quasi contro la sua
volontà, quando una
mattina a colazione, guardando un telegiornale (sua madre lo
stimolava a tenersi aggiornato su ciò che lo circondava,
nella vana
speranza che ricordasse qualcosa, o che almeno reimparasse a
conoscere il mondo), vide un servizio su una banda di ladri di
Pokémon che aveva effettuato un colpo all'Altopiano Blu.
Inizialmente non vi prestò una particolare attenzione, ma
quando a
pranzo sua madre e sua sorella presero a commentare con orrore la
crudeltà di quei ladri, Sakaki si rese conto con stupore di
non
essere affatto disgustato come loro da quegli eventi: essi
incontravano la sua più assoluta indifferenza.
Si
guardò bene dal
confidare loro questi sentimenti: non voleva addolorarle inutilmente
più di quanto già facesse ogni giorno. Ma quando
quella sera si
ritirò al buio nella sua camera, egli rimase a lungo
pensierosamente
seduto sul letto, ad accarezzare il suo Meowth che gli dormiva sulle
ginocchia. Si sentiva confuso dai propri stessi sentimenti, ch'erano
del resto quelli di un uomo nella mente di una creatura appena nata.
Era davvero disposto ad arrivare tanto lontano per conseguire la
propria vendetta?, si domandava. La risposta che a ogni momento gli
veniva alle labbra, e che lo spaventava molto più della
domanda
stessa per la portata delle sue conseguenze, era che sì, lo
era. E
ciò che soprattutto lo confondeva era che questa
consapevolezza non
era affatto il frutto di una tragica, fatale lotta interiore: non
nutriva semplicemente alcun dubbio o scrupolo. Egli voleva quella
Spettrosonda e non vi era alcuna legge morale, alcuna pietà
umana
capace di contrastare questo obiettivo. Nulla lo turbava più
del
pensiero di non ottenere ciò che voleva, non c'era nulla che
suscitava in lui la benché minima emozione, se non il
desiderio
della rivalsa.
La
sua mano si muoveva
incessantemente, con gesto quasi meccanico ma non privo di un certo
affetto, sulla schiena del suo Pokémon dormiente, sereno,
vicino al
suo cuore.
«Tu
non mi odierai,
vero?» Le sue labbra si muovevano come per una
volontà propria,
articolando pensieri tutti loro. «No, tu non mi giudicherai
mai, non
è così? Tu sai perché devo farlo. Non
ho altra scelta... ma tu non
mi abbandonerai, no, tu non lo farai. Ci siamo salvati a vicenda, io
e te. Sì, io e te, tu ed io: non abbiamo bisogno di
nessuno.»
Ma
se davvero voleva
intraprendere questo percorso, non era a Lavandonia che poteva farlo:
era una cittadina troppo quieta, troppo tranquilla...e del resto, a
che pro restarvi più oltre? Quella città non
aveva più niente da
dargli, né lui poteva fare nulla per essa, non ancora,
quantomeno:
un giorno l'avrebbe liberata dalla mefitica, opprimente presenza
della Torre, ma ancora non ne aveva gli strumenti, e proprio per
procurarseli doveva andarsene. E poi, e poi... perché
approfittare
oltre di quelle miserabili che in lui non avrebbero mai ritrovato il
figlio e il fratello che avevano perduto? Sakaki non avrebbe mai
potuto amarle (e nel profondo, forse neppure gli interessava), esse
da lui non avrebbero mai riottenuto che una goffa gratitudine. No,
esse non avrebbero fatto che impacciarlo, ed egli non avrebbe potuto
che mortificare il loro affetto con la propria freddezza. Non c'era
più nulla a legarlo a Lavandonia.
Il
mattino seguente
parlò con sua madre. Ella fin da subito gli parve turbata e
addolorata e per giorni cercò di convincerlo a cambiare
idea: giunse
persino a implorarlo di tornare all'idea dell'Università...
forse
anche lei, come lui, aveva compreso che quella sua intenzione di
allontanarsi da Lavandonia sarebbe stata per sempre e che lei
l'avrebbe perduto per la seconda volta, e definitivamente. Ma Sakaki
fu irremovibile, per quanto ragionevole: non le chiese che il
necessario per pagare tre mesi di affitto e di vitto, poiché
era
convinto, in quel lasso di tempo, di riuscire a trovare di che
pagarsi da vivere – quanto onestamente,
questo rimase non
detto.
Gli
occorsero svariate
settimane di discussione per convincerla, ma finalmente sua madre
cedette alle sue preghiere, forse sperando tacitamente che,
concedendogli quella libertà, egli le si sarebbe avvicinato
un po'
di più, e Sakaki fu libero di partire per Azzurropoli, da
dove non
aveva alcuna intenzione di farle aver sue notizie.
La
berlina nera coi
finestrini oscurati si fermò davanti a una modesta casetta
piccolo
borghese nel centro di Lavandonia. Subito l'autista scese ad aprire
la portiera posteriore: ne uscì un uomo alto, dal volto
maschio e
volitivo, che indossava un nero completo gessato, tagliato su misura,
e un impermeabile scuro. Doveva avere circa trent'anni.
Percorse
il vialetto a
passi svelti e giunto alla porta, come se fosse la cosa più
naturale
del mondo e si aspettasse di essere atteso, suonò il
campanello.
Trascorsero pochi momenti: egli pareva perfettamente a suo agio,
immobile sulla soglia di quella casa così comune, col suo
completo
firmato e le mani nelle tasche dell'impermeabile, ad aspettare.
Nessuno
chiese chi
fosse, ma l'uomo percepì con la coda dell'occhio la tenda di
una
finestra che veniva spostata per guardare il vialetto. Un momento
dopo, la porta si spalancò bruscamente, ma sua madre, o la
donna che
biologicamente era sua madre, invecchiata di dodici anni rispetto al
loro ultimo incontro, non gli gettò affatto le braccia al
collo.
Rimase piuttosto immobile sulla soglia, con sguardo gelido che
però
celava – egli aveva ormai imparato a riconoscere
quell'emozione –
un fondo di terrore.
«Che
ci fai qui?»
La
voce di sua madre
vibrava di rabbia e di paura, ma Sakaki non poté impedirsi
di
sorridere. Le tese le braccia, chiedendole, in tono apertamente
provocatorio: «Non abbracci il figliol prodigo,
mamma?»
Il
volto di sua madre
non ebbe cedimenti. «Vattene» disse con voce bassa
e rabbiosa. «Non
vogliamo avere niente a che fare con te.»
Il
sorriso di Sakaki si
spense immediatamente. « Fammi entrare, forza»
ordinò con voce
secca, spingendola dentro senza mezze misure. Forse intimorita dalla
possenza della sua figura, sua madre arretrò senza
protestare,
limitandosi a guardarlo astiosamente.
Sakaki
richiuse la
porta, gettando uno sguardo attorno a sé nel piccolo
ingresso che
aveva ancora bisogno di una buona mano di bianco da tanti anni prima.
Sì, tutto era come ricordava dai pochi mesi che aveva
trascorso in
quella casa, più di dieci anni prima.
«Che
ci fai qui?»
ripeté la donna nervosamente, senza distogliere gli occhi da
lui. Si
stringeva con le mani le braccia magre. Sakaki abbassò
lentamente
gli occhi su di lei e lo studiò a lungo, senza fretta,
deliberatamente.
«Mi
disprezzi?»
chiese con calma.
Lo
sguardo di sua madre
si fece se possibile più duro: «Ho sentito cos'hai
fatto.»
«Ah,
sì?»
«Sì.»
«Nessuno
mi ha mai
accusato di niente. Che cosa avresti sentito?»
«Smettila!
Lo sai
benissimo» proruppe la donna: aveva gli occhi lucidi e le
tremava il
labbro inferiore. Sì, era terrorizzata da lui, ma egualmente
lo
affrontò con un ardimento che da lei Sakaki non si sarebbe
mai
aspettato. Ricordò che c'era stato un tempo, tanti anni
prima, in
cui l'aveva ammirata per il coraggio di allevare da sola due figli,
di guardare negli occhi un ragazzo che non si ricordava neppure chi
lei fosse. «Nessuno lo ha capito, ma io lo so che ci sei tu
dietro
tutto quello che sta succedendo. Pensi forse che sia stupida? La
droga e i Pokémon e... mio Dio, Sakaki, come hai potuto?
Quel casinò
illegale ad Azzurropoli...»
«Non
è illegale»
protestò Sakaki quasi con stanchezza, passandosi una mano
sul volto,
ma la donna lo aggredì con furia se possibile maggiore:
«Certo, non
è illegale, ma solo perché qualcuno ha regalato a
quel deputato
della maggioranza una villa con piscina sull'Isola Cannella! Pensi
forse che sia una stupida? Li leggo i giornali!»
Quella
sciocca donna di
provincia aveva capito molto più di svariati detective
incaricati di
cercare prove di corruzione a suo carico, pensò Sakaki in un
breve
attimo di compiacimento. Le concesse un sorriso: «Brava,
complimenti.»
«Ma,
Sakaki...
quell'omicidio, ad Azzurropoli!»
Era
a questo, dunque,
che voleva arrivare. Sakaki contrasse le labbra per un attimo e
impiegò qualche secondo a ricordare: sì, uno dei
suoi scassinatori,
che aveva pensato bene, qualche settimana prima, di aspettarlo
all'uscita del suo ufficio per chiedergli una grossa somma, in cambio
del suo silenzio su segreti che a lui parevano molto importanti e
compromettenti, pur non avendo in realtà alcuna prova
concreta con
cui ricattarlo. Gli era dispiaciuto dare l'ordine di eliminarlo,
ricordò con una fitta di disagio alla bocca dello stomaco,
ma non
aveva avuto scelta. Come avrebbe potuto altrimenti guadagnarsi il
rispetto dei suoi tirapiedi? Si massaggiò con le dita la
radice del
naso, sospirando: «Non avevo scelta. Mi stava
ricattando.»
«Ma
l'hai ucciso tu,
tu!» gridò sua madre, pestando disperatamente i
piedi al suolo:
sembrava sconvolta all'idea che lui non comprendesse la
gravità
della colpa di cui si era macchiato. Ma la pazienza di Sakaki si era
decisamente assottigliata negli ultimi dodici anni e di certo non era
più abituato a sentirsi contraddire come un ragazzino.
«Stai
zitta, cretina!
Non l'ho premuto io quel grilletto e non ci sono prove del contrario,
quindi puoi pure smetterla di berciare. Nessuno ti crederebbe mai,
comunque.»
Ma
la voce di sua madre
era assai più fredda e misurata quando rispose con calma:
«A me non
servono le prove.»
Stavolta
Sakaki si
limitò a sbuffare senza risponderle: non aveva tempo da
perdere per
litigare con quella donna. Si guardò nuovamente attorno
nell'ingresso umido, con la vernice vagamente scrostata dagli angoli,
come per far mente locale, e si schiarì la voce.
«Dov'è mia
sorella?»
«A
casa del suo
ragazzo.» La voce di sua madre era ancora dura e fredda, ma
Sakaki
si limitò ad assentire col capo: «Meglio
così. È con te che
volevo parlare»
«Io
non ho niente da
dirti.»
«Io
sì e tu mi
ascolterai. Ho intenzione di comprare questa casa.»
Sua
madre spalancò gli
occhi per la sorpresa e indietreggiò di qualche passo,
scrutandolo
come se lo vedesse per la prima volta. Esitava, cercando di
comprendere il vero significato delle sue parole. «Erediterai
questa
casa alla mia morte. Non hai bisogno di acquistarla.» Pareva
che
quell'obiezione tanto banale fosse la sola cui riusciva a dar forma
concreta nella propria mente.
«No»
ammise Sakaki
con semplicità. Da una tasca interna dell'impermeabile
estrasse un
libretto per gli assegni e una stilografica nera. «Hai
ragione, non
ho alcun bisogno di comprare questa casa. Ti sto facendo uno
splendido regalo, in effetti. Hai già in mente una cifra in
particolare?»
Gli
occhi di sua madre
vagavano da lui alla mano con cui reggeva il libretto, privi di
comprensione. «Questa casa non è in
vendita» disse infine,
tentando di dare alla propria voce una parvenza di risolutezza. Ma
Sakaki rise della sua opposizione.
«Oh,
sì, che è in
vendita. E credimi, sono il miglior acquirente che potresti
desiderare. Te la pagherò il doppio di quanto varrebbe sul
mercato.
E in più vi comprerò una splendida casa da
un'altra parte.
Celestopoli, magari. Ti piacerebbe?»
«Perché
vuoi questa
casa?» chiese infine sua madre. Pareva quasi arresa.
«Cosa te ne
fai? Puoi avere case molto più belle, in città
più importanti...»
«Io
ho case più belle
in città più importanti»
replicò quegli come parlando a una
persona molto tarda. «Ma se vuoi saperlo, te lo
dirò. Ho bisogno di
una casa vicina alla Torre Pokémon per condurre degli
esperimenti...
e per lo stesso motivo, temo che tra qualche mese Lavandonia non
sarà
più un posto tranquillo per vivere. Pertanto mi è
parso generoso da
parte mia allontanarvi da qui prima che i prezzi delle case crollino
vertiginosamente. Ora, se vogliamo concentrarci, penso che un paio di
milioni siano proprio...»
«È
per la Torre,
quindi.»
Quando
Sakaki chinò
gli occhi su di lei, vide che lo guardava fissamente, come se avesse
appena compreso una terribile verità.
«È tutto per la Torre. Tutti
questi anni, questi traffici, questi omicidi... è sempre
stato tutto
per la Torre.»
«Tutta
la mia vita è
sempre stata tutta per la Torre!» replicò Sakaki.
Discutere con
quella donna lo stava spossando più di quanto avesse voluto.
Si
passò una mano sul volto, appoggiandosi con la spalla alla
parete.
«Tu non hai mai capito.»
«No,
sei tu a non aver
capito.»
Egli
allontanò
bruscamente la mano dai propri occhi e le rivolse tutta la sua
attenzione. «Come, prego?»
«Non
eri tenuto a fare
niente per la Torre. Sapevi perfettamente che ciò che avevi
perduto
era irrecuperabile. Ma egualmente hai voluto fare tutto questo per
qualche strano motivo che solo tu conosci, sprecare tutta la tua vita
e le tue forze per...»
«C'era
forse
qualcos'altro che potevo fare?» sbottò Sakaki con
un movimento
secco. «Ma se lo sai anche tu che non mi rimaneva
più niente,
neppure il mio nome! Avevo forse qualche altro motivo per cui
spendere la mia vita?»
«Avevi
me, tua
sorella... no, non dirlo» soggiunse sua madre, come
prevedendo la
sua obiezione. «So che non ci conoscevi, come noi non
conoscevamo
te, perché eri diverso dal Sakaki che avevamo perduto. Ma
noi
eravamo pronte ad amarti e ad aiutarti egualmente e ci abbiamo
provato in tutti i modi in cui abbiamo potuto... tuttavia non te ne
è
mai importato. Eri tu a credere di non avere più niente. Hai
preferito creare un impero criminale che cercare di ricostruire un
rapporto con la tua famiglia...»
Senza
neppure
accorgersene, come incalzato, Sakaki era indietreggiato fino alla
porta. Era davvero così debole da farsi spaventare da quella
donna?
Si riscosse quando con le spalle urtò la vecchia porta di
legno un
po' scrostata sui margini, vicino agli infissi. «Stai dicendo
una
marea di stronzate. Mi stai confondendo. Voi donne fate sempre
così.»
«Allora
è per questo
che te ne sei andato?»
Me
ne sono andato
perché non vi amavo, ma vi ero abbastanza grato da non
coinvolgervi
nella mia vita, avrebbe potuto risponderle: ma non era questo
che
bisognava dire. Non poteva permettersi di perdere altro tempo con
lei. La scostò bruscamente e si appoggiò al
piccolo mobile
dell'ingresso che ospitava il telefono, un blocco per gli appunti e
un vaso di fiori finti che ricordava ancora da tanti anni prima.
«Due
milioni e
trecentomila è molto più di quanto chiunque
dotato di un minimo di
cervello sarebbe disposto a pagare» affermò,
cercando di dare un
tono deciso e sferzante alla sua voce. «Per la casa lascio
scegliere
voi. Guarda degli annunci e fammi sapere se c'è qualcosa che
ti
interessa.»
«Straccia
l'assegno.»
Sakaki
levò gli occhi
su di lei in un moto di sorpresa: «Come...?»
«Straccialo»
ripeté
sua madre. «Non li voglio quei soldi.»
«Senti,
se stai
bluffando per averne di più, basta che me lo dici. Io di
questa casa
ho bisogno in tempi brevi...» cominciò Sakaki
spazientito, ma la
donna non lo lasciò finire: «Te la lascio, ma non
te la vendo.
Accetto solo l'altra casa, ma a Zafferanopoli, non a Celestopoli. Non
voglio che tua sorella sia troppo lontana dal suo ragazzo, le
spezzerebbe il cuore. E tuo padre riposa ancora qui.»
«Posso
far traslare le
sue spoglie...»
«Ha
scelto lui
Lavandonia» lo interruppe sua madre, come se la discussione
fosse
per lei conclusa. «Non sarò certo io a strappare
il suo corpo da
qui, o da Seel.»
«Seel?»
Per
un attimo Sakaki
rimase spiazzato. Risalì per un attimo con la memoria ai
primi
giorni della sua esistenza: aveva la vaga sensazione di ricordare un
Seel, che forse era stato importante, ma non conservava memorie
precise. Distolse rapidamente lo sguardo da lei, tornando a compilare
l'assegno, per non mostrare il suo disagio e la sua lacuna, ma la
donna l'aveva già percepito.
«Sì,
Seel. L'unico
Pokémon di tuo padre.» Gli rivolse un'occhiata
accigliata. «Non te
lo ricordi? No, che sciocca... non puoi. È per lui che sei
rimasto
nella Torre, quella notte.»
«Quella
notte...»
La
stilografica nera
tremò per un attimo nella sua mano e una grossa goccia
d'inchiostro
si gonfiò in fondo alla sua firma, ma Sakaki non se ne
accorse, come
non si accorse di aver trattenuto per un attimo il respiro. Seel...
Sì,
ricordava tutto.
Seel, il nome inciso sulla lapide che aveva ospitato il suo tormento.
I suoi occhi l'avevano letto per tutta la notte e sua madre doveva
averglielo spiegato... ma erano dodici anni che non ci ripensava!
«Me
lo ricordo
benissimo» disse seccamente. Concluse la firma con uno
svolazzo e
staccò l'assegno.
«No,
non puoi
ricordartelo.»
«Ricordo
che me l'hai
raccontato.» Sventolò per un attimo l'assegno, per
accertarsi che
l'inchiostro fosse asciutto, e glielo porse: ora si era dominato a
sufficienza da guardarla negli occhi. «Tieni, fanne quel che
ti
pare.»
«Strappalo,
ho detto.
Non lo voglio qui. Prenditi pure la casa.»
Questo
Sakaki non se
l'era aspettato. Certo, aveva previsto proteste, pianti, scenate,
netti rifiuti o persino richieste economiche spropositate, ma...
questo no.
«Perché?»
Non vi fu
risposta. «Voglio dire, so che disprezzi i miei soldi. Ma
perché mi
regali la casa?»
Anche
stavolta non vi
furono esitazioni, non cedimenti nella voce di sua madre né
nel suo
sguardo, quando disse molto lentamente: «Vuoi forse farmi
credere
che non te la prenderesti con la forza, se te la negassi? Preferisco
dartela di buon grado, senza pantomime. Tutto ciò che posso
fare è
rifiutare il tuo denaro.»
Per
qualche strano
motivo, l'assoluta certezza con cui ella aveva pronunciato queste
parole lo ferì profondamente, forse perché egli
era consapevole che
quella era la verità, anche se non sarebbe mai stato in
grado di
ammettere neppure nell'intimità del proprio animo a quale
estremo di
crudeltà era giunta la sua vita. Rimase per svariati secondi
immobile di fronte a lei, sbigottito, incapace di articolare parola o
di pensare a qualcosa da replicare a quella terribile accusa. Non
aveva mai pensato seriamente, in termini concreti, a come avrebbe
agito di fronte al suo rifiuto di vendergli la casa, ma in quel
momento si rendeva conto che sarebbe stato davvero capace di
prenderla con la forza e questa consapevolezza lo riempiva di
mortificazione e disprezzo per se stesso: sentimenti, questi, che
aveva da tempo dovuto seppellire nel profondo del proprio animo, per
andare avanti col perseguimento del suo obiettivo finale...
«Non
l'avrei mai
fatto» disse, davvero sinceramente in quel momento, e la sua
voce
suonò più debole e incerta. «Non farei
mai qualcosa del genere...
alla mia famiglia.» Quest'ultima parola gli costò
un notevole
sforzo di riflessione per essere pronunciata: non pensava mai a se
stesso come al genere di uomo che ha una famiglia in qualche parte
del mondo.
«Non
ci hai mai
considerate la tua famiglia. Non mentire a te stesso: non sei mai
stato mio figlio. Ho capito da tempo che il mio Sakaki da quella
Torre non era mai uscito...»
«Ma
vi sono grato
egualmente per avermi accolto.» Per qualche motivo, la sua
protesta
ebbe un suono debole e poco convinto.
«Sì,
lo sei, ma
questo non ha significato niente.»
Sakaki
si morse le
labbra. Non gli veniva in mente niente da replicare e se il suo primo
impulso era di affermare con vigore la falsità di
quell'accusa, per
contro non gli veniva in mente alcuna prova contraria. Era vero che,
a parte la gratitudine, non aveva mai provato il benché
minimo
trasporto verso nessuna di loro; tuttavia...
«Finiamola
con queste
stronzate. L'assegno lo lascerò qui, fanne pure quel che ti
pare.
Devolvilo in beneficienza, per quanto mi riguarda.»
Appoggiò
ostentatamente l'assegno sul tavolino, ma sua madre non lo
degnò di
un'occhiata. Bene, non gli importava nulla di quello che ne avrebbe
fatto: se gli avesse permesso di risparmiare due milioni, tanto
meglio per lui. Si schiarì nuovamente la voce:
«Quando pensi che
sarete pronte per lasciare la casa? Come ti ho detto, ne ho bisogno
il più presto possibile, perciò...»
«Se
troviamo un altro
posto dove stare, un paio di mesi saranno più che
sufficienti.»
«Per
la nuova casa non
c'è problema, puoi scegliere quella che vuoi.»
«Suppongo
che dovrei
ringraziarti per la tua generosità.»
Sakaki
finse di non
aver notato il suo sarcasmo sferzante. Ripose il libretto degli
assegni nell'impermeabile e si mise le mani in tasca. «Molto
bene.
Il mio avvocato ti telefonerà in settimana per le
formalità, il
notaio e tutto il resto. Tutto in regola, come puoi vedere.»
«Oh,
non ne dubito.»
Egli
non riusciva a
ricordare l'ultima volta che qualcuno si era preso gioco di lui a
quel modo, ma in quel momento non gli importava: nessuno era
lì per
assistervi e lui aveva appena ottenuto ciò per cui era
tornato a
Lavandonia dopo tutti quegli anni. Perciò protese la mano e
disse
semplicemente: «Porgi tu i miei saluti a mia sorella, io non
posso
fermarmi.»
La
sua mano restò
vuota a mezz'aria. Sua madre incrociò ostentatamente le
braccia sul
petto, guardandolo con aria di sfida. Sakaki decise di ritirare
semplicemente la mano e aprì la porta senza fare una piega.
Eppure,
prima di uscire, si ritrovò a dire quasi contro la sua
volontà: «Mi
farai sapere se avrete bisogno di qualcosa.»
Ma
dalle sue spalle non
gli giunse alcuna risposta ed egli uscì senza guardarsi
indietro.
Non
aveva ancora
raggiunto il cancelletto che il suo autista si precipitò ad
aprirgli
la portiera, ma proprio quando stava per risalire a bordo, Sakaki
cambiò idea.
«Devo
andare in un
altro posto» disse ruvidamente. «È
meglio che ci vada a piedi. Vai
ad aspettarmi all'uscita della città, verso l'imbocco del
Percorso
Otto... c'è uno slargo dove puoi parcheggiare.»
Non aveva voglia di
essere seguito. Sakaki accarezzò brevemente il capo di
Persian, che
dormiva oziosamebte sul sedile posteriore dell'auto, poi diede
l'ordine di chiudere la portiera e di partire.
Attese
che la macchina
si fosse allontanata, prima di incamminarsi a sua volta. Erano
passate da poco le sei e mezza, considerò mentre camminava a
passi
lenti, quasi senza accorgersene, verso nord... era tutto come
ricordava. Eccola là, la casa del signor Fuji, il maledetto
sindaco... il vecchio Centro Pokémon aveva rinnovato
l'insegna, ora
era assolutamente identico a quelli di tutte le altre città
kantensi. La strada verso il Tunnelroccioso avrebbe avuto bisogno di
un po' di manutenzione, le erbacce crescevano troppo fitte, le buche
erano profonde...
Non
si accorse neppure
di essere arrivato, forse perché non aveva compreso neppure
lui,
all'inizio, dove aveva intenzione di andare. Ma quando, sollevando lo
sguardo cogitabondo, si ritrovò davanti al pesante portale
di legno
massiccio con le borchie di ferro, in quel momento aperto, ma ancora
per poco, non poté fare altro che scuotere leggermente il
capo ed
entrare con un sospiro di rassegnazione. Tanti anni prima, in
procinto di lasciare Lavandonia, aveva giurato a se stesso che quando
fosse rientrato nella Torre Pokémon, sarebbe stato con una
Spettrosonda in mano, ma ora che si ritrovava nuovamente lì,
si
rendeva conto di quanto futile e vano fosse stato il suo proposito.
Non avrebbe mai potuto resistere al suo richiamo, il richiamo
dell'unica madre che avrebbe mai potuto avere. Aveva potuto ignorarne
la voce da Azzurropoli, in quella metropoli così caotica e
rumorosa,
ma lì, in quella città silenziosa, la chiamata
della Torre era
troppo forte per rimanere inascoltata.
Non
era rimasto quasi
più nessuno, i pochi turisti venuti a onorare le tombe
dovevano
ormai aver abbandonato le aule cupe. Sakaki non era più
tornato al
suo interno dalla notte in cui aveva aperto gli occhi, ma egualmente
i suoi piedi lo condussero da soli lungo le scale, come per una
strada nota alla memoria e consunta dall'abitudine. Ricordava tutto
di quel mattino e quelle scale glielo richiamarono alla mente con
tale dolorosa, vivida intensità che a un tratto dovette
fermarsi,
aggrappandosi al corrimano, e passarsi una mano sugli occhi per non
cedere all'impressione suscitatagli da quei ricordi. Tutto gli
tornava violentemente alla mente: le lunghe ore trascorse immobile
sulla tomba, la sensazione di gelo contro la pelle nuda; il rumore
dei portali che si riaprivano contro la luce del giorno, lo sciamare
della folla su per i corridoi, le grida di trionfo, le braccia calde
e le lacrime ribollenti di quella donna, che solo dopo aveva scoperto
esser sua madre, la coperta ruvida gettata a ricoprirgli le membra...
Non c'era stata notte in cui non aveva sognato tutte quelle
sensazioni – per non parlare del primo e più
importante dei suoi
sogni e dei suoi ricordi, l'insostituibile e inestimabile, quello in
cui una voce invisibile nella luce abbagliante gli domandava: Qual
è il tuo nome?
E
allora perché, di
tutti questi ricordi che conservava con precisione incalcolabile e
che costituivano l'essenza stessa dell'intero suo essere e la cagione
di tutte le sue scelte, non aveva mai più pensato a Seel?
Prima
ancora di vedere
la lapide, avrebbe potuto pronunciarne a memoria l'epitaffio: A
Seel, amato compagno di avventure, fino all'ultima ora fedele. E
lo recitò egualmente, quando finalmente si trovò
davanti alla
lastra tombale sulla quale era venuto al mondo...
Rimase
a lungo in
piedi, immobile, silenzioso davanti a quella semplice tomba. Avrebbe
potuto toccarla, sentirne la consistenza dura e fredda sotto le dita,
ma non ne aveva bisogno: la ricordava già con eloquente
chiarezza su
tutto il proprio corpo, come se la stesse saggiando in quel preciso
momento. E allo stesso modo avrebbe potuto andare via subito dopo
averla vista, ma egualmente rimase lì, con le mani affondate
nelle
tasche dell'impermeabile nero.
Era
per Seel, dunque,
che era accaduto tutto ciò. Era per Seel che aveva scelto,
in un
attimo fatale che aveva deciso per sempre di tutta la sua esistenza,
di trascorrere la notte là dentro: allora chissà
per quale motivo,
quando sua madre gliel'aveva raccontato, non vi aveva dato peso...
eppure era per lui, dopotutto, che egli si era ritrovato a fondare il
Team Rocket, ad aprire il Casinò di Azzurropoli, a rapire
tutti quei
Pokémon e rivenderli sul mercato nero, a uccidere
quell'uomo...
«È
sempre stato per
te, dunque» mormorò. «Se non fosse stato
per te, tutto questo non
sarebbe mai esistito. Come ho potuto credere che non fossi
importante, che non girasse tutto intorno a te...»
Che
ne sarebbe stato
della sua vita, se in quel momento cruciale egli avesse amato un po'
meno il Pokémon di suo padre, che ora non ricordava neppure?
Che
uomo sarebbe diventato il giovane Sakaki? Un uomo onesto, un uomo
migliore... Certo, ma non aveva senso chiedersi ora tutto
ciò. Era
sempre stato chiaro che quel ragazzo stupido e sentimentale era morto
quella notte senza aver mai rivisto la sua mamma e averle chiesto
scusa per il dolore che le aveva arrecato, mentre l'uomo che quella
notte era nato su quella tomba non aveva niente a che fare
né con
lui, né con quella donna, né con Seel. Eppure...
Si
massaggiò la fronte
con la mano e poi gettò uno sguardo al suo orologio da polso
d'oro.
Erano quasi le sette, ma in quel momento la sua attenzione fu
richiamata da un altro pensiero che lo colpì come se fosse
d'importanza fondamentale: se non fosse stato per Seel, non avrebbe
mai posseduto quell'orologio. Era un pensiero stupido, persino
ridicolo, ma in quel momento assurdamente doloroso, tale da
dilacerargli quasi il petto: quale sarebbe stato il più
felice, tra
l'uomo vivo che possedeva un orologio d'oro e quello, morto, che
avrebbe invece serbato memoria di un Seel ormai scomparso, perduto
negli abissi del tempo?
«Se
non fosse stato
per te...! Se non fosse stato per te...!»
Le
sue parole
echeggiarono tra le volte ricurve tanto a lungo che non sembrarono
neppure più le sue proprie parole, ma come pronunciate dalle
mura
stesse. Era già successo, tanti anni prima, che le sue
parole stesse
echeggiassero su quelle medesime pareti e ritornassero a investirlo,
a ricordargli che nessuno mai avrebbe risposto alle sue domande... E
ora la tomba stessa pareva schernirlo, Sakaki avrebbe potuto giurare
di sentirla ridere della sua domanda e incalzarlo: Cosa
saresti
stato, se non fosse stato per me?
Sakaki
si volse
seccamente per andarsene in un turbinio di stoffa nera. Era stato un
errore venire lì, ora lo sapeva, la Torre lo aveva ingannato
un'altra volta: non gli avrebbe mai dato alcuna risposta, se non
quella che lui solo le avrebbe strappato con la forza.
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Capitolo 3 *** Jonathan Silph. ***
Un
immancabile ringraziamento, accompagnato da un bacio, a crystal_93
per l'altrettanto sua immancabile recensione al precedente capitolo!
Afaneia
Capitolo
III –
Jonathan Silph.
«È
che quello che
lui ha fatto crea un precedente, e che se per un primo furto occorre
una certa risoluzione, per i seguenti basta solo cedere alla spinta.
Tutto ciò che avviene in seguito avviene solamente per
inerzia.
Quello che vorrei dirgli è che spesso un primo gesto che si
fa quasi
senza pensare, delinea irrimediabilmente la nostra figura e comincia
a tracciare un segno che, in seguito, tutti i nostri sforzi non
riusciranno mai a cancellare.»
André
Gide, I
falsari.
Jonathan
Silph era un
ragazzo magro dall'aria trasandata, con pochi soldi in tasca e
un'intelligenza geniale nascosta dietro un paio di occhiali dalla
montatura fuori moda. Sakaki lo aveva conosciuto grazie a una recluta
che aveva infiltrato all'Università di Azzurropoli e che gli
aveva
passato sottobanco una copia della sua tesi di laurea. Era un
progetto geniale: un oggetto pratico, leggero ed economico da
produrre che avrebbe permesso di catturare e tenere un
Pokémon
sempre con sé, sostituendo le Ghicocche, che richiedevano un
processo di coltivazione e lavorazione lungo e laborioso noto solo a
pochi artigiani, e conservando un prezzo accessibilissimo. Geniale,
si era detto Sakaki consultando febbrilmente le pagine della tesi nel
suo ufficio sul retro del Casinò Rocket. Jonathan Silph era
il suo
uomo.
Lo
aveva contattato via
posta, con un'elegante lettera che lo informava che le sue doti erano
state notate e che gli si offriva un posto di ricercatore per un
importante laboratorio privato, in quel momento impegnato in un
progetto che riguardava l'Elettronica quantistica. Era una lettera
vaga e ambigua, che forse sarebbe risultata sospetta a un umo solo un
po' più maturo di lui; ma Jonathan Silph era un giovane
neolaureato
disoccupato, squattrinato e pieno di entusiasmo e di voglia di
mettersi in gioco: Sakaki non dubitava che un ragazzo con queste
qualità – un ragazzo, perché aveva
ventisei anni, quattro in meno
di lui – avrebbe accettato l'invito a un colloquio per
discutere di
questo posto di lavoro.
Jonathan
Silph aveva
accettato.
Per
qualche motivo,
quando Sakaki gli aveva esposto la sua idea di costruire uno
strumento capace di rendere visibile e in qualche modo soggetti a un
contatto i fantasmi, Jonathan Silph non aveva avuto
alcuna
esitazione, che era l'unico ostacolo che Sakaki paventava, in quanto
ciò presupponeva di possedere la reale, fondata convinzione
che i
fantasmi esistessero. Ma Jonathan Silph era uno
scienziato
entusiasta, che si rifiutava di negare una possibilità se
non su
basi certe. Perciò, quando Sakaki gli aveva chiesto
cautamente se
credesse ai fantasmi, la sua flemmatica risposta era stata:
«La loro
esistenza non è mai stata dimostrata, ma una tale
possibilità non
interferisce con nessuna legge fisica di mia conoscenza. Dunque,
perché no?»
Per
questo motivo
Sakaki aveva voluto acquistare la vecchia casa dei suoi genitori.
Quando controllò i suoi conti bancari, poche settimane dopo
l'incontro con sua madre, si rese conto che l'assegno non era mai
stato versato. Non fece commenti. Sua madre aveva voluto una modesta
casa a Zafferanopoli, proprio come aveva detto, niente di
più di un
appartamento con tre stanze nella periferia orientale della
città.
Sakaki
aveva bisogno
della casa a Lavandonia per installarvi un laboratorio, ora che
finalmente poteva permettersi la strumentazione necessaria. Certo,
ora che era ricco, avrebbe potuto permettersi anche molti
più
scienziati, ma quello di assumerne solo uno era una precisa scelta.
Innanzitutto, voleva tenere i suoi esperimenti segreti per non
doverne rendere conto al governo e non rischiare di perdere il
brevetto; e poi, soprattutto, egli sentiva che la Spettrosonda celava
il grande segreto del suo cuore e non poteva permettere che troppi
esseri umani ne venissero a parte.
Ma
se Sakaki aveva
pensato di approfittarsi semplicemente del genio di Jonathan Silph,
scoprì ben presto di essersi sbagliato. Si prese svariati
giorni
liberi per aiutarlo a stabilirsi nella casa di Lavandonia e
sorvegliare con lui i lavori di assemblamento del nuovo laboratorio,
che occupava tutto il vecchio garage; ogni sera, che trascorrevano
cenando con cibi da asporto al vecchio tavolo in cucina, consultavano
i progetti tra infinite discussioni. Riuscirono a raggiungere un
accordo almeno sulla natura degli Spettri, basandosi sui ricordi di
Sakaki e sui principali testi di esoterismo: se esistevano, concluse
Jonathan dopo innumerevoli ore, doveva trattarsi di entità
che, per
nascondere la propria vera forma, alteravano lo stato del gas che li
componeva eccitandone gli elettroni... o qualche cosa del genere.
«Se
riusciamo a
dissipare l'energia di cui si servono per eccitare gli elettroni,
vedrai che funzionerà» gli spiegò
sorridendo di soddisfazione.
Sakaki non poté che credergli sulla parola.
Quando
il laboratorio
fu ultimato, Sakaki tornò ad Azzurropoli e Jonathan Silph
cominciò
a lavorare per ore e ore al giorno: gli uomini che lo sorvegliavano
di nascosto, installatisi nelle case circostanti, riferivano che non
usciva dalla proprietà se non per consumare i pasti o per
eseguire
complicate misurazioni con strumenti di precisione all'interno della
Torre Pokémon. Sakaki andava a trovarlo a sere alterne e
durante le
loro cene si faceva descrivere dettagliatamente i suoi progressi.
«Sei
sicuro di volerla
chiamare Spettrosonda?»
Stavano
fumando in
giardino, dopo aver cenato, quella sera. All'udire questa domanda,
Sakaki distolse gli occhi dalla sommità della Torre e li
posò su di
lui.
«Certo,
Spettrosonda»
replicò lentamente, con sufficienza, quando fu certo che
Jonathan
aveva voluto chiedergli proprio questo. «Credevo fossimo
d'accordo.»
«A
dire il vero, non
ne abbiamo mai parlato» replicò Jonathan
scrollando le spalle.
«L'hai sempre chiamata così, ma...»
Sakaki
si accigliò:
era vero, l'aveva sempre chiamata così, nella sua testa, fin
dal
primo momento in cui ne aveva concepita l'idea: gli era venuto
spontaneo chiamarla così anche con Jonathan, senza neppure
pensarci.
Si costrinse a sorridere: «Hai ragione, l'ho sempre chiamata
così.
Non ti piace?»
«Oh,
non è che non mi
piaccia, è solo... Beh, se l'idea è quella di
lanciarla sul
mercato, magari potrebbe servire un nome più
commerciale.»
Sakaki
tossicchiò
discretamente, stringendosi nelle spalle. Aveva detto a Jonathan che
il suo progetto era quello di lanciare la Spettrosonda sul mercato
non appena ottenuto il brevetto, e in effetti quella non era una
bugia, o almeno non completamente: aveva comunque intenzione di farlo
dopo pochi anni, ma non prima di...
«Spettrosonda
va bene»
disse con calma forzata. Non gli andava di discutere di
quell'argomento.
«Lo
trovo poco
immediato, sai. Pensavo a una cosa istintiva, tipo Rivelaspettri o
qualche cosa del genere...»
«Spettrosonda
va
benissimo» sbottò Sakaki seccamente, gettando la
sigaretta a terra
e calpestandola nervosamente col tacco della scarpa. Jonathan
scoppiò
a ridere, alzando le mani sopra il capo con le palme aperte, di una
risata franca e schietta: «Va bene, va bene... come vuoi! Sei
tu
quello che paga. Era solo un'idea.»
Tieni
pure per te le
tue idee, fu
il suo primo
pensiero, ma Sakaki riuscì a trattenersi e gli rivolse un
sorriso
falso e stucchevole. Eppure Jonathan si fidava persino dei suoi
sorrisi ipocriti: aveva una fiducia incrollabile nel mondo e nella
gente, e Sakaki l'aveva scelto anche per questo. Non poteva
permettere che nutrisse dei sospetti sulla vera natura della
provenienza dei suoi fondi. Certo, ovviamente Jonathan aveva capito
che c'era qualcosa di illegale nel denaro che scorreva a fiumi e
nella segretezza dei loro esperimenti, ma si limitava probabilmente a
sospettare che fossero solo espedienti per evadere il fisco, e
Sakaki era ben lungi dall'idea di disilluderlo. Aveva bisogno di
Jonathan Silph, nonostante tutto, molto più di quanto non
avesse
bisogno di uno qualunque degli altri suoi adepti.
Rimasero
in silenzio ancora per qualche minuto, in piedi nel giardino buio,
immerso in quella città muta e dormiente. Sakaki si sentiva
tranquillo e rilassato, con le mani nelle tasche della giacca e gli
occhi quietamente puntati sulla cima della Torre. Jonathan
finì la
sua sigaretta e se ne accese subito un'altra: Sakaki notò
con la
coda dell'occhio il vago tremore delle sue mani. Non era la prima
volta che aveva l'impressione che, nonostante le apparenze di
tranquilla rilassatezza, quel lavoro segreto e la sensazione di
reclusione lo stessero stressando molto.
Il
suo telefono trillò per un messaggio ricevuto. Sakaki lo
lesse
rapidamente e lo cancellò subito: era un messaggio cifrato
che lo
avvisava che la partita di Voltorb che aveva inviato nella regione di
Unima, dove erano molto richiesti perché introvabili, era
appena
partita su un cargo. Sentì su di sé gli occhi di
Jonathan, ma si
sforzò di non darvi peso: non voleva mostrarsi a disagio.
«Non
è il tuo solito telefono.»
La
sua espressione rilassata gli si congelò sul volto. Non
avrebbe mai
creduto che Jonathan avrebbe prestato attenzione a quel dettaglio. Si
costrinse nuovamente a sorridere con leggerezza, mentre rimetteva il
telefono in tasca. «No, hai ragione. Questo è
quello del lavoro. Ho
scordato di spegnerlo.» Non poteva fargli credere di averlo
cambiato, dal momento che aveva usato l'altro, quello per le varie
comunicazioni, solo poche ore prima per ordinare la cena.
«Oh,
certo» disse Jonathan annuendo, ma per la prima volta Sakaki
ebbe
l'impressione di sentire una vibrazione di dubbio nella sua voce. Ma
il giovane aveva già distolto lo sguardo ed egli non
poté che
rimproverarsi di star diventando paranoico: non era impossibile che
si fosse insospettito per un dettaglio tanto irrilevante, astratto e
svagato com'era.
«Stai
fumando troppo» lo rimproverò per cambiare
argomento. Jonathan si
strinse nelle spalle.
«È
la noia. Non c'è niente da fare qui.»
Non
aveva tutti i torti, considerò Sakaki guardandosi attorno.
Aveva
trascorso solo pochi mesi a Lavandonia, ma non gli era difficile
immaginare quanto noioso dovesse essere vivere da solo in una
città
funebre come quella.
«Hai
ragione. Se gli esperimenti vanno a buon fine, in capo a qualche mese
potrai tornare a casa.»
«Oh,
non mi sto lamentando. Mi piace davvero questo lavoro.»
La
compagnia di Jonathan Silph cominciava ad farsi pesante: non si
poteva certo dire che avesse una personalità particolarmente
interessante, in effetti. Sakaki si stiracchiò
ostentatamente e
guardò l'orologio che portava al polso (non era quello
dorato: per
qualche strano motivo, si era ritrovato a odiarlo e l'aveva regalato
a una delle sue amanti). «Penso proprio di dover tornare ad
Azzurropoli: si sta facendo tardi e domani mi aspetta una levataccia.
Ritornerò a trovarti dopodomani sera. Hai bisogno che ti
faccia
portare qualcosa?»
Jonathan
fece rapidamente mente locale e gli rispose di no, scostandosi dagli
occhi i capelli spettinati e accendendosi una nuova sigaretta. Si
separarono in silenzio.
«Sei
un figlio di puttana!»
Sakaki,
che già stava per spingere la porta per entrare, all'udire
questo
grido provenire dall'interno ebbe abbastanza prontezza di spirito da
soffermarsi per qualche secondo sull'uscio, con la mano ancora sulla
maniglia: un momento dopo, l'inconfondibile suono di un oggetto di
vetro che si frantumava appena aldilà della porta gli diede
ragione
della sua prudenza. Sakaki attese ancora qualche istante prima di
entrare, per accertarsi che non vi fossero altri proiettili pronti ad
accoglierlo appena varcata la soglia. Poi, con un profondo sospiro,
spinse cautamente la porta ed entrò.
Jonathan
Silph era seduto su una poltrona che doveva aver spinto personalmente
nell'ingresso, con addosso una tuta sgualcita (non sapeva stirare),
gli occhi pesantemente arrossati e i capelli sporchi. Sakaki lo
fronteggiò freddamente, chiudendo la porta alle proprie
spalle.
«Sei
ubriaco» constatò semplicemente.
«Mi
hai mentito» gracchiò Jonathan. Gli
puntò addosso un accusatorio
dito tremante e ripeté: «Mi hai mentito.»
«Complimenti»
disse Sakaki con calma. «Ci hai impiegato un sacco di tempo,
ma ci
sei arrivato. Due anni, mi pare?»
«Non
prendermi in giro» ringhiò Jonathan.
Aldilà della nebbia che
l'alcol gli aveva calato sugli occhi, il suo sguardo era mortalmente
serio. Sakaki si ripropose di non tirare troppo la corda: per terra
accanto alla poltrona vedeva il collo di una bottiglia ancora piena e
non aveva bisogno di particolari sforzi di fantasia per immaginare in
quale modo essa avrebbe potuto trasformarsi in un'arma. Non
cercò di
avvicinarsi troppo, ma cacciò le mani in tasca, mantenendo
una
prudente distanza.
«Mi
hai mentito» ripeté ancora Jonathan. Sembrava
sconvolto. «Ho
scoperto tutto. Il Team Rocket. Tutto.»
«Dammi
quella bottiglia, Jonathan» disse finalmente Sakaki, cercando
di
mantenere un tono di voce calmo e chiaro. Gli porse la mano.
«Hai
bevuto abbastanza.»
Jonathan
ignorò la sua mano tesa. «Hai finito di darmi
ordini, stronzo. Ho
scoperto i tuoi piani. Ho scoperto chi sei, cosa fai...»
Veramente
pensavi
che un semplice casinò bastasse a finanziare tutto questo?, stava
per dirgli Sakaki, ma
non gli parve una mossa furba in quella circostanza. Non perse tempo
a chiedergli come avesse fatto a scoprirlo, non gli interessava. La
sua mente stava già lavorando rapidamente su come risolvere
quel
problema.
«Possiamo
scendere a compromessi, Jonathan. Posso fare di te un uomo molto
ricco...»
Si
rese conto di aver imboccato una strada sbagliata una frazione di
secondo prima che la bottiglia di brandy che aveva intravisto poco
prima attraversasse la stanza in volo verso di lui e sibilasse
accanto al suo orecchio, per poi schiantarsi contro lo stipite della
porta. Ma dopo un iniziale tuffo al cuore, si sentì
sollevato: non
vedeva altri oggetti nelle vicinanze che Jonathan potesse utilizzare
come arma.
«Non
voglio diventare molto ricco! Sono un uomo onesto!»
«Jonathan...»
«Tu
vendi i Pokémon!» proruppe quegli, con un tono che
da solo bastava
a esprimere tutto il suo orrore. «Li vendi! E vuoi vendere
anche gli
Spettri!»
Sakaki
si strinse nelle spalle. Aveva previsto fin dall'inizio una qualche
discussione di questo genere, ma aveva sempre pensato che sarebbe
avvenuta dopo aver ottenuto il brevetto della Spettrosonda, quando
ormai il parere di Jonathan Silph non avrebbe più avuto
importanza.
«Gli Spettri sono malvagi, Jonathan. Puoi credermi, io li
conosco.»
«Oh,
già, la tua storiella strappalacrime... come ho potuto
dimenticarla?» gli fece eco Jonathan. «Che stupido
sono stato a
crederti. Stupido, stupido! Il povero ragazzino che perde la memoria
a causa dei fantasmi cattivi...»
«Non
era una storiella strappalacrime» lo interruppe Sakaki. Si
avvicinò
a una finestra con passo nervoso e scostò la tendina bianca
per
guardare fuori la gigantesca ombra della Torre ricoprire Lavandonia.
«Era la verità.»
Jonathan
roteò gli occhi. «Oh, sicuro, come tutte le balle
sul progresso
della scienza che mi hai raccontato.»
«La
storia del mio passato è l'unica cosa vera che ti ho
raccontato.»
Sakaki lasciò ricadere la tendina e si volse ad affrontarlo,
appoggiandosi al muro con le spalle. «Puoi credermi. Ho
davvero
perduto la memoria quella notte nella Torre, ed è per questo
che
voglio la Spettrosonda.»
Jonathan
lo fissò lungamente, come riflettendo sulle sue parole. Si
passò
stancamente le mani sugli occhi arrossati e mormorò:
«Credevo che
volessi catturare gli Spettri per cercare di riavere la memoria della
tua infanzia.»
Sakaki
rise di una risata priva di gioia. «Non m'importa niente di
quei
ricordi, ormai appartengono a un'altra persona, non a me. Una persona
che è morta. Cosa dovrei farmene dei ricordi di un
altro?»
«E
allora...?»
«Vendetta,
Jonathan. Pura e semplice vendetta. Ti dispiace se fumo?»
Poiché
Jonathan si limitava a fissarlo stupidamente, Sakaki si accese con la
massima calma una sigaretta senza attendere risposta. Ora che l'altro
non aveva più niente a disposizione con cui minacciarlo
fisicamente,
sentiva di avere di nuovo la situazione sotto controllo.
«Quegli
Spettri mi hanno catturato e io voglio catturare loro, impossessarmi
della loro casa e della loro serenità, che è
tutto ciò che essi
lottano per mantenere. È questo che io chiamo una vendetta
ben
fatta, Jonathan. Ma di più: come essi mi hanno umiliato, io
voglio
umiliare loro rendendoli schiavi. Essi mi hanno denudato davanti alla
città intera e io mostrerò e venderò i
loro corpi all'intero
mondo. Non ti ho completamente mentito sui miei piani: voglio davvero
commercializzare la Spettrosonda.»
Le
sopracciglia di Jonathan si corrugarono. «Ma...»
«Non
subito, ovviamente. Quello era il mio piano originario:
perché non
vendere Spettrosonde, così che chiunque potesse profanare la
Torre
Pokémon, turbando il loro secolare riposo, e catturare gli
Spettri
come comunissimi Pokémon? Era una buona idea. Ma poi mi sono
detto:
perché non massimizzare il mio profitto? Con un'unica
Spettrosonda,
il Team Rocket catturerà tutti gli Spettri della Torre e li
rivenderà come assolute rarità. Chi non sarebbe
disposto a sborsare
milioni per accaparrarsi un vero fantasma che qualcun altro ha
catturato per lui? Ma dopo una decina d'anni, forse meno, gli Spettri
si saranno diffusi in tutto il mondo, vuoi fuggiti, vuoi liberati per
noia. Colonizzeranno le grotte, gli edifici antichi e abbandonati...
e allora, ogni Supermarket venderà una Spettrosonda
tascabile. In
tutto il mondo non esisterà più un solo posto
sicuro dove essi
potranno rifugiarsi e trovare pace, perché ovunque essi si
nasconderanno, chiunque sarà in grado di identificarli. Quel
giorno
la mia vendetta sarà davvero compiuta, finalmente.»
Jonathan,
che lo aveva ascoltato rapito, impiegò quache istante a
rendersi
conto che il suo discorso era finito. Assentì gravemente.
«Un
ottimo piano, Sakaki, davvero. Subito dopo aver ottenuto il brevetto,
mi avresti fatto uccidere, per evitare che potessi rivendere i
progetti o passare a produrre Spettrosonde per altri. Così
da
garantirti l'esclusiva assoluta. Con tutti i ricavati illeciti, non
avresti avuto problemi a rinnovare il brevetto a tuo
piacimento...»
Però,
tutto sommato, quello scienziato stralunato non era poi tanto stupido
come Sakaki l'aveva sempre ritenuto, o forse era l'alcol a farlo
ragionare meglio. Comunque, egli mentì con noncuranza.
«Certo che
no. Tu mi servirai per lavorare alla versione tascabile della
Spettrosonda, e ovviamente per eventuali altri progetti successivi.
Ma per quale motivo usi il condizionale? Te l'ho detto, possiamo
ancora trovare un compromesso, dico davvero. Se è
così importante
per te, passeremo alla commercializzazione subito dopo il
brevetto...»
Ma
Jonathan non sembrava neppure più ascoltarlo. Ora taceva
semplicemente, tenendosi il volto tra le mani, coi gomiti puntati
sulle ginocchia. Chissà perché, dopo qualche
secondo, quel silenzio
gli parve più minaccioso delle sue grida sconclusionate:
Sakaki lo
fissava in attesa, sentendosi più nervoso via via che il
tempo
passava.
Finalmente,
Jonathan si alzò in piedi, scostandosi i lunghi capelli unti
dagli
occhi, e le braccia gli ricaddero poi lungo i fianchi, coi pugni
stretti. Ma quando levò lo sguardo su di lui, i suoi occhi
erano
decisi e taglienti, per nulla appannati dall'alcol, e Sakaki ne
sbigottì.
«No,
Sakaki.» Anche la sua voce era sorprendentemente fredda. Se
non
fosse stato già appoggiato al muro, forse Sakaki sarebbe
indietreggiato. «No. Abbiamo chiuso.»
Non
era possibile, stava bluffando. Doveva stare bluffando.
«Senti,
Jonathan... ora non esagerare.»
«Tu
mi hai mentito.» Jonathan continuava a guardarlo dritto negli
occhi,
senza segni di cedimento. Sakaki cominciò a dubitare che
stesse
fingendo. «Sei un mostro, Sakaki. Io non pretendo di essere
migliore
di te: ho accettato di fare tutto in nero, di tenere gli esperimenti
segreti per non pagare le tasse... ma non ho mai fatto del male a
nessuno, e se ho agito disonestamente, non l'ho fatto davvero che per
amore della scienza, a differenza tua. Ma ora non voglio più
avere
niente a che fare con te.»
«Molto
bene, allora.» Non sarebbe certo stato lui a chiedergli di
ripensarci. Mancava poco alla conclusione della prima parte del
progetto, Jonathan lo sapeva, doveva essere consapevole che
andandosene avrebbe perduto tutto, ogni speranza di ricerca e di
guadagno. Meglio lasciare che fosse lui a tornare in ginocchio a
pregarlo di riprenderlo con sé. Spense stizzosamente la
sigaretta
nel vecchio posacenere sul davanzale. «Sei libero di
andartene.
Nessuno ti farà del male. Non potrai mai completare la
Spettrosonda
senza finanziamenti, quindi non disturbarti a portare via i
progetti...»
«È
qui che ti sbagli, Sakaki.» Per la prima volta, lo sguardo di
Jonathan si accese di una malignità che Sakaki non si
sarebbe mai
aspettato. No, non stava bluffando, si rese conto con orrore.
«Non
sei il solo ad apprezzare il mio genio. E non sei di certo l'unico
uomo ricco di questa regione.»
Solo
in quel momento Sakaki comprese appieno la portata abissale,
mostruosa della rabbia e del tradimento di Jonathan Silph. No! La
Spettrosonda, che celava il grande segreto della sua vita...
«Non
oseresti.»
Non
era una sfida, era una supplica, nell'unica forma in cui era in grado
di esprimerla. Ma il ghigno che si dipinse sul volto di Jonathan
Silph lo fece ammutolire.
«Tu
hai sempre pensato che fossi stupido, ma non è
così. Ho riflettuto,
sai? Qualche cosa ce l'hanno insegnata, all'Università,
sulle
normative e sulle equipe di ricerca. Noi non abbiamo contratti,
certificazioni, permessi... la nostra società non
è mai esistita
come tale, dunque io non ti devo niente, e non c'è niente
che
dimostri che tu hai a che fare con quei progetti.»
«Non
puoi farlo» mormorò Sakaki, appoggiandosi con
tutto il proprio peso
contro il muro. Gli venivano meno le forze.
«Sei
certo che non possa farlo, Sakaki? Ti sorprenderò. Sei stato
tu a
parlarmi di vendetta e forse non avresti dovuto farlo. Hai fatto male
a cercare di approfittarti di Jonathan Silph.»
Quando
Jonathan gli passò accanto per l'ultima volta,
aprì la porta e la
richiuse dietro di sé, Sakaki non ebbe moto. Rimase
stupidamente
immobile, appoggiato al muro, con gli occhi spalancati e vacui,
incredulo e impotente alla sola idea di essersi lasciato ingannare da
quello scienziato eccentrico e un po' stupido. Continuò a
fissare il
vuoto anche mentre il rombo fastidioso della vecchia automobile
scassata di Jonathan, che si allontanava, portava via con sé
l'unico
vero obiettivo della sua vita.
Il
suo telefono suonò ma Sakaki se ne rese conto solo dopo
svariati
squilli. Rispose a fatica, con movimenti goffi, impacciati:
«Pronto?»
Si
sentiva la mente leggera e ovattata, come se tutti gli stimoli
esterni gli arrivassero con qualche secondo di ritardo. Erano le
reclute che circondavano la casa per sorvegliare tutti i movimenti di
Jonathan.
«Capo,
Silph se ne sta andando. Dobbiamo lasciarlo andare?»
Sakaki
non rispose. La sua mente stava lavorando a rilento, faticosamente.
Era la prima volta, dopo la prima in assoluto e più grande,
che
qualcuno si prendeva gioco di lui in quel modo.
«Capo?
Ha sentito?»
«Lasciatelo
andare.»
«Sta
uscendo da Lavandonia, capo. Ne è sicuro?»
Vi
fu un lungo attimo di silenzio. Finalmente, con voce un poco
più
decisa, egli disse: «Sì, ne sono sicuro.
Lasciatelo andare.»
Concluse
la telefonata senza aggiungere altro. Voltandosi, scostò per
un
momento la tendina bianca, giusto in tempo per vedere la vecchia
automobile sferragliante voltare l'angolo per sempre. Gli sarebbe
bastata una telefonata e quella macchina sarebbe finita fuori strada,
Jonathan Silph sarebbe scomparso per sempre, l'unico altro essere
umano a conoscere il segreto della Spettrosonda e della sua anima...
ma non telefonò e lasciò che quel maledetto pazzo
uscisse dalla sua
vita, per il momento.
Prese
a percorrere l'ingresso a grandi passi, mentre la sua mente lavorava
febbrilmente. La situazione non era del tutto incontrollabile, non
ancora: la Spettrosonda non era ancora irreparabilmente al di fuori
della sua portata. Al contrario, il tradimento di Jonathan poteva
rivelarsi un insospettato vantaggio. Aveva già investito
moltissimo
denaro per quel progetto, e di certo avrebbe dovuto spenderne ancora
svariate volte tanto prima di arrivare alla brevettazione. Ma ora
Silph si sarebbe rivolto ad altri sponsor, avrebbe ricevuto nuovi
fondi... certo, magari avrebbe fondato una sua propria azienda. Bene,
concluse finalmente tra sé, che Jonathan Silph si divertisse
pure
con i suoi giocattoli e le sue strampalate invenzioni: un giorno,
Sakaki si sarebbe vendicato anche del suo tradimento e tutto quanto
Jonathan Silph fosse riuscito a creare fino a quel momento sarebbe
stato suo.
Stava
per accendersi un'altra sigaretta quando lo sguardo gli cadde sulla
pozza di brandy allargatasi al suolo tra i cocci di vetro.
Probabilmente non era una buona idea accendere una fiamma vicino
all'alcol: la scavalcò in una sola falcata e si diresse alla
porta.
Fu
allora che gli venne l'idea. Si guardò pensierosamente
attorno,
soppesando l'ingresso con lo sguardo. Non aveva più bisogno
di
quell'inutile casa, ormai, ora che il laboratorio aveva perso la sua
utilità. A che pro tenerla più a lungo, con tutti
i tediosi ricordi
che a essa erano collegati?
Prese
di nuovo il telefono che aveva insospettito Jonathan già
svariati
mesi prima e richiamò la recluta. Gli ordinò di
procurarsi del
cherosene.
«Cherosene,
capo? Ho capito bene?»
Normalmente,
Sakaki gli avrebbe dato dell'idiota, ma in quel momento si sentiva
troppo eccitato per farlo.
«Sì,
hai capito bene. Stanotte ce ne andiamo, ma prima faremo a Lavandonia
un regalo che non dimenticherà facilmente.»
Quella
notte, Sakaki osservò estatico la casa dove la sua famiglia
– la
famiglia del Sakaki che era morto – si era amata, aveva
vissunto e
pianto ben tre morti, e dove per poco la Spettrosonda non era venuta
alla luce, bruciare.
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Capitolo 4 *** Gengar. ***
Capitolo
IV –
Gengar.
Dolcissimo,
possente
dominator
di mia
profonda mente;
terribile,
ma caro
dono
del ciel;
consorte
ai
lùgubri miei
giorni,
pensier
che innanzi
a me sì spesso torni.
Giacomo
Leopardi, Il
pensiero dominante.
La
luce nel suo ufficio
nella Palestra di Smeraldopoli che da poco si era conquistato era
spenta. Sakaki sedeva immobile alla sua scrivania, mollemente
adagiato sulla morbida poltrona di pelle.
Rifletteva.
Dopo
quasi trent'anni
di lavoro, aveva avuto la Spettrosonda tra le mani per pochissimo
tempo, finché quel ragazzino taciturno non era venuto a
impossessarsene. Eppure, per qualche motivo, questo non gli
dispiaceva tanto come aveva pensato in un primo momento. La
Spettrosonda era entrata in produzione, solo questo importava: entro
pochi mesi sarebbe diventata uno strumento immancabile nell'armamento
di qualsiasi allenatore e non vi sarebbe stato alcun luogo al mondo
dove i suoi aguzzini avrebbero potuto trovare riparo, come egli
stesso aveva profetizzato già da tempo. Che cosa importava
se non
aveva potuto trarne un profitto? Quello non sarebbe stato che un
gradevole ornamento a una vendetta già di per sé
perfettamente
compiuta. Quel piccolo, ambizioso allenatore avrebbe aperto la strada
a una innumerevole serie di profanatori dei misteri della Torre... ma
non sarebbe di certo stato il primo in assoluto, pensò
sorridendo.
La
notte in cui aveva
fatto ritorno al suo luogo natale era stata l'idilliaco coronamento
della sua esistenza: egli non poteva ricordarla senza provare un
senso di voluttà, di compiacimento che superava ogni altra
sensazione mai provata. Era stata una gioia più profonda del
guadagno, più totalizzante del potere, più
inebriante del sesso.
Socchiuse gli occhi per immergersi più profondamente nel
ricordo di
quella notte: gli sembrava di provare di nuovo ciascuna sensazione
con tutto il proprio essere. Riviveva tutto con la medesima
intensità: risentiva nelle narici l'odore della fredda
pietra umida
e della muffa, rivedeva la molle luce lunare che dalle alte finestre
proiettava liquide pozze d'argento sul pavimento, riudiva
l'echeggiare sonante dei suoi passi che rimbombavano tra le volte
ricurve...
A
Seel, amato
compagno di avventure, fino all'ultima ora fedele. Aveva
sostato a lungo di fronte alla lapide, percependola con tutti i
propri sensi, come ritrovando un amore perduto, quasi a saziare una
brama annosa. Per quanto tempo aveva desiderato trovarsi di nuovo
lì,
con una Spettrosonda tra le mani? Aveva assaporato quel momento
voluttuosamente, senza fretta, per goderne ogni singolo istante, ogni
minima sfumatura, dopo trent'anni che a quella notte erano stati
interamente devoluti.
Solo
dopo interminabili
minuti, quasi a malincuore, se ne era strappato. Aveva salito le
scale con passi lenti e misurati, gustando anche quel percorso con
piacere inimmaginabile, ma non senza scopo: quel giorno c'era stato
il funerale di un anziano Ninetales che era stato sepolto svariati
piani più sopra. Egli si era diretto alla sua tomba, certo
– per
chissà quale interiore, forse insensata convinzione
– che sarebbe
stato proprio quello il luogo dove più facilmente avrebbe
incontrato
gli Spettri.
La
lapide era nuova, lucida e bianca proprio come quella mattina di
tanti anni addietro egli aveva visto quella di Seel. Anche su quella
tomba Sakaki si era soffermato a lungo, pensierosamente: al funerale,
cui aveva assistito dal fondo della sala affollata, aveva intravisto
la famiglia a lutto. Eppure nessuno si era fermato a tenere compagnia
a quel povero Ninetales, tutti insensibilmente l'avevano abbandonato
subito dopo la cerimonia. Davvero quel povero ragazzo che egli stesso
un tempo era stato e che in quello stesso luogo, pochi piani
più
sotto, aveva per sempre cessato di esistere trent'anni prima, davvero
era stato lui l'unica persona in tutta la storia della Torre ad amare
così tanto un Pokémon defunto da volerlo
accompagnare fino alla
fine nel suo ultimo viaggio? Eppure Sakaki non era riuscito a
condannare la sua sciocchezza nel suo cuore, né vi riusciva
suo
malgrado ora, a distanza di mesi, mentre riviveva quell'avvenimento
nella propria mente.
Quella
notte aveva
atteso come supponeva di aver fatto in quella che l'aveva preceduta
di tanti anni, seduto sulla tomba con la schiena appoggiata alla
lapide; ma quella volta – e il suo cuore tutt'ora si riempiva
di
eccitazione e soddisfazione al solo ricordo – egli teneva
stretta
in mano, appoggiata contro il ginocchio reclinato, una lunga
Spettrosonda grigia...
Aveva
atteso attraverso
la notte senza fretta, coll'animo tutto pervaso da una straordinaria,
ineffabile pace. Non nutriva alcun dubbio che gli Spettri sarebbero
venuti: egli lo percepiva con sconcertante certezza nel proprio
animo.
E
in effetti, erano
arrivati.
Sakaki
li aveva
percepiti nel buio prima ancora di vederli o sentirli. Era rimasto
immobile, col respiro trattenuto, il cuore che palpitava nel petto e
il sangue che gli scorreva fremendo nei polsi, quasi appiattito
contro la dura lapide bianca di un defunto a lui sconosciuto; e poi,
quando a quelle presenza ch'egli soltanto avvertiva nel buio si erano
assommate le risate (ah!, quelle stridule risate sguaiate,
agghiaccianti! Quale ricordo fortissimo del primo suo minuto di vita!
Egli era rabbrividito e rabbrividiva tuttora al solo pensiero di
quelle risate che avevano echeggiato per anni lungo i suoi incubi)
ecco, allora egli era balzato in piedi e con calma voce profonda
aveva parlato rivolto all'oscurità.
«Eccomi,
sono
tornato.»
Tutto
era divenuto
silenzio, un silenzio nel quale le sue parole avevano cessato di
ripetersi nello spegnersi lento della propria eco. Allora, prima che
le presenze avessero avuto modo di fare alcunché, con un
unico gesto
egli aveva alzato la Spettrosonda e l'aveva avviata: un fiotto di
luce aveva folgorato la sala e Sakaki aveva visto di nuovo, ma da
vincitore!, quegli Spettri neri dalle orbite vuote che avevano avuto
ragione della sua mente.
«Qual
è il vostro
nome?»
Non
aveva saputo
trattenersi dal chiederlo, con foga selvaggia e un senso di
onnipotenza, con una risata forse più agghiacciante delle
loro,
mentre con un flebile ronzio la Spettrosonda terminava
l'identificazione e disperdeva l'energia usata dagli Spettri: e
allora, e allora... egli finalmente aveva visto, dopo una vita spesa
per quel solo attimo, i loro corpi!
E
in un solo, cruciale
istante egli aveva compreso a chi apparteneva la voce. I loro occhi
si erano incontrati per un istante, ma non occorreva di più.
Era un
Pokémon unico, diverso dagli altri: il suo corpo appariva
più
solido, di un viola scuro che era come fumo divenuto carne, i suoi
occhi erano malvage pozze rosse, e il suo ghigno bianco che si
allargava sulla sua faccia deforme...
No,
non era davvero
occorso di più. Sebbene questo non fosse stato previsto nel
suo
piano originale, egli aveva saputo all'istante cosa fare, e senza
soffermarsi a riflettere, senza rischiare di perdere quell'occasione
irripetibile, aveva afferrato una Ultraball e l'aveva gettata.
Forse
era stata una
follia, eppure ora, seduto di fronte alla Ultraball poggiata sulla
sua scrivania, Sakaki era certo di non aver vissuto per nient'altro
che per catturare quella creatura. Che curiosa fatalità: se
Jonathan
Silph non l'avesse tradito e non avesse fondato una sua propria
azienda con cui brevettare le sue ball...
La
sua mano accarezzò
la prigione del suo persecutore con un gesto che tradiva una
sorprendente dolcezza. Quando la Ultraball si era richiusa e aveva
smesso di vibrare, quella notte, tutti gli altri Spettri si erano
defilati tra alte strida di terrore, ma questo non aveva importanza:
Sakaki aveva catturato quella voce che era stata la prima che avesse
udito nella sua vita, l'entità che, con ogni
probabilità, gli aveva
sottratto la memoria...
Proprio
quell'entità era ora dinnanzi a lui, prigioniera per sempre
della
sua volontà. Non c'erano parole umane che potessero
descrivere
l'universo di sensazioni che quella consapevolezza cagionava in lui.
Le sue dita continuavano a percorrere senza sosta un loro enigmatico
percorso sulla superficie liscia di quella gabbia sferica, quasi con
amore, come a volerla baciare con la sola pelle dei polpastrelli.
Chissà quante ore aveva già trascorso ripetendo
quel gesto, che era
possesso e passione e mille altre emozioni...
«Signore,
il ragazzo
si sta avvicinando alle porte della Palestra. Che facciamo?»
Le
sue dita si
soffermarono sulla sfera lucida, ma egli non ne distolse lo sguardo.
Con un lento, riflessivo movimento, dopo svariati secondi, premette
il pulsante dell'interfono.
«Lasciatelo
entrare.»
Gettò
un rapido
sguardo al vecchio Persian, che dormiva sul tappeto ai suoi piedi, e
gli accarezzò il capo con un gesto consumato e fiacco, quasi
meccanico, ma ancora affettuoso, come in quelle vecchie coppie che
hanno trascorso assieme tutta la vita, e per cui ogni carezza non
è
che un riassunto di anni e anni di parole e di promesse e di
esperienze, che non vale la pena ripetere, ma che ogni tanto fa
piacere ricordarsi a vicenda.
Quel
ragazzino che gli
aveva strappato la Spettrosonda dalle mani aveva affrontato le sue
reclute all'ultimo piano della Torre Pokémon e aveva
liberato il
signor Fuji. Questo non gli dispiaceva: non aveva mai voluto
ucciderlo. Un bello spavento era tutto quanto egli meritasse, per la
sua vigliaccheria, nell'economia della sua vendetta.
Il
ragazzino gli aveva
strappato anche il controllo della Silph Spa. Questo gli dispiaceva
di più: quale magnifica occasione di guadagno, peraltro
legale,
sarebbe stata quell'azienda che aveva acquistato assai rapidamente un
incredibile monopolio economico sulla regione di Kanto e sulla
limitrofa Johto! Quella era l'unica vendetta che non era riuscito a
condurre fino in fondo, considerò oziosamente,
abbandonandosi contro
lo schienale della poltrona di pelle e congiungendo pensierosamente
la punta delle dita sotto il mento. Ma pazienza: non poteva davvero
ottenere tutto, sarebbe stato pretendere troppo per chiunque. Si
sarebbe accontentato del ricordo del piacere violento che aveva
provato nel prendere possesso con la forza della titanica,
pretenziosa sede di Zafferanopoli. Decisamente sarebbe stato un
piacevole ricordo da portare con sé quello del terrore che
aveva
visto radicarsi negli occhi di Jonathan Silph quando aveva fatto
irruzione, circondato da soldati armati, all'ultimo piano
dell'edificio dove il suo presidente si era rifugiato e, cedendo a un
certo gusto per la teatralità, gli aveva detto sorridendo:
«Grazie
per la Spettrosonda, Jonathan.»
Com'era
cambiato
Jonathan in quegli anni! Aveva stentato a riconoscere, in quell'uomo
di mezza età con gli occhiali di corno e gli ordinati
capelli già
brizzolati, il composto completo blu in tre pezzi, quel ragazzo
sciatto e spettinato con cui aveva trascorso tante sere fumando in
giardino... Eppure l'aveva ritrovato egualmente, da qualche parte in
fondo ai suoi occhi, e l'angoscia tremante della sua voce quando gli
aveva chiesto piangendo di non fare follie, di limitarsi a prendere
l'azienda (che sciocco! Davvero aveva pensato che si sarebbe
macchiato le mani col suo miserabile sangue di traditore?), l'aveva
ripagato di ciò che gli aveva fatto quel giorno a
Lavandonia. Certo,
sarebbe rimasto volentieri assai più a lungo a torturarlo
sadicamente nel suo ufficio, velatamente minacciandolo di morte e
strappandogli con perverso piacere suppliche e concessioni, preghiere
e proposte di riscatto... Ma tutte le cose belle devono finire,
dopotutto, e a quella aveva posto termine il ragazzino taciturno
dagli occhi scuri, che con pochissime vittorie su di lui aveva
mandato in fumo la sua vendetta su Jonathan Silph e, con la prossima
che era certo non essere lontana, il suo impero criminale.
Sì,
ora che la maggior
parte del suoi piani era stata sventata, Sakaki sapeva che era solo
questione di tempo prima che le prove a suo carico lo inchiodassero
definitivamente alle attività criminose di Team Rocket.
Anche questo
era accaduto a causa di quel piccolo allenatore, certo, eppure verso
di lui Sakaki non provava sentimenti di rancore o di rivalsa: nel
profondo del suo cuore, egli sentiva già da tempo che, ora
che la
Spettrosonda era stata creata e l'obiettivo della sua vita
realizzato, Team Rocket aveva esaurito tutta la sua funzione e la sua
ragion d'essere e che non c'era più alcun vero motivo di
proseguirne
l'attività. Non aveva fondato Team Rocket che in nome della
sua
vendetta e anche se, doveva riconoscerlo, vi erano state occasioni in
cui la brama di guadagno aveva preso il sopravvento su altri istinti
ed egli se ne era lasciato trascinare, l'arricchimento e la
criminalità non erano mai stati nella sua mente fini a se
stessi.
Guardò
l'orologio:
secondo i suoi calcoli, quel piccolo ragazzo taciturno non avrebbe
dovuto impiegare più di un'ora a percorrere la Palestra e
sconfiggere gli altri allenatori. Allora avrebbe finalmente scoperto
che era lui, Sakaki, a essere contemporaneamente il Capopalestra di
Smeraldopoli e il supremo boss del Team Rocket, tutti i pezzi del
puzzle sarebbero stati al loro posto... non aveva tempo da perdere,
decise prima di allungare la mano a premere il pulsante
dell'interfono.
«Sì,
signore?»
«Chiama
il Primo
Ministro. Ho un affare urgente da discutere con lui.»
«Subito,
signore.»
Molto
presto,
presumibilmente subito dopo la sfida che lo attendeva di lì
a pochi
minuti, sarebbe stato costretto a lasciare Kanto, se non voleva
restare ad assistere al crollo del Team Rocket e sprofondare assieme
a esso. Non che un'eventualità del genere lo cogliesse
impreparato,
ovviamente: aveva deciso già da tempo che se ne sarebbe
andato
presto, ma di certo non da solo.
Accarezzò
un'ultima
volta l'Ultraball sul tavolo e se la fece scivolare in tasca: a
nessun costo l'avrebbe abbandonata, non dopo tutto ciò che
aveva
fatto per ottenerla. Le sue dita vi indugiarono a lungo prima di
lasciarla, quasi a volerle ricordare l'eternità che ora li
aspettava
e che avrebbero affrontata insieme, in quanto mai più lo
Spettro
sarebbe stato libero e lontano da lui: i loro destini erano sempre
stati indissolubilmente legati, dopotutto.
La
sua segretaria gli
passò la videochiamata del Primo Ministro direttamente sullo
schermo
principale: Sakaki vi si rivolse sorridendo. Era l'ultimo tratto
ascendente della sua gloriosa parabola, l'ultimo atto del dramma
della sua vita. «Buonasera, Ministro. Come sta?»
Ascoltò
educatamente,
per svariati minuti, le sue lamentele sui vari membri del Governo e
sulle prossime elezioni, annuendo di tanto in tanto, aspettando con
consumata strategia politica il momento migliore per venire al punto,
sempre conservando un'espressione assorta e partecipe, pensierosa.
Finalmente, quando il Primo Ministro parve disposto ad ascoltarlo a
sua volta, congiunse nuovamente le punte delle dita sotto al mento,
come se avesse appena concluso una profonda riflessione, e cercando
di reprimere nella propria voce una vibrazione di compiacimento,
domandò: «Ha più ripensato a quella mia
proposta di costruire una
Torre Radio a Lavandonia, Ministro?»
Fine.
Questo
ultimo capitolo ha avuto una genesi un po' particolare. L'avevo
già
completato insieme a tutto il resto della storia durante la stesura
principale, ma era essenzialmente brevissimo, più un vero e
proprio
epilogo, e già così mi soddisfaceva molto; ma
durante una lezione,
mentre stavo pensando a come migliorarlo, si è quasi
riscritto da
solo: non era previsto che Sakaki tornasse nella Torre
Pokémon, né
che catturasse Gengar (perché è appunto lui lo
Spettro che cattura,
se non fosse chiaro, e che si trattasse di un Gengar era chiaro nella
mia mente già dalla stesura de La
Spettrosonda). Insomma, Sakaki in questo capitolo
ha fatto
praticamente tutto da solo.
Che
dire? Sono davvero grata a tutti anche solo per aver aperto le mie
storie e non posso che augurarmi, dal profondo del mio cuore, che
possano esservi piaciute anche solo un decimo di quanto a me
è
piaciuto scriverle.
Devo
ringraziare con tutto il mio affetto crystal_93, Mad_Dragon e Sky98
per aver recensito; in particolar modo, rinnovo il mio ringraziamento
a quest'ultimo per avermi suggerito la trama.
Un
abbraccio e un bacio a tutti!
Afaneia
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