Svyatilishche - Il Santuario

di Carlos Olivera
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2 ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


PROLOGO

 

 

Sasha Lokov aveva aspettato quel momento per tutta la vita.

Era andato contro tutto e tutti, e rinunciato ad ogni cosa, per poter essere lì.

La sua casa, i suoi genitori; persino la sua ragazza, troppo timorosa e spaventata per volerlo seguire. Molto presto avrebbe lasciato ogni cosa.

Anzi, in realtà aveva già abbandonato tutto, nell’istante in cui era salito sulla navetta che dalla base Alekova nel Kazakistan lo aveva portato insieme ad altri fin sulla stazione spaziale, da dove la nave coloniale avrebbe preso il volo alla volta di Celestis, la sua nuova patria.

Il suo essere uno stregone aveva reso più facile la selezione, anche se per riuscire ad aumentare le sue possibilità di venire scelto si era visto costretto ad entrare nella MAB; era stato quello ad allontanarlo in maniera definitiva dai genitori, che di contro lo avrebbero sempre voluto vedere nell’esercito nazionale russo, come buona parte dei suoi antenati.

E in effetti, se non fosse stato per la voglia smisurata di far parte di quella spedizione, probabilmente sarebbe stata quella la sua strada, ma i posti disponibili per i militari erano molto pochi, e per buona parte prenotati. Di contro la cronica penuria di maghi nei Paesi di influenza russa e i molti posti riservati ai membri dell’Agenzia, tra l’essere uno stregone ed il fare parte della MAB l’ammissione era risultata molto più facile, praticamente una formalità.

Ora, era quasi tutto pronto.

La Chelokev non era l’Aurora, ma imbarcava quasi novecentomila persone, racchiuse in piccoli hangar da dodici posti ognuno raggruppati l’uno all’altro a formare una specie di gigantesco Cubo di Rubik nella pancia della nave; al momento dell’arrivo, e del successivo distacco dalla nave madre, ognuno di quegli scomparti si sarebbe tramutato in una unità abitativa autonoma, con un proprio sistema vitale e del tutto autosufficiente sia dal punto di vista energetico che da quello del sostentamento vitale dei suoi occupanti.

Sasha era stato assegnato al’Unità Y-2801, una delle più esterne dell’immenso blocco, subito sopra il ventre della nave, e dei suoi dodici compagni era l’unico dotato di poteri magici, tanto che, malgrado la giovane età, era stato nominato caposquadra. Nelle sue mani, fino al ripristino di una nuova istituzione democratica una volta instaurata una colonia fiorente, avrebbe tenuto il destino di quel ristretto gruppo di persone.

I Torkov, una famiglia di quattro persone originaria di Pietroburgo, erano l’unità più numerosa; poi c’erano i coniugi Batchenko, di Baku, Selim e Ludvika, lui azero musulmano lei russa ortodossa, neosposi alla ricerca di una molto speciale luna di miele e di un altrettanto speciale ed unico futuro su di un nuovo pianeta. Gli altri erano tutti piuttosto anonimi, eccezion fatta per il polacco Komski, un ingegnere informatico, e l’azero Savriv, un oligarca la cui famiglia aveva fatto i soldi con le centrali estrattive e che si era conquistato quel posto a forza di generosi finanziamenti al progetto.

Ormai la partenza era prossima.

Le operazioni di imbarco erano in corso già da diverse ore, e da poco era arrivata la notizia che l’Aurora, la sola delle tre navi coloniali a partire direttamente dalla superficie, era quasi pronta per il lancio, cui avrebbe fatto seguito anche quello delle sue due navi gemelle.

Sasha chiamò attorno a sé gli altri occupanti del blocco, scrutandoli uno ad uno con lo sguardo.

Indietro non si poteva più tornare, e lo sapevano molto bene.

Avevano scelto di fare il salto nel buio, e indietro non si poteva più tornare.

Se non altro, non si sarebbero accorti di nulla; le loro capsule criogeniche li avrebbero mantenuti in ibernazione per tutti gli oltre cento anni di viaggio necessari a raggiungere Celestis, dando loro la sensazione, al netto delle simulazioni e dei molti test già sostenuti, di chiudere gli occhi giusto per qualche secondo, il tempo di metabolizzare ciò che stava succedendo un attimo prima di addormentarsi e risvegliarsi.

«Lo so che siete preoccupati» disse sforzandosi di entrare il più possibile nel suo ruolo di leader. «Ma abbiamo preso tutti una decisione, e presto ne raccoglieremo i frutti.

Ci aspetta un nuovo molto, e per quanto vi sia stato detto, ci sia stato detto già molte volte, a scanso di equivoci voglio ricordarvelo ancora. Non sarà una passeggiata quella che ci aspetta. La civiltà non sarà lì ad attenderci, ma ce la dovremo costruire un pezzo alla volta.

È per questo che stiamo andando laggiù. Per dare vita ad un nuovo mondo. Con le nostre mani» quindi rivolse uno sguardo ai due figli maschi dei Torkov, due gemelli di undici anni dai cui occhi traspariva una grande emozione ma anche molta, moltissima paura. «E se il cielo lo vorrà, e ne saremo capaci, daremo vita ad un mondo così grande, prospero e pacifico da non far rimpiangere quello che abbiamo scelto di lasciare.»

A quelle parole tutti, benché nervosi, parvero tranquillizzarsi, e scambiatisi tra di loro un ultimo saluto entrarono ognuno nella propria capsula, sforzandosi di rimanere immobili mentre i portelli si chiudevano e le apparecchiature per il sostentamento vitale, non senza un certo fastidio, venivano collegate al corpo dal computer.

L’altoparlante montato all’interno di ogni scomparto comunicò che il distacco dalla stazione era imminente, scandendo il countdown per la somministrazione delle sostanze ibernanti all’interno del corpo, e Sasha ebbe appena il tempo di augurare un felice ritrovarsi a Celestis un attimo prima che la stanchezza avesse la meglio su di lui, costringendolo a chiudere gli occhi.

Dentro di sé, il giovane aveva sempre sognato il momento in cui li avrebbe riaperti, a viaggio concluso, immaginando con il suo ultimo pensiero di sentire quella stessa voce che annunciava l’agognato arrivo nella loro nuova casa.

Invece, il suono che ridestò violentemente Sasha dopo quello che, a dare detta alle sensazioni, era stato nulla più che un breve attimo di smarrimento, fu il suono incessante di una sirena, unito ad una terribile sensazione di oppressione che lo schiacciava senza speranza contro il fondo della capsula.

 

Dieci Anni Dopo

 

Travolto dalla più spaventosa tormenta di neve, vento e ghiaccio che si fosse mai vista, l’elicottero da trasporto sorvolava non senza difficoltà la sterminata distesa artica che come una linea invalicabile di alte montagne, interminabili ghiacciai e steppe congelate tagliava letteralmente in due il continente di Erthea, come era stato ribattezzato dai coloni a memoria di quella patria natia che da oltre un secolo avevano abbandonato.

Celestis era un mondo indubbiamente bellissimo, ma dove le forze della natura potevano arrivare alle loro manifestazioni più cruente ed estreme, dalle blitzstorm dell’oceano occidentale alle tempeste ghiacciate della catena del Volkof, alcune delle quali infinitamente più spaventose di quella che il velivolo stava ora faticosamente attraversando, con temperature che potevano raggiungere gli ottanta gradi sotto lo zero in pieno giorno e uragani nevosi talmente intensi da oscurare completamente la vista.

In cabina di comando, il pilota ed il suo secondo per orientarsi potevano fare affidamento unicamente sulla strumentazione di bordo, poiché neppure i potenti fari dell’elicottero riuscivano ad illuminare più in là della fusoliera, tale era la potenza e l’intensità della tormenta che si stava scatenando tutto attorno a loro.

«Hind03 a Comando Missione» disse alla radio il copilota. «Mi sentite, Volgorad

«Vi sentiamo, Hind03. La trasmissione è molto disturbata. Qual è lo status della missione?»

«Abbiamo lasciato da poco l’insediamento di Lubiana, e in questo momento stiamo sorvolando le Volkof.

O almeno, è quello che ci dicono gli strumenti. La tempesta in mezzo a cui stiamo volando ci impedisce persino di scorgere la linea delle montagne, passo.»

«Ricevuto, Hind03. Continuate con la missione. Il controllo meteorologico prevede che la tempesta è concentrata sulla parte centrale della cordigliera. Attraversatela e vedrete apparire di nuovo le verdi pianure di Erthea

«Allora vi porteremo un mazzo di fiori» sorrise l’operatore. «Hind03, passo e chiudo.»

Nel mentre, nell’area sedili, il dottor Kodrov sedeva in disparte, insensibile a differenza dei suoi quattro colleghi ai continui scossoni e movimenti improvvisi che facevano oscillare e tremare continuamente il mezzo, preoccupato solo di tenersi ben stretta la scatola metallica che aveva con sé; la stringeva come fosse stata un tesoro prezioso, lasciando scivolare di tanto in tanto la punta dell’indice lungo la scanalatura lunga e stretta del lettore di schede che fungeva da serratura, guardando continuamente ora l’orologio ora l’inferno bianco che si stagliava oltre l’oblò.

Tutti là dentro conoscevano bene l’importanza della missione, e del contenuto di quella scatola.

Il destino di milioni di persone, per non dire il futuro stesso dell’umanità che a Celestis aveva trovato una nuova casa, era nelle loro mani.

L’incarico da portare a termine era talmente vitale che, con il benestare dell’Agenzia e delle autorità di Volgorad, si era deciso di procedere con la missione nonostante l’allerta meteorologica per possibili tempeste nella zona dei Volkof, che puntualmente si erano verificate, ma questo, continuava a ripetersi il dottore, non avrebbe impedito a quella scatola di raggiungere Kyrador.

Il pilota ed il copilota facevano del loro meglio per tentare di mantenere stabile l’elicottero, ma neppure la più violenta delle tempeste terrestri era paragonabile a ciò che stavano attraversando in quel momento, ma per fortuna le nuove mappe satellitari si stavano rivelando incredibilmente accurate, abbastanza da permettere al pilota automatico che lavorava in parallelo con gli operatori umani di fare agilmente lo slalom tra le vette fino a ritrovarsi, ad un certo punto, a volare in una zona apparentemente priva di rilievi, come immersi all’interno di un sudario senza fine.

«Meno male, ero stufo di fare lo slalom» sorrise il pilota

Il suo secondo rispose con la medesima espressione, ma dopo poco un trillare della strumentazione catturò i suoi pensieri.

«Che succede?»

«Sto rilevando qualcosa.»

«Di che si tratta?»

«Si direbbe una fonte di energia. Qualunque cosa sia, è dritta davanti a noi. Aspetti, ora controllo.»

L’analisi, però, non risultò chiarificatrice, poiché la risposta risultò alquanto vaga.

«Il computer la classifica come campo magico.»

«Forse è una emanazione naturale. Non sarebbe la prima volta.»

«Però qui la classifica come artificiale.»

«Non capisco, non abbiamo antenne o ripetitori in quest’area, e tanto meno qualche centrale estrattiva.»

Poi, la situazione cambiò drammaticamente.

All’improvviso una specie di onda d’urto investì l’elicottero, sollevandolo violentemente di alcuni metri, e subito dopo i due piloti videro tutta la strumentazione andare in tilt, a cominciare dal pilota automatico.

«Ma che diavolo succede?» strillò il capitano afferrando la cloche

«Non lo so, il sistema elettronico è andato in tilt!» ribatté terrorizzato il suo vice cercando inutilmente di riavviarlo.

Il pilota tentò faticosamente di riacquistare il controllo del velivolo, ma le correnti e il vento erano talmente forti che l’elicottero oscillava in tutte le direzioni sballottato qua e là dalla tormenta.

«Maledizione, non riesco a tenerlo!»

Il copilota allora si attaccò alla radio, sperando che fosse ancora operativa.

«Mayday! Mayday! Hind03 a base! Siamo in avaria! Tutta la strumentazione fuori uso! Condizioni meteo proibitive! Non riusciamo a gestire il velivolo!»

Ma il peggio doveva ancora venire.

Come un cancro che divora un corpo al sopraggiungere di una seconda, violenta onda d’urto il danno, dai sistemi elettronici, si diffuse rapidamente anche a parte di quelli analogici, e quelle poche funzionalità ancora operative, a cominciare dal pilotaggio manuale, iniziarono a loro volta ad andare in avaria.

«Niente da fare, andiamo giù!»

«A tutto l’equipaggio, prepararsi per atterraggio di emergenza!» esclamò via altoparlante il copilota prima di spingere tutte le levette di una consolle davanti a lui. «Sistemi di sopravvivenza e anti-collisione attivati!»

Quando anche le pale ed il rotore si furono fermati l’ultima speranza per evitare la tragedia, oltre al lancio della radio-boa aerea di segnalazione, fu per il capitano lo spezzarsi le braccia facendo forza sulla cloche per cercare si portare l’elicottero quanto il più possibile a livello orizzontale.

Se non altro, intorno non si vedevano montagne, e per interminabili istanti il velivolo seguito a precipitare verso il basso a velocità sempre maggiore, fino a che il faro di posizione, miracolosamente ancora attivo, non giunse da un momento all’altro ad illuminare per un istante la superficie.

Sembrava un ghiacciaio. Il pilota ed il copilota ebbero appena il tempo di vederlo, poi tutto cessò in un assordante rumore di metallo accartocciato.

 

 

Nota dell’Autore

Salve a tutti!^_^

Eccomi con una nuova storia.

Non la chiamo ancora “breve” perché in realtà non ho la minima idea di quanto lunga potrebbe diventare, ma in ogni caso non credo arriverà al livello di “Megonia”.

Questo nuovo racconto, ambientato ad Eyban nel momento immediatamente successivo all’arrivo dei primi coloni, serve a raccontare un altro avvenimento di grande importanza nella storia di Celestis, ma la cui reale portata in realtà diventerà evidente solo in un secondo tempo rispetto agli eventi che si stanno attualmente dipanando nella storia principale.

A presto con il primo capitolo!^_^

Carlos Olivera

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Capitolo 2
*** Capitolo 1 ***


1

 

 

L’avventura su Celestis dei coloni della Chelokev non era incominciata nel migliore dei modi.

Nessuno avrebbe mai immaginato che la frequenza d’onda prodotta dalla magia che scaturiva dal pianeta fosse diversa da quella prodotta sulla Terra.

Pertanto, nel momento in cui la nave era entrata nell’orbita del pianeta, tutti gli strumenti erano come impazziti, e la Chelokev si era vista costretta ad un atterraggio di emergenza; dramma nel dramma, durante la discesa quasi la metà dei nuclei di contenimento dove era alloggiata la maggior parte dei coloni si erano distaccati proprio a causa dell’avaria dei sistemi, disseminandosi lungo un’area sterminata che andava dalle pendici dei monti Volkof fino alle isole settentrionali.

Erano occorsi molti anni per riuscire a raggruppare tutti i superstiti, e le perdite, purtroppo, erano state nell’ordine di alcune migliaia di persone, uccise già all’atto dell’atterraggio o dalle condizioni climatiche altamente proibitive che caratterizzavano alcune aree nel nord di Erthea.

Solo quando si era riusciti a riadattare le strumentazioni era stato possibile iniziare una vera opera di raggruppamento, che grazie alla natura “mobile” dei vari nuclei aveva permesso a molti di questi ultimi di riunirsi in tre grandi agglomerati che nel tempo si erano tramutati in veri e propri insediamenti permanenti: Soloveznik, sull’Isola di Nicola II, Lybova, nel sud, e la grande Volgorad, sulle sponde del Fiordo di Pietro, una gigantesca spaccatura che proiettava il mare del nord fin nel cuore del continente dividendosi in due lunghi rami: uno seguiva la costa verso ovest dando vita ad una larga penisola e l’altro, proseguendo a sud, arrivava fin quasi a lambire la cordigliera dei Volkof.

Altri centri più o meno grandi erano disseminati qua e là per mezzo continente, e lo stesso valeva per coloro che non ce l’avevano fatta; i nuclei periti assieme ai loro occupanti erano stati trovati un po’ dappertutto: conficcati tra le rocce, persi in steppe congelate, persino in fondo all’oceano.

Delle migliaia di unità scomparse o precipitate, a dieci anni distanza solo cinque non erano ancora state ritrovate; A-1498, B-301, E-985, N-163 ed Y-2801. Per questo alla nazione era stato dato, temporaneamente si diceva, il nome di Eyban; per ricordare coloro che non ce l’avevano fatta, ma che anche, salvo qualche evento fortuito, non avrebbero potuto godere almeno di una degna sepoltura.

Dal canto suo, il Capitano Anya Polikovka non sapeva se essere fiera o avvilita per il destino che l’aveva condotta fin lì.

Lei non aveva scelto di partire, le era stato ordinato.

L’alto comando di Mosca, al momento della partenza, aveva insistito per affiancare ai membri dell’Agenzia anche una squadra di Spetsnaz, capace in condizioni di necessità di rappresentare una valida difesa sia a sostegno dei civili, quanto, soprattutto, delle autorità appositamente nominate per guidare la nuova nazione, diventando l’ossatura di una nuova forza militare.

Anya e i suoi undici compagni erano stati addestrati fin dall’ingresso in accademia a svolgere il ruolo che era stato scelto per loro, sopportando un addestramento estremo e spesso brutale, ma che aveva fatto di loro degli uomini e dei soldati di qualità superiore.

Il loro apporto era stato vitale per salvare innumerevoli vite all’indomani di quello sventurato atterraggio, ma, tra una missione e l’altra, in dieci anni la squadra si era più che dimezzata, e non c’era speranza di veder comparire nel breve periodo altre unità militari degne di questo nome.

Ogni tanto la giovane donna ripensava alla sua casa, vicino a Pietroburgo, a quei parenti che ormai erano morti e sepolti da un pezzo, e più in generale a quella vita che aveva lasciato sulla Terra, ripetendo a sé stessa che accettare quel nuovo mondo era l’unico modo per andare avanti.

Quel pomeriggio Anya, assieme ad alcuni dei suoi uomini, stava aiutando gli altri coloni nella costruzione di quella che sarebbe dovuta diventare la prima scuola di Volgorad, quando venne chiamata nell’ufficio del Presidente Rachenko, verso cui si avviò dopo essersi data una rinfrescata per apparire almeno presentabile.

Attorno a lei, un poco per volta, Volgorad stava crescendo. I nuclei abitativi stavano lasciando il posto ai primi edifici in muratura e legno, soprattutto case, ed alcuni edifici, come il palazzo presidenziale sulla collina che sovrastava il centro abitato e la sede provvisoria dell’Agenzia, erano già in fase di completamento, e sarebbero stati inaugurati entro l’anno.

Tuttavia, così come era evidente il tentativo della comunità di tornare quanto prima a condurre uno stile di vita simile a quello che avevano conosciuto prima della partenza, allo stesso modo era altresì vero che ciò si stava rivelando di giorno in giorno sempre più difficile.

Del resto nessuno avrebbe mai potuto prevedere che la magia prodotta da Celestis, e attorno a cui ruotavano tutto il sapere scientifico e la tecnologia umane, fosse così diversa da quella della Terra.

La magia era un po’ come un’onda radio: correva su diverse frequenze d’onda, ma già all’atto di preparare la missione colonizzatrice tutti, a cominciare dagli scienziati, avevano dato erroneamente per scontato che la frequenza di Celestis fosse la stessa della Terra.

A ciò si doveva il fatto che tutte e tre le navi colonizzatrici, nel momento di entrare nell’atmosfera, fossero andate in tilt, e per lo stesso motivo tutte le apparecchiature che i coloni avevano portato dalla Terra per l’assorbimento e lo sfruttamento dell’energia si erano rivelate, in un primo momento, del tutto inutili.

Per fortuna c’erano i generatori, uno per ogni nucleo, senza contare quelli mobili o in dotazione alle navi coloniali, ma l’energia al loro interno era limitata, e a distanza di dieci anni andava pericolosamente esaurendosi.

Se non altro, con il tempo, gli scienziati erano riusciti a individuare la giusta frequenza d’onda per lo sfruttamento del potere di Celestis, ma sarebbero serviti di sicuro ancora parecchi mesi per ricalibrare tutta la strumentazione e portarla a piena efficienza, con il risultato che gran parte della tecnologia, a cominciare da quella che avrebbe dovuto funzionare in maniera autonoma e distaccata dalla rete, risultava ancora quasi inutilizzabile.

In questa situazione così drammatica, però, una luce aveva rischiarato le speranze dei coloni; una luce azzurra e scintillante, prodotta da un minerale sconosciuto sulla Terra, ma che abbondava su Celestis, e che ancor più dell’argento o del silicio aveva rivelato una sorprendente capacità di assorbimento e risonanza con il potere magico del pianeta.

Lo avevano chiamato krylium, e secondo i più era dagli studi sul suo utilizzo che sarebbero venute le risposte in grado di assicurare ai coloni un nuovo futuro di progresso e prosperità, ma a quasi cinque anni dalla scoperta dei primi giacimenti non si era ancora riusciti a trovare il modo di sfruttare veramente le sue enormi capacità.

Raggiunto il palazzotto, e come fu certa di avere un aspetto decoroso, Anya si fece introdurre alla presenza del Presidente, trovandolo seduto al tavolo del salotto assieme al Direttore Galinin e al capo delle forze armate Generale Felikov. Erano tutti e tre scuri in volto, e come il Capitano fu entrato nello studio, mettendosi sull’attenti, mandarono subito fuori l’attendente che l’aveva accompagnata.

«Riposo, Capitano.» le disse Felikov. «Abbiamo un nuovo incarico per lei e la sua squadra.»

Anya era stata addestrata a non far trasparire emozioni, ma il suo diretto superiore riuscì a scorgere chiaramente un moto di disappunto nel suo inarcare gli occhi e stringere un po’ più forte i pugni dietro la schiena.

«Sono pronta ad eseguire i suoi ordini, Signore.»

I tre si consultarono un momento con lo sguardo, quindi il Presidente prese la parola.

«Sei ore fa abbiamo perso i contatti con uno dei nostri elicotteri, l’Hind03.»

«Un incidente?»

«Non lo sappiamo» rispose Felikov, che presa una mappa dalla libreria la srotolò sul tavolo. «Abbiamo individuato il segnale emesso dalla radioboa di emergenza. Si trova qui, del centro della cordigliera dei Volkof. Riteniamo possa trattarsi di un lago ghiacciato, probabilmente di origine vulcanica.»

«L’Hind era diretto a Kyrador» spiegò il presidente. «E ha dovuto virare in questa direzione per evitare il punto più intenso di una violenta perturbazione che già alcuni giorni imperversa nell’area» quindi il Generale porse ad Anya una foto che teneva nel taschino. «A bordo dell’elicottero c’era questa.»

La donna la prese e la guardò: raffigurava una specie di piccolo cilindro di vetro, probabilmente lungo una decina di centimetri, con manicotti metallici alle due estremità e una strana sostanza azzurro brillante racchiusa al suo interno.

«Che cos’è, se posso chiedere?»

«È una batteria» rispose il Direttore Galinin. «La prima batteria al krylium

Ancora una volta, Anya faticò a nascondere la propria emozione.

«Lei capisce quali siano le potenzialità di questo oggetto» proseguì Rachenko. «Grazie a questa batteria potremmo riuscire a dare energia ad un numero incalcolabile di apparecchiature e strumenti che fino ad oggi hanno funzionato a regime ridotto: veicoli, strumentazioni mobili, apparecchiature. Potremmo persino sostituirle ai generatori.»

Anya non era nella posizione di poter fare troppe domande o manifestare le proprie perplessità, ma dal suo sguardo Felikov dedusse quali dovessero essere i suoi pensieri.

«Se si sta domandando per quale motivo un oggetto tanto importante sia finito nel bel mezzo delle montagne di Volkof, le rispondo subito. La batteria è incompleta. Siamo riusciti a realizzare un dispositivo capace di immagazzinare il potere magico di questo pianeta per mezzo del krylium, ma non siamo stati in grado di rendere sfruttabile l’energia così immagazzinata. A Kyrador però hanno risolto il problema; la batteria doveva essere portata laggiù per venire completata e testata.»

«Non si può costruirne un’altra?»

«No» rispose seccamente Galinin. «Per due ragioni. La prima è che l’equipe di scienziati che l’ha sviluppata era per buona parte a bordo dell’elicottero assieme al prototipo. La seconda, per costruirne un’altra ci vorrebbe tempo. Tempo che non abbiamo.»

«Per svolgere questa missione abbiamo sacrificato uno dei nostri ultimi elicotteri» disse Rachenko. «Non possiamo, ribadisco, non possiamo permetterci di perdere quel prototipo.»

«Il Presidente ha ragione» intervenne di nuovo Felikov. «La stagione fredda è alle porte, e i generatori che abbiamo portato dalla Terra sono ormai quasi tutti esauriti. Senza quella batteria la nostra gente finirà congelata nell’inverno artico che sta per arrivare. Questo senza contare che l’impossibilità di poter fare affidamento su di una fonte di energia sicura e trasportabile ci sta costando la nostra opera di colonizzazione di questo mondo.»

«Con il dovuto rispetto Signore, non dovrebbe essere complicato inviare un altro elicottero sul posto e recuperare il carico.»

«Impossibile, Capitano. Non conosciamo la posizione esatta dello schianto. Potrebbe essere ovunque in un raggio di tre miglia dalla posizione della radioboa. Avevamo dieci elicotteri al nostro arrivo, ora ce ne resta solo uno, con energia appena sufficiente per compiere un viaggio completo da Volgorad a Kyrador. Non possiamo mandarlo a cercare a casaccio su e giù per tutta la cordigliera dei Volkof

«E allora, Signore, come faremo a raggiungere il posto?»

«Ci stavo giusto arrivando. Siamo riusciti a far funzionare un piccolo aereo da ricognizione spento da tempo, dandogli carica sufficiente per arrivare fin laggiù.

Piloterete fino al luogo dello schianto, quindi vi paracaduterete in loco e proseguirete le ricerche a piedi. Una volta che avrete trovato il carico ed eventuali superstiti dovrete solo trasmetterci le coordinate, e noi invieremo l’ultimo hind a recuperarvi.»

«E se il carico è andato perduto?»

«La batteria è contenuta all’interno di uno speciale involucro protettivo, a sua volta dotato di radiolocalizzatore» spiegò Galinin. «Dal momento dello schianto non ha mai smesso di trasmettere, e la sua attuale posizione non dista molto da quella della radioboa. Probabilmente si trova ancora in mezzo ai rottami.»

A prima vista non sembrava una missione troppo impegnativa: nulla di più difficile di quello che lei e i suoi uomini avevano già passato negli ultimi dieci anni.

«Ha i suoi ordini, Capitano. Li esegua. La missione parte fra un’ora.»

«Sissignore!».

 

Dimitri era l’unico membro della squadra che avesse conosciuto Anya già da prima di entrare a far parte del corso intensivo per l’ingresso nelle Forze Speciali.

Probabilmente era per questo che il Capitano lo aveva scelto come suo secondo; si fidava del suo giudizio e del suo senso di responsabilità, ma anche della mira eccezionale e delle doti di combattente.

Avevano cominciato assieme nella stessa scuola militare, e assieme avevano superato con le unghie e con i denti quell’addestramento disumano; sempre insieme erano sopravvissuti a prove di ogni genere, assistendo, spesso senza poter far niente, alla morte dei loro compagni.

Per tutti questi motivi, era l’unico membro della squadra che sentiva di poter dire di conoscere veramente il suo comandante, e nel momento in cui gli avevano riferito della convocazione presso il palazzo presidenzale sapeva benissimo dove l’avrebbe potuta rincontrare.

E infatti la trovò lì, su quella roccia a proboscide protesa sull’acqua, a qualche centinaio di metri dal centro abitato, gli occhi persi verso le montagne che si intravedevano all’orizzonte, dall’altro capo del fiordo, e che nei giorni luminosi sembravano così vicine da poterle toccare.

«Una nuova missione?» le domandò sedendosi accanto a lei.

«Sulla cordigliera Volkof. Non chiedermi altro.»

«Come desideri.»

Dimitri non metteva in dubbio le qualità di comando di Anya, ma aveva come la sensazione che il suo grado attuale le fosse stato assegnato solo in ragione del suo essere stata, fin dai suoi primi giorni sulla Terra, una delle poche reclute dotata di poteri magici, e di certo una delle più promettenti che le forze speciali avessero mai avuto.

«Nicholai. Iuliana. Marko. Abbiamo perso molti dei nostri compagni in questi dieci anni. Quanti altri ne dovranno morire prima che questa sottospecie di colonizzazione possa davvero portare a qualcosa?»

«Ha già portato a qualcosa, Anya. Noi siamo qui. Siamo vivi. Ci siamo imbarcati in un viaggio che nessuno nella storia aveva mai neanche immaginato, abbiamo raggiunto un nuovo pianeta, siamo riusciti a sopravvivere alle prove che ci ha imposto.»

«Sì, ma a quale prezzo?»

Non era un caso, in fin dei conti, se la loro nazione si chiamava Eyban. Da una parte quel nome voleva essere un omaggio a coloro che non ce l’avevano fatta, o almeno ad alcuni di essi, ma dall’altra, per come la vedeva lei, serviva anche e soprattutto a ricordare come quel sogno di una nuova vita tra le stelle che aveva accomunato la grande maggioranza di coloro che si erano imbarcati per Celestis non fosse solo rose e fiori, come i più probabilmente si erano illusi.

Anche a Caldesia e Amaltea le cose non stavano andando troppo bene, malgrado potessero vantare un clima e, più in generale, condizioni di vita assai meno proibitive rispetto alla fredda Volgorad, a dimostrazione che, nonostante tutti i calcoli, i corsi di formazione e le esercitazioni condotte sulla Terra Celestis si stava rivelando un mondo duro, e forse persino ostile.

Anya ripensò per un attimo a quello che aveva appena sentito, e ai rischi legati a un fallimento della missione che stavano per andare a compiere.

Dimitri non era il solo; molti altri, nonostante tutto, continuavano a credere nelle speranze e nei sogni con cui avevano messo piede su quel pianeta, e forse anche lei un po’ riusciva ancora a crederci.

Per questo motivo, non potevano permettersi di fallire.

Grazie al cielo, una volta tanto, non sembrava destinata a essere una missione troppo complicata.

 

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Capitolo 3
*** Capitolo 2 ***


2

 

 

Anche se il grosso della tempesta si era placato, le nuvole basse e il nevischio che cadeva senza sosta rendevano il sorvolo della cordigliera del Volkof alquanto problematica, anche se era nulla al pensiero di dover procedere per un tratto a piedi in quell’inferno gelato.

Quel piccolo aereo da esplorazione era stato ricaricato giusto il necessario per arrivare nei pressi del cratere dove doveva essere precipitato l’elicottero, ma per il restante tragitto sarebbe stato necessario che i cinque soldati si affidassero solo alle proprie gambe, senza contare che date le condizioni il lancio coi paracadute avrebbe potuto portarli ovunque.

Ujal, il tiratore scelto della squadra, si trovava a proprio agio in un ambiente simile; era nato e cresciuto in Siberia, al confine con la Mongolia, come testimoniavano il viso rotondo, gli occhi a mandorla e quei baffetti alla cinese, e era capace di rimanere un giorno intero mezzo sommerso nella neve senza battere ciglio. Maria e Nikita, due fratelli, provenivano invece dalla ex repubblica autonoma della Cecenia, e fin dalla nascita non avevano mai conosciuto altro che guerra; lei, amazzone alta e slanciata con capelli rosso fuoco, avrebbe potuto arrivare alle spalle di un presidente e sgozzarlo senza essere vista. Lui, possente di fisico e dal mento squadrato, aveva un passato come pilota di carri, quindi conosceva bene i rischi e le difficoltà dell’operare in prima linea, e trattava fucili d’assalto e altre armi come estensioni del proprio corpo.

Anche Dimitri non se la cavava male con le armi, e lo stesso si poteva dire di Anya, che essendo l’unica maga della squadra aveva come compito principale il provvedere al supporto dei suoi compagni, oltre a dar manforte in caso di necessità con i suoi potenti incantesimi offensivi.

«Allora, che hai per me?» domandò Anya a Nikita, che faceva anche da armiere della squadra.

«Ti presento il nuovo bastone magico RK-159 Lyprof» rispose lui prendendo dalla sua custodia una lunga asta metallica con una punta d’acciaio a una estremità e due denti di uguale grandezza all’altra, che racchiudevano una sfera blu, levigata e luminosa. «Il primo bastone al krylium della storia. Cinquecento rune di puro potere magico; titanio rinforzato e lamina d’argento; pesa un chilo e trecento grammi. Manico allungabile, sincronizzazione di fase, barriera difensiva di emergenza strumento-operatore, autonomia stimata dodici ore, e altre cosette del genere.»

Ad Anya bastò afferrarlo per sentire il proprio core vibrare di energia, mentre la sfera blu scintillava per un attimo con ulteriore forza.

«È magnifico.»

«Dieci minuti all’obiettivo!» avvisò Dimitri affacciandosi dalla cabina. «I signori passeggeri sono pregati di prepararsi.»

Tutti i membri della squadra si alzarono, controllando un’ultima volta i dispositivi di caduta delle loro tute da combattimento, piccoli gioielli leggeri e aderenti ma estremamente resistenti, dotate inoltre di un gran numero di funzioni per ogni possibile evenienza.

Anya raggiunse il compagno, trovandolo intento a impostare il pilota automatico per completare l’ultima parte del tragitto.

«Non ho ancora capito perché dobbiamo lanciarci da così lontano.» mugugnò Dimitri.

«Pare che un attimo prima di perdere i contatti, l’Hind03 abbia segnalato una qualche anomalia nella zona in cui poi sarebbe precipitato. Al comando non vogliono correre rischi. Ci lanceremo a tre miglia dal punto dell’impatto e proseguiremo a piedi.»

«Tre miglia di marcia su una montagna con questo schifo di tempo? Hanno davvero molta fiducia in noi.»

«Non sarà più difficile di quella volta in Mongolia, dico bene?» gli fece l’occhiolino lei. «O forse stai diventando vecchio?»

«Dici così perché sai che non posso ribattere, vero?» rispose lui allo stesso modo. «D’accordo, facciamo questa cosa e andiamocene a folleggiare a Kyrador. Mi serviva proprio qualche giorno di licenza.»

Come entrambi fecero ritorno in coda, Ujal azionò l’apertura d’emergenza e il portello, già sottoposto a una notevole pressione, si spalancò, sbattendo violentemente contro la superficie esterna dell’aereo.

«Bene angioletti, si vola!» dichiarò Dimitri lanciandosi per primo, seguito a ruota da tutti gli altri.

I razzi deceleranti si azionarono subito, contrastando il forte vento che minacciava di scagliare i cinque contro qualche parete rocciosa, e in meno di un minuto Anya e la sua squadra erano già a terra, nel cuore di una stretta vallata incuneata tra le vette.

Il freddo era a dir poco pungente, ma nulla di impossibile per le tute termine ad alto isolamento e i caschi protettivi. Anche le armi erano impostate e pensate per resistere alle basse temperature, anche se in verità nessuno del gruppo riusciva a comprendere bene il motivo per cui era stato necessario portarsi dietro un tale armamento per quella che, teoricamente, doveva essere solo una missione di recupero e salvataggio.

Ma non c’era tempo per farsi domande, né era parte del loro lavoro; erano soldati, e dovevano obbedire.

Dimitri controllò le coordinate sul computer da polso. Il segnale emesso dal contenitore della batteria non era molto affidabile, come precisato dagli alti comandi, e a meno di non essergli molto vicino la lettura poteva risultare molto vaga e approssimativa; diversamente, la radio-boa era progettata per essere assai più precisa.

«Siamo a tre miglia e mezzo dall’obiettivo, direzione sud-est.»

«D’accordo, mettiamoci in movimento» ordinò Anya. «Voglio andarmene da qui prima di notte.»

La neve alta rendeva difficile camminare, ma anche a questo serviva l’addestramento, inoltre le temperature gelide avevano in parte congelato lo strato più esterno.

Alla neve per fortuna si sostituì ben presto la superficie dura di un ghiacciaio, sul quale le suole a presa energetica svolgevano egregiamente il loro dovere; ovunque era un susseguirsi di crepacci, precipizi e falsi sentieri, ma nulla di più proibitivo di quanto i Medvedi, gli Orsi, come amavano soprannominarsi, non avessero già affrontato in altre missioni.

A un tratto la neve smise di cadere, un timido sole provò addirittura a farsi vedere oltre la spessa e bassa coltre di nuvole, rendendo meno difficoltosa la salita.

Poi, d’improvviso, il terreno prese a farsi più ripido, quasi verticale, costringendo i membri della squadra a ricorrere all’equipaggiamento da arrampicata delle tute: chiodi e uncini che spuntando dalle suole delle scarpe e dai palmi dei guanti, garantivano un sicuro appiglio.

Anya e gli altri dovettero scalare per parecchie decine di metri, dal momento che il rilevamento della zona non segnalava valichi o altri punti più facilmente attraversabili, finché raggiunsero la cima di quello che, a dare retta alla mappa, doveva essere l’ultimo ostacolo prima del luogo dello schianto. Nei loro occhi comparve la più assoluta meraviglia: dinnanzi a loro era comparsa un’unica, immensa distesa pianeggiante, cinta su tutti i lati da alte mura di roccia, ripide da una parte e leggermente più dolci dall’altra, e ovunque si volgesse lo sguardo non vi era una sola traccia di avvallamento.

Come aveva detto il generale, si trattava quasi sicuramente di un lago di origine vulcanica, antico quanto il pianeta stesso, mutatosi ormai in una enorme lastra di ghiaccio, tanto vecchia che vari strati di neve con il tempo vi avevano attecchito, creando un candido lenzuolo.

Dimitri, constatato che il bersaglio era davanti a loro, fece per muovere un passo e scendere nel cratere, ma Anya lo fermò.

«Aspetta. C’è qualcosa che non va.»

«Per esempio?»

Anya posò il fucile e recuperò il bastone, raccogliendosi come in preghiera e salmodiando a bassa voce alcune frasi che i suoi compagni non riuscirono a capire.

Poi, come riaprì gli occhi, una specie di onda luminosa si levò verso l’alto, svelando al suo passaggio una sorta di invisibile muro iridescente che alzandosi per centinaia di metri sembrava racchiudere l’intero cratere in una gabbia.

«Una barriera magica!?» esclamò Dimitri. «Ma… è artificiale?»

«Non credo» ipotizzò Ujal. «Nessuna tecnologia o incantesimo sarebbe mai capace di generare una barriera di queste dimensioni. Forse è un fenomeno naturale.»

«Di certo ora sappiamo cosa ha fatto precipitare l’elicottero.» disse Nikita.

Un nuovo incantesimo di Anya fece comparire un varco nel muro, cosicché lei ed i suoi compagni furono in grado di attraversare lo scudo senza danneggiare i propri dispositivi magici.

«Vedi l’utilità di avere un mago in squadra?» scherzò Maria.

«Forza, sbrighiamoci.» ordinò il Capitano

Sfortunatamente, una volta chiuso il passaggio, anche il contatto radio con il comando di Volgorad s’interruppe, ma grazie alla trasmissione multifrequenza del segnale emesso dalla boa la squadra fu in grado di non perdere l’orientamento, incamminandosi a passo sicuro in quella desolata pianura di neve e di ghiaccio spazzata dal vento.

Avevano fatto solo pochi chilometri quando, inspiegabilmente, un nuovo segnale comparve sul radar di Dimitri, più vicino rispetto a quelli della radio-boa e del contenitore.

«Sto ricevendo qualcosa. Si direbbe un segnale di soccorso, circa mezzo miglio a sud.»

«Viene da qualche superstite dell’incidente?»

«Non direi. Non sembra generato da un segnalatore portatile.»

Occorse un’analisi più approfondita per poterne interpretare meglio l’origine, ma la risposta finale fu a tal punto sconvolgente che Dimitri dovette deglutire due volte prima di trovare la forza per enunciarla.

«Si direbbe una unità abitativa.»

Tutti si guardarono l’un l’altro, cercando di scorgere i rispettivi occhi oltre le visiere semitrasparenti dei caschi.

In altri tempi Anya non avrebbe esitato un solo istante; da soldato sapeva che gli ordini e la missione venivano prima di tutto. Eppure, non ebbe alcuna esitazione nel prendere la sua decisione.

«Raggiungiamo l’unità.»

L’affermazione provocò un comprensibile stupore tra i membri della squadra, ma nessuno di loro si sarebbe mai sognato di dubitare del giudizio del proprio Caposquadra, soprattutto se la persona in questione era un soldato affidabile come Anya.

«Sissignore.» obbedirono in coro

 

Nessuno nutriva speranze di poter trovare qualcuno ancora vivo.

A prescindere dal fatto che i generatori delle unità abitative avevano energia sufficiente per appena un paio d’anni, in un posto così estremo e inospitale era quasi impossibile che i superstiti dell’atterraggio, semmai ve ne fossero stati, potessero essere sopravvissuti così a lungo.

Le lastre metalliche, piegate e danneggiate dall’urto ma ancora fondamentalmente integre, erano ricoperte da un sottile strato di ghiaccio, e lungo uno dei fianchi era ancora parzialmente visibile il numero dell’unità.

«Y-2801.» disse mestamente Maria.

Il portello d’emergenza sul tetto era bloccato e piegato a tal punto che Nikita, una volta salito, dovette metterci non poca forza per riuscire ad aprirlo.

Un forte odore di morte, che il freddo non riusciva malgrado tutto a coprire, giunse dall’interno, e calatosi dentro il giovane soldato si ritrovò di fronte uno scenario terrificante.

Il corpo mummificato dal freddo di una donna giaceva raggomitolato ai piedi di due capsule, una delle quali ribaltata, contenenti i resti anch’essi segnati inesorabilmente dal freddo di due creature, bambini sicuramente; indossavano ancora la tuta spaziale con le insegne russe cucite sul petto, e sulle targhette dei due bambini era ancora possibile leggerne i nomi: Alexei e Ludvika Torkov.

Probabilmente i fermi di sicurezza che sarebbero dovuti saltare via permettendo a quei due poveretti di uscire all’esterno erano rimasti al loro posto, e nel momento in cui il rifornimento di energia ai sistemi di alimentazione era venuto meno quelle che dovevano essere delle culle destinate a dormire il più profondo dei sonni si erano tramutate in bare; difficile dire se avessero avuto o meno il tempo di svegliarsi prima di venire uccisi dalla mancanza di ossigeno, ma le mani orrendamente ferite del corpo che come in un abbraccio sembrava volerli stringere a sé indicavano che quella donna aveva fatto tutto il possibile per tentare, senza riuscirci di liberarli.

Le altre capsule, tutte aperte, erano sparse un po’ dappertutto, scagliate via dai loro alloggiamenti dalla potenza dell’urto che solo in parte i propulsori direzionali d’emergenza erano riusciti ad attutire, e a prima vista non vi era traccia di altri corpi.

«Tre corpi» disse una volta tornato all’esterno. «Una donna e due bambini. Loro sono morti soffocati, la donna probabilmente di freddo.»

«E gli altri corpi?» chiese Dimitri.

«Nessuna traccia. Avranno cercato di mettersi in salvo avventurandosi in questo inferno, e il cielo sa fin dove siano riusciti ad arrivare prima di finire congelati.»

Anya sapeva che nessuno si sarebbe mai scomodato a dare una degna sepoltura a quei poveri sventurati, soprattutto in un luogo remoto e lontano da tutto come quello; pochissimi nuclei tra quelli precipitati e scoperti senza alcun superstite erano stati recuperati, e per come si stavano mettendo le cose sarebbero probabilmente passati degli anni prima che ciò potesse diventare possibile.

Così, con il silenzioso consenso dei suoi compagni, il Capitano volle dare a quei tre sventurati, e con essi anche ai loro compagni che probabilmente giacevano da qualche parte sepolti dai ghiacci eterni, un degno riposo.

La struttura era costruita in materiale ignifugo, quindi Anya, recuperata la targhetta con numero del nucleo dal portello principale, rivolse l’incantesimo di fuoco sul ghiaccio sottostante, e come questo si fu mutato in acqua la struttura iniziò rapidamente ad affondare, scomparendo nel giro di pochi secondi mentre i cinque soldati vi rivolgevano, in silenzio, il saluto.

«Avanti, proseguiamo.» disse con un filo di voce Anya poco dopo che il nucleo si fu completamente inabissato.

 

Mestamente e in silenzio la squadra si rimise in marcia, raggiungendo in poche ore l’Hind precipitato.

Il mezzo era completamente a pezzi, riverso su di un fianco, e quasi tutti i finestrini erano saltati; mancavano anche alcune pale di entrambi i rotori, altre invece erano piegate e accartocciate, segno che l’urto era stato incredibilmente violento, eppure a prima vista non sembrava esservi traccia di danni esterni che non fossero imputabili all’incidente.

Infine, la zona tutto attorno all’elicottero era coperta da una sostanza gelatinosa di colore giallastro, gommosa al contatto e molle nonostante il freddo.

«Gel da impatto.» disse Ujal sfiorandone un grumo.

«Almeno i sistemi di sicurezza si sono attivati» disse Maria. «Li ha salvati dallo schianto.»

«Ma non dal freddo.» replicò suo fratello con lo stesso tono.

Infatti, buttato uno sguardo all’interno, apparve subito chiaro che anche in quel caso non vi era nessun superstite; il gel permetteva di sopravvivere anche in caso di incidenti particolarmente gravi, ma c’era comunque un limite ai danni che era capace di assorbire. Molti degli occupati, inclusi i piloti, erano ancora seduti sulle rispettive poltrone, uccisi dalle ferite e probabilmente morti prima ancora di riprendere conoscenza; altri erano raggomitolati a terra in posizione fetale, segno che avevano tentato fino all’ultimo di resistere al freddo.

E come era prevedibile, del contenitore neanche l’ombra.

«Quattro morti da impatto, sei assiderati, quattro dispersi» riferì Maria. «Avranno tentato anche loro la sorte nella tormenta.»

«Quanto dista l’altro segnale?»

«Due miglia e mezzo, direzione sud-est.» rispose Dimitri.

«Sbrighiamoci allora. Il tempo sta peggiorando.»

E infatti, nel giro di pochi minuti, la tormenta tornò ad abbattersi con forza nel cratere, sollevando nuvole (turbini) di neve con raffiche di vento che soffiavano ad almeno ottanta chilometri orari, portando di colpo la temperatura ad una trentina di gradi sotto zero.

Anche per soldati addestrati e ben equipaggiati come loro fu difficile continuare a procedere in un ambiente così proibitivo, ma non c’era assolutamente tempo per riposare o aspettare che la tempesta si placasse; il supporto vitale in grado di assicurare l’incolumità della batteria, ed il relativo segnalatore di emergenza, avrebbero continuato a funzionare al massimo per altre sei ore, passate le quali il freddo avrebbe sicuramente disintegrato i componenti più delicati, rendendo la batteria di fatto inutilizzabile.

A un certo punto la tempesta assunse una forza tale da rendere impossibile riuscire a vedere anche solo a pochi metri di distanza, tramutando quella che doveva essere una semplice operazione di recupero in una vera e propria odissea.

Ujal, che per orientarsi nelle tormente aveva un istinto quasi animale, guidava il gruppo, saggiando il terreno a ogni passo per sincerarsi che non vi fossero pericoli.

«Questa tempesta non vuole saperne di placarsi!» urlò Anya per sovrastare il fischiare del vento. «Quanto manca per raggiungere il segnale?»

«Non riesco a capire!» urlò a sua volta Dimitri. «Dovremmo avercelo proprio davanti!»

«Forse è stato sepolto dalla neve!» ipotizzò Nikita.

Ma anche un soldato ed un esploratore infallibile come Ujal poteva incorrere in degli errori, soprattutto in un ambiente così ostile, e improvvisamente il terreno franò sotto i suoi piedi, tramutandosi in un letale scivolo che scompariva nella tormenta. Sarebbe di sicuro precipitato in qualche crepaccio profondo decine di metri se non avesse piantato con forza i pugni al suolo, arrestando immediatamente la caduta

«Cos’è, ti sei dimenticato come si cammina sulla neve?» domandò ironica Maria.

«Fai meno la spiritosa e aiutami.»

Lei allora gli porse la mano, mentre la tempesta, ancora una volta, pareva acquietarsi, lasciando finalmente spazio ad un vero accenno di sole. Ujal per poco non cadde un’altra volta quando, nell’atto di afferrare la mano di Maria, la vide allontanarsi repentina, alzandosi lentamente in piedi e fissando dinnanzi a sé con aria come inebetita assieme a tutti i suoi compagni.

«Molto divertente,  potevo rimanerci secco!» imprecò il soldato riuscendo finalmente a tornare coi piedi per terra. «Ma si può sapere che vi prende?»

Anche lui, allora, guardò verso il buco da cui era appena uscito, e anche nei suoi occhi, nello spazio di un attimo, apparve la più assoluta meraviglia.

«Oh, mio Dio.»

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