il viaggiatore dei sogni

di Gobbigliaverde
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Memories ***
Capitolo 2: *** Halloween Night Pt1 ***
Capitolo 3: *** Halloween Night pt2 ***
Capitolo 4: *** Passi Avanti ***
Capitolo 5: *** Nuove e Vecchie Vite ***
Capitolo 6: *** Caccia all'Oro ***
Capitolo 7: *** Aria ***
Capitolo 8: *** Mamma ***
Capitolo 9: *** Forever and Ever ***
Capitolo 10: *** Realtà o Magia ***
Capitolo 11: *** Vecchi Ricordi d'Infanzia ***
Capitolo 12: *** Henry ***
Capitolo 13: *** L'Omino del Sonno ***
Capitolo 14: *** La Pecca nel Piano ***
Capitolo 15: *** Solo in un Incubo ***
Capitolo 16: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Memories ***


MEMORIES

 

 

Devo aver bevuto toppo ieri sera… tutta questa luce nella stanza è accecante. Devo aver anche lasciato la finestra aperta… non vedo nulla, solo luce bianca. Forse sono morta. Piano piano le cose prendono una forma: sono ancora in questo mondo. Mi alzo in piedi, e mi guardo intorno. Non sono in camera mia. E tanto meno a casa mia. Cerco di capire dove mi trovo, ma la vista è ancora appannata.  Un dolorino acuto mi tortura il braccio destro. Sono attaccata ad una flebo. E ho anche un respiratore.
    Mi gira la testa, mi sento svenire. Sono in una stanza di ospedale. Scivolo con la schiena sul lettino e chiudo gli occhi, l’ultima cosa che vedo è un uomo che mi si avvicina. Poi, solo buio.

Apro gli occhi. Ancora questa luce bianca, Mi lacrima la vista!
    Non riesco a dire nulla. Non ricordo nulla e non so perché sono qui. La luce bianca sparisce e le immagini si fanno reali. Davanti a me, quell’uomo. Provo a dire il suo nome. Dalla mia bocca non esce nessun suono. Ma credo che lui capisca il labiale, perché i suoi occhi sono diventati lucidi e la sua bocca si è inarcata in un meraviglioso sorriso.
    — Sì, Emma! Sono io, Neal! Ti ricordi di me… il dottore aveva detto che… — Si blocca. Continua a fissarmi con espressione addolorata.
    Diavolo, va’ avanti, penso io. Lo continuo a guardare. Sto sognando, perché lui è morto. Ma sembra così vero. Il suo profumo mi fa tornare alla mente il passato, e quanto lo avevo amato. Ora però non lo amo. Credo.
    — Aveva detto che non ti saresti mai potuta ricordare della nostra vita, del nostro matrimonio, dei nostri figli — dice lui, dopo un profondo respiro. Ha gli occhi lucidi, ma io non posso fare a meno di sgranare i miei.
    Figli? Matrimonio? Non è vero. Io ho solo Henry, non ho né un uomo né altri figli. Deve essersi accorto della mia espressione, e si è bloccato.
    — Non ricordi? Ok. Non ricordi. Magari vedendo Gemma e Henry ricorderai! — afferma torturandosi le mani. Ha paura. È spaventato, ma non più di me.
    Io non capisco. Gemma? Chi è Gemma? e Henry? Dov’è mio figlio? Ho bisogno di vederlo.
    Scivolo giù dal lettino. Neal prova a fermarmi, ma io lo scanso. Strappo i fili che mi collegano alle macchine e barcollante mi reco fuori. Scorgo il mio riflesso sulla vetrata della mia stanza. Sono in pessime condizioni. Il camicione da ospedale spiegazzato, la pelle pallida come un cencio, gli occhi cerchiati di nero e i capelli biondi arruffati come paglia.
    Il pavimento è freddo. Vorrei delle scarpe.
    Faccio quattro passi fuori della porta, ma non riesco più a tenermi in piedi… Mi manca… l’aria…
    Sento Neal che mi prende la mano e dice qualcosa. Non sento cosa. Vedo un medico in camice bianco correre verso di me.
    Lo conosco.
    Le gambe mi cedono, e io scivolo tra le braccia del dottore. Subito ritorno in me. Ho una mascherina in faccia. Ossigeno probabilmente. Guardo il medico. È così familiare, quel volto. Sorrido. Ho capito chi è. Non sembra capire il labiale, non con la mascherina in faccia.
    — Cosa… Mancino? — mi chiede.
    Io scuoto la testa in risposta. Possibile che non capisca? Sfilo la mascherina solo per un istante, quanto basta per ripetere il suo nome.
    — Ah. Uncino? — mi chiede nuovamente, spostando la mia mascherina a coprire naso e bocca.
    Esatto! Annuisco e sorrido. Prendo un lungo respiro di ossigeno, e la mia mente si rilassa.
    — Cosa vuol dire ‘uncino’? Cosa mi vuoi dire? — domanda, passandosi una mano tra i capelli neri, guardandomi con le sue perle azzurre e aspettandosi una risposta.
    Io non ce l’ho, però, una risposta alla sua domanda. Uncino è il suo nome. Lo dovrebbe già sapere che cosa vuol dire… Mi volto in cerca di una spiegazione razionale. Percorro con gli occhi tutti i volti dei presenti nel corridoio. C’è un gruppo di persone che hanno un’aria familiare, seduti su alcune sedie.
    Henry. Lo vedo. È seduto assieme al gruppo, sta aspettando. Mi libero della presa di Uncino, mi getto verso di lui urlando con tutto il fiato che ho in gola, anche se sembra solo un sospiro.
    — Henry! — Gli getto le braccia al collo, sembra interdetto.
    — Mamma… — sussurra.
    Sì, sì, annuisco per far capire che sono io.
    Lui si volta verso una donna e continua la frase. — Mamma, chi è questa donna?
    Regina si volta di scatto, mi guarda con astio e mi scaccia con violenza. — Non avvicinarti mai più a mio figlio! — grida.
    Sento le dita di Uncino stringersi attorno al mio braccio. Mi tira indietro, barcollo, quasi cado, ma lui mi sorregge. Non capisco. Lei lo sa che Henry è mio figlio. Perché tutti sembrano così strani?
    Vedo Neal raggiungermi velocemente e scusarsi con Regina. Mi sorride dolcemente.  — Amore, andiamo dai bambini, ti stanno aspettando.
    Mi guardo attorno spaesata mentre Uncino mi accompagna lungo il corridoio. Mi lascia solamente quando sono abbastanza distante da Henry da non vederlo più. Poi si allontana, raggiungendo un gruppo di altre persone in camice bianco.
    Quali bambini? L’unico bambino da cui voglio andare è Henry, il mio Henry. Neal mi trascina per un braccio, e sono costretta a seguirlo. Ci fermiamo di fronte ad un passeggino. Una bimba bionda sui quattro anni guarda sorridendo felice.
    — Mamma! Eri davvero tanto stanca, hai dormito taaaaantissimissimo — dice allargando le braccia, poi mi salta al collo.
    Non capisco, cosa vuol dire ‘dormito’? Un altro bambino mi osserva da lontano, con gli occhi lucidi e lo sguardo torvo.
    — Dai, Henry! Vieni, la mamma ti aspetta! — dice Neal, facendo un gesto con la mano al ragazzino. Quello non è Henry. Né tantomeno io sono la sua mamma. Guardo interrogativa Neal.
    — Amore, c’è qualcosa che devo dirti — asserisce.
    Annuisco. Ho bisogno di risposte, e lui sembra averle. Lascio i bambini per seguirlo dove mi sta portando, senza dire nulla.
    Neal appoggia le mani al muro. Non ha il coraggio di guardarmi negli occhi. — Vedi, c’è stato… un incidente. Tu… sei stata… sei stata in coma per due anni.
    Sgrano gli occhi. Cosa? Non è vero. Menti. Riesco a dire qualcosa con la poca voce che ho. — Magia… Storybrooke… — Lo ripeto più di una volta, ma lui non lo capisce.
    — Story… Emma, di cosa stai parlando? — domanda aggrottando la fronte.
    No. È impossibile. Voglio parlare con Uncino. Corro via, per quanto mi possano permettere le mie gambe instabili. Lo vedo entrare in una stanza sistemandosi il camice bianco. Afferro il suo polso e lo guardo negli occhi.
    — Killian… Uncino… — La mia voce è rauca, non mi piace.
    — Oh, Emma! La voce sta tornando! Sono molto contento dei miglioramenti — dice, voltandosi verso di me e aiutandomi a tenermi in piedi.
    Ripeto quello che ho detto, forse non mi ha sentito. — Killian… Uncino…
    Lui mi guarda, sorride e fa per andarsene. Gli afferro la mano e strattono il suo braccio. Mi appoggia l’altra mano sulla spalla. L’altra mano. Lo lascio, spaventata. Non ha l’uncino. Forse hanno ragione loro sul coma e tutto quanto.
    Lo lascio andare spaventata. Lui mi fa un mezzo sorriso e sparisce nella stanza. Mi spremo la mente. L’ultimo ricordo che ho risale al ritorno dall’isola che non c’è. Io e Killian da Granny’s. Il bacio.
    Scaccio i pensieri dalla mente: non è successo. Ero in coma. Devo cominciare una nuova vita. Possibile che ho passato tre anni della mia vita a cercare di credere alla magia, e ora tutti mi dicono l’inverso? È difficile integrarsi con il mondo per una che crede. Vorrei solo affrontare tutto questo con il mio Henry.
    Torno da Neal. Ha preparato le valige per tornare in quella che lui chiama casa, che io non ho mai visto. Mi vesto e mi tolgo quella vestaglia orribile che avevo addosso. Metto il mio giubbotto rosso in pelle, l’unica cosa che mi rimane della mia vecchia vita, del sogno, del coma.
    Esco dalla stanza e mi reco dalla mia famiglia. Quella bambina, Gemma, ha qualcosa di familiare. Forse è un bene. Sto ricordando la vita reale. Ma credo ancora nella magia.
    In macchina nessuno dice nulla. È la mia macchina. Il mio maggiolino giallo, questo mi consola. Neal parcheggia in un anonimo isolato di Manhattan, e mi aiuta a scendere portando con se i bambini e le valige. Ci incamminiamo oltre la soglia di un condominio. Arriviamo di fronte alla porta di quello che deve essere in nostro appartamento, l’interno 7. Istintivamente cerco le chiavi nella tasca, ma Neal mi batte sul tempo. Ha già aperto la porta e tutti si sono fondati dentro.
    Nella mano stringo una cosa fredda e liscia. Era nella giacca.
    — Tu vieni? — dice Neal.
    — Sì, dammi un minuto — sussurro. È l’unica cosa che riesco a fare.
    Aspetto che Neal e i bambini spariscano dietro la soglia e apro il palmo della mano. Forse sono loro ad aver dimenticato, non io. Faccio rotolare un paio di volte quella boccetta sul palmo della mano, mentre il liquido rosastro contenuto all’interno si sposta contro le leggi di gravità. L’etichetta rovinata, con il simbolo del sig. Gold cita: ‘Memories’.

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Capitolo 2
*** Halloween Night Pt1 ***


HALLOWEEN NIGHT (parte 1)

 

 

— Emma. E-M-M-A. Emma. — Mi schiarisco la gola. La mia voce esce dalle labbra come un grugnito.
    Sono passati due giorni dal fatidico “risveglio”, e ancora non è cambiato nulla. Sono di fronte allo specchio, a fissare dritto negli occhi un viso un po’ malandato e malaticcio, dove attraverso le occhiaie nere e le labbra screpolate si intravede ancora la Emma Swan di una volta. Una volta. Quale volta? È mai esistita quella volta? Una Emma Swan senza voce è ancora una Emma Swan. Ma una Emma Swan senza magia?
    Oggi è il giorno di Halloween. Devo portare i bambini ad una festa. Io. Neal mi sta convincendo che posso essere una brava madre. Io. Vivo con un Henry che non è il mio, con una bambina che mi somiglia fin troppo ma non ricordo, con un uomo che dice essere mio marito, ma non so se sono capace di amarlo.
    — Swan. — Questa volta la mia bocca emette un suono gutturale, mi sento un sapiens dell’età della pietra.
    Swan. Una voce che non è la mia mi rimbomba nella testa. Mi guardo attorno sperando che sia nei paraggi. Invece è solo nella mia mente. Se non sono già pazza, sto impazzendo ora. Killian Jones. Chi altri mi chiama così? Appoggio la mano sulla boccetta ‘Memories'. Memorie. Memorie di chi? Mie? No. Io ho già tutto quello che mi serve. Forse le memorie degli altri abitanti di Storybrooke. Ma non siamo lì, siamo a Manhattan. Devo trovare Gold, lui saprà la verità.
    Mi sciacquo il viso e esco dal bagno. Trovo Neal seduto in poltrona con la fronte aggrottata e un foglio in mano. Mi avvicino. Sembra preoccupato. Tento di leggere le righe che scruta con il suo sguardo serio. È un mio referto medico. Lo guardo con aria interrogativa.
    — La memoria. C’è una grade probabilità che non torni mai più. Il che vorrebbe dire che… — Fa una pausa. Non capisco cosa stia leggendo nel mio sguardo, di certo non faccio i salti di gioia. — Non importa — si affretta a concludere.
    Gli faccio cenno di continuare e sorrido in segno di conforto. Ho bisogno di sapere, non mi importa quanto farà male. Di certo non tanto quanto essere tenuti all’oscuro di tutto.
    Neal mi scruta, cercando di capire se è davvero quello che voglio. Annuisco lentamente. Voglio sapere quanto è danneggiata la mia mente.
    — Va bene — bofonchia lui. — Quello che dice questo foglio, è che non recupererai mai i ricordi dei tuoi figli e di noi due — continua lui.
    Io non ci faccio caso più di tanto. Mi ero già preparata a qualcosa di simile. Il destino ha voluto così dal principio. Io non posso vedere i miei figli crescere. È stato così con il mio Henry, e lo è anche con Gemma e questo Henry. Mi ero già messa il cuore in pace sull’argomento. Mi arrendo al destino, ho combattuto fin troppo.
    Neal si distende sulla poltrona stiracchiando le gambe avanti e passandosi una mano tra i capelli. Mi piacerebbe davvero riuscire a soffrire un po’ per lui, ma questa vita non mi appartiene.
    Mi guardo intorno. Devo ancora abituarmi al mio nuovo salotto. Un divano, due poltrone dall’aspetto consunto, un tappeto, niente di più. Non ci si può aspettare altro da una casa con dei bambini, qualunque cosa può essere pericolosa.
    Vicino al telefono c’è un blocchetto di PostIt. Mi avvicino. Ci sono dei numeri appuntati sopra. Sig. Gold: 0467 664783. Non ci penso due volte. Stacco il pezzettino di carta giallo e cerchio il nome con un pennarello rosso trovato lì a fianco. Corro verso Neal e attacco il foglietto sulla sua mano.
    — Sig. Gold — ripete lui. — Lo conosci? — chiede perplesso.
    Come? Lui è tuo padre, Neal! Vorrei urlargli, ma dalla mia bocca esce solo aria. Aria e nient’altro.
    Senza curarsi del fatto che stavo cercando di dirgli qualcosa, continua a parlare. — Sai, è strano che io abbia segnato il suo numero. Ha chiamato tre sere fa, chiedendo se eravamo interessati a oggetti da collezione. È solo un antiquario.
    Annuisco sollevando due pollici in sù.
    — Sì? Sì, sei interessata o sì, ho ragione? — sorride credendo che sia chiaro che non mi interesso di oggetti da antiquariato.
    Alzo nuovamente il pollice, facendogli intendere che la prima risposta era quella corretta.
    — Uno? Intendi dire che vuoi andare da questo tizio? — mi domanda in parte sorpreso. Solleva le spalle e sospira. — E va bene, ti ci porto. Ma dopo ricordati di cucinare quella torta per i ragazzi. Oggi devono andare a quella festa…
    Annuisco di nuovo, contro voglia. 

Neal guida fino alla periferia del nostro quartiere. Io osservo i condomini passare senza vederli realmente, la mia testa è altrove. Quando il maggiolino giallo si ferma, mi slaccio la cintura e scendo dalla macchina.
    Ci troviamo di fronte ad un negozietto schiacciato in mezzo ai grandi palazzi. Ha un aspetto abbandonato, come anche l’insegna: il nome stampato sopra è illeggibile. Dovrebbero pulirla qualche volta. Sembra che sia sporca da anni.
    — Precisamente, da tre anni.
    Mi volto. Un uomo con un bastone mi continua a guardare. Gold, penso. Se la passa bene per uno che lavora in un tale tugurio.
    — Mi leggi nella mente ora? — sentenzio, scrutandolo da capo a piedi. La mia voce sembra ancora un sussurro. Sempre in giacca e cravatta, appoggiato di peso al bastone elegante di legno nero e lucido.
    Neal si volta verso di me, sorpreso. — Con chi stai parlando?
    Lo guardo per alcuni secondi, poi decido di ignorarlo. — Non ti vede. Perché non ti vede? — chiedo a Gold. Devo sembrare una pazza mentre gesticolo in mezzo alla strada, parlando con un uomo invisibile.
    Tremotino ride. Nessuno ha una risata così spaventosa, a parte lui. — Non mi vede perché sono morto. Da tre anni.
    La domanda mi sorge spontanea. — Neal ha detto che l’hai chiamato pochi giorni fa — sussurro così piano che nessuno mi sente a parte Gold.
    Lui si appoggia sulla gamba sana e solleva leggermente il bastone da terra, disegnando piccoli cerchi concentrici sul porfido. — Ho ancora qualche asso nella manica — ridacchia tra se.
    Io mi faccio più seria, e serro i pugni. Non mi piacciono i suoi giochetti, non mi sono mai piaciuti.
    Neal mi prende la mano, visibilmente preoccupato. — Emma? Stai bene?
    Annuisco senza staccare gli occhi da Gold.
    Tremotino si riappoggia sul bastone e si schiarisce la gola. — Tu mi vedi perché conosci cose che loro non sanno. Guarda nella tua tasca.
    Tasca? Piego la testa di lato. Fino a pochi minuti fa le mie tasche erano vuote. C’era solo la boccetta. Mi volto verso Neal, e sento tintinnare qualcosa nella mia giacca rossa. Infilo una mano. Ora ho una boccetta e una vecchia chiave, penso, rigirandomi tra le dita una grossa chiave arrugginita dall’aria piuttosto antica.
    Neal mi guarda sempre più perplesso. — Non saranno mica le chiavi del negozio? — chiede, ma io penso di sapere già la risposta.
    Mi volto verso Tremotino. Il mio sguardo però, incontra solo il marciapiede di pietra.

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Capitolo 3
*** Halloween Night pt2 ***


HALLOWEEN NIGHT (parte 2)

 

 

Ci sono troppe cose che non capisco. Dopo una normale giornata a Storybrooke, mi sveglio in una vita che non è la mia. Ho una boccetta che non ho mai visto prima d’ora, e che non so per quale motivo sia nella mia tasca. Gold ha chiamato Neal tre giorni fa, ma è morto da tre anni. E ora possiedo una chiave che non so cosa apra.
    Guardo Neal. Ha ancora quell’espressione perplessa.
    Non stupirti, ha visto che parlavi con il marciapiede, penso. In realtà non importa, darà la colpa al coma, come sempre.
    — Emma, stai bene? — mi sussurra avvicinando una mano al mio viso.
    Io mi scosto e annuisco. In realtà, no. Non sto bene. Devo risolvere troppi misteri che non hanno alcuna connessione tra loro. Guardo la chiave. Vecchia e arrugginita. La porgo a Neal, che sembra non capire.
    — Dimmi cosa vuoi che faccia — sorride e mi prende la mano. Mi tratta come se fossi pazza, ma non lo sono.
    Mi ricordo il nostro primo appuntamento. Ora è cambiato tutto, io sono cambiata. È cambiato l’amore che provo per lui. Nulla sembra semplice, se solo lui sapesse la verità. Se solo sapesse cosa è accaduto a Storybrooke. Quell’ultimo giorno, io… io… io non riesco a seguire i miei pensieri per più di cinque minuti. Non riesco a ricordare bene a che cosa stavo pensando. Sento una voce che mi chiama.
    — Emma? Emma!
    Scuoto la testa e guardo Neal. Sembra ancora preoccupato.
    — Ti eri incantata — mi dice. — Non è che vedi i fantasmi? — mi schernisce bonariamente.
    Sorride. Ricambio, anche se non ci trovo nulla da ridere. Se solo sapesse dell’apparizione di Gold non riderebbe neppure lui.
    Mi osserva perplesso. — In ogni caso, cosa vuoi che faccia? — chiede, girandosi la chiave tra le dita.
    Cosa voglio che faccia… Mi guardo attorno. L’insegna impolverata del negozio di antiquariato sembra invitare a entrare… Mi avvicino alla porta. Gli occhi di Neal si illuminano. Cerca di guardare oltre al vetro impolverato, ma sembra non vedere nulla. Io so esattamente quello che troverò. Lui appoggia una mano sulla maniglia consumata e infila la chiave nella serratura. Si ferma.
    Mi guarda sorridendo. — Vuoi avere tu l’onore? — chiede con un moto d’orgoglio del tutto ingiustificato. In parte mi ricorda quel Neal di cui mi sono innamorata.
    Sorrido a mia volta e prendo la chiave. Non gira. Forse la serratura è un po’ arrugginita… devo solo metterci più forza. La chiave resta immobile, come se… non fosse quella giusta. È chiaro, non lo è. Mi volto, gli occhi un po’ delusi di Neal mi mettono a disagio.
    — Dai, non importa. Torniamo a casa — dice, grattandosi la nuca. Si volta verso il maggiolino giallo e mi apre la portiera, facendomi segno di entrare.
    Salgo in macchina. Lancio un’ultimo sguardo alla porta. Non finisce qui. Io ho bisogno di entrare lì dentro. Ho bisogno di risposte.

Arriviamo nell’appartamento che sono quasi le quattro. Appena lui apre la porta, Gemma mi corre incontro.
    — Mamma! Mi sei mancata, ho fatto un brutto sogno! — dice mordendosi le labbra e arricciandosi i capelli biondi con le dita.
    Mamma? Chi è? Ah sì. Io. Ecco, è arrivato il momento che stavo attendendo contro voglia. Fare da madre a degli sconosciuti. Mi avvicino alla bambina sorridendo. Non posso rovinare il suo mondo perché il mio è già rovinato.
    Mi prende la mano. — Mamma, andiamo nel negozio di caramelle che mi piace tanto? — squittisce con un tono languido.
    I suoi occhi azzurri come due perle mi sciolgono il cuore. Guardo Neal perplessa, non ricordo l’esistenza di nessun negozio di caramelle. Non ricordo l’esistenza neanche di questo nucleo familiare a dire il vero.
    Appendendo i cappotti, mi risponde: — Scendi le scale del condominio, subito sulla destra.
    Annuisco. Prendo in braccio la bambina e seguo le indicazioni di Neal.
    — Mammina, perché non ti ricordi di noi? hai fatto un brutto sogno anche tu? — La vocina di Gemma mi fa trasalire.
    Ero incantata a guardare la caffetteria che Neal mi ha indicato. Sembra fatta a misura di bambino: c’è la cioccolata calda, le caramelle, sedie e tavoli minuscoli. È assolutamente meravigliosa. Sorrido a Gemma.
    — Beh, quando dormivo, ho sognato tante cose, non necessariamente tutte brutte — le dico. Anche se la mia voce esce come un sospiro, la bimba sembra aver afferrato tutti i concetti. I suoi occhioni azzurri sono incantevoli. Non sono come i miei… Mi sembra di averli già visti, ma non ricordo… Ho dimenticato troppe cose.
    — Il mio sogno era tutto brutto. Ho sognato che tutto questo era finto — piagnucola.
    La sua affermazione mi strappa violentemente dai miei pensieri. La guardo perplessa.
    — Nel sogno io bevevo una cosa strana — continua, mordicchiandosi le unghie.
    Una cosa strana? Tutto finto? Cosa? Forse ho capito. I tasselli si stanno ricomponendo piano piano. — Gemma, ti fidi di me? — chiedo, infilando una mano nella tasca della giacca di pelle.
    — Sì mammina — mi risponde con sguardo angelico.
    — Allora devi tirare fuori la lingua e mandare giù una medicina, è importantissimo — sussurro al suo orecchio, rendendola mia complice.
    Tiro fuori dalla tasca la boccetta e la mostro alla bambina. La agito, la pozione ora brilla un po’. Stappo la bottiglietta di vetro. Un aroma amaro mi invade le narici. Allungo la mano verso la bocca della bimba, e lascio cadere una sola goccia. Se dovesse funzionare, la userò con tutti. La piccola ingoia. Ora saprò la verità.
    — Gemma, mi finisci di raccontare il tuo sogno? — chiedo gentilmente.
    Lei esita per un momento, dopo di che mi sorride. — Avevo già finito di raccontartelo, mammina.
    Mammina. Non ha funzionato. Mi viene da piangere. ‘Memories’. Memoria di chi? Io non ho una figlia, io ho solo un figlio, si chiama Henry, e non è quell’Henry che ora vive con me. Rivoglio la vita di prima, voglio tornare nella mia vera casa. Storybrooke. Voglio i miei genitori, e voglio anche la magia. Con la magia potrei rimettere tutto a posto.
    Stringo il polso della bambina. — Io non sono la tua mamma, capito? — sto quasi gridando, e la voce rauca mi gratta la gola.
    — Mammina, cos’hai? — chiede lei, mentre i suoi occhi si riempiono di lacrime.
    NO. Non posso tollerare che si metta anche a piangere. Io a quattro anni dovevo già badare a me stessa. La trascino fino all’appartamento, suono il campanello ripetutamente.
    Alla porta apre Neal. — Amore, cos’è successo?
    Non lo so, è quello che sto cercando di capire da tre giorni. Odio questa situazione, non ho bisogno della compassione di nessuno. Sono loro che vivono nella finzione, non io. Sono loro ad essere confusi, non io. Neal sembra preoccupato. Gemma piange e io ho gli occhi rossi e tiro su col naso. Chiaro che è preoccupato. Lascio la bambina che piange in salotto, e mi incammino verso la mia stanza.
    — Vai da lui, vai da tuo padre — urlo con tutto il fiato che ho in corpo, e la gola mi fa quasi male. Mi gira la testa, mi sento cadere. Prima di perdere i sensi però, sento delle parole che mi fanno gelare il sangue:
    — Ma lui non è il mio papà.

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Capitolo 4
*** Passi Avanti ***


PASSI AVANTI

 

 

Di nuovo quest’odore. Aria viziata e disinfettante. Apro gli occhi lentamente. La luce invade il mio campo visivo completamente. Ma perché gli ospedali devono essere sempre così bianchi?
    Qualcuno mi sta dando delle piccole pacche sul viso. — Signora Cassidy, mi sente?
    Con chi stanno parlando? Non capisco. Lentamente la vista migliora. Strizzo gli occhi qualche secondo per mettere bene a fuoco. Sono in una sala di ospedale, con meno macchine della prima, ma altrettanto odiosa. A fianco a me sono seduti Neal e Uncino in camice bianco. Subito mi tornano alla mente le parole della bambina.
    — Gemma… — sussurro.
    Neal mi abbraccia e mi sorride. — Amore, tranquilla, i bambini li ho lasciati con la baby-sitter ieri pomeriggio, poi avevano la festa, ricordi?
    Non era questo a interessarmi. Mi appoggio sulle braccia, che cedono quasi subito, facendomi ricadere sul cuscino.
    — Signora Cassidy, non si alzi, la prego. Non è il caso che faccia sforzi per il momento. — Uncino è in piedi e armeggia con alcuni medicinali e con la mia flebo.
    Esito un istante, poi prendo coraggio. — Neal, per favore, avrei bisogno di parlare con il dottore, potresti…? — Non riesco ancora a parlare bene. La voce è rauca e esce a fatica.
    Neal mi sorride, mi bacia la guancia ed esce dalla stanza accostando la porta. Uncino sembra quasi non aver fatto caso alle mie parole.
    Mi schiarisco la gola. — Uncino… Ehm, Killian… cioè, dottor Jones. Avrei alcune domande da farle.
    Senza voltarsi nemmeno verso di me, prende a parlare. — Se si tratta della voce, le dico già subito che ci vorrà del tempo prima che ritorni come era prima. La colpa è dell’ossigeno. Ha vissuto molto tempo con il respiratore — afferma, sedendosi nuovamente su una delle due sedie affianco al mio letto, consultando la mia cartella clinica.
    Lo osservo bene. Non ha nulla del pirata egoista che era. Ha abbandonato la pelle nera per un camice bianco, e ora è qui a salvare vite. Ha fatto un gran salto avanti.
    — In realtà io volevo chiederle dei ricordi — dico in un soffio. È strano usare la forma di cortesia per parlare con lui, ma cerco di ignorare la sensazione di imbarazzo.
    Si blocca. Si volta verso di me preoccupato. — Perché, lei cosa ricorda? — mi domanda inarcando le sopracciglia.
    Tutto un’altro mondo, tutta un’altra vita. Una vita che stava appena iniziando a piacermi. — Nulla — mi affretto a rispondere. Mi perdo qualche istante ad osservare i suoi occhi azzurri.
    Lui esita un attimo. — Signora Cassidy, forse è meglio che di questo ne parla con suo marito, io… — rimane a metà della frase, sospirando.
    Lo osservo mentre cerca nei miei occhi una risposta da darmi. — Swan — dico a bassa voce. Sono arrabbiata. Basta persone che nascondono segreti. Soprattutto se si tratta di me.
    Lui scruta ancora il mio sguardo. — Cosa? — domanda.
    — Non “Signora Cassidy”, Swan — lo rimprovero.
    Sorride accondiscendente. Chissà dove ha imparato la pazienza. — Allora, Signorina Swan — incomincia, ma io lo interrompo con un gesto della mano.
    — Soltanto Swan. Non “signorina”, non “signora”, Swan e basta — lo prego.
    Mi guarda perplesso, senza capire, ma sono stufa di questa finzione, voglio casa, la mia Casa.
    — Dottor Jones, mi parli dell’incidente — gli chiedo. Voglio sapere che cosa mi è successo per finire in questa maledetta realtà fatta di menzogna e finzione.
    Sospira. Sembra che ci sia una fitta nebbia attorno ai motivi del  mio coma. —Quando sono arrivato, lei era già qua. Mi hanno solo detto che è stato un incidente stradale. Un camion è passato con il rosso all’incrocio, e lei era in auto. Ma quando l’ho vista, non aveva ne ferite e ne niente. Stava bene. A parte il coma profondo dal quale sembrava non doversi svegliare.
    Non esiste. Non è una spiegazione. — E lei da bravo medico non ha fatto nessuna domanda? — Il tono provocatorio sembrava non aver sortito alcun effetto sulla sua indole piratesca. L’aveva soffocata sotto il camice bianco.
    — Ascolti, Swan, con lei c’era un uomo. Ha detto queste cose ed è sparito. Come si può indagare su una persona senza nome? Solo pochi giorni dopo è arrivato suo marito, e lui non sapeva neppure dell’incidente — rispose Killian pacatamente, infilando le mani nelle tasche del camice. — Io dovevo solamente farla svegliare dal coma.
    — E come pensava di farlo? Con il bacio del vero amore? — scatto. Non torna nulla. Posso credere a tutto, ma non a questo. — Mi sta dicendo che l’uomo che mi ha portata qui non era Neal? — domando poi. Perché nessuna delle mie provocazioni lo fa innervosire? Non lo ricordavo così calmo.
    Killian scuote la testa. — No. Era un uomo un po’ più anziano, aveva un bastone…
    Tremotino, penso. Piano piano tutto torna al suo posto, tranne i miei ricordi.
    Uncino sembra avermi letto nel pensiero. — Quanto ai ricordi… Esistono luoghi appositi dove persone uscite dal coma possono confrontarsi… Forse questo potrebbe interessarle — dice a bassa voce, porgendomi un rettangolo di cartoncino.
    Lo prendo tra le dita. È un biglietto da visita… La mia vista non funziona del tutto bene. Strizzo gli occhi e leggo a fatica. Dott. Archibald Hopper. Ebbene, forse ho la soluzione di una parte dell’enigma in pugno.
    Uncino esce dalla stanza. Immagino che tra pochi istanti Neal sarà di ritorno… In realtà nessuno rientra, quindi penso di riposarmi, ma ho troppe domande per la testa. Che la morte di Gold e il mio coma siano collegate in qualche modo? E il mio incidente? Non esistono incidenti che non lasciano ferite. A meno che non sia accaduto qualcosa di inspiegabile. Qualcosa di magico ad esempio. Ho un’illuminazione. Forse Gold sapeva che sarebbe morto… Devo tornare subito nella mia vecchia stanza di ospedale.
    Scendo dal lettino barcollante, apro la porta senza far rumore. Che strano. Neal doveva essere qui ad aspettarmi… Non importa, meglio così. Adesso ho il via libera. Salgo le scale per due piani e arrivo di fronte ad una porta con un cartello: TERAPIA INTENSIVA. Sono arrivata. Spingo la maniglia e entro cercando di non farmi notare. L’atmosfera qui è ancora più soffocante. Stanza n°6. Eccola, è la mia. Corro, per quanto le mie gambe deboli lo permettano. Entro. Mi guardo attorno. È esattamente come l’ho lasciata. Mi basterebbe sapere cosa sto cercando.
    Se fossi una persona che è in fin di vita, e dovessi lasciare una cosa importante all’unica persona che crede nella magia oltre a me, dove la lascerei?
    Domanda interessante. Mi guardo attorno. Il materasso è troppo scontato, la federa del cuscino anche. L’armadio è alla portata di tutti. Il vaso di fiori no, qualsiasi cosa se sta tre anni dentro l’acqua si distrugge. Le macchine non si possono toccare…
    Un momento.
    Il vaso di fiori. Ripenso alla storia de “la Bella e la Bestia”. La rosa rossa è viva più che mai in quel vaso. E nessuno la innaffia da circa quattro giorni. Scommetto che è li da anni, per la precisione da due anni. Mi avvicino e allungo la mano. Accarezzo i petali morbidi e setosi. La prendo in mano per sentirne il profumo. Chiudo gli occhi, ma l’unico profumo che sento è un odore metallico. Sul mio palmo, al posto di quella rosa meravigliosa, c’è un mazzo di chiavi.
    Questa è magia, e nessuno può affermare il contrario.

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Capitolo 5
*** Nuove e Vecchie Vite ***


NUOVE E VECCHIE VITE

 

 

— Signorina, ha bisogno di una mano? — sento dire alle mie spalle.
    Mi volto di fretta, sto per ribattere qualcosa, ma le parole mi muoiono in bocca. Regina Mills. L’ultima persona che avrei voluto vedere. La donna che mi ha portato via Henry. Anche lei però sembra sorpresa. Forse più di me.
    — Lei… — sibila, puntandomi un dito contro.
    Non riesco a capire se sta parlando realmente con me. Mi volto a guardare se ho qualcuno alle spalle.
    — I-io? — balbetto, infilandomi le chiavi in tasca e appoggiandomi allo stipite della porta della mia vecchia stanza d’ospedale.
    — Sì, Lei. Cosa ci fa qui? Mi pareva di aver capito che era stata dimessa alcuni giorni fa. — La sua voce acida mi risuona nelle orecchie. Se desidera una sfida, sarò ben contenta di accontentarla.
    — Buon giorno, Regina — sputo fuori acidamente, stringendo i pugni fino a piantarmi le unghie nei palmi delle mani.
    — Buon giorno a Lei — risponde con indifferenza, sistemandosi i capelli neri sulle spalle. — Anche se non conosco il suo nome. Lei non è la tizia a cui ho detto di star lontana da mio figlio?
    E dire che pochi secondi fa avevo creduto che lei potesse sapesse tutto della magia e di ciò che mi è accaduto. Il mio super potere dice che non mente. Regina non sa nulla. E io sono punto e a capo.
    — Ho avuto qualche complicazione — mi affretto a rispondere. — Non ci si sveglia da un coma senza nessuna conseguenza. Piuttosto, Lei invece? Come mai qua? — Sorrido meglio che mi riesce, anche se ho un bruttissimo presentimento. 
    — Beh, signorina, io qui ci passo intere giornate — mi redarguisce, con l’espressione di chi non ha più voglia di fare conversazione. Nei suoi occhi scorgo una nota di tristezza e rassegnazione.
    Forse sono troppo azzardata, ma una preoccupazione mi assilla. — Se non sono indiscreta, posso chiederle come mai?
    — L’indiscrezione sembra essere uno dei suoi difetti peggiori a quanto pare — annuncia con tono plateale. — In ogni caso si tratta di mio figlio — sussurra poi, sfregandosi le mani.
    Ecco. Mio figlio. Mi sento morire. Cosa succede a mio figlio? So già che la risposta non mi piacerà affatto. So già che sentirò tutto il mondo crollarmi addosso.
    — Cos’ha a mio… suo figlio? — domando con il cuore che mi batte all’impazzata.
    Regina sbuffa risentita. — Ma lei non ha un minimo di riguardo, eh?
    Una voce calma interrompe la nostra conversazione prima che i toni possano diventare più accesi. — Regina, lascia perdere. È una donna confusa, ci penso io —Uncino è piombato nella stanza con un tempismo da maestro. È arrivato nel momento peggiore. Esigo sapere cosa succede a mio figlio.
    — Dottore, io non sono affatto confusa, voglio solo delle dovute risposte — ringhio infastidita. Mi pare di aver già specificato quanto non sopporti più venire trattata come un cucciolo ferito per il fatto del coma.
    — Regina, per piacere puoi uscire dalla stanza? Arrivo tra alcuni minuti — afferma Killian, ignorando bellamente il mio tono iroso.
    Regina annuisce a Killian, e fa come chiede. Siamo di nuovo soli. Io e lui. E sono certa che lui abbia tutte le risposte che cerco.
    — Posso sapere perché le interessa tanto di quel ragazzino? — mi domanda sospettoso, incrociando le braccia al petto.
    Perché? Perché è mio figlio, che diamine! Vorrei urlarglielo, ma non posso. — Si tratta di… — provo a dire, ma non mi viene in mente nulla. Penso alla risposta che potrei dare. — L’ho sognato… durante il coma, credo… — dico roteando gli occhi. Fingere su questo argomento mi riesce piuttosto bene, ora che tutti pensano solamente a questo.
    Killian sospira. — Beh, vede Signorina… cioè, Swan… Henry soffre di una malattia ereditaria sconosciuta. Ogni tanto sviene, sogna un mondo tutto suo, e quando si sveglia crede sia vero — asserisce.
    Il cuore mi batte all’impazzata. Taccio. Non è grave come credevo. — Ha detto “ereditaria”, quindi Regina è affetta dalla stessa malattia? — domando, anche se so bene la risposta. Voglio solo accertarmi che in questo mondo lui non sia davvero suo figlio.
    Killian scuote la testa. — No, Regina ed io abbiamo adottato Henry quando era molto piccolo.
    Strabuzzo gli occhi. Ora sono davvero sconvolta. — Regina e lei? È sposato con quella donna? — la mia voce si trasforma in un gridolino alla fine della frase. Killian Jones e Regina Mills. Non credo potesse capitarmi nulla di peggiore.
    Questa volta, senza che io lo volessi, Killian sembra irritato. — Certo, perché?
    Scuoto il capo. — No, nulla… Credo che sia ora che torni da Neal. Mi starà aspettando — mi affretto a dire. Sto per varcare la soglia della porta, immersa nei miei pensieri. Ora c’è un’altra domanda nella mia testa. Mi volto di scatto, e con voce ferma chiedo: — Killian, lei è felice?
    Lui mi rivolge un mezzo sorriso. — E chi lo è in questo mondo?
    Ritorno sui miei passi. Sto sorridendo, e so bene il perché. Quella risposta significa che ovunque sia il vero Killian Jones in questo momento, perso nei meandri della sua mente, mi sta aspettando.

Ritornando verso l’altra ala dell’ospedale ripenso alle sue parole. Henry soffre di una malattia ereditaria che gli crea falsi ricordi… Ma se io sono davvero la madre biologica, ammesso che lo sia, chi mi sa dire se io soffro della stessa malattia o i ricordi del coma sono veri? Nessuno. Ora è quasi certo che sono pazza. Ho deciso. Ancora un tentativo e poi mi arrenderò alla realtà di questa vita.
    Vedo Neal nell’atrio. Mi sta di certo aspettando.
    — Ciao — gli dico. Sorrido. Lui non ricambia. Perché non ricambia? È arrabbiato? — Ciao anche a te, Emma — mi rispondo da sola, con una lieve nota di astio nella voce.
    — Sì, scusa… stavo pensando… il dottore ha detto che hai un… grande margine di miglioramento, sei contenta? — Sorride. Indubbiamente è una bugia grande come un grattacielo a 20 piani.
    Faccio finta di nulla e gli porgo il biglietto da visita di Archie. — Vorrei provare… Magari la situazione può migliorare ancora più velocemente.
    Lui tace per un istante, ci pensa sù. — Penso che sia una buona idea, e questo “Archibald” mi sembra un tipo con un nome strano, ma a posto. Quindi va bene… Quando vorresti andarci?
    Nella mia testa sto sorridendo, ma non voglio darlo troppo a vedere. — Subito.

Neal sta per sedersi alla guida del mio maggiolino, ma lo batto sul tempo.
    — Cosa stai facendo? Non puoi assolutamente guidare, se ci fermano sei senza patente — mi dice preoccupato.
    Invece sì, ora posso guidare. Sto bene, non posso avere ricadute, sono a posto. Lo guardo male, e lui si siede sul sedile del passeggero. Metto in moto e parto. A metà strada ho un pensiero che mi balena per la mente.
    — Senti Neal… ti ricordi il nostro primo incontro? — chiedo con un mezzo sorriso.
    — Certo, come dimenticarlo, eri stupenda — mi dice, intento a scrutare fuori dal finestrino per avvistare una qualche pattuglia di polizia.
    Sorrido imbarazzata. — Ecco, se ci fermano, tu mi stai insegnando a guidare — affermo, contenta di aver trovato finalmente un punto d’incontro.
    Mi guarda perplesso. — Cioè? Non capisco… Cosa c’entra col matrimonio di tua sorella con la macchina?
    Eh? Matrimonio? Mia sorella? Schiaccio il pedale del freno con tutto il mio peso, e la macchina inchioda. Il terrore mi invade. Le mani sudate sono strette convulsamente sul volante. Anche i ricordi che appartengono a questo mondo sono cambiati radicalmente.
    — Mia sorella? — biascico.
    — Sì, sorellastra per la precisione… Lacey French — mi risponde prontamente, voltandosi verso di me.
    Belle è mia sorella? Ci sono davvero troppe cose che non tornano. — Se è mia sorella, perché non si è fatta viva mai dopo che mi sono svegliata? — chiedo più a me che a lui. La risposta mi sembra così chiara. Lei non è mia sorella.
    Vedo Neal mordersi le labbra. — Mi sembrava giusto aspettare a dirtelo… Quella notte, la notte dell’incidente, la stavi portando a casa… Lei… lei non ce l’ha fatta — disse d’un fiato.
    Belle è morta? In che razza di mondo sono? Le persone muoiono senza che io sappia nulla, accadono cose più inspiegabili della magia. Non voglio restare qui un minuto di più. Riaccendo il motore e senza dire una parola cambio immediatamente direzione. Devo entrare nel negozio di Tremotino.

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Capitolo 6
*** Caccia all'Oro ***


CACCIA ALL’ORO

 

 

Sono di fronte all’insegna rovinata. Neal mi dice che sono pazza, che ci sono diversi modi di reagire al lutto, non solo scappare. Io invece penso soltanto alla chiave che ho in mano. Del mazzo che ho trovato all’ospedale ne è rimasta solo una da provare, e mi prometto che se non funzionerà, sfonderò la porta con una spallata. In questo negozio ci sono tutte le risposte che cerco. Me lo sento.
    Infilo la chiave un po’ arrugginita nella serratura. Faccio un respiro profondo. Lentamente inizio a girarla. Gli ingranaggi gemono. Forse funziona! Ad un quarto del primo giro però si blocca. Lo sapevo. Inizio a tirare pugni al vetro che sembra impossibile da infrangere. Perché? Perché il signor Gold mi avrebbe dato tutti questi indizi se non posso usarli?
    Una mano mi si appoggia sulla spalla. — Emma, datti una calmata! Smettila di fare così! — dice Neal, cercando di allontanarmi dal negozio.
    Ho capito. Ora è tutto più chiaro. Mi volto verso Neal. — Apri la porta — gli ordino, porgendogli le chiavi.
    Lui mi squadra stranito. — Ci provo, ma sappi che non cambia nulla se provo io o tu, le chiavi restano le stesse.
    Io annuisco, ma so che non è così. Infatti quando la sua mano la sfiora, la chiave gira perfettamente, e gli ingranaggi della serratura si sbloccano con un rumore sordo. La porta si apre leggermente, facendo fuoriuscire un forte odore di muffa.
    Furbo da parte di Gold, imporre sull’ingresso un incantesimo di protezione legato al sangue. Solo Tremotino o un suo diretto discendente avrebbero potuto aprire la porta. E questa è la prima dimostrazione che Neal lo è.
    Oltrepasso Neal ed entro di fretta. Mi trovo di fronte ad una massa di oggetti disordinati.
    — Cosa devi cercare qui? — mi chiede Neal.
    Istintivamente porto la mano alla tasca della giacca. Ne tiro fuori la chiave arrugginita e vecchia che sembrava essere lì apposta. — Cerchiamo ciò che apre questa chiave — rispondo di slancio. È la prima cosa che mi è saltata in mente.
    — Certo, sembra così facile — aggiunge lui sarcastico. Mi infastidisce. A un passo dal risultato, si tira sempre indietro. Come ha fatto con me, come ha fatto con Henry. Si può amare un uomo così? Può darsi, ma bisogna avere quel pizzico di follia in più, che probabilmente io in questo momento non ho. In questi giorni sono successe troppe cose. Ho scoperto un mondo che non conoscevo, e tutte le persone che amavo nella mia vita a Storybrooke, qui sembrano solo rimetterci. Sembra quasi che… No, non può essere. Scuoto la testa e scaccio quel brutto pensiero che mi è balenato in mente.
    — Trovato qualcosa? — mi domanda la voce di Neal, strappandomi ai pensieri. Ora ricordo perché lo amavo. Era il mio appiglio per non cadere nell’oblio. Ed io ero il suo. Ma ora non servo più a nulla. Non ricordo nulla.
    — No, niente di niente… tu? — chiedo. Non mi torna indietro nessuna risposta. Mi volto di scatto verso di lui. — Neal, dove sei? — Possibile che in cinque minuti sia riuscito a scomparire dalla mia vista? Dove cavolo si è cacciato?
    — Neal? — chiamo ancora.
    Lo cerco. Questo negozio sembra avere più di mille stanze, come la casa degli specchi alle giostre. È un labirinto senza uscita. Prendo a camminare velocemente, setacciando ogni centimetro di spazio. Aumento il passo mentre il mio cuore inizia a battere sempre più veloce. Sto correndo trafelata, la testa mi gira e lo spazio sembra dilatarsi attorno a me. Che diavolo succede?
    Continuo a camminare, quando ad un certo punto mi sento svenire. Mi aggrappo ad un arazzo appeso alla parete, ma deve essere attaccato molto male, perché finisco per terra facendo un baccano terribile. Mi rialzo con la vista annebbiata. Devo trovare Neal. Mi obbligo a percorrere il dedalo di stanze del negozio di antiquariato. Non capisco dove sto andando.
    Procedo a tentoni rischiando di cadere più di una volta. Infatti, mi ritrovo di nuovo con la faccia sul pavimento. Devo essere inciampata su un telo. Guardo meglio. Mi sembra di riconoscerlo… È l’arazzo su cui mi ero appoggiata, questo significa che qui non c’è nessun labirinto… Sono sempre rimasta qui. Mi si apre un mondo davanti. Ora che non c’è più Neal nel negozio, chissà quante trappole ci saranno per i curiosi. Ma perché tutte queste magie legate al suo sangue, se sapeva che sarei venuta io? Tremotino mi lascia molto perplessa, forse ho ancora più confusione di prima. È meglio che esca, subito. Neal non può essere andato lontano. E in ogni caso mi raggiungerà, penso, lanciando un’occhiata verso l’uscio.
    Strano però. Penso all’arazzo. Possibile che sia caduto per caso?
    Una vocina nella mia testa mi intima di portarlo via con me. Come posso non seguire il mio istinto quando è l’unica cosa che mi rimane della mia vita passata? Raccolgo quel pesante rotolo di stoffa e me lo trascino dietro mentre mi avvio verso l’uscita, cercando di calpestare meno cose possibili.
    Mi blocco all’istante. A fianco al mio piede scintilla un piccolo scrigno arrugginito e impolverato. Mi inginocchio e passo una mano sopra al coperchio per leggere meglio la scritta incisa.
    E.S.. Sono le iniziali del mio nome. Posso scommettere tutto quello che ho, che la chiave che ho in tasca apre questo scrigno. Lo raccolgo. Faccio un salto indietro. Sembra che il signor Gold avesse buon gusto in fatto d’arte, perché sotto quella scatola d’argento c’è una tela che rappresenta il viso di Neal così nel particolare, che potrebbe prendere vita e parlare. Un altro indizio sul fatto che è suo figlio, o almeno credo.
    La vista continua ad annebbiarsi. Perché quell’idiota mi ha lasciata sola? penso, mordendomi le labbra. Ultimamente mi sento sempre così stanca, se gli ho chiesto aiuto c’è un motivo! Avrei dovuto fidarmi solo di me stessa, come al solito, dico tra me, e finalmente riesco ad arrivare alla maniglia. La abbasso e un vento d’aria fresca mi sfiora il viso facendomi subito ritornare in me.
    La macchina gialla è ancora lì, devo solo metterla in moto e andare via. Dove diavolo si è cacciato Neal, se l’auto è ancora qui e non c’è traccia di lui?
    Smetto di pensarci, sono abbastanza sicura che se la caverà anche senza macchina. C’è ancora una domanda che mi frulla nella testa. Prima, nel negozio, non sono riuscita a vedere bene i disegni sull’arazzo. Appoggio la pesante stoffa sul cofano e lentamente la srotolo. È un intrigato disegno di rami e foglie, sembra un albero… Un albero genealogico per la precisione. Rimango pietrificata. C’è Gold, c’è Neal, ci sono io e c’è Henry. Sembra tutto come a Storybrooke. Ma sulla stoffa c’è anche Gemma. E aveva ragione lei.

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Capitolo 7
*** Aria ***


ARIA

 

 

Sono immobile davanti a quel pezzo di stoffa, tutto quello che avevo nelle mani cade a terra con un tonfo sordo. Mi avvicino ai ricami sull’arazzo sperando di essere peggiorata con la vista, ma è vero. È dannatamente vero. Ecco perché mi sembrava di ricordare vagamente Gemma. Lei è mia figlia. Ed è la figlia di Uncino. È fin troppo assurda la realtà.
    E ora che faccio? Vado lì e gli dico “Hey, ciao, ti ricordi di me? Ecco, questa qui è tua figlia” mi rimprovero mentalmente. No. Come minimo mi prenderebbe per pazza e mi farebbe ricoverare in ospedale un’altra volta.
    Una soluzione ci sarebbe. La pozione… C’è una vocina nella mia testa che crede che mi sbagli. Il mio istinto dice che sarebbe uno spreco inutile, quindi devo pensare a qualcos’altro.
    Apro di scatto la portiera e carico l’arazzo in macchina. Sono già seduta quando mi ricordo che ho lasciato cadere delle cose. Mi affaccio dal vetro. Lo scrigno è li, integro, come se non fosse mai caduto. Mi sporgo dal finestrino. È abbastanza vicino, dovrei riuscire a prenderlo senza scendere. Allungo le braccia e il busto verso quell’oggetto appoggiato sul marciapiede. Lo sfioro con un dito. Mi gira la testa.

Dove sono? Ci sono un sacco di colori, ho la vista annebbiata. Potrei essere di nuovo in ospedale, lentamente l’udito sta tornando e la confusione. L’aria stranamente non sa di disinfettante e qualcuno mi chiama insistentemente…
    — Emma? Emma! Mi stai ascoltando o sto parlando con il vuoto? — dice quella voce.
    Ma chi… Mi sento molto scombussolata. Un minuto fa ero in macchina, e ora sto parlando con Killian, e sembra molto preso da una discussione. Lo scruto attentamente. Non indossa il camice bianco, è tornato alla sua giacca in pelle, e questo non fa altro che consolarmi.
    — Sì, certo, solo che non credo di aver capito… — mi affretto a rispondere. È un sogno, non è altro che un sogno. Non riesco a capire dove diavolo siamo, però. Tutto sommato, mi riesce bene fingere di aver seguito qualcosa di quello che ha detto.
    — Ti ho solo chiesto se hai visto Gemma, c’è la torta, non c’è nulla da capire — dice lui, incrociando le braccia al petto e lanciandomi uno sguardo torvo.
    Invece credo proprio di sì, non riesco a comprendere né dove sono né di cosa stiamo parlando, figuriamoci se posso sapere dove si trovi quella bambina. Mi guardo attorno spaesata. C’è molta gente che balla, chiacchiera e si diverte. Indossano tutti vestiti variopinti, hanno strane acconciature… Sembra di essere ad una festa a palazzo.
    Osservo meglio la scena. Mi ci vuole un attimo per capire che siamo a palazzo. Intravedo David e Mary Margaret danzare tra la folla, poi ci sono anche Belle e Tremotino, e Henry, che si sta abbuffando vicino ad un enorme vassoio di dolci… Mi saluta… per Dio, mi saluta! Gli corro incontro ma Gold mi si para davanti.
    — No — dice sorridendo, appoggiandosi a quel suo dannato bastone. Poi mi appoggia una mano sulla spalla e mi spinge con forza.
    Sto cadendo all’indietro. Non riesco a muovermi. Che sta succedendo? Chiudo gli occhi pronta all’impatto col terreno. Ma non c’è nessun impatto.
    Quando apro gli occhi sono seduta in macchina con lo scrigno sulle ginocchia. Non ho idea di cosa sia successo, ma ho bisogno di risposte. E l’unica persona che è a conoscenza della magia è Gemma. Premo il piede sul pedale dell’acceleratore e parto verso casa.

Appena varco la soglia, trovo il finimondo. Divani ribaltati, quadri con il vetro rotto, cuscini sventrati… Istintivamente porto una mano alla cintura, alla ricerca della pistola. Devo ricordarmi che qui sono un civile… Sento delle urla provenire dalla stanza di Henry. L’altro Henry. Corro verso la porta, e senza pensarci due volte la sfondo con un calcio.
    La scena che mi si para davanti è quasi comica. Gemma e Henry che urlano e si tirano oggetti contro, e la Baby Sitter con due profonde occhiaie e i capelli sparati che implora pietà inginocchiata tra i due.
    — Ma siete tutti pazzi in questa famiglia? Le hanno insegnato che ci sono altri modi per aprire le porte? — mi domanda, implorandomi con gli occhi di lasciarla andare via. Il suo sguardo è iniettato di sangue, come se fosse colpa mia il suo stato attuale.
    — Che sta succedendo? — riesco a dire, allibita.
    — I suoi figli — fa una lunga pausa per prendere aria, dopo che un pupazzo l’ha colpita in piena faccia. — I suoi figli dicono di non essere fratelli — conclude la frase scandendo bene ogni parola.
    — Se ne vada — sussurro.
    — Con piacere. Ma prima mi deve pagare — ha il coraggio di aggiungere, mentre schiva una bambola Barbie che vola sopra di lei.
    Io scuoto il capo. — Se ne vada. Ora — ripeto con lo sguardo più cattivo che riesco a fare. Evidentemente è riuscito bene, perché lei fugge dalla stanza con fare molto spaventato.
    Guardo i bambini azzuffarsi e tirarsi i capelli. — Basta — mi basta dire. Anche se parlo a bassa voce, i combattimenti cessano subito, per mia (e loro) fortuna. Mi fissano con i loro grandi occhioni, attendendo una punizione.
    Guardo Gemma. Mi ricorda sempre di più suo padre. — Tuo papà è Killian, vero? — dico.
    La bimba annuisce spaventata dal mio tono di voce, e prende ad arricciarsi con le dita i capelli biondi come l’oro.
    Guardo il ragazzino, rimasto anche lui in completo silenzio. — E invece, tuo papà non è né lui, né Neal, giusto?
    Anche lui annuisce. — Mi avete adottato tu e papà un po’ di anni fa — sussurra piano.
    Io tiro un profondo respiro. — Da dove? — domando speranzosa.
    Gli occhi del bambino scrutano con insistenza le assi del pavimento. Non mi torna indietro alcuna risposta. O non lo sa, o me lo nasconde. Io devo scoprirlo, e lo scoprirò. Gli lancio un’occhiata di rimprovero e prendo Gemma per mano.
    — Prendi dalla mia borsa quella scatola di ferro, e aprila con questa chiave per piacere — le chiedo, continuando a tenere sott’occhio Henry, e sgarfando tra le carte di Neal alla ricerca dei documenti dell’adozione.
    Lei obbedisce e gira la chiave nella piccola serratura. Non voglio rischiare un’altra strana visione, è meglio che io non tocchi quello scrigno. È la chiave giusta. Lentamente il coperchio si alza, ma io sono troppo distante per vedere quello che c’è dentro. Il viso della bambina sembra indifferente…
    — Cosa contiene? — domando lanciandole uno sguardo.
    Lei mi sorride, prima di rispondere guarda meglio sul fondo e passa una mano sul velluto rosso che fodera l’interno. Poi mi guarda soddisfatta e dice: — Aria.

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Capitolo 8
*** Mamma ***


MAMMA

 

 

Credo di aver girato almeno quattro volte la frittata nella pentola, perché inizio a sentire odore di bruciato. I bambini sono a tavola e non aprono bocca, Neal non ritorna a casa. Io devo tenere tutto sotto controllo. Ho la testa altrove, non riesco a cucinare nulla di commestibile. Perché Gold voleva farmi avere uno scrigno vuoto? Cosa vorranno dire quelle visioni? E ultima cosa, ma molto più importante delle altre, e se Neal fosse disperso? rapito? o peggio… morto? Nulla di confortante tra i miei pensieri. Se lui non tornasse, io saprei badare a me stessa, ma quei due marmocchi no. Devo comportarmi da madre. Devo trovarmi un lavoro e portare il pane a casa. Proprio in fondo alla via c’è la questura… Potrei provare a fare domanda lì, magari potrei diventare un’agente, ho molta esperienza… in ogni caso se Neal non tornasse entro domani, dovrei denunciarlo alla polizia.
    L’insistente odore di frittata carbonizzata mi distoglie dai pensieri, così, prendo il telefono e l’elenco telefonico e chiamo una pizzeria per asporto.
    — Pizza a colazione? Mai mangiata? — domando ai bambini, che mi fissano con i gomiti appoggiati sul tavolo e il mento sui palmi. — Beh, la pizza è sempre buona — tento di sorridere, mentre getto via la frittata ormai nera nella spazzatura. Loro non fiatano, ingollano il latte freddo che gli ho versato nelle scodelle e scompaiono dalla cucina.
    Beh, almeno ci ho provato, dico tra me. In realtà so di essere un totale disastro. Porto Gemma all’asilo e Henry alla fermata dello scuolabus, poi passo la giornata a leggere annunci di lavoro sui giornali, e cerchiare quelli che mi interessano, fino a quando non è ora di andare a prenderli. Per cena scaldo la pizza arrivata per colazione. Sono un dannato disastro.

È mattina presto, credo verso le sette. Devo portare i bambini a scuola, e poi devo andare in questura. Ora posso denunciare la scomparsa di Neal. Si preannuncia una giornata faticosa. Mi alzo, sono quasi di buon umore, dalla cucina sento provenire un buonissimo profumo di frittelle e… Un momento. Il concetto di cucina non va d’accordo con quello di marmocchi. Corro giù per le scale e mi fiondo oltre la soglia della cucina aprendo la porta così velocemente che lo spostamento d’aria mi risucchia dentro. Come immaginavo. È tutto sotto sopra. Mi guardo attorno spaesata. Sento la rabbia salire dentro di me, ma alla vista dei sorrisi di Gemma e Henry sembra spegnersi.
    — Ciao mamma! Buon compleanno! — dicono in coro, con le mani e il viso sporco di impasto per frittelle.
    Compleanno? Com’è che lo avevo dimenticato? È il mio compleanno. Bene, partendo dal presupposto che non so nemmeno quanti anni ho in questa realtà, è un buon inizio.
    In tutto questo trambusto il mio perenne anticipo si è trasformato in un clamoroso ritardo, così, dopo aver assaggiato la frittella insapore che loro avevano fatto, e dopo aver detto, da brava madre, che era buono, trascino i bambini per la casa alla ricerca di sciarpe, giacconi e scarpe, e poi pronti per la scuola.
    Scarico Gemma all’asilo praticamente lanciandola fuori dalla macchina, sono in ritardo. Premo il pedale dell’acceleratore e parto verso le scuole medie, e continuo ad essere in ritardo. C’è anche una coda lunghissima, e nessuna macchina si muove. Appena il traffico si sblocca un po’, mi viene in mente che non ho la minima idea di dove sia la scuola di Henry. Che Diavolo! Tutte a me. E in più sono in ritardo.
    Puoi dirmi la via della tua scuola? — dico con il sorriso più dolce che posso, per nascondere tutto l’odio per il mondo che provo in questo momento.
    Per fortuna il mio telefono ha il navigatore satellitare. Ci mette almeno dieci minuti per calcolare il percorso. Io lo odio. Ho solo chiesto una strada senza inversioni a U, senza traffico, non a pagamento, che non sia strada bianca, con un limite massimo sopra i 70 km/h, e soprattutto veloce. Giuro che se dice ancora una volta “ricalcolo” lo lancio dal finestrino.
    Trattenendo qualche imprecazione, finalmente siamo a scuola.
    — Vengo a prenderti alle cinque! — gli grido mentre scende dall’auto.
    Lui sbuffa senza chiudere la portiera. — Mamma, sono in ritardo, devi entrare e giustificarmi!
    Cosa devo fare? Giuro che questo è il mestiere più difficile del mondo. Non sono portata per fare la madre di un ragazzino di undici anni, non sono portata per giustificare i ritardi a scuola, figuriamoci quando mi chiederanno colloquio i professori! — Prendi il libretto che inizio a scrivere — riesco a dire, senza sapere bene cosa scrivere. Sto improvvisando. Fare la madre significa improvvisare?
    Sono in ritardo. Un ritardo esagerato. Ma perché Henry mi fissa in quel modo ora? Sembra a metà tra lo spaventato e lo sconvolto.
    — Ehm… mamma, ho… dimenticato lo zaino a casa — sussurra.
    No. Non ci posso credere. Non ho tempo per tornare indietro ora. Ci potrei perdere tutta la mattina, e oggi il tempo mi serve.
    Tiro un lungo respiro per non sbottare. — Dì ai professori che è colpa mia, che ti giustifico domani e se non ci credono che mi chiamino pure. — Chiudo la portiera e riparto con l’acceleratore a tavoletta, verso la prima questura che trovo.
    Fare la madre può portare ad un esaurimento nervoso in poco tempo. Per fortuna che io non ho nemmeno quello.
    Entro in questura, non c’è nessuno in coda. Corro al primo sportello aperto che vedo.
    — Salve, vorrei denunciare una scomparsa — dico, la mia voce rimbomba tra le pareti dell’ufficio. Finalmente è tornata normale, non più roca come quella che avevo pochi giorni fa.
    Il poliziotto mi osserva annoiato dall’altra parte del vetro. — Come si chiama?
    — Neal Cass… — inizio io, ma l’agente mi ferma con un gesto secco.
    — Lei, non la persona scomparsa — dice con tono sempre più annoiato.
    L’atteggiamento poco interessato dell’agente mi infastidisce, ma nel frattempo sono felice che non si impicci di come sto o quelle cose da psicologo.
    — Emma Swan — rispondo seccamente.
    — Da quanto tempo non ha notizie di questa persona?
    Mi schiarisco la voce. — Da due giorni fa… un giorno e mezzo per la precisione.
    Il poliziotto guarda l’orologio appeso alla parete dietro le mie spalle e solleva le sopracciglia. — Lo sa che prima delle quarantotto ore non può denunciare la scomparsa proprio di nessuno? — Sorride ironicamente.
    — Senta, è mio marito e vorrei sapere cosa gli è accaduto. Credo di averne il diritto no? — Gioco la carta della mogliettina preoccupata, e sembra funzionare, perché sbuffando, l’agente si mette al computer.
    — E come si chiama suo marito? — sospira sottolineando le ultime due parole.
    Io sorrido compiaciuta. — Neal Cassidy.
    Passano alcuni secondi, e poi, con voce piatta, dice: — Non esiste.
    Rimango un attimo sorpresa. — Intende dire che non è nel database delle persone scomparse?
    Lui scuote il capo. — No, intendo dire che non esiste. Né su questo computer, né all’anagrafe, né da nessuna altra parte. Non esiste nessun uomo che si chiama Neal Cassidy, sposato con Emma Swan. Se è qui per farmi uno stupido scherzo e farmi perdere tempo, se ne vada. Subito.

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Capitolo 9
*** Forever and Ever ***


FOREVER AND EVER

 

 

Io sono Emma Swan. Sono Emma Swan e sono figlia di Biancaneve e il Principe Azzurro, provengo dalla Foresta Incantata e non riesco a capire bene se sono o non sono sposata con Bealfire, il figlio di Tremotino, mago oscuro per eccellenza. Dovrebbe essere questo quello che devo dire in tutti i commissariati di polizia dove sto andando? Così poi magari mi rinchiudono in un manicomio. Questo è il decimo, o forse dodicesimo ufficio che visito, ho anche chiamato di nuovo quella dannata baby-sitter incapace, che è terrorizzata dai miei figli. Devo trovare Neal. Anche se ci volesse tutto il tempo del mondo. La risposta però è sempre uguale. Nessuno lo ha mai visto o conosciuto, tantomeno i poliziotti.
    — Forse non ha mai commesso reati questo… Neal Cassidy. Se ha la fedina penale pulita è possibile che non risulti da nessuna parte — mi dicono all’ennesimo commissariato.
    Certo, come no. E gli elefanti volano magari. Sono un branco di incapaci che non sanno neppure da dove cominciare. Esco dall’ufficio sbattendo la porta.
    Mi squilla il telefono… Dentro di me spero che sia Neal, ma in fondo so che non è così. Tiro fuori velocemente il cellulare dalla tasca della giacca di pelle rossa, il numero che appare sullo schermo è sconosciuto. Rispondo.
    — Sì? Chi parla? — domando.
    — Buon pomeriggio signorina, la chiamo dall’ospedale St. Caroline, il dottor Jones chiede di lei, e a quanto pare in fretta, ma non si preoccupi, niente di grave — dice la voce dall’altra parte della cornetta, prima di chiudere la chiamata.
    Il sangue mi si gela nelle vene. Ospedale? Fretta? Neal sta male e nessuno mi ha avvertita prima? Salgo in macchina, e in circa dieci minuti sono già sulla porta dell’ufficio di Killian.
    Aspetto. Ancora. E ancora. Sembra che i minuti siano infiniti in quest’atrio, oppure che sia passato davvero tanto tempo. Guardo l’orologio. È passata un’ora e mezza da quando sono qua, e nessuno mi vuole dare notizie di Neal. Vedo un’infermiera passare frettolosa per il corridoio, e la seguo.
    — Mi scusi, mi sa dire dove posso trovare il dr. Jones? — domando con l’ansia che trapela nella mia voce.
    L’infermiera mi guarda come se si fosse appena risvegliata da un’incubo. — Dovrebbe trovarlo in terapia intensiva — si affretta a dire, proseguendo lungo il corridoio.
    Oh mio Dio… Neal lì? Che cosa gli è capitato?! Cerco di rimanere calma, ma le dita mi si stringono a pugno così forte che mi pianto le unghie nei palmi delle mani. — Mi può dire il nome del paziente che Killian… cioè, il dottor Jones sta seguendo?
    Mi guarda perplessa, come se non avesse afferrato la domanda. — Signorina, lui è il paziente.
    La vedo entrare dentro una stanza, prima di poter fare altre domande. Solo pochi secondi dopo capisco quanto pesanti siano le sue parole. Senza pensarci due volte prendo la porta per la terapia intensiva.
    Irrompo a passi svelti e pesanti nella stanza tra gli sguardi stupiti di tutti, gli unici rumori che sento sono il ‘bip’ ritmico delle macchine e il battito del mio cuore spaventato.
    Nella camera ci sono alcune infermiere e Regina in un angolo, che si è alzata in piedi con alcuni improperi rivolti a me sulle labbra, ma una delle ragazze la sta portando fuori, per fortuna. Sembra quasi costretta a mantenere la calma. Su un lettino, sotto un lenzuolo bianco, Uncino. Sembra che l’abbiano sedato. Sono sbigottita.
    Guardo una delle due donne in bianco che sono rimaste nella stanza. — Cosa sta succedendo? — domandò all’infermiera, pallida in viso quanto tutti nella stanza.
    — Immagino che lei sia Emma Swan. — Mi guarda con un sorriso carico di disprezzo, e poi continua. — Lei lo sa che sta rovinando la famiglia di un uomo sposato, che ha anche un figlio?
    Rimango allibita da quell’affermazione, ma non faccio commenti spiacevoli. — Intendo cosa è capitato a lui. La mia vita privata la conosco fin troppo bene.
    Mi guarda dall’alto in basso con gli occhi carichi di giudizi negativi, come se fossi l’ultima persona a dover stare accanto a lui. — Ieri pomeriggio era di turno qui, e ad un certo punto ha iniziato a dare di matto e a chiedere dove si trovava, chiamava una certa Gemma… Lo abbiamo sedato perché ha iniziato a diventare aggressivo.
    Lo osservo… Se è come credo, allora è una buona cosa. Faccio un cenno con mano e le infermiere, sbuffando escono dalla stanza. Mi siedo sulla seggiola accanto al lettino e osservo il suo viso addormentato. I capelli spettinati, le labbra screpolate che sembrano piegate in un sorriso sprezzante anche in quello stato. Sembra proprio come una volta. Chiudo gli occhi e appoggio la testa sul lettino. Respiro a fondo il suo profumo e crollo in un sonno profondo, sognando Casa.
    Sento un calore che mi accarezza il viso. Apro gli occhi e riconosco la sua mano, il suo sorriso, probabilmente sto ancora sognando. — Swan… avrei una domanda — dice incerto.
    Mi ricompongo e mi metto a sedere. Era troppo tempo che non mi sentivo chiamare così. Sorrido.
    Si guarda attorno, come per capire dove si trovasse. — Per quale oscuro motivo indosso vestiti di questo colore orrendo? Dov’è la mia casacca nera e…
    Sorrido ancora. Questa volta mi rendo conto di star sghignazzando. Mi porto una mano sulla bocca, arrossendo.
    — Emma… — sussurra lui.
    — Uncino, che c’è? — gli domando.
    Guarda le sue mani, spiazzato. Le mani. Non la mano. Ora ho la certezza che lui conosca tutto della Foresta Incantata, ma nulla di qua. — Buffo no? Un giorno vai a dormire con una mano sola, il giorno dopo sono raddoppiate… Forse Babbo Natale esiste! — afferma ridendo.
    Non credo che riuscirò mai a capire come fa a trasformare questioni serie in cose stupide in meno di trenta secondi.
    — Vuoi che ti racconti prima la parte in cui mi sveglio in un posto di cui non ricordo nulla o quella dove per l’ennesima volta ho dimenticato tutto del mio passato? — sorrido ironica, penso proprio che il mio racconto potrebbe essere la spiegazione della “misteriosa” comparsa della sua mano. La cosa strana è che lui sembra già sapere tutto, o forse di più.
    — Facciamo che ti racconto io una storia. Poi mi dici cosa mi è successo. Prima dimmi l’ultima cosa che ricordi. — Tira su la schiena dal materasso e si porta una mano al petto facendo una smorfia… Probabilmente è indolenzito dai farmaci…
    Mi vergogno un po’, perché non pensavo che un giorno gli avrei detto quanto è stato importante… — Il bacio da Granny's — dico in un soffio.
    Non sembra imbarazzato quanto me. Anzi. Mi guarda perplesso. — Bene, devo raccontarti più o meno quattro anni della tua vita — sbuffa. Ora le sue guance si sono fatte un po’ più rosse. — Allora, in sintesi, dopo quel bacio… beh siamo andati un po’ oltre al bacio quella notte… Non a caso è nata Gemma.
    Lo sto fissando scioccata. Non si dice una cosa del genere in mezza frase.
    Lui inarca le sopracciglia con un mezzo sorriso di sfida. — Non mi sembrava che ti fosse tanto dispiaciuto, Swan. Scherzi a parte, siamo tornati tutti nella Foresta Incantata, ci eravamo ripresi il regno e ci siamo sposati, pensa, da pirata nemico della corona a principe c’è un bel salto di qualità. L’ultima cosa che ricordo è la festa del terzo compleanno di Gemma, e che Regina tanto per cambiare ha minacciato di distruggere la nostra felicità.
    Credo di aver perso la facoltà di parlare. Mi ha detto tutto, tralasciando tutti i dettagli. Non mi ricordo nulla. Né del mio matrimonio, né della mia seconda figlia. Non ho idea di come sia il castello, né di come siano le feste in onore dei reali. Nulla. Buio.
    Uncino mi guarda senza dire nulla, forse si aspetta che io aggiunga qualcosa, e dopo il mio silenzio sembra voler parlare ancora, ma non continua.
    Prendo in mano la situazione anche se ha un’espressione strana, quasi delusa. — Ora tocca a me. Mi sono svegliata in ospedale, mi hanno detto che sono stata tre anni in coma, tu sei il dottore, sono sposata con Neal, ho due figli, Henry e Gemma, solo che…
    Killian mi interrompe a metà. — Gemma? Gemma è con te? Se…
    — Lo so, qualcuno ha lanciato un sortilegio, ora ne ho la certezza. Se volevano farmi del male ci sono riusciti, solo che non mi hanno diviso da lei, ma ora non ho idea di dove sia sparito Neal, non ho idea di come tu abbia fatto a ricordare, tanto meno di chi abbia lanciato il sortilegio. E cosa ben peggiore, sei sposato con Regina, che non ha intenzione di farmi vedere mio figlio.
    Killian strabuzza gli occhi. — Aspetta, che? Io e Regina? Neanche morto! E poi non avevi detto che Henry vive con te? — dice sempre più confuso.
    Sospiro. Lui non sa proprio nulla. — Non Henry mio figlio, un altro Henry. Non l’ho mai visto a Storibrooke.
    Mi studia corrugando la fronte. — Strano… devo saperne di più… Ma prima, portami via da Regina. Io a casa di quella non ci dormo.
    Alzo gli occhi al cielo. — Non puoi andartene, se Regina c’entra qualcosa desterai dei sospetti giganteschi.
    Killian fissa il vuoto pensieroso, con la stessa espressione assente di prima.
    Sbuffo. — Puoi dirmi che c’è? È dall’inizio del discorso che hai quella faccia.
    Si volta verso di me e mi guarda dritto negli occhi. Sembra davvero triste… — Beh, sai… Il giorno che tu ricordi come ‘il bacio da Granny's’, e probabilmente nulla di più, io lo ricordo come il giorno in cui… —  fa una pausa, e i suoi occhi diventano lucidi. — … Il giorno in cui ho giurato a me stesso che ti avrei amata sempre, e che ti avrei protetta anche a costo della mia vita. E tu sai bene che il mio ego non mi ha mai permesso di amare a tal punto una persona. Non posso smettere di pensarci, capito? Non posso smettere di pensare al fatto che tu non ricordi nulla.

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Capitolo 10
*** Realtà o Magia ***


REALTÀ O MAGIA

 

 

Un pugno nello stomaco, ecco cos’è. Non è vero. Non può amarmi così tanto. Non deve amarmi così tanto. Io non lo amo così tanto… o forse sì. Sono confusa. Mi ha detto che mi ama e che vuole venire a vivere da me, dopo praticamente il nostro secondo bacio se contiamo anche quello all’Isola che non c’è. Chiaro che per lui è tutto più semplice, lui ha dei ricordi. Non so nemmeno se mi posso fidare o no, ma perché deve essere tutto così complicato? Perché? Questa dannata stanza di ospedale mi da letteralmente i nervi. Cosa ci faccio io qui? Dovrebbe esserci Regina, in questo dannato mondo è lei sua moglie, è lei la madre di Henry e io non sono proprio nessuno.
    Sto per andarmene senza dire nulla, sono senza parole. Uncino mi afferra il polso. — Lo vedi? Fai sempre così. Quando qualcosa è fuori dai tuoi piani tu te ne vai — sibila.
    — Non è “fuori dai miei piani”, come faccio a sapere se stai mentendo? — gli dico alzando un po’ troppo la voce.
    Killian alza gli occhi al cielo, poi mi guarda sbuffando. — Usa il tuo super potere.
    Io aggrotto la fronte. Chi mi dice che il mio super potere funziona anche in questo mondo?
    — Chi ti dice che il tuo super potere non sia condizionato dalla tua folle paura di amare? — risponde lui. Il suo sguardo è così caldo che potrei sciogliermi nei suoi occhi.
    — Io non… — provo a sillabare, poi scuoto il capo. Non perderò un minuto di più con queste cose. Devo trovare Neal, trovarmi un lavoro, mantenere una famiglia, rompere quello che sembra un sortilegio e riabbracciare il mio Henry. Non ho tempo anche per le bugie. Sono di nuovo in procinto di andarmene, ma Killian salta giù dal lettino e si para di fronte a me. Giuro che se riesco a uscire da quella porta…
    — Swan, Swan, aspetta. Io posso anche abitare da te solo per un periodo, fino a quando non trovo una mia sistemazione… — sussurra, tenendosi la fronte. Il balzo dal letto gli ha fatto girare la testa.
    Giuro che gli farò pagare questi suoi stupidi giochetti. — No — sputo fuori, poi mi incammino verso la porta, schivando il suo braccio che tenta di afferrarmi nuovamente.
    — Aspetta, non andare via! Devo divorziare da Regina, e giuro che combatterò per Henry a tutti i costi. Se io vengo a vivere con te e ottengo Henry, tu avrai la possibilità di vivere anche con lui — mi dice.
    Mi blocco sulla soglia. Il mio cuore ha preso a battere velocemente. Ora non posso dire di no. — Va bene. Ma solo per mio figlio.

Ebbene, ho detto di sì a questa folle storia. Non è la cosa più ragionevole, ma ho detto sì. Ora devo solo chiamare la baby-sitter per avvertirla che sto per tornare. Digito il numero sul telefono, e subito una vocina stridula risponde.
    — Salve, sono Emma Swan, volevo solo avvertirla che stavo tornando… e dica ai bambini che oggi dobbiamo ospitare un… un amico. Grazie — sussurro, mentre la ragazza dall’altra parte ha già messo giù.
    Fatto. Killian mi guarda in un modo strano.
    — Cosa c’è? — domando.
    Solleva le spalle e sorride. — Non credevo che fossi tipa da lasciare i tuoi figli con una baby-sitter.
    Cosa avrei dovuto fare? Portarli all’ospedale con me? Che affermazione stupida, penso, ma non dico nulla di tutto ciò. Mi limito a mordicchiarmi l’interno della guancia e a rispondere: — Non commentare le mie scelte e preparati, dobbiamo andare.
    Lancio sul lettino un paio di jeans e una camicia, lui storce il naso. Faccio spallucce e esco dalla stanza, anche se è uno stile che poco gli si addice sono pur sempre i suoi vestiti, in questo mondo.
    Tutto l’atrio è in subbuglio. Regina deve aver chiamato tutti i parenti a quanto sembra. Me la svigno prima che qualcuno possa fermarmi, vedersela con loro è compito di Uncino. Corro giù per la rampa di scale che porta al parcheggio, e aspetto lì fino a quando non lo vedo sbucare trafelato. Sale in macchina sistemandosi il colletto della camicia azzurra, infastidito, mentre io metto in moto. In pochi minuti arriviamo di fronte alla porta di casa.

Suono al campanello, ho dimenticato le chiavi dentro. Sento un rumore di passi, e poi il chiavistello arrugginito che funziona a fatica. Dalla fessura della porta compaiono gli occhi spaventati della mia piccola.
    — Gemma, ti ho mai detto che devi chiedere chi è prima di aprire la porta? — le domando con fare severo.
    Scuote la testa.
    — Beh, allora te lo dico adesso — rispondo un po’ imbarazzata. Killian penserà che sono una madre disastrosa, il ché è vero.
    Entro in casa seguita da Uncino, che appena vede Gemma le corre in contro e la abbraccia. Lo fulmino con gli occhi, ma lui sembra non farci caso. Ora tocca solo a me, devo fidarmi. Mi guardo attorno. È tutto sotto sopra… Che cosa è successo?
    — Gemma, dov’è Angelea? — le chiedo a bassa voce.
    Lei continua a guardarmi con gli stessi occhioni azzurri del padre. È andata a cercare Henry — sussurra.
    Killian mi guarda stranito. — La baby-sitter si chiama Angelea?
    Vorrei incenerirlo con lo sguardo. — Non è questo il punto… Cosa vuol dire che è andata a cercare Henry? — continuo a chiedere a Gemma.
    Gemma sospira, e risponde come se fosse una cosa ovvia. — È scappato.
    Il cuore mi si ferma in gola. L’atmosfera sembra congelarsi di colpo. Aveva ragione lui. Avrei dovuto fidarmi solo di me stessa. Invece ho delegato il mio compito. Senza dire una parola prendo la mia giacca e corro in strada.

A New York un ragazzino come Henry se lo mangiano. Come può essere sparito? Non può essere andato lontano, è a piedi, è notte, ed è praticamente un bambino. Non so nemmeno se sta bene!
    Corro per la quarantesima volta in poche ore alla stazione di polizia. Anche se è sera tardi non dovrebbe essere chiusa. Infatti le luci sono tutte accese, ma qualcosa mi blocca dall’entrare. Sulla porta dell’uscita infatti, vedo una ragazza che conosco fin troppo bene. Angelea. Mi affretto a bloccarla.
    — Come hai fatto a perdere mio figlio?! — la aggredisco.
    — Io… Io non… — Sembra davvero spaventata, è sul punto di piangere, così cerco di mostrarmi meno severa.
    — Calmati, se è scappato non è colpa tua — le dico, poggiandole una mano sulla spalla.
    Mi guarda ancora più spaventata. — La porta era chiusa a chiave, capisci? A chiave! L’unica chiave l’avevo io, e quando sono uscita per cercarlo, la porta era ancora chiusa! Sembra sparito nel nulla, e alla polizia mi prendono per pazza, e mi dicono che non esiste nessun Henry Cassidy!
    Singhiozzando si appoggia sulla mia spalla. Io avrei una spiegazione da darle, ma sono certa che non la accetterebbe troppo facilmente. — Ok, ora tu stai calma, lo troveremo, però basta lacrime, va bene?
    Annuisce, e ci avviamo verso casa.
    Entriamo in salotto, stanche e preoccupate. Killian sta dormendo con Gemma tra le braccia sul divano. Fa uno strano effetto. In questo momento mi fa quasi tenerezza. Appoggio la giacca, e noto che la baby-sitter si è bloccata sulla soglia. Sembra molto stupita.
    — Killian — dice in un sussurro. Lui apre leggermente gli occhi, la guarda abbozzando un sorriso, poi dice, con la voce impastata dal sonno: — Angie, questo è un sogno.

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Capitolo 11
*** Vecchi Ricordi d'Infanzia ***


VECCHI RICORDI D’INFANZIA

 

 

“Angie”? Chi cavolo è questa Angie? La baby-sitter si chiama Angelea, non Angie. Sono rimasta allibita. Killian sembra essersi assopito due secondi dopo aver detto quelle poche parole, che rimbombano nella mia testa come un’esplosione. La ragazza lo guarda impietrita. Forse è scioccata quanto me.
    — Io… Io devo andare — sussurra senza guardarmi in faccia, e si avvia a passi svelti verso la porta di casa.
    — No. Tu non vai proprio da nessuna parte, voglio delle spiegazioni. — Sposto il braccio in direzione della cucina, con un sorriso ironico. Lei sospira, si siede su una delle sedie in legno e aspetta le mie domande.
    Io non mi siedo. Regola numero uno degli interrogatori, fai capire chi comanda. Mi metto in piedi di fronte a lei, rigorosamente dall’altra parte del tavolo (regola numero quattro, mantenere il distacco), e con le mani appoggiate sul piano in legno sposto il peso sulle braccia tese, inclinando il mio corpo minacciosamente verso di lei. Angelea sembra intimorita da questa posa da manuale, ma non sa cosa le aspetta se non mi dice tutta la verità.
    — Allora, dimmi Angie. Quanta confidenza con il mio… amico. — Il mio tono di voce tradisce palesemente il linguaggio del corpo. Dannata la mia memoria che non sa in quale dei grandi insiemi catalogare il padre di mia figlia.
    — Io… In realtà è una lunga storia, perché non ne possiamo parlare un’altra volta? — Sorride nervosa e si guarda attorno evitando i miei occhi puntati su di lei come riflettori.
    Sento che c’è un mondo intero che mi sta nascondendo e io ne ho già due di cui preoccuparmi, non mi serve una terza realtà da scoprire. — Ho tutta la notte. Se non parli non esci da questa cucina — rispondo secca.
    Lei si morde le labbra carnose. — Non saprei da dove iniziare…
    La ragazza tamburella con le dita sul tavolo. Ha le unghie rovinate, sembrerebbe una ragazza che non ha molto tempo per se stessa.
    — Inizia da quando hai conosciuto Killian Jones — le ordino. La mia posa è diventata quasi statuaria, il mio sguardo avrà bisogno di molto più tempo prima di cedere.
    Lei mi lancia uno sguardo stanco, e poi inizia. — Io e Killian…
    — Io e Angie siamo fratelli. — Con il suo solito sorriso beffardo, Uncino sbuca fuori da dietro la porta, concludendo la frase della ragazza. Lo guardo con gli occhi più cattivi che riesco ad immaginare in quel momento, ma il suo sorriso non sparisce. — Sì, sono sempre stato qui, ma volevo vedere fino a quanto poteva spingerti la tua gelosia, Swan.
    — La mia cosa? — esclamo. Che sbruffone.
    — Gelosia, Swan. Quel sentimento di rabbia e impotenza che prende le viscere quando sai che la persona che ami potrebbe amare qualcun altro più di te. Comprendi? — dice, atteggiandosi come Capitan Jack Sparrow.
    Se non la smette subito di sorridere, gli rompo tutti quei denti bianchi. — E scusa, toglimi una curiosità: chi amerei, io? — Alzo le sopracciglia, quando mi rendo conto che le sue attenzioni sono passate all’altra persona nella stanza, la ragazza che dice essere sua sorella.
    — Eri morta. Mi hanno detto che eri morta. — Ha smesso di sorridere. Gli occhi lucidi nascondono nostalgia, probabilmente di tempi andati. Ora capisco che avrei dovuto comportarmi in un’altra maniera con lei. Avrei dovuto essere accogliente, invece sono stata scortese e prevenuta.
    — Io… Mi dispiace… So che sarei dovuta tornare, ma… — Angelea è scoppiata in singhiozzi e racconta la sua storia, mentre Killian trattiene le lacrime a fatica e la guarda come se questa dovesse essere il loro ultimo incontro.

Diciotto anni prima, Foresta Incantata.
Liam e Killian Jones erano due ragazzi pieni di vita, sempre in cerca di guai. Il primo aveva compiuto da poco diciotto anni, il secondo, invece ne aveva quasi sedici. Il padre si era risposato da qualche anno con quella che loro chiamavano la “strega”. La disprezzavano, perché non era bella nemmeno un ottavo di quello che era la loro madre, eppure non aveva nemmeno metà degli anni che ci si aspetta dalla moglie di un uomo dell’età del signor Jones. In più, essendo quasi coetanea dei due ragazzi, si sentiva in diritto di essere servita e riverita proprio da loro. A vent’anni, aveva già una bambina di quattro, che aveva chiamato Angelea. Questa bimba, oltre aver preso lo stesso cognome dei due fratellastri, grazie alla madre, aveva anche ricevuto dono di tutta la parte di eredità che spettava a loro per discendenza. Sfortunatamente l’anziano signor Jones venne a mancare prima che i fratelli potessero mettere bocca sulla faccenda. La strega aveva già preso possesso del patrimonio, e aveva deciso di risposarsi con una sua vecchia fiamma, che però non tollerava i bambini. Senza pensarci due volte, mentre tutti in casa dormivano, lei abbandonò la bambina dentro un cespuglio, sperando che i lupi della foresta la mangiassero. E questo era quello che tutti avevano creduto fino ad adesso.
    In realtà, accadde che un cacciatore acquattato dietro un albero per cercare le sue prede assistette alla scena, e impietosito dal pianto disperato della bambina la prese con se, e la curò come se fosse sua figlia. La ragazzina cresceva in età, bellezza, grazia e saggezza, ma ben presto le cose cambiarono. Anche il cacciatore morì, e lei si trovò a soli quattordici anni per le strade di una città che non conosceva a raccogliere anche le più piccole briciole di pane che cadevano dalle tovaglie sbattute dai terrazzi delle casupole. Forse per il caso, o per sua fortuna, a diciassette anni venne sbalzata in un mondo con opportunità più grandi.

Manhattan, oggi.
Il racconto di Angelea sembra tratto dal libro delle fiabe di Henry, ma c’è qualcosa che non torna.
    — Hai detto che sono passati diciotto anni… tu ne hai raccontati solo diciassette — dico in un soffio. Immagino che la mia domanda sia fuori luogo vista la situazione di shock che ha creato la sua rivelazione.
    — L’ultimo… L’ultimo anno — balbetta.
    Uncino mi lancia uno sguardo di rimprovero mentre cerca di mandare via le immagini più brutte della sua vita che gli sono rimaste impresse nella mente.
    — Killian, promettimi che non ti preoccuperai per me — lo implora Angelea.
    Lui si gira verso di me, come se potessi capire il motivo di quella raccomandazione fatta dalla sorella. Faccio spallucce e lui annuisce in muto silenzio. L’unica che riesce ancora a parlare sembra essere proprio quella ragazza appena diciottenne.
    — Allora. Non ti arrabbiare, ma sono incinta di un ragazzo che mi ha promesso di sposarci non appena riuscirò a tornare alla Foresta Incantata — dice in un solo colpo, serrando gli occhi e la mascella, aspettandosi di tutto. Quelle parole dette tutte di un fiato arrivano come un fulmine a cel sereno.
    — Che cosa…? — La voce di Killian tuona nella stanza. — Chi è? Io quello lo ammazzo… LO AMMAZZO!!!
    Alla faccia del “non devi arrabbiarti”, penso. Guardo la ragazza con compassione. — Forse è meglio che ci parli io — sussurro mentre rincorro Uncino che sta uscendo di testa (oltre che dalla stanza). Lo seguo fino  a quando non lo vedo uscire sul terrazzo.
    — Lei starà bene, io ho avuto Henry alla stessa età, e ora lo amo più di chiunque altri — sussurro, posandogli una mano sulla spalla.
    Lui scatta come un leone. — Con tutto il rispetto, Swan, ma la tua vita non è stata affatto semplice. — I suoi passi nervosi e ritmici scandiscono il passare del tempo. Ora lui ha solo quello in testa, ma non pensa a quanti sono i nostri problemi in realtà. Dobbiamo trovare Neal, Henry, far ritornare la memoria più o meno a tutti e spezzare un sortilegio di cui ne sappiamo poco e niente, nemmeno chi l’ha mandato.
    Ora come ora Uncino non può aiutarmi. Alla cerchia delle persone che ricordano qualcosa del mondo delle fiabe si è aggiunta una persona però. Angelea Jones. Ma non so fino a che punto mi posso fidare di una ragazzina diciottenne incinta che crede che quando tornerà laggiù ci sarà qualcuno ad aspettarla. Probabilmente quel bambino finirà esattamente come il mio Henry. Adottato da una strega.
    Da questa storia però ho capito una cosa importante. Non ho perso le mie doti di investigatore. Quindi, ho un lavoro assicurato che mi aiuterà anche a trovare l’altro Henry e Neal. 

Entro in casa e prendo il PC. Non sono bravissima, ma a creare annunci accattivanti al computer me la cavo benino.
    Passano poche ore, quando qualcuno suona alla porta.
    — Salve, sto cercando l’investigatrice privata Emma Swan — gridano dall’altra parte. Strano che ci sia già qualcuno interessato all’annuncio. Quando mi rendo conto della persona che ho davanti, mi si gela il sangue nelle vene. Riesco solo a sussurrare: — Mary Margaret…

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Capitolo 12
*** Henry ***


HENRY

 

 

— Come prego? — ribadisce lei perplessa.
    Sono una stupida. Come mai non mi è ancora entrato in testa il fatto che nessuno si ricorda della mia esistenza? — No, nulla… Stavo pensando che lei potrebbe chiamarsi Mary Margaret.
    Biancaneve continua a guardarmi perplessa mentre io continuo ad arrampicarmi sugli specchi… Di questo passo sembrerò più una veggente che un’investigatrice…
    — Ah… Lei è proprio perspicace! Mi chiamo esattamente così! — sorride entrando nel mio appartamento e si siede sul divano, continuando a parlare. — Lei è l’investigatrice privata Emma Swan? — mi chiede.
    — Immagino di sì — rispondo io, con un timido sorriso.
    Lei quasi ignora la mia risposta, sembra che vada con molta fretta. — Senta, la situazione è questa — dice cambiando immediatamente sguardo. — Io… Io credo di essere seguita.
    Sembra davvero spaventata, lo capisco anche dal modo con cui ha abbassato la voce dicendo l’ultima frase. — Ne è sicura? Perché molte volte è solo un’impressione o… che ne so, qualcosa di simile — affermo.
    Mi guarda con occhi torvi. — Sicura al cento per cento, ma non sono mai riuscita a coglierlo sul fatto.
    Sorrido. — Lei è una donna determinata, ma nel caso in cui dovesse incontrare questa persona, non la picchi, o diventerebbe perseguibile penalmente.
    Mary Margaret mi squadra dalla testa ai piedi, probabilmente vuole capire se sono davvero quello che dico di essere. — Ebbene, cosa vuole fare per incastrarlo? — mi domanda.
    — Incastrarlo? Sembra sicura del fatto che sia un uomo — dico.
    — Certo che lo è, fuori da casa mia sento sempre odore di dopobarba, e io di certo non lo uso — replica offesa.
    In conclusione ci mettiamo d’accordo sulla strategia. Se fosse un caso di stalking sarebbe una questione da prendere con le pinze. Prima di tutto controllo il suo cellulare. Scarico tutti i dati sul mio PC, controllo i tabulati telefonici. A prima vista non noto nulla. Ricontrollo. Non c’è nessun numero che la chiama frequentemente, nemmeno un prefisso che si ripete. Chiedo a Mary Margaret di portarmi gentilmente il suo computer, e lo controllo. Verifico i social network, e noto una cosa interessante in una delle foto di Biancaneve. C’è un’ombra di un’altra persona che sembra guardarla. È inquietante e affascinante allo stesso tempo. La prima cosa a cui penso è Peter Pan, ma è impossibile, perché la corporatura dell’ombra è troppo robusta. Per ora questo è tutto quello che ho.

Sono chiusa nella mia stanza da un’ora e mezza, e sto ancora fissando quella foto. Angelea mi sta dando una mano, ma di tecnologia se ne intende meno di Uncino, che ogni tanto entra nella camera a sbirciare il nostro lavoro.
    — Swan, quand’è che vuoi uscire da quel covo di aria viziata? Dobbiamo parlare di una cosa seria — mi rimprovera.
    Per l’ennesima volta chiudo la porta con una spinta e mi rimetto al lavoro. Mi sento un po’ stanca però… Non faccio in tempo a pensarlo che mi ritrovo in un sogno, probabilmente.

Non vedo nulla, è tutto nero. Sento solo una risata fin troppo conosciuta. Tremotino. Continuo a non vedere nulla, ma più o meno percepisco dove si trova.
    — Emma, ho visto che hai aperto lo scrigno che ti ho fatto trovare. — Ancora risate, ma sta volta la voce si sposta. Sembra quasi che mi stia girando attorno.
    — Se volevi che lo trovassi, perché dentro non c’era nulla? — grido.
    Ora sento il suo alito sotto il mio naso. — Nulla? Io non direi proprio Nulla. — Lo sento ridere nuovamente, poi riprende la frase. — Se non sbaglio hai visto quello che è accaduto quella notte di cui non ricordavi nulla… E c’è anche un’altra cosa… Il pirata si è ripreso le sue vesti nere, no?
    Sono stupita. Non avevo assolutamente collegato le due cose… E se ci fossero altri che dal momento in cui ho aperto lo scrigno si ricordano tutto?
    — Certo che ci sono, che domande! — ride lui. Si prende gioco di me. Mi ero scordata che Tremolino legge il mio pensiero.
    — Gold non starò ai tuoi stupidi giochetti. Sai più di quello che vuoi far mi credere — dico a voce alta, in maniera che ovunque sia possa sentirmi.
    Lui ride ancora. Non posso più ascoltarlo ridere, mi fa rabbrividire. — Io so esattamente quanto ho voglia di dire. Nulla di più, nulla di meno — ringhia lui. Io sento il suo fiato sul collo, ma sembra che i miei occhi non si vogliano aprire. — Emma, tu hai un sacco di tasselli che devi solo mettere assieme. Il nuovo sortilegio, Neal che sparisce, Henry, quello finto, come ti ostini a chiamarlo, che scappa proprio quanto tu decidi di portare a casa il tuo amico pirata che ricorda tutto. Fai uno più uno, Swan.
    — Neal? Tu cosa sai di Neal? — Quest’oscurità mi confonde le idee.
    — Baelfire sta bene, è con me. Se restava lì sarebbe stato di intralcio al tuo riavvicinamento con il pirata — mi sussurra.
    Metto le mai avanti e inizio ad agitarle per trovare Tremotino. — ‘Con te’… vuol dire che è morto anche lui? — Mi si stringe il cuore solo a pensarci, solo che è la dannata verità nel mio vero mondo.
    Di nuovo la sua risata. — No, l’hai visto anche tu, è nel negozio.
    Cosa? Sono confusa, questa dimensione tenebrosa in cui mi trovo non mi permette di mettere in ordine le idee e in più non ho idea di dove sia quel maledetto Signore Oscuro.
    — Nel tuo negozio non c’era nulla, se no l’avrei trovato! — La voce esce rabbiosa, carica di acidità.
    — Oppure l’hai visto ma sei stata così disattenta da non accorgertene… Facciamo uno scambio, io ti dico quello che so, e tu mi risarcirai più avanti — ridacchia di nuovo.
    Sorrido amaramente. — Ho altra scelta?
    — In effetti, no. Parliamo di arte. Ti piacciono i dipinti? — mi domanda. Se solo sapessi dov’è gli salterei al collo per strangolarlo.
    — Gold, dimmi quello che voglio sapere senza girarci attorno — sputo fuori digrignando i denti.
    Lui sghignazza. — Pensa, a me piace molto l’arte, tanto che ho fatto di mio figlio un dipinto. Fai attenzione al gioco di parole Emma, non farti portare fuori strada dalle tenebre. — Se non la smette di ridere quando torna tutto normale glie la faccio pagare, costi quel che costi.
    — Di tuo figlio… Tremotino, hai rinchiuso Neal in un dipinto? Sei impazzito? E di Henry? Che ne hai fatto di lui? — chiedo.
    Un fruscio alle mie spalle mi fa sussultare. Mi pare di averti già detto che io non centro nulla con lui. Anzi, sarò buono e ti dirò di più. Non sono poi così morto come credevo. — Sento la sua risata che si allontana sempre di più, poi tutto silenzio. Finalmente apro gli occhi.

Angelea mi guarda stranita. — Emma, è tutto a posto? Sembra che tu abbia visto un fantasma…
    Inclino la testa di lato passandomi una mano tra i capelli. Se solo sapesse quello che ho visto potrebbe capirmi. Le parole di Gold mi rimbombano ancora nella mente. Non riesco a comprendere come lei non si sia accorta che per tutto quel tempo non ero in me. — Da quanto sono qui, incantata? — le domando.
    — Incantata? Non ti sei incantata mai… solo che un attimo eri tranquilla, e un attimo dopo avevi gli occhi sbarrati e le unghie piantate sul bracciolo della sedia — mi spiega.
    Guardo l’orologio. In effetti sono passati solo una manciata di secondi, perché segna sempre la stessa ora. Una visione così lunga in pochi decimi di secondo, interessante. E ora ho molto più materiale su cui lavorare.
    — Se tu fossi in un posto, e ti avvertissero che sta arrivando una certa persona, per quali motivi avresti per scappare? — chiedo soprappensiero immaginando la fuga di Henry.
    Lei scrolla le spalle. — Beh, io scapperei perché quella certa persona ha informazioni su di me che non voglio far sapere… Stiamo parlando ancora del caso di Mary Margaret, giusto? — Mi osserva speranzosa.
    — In realtà no. — Mi alzo in piedi ed esco dalla stanza.

Fuori dalla porta trovo Uncino che mi aspetta infastidito. — Adesso che hai finito, mi puoi ascoltare? Si tratta di Henry.
    Strano, ma io volevo fargli la stessa domanda… — Anche io ho qualcosa da chiederti su di lui — asserisco secca.
    Lui sbuffa e mi blocca con un cenno della mano. — Prima devi sapere una cosa. Regina mi ha chiamato, e ha detto che non le stai molto simpatica — sorride ironico. — Seconda cosa, Henry ha trovato il libro e…
    Lo interrompo. — Non è del mio Henry che voglio parlare. L’altro Henry, è scappato perché aveva paura di te… Tu sai qualcosa su di lui che non vuole far sapere.
    Lui ride e poi mi guarda negli occhi. — Io questo Henry di cui parli non l’ho nemmeno mai visto, come potrei sapere qualcosa che tu non sai?
    Alzo le spalle. — Non ne ho idea… Ma forse nella Foresta Incantata non si chiamava Henry.
    — Swan, allora abbiamo bisogno del libro del nostro Henry — mi dice. Lo fulmino con gli occhi, e lui si corregge sbuffando. — Il tuo Henry.

Usciamo di casa lasciando Angelea da sola con Gemma. Prendiamo la macchina e in poco tempo siamo sotto casa di Regina. Killian suona al campanello, e lei apre la porta. Appena lo vede, glie la richiude velocemente sul naso.
    — Regina, per favore. Abbiamo bisogno dell’aiuto di Henry, è questione di vita o di morte — cerca di convincerla, massaggiandosi la punta del naso e serrando i denti per non sputare fuori una valanga di improperi.
    Da dietro la porta la voce arrabbiata di Regina Mills sibila: — E allora ti lascio morire, te e la tua amichetta.
    Sbuffo risentita. Ora Uncino deve lasciar parlare me. — Regina, se non ci lasci entrare anche tu e Henry sarete in pericolo, tu non capisci la gravità della questione.
    Dei passi. Qualcuno si è avvicinato alla porta. Henry, sento la sua voce. —Mamma, chi c’è alla porta? — domanda a Regina.
    Lei sembra esitare a rispondere così Uncino prende la parola. — Henry, sono io, per favore aprimi la porta.
    Regina e Henry discutono. Aspettiamo qualche minuto sulle scale della palazzina, dopo di che, il viso nero di rabbia di lei ci apre la porta. Si sposta di fianco per farci spazio ed entrare.
    Killian scivola dentro e abbraccia Henry come se non lo vedesse da anni, mentre io e la madre che assistiamo alla scena, ruggiamo: — Allontanati da mio figlio.
    Regina mi guarda con odio e pretende delle spiegazioni, chiaramente. Killian le intima di calmarsi e le racconta tutta la storia dall’inizio. Il primo sortilegio, Storibrooke, Henry, Tremotino, il libro di Henry… E finalmente arriva ad oggi, con questo nuovo sortilegio, il mio coma, Gemma, l’altro Henry, Neal…
    Sembra averla presa bene. Sorride, dice che capisce perfettamente e poi sparisce in cucina. La seguo. Vedo che prende il telefono in mano… — 911, qual’è il problema? — dicono dall’altra parte della cornetta.
    Appena sento quelle parole tolgo il cellulare dalle sue mani e chiudo la chiamata. — Regina, per piacere, se non ci vuoi credere, lasciaci almeno tentare. Dov’è il libro?
    — Siete dei pazzi! Io non lascerò mai la custodia di mio figli ad un pazzo, capito Killian? — grida spaventata. Tutto sommato fa quello che le chiedo, come se potessimo prenderla in ostaggio.
    Henry ci porta il libro, e sembra molto interessato alla nostra teoria. Dice che servirebbe a spiegare i suoi sogni.
    Sfoglio le pagine velocemente alla ricerca di un volto conosciuto. Eccolo, ho trovato l’altro Henry.
    Killian fissa spaventato il foglio. — Questo è…
    Non riesce a concludere la frase, perché Henry lo precede con il suo solito entusiasmo. — Lui è Sandman, l’Uomo dei Sogni!

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Capitolo 13
*** L'Omino del Sonno ***


L’OMINO DEL SONNO

 

 

Quando ero piccola, in un orfanotrofio fra i tanti in cui sono stata, mi raccontavano la storia dell’Omino del Sonno, che la sera spargeva la sua sabbia magica sugli occhi dei bambini per fargli dormire sonni felici. Alcuni lo chiamano “Uomo dei Sogni”, nel libro di Henry lui è Sandman. Riesco a comprendere anche gli occhi spaventati di Killian, in quanto è sparito l’Omino del Sonno, e non credo che siano in molti nella Foresta Incantata ad avere un buon rapporto con il sonno. D’altronde, è stata l’arma prescelta di Regina. Tutti conoscono bene l’incantesimo del sonno lanciato a Biancaneve, no? E io ho il sentore che chiunque abbia portato Sandman con se, sia una minaccia per tutti gli abitanti di Storibrooke, sempre che tornerà ad esistere un giorno.
    — Sandman — sussurra Killian scioccato. — Se è davvero lui, credo che abbiamo un bel problema da risolvere. E subito.
    — C’è qualcosa che hai dimenticato di dirmi, Uncino? — sorrido sarcastica. Dal suo atteggiamento nei confronti di questo Sandman, capisco perfettamente che mi ha sempre tenuto nascosto parte del racconto.
    Henry ci osserva con sguardo assente. — Uncino? Papà, tu sei il capitano della Jolly Roger? Davvero?
    Killian sorride e gli da una pacca sulla spalla. Posso solo immaginare la gioia di mio figlio nello scoprire che suo padre adottivo è un pirata delle fiabe. C’è un solo insignificante problema… Non ha la minima idea di chi sia io, e non esiste alcuna storia che gli possa raccontare la verità.
    — Emma, mi dispiace, avrei dovuto dirtelo subito — Killian prende un respiro profondo, e poi riparte. — Quando è nata Gemma, io… Beh, io ho avuto un piccolo diverbio con Tremotino, e lui ha giurato che avrebbe ostacolato la nostra felicità in qualsiasi modo.

Storybrooke, tempo prima…
— Killian, puoi prenderla in braccio, non ti mangia! — Emma sorride dal lettino di ospedale in cui era sdraiata da alcuni mesi. È stata una gravidanza difficile, ma ce l’ha fatta. La sua bambina è nata. Uncino sembra essere terrorizzato da quella creaturina che piagnucola e si dimena in un fagottino di coperte rosate. Sua figlia. Sua figlia era nata.
    — Io… Io non ho paura di lei… Potrei farle male… Si potrebbe rompere —balbetta Killian rosso in viso.
    Emma lo osserva, e non riesce a trattenere una risata nel sentire quelle parole. — Rompere? Killian, vieni qui e prendi in braccio tua figlia. Io avrei bisogno di alzarmi e sgranchirmi un po’. 
    Prima che possa aggiungere altro Uncino si ritrova il leggerissimo fagotto tra le braccia. — Emma, aspetta… Ho deciso il suo nome… La chiameremo Gemma.
    La donna si siede sul lettino e punta gli occhi dritti in quelli del pirata. — Gemma? Non mi piace… È troppo simile al mio… E poi avevamo già pensato al suo nome.
    — Lo so, — inizia lui con occhi adoranti. — ma non sapevo che fosse così… Non so, ha qualcosa di particolare… Guardala, è un esserino così fragile, ma negli occhi ha la forza di un leone… Come te. Mi sembra corretto che abbia il tuo stesso nome.
    Emma alza le sopracciglia e sospira. — E va bene… Ma ricorda una cosa, io non sono fragile — sorride e scende dal letto barcollante, ma felice.

Gemma cammina a passi incerti verso le braccia aperte del padre. — Emma, hai visto? Te l’avevo detto che impara molto in fretta!
    Emma sospira. Da quando l’aveva presa in braccio per la prima volta, suo marito se ne era completamente innamorato e non l’aveva lasciata mai un secondo.
    — Ha i tuoi occhi… — sorride lei guardando il marito.
    — Swan, se fosse così, potrei pensare che non sia mia figlia — sghignazza lui arruffando la zazzera di capelli mori della piccola che aveva quasi un anno.
    — Davvero? — asserisce lei con sguardo furbo, avvicinandosi pericolosamente alle labbra dell’uomo.
    — Forza, dimostramelo — dice un’attimo prima di baciarla appassionatamente.

— Dobbiamo tornare nella foresta incantata — sussurra Killian giocherellando con le dita sull’uncino.
    — Cosa? Sei impazzito? Gemma ha solo due anni, e Henry non accetterebbe mai di seguirci, pensa a Regina… — dice preoccupata Emma.
    — Lei ha mai pensato a te? — ruggisce lui. Uncino, in preda all’agitazione, con un gesto rabbioso colpisce una parete con l’unica mano che ha.
    — Diamine Killian, qual’è il problema? — sibila Emma infastidita da quel comportamento. — Non nascondermi le cose, sai che odio quando fai così!
    Il pirata le volta le spalle, come se si vergognasse di guardarla negli occhi. —Swan, ho combinato un macello, perdonami. Sai bene quanto Gold mi odi per aver rovinato la sua famiglia, e ora lui vuole fare lo stesso con la nostra. Mi dispiace, è tutta colpa mia. — Una lacrima amara scende solitaria lungo la sua guancia.
    Emma lo osservò per pochi istanti, prima di rispondere. — Quindi, come ci arriviamo nella Foresta Incantata? — chiede accarezzandogli il viso ispido di barbetta.

Foresta Incantata, tempo prima…
— Emma? Emma! Mi stai ascoltando o sto parlando con il vuoto? — Killian sembra infastidito e spaventato, ma Emma non lo sta ascoltando, è troppo presa dalla bevanda che ha in mano per ascoltarlo.
    — Sì, certo, solo che non credo di aver capito… — dice lei roteando il liquido bluastro nel bicchiere di vetro.
    — Ti ho solo chiesto se hai visto Gemma, non c’è nulla da capire — risponde infastidito guardandosi attorno. — Siccome a questo compleanno hai deciso di invitare qui anche il Coccodrillo, sarebbe bene tenerla d’occhio. 
    La festa a palazzo per il quarto compleanno di Gemma procede bene. Gold sembra essere molto più tranquillo di quanto Uncino aveva programmato. Probabilmente il tempo guarisce le ferite… E poi l’aria di casa fa bene a tutti…
    — No, non l’ho vista… — sorride tranquilla Emma, ancora presa dal suo drink.
    Proprio in quell’istante un urlo congela l’atmosfera. Killian corre al centro del salone, da dove provengono le grida. Uno spettacolo agghiacciante si para davanti ai loro occhi. La piccola principessa sdraiata a terra, con una polverina sul viso, sembra quasi addormentata.
    — Gold, che le hai fatto — grida Uncino estraendo la spada affilata dal fodero.

   — Nulla… Magari dovevate informarvi delle persone che abitano la foresta prima di invitare tutto il popolo a questa stupida festa — esclama Tremotino sghignazzando.
    La principessina sembra caduta in un sonno profondo pieno di sogni da cui non si risveglierà più, e lentamente i suoi capelli diventano dello stesso colore della sabbia che le sporca i lineamenti delicati. Dorati.

Manhattan, oggi.
— Quindi stai dicendo che la colpa è di Tremotino? — sussurro io. Non capisco… Se Tremotino voleva colpire soltanto Gemma, perché siamo finiti in questa realtà? I racconti di Killian hanno smosso la nebbia che c’è nella mia testa, ma ancora non riesco a ricordare… Non sono sicura che sia colpa di Gold, lui aveva già avuto la sua vendetta su mia figlia…
    — No, secondo me ti sbagli — esclama Henry sorridendo. — Ammesso che la Foresta Incantata esista — conclude vedendo che Regina ci lancia occhiatacce.
    — Per favore, se non ci credi, almeno non metterci i bastoni tra le ruote — sospiro io rivolgendomi a lei.
    Regina sorride amaramente abbassando gli occhi al pavimento. — Dovevi pensarci prima, Swan. Hai distrutto la mia famiglia, e ora ne pagherai le conseguenze — sputa fuori lei.
    Regina è una donna di parola. E ora una domanda mi sorge spontanea: Esistono davvero i buoni e i cattivi? Probabilmente no. L’appellativo di “buoni” viene dato a quelli che sacrificano il bene del “cattivo” per il bene comune.

Io e Killian saliamo in macchina e partiamo per il negozio di Tremotino, sono certa che troveremo lì le risposte necessarie. Siamo per strada quando mi arriva un SMS di Mary Margaret.
    Emma, devi venire subito a casa mia, credo che l’uomo si stia aggirando in giardino.
    In un batter d’occhio siamo da lei, per fortuna che è di strada. Appena parcheggio l’auto vedo un’ombra fuggire sul retro della casa. La corporatura potrebbe corrispondere a quella della foto… Faccio cenno a Killian di seguirmi in silenzio e appoggio le spalle al muro dell’abitazione. Cavolo. Mi sono appena resa conto di non avere con me la pistola. Basta pochissimo, qualche secondo di attesa e l’ombra ci coglie impreparati.
    — Emma? domanda lo sconosciuto, stupito e spaventato.
    — David? — mi precede Killian.

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Capitolo 14
*** La Pecca nel Piano ***


LA PECCA NEL PIANO

 

 

— David — sussurro io. — Ti ricordi di me
    — Cielo, Emma! Ti ho cercata ovunque! Come potrei dimenticarmi di mia figlia? — risponde con gli occhi lucidi.
    Sorrido. Più di una persona si è scordata di me, tra cui mio figlio e mia madre. Non è una cosa impossibile. Abbraccio David, e un’ondata di emozioni mi travolge. Sembrano passati secoli dall’ultima volta che qualcuno mi ha abbracciata con sincerità, dall’ultima volta che qualcuno mi ha seriamente capita. Non importa se Killian dice di amarmi, non importa se ho una figlia ad aspettarmi. Ora mi importa solo di rimanere aggrappata alla giacca di quell’uomo come se fosse l’unico appiglio per salvarmi da questa specie di falsa realtà.
    — Papà — sussurro ancora. Ora mi sento davvero amata, davvero in una famiglia. Cosa comporterà la scelta di accettare le mie vere origini in un mondo che non distingue più il bene dal male non lo so, ma dentro di me, sento che questa è la decisione più giusta che abbia mai preso.
    — Emma, abbiamo un problema. — La sua voce trema. Non lo avevo mai sentito così spaventato. Le sue braccia si stringono forti attorno a me, e mi pare quasi di essere tornata una bambina indifesa. Solo che questa volta c’è mio padre a proteggermi. E sono certa che non mi lascerà mai andare. Mai.
    La presa si affievolisce, e io riesco a scorgere un lampo di terrore passargli negli occhi azzurri.
    — Che succede? — chiedo con aria innocente, quella di una bambina strappata dal mondo delle fiabe.
    — Sandman… Non ricordi proprio nulla, eh? — sospira grattandosi la nuca.
    — Rinfrescaci la memoria, allora — sbotta seccato Uncino, che sembra sentirsi fuori posto. Ed effettivamente non ha tutti i torti.
    David lo rimprovera con lo sguardo, poi inizia a raccontare.

Foresta Incantata, tempo prima.
Gemma era lì, distesa, con i suoi bellissimi capelli mori che piano piano sfumavano in mille tonalità di oro pallido, e il suo corpicino esile era cinereo, freddo come il ghiaccio, sembrava quasi morto. Sarebbe successo, Killian lo sapeva. Avrebbe venduto l’anima al diavolo pur di tenerla in vita a tutti i costi, e probabilmente Gold conosceva questa sua debolezza, ecco perché aveva fatto ciò che aveva fatto. Fa sì che loro stiano bene per sempre. Era l’unica cosa che aveva chiesto a Tremotino. Fa sì che loro stiano bene per sempre. Glie lo aveva chiesto con una tale disperazione che Gold si era persino abbassato a fare un accordo con lui. Chiaramente, avrebbe potuto chiedere qualsiasi cosa, ma non lo fece. Chiese solamente di essere implorato. E tutta la forza del pirata svanì in un solo battere di ciglio, in un solo respiro.
    Ma tutto rimase com’era. Uncino chino sulla bambina addormentata in un sonno così profondo da non potersi più svegliare, la folla che sembrava muoversi a rallentatore, l’atmosfera ovattata e la luce quasi accecante agli occhi di chi non voleva guardare. C’era un’unica cosa che David non capiva. Emma non si era mossa di un centimetro da quando era cominciato tutto quel trambusto. All’inizio aveva pensato che fosse scioccata, ma poi, guardando meglio, il principe notò che sua figlia era concentrata su quel bicchiere che teneva in mano. Le dita affusolate strette convulsamente attorno al vetro facevano roteare il liquido lentamente, mentre la ragazza lo osservava con aria molto attenta, forse troppo, come se potesse rivelargli tutti i segreti della sua esistenza.
    David le si avvicinò lentamente, e sfiorò il gomito di Emma che si voltò di soprassalto. — Ho visto solo una volta qualcuno che osservava un oggetto in quel modo, e non è finita poi così bene… Ti ricordi quel film che mi hai fatto vedere tempo fa? Un po’ surreale, ma carino.
    — Mi hai spaventata — sorrise lei. — Mi piacerebbe davvero sapere cosa intende per “surreale” uno che viene dalla foresta incantata — sbuffò ritornando a mescolare il suo drink.
    — Emma, non era uno scherzo, hai davvero la stessa aria di Gollum con il suo anello… Solo che quella roba non ti darà alcun potere, oltre una bella sbornia — la rimproverò lui cercando di comprendere il comportamento della figlia. David allungò una mano verso il bicchiere quasi vuoto, ma lei lo scostò con uno scatto, rischiando di rovesciarne il contenuto.
    — Non è per te — rispose secca, e si avvicinò alla folla che si stringeva sempre di più attorno alla piccola principessa.
    Killian in ginocchio malediceva il giorno in cui aveva fatto torto a Tremotino, malediceva se stesso e tutto il resto. Avrebbe dovuto esserci lui in quella situazione, non la bambina. Non sua figlia. Avrebbe preferito essere trapassato dalla spada di Gold piuttosto che assistere a quella scena. Ma le sue lacrime non lo avrebbero portato a nulla.
    Per un istante vide la moglie percorrere a grandi passi la sala, e credette di essere su un altro pianeta, perché sembrava così leggiadra da volare a pochi centimetri dal tappeto rosso, ma le lacrime gli offuscavano la vista e la mente era riempita di tutt’altro per preoccuparsi di questo. Poi notò anche quel bicchiere. Era tutta la serata che girava con quel liquido, ma probabilmente ne aveva bevuto sì e no qualche goccia. Emma si fermò sorridente di fronte al marito in preda allo sconforto, inginocchiato e debole. Gli occhi gonfi di Killian colsero un’ombra di malvagità in quelli della Principessa.
    — Era esattamente così che doveva andare. — sospirò lei, quasi compiaciuta.
    — Swan, che stai dicendo? Tu… Sei per caso impazzita? — esclamò il pirata sbarrando gli occhi terrorizzato.
    L’ultima cosa che riuscì a sentire, fu il grido spaventato di Tremotino che si stagliava sul vociare stupito del pubblico. — Non ho potere su questa sabbia!
    Poi Emma lasciò cadere il bicchiere, e tutto si infranse come se non ci fosse cosa più fragile di quella realtà.

Manhattan, oggi.
In sostanza è colpa mia — sussurro io cercando di allontanare sia mio padre sia Killian da me. Se ho davvero fatto quello che mi hanno raccontato, sono un mostro…
    — No Emma… Non è colpa di nessuno — cerca di rassicurarmi David. Non c’è nulla da dire, sono un mostro, ho distrutto la vita di tutti. — Emma, eri solo una pedina del gioco di Sandman, non c’entri nulla. — Tutti i tentativi di mio padre non servono a nulla. Se quel liquido non avesse toccato terra, io sarei a casa. Loro sarebbero a casa.
    — Cosa conteneva il bicchiere? — chiedo freddamente. I due si guardano con aria perplessa.
    Uncino non sapeva nulla di questa storia, glie lo si legge negli occhi. — Una cosa è certa, non era un super alcolico — azzarda, lanciandomi un’occhiataccia. — Ma da quello che ha detto Gold, non eri proprio tu ad agire, ma la sabbia.
    — E per sabbia si può intendere “Sandman”, visto quella che ha usato su mia nipote — aggiunge David calcando il tono sulla parola “mia”.
    Passano alcuni secondi. Credo di avere la risposta. — Incubi — azzardo.
    — Cosa? — Si voltano a guardarmi senza capire di cosa stia parlando.
    — Incubi — ripeto con calma fredda. — Il liquido nel bicchiere erano incubi! — esclamo. Tutto torna. Se ero in quello stato semi incosciente, era a causa degli incubi. Chissà che situazione stavo vivendo nella mia mente in quel momento! Sandman aveva programmato tutto. Il suo piano era far cadere tutta la colpa su Tremotino, e se lui non fosse caduto nell’inganno, su di me. Ma per sua sfortuna non aveva tenuto conto del fatto che in questo tipo di sortilegi c’è sempre qualcuno che ricorda tutto. L’unica domanda che resta, è… — Ma che diavolo vuole da noi un pazzo che mette la sabbia negli occhi dei bambini per farli dormire?
    I due sembrano rimasti basiti dal mio scatto di ira, ma non ce la faccio più. In questo mondo nulla ha un senso logico, le cose sembrano accadere per caso, ma in realtà scorre tutto attorno ad un disegno preciso, gli indizi piovono dal cielo, ma la metà portano a false piste, la gente sparisce senza lasciare traccia, i fantasmi non sono morti, e punto più importante, nessuno sa chi cavolo sono io realmente o che diamine ci sto a fare qui. Sembra proprio un incubo. Esattamente come quel drink. E ora sto realizzando che ci sono infinite probabilità che noi stiamo vivendo per davvero in quel drink. Ovvero l’incubo. D’un tratto tutto si fa chiaro. Sandman ci ha portati nel suo incubo.
    — Complimenti Swan. Non pensavo ci saresti arrivata così in fretta — sbotta la sua voce, mentre il cielo inizia a riempirsi di nuvoloni neri e l’aria di terrore puro.

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Capitolo 15
*** Solo in un Incubo ***


SOLO IN UN INCUBO

 

 

— Complimenti Swan. Non pensavo ci saresti arrivata così in fretta — sbotta la voce di Sandman, mentre il cielo inizia a riempirsi di nuvoloni neri e l’aria di terrore puro. — Ma non puoi sapere tutto, o almeno, non subito.
    Uncino lo squadra per alcuni istanti, sembra perplesso. — Sinceramente, lo immaginavo più… alto — asserisce con un mezzo sorriso di sfida.
    — Sono davvero io, sì. L'uomo dei sogni. Capitan Uncino, o dovrei dire dottor Jones? Bella la tua mano... Non era uno dei tuoi sogni nel cassetto assieme ad una fruttuosa carriera che potesse far innamorare la bella principessa? — ridacchia il ragazzino.
    — Nessuno aveva bisogno di te, la principessa era cotta di me dal principio! — ruggisce spavaldo Uncino. Tutti sanno che in parte Sandman ha ragione. Fulmino Killian con uno sguardo per la sua ultima affermazione, e lui sussurra qualcosa a fior di labbra, che prendo come delle scuse.
    — E tu David? Il principe azzurro che cerca la sua Biancaneve dappertutto. Io ti troverò sempre! Bleah, ogni tanto mi chiedo se tu sia davvero l’uomo forte di cui si racconta. E, tanto per la cronaca, chi ti dice che lei voglia essere trovata? — sibila l’Omino dei Sogni con un ghigno stampato sul volto. David sta per ribattere qualcosa, ma Sandman sembra essere nuovamente interessato a discutere con me.
    Prima che lui possa dire qualcosa, lo interrompo. C’è una domanda che mi assilla. — Perché rinchiuderci in un sogno quando potevi giocare con la tua stupida sabbiolina e i bambini della foresta incantata? sibilo io, mettendo fine alla risata divertita del ragazzino.
    Mi guarda per alcuni istanti con il volto serio, come se avessi interrotto il filo di pensieri ben più importanti, poi ricomincia a sorridere, gli occhi non nascondono affatto la sua spavalderia, eppure poco tempo fa sembrava solo un ragazzino indifeso.
    — Tutto a tempo debito, Emma Swan. Tendi sempre ad avere troppa fretta — mi ammonisce. Mi mordo l’interno della guancia e incrocio le braccia al petto. — Intanto parliamo di te, Emma Swan — continua lui. — La salvatrice che di fatto non è riuscita a salvare proprio nulla. Tu se non sbaglio volevi una famiglia, io ho fatto il possibile... Un marito, due figli... Peccato che tu sia riuscita a perdere Neal e persino uno dei marmocchi. Probabilmente doveva rimanere solo un sogno — ringhia.
    Ora sta diventando proprio irritante. — Sandy, se non sbaglio i regali li porta Babbo  Natale, non tu — rispondo.
    — Oh. Hai scordato che questo mondo l'ho creato io. È il mio sogno, e voi siete stupide pedine. Io sono l'unica leggenda esistente. E ora, se non ti dispiace, c'è una donna, laggiù, il cui unico scopo nella vita sembra sia distruggere la tua felicità... Devo avverare anche i sogni di Regina, non solo i tuoi, non essere egoista! — mi canzona. Le sue parole mi fanno capire quanto sia davvero assurda e pericolosa questa storia. Diamine, se non lo fermo ora sarà tutto perduto.
    Corro verso la macchina inseguendolo mentre se ne va con la sua polvere d'orata. Forse è davvero troppo tardi, forse ha ragione lui. Forse io non salverò mai nessuno.
    — Emma, calmati — esordisce Uncino afferrandomi il polso.
    La nuvoletta di sabbia si blocca sopra la sua testa, e Sandman sorride sprezzante. — Killian, Killian… Dovresti iniziare a pensare a te, e smetterla di torturare Emma… Non sei tra i suoi sogni, lo vuoi capire o no? Per colpa di questa tua testardaggine stai sacrificando tutti i tuoi desideri che si sono già avverati… Guarda un po’… Io ti ho restituito una sorella e il ringraziamento che mi dai è questo… Per fortuna che poco fa me la sono ripresa — dice con aria spensierata.
    — Uomo di sabbia, o come diavolo ti chiami, giuro che ti farò pagare tutti questi giochetti — sibila Uncino in preda alla rabbia.
    Rabbia. È l’unica emozione che si può provare di fronte ad uno spettacolo tanto desolante. Le nostre vite sono in mano ad un essere tanto malvagio quanto assetato di potere, e ogni cosa che tentiamo di fare è inutile, perché lui sembra essere il padrone della realtà.
Il rumore della sgommata di un’auto mi fa risvegliare da quel fiume di pensieri che invadono la mia mente. Mi volto, e la prima cosa che vedo è una figura minuta che corre verso di me.
    — Arrivano i rinforzi! — esclama Henry con voce squillante, poi sussurra tra se esultante, vedendo Sandman: — Lo sapevo che era vero.
    — Hey ragazzino, è vero, ma anche pericoloso, quindi non avvicinarti troppo — dico io, dando un buffetto sulla spalla a mio figlio. Mi volto verso la macchina. — Chi ti ha portato fin qui? Sei piccolo per guidare.
    Lui mi sorride. — Te l’ho detto, i rinforzi! — replica con tono spensierato. Vedo Regina scendere dall’auto e correre verso di noi con aria preoccupata.
    — Swan… Pare che tu abbia un problema — constata indicando la sabbia dorata.
    — Fidati, se fosse solo mio il problema, sarebbe meraviglioso — la correggo io. — Ma tu come…
    — Henry — mi anticipa lei, che sembra aver già capito la domanda. — E il suo libro chiaramente. Quando ve ne siete andati lo abbiamo sfogliato tutto, dall’inizio alla fine, e i ricordi sono riaffiorati lentamente.
    — E l’ultima cosa che ricordi? — azzardo io.
    — Robin — risponde secca senza guardarmi in faccia. — Ma non scusarti, tanto è una perdita di tempo. Troviamo il modo di distruggere questa cosa.
    Mi mordo le labbra. Probabilmente avrei fatto meglio a non chiedere, ma ormai il danno è stato fatto.

— Oh, ma guarda. Regina è venuta direttamente tra le mie braccia — ghigna Sandman. — E si ricorda il passato, anche meglio, così sarà più divertente toglierle tutti i ricordi per la seconda volta, e farle perdere tutto di nuovo.
    — Mi sembra una mossa azzardata, considerando chi sono io — sbotta lei, ribollente dalla rabbia.
    — Se non erro, tu sei… sei una casalinga che in questo mondo non possiede alcune doti magiche. — Sandman ride di gusto all’espressione nervosa di Regina, ma ha ragione. Ha completamente ragione.
    Devo pensare a qualcosa, e velocemente anche. Mi volto, vedo David probabilmente anche lui intento a pensare a qualcosa. Ma lui non conosce tutte le cose che ho scoperto io. Devo solo mettere assieme i tasselli. Numero uno. Se Gold voleva aiutare Sandman, non mi avrebbe lasciato tutti gli indizi, e non mi avrebbe guidato fino a qui, Quindi escludo lui dai sospettati. Numero due. La cerchia di persone che ricordano si allarga. Ci siamo io, Regina, Uncino, Angelea, Gemma e David. Tutti sappiamo qualcosa grazie agli indizi di Tremotino. No, non proprio tutti. Tutti tranne Angelea, che a quanto pare non sa nulla di quello che è accaduto nella foresta incantata perché ha sempre vissuto qua, e David. Ci sono due opzioni. O David è l’ideatore di tutto, ma la escluderei a prescindere, non si sarebbe mai separato in quel modo da Mary Margaret, oppure…
    Sandman sta ancora discutendo con Regina, ma ormai io ho scoperto il suo gioco. — David. Il tuo obiettivo era David. Non Gemma, non Killian, e tantomeno io. Volevi David. — Sembra che le mie parole abbiano attirato la sua attenzione, perché volto diventa subito serio e perplesso.
    Non dice nulla, così mi prendo il permesso di andare avanti. — Tu volevi che David ricordasse tutto, e che tutti gli altri vivessero altre vite. Solo che qualcosa è andato storto, non avevi tenuto conto del fatto che sono la salvatrice, vero? Per questo hai detto quelle cose su di me. Non ti andava giù il fatto che la salvatrice trova sempre il modo di sventare i piani dei “cattivi”. E proprio per questo mi sono risvegliata da un misterioso “coma”. Volevi farmi credere di essere pazza, ma io ho trovato la boccetta, che ha rigor di logica ha messo il signor Gold nella mia giacca. Scommetto che non avevi calcolato nemmeno questo. Un “Tremotino fantasma” non era nei tuoi piani. Ora dimmi perché volevi che David ricordasse tutto. — È una grossa improvvisata, mi resta solo da sperare che la mia mente funzioni davvero bene come credo, dovrei averlo messo con le spalle al muro.
    — Vendetta — dice lui. Con un ghigno aspro stampato sul volto disegna in aria una mela di polvere dorata.
    Ora comprendo tutto. — L’incantesimo del sonno — sussurro a me stessa. — Tu hai consigliato a Regina l’incantesimo del sonno perché avevi intenzione di diffonderlo in modo tale da governare la foresta incantata attraverso i sogni… Era un piano perfetto, ma David… David ha trovato la soluzione. — Anche se la vendetta di Sandman è spregevole, devo ammettere che è azzeccata.
    — Brava, davvero brava. Ma adesso che sei arrivata alla conclusione, mi sembra che voi siate ancora rinchiusi in questo incubo. Fortunatamente io ho la soluzione. Ma sarà vostra ad una condizione, e che lo accettiate o no, accadrà comunque. Io sarò il vero sovrano della Foresta Incantata. — Dette quelle parole, mi lancia una boccetta di vetro, contenente un liquido argenteo. — Bevila e i tuoi sogni si avvereranno.
    La rigiro tra le mani, diffidente. Ho sempre pensato che dei nemici non si può aver fiducia, e adesso è la mia unica scelta.
    Sto ancora pensando al da farsi che Killian afferra la boccetta e la avvicina alle labbra. — Non la bevo tutta, faccio solo un tentativo. Se funziona ci riporti a casa, se non funziona probabilmente morirò, o peggio sarò sotto il suo controllo, ma tu troverai un’altro modo per salvare il mondo. — beve un sorso senza aspettare la mia decisione.
    Il cuore mi sta per saltare fuori dal petto. Trattengo il fiato. Ho già perso Neal, e non credo di essere pronta a perdere anche lui. Passano alcuni secondi infiniti, dopo di che una figura che brandisce uno scudo rotondo si materializza di fronte a noi.
    Rivolgo a Uncino uno sguardo a metà tra l’imbarazzato e l’infastidito. — Captain America? Davvero!? Quand’è che capirai che non è tutto un gioco? — chiedo nervosa, ma il suo sguardo sembra alquanto divertito.
    — Beh, questa era una prova per valutare l’efficacia di quella pozione, così ho pensato a una delle cose che mi sarebbe piaciuto incontrare — risponde come se fosse la cosa più naturale del mondo. Poi, si gira verso l’uomo che aveva creato col suo pensiero, e gli fa cenno di attaccare Sandman. Sarebbe potuta essere un’idea interessante, se solo l’omino dei sogni non l’avesse fatto esplodere in tanti coriandoli dorati.
    — I sogni non possono scalfirmi nemmeno un poco, avrei dovuto dirvelo — ridacchia lui.
    — Probabilmente sì, avresti dovuto — risponde seccato Killian, scontento del fallimento del suo piano.
    Io ne ho pensato uno che ha più possibilità di funzionare. Prendo la boccetta e bevo quello che rimane in un solo sorso. Penso alle battaglie nella foresta incantata, ai principi, agli eroi delle fiabe che trapassano i cattivi a fil di spada. Una Spada. Di fronte a me si materializza una spada affilata e lucida, che pare l’arma più letale del mondo.
    — Mi sembrava che anche tu avessi capito. Ora hai sprecato il tuo unico biglietto di ritorno per la Foresta Incantata. Siete intrappolati per sempre nel mio sogno, con una spada che non può farmi alcun male — ringhia Sandman con un sorriso sprezzante.
    — A te non farà nulla, ma a me sì — grido. Se questo è davvero un sogno, ho trovato il modo di svegliarmi. Di svegliarci tutti.
    Afferro l’elsa della spada e con un sospiro la affondo nel mio ventre. Il dolore mi acceca. Qualcuno è accorso a sorreggermi, ma io devo pensare. Pensare a cosa? L’unica cosa che ho nella testa ora è il dolore provocato da questa ferita, e nient’altro. Sento alcune voci confuse ma non riesco ad aprire gli occhi per capire chi è che mi sta parlando… Distinguo una sola frase sola con precisione. Sembra quasi che la voce sia nella mia testa.
    — Pensa ad un momento bellissimo che tieni custodito gelosamente nel tuo cuore. — Poi percepisco il sapore salato delle lacrime e le labbra morbide di Killian Jones sulle mie. Infine, l’oblio.

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Capitolo 16
*** Epilogo ***


EPILOGO

 

 

— Pensa ad un momento bellissimo che tieni custodito gelosamente nel tuo cuore — mi aveva sussurrato quella voce nella mia testa.
    Era l'unico modo per rompere questo nuovo sortilegio, se si poteva definire tale. Non sapevo più qual era la realtà e quali i sogni, ma una cosa era certa. Non volevo più nessun ricordo che non avevo vissuto, nessun figlio senza un vero passato, nessun vuoto da colmare nella mia mente e nient'altro che centrasse con questo periodo della mia vita.
    Così ho pensato all'ultimo vero ricordo che avevo. Quelle immagini non potevano essere più vive nella mia mente.

Ora sono divenute reali.
    Siamo solo io e Uncino. Niente più Neal, niente più Gemma, niente più Angelea... Niente più passato dimenticato. Ho fatto la mia scelta, e anche se sembra egoista non importa, perché ora tutto riprenderà da come l'avevo lasciato. Non mi voglio perdere nemmeno un briciolo delle esperienze che mi sono state soltanto raccontate. Forse quelle persone che ho visto nell'altra realtà, le rivedrò quando sarà passato il tempo che serve, o forse ho cambiato troppe cose perché possa incrociare il loro cammino di nuovo. C'è una sola certezza che ho appreso con questa esperienza: la storia deve continuare, che io lo voglia, oppure no.
    Ed è con questa consapevolezza spaventosa e meravigliosa allo stesso tempo che bacio Killian per la prima volta, da Granny's, esattamente l'ultima cosa vera che ricordavo.

 

 

l’angolo della Gobbiglia :)

E subito dopo sappiamo già cosa succede… Buona quarta stagione di ONCE UPON A TIME
Gobbigliaverde :)

PS: Cliccate QUI per leggere le avventure di Gemma Jones in "Macchie di Inchiostro". :)

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