Nothing Else Matters

di Midnight Writer
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** New school, new life! - In the end what's a smile? ***
Capitolo 2: *** Here's the one who saved me. - Aren't my two universes mixing up a little too much? ***
Capitolo 3: *** All I want for Christmas is you. - Am I able to be loved? ***
Capitolo 4: *** Happy new year! - I'm not drunk! Do I look drunk? ***
Capitolo 5: *** Go get a room! — So has it all been fake? ***
Capitolo 6: *** Carnival Festival — Backstory Revealed? ***
Capitolo 7: *** From Florence with love — Can I stay with you tonight? ***
Capitolo 8: *** You're drowning in your Imperfection — Why did you do it? ***
Capitolo 9: *** Lunchtime with his parents! — She is mine. Okay? ***
Capitolo 10: *** Please don't forget me ***
Capitolo 11: *** How can I be sure you're even here? ***
Capitolo 12: *** Understanding ***
Capitolo 13: *** Liar. ***
Capitolo 14: *** Back Home ***



Capitolo 1
*** New school, new life! - In the end what's a smile? ***


Chapter 1. New school new life! - In the end, what's a smile?
 
 
 
La storia che state per leggere è la storia di una ragazza
Come tante.
Che va al Liceo Classico
Come tante.
Italoamericana
Come tante.
Vittima di bullismo
Come tante.
Orfana
Come tante.
Era come tante, lei, ma era unica nel suo esserlo.
Piacere, il mio nome è Alice Sweets e questa è la mia storia.
Come ho già detto il mio nome è Alice, ma non pronunciato all’italiana, bensì pronunciato Elis, all’americana appunto, e quello era il mio primo giorno del primo liceo. Cioè, terzo liceo... Insomma, terzo anno di Liceo Classico. Come ogni anno in una scuola nuova. Quell'anno mi toccava il Liceo Leonardo Da Vinci, l'anno prima mi era toccato il Liceo Vasco De Gama, l’anno prima ancora non lo ricordo nemmeno più. Ma adesso che ci penso, che nome è Vasco De Gama? Non so, ma di sicuro non è un nome da dare ad un Liceo. E sì, esattamente, cambiavo scuola ad ogni nuovo anno.
Cercai di scacciare via qualunque pensiero che non fosse la quinta declinazione di latino oppure il participio presente medio-passivo del verbo λύω* e decisi di abbandonarmi completamente alla musica che risuonava solo per me grazie alle mie preziose cuffie. Il ritmo di “Forsaken”** invadeva il mio cervello mentre alzavo il volume, smettendo solo quando questo arrivava al massimo, permettendomi così di annegare tutto nel testo di quella canzone. Subito prima di entrare mi fermai a specchiarmi su un vetro e vidi la stessa persona di sempre: una quindicenne un po' bassina, dai capelli biondo cenere ornati da qualche ciocca blu qua e là, lunghi fino a metà schiena e caratterizzati da un ciuffo che ricadeva sull'occhio sinistro, e sempre con gli stessi occhi di un profondo blu oceano contornati da una sottile riga di eyeliner e un po' di mascara neri, per la prima volta notai quanto i miei occhi sembrassero già stanchi della vita. Camminavo per gli ampi corridoi della scuola e mi guardavo intorno.
‘Asettico’.
Quella fu l'unica parola che mi venne in mente guardando qual corridoio dipinto di bianco, quel pavimento di mattonelle bianche e quelle luci al neon bianche. Tutta la gente che vedevo intorno a me era vestita allo stesso modo: con la divisa scolastica. Credevo di essermi iscritta nell'unica scuola italiana che imponeva ai suoi studenti le divise. Però in fondo non erano poi così brutte, o forse ero solo io che trovavo confortante l'impossibilità di venire derisi a causa del vestiario. Grazie alla divisa eravamo tutti uguali e sobri: una camicia bianca, una cravatta bordeaux con delle sottili righe blu notte, una giacca dello stesso blu scuro, quasi nero, con dei dettagli bianchi e una gonna lunga fino a metà coscia decorata con una fantasia scozzese rossa, blu e bianca; per i ragazzi invece erano d'obbligo dei semplicissimi jeans; infine delle calze lunghe fino al ginocchio bianche o blu (io le portavo bianche) e delle ballerine blu. Non sarà stata il massimo dell'eleganza ma a me piaceva. Continuando a camminare notai un gruppo di ragazze parlare ad un tizio alto circa un metro e sessanta che, per un qualche assurdo motivo, non indossava la divisa. Leggendo il loro labiale mi accorsi che ciò che stavano dicendo a quel tizio consisteva in delle avances molto sessualmente esplicite, pensai che me lo aspettavo in fondo. Quello lì sembrava proprio il tizio con il quale una donna affamata di piacere sessuale vorrebbe condividere il letto, anche se solo per una notte. E purtroppo oggi il mondo è pieno di ragazze che cominciano a bramare quel tipo di piacere fin troppo presto.
Mentre camminavo stringevo nella mia mano il ciondolo che portavo al collo: una chiave. Però non era una chiave qualsiasi; era la chiave della camera accanto alla mia, non sapevo cosa ci fosse dentro quella stanza: sapevo solo che mia madre mi aveva lasciato la chiave quel dannato giorno di due anni prima. In quel momento i ricordi mi assalirono.
 
Vidi mia madre distesa su un letto di ospedale mentre sentivo un continuo ‘bip’ soffuso: quel fastidioso suono altro non era che l'unica cosa ad indicarmi che lei era ancora viva, la sua frequenza però stava diminuendo.
—Mamma, non lasciarmi adesso. — Le dissi con voce rotta dal pianto mentre le mie lacrime salate cadevano sulla mano che le stavo stringendo 
—Amore mio... Mi dispiace: non potrò mai vederti entrare al Liceo...— La sua voce era quella di una persona che non ha nemmeno più né voglia né forza di lottare per la propria vita 
—No, mamma! Tu mi vedrai diplomarmi, e laurearmi, e sposarmi... Tu vedrai tutta la mia vita! Lo farai mamma! — Ma io sapevo che non sarebbe successo.
—Piccola...— Disse -fammi un favore: slacciami la collana. -
Gliela sfilai delicatamente dal collo e la esaminai: una vecchia, piccola chiave di ferro. Capii subito cosa apriva: la camera accanto a quella nella quale dormivo io... Inviolata da quando ne ho memoria, tra l'altro era l'unica a stanza in cui non era mai stata cambiata la serratura.
—Mamma... Perché? —
—Promettimi che la aprirai solo quando avrai trovato il vero amore. Promettimi che la aprirete insieme, promettimi che non varcherai quella soglia prima di allora...—Disse mentre il suo tono di voce andava abbassandosi
—Finalmente potrai ricongiungerti a papà. Sono felice. Ti voglio bene, mamma. — Dissi sorridendo amaramente tra la lacrime, mente il ‘bip’ si prolungava in un suono lungo e penetrante, e poi più nulla. Come a ricordarmi che da quel momento avevo solo il nonno e la nonna: loro si sarebbero presi cura di me.
 
Cercai di ricacciare indietro le lacrime che si erano già formate nei miei occhi.
Continuavo a camminare cercando di non farmi notare, finché la mi attenzione non venne catturata da una scena fin troppo, purtroppo, familiare: un ragazzo alle prese con dei bulli. Mi fermai e stetti a guardare la scena per un paio di secondi, come a voler analizzare da un punto di vista esterno ciò che era solito succedere a me. Mi trovai davanti un ragazzino dai capelli biondi tagliati a caschetto e grandi occhi color del cielo bloccato a una parete da due colossi palestrati, uno con i capelli neri lunghi fino alle spalle, e un altro con la testa completamente rasata
“Che ci fanno dei tipi così in un liceo?” Dissi tra me e me, poi mi tolsi le cuffie e mi avvicinai a quei tre ragazzi
—Ehilà, non è un po' sleale due contro uno? Se proprio volete iniziare una rissa almeno permettetemi di fare squadra con questo dolce ragazzo. — Dichiarai con una disinvoltura che non mi apparteneva, specialmente davanti a dei bulli
-Oh, ma guardalo! Arlert si è fatto la ragazza e non ce lo ha nemmeno detto! — Fece il bullo rasato con tono di scherno. Decisi allora di adattarmi alla situazione, guardai il volto di quel ragazzo per un attimo e vi trovai il nostro biglietto per la libertà
—Amore, ma cosa mi combini? — Chiesi retoricamente prendendo il suo viso tra le mani e focalizzando il mio sguardo su un taglietto sul suo zigomo —ti rovinerai questo bel visino! Vieni, ti accompagno in infermeria. — Conclusi dandogli un leggero bacio sulla guancia che fece arrossire sia me che lui. Gli presi poi la mano e, dopo aver sorpassato il gruppo di bulli rimasti interdetti gli sussurrai
— Dov'è l’infermeria? — Lui mi diede le indicazioni necessarie e una volta chiusa dietro di me la porta di quella rassicurante stanza, anche quella purtroppo asettica, trassi un lungo sospiro di sollievo.
—Forse quest'anno non avrò problemi con i bulli. — Dissi tra me e me
Nel frattempo il ragazzo che avevo appena tirato fuori da una brutta situazione si stava asciugando una lacrima dall’occhio sinistro
—Tu... Mi hai salvato. Grazie. — Il suo tono era davvero pieno di gratitudine.
—Non ringraziarmi. Se proprio devi farlo fallo dopo che ti avrò sistemato questo taglio qui. — Sentenziai mentre prendevo un cerotto e lo applicavo sulla sua pelle: una pelle dannatamente morbida e delicata per appartenere ad un ragazzo.
—Fatto— dichiarai in seguito — ah, a proposito. Tu sei? —
—Armin Arlert, sì i miei genitori sono inglesi. — mi rispose sorridente mentre tendeva la mano verso di me
—Alice Sweets, sì sono italoamericana. — ribattei io stringendo la sua mano come gesto di cortesia
— Oh, allora sei tu la nuova studentessa di cui si vociferava tanto. Be' adesso io vado: sta per iniziare la lezione. Ci vediamo, Alice!
—A presto, Armin. — Mi rivolse un sorriso così dolce e luminoso come non ne vedevo da anni. Difficilmente lo avrei dimenticato.
Mi diressi quindi nell'ufficio del preside: una stanza quadrata e tutta bianca, ad eccezione della penna nera posta sulla scrivania di quell'uomo alto e magro dai capelli biondi tagliati in modo indescrivibile che era il preside Erwin Smith, e del suo abbigliamento costituito da un'elegante abito blu scuro, della stessa tonalità della cravatta e delle scarpe e una camicia... Bianca.
Mi diressi verso la classe assegnatami e appena prima di aprire la porta dell'aula sentii una voce femminile provenire da dentro la stanza, rompendo un silenzio pressoché tombale
—Va bene, ragazzi. La vostra nuova compagna dovrebbe essere nell'ufficio del preside. Vado a prenderla, voi fate silenzio. —
Naturalmente si levò una cacofonia di mormorii indistinguibili. La porta mi si aprì davanti e per poco non trasformò il mio naso in quello di Voldemort. Davanti a me vidi una donna che aveva il classico aspetto delle professoresse demoniache dei film: era dannatamente alta e il suo corpo troppo magro e ossuto era fasciato da un osceno vestito viola decorato con una grottesca fantasia floreale lungo fino alle ginocchia, abbinato a delle scarpe nere con un leggero tacco. Il suo viso era probabilmente la cosa più orrenda che avessi mai visto. Portava degli occhiali rossi calati sulla punta del naso (uno dei nasi più piccoli, brutti e bitorzoluti che avessi mai visto) e, per finire, aveva i capelli tinti di un bel color castano, e sarebbero stati anche belli se quella tinta fosse stata curata e non si fosse lasciata spuntare una chilometrica ricrescita... Davvero. Poi avendoceli legati in uno chignon sembravano ancora più osceni di quanto non fossero già.
—Oh, sei già qui. Vieni. — mi disse con tono acido, e mi invitò silenziosamente a seguirla.
Entrata in classe mi trovai davanti a delle pareti colorate (o forse è meglio pasticciate?) di ogni colore dell'arcobaleno. C’erano impronte di mani rosse, blu, verdi, gialle e viola qua e là, schizzi di colori indefiniti dappertutto e, sulla parete opposta a quella dove si trovava la cattedra vi era una scritta realizzata con approssimative pennellate di un colore azzurro come quello del limpido cielo primaverile
“Hey you, did you ever realise what you have become?” 
I Pink Floyd.
Mio Dio, c'era una frase dei Pink Floyd scritta sul muro della mia classe.
Avevo il sentore che magari quell'anno sarebbe decentemente
Stetti un po' a guardarmi intorno, quella splendida confusione di colori, quella frase. Ripensai a quanta bellezza mi circondava e a quante volte non me ne accorgevo finché non mi lasciai sfuggire un
—È bellissimo. —
—Sarà anche bellissimo, e onestamente lo è, un po' meno bello il fatto che quando lo hanno scoperto ci hanno sospeso tutti per una settimana. — ricercai la fonte di quella voce e la trovai in un ragazzo dai capelli castani e gli occhi di uno splendido verde smeraldo che in quel momento aveva una smorfia divertita. Accanto a lui stava seduta una ragazza dall'aria asiatica e dalla pelle chiara, in totale contrasto con i suoi corti capelli scuri, così come gli occhi. Indossava una sciarpa rossa, ma non ne capii il motivo: eravamo a settembre e faceva leggermente caldo per indossare la sciarpa.
Non mi soffermai a guardare il resto dei miei compagni di classe e quella racchia della professoressa mi strappò violentemente via da qualunque pensiero potessi formulare dicendomi con un tono quasi di rimprovero
—Avanti, presentati.
—Ah, già, mi scusi.
E mi bloccai. Non ne riesco ancora a capire il motivo, non era difficile, dovevo solo dire il mio nome, la mia età e il Liceo dal quale provenivo, dovevo solo sembrare simpatica. Non era difficile. Era come tutte le altre volte
“Calmati... Sorridi, sii simpatica. È semplice e tu sei brava a parlare davanti alla gente, vinci la tua timidezza ancora una volta. Puoi farcela, Alice” continuavo a ripetermi, come se avesse potuto essere d'aiuto invece che incasinarmi ancora di più. Alla fine mi decisi ad aprir bocca
—Buongiorno a tutti, io sono Alice Sweets, ho quindici anni e vengo dal Liceo Vasco De Gama. Per favore siate miei amici e non odiatemi. Vorrei solo trascorrere un anno tranquillo. — dissi fin troppo velocemente. Subito dopo venni spedita dalla professoressa a sedermi accanto ad un certo Armin. Quel nome fece suonare un campanello nella mia mente, quindi decisi di guardare verso il punto che stava indicando col suo indice rugoso e vidi l'unico posto libero della classe, accanto a quel ragazzo biondo conosciuto poco prima.
—A-Armin?
—Sì, qualche problema? — mi chiese la professoressa con un tono che lasciava chiaramente trasparire la noia che stava provando in quell’istante
—No, no professoressa. Nessun problema naturalmente— le risposi mentre sentivo il mio viso scaldarsi, quindi probabilmente stava assumendo un colorito un po' troppo rosso per i miei gusti. Mi affrettai a prendere posto.
—Ciao Alice, ci rincontriamo! — mi salutò di nuovo Armin
—Così sembra...— mi limitai ad articolare con un tono indefinito
—Spero che diventeremo ottimi amici. — ancora quel sorriso. Per la prima volta mi fermai ad analizzare a fondo il sorriso delle persone.
Ma in fondo, cos'è un sorriso?
Sorriso < sor-rì-so > sostantivo maschile
Atteggiamento delle labbra in un riso silenzioso e misurato, espressione di sentimenti e reazioni varie e talvolta motivo di un apprezzamento di qualità
Esatto.
È una semplice increspatura delle labbra, che tendono a piegarsi verso l'alto. È una combinazione di contrazioni e rilassamenti dei muscoli facciali che convenzionalmente è indice di felicità.
È meno di una risata, ma più di un'espressione apatica.
È qualcosa che io, in quel momento, non sarei stata capace di fare; non a scuola, per lo meno.
Forse è proprio per questo che mi ci soffermavo tanto? Era forse semplice attrazione per l'irraggiungibile?
Decisi di accantonare quei pensieri, e mi limitai ad annuire in risposta al mio compagno cercando di imitare quel l'espressione dolce come il miele che era il suo sorriso, ma ne uscì fuori solo una smorfia di disprezzo, scherno, tristezza e amarezza. Decisi che non avrei provato mai più a fingere i sorrisi.
—Ehi...— sentii chiamare dal banco dietro al mio con tono incerto
—Sì? Dimmi. — risposi girandomi per guardare in faccia il mio interlocutore: un ragazzo dal viso leggermente equino, con i capelli castani più chiari sulla parte superiore della testa, e più scuri sulla zona delle tempie e sul resto del capo. I suoi occhi avevano il colore del cioccolato al latte.
“Però, non è niente male” pensai. Avevo deciso di non negarmi il semplice piacere di fare apprezzamenti sui ragazzi, alla fine che male poteva fare? Davvero, non credevo che dei casti complimenti, peraltro non esternati, facessero male a qualcuno.
—No, nulla di importante, scusami. Volevo solo dirti che hai dei begli occhi— arrossì, e io con lui; cercai di articolare un miserrimo ‘grazie’, ma in quel momento le parole mi sembrarono un qualche arcano segreto accessibile solo a pochi eletti.
—Jean! Smettila di provare ad attaccar bottone con tutte, non vorrai che Marco si ingelosisca! —
—Ma... Io e Marco non stiamo insieme— disse irritato —purtroppo— aggiunse poi in un sussurro probabilmente involontario
Pessimo scherzo, Armin caro, ora mi toccava mostrargli che non avevo pregiudizi contro i gay, bisessuali, trisessuali o quel che siano.
—G-Grazie, Jean, anche tu sei molto carino. E Armin, non prenderlo in giro! Ognuno è libero di amare chi vuole. —
Le ore passarono veloci dopo quel siparietto per il quale venimmo esageratamente sgridati dalla prof, che si presentò come la professoressa Amata, la nostra nuova professoressa di matematica. Amata solo di nome, s'intende. Dopo la professoressa demoniaca ebbi il ‘piacere’ di conoscere il docente di educazione fisica, il professor De Corso: un omaccione impostato con un tono di voce basso, profondo e talvolta fastidioso quasi quanto i suoi apprezzamenti da semi-pedofilo; Hanji, insegnate di scienze: una... Donna, credo, con dei capelli castani legati in una perenne coda di cavallo e un paio di occhi color mogano, mi sembrò una persona ben educata, simpatica, forse eccessivamente appassionata di ciò che insegnava ed estremamente brillante: probabilmente se non avesse intrapreso la carriera dell'insegnamento sarebbe stata una ricchissima scienziata. Per ultima conobbi la professoressa Ral, docente di lettere. Immaginai che se non si fosse messa ad insegnare sarebbe diventata una famosissima autrice di best-sellers gialli e urban fantasy, ma purtroppo la storia non si fa con i ‘se’ e con i ‘ma’. L'ora dopo ci venne concessa come ricreazione “ma solo perché è il primo giorno!” o almeno così mi aveva detto il preside tre ore prima. Tutti si alzarono e cominciarono a chiacchierare tra loro mentre si dirigevano in cortile, io invece mi armai di cellulare, cuffie, un quaderno e delle matite e mi sistemai in un angolino soleggiato. Perché c'era solo una cosa che mi piaceva quanto la musica e le materie umanistiche, e questa cosa era disegnare. Dopo qualche minuto quell'ammasso di linee grigie iniziò a prendere la forma del volto sorridente del mio compagno di banco: disegnavo sempre le cose che volevo ricordare, e un sorriso così spontaneo andava sicuramente ricordato, soprattutto se rivolto a te da qualcuno che si consce appena.
Sentii dei colpetti sulla mia spalla destra, istintivamente chiusi il mio quaderno, mi tolsi le cuffie, chiusi gli occhi e dissi con tono da supplice
—No, non stavo facendo nulla di importante, vi do tutti i soldi che volete, ma per favore non fatemi male! Vi prego...
—Ehi, va tutto bene, siamo solo Jean e Armin. Hai per caso paura di noi?
Riconobbi il tono di voce del mio compagno con la faccia di un cavallo molto carino. Lentamente aprii gli occhi e, alla vista dei due ragazzi mi calmai e permisi ai miei muscoli in tensione di rilassarsi
—N-No... Scusatemi, non volevo.
Mi guardarono con espressione dubbiosa per qualche secondo, poi Jean decise finalmente di rompere quell'assordante silenzio che era calato tra noi
—Niente... Siamo solo venuti per chiederti se ti andava di stare un po' con noi e i nostri amici... Dopotutto non conosci nemmeno i loro nomi.
—Davvero mi volete nel vostro gruppo di amici? Grazie...— Lasciai quelle parole scivolare fuori dalle mie labbra a metà tra la volontà e il puro istinto. Entrambi annuirono sorridendo, allora notai che anche Jean aveva un bel sorriso, decisi che a casa avrei disegnato anche lui. Mi lasciai quindi condurre dai due in mezzo ad un gruppo costituito da ragazzi e ragazze, che mi vennero presentati ad uno ad uno.
—Lui è Eren Jaeger: se ti piace fare pazzie a scuola tu e questo idiota andrete estremamente d’accordo. — mi venne presentato da Jean il ragazzo dagli occhi verdi di prima, lo osservai con più attenzione. Era un ragazzo alto, come tutti tranne me d'altronde, con un'espressione determinata e aggressiva la quale però si distese immediatamente in un sorriso genuino e un po' infantile mentre mi stringeva la mano con fare cordiale e mi diceva che è una piacere conoscermi.
Come faceva a sapere che è un piacere conoscermi? Io facevo schifo.
—E lei è Mikasa Ackerman, la ragazza di Eren— proseguì Jean con fare malizioso e leggermente amareggiato mentre mi presentava la ragazza dai lineamenti asiatici
—Non è la mia ragazza!
—Non sono la sua ragazza!
Esclamarono all'unisono Eren e Mikasa, arrossendo considerevolmente. Forse ancora non stavano insieme, ma sarebbe successo presto: si sbavavano dietro a vicenda e si vedeva ad un chilometro di distanza.
Anche per lei era un piacere conoscermi. Be', buon per loro.
—Lei invece è Hist— cominciò a dire Jean, interrotto da un suo taglientissimo sguardo —Christa Lenz.
Mi venne presentata una ragazza alta quanto me, dai lunghi capelli color del grano e un paio di grandi occhi dello stesso colore del limpido cielo primaverile che tra un paio di mesi non sarebbe stato altro che un felice ricordo. Mi persi per qualche attimo nell'attenzionare quel suo aspetto angelico e per qualche motivo finii a paragonare il suo sorriso a quello di Armin, per poi essere interrotta prima di decretare quale fosse il più bello
—Lei è Ymir— Christa rubò la parola a Jean e mi presentò con tono molto entusiasta quella che era indubbiamente la sua fidanzata; la cosa non mi urtava minimamente, anzi era molto carino vedere come l'aspetto quasi mascolino e il fascino burbero di Ymir: una ragazza altissima dal volto lentigginoso e i corti capelli dello stesso castano dei suoi occhi affilati, compensassero l'estrema e angelica femminilità di Christa. Formavano davvero una bella coppia. Ymir si limitò a salutarmi con un cenno del capo. La cosa non mi dispiacque, in fondo era la forma di saluto che io stavo riservando a tutti, soltanto investita di un celato entusiasmo e un evidente imbarazzo.
—Lei invece è Annie— proseguì quindi Jean mettendo il suo braccio sinistro intorno alle mie spalle e mostrandomi con un gesto plateale una ragazza dai capelli biondi raccolti in un modo che non saprei come spiegare e con un paio di occhi azzurri che squadravano con fare annoiato il mio... Amico, credo, con la faccia da cavallo —Vedi di non farla arrabbiare o potresti morire prematuramente— concluse.
Un paio di minuti mi presentò Sasha Blouse e Connie Springer, l’unica coppia etero del gruppo, probabilmente. Erano così assuefatti dal loro pacco di patatine che si limitarono ad offrirmene una con fare riluttante per poi tornare immediatamente a mangiare e scherzare. Li trovavo molto simpatici.
Jean continuò a portarmi a spasso in mezzo a quel gruppo di persone col braccio intorno alle mie spalle finché non ci troviamo davanti a due ragazzi di quinto superiore
—Loro sono Reiner e Berthold, sono in Quinta C Scientifico— mi presentò due ragazzi, uno leggermente robusto con i capelli biondi, e uno smilzo con i capelli neri. Anche loro erano incapaci o non si curavano di nascondere la loro omosessualità. Pensai che quello fosse il gruppo della propaganda sessuale alternativa, o qualcosa del genere. Naturalmente non lo pensavo seriamente, anzi mi faceva estremamente piacere entrare a far parte di un gruppo con così tanta apertura mentale. Dopo le presentazioni arrivò un ragazzo lentigginoso che si presentò come Marco Bodt. Per tutto il resto dell’ora Jean fu incapace di parlare in maniera normale o di assumere un colorito umano. Dedussi che doveva essere proprio quello il famoso Marco di cui parlava Armin.
Finita la giornata tornai a casa per la prima volta felice. Era una sensazione strana, me bellissima.
 
A (Death) Note Dell’ Autrice Ω
*Lett. ‘Liuo’. È il verbo Greco per ‘sciogliere’
**Canzone degli skillet che vi consiglio [link: http://www.youtube.com/watch?v=1bPHtCBqdLg ]
Niente, spero che questo capitolo vi abbia fatto venir voglia di continuare a sentire delle avventure di Alice.
Vi avviso però che non sono affatto veloce a scivere, tant’è che è da un mese che lavoro a questo capitolo perché tra scuola e impegni vari non ho mai tempo per mettermi a continuare i capitoli.
Non ho più nulla di particolare da dire se non una piccola richiesta: se trovate errori di grammatica e/o sintassi e/o consecutio temporum (non dovrebbero essercene perché ho appena finito di correggerlo, ma sono umana anch’io) vi prego di segnalarlo così che io provveda subito ad eliminarli.
Detto questo vi saluto, bye bye! (^-^)/

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Capitolo 2
*** Here's the one who saved me. - Aren't my two universes mixing up a little too much? ***


Chapter 2. Here's the one who saved me - Aren't my two universes mixing up a little too much?
 
 
 Il secondo giorno ebbi il grande "piacere" di fare conoscenza con il professore di latino e greco.
Come sempre entrai a scuola con le cuffie nelle orecchie ed una canzone rock a volume massimo, nel frattempo guardavo quasi disgustata ciò che mi circondava; non perché mi conferisse davvero una sensazione di disgusto, bensì perché immaginavo che non sarei rimasta a lungo in quell'ambiente: avrei avuto altri problemi di bullismo che mi avrebbero costretto, ancora, a cambiare istituto. Era quello che mi disgustava.
Entrata in classe salutai i miei compagni e mi sedetti al mio posto. Armin mi accolse con il suo angelico e bellissimo sorriso, mentre Jean con il suo divertito e malizioso, quasi avesse in serbo una battuta cattiva e divertente, ma si stesse sforzando per tenerla per sé.
Un giorno imparerò anche io a sorridere così a scuola, pensai mente canticchiavo.
Qualche minuto prima del suono della campanella di inizio delle lezioni fece il suo ingresso il ragazzo senza la divisa che avevo visto il giorno prima, e si sedette con nonchalance alla cattedra rivolgendo a noi tutti uno sguardo estremamente annoiato.
"Wow! Ma è davvero un professore? Cioè, è dannatamente basso!” Dissi ad Armin con un tono di voce un po' alto, senza paura di essere sentita nonostante il brusio che vi era dentro l'aula. Ero sempre stata leggermente sfacciata e questo mi ha provocato non pochi problemi. Armin guardò prima il professore e poi me, con aria molto spaventata. Solo dopo compresi il perché. Si avvicinò al mio banco. Adesso, pur non avendo cambiato espressione, nei suoi occhi brillava qualcosa che diedi per scontato fosse rabbia, ma sembrava quasi ammirazione. Quando fu abbastanza vicino al mio banco lo osservai più attentamente: era un uomo sulla trentina, imponente nonostante la sua statura, portava un paio di pantaloni e una giacca entrambi neri, una camicia bianca e delle scarpe nere, i suoi capelli erano organizzati in quello che avevo da pochissimo compreso si chiamasse doppio taglio o qualcosa del genere, secondo quella che era una moda hipster o chissà cosa, e i suoi occhi erano grigi e molto sottili; li scrutai e vi notai quello che pareva un perenne fuoco alimentato dalla tristezza e dalle delusioni, molto simile al mio insomma. Mi sembrava anche leggermente familiare, tuttavia non ne capivo il perché. Dovetti ammettere che era un uomo bellissimo.
Questa cosa dei complimenti innocenti mi sta leggermente sfuggendo di mano, mi ammonì la parte del mio cervello ove risiedeva quel frammento di buon senso che non erano ancora riusciti a strapparmi via, ma non lo ascoltai. Sostenni lo sguardo dell'uomo mentre intorno a noi si creava un silenzio tombale, finché non fu proprio lui a romperlo
"Tu devi essere la nuova studentessa, Alice Sweets" esordì con la sua voce profonda che pareva perennemente annoiata, poi quando pronunciò il mio nome assunse un tono di fastidio malcelato "io invece sono il professor Rivaille, insegno greco e latino e all'occorrenza anche l'educazione" fece una pausa e trasse un profondo respiro “ora ascoltami, perché quando do lezioni di buone maniere non sono solito ripetermi: mai parlare troppo.” 
“Vedrò di tenerlo a mente” risposi con una leggera aria di sfida. Mi squadrò dall'alto in basso per una seconda volta, per poi tornare ad occupare la sua cattedra. Ripassammo qualche argomento, facendo così volare in un lampo quelle due ore che ci separavano dalla ricreazione. Al suono della campanella che la annunciava stavo avviandomi verso il cortile insieme al ragazzo equino, avevamo lasciato indietro Armin perché sia io che Jean avevamo fretta di uscire dalla classe: lui per rivedere il suo caro Marco e io per fuggire lontano dal prof. Rivaille. Mi sentii poggiare una mano sulla spalla, immaginai che fosse Armin che ci aveva raggiunto di corsa e stesse per farci i suoi occhioni dolci da cucciolo e chiederci perché lo avevamo lasciato indietro, quindi mi girai e sussurrai
“Armin non abbiamo tempo da perdere, ho la sensazione che quel nano potrebbe uccidermi se resto ancora qui.” 
Immaginate il mio sconcerto quando, invece del mio amico biondo mi trovai davanti il professore. Nel frattempo il biondo ci aveva effettivamente raggiunto all'ingresso della classe, non appena i nostri sguardi si incrociarono mi mimò una frase per cui quasi lo uccisi con lo sguardo
Ma ci riesci a stare fuori dai guai per una giornata intera?
Il professore ci fissò per qualche secondo prima di dire ai due ragazzi 
“Mi scuserete se vi rubo per qualche secondo la vostra amica. Potete andare.”
Guardai prima Armin poi Jean con l'espressione di una condannata a morte, nella speranza che mi avrebbero salvato da questa situazione, cosa che invece non fecero. Col senno di poi avrei capito che era stata la decisione migliore.
“Sei molto sfacciata, sai?” Sentenziò con tono piuttosto neutrale, come se stessimo chiacchierando normalmente 
“Sì, lo so. Mi scusi se l'ho offesa” risposi piano chinando il capo 
“No, tranquilla. È tutto okay, succede sempre: quasi non ci faccio più nemmeno caso. Tuttavia non è questo il motivo per il quale ti sto trattenendo.” 
Lo guardai con espressione piuttosto interrogativa, al che lui continuò 
“Ogni volta che ci sono studenti trasferiti da altre scuole mi informo un po' su di loro, e così ho fatto anche con te. Ho saputo che vivi in Italia da poco”
“Adesso saranno all'incirca tre anni, mese più mese meno. Da un mese prima di iniziare le superiori, comunque.” Lo interruppi
“Giusto, poi ho saputo che vivi con i tuoi nonni materni.” Annuii “e che ti sei trasferita qui a causa di bulli, giusto?” Annuii di nuovo, non mi disturbai a parlare: tanto mica sarebbe servito.
“Andando al sodo volevo assicurarti che Armin, Jean e tutti gli alti sono delle brave persone. E se hai comunque problemi puoi chiedere a me.” 
Lo ringraziai e, mentre stavo finalmente uscendo dalla classe per andare in cortile sentii il professore dirmi
“A proposito, Alice, non disturbarti a portarmi sempre lo zucchero: prendo sia il te che il caffè amari. E soprattutto mi piacerebbe che decorassi anche il mio cappuccino, la domenica mattina: sono stanco di essere sempre invidioso di quelli dei tavoli accanto ai miei. Intesi?” 
Cazzo.
“Intesi.” Risposi, dopo aver capito ciò che voleva dire.
Dopo la giornata scolastica, la mia bocca si spalancò in un largo sorriso vedendo il luogo dove abitavo. Non era nulla di speciale, solo due edifici accorpati a due piani: quello a sinistra occupato al pianterreno dal bar pasticceria dei miei nonni, dove ero solita dare una mano, amavo lavorare in quel bar perché amavo osservare la gente e un bar ti dà moltissime possibilità di farlo, e al primo piano dalla casa dei miei nonni; quello a destra invece era interamente occupato da casa mia: quella era la casa dove avevo vissuto con mia madre prima che lei passasse a miglior vita (per un solo mese) e che poi era diventata mia a causa dell'eredità. Piuttosto che lasciarla in mano d'altri avevo scelto di viverci da sola, in maniera totalmente indipendente, dipendendo però in qualcosa dai miei nonni; ad esempio io cucinavo i miei pasti e pulivo la mia casa, ma odiavo stirare e non potevo permettermi di pagare le bollette, quindi lasciavo questi oneri ai miei nonni. 
Le porte dei due edifici davano direttamente sulla strada, anche se i miei nonni avevano un entrata sul retro, per non dover passare dal bar. Gli edifici avevano entrambi delle facciate bianche, anche se accanto alla porta dell'attività dei miei nonni vi era la scritta “Al solito posto” (era il nome del bar, sì, i miei nonni avevano sempre avuto un grande senso dell'umorismo) dipinta da me sul muro come primo lavoro fatto sul suolo dello Stato italiano, usata ormai da tempo in sostituzione dell'insegna, che consumava corrente inutilmente. 
Citofonai a casa dei miei nonni, e ricevetti poco dopo in risposta a gentile voce di mio nonno che mi chiedeva chi fosse al citofono
“It's me! I'm home!” Risposi. Avendo vissuto per circa tutta la mia vita a New York, mi veniva naturale parlare inglese piuttosto che italiano, e grazie a Dio i miei nonni erano ferrati in inglese. Mangiai, svolsi i compiti che avevo da svolgere e indossai quella che ormai consideravo la mia divisa da lavoro: un paio di pantaloncini di jeans (che all'arrivo del freddo, che si prospettava ancora lontano, sarebbero stati sostituiti da jeans lunghi), un paio di sneakers e una canotta bianca con sopra una camicia a quadri rossi, bianchi e blu che tenevo aperta e annodata sotto il seno per evitare di farla svolazzare. Alle cinque ero già pronta per divertirmi a dare una mano a servire i clienti. Quello al bar per me non era affatto un lavoro, bensì era un piacere su molti punti di vista: ormai tutti i clienti abituali mi conoscevano e chiedevano sempre dove io fossi, quelle volte in cui arrivavo in ritardo a causa di qualche compito per il quale avevo impiegato troppo, e mi accoglievano tutti con dei sorrisi che ricambiavo. Quello era l'unico posto in cui riuscivo a sorridere. Tutto ciò mi ricordò una splendida canzone di Billy Joel, che mi misi a canticchiare mentre servivo ai tavoli.
Verso le 17:15 arrivò il professor Rivaille. Era un cliente abituale: veniva ogni pomeriggio e ogni domenica mattina, da tempo immemore ormai, era comunque sempre stato presente sin da quando ero venuta a vivere qui e a dare una mano.  Avevo avuto modo di osservarlo varie volte e avevo dedotto che era un maniaco del pulito, e anche che era un professore, tuttavia prima di quella mattina non sapevo in che scuola insegnasse, e non mi era riuscito di riconoscerlo data la mia estrema reticenza a miscelare il mondo della scuola con quello del bar, che era un po' come il mio mondo segreto di cui nessuno sapeva. 
“Buon pomeriggio, professore! Si accomodi pure, le ho tenuto libero il solito tavolo.” Lo accolsi con un sorriso radioso, che ricambiò con la sua solita espressione impassibile che avevo imparato ad apprezzare nel corso degli anni trascorsi
“Cos'è tutta questa formalità, oggi? Fino a ieri mi chiamavi solo Levi e mi davi del tu. Cosa è successo, ragazzina?” Oggi doveva essere stata una buona giornata per lui: raramente si sbilanciava in delle parole, di solito mi chiedeva solo di raccontargli la mia giornata. Chissà perché, poi.
“Pensavo che, date le differenze gerarchiche che ci sono adesso tra noi, fosse scortese permanere nelle vecchie abitudini.” 
“Cazzate. Tu stessa stai bene attenta a tenere separato questo mondo da quello della scuola, quindi usare qui i tuoi modi di fare scolastici sarebbe incoerente, non trovi?” Quello era il suo vero modo di parlare, diretto e a volte volgare, nulla era cambiato in lui, quindi decisi che sarebbe stato scortese far cambiare qualcosa in me. Dopotutto gli anni scorsi era sempre lui ad ascoltare i miei problemi e a darmi consigli, seppur con i suoi modi sgarbati e inappropriati, chissà perché, poi. Diciamo che lo consideravo il mio più caro amico.
“Va bene, Levi. Ti porto il tuo tè.” Dissi annuendo sorridente e mi diressi a preparare un po' di quel tè nero che piaceva tanto anche a me, anche se, al contrario di quell'uomo, io vi mettevo un'enorme quantità di zucchero. 
Glielo portai e mi diressi subito a preparare il cocktail da servire al signor Troina (poveretto, che cognome) un uomo che da qualche mese veniva un giorno sì e l'altro pure a bere qualcosa di alcolico per dimenticarsi un po' della sua vita. Era un uomo sulla quarantina, dai capelli brizzolati e i vestiti sempre firmati o fatti addirittura su misura, era stato sposato fino a non molto tempo prima, come rivelava la striscia di pelle più chiara sull'anulare sinistro, la prima volta che lo vidi. Non sapevo chi fosse, cosa facesse o cosa fosse successo al suo matrimonio, ma sicuramente con la fine di quello la sua vita sembrava esser finita pure. Nonostante mia nonna fosse già al banco, questo signore esigeva che fossi io a preparare il suo drink e a scherzare un po' con lui, sosteneva che gli ricordassi una sua amica d'infanzia. Mentre servivo questo signore vidi entrare due ragazzi dalle facce troppo familiari. Li guardai e mi accorsi che erano Jean e Marco.
I miei due mondi si sono mescolati già troppo, oggi. Pensai.
Rimasi pietrificata per qualche secondo, chiedendomi se fosse la scelta giusta andare a servire loro. 
E se fosse stato un appuntamento? Avrei rovinato tutto.
E se avessero scoperto che do una mano qui? Avrebbero pensato che sono una cameriera che fa questo lavoro perché viene da una famiglia povera, quando in realtà io e i miei nonni eravamo tutti piuttosto benestanti, avrei rovinato la reputazione costruitami tra ieri e oggi. Decisi che non era il caso che io mi occupassi di loro.
“Nonna, facciamo un po' cambio, che ne dici? Io sto al bancone e tu ai tavoli, okay?” Articolai in inglese, senza accorgermi di aver cambiato lingua. La mia cara nonnina annuì, così ci scambiammo i ruoli, naturalmente solo dopo averla supplicata di non chiamarmi per nome ad alta voce e di non farmi muovere dal bancone, con la promessa che le avrei spiegato tutto in seguito, promessa che non avrei mantenuto, ma fa lo stesso. 
Osservai i due ragazzi, senza però dare troppo nell’occhio: non sembrava proprio una semplice uscita tra amici, o forse ero solo io che facevo troppi viaggi mentali. Dopo qualche minuto, Levi si spostò dal suo tavolo al bancone, continuando impassibile a bere il suo tè. 
“Allora? Com’è andata la tua giornata?” mi chiese, come di consueto
“Perché me lo chiedi sempre?” domandai di rimando, dandogli tuttavia poca attenzione, impegnata com’ero ad osservare i due ‘piccioncini’ 
“Non si risponde ad una domanda con una domanda, ragazzina.” Mi ritenni fortunata a non starlo guardando negli occhi in quel momento, poiché sapevo che il suo sguardo mi avrebbe persuaso: gli avevo posto questa domanda già tantissime volte, e avevo ricevuto sempre questa risposta, e poi gli avevo parlato della mia giornata, persuasa dal suo impassibile sguardo di un grigio temporalesco. Un assordante silenzio calò per qualche decina di secondi tra me e l’uomo, finché (con mio grande stupore) cedette
“Tch. E va bene, te lo racconto. Però devi fare attenzione e devi smettere per un attimo di osservare come un’ebete quei due gay. Intesi?” 
“Intesi.” Gli risposi con tono avvilito e insieme speranzoso di ottenere la risposta alla domanda che ormai mi ponevo da anni.
“Vedi, Alice, la prima volta che ti ho vista, ormai circa tre anni fa, avevi lividi sparsi qua e là sulle braccia e le gambe e parecchie cicatrici sui polsi” storsi un po’ la bocca al ricordo del periodo in cui ero diventata, stupidamente, autolesionista “volevo capire cosa ti avesse portato ad avere quell’aspetto, quindi ti ho chiesto cosa ci fosse che non andava. Ti ricordi per caso come mi hai risposto?” scossi la testa
“Cosa c’è che non va? Cazzo ne so. Io, credo” 
Fermò il suo discorso per qualche attimo, come per farmi assaporare l’amaro gusto di quelle parole, poi riprese “Mi hai risposto così. Poi ti ho chiesto per quale motivo, e tu hai tagliato corto dicendo che non volevi pietà. Ci sono volute settimane prima che ti decidessi a parlarmi, poi ho visto che le nuove cicatrici cominciavano ad essere sempre meno, fino a, nel giro di un anno, sparire del tutto.  Dunque, te lo chiedo ogni fottuto giorno perché vedo che ti fa bene raccontare le tue giornate a qualcuno. Ed ecco anche il motivo per cui, dopo aver saputo che saputo che saresti stata trasferita nella nostra scuola, ho chiesto ad Erwin di metterti nella mia classe. Adesso sei contenta, ragazzina?”
“Decisamente” risposi
 
 
A (Death) Note dell’Autrice Ω
E rieccoci! 
Scusate l’attesa eterna, ma tra scuola, sport e corso di inglese sono mezza morta (MARCO DOES NOT APPROVE) tutto il tempo…
Perdonate la solo velata presenza di JeanMarco, ma non preoccupatevi… il secondo capitolo rincarerà la dose ;) *risatina malefica*
Se Levi vi sembra OOC, chiedo venia, ma è complesso mantenere IC un personaggio complesso come il suo, in una AU, poi… XD
Comunque spero che il mio personaggio vi piaccia e noi ci rivediamo al prossimo capitolo!
BELLA RAGAZZI!
(ogni riferimento a Favij è puramente casuale, eh)
 
 

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Capitolo 3
*** All I want for Christmas is you. - Am I able to be loved? ***


Chapter 3. All I want for Christmas is you. - Am I able to be loved?
 
 
 
Purtroppo o forse per fortuna, altro non si può fare se non seguire il volere di quell'entità incorporea e opprimente che chiamiamo Tempo. Non si può evitare di passare tempo con le persone, e non si può evitare di affezionarsi alle suddetteDi conseguenzanon si può impedire l'arrivo del famigerato 25 dicembre. Non sono mai stata granché entusiasta del Natale, poi immaginate quanto ami passarlo senza i miei genitori, meraviglia, proprio. 
Per fortuna in quell'anno il giorno di Natale cadeva di domenica, e ciò significava poterla passare in compagnia di Levi, sempre se avesse avuto voglia di venire il giorno del suo compleanno... Era solito farlo, ma chissà. 
Ero sempre stata una persona sia nottambula sia mattiniera, e i giorni di Natale non facevano eccezione. Mi svegliai molto presto, come sempre, feci attenzione a non fare troppo rumore e a non svegliare i miei nonni, che lasciavo sempre dormire fino a tardi nonostante le loro rimostranze, sfornai i dolci che c'erano da sfornare e aprii il bar. Mentre aspettavo che qualche cliente entrasse mi misi ad ascoltare un po' di musica, niente di troppo pesante, solo Back In Black, degli AC/DC, ma dovetti sostituire le mie amate cuffie con degli auricolari, perché se no sarei sembrata dannatamente maleducata. Una mezz'ora dopo fece il suo ingresso il festeggiato. Tolte le cuffiette dalle orecchie, lo salutai da dietro il bancone mentre iniziavo, come di routine, a preparargli un cappuccino. Di solito la domenica non sedeva mai al tavolo; sempre al bancone. Chissà perché.
“Buongiorno Levi! Buon compleanno!”
“Come fai a sapere che è il mio compleanno?” Mi chiese stizzito. 
Ma davvero? Ci conoscevamo da tre cazzo di anni, mi pareva ovvio che io sappessi quando compiva gli anni! 
“Io so tutto.” Risposi con fare misterioso mentre poggiavo sul piano di marmo la sua tazza di cappuccino e il regalo che gli avevo preparato due notti fa.
“Sì, tranne de desinenze dell'ottativo medio-passivo.” Ribatté lui tagliente per poi abbassare lo sguardo alle due cose che aveva davanti. Alzò gli occhi dopo qualche secondo.
“E da quando decori anche il mio cappuccino?” Chiese sarcasticamente riferendosi alla scritta ‘Happy Birthday!’ Che mi ero tanto impegnata a fare sul contenuto della sua tazza.
“E questo?” Aggiunse poi guardando il pacchetto incartato piuttosto male (sono una frana ad incartare i regali) 
“Aprilo invece di parlare tanto.” 
Lo fece e stette circa un minuto in silenzio ad osservare quel piccolo ritratto raffigurante me e lui che avevo deciso di regalargli, sorseggiando la sua bevanda. Incurvò appena le labbra, in quello che ormai avevo capito era il suo massimo sorriso
“Quando abbiamo scattato questa foto?” Mi chiese perplesso
“Non so se sentirmi lusingata oppure offesa dal fatto che pensi che sia una foto” mi guardò con espressione ancora più perplessa “ebbene no - continuai - non è affatto una fotografia; è un ritratto e ho impiegato ben 7 ore a farlo. Il sonno è per i deboli.” 
“E perché hai deciso di farmi questo regalo?” Mi chiese, provando in ogni modo a celare le sue emozioni
“Perché mi avrebbe dato parecchio fastidio se ti fossi dimenticato di aver salvato una persona. Tutto qui.”
La nostra conversazione si chiuse così e io andai a servire gli altri clienti che erano entrati. Solo dopo circa un'ora tornai dal festeggiato, che era ancora lì, seduto al bancone, come se non avesse niente di meglio da fare se non stare a parlare con me. E forse era proprio così. 
“Dovresti smetterla di sbavare così vistosamente dietro ad Arlert, è irritante, sai?” 
Arrossii.
“I-io non sbavo dietro proprio a nessuno!” 
“Ne sei proprio sicura?”
“Sicurissima.”
“Ah, allora ho interpretato male il fatto che stai ore a fissarlo come una cogliona e arrossisci ogni volta che sfodera il suo sorrisetto da bambino ritardato, e...” La sua frase si interruppe con la suoneria del mio telefonino. Guardai il display e risposi
“Armin. Buon Natale!”
Non appena mi sentì pronunciare quella frase, l'uomo davanti a me mi rivolse uno sguardo colmo di malizia, e io lo fulminai con il mio.
Buon giorno e buon Natale, Alice. Non ti ho svegliata, vero?” Mi chiese con quella sua voce dolcissima. Forse Levi aveva ragione, mi piaceva. No, non era possibile: io non ero capace di innamorarmi. E se invece lo fossi stata, e quella ne fosse la prova? La verità in fondo era soltanto una: che non avrei mai ammesso che mi piacesse un ragazzo.
“No, no. Sono sveglia da ore.”
“Hai mai visto Noi siamo Infinito?” 
“Ovvio. Che domande.”
“Ecco. Christa lo ha visto ieri e ha pensato di organizzare una festa di Natale come quella del film. Sai, Babbo Natale Segreto e tutto. Hai presente, no? E mi ha chiesto di invitarti. Ti avrò mandato all'incirca dieci messaggi, ma non mi rispondevi e ho pensato di chiamarti. Comunque. Sto divagando. Ti va di venire? Ci saranno tutti.” 
Avrei voluto dire di sì senza pensiero alcuno, ma purtroppo il mio cervello si rifiutò persino di considerare tale possibilità, quindi finii per mettermi a borbottare
“Io... Non so... Forse non posso, forse sì...”
Mentre il mio mormorio insensato proseguiva, vidi che arrivava la mia salvatrice: la nonna.
“Alice, non sta bene parlare al telefono qui. Cosa è successo?” Mi chiese, io non mi disturbai nemmeno a chiudere la chiamata
“Un mio compagno mi ha invitata ad una  festa di Natale, ci saranno tutti i miei amici, ma non so se dirgli che ci andrò o no, non voglio lasciare voi da soli, e se torno tardi? E se...” 
“Puoi andare.” Mi disse bonariamente mia nonna
“Davvero?” Chiesi io con tono euforico
Davvero?” Chiese anche Armin che evidentemente aveva sentito
Mia nonna annuì e io riferii al mio amico, poi riagganciai con un sorriso che andava da un'orecchio all'altro. Chiesi alla mia salvatrice se potevo recarmi a prendere il regalo di cui necessitavo, lei acconsentì dicendo che per quella mattina avrebbe badato lei al bar e che potevo stare fuori quanto volevo, e che anzi mi avrebbe fatto bene uscire un po'. 
Mi incamminai verso il centro commerciale: distava molto poco, quindi avevo deciso di andare a piedi. Nevicava un po'; non troppo e non troppo poco e questo creava un'atmosfera spettacolare, che la mia musica perennemente nelle orecchie rendeva ancora più dolce. Camminavo molto lentamente per godermi quella passeggiata, e nel frattempo pensavo a quanto fossi psicologicamente cambiata in questi pochi mesi: avevo legato maggiormente con Armin e Jean, avevo iniziato a volere più bene ai miei compagni,  avevo addirittura iniziato ad arrischiarmi a chiamarli amici.  Mi ero anche accorta di quale bellissimo suono avesse quella parola. La mia mente poi si ricollegò al mio caro compagno di banco, diventato in pochissimo tempo il mio amico più caro, dopo Levi, s'intende. Mi chiesi se proprio quell'uomo malizioso non avesse ragione, mi chiesi se non stessi cadendo nella lussuriosa e dannosa spirale dell'amore a causa di quel ragazzino complessato e, ahimè, estremamente bello. Mi domandai anche se io fossi effettivamente capace di amare qualcuno. Conclusi infine che avrei confermato la sera stessa: non lo vedevo da un po' e mi mancava, avrei poi visto la reazione della mia parte sentimentale quando lo avrei incontrato.
Sentii poggiarmi una mano sulla spalla, mi tolsi le cuffie e mi girai
“Dove vai senza nemmeno salutarmi, ragazzina?” 
“Levi! Bastardo mi hai fatto prendere un colpo...” Sibilai vedendo chi era che stava dietro di me
“Chiedo venia, mia signora” disse con sarcasmo “adesso rispondimi”
“A comprare un regalo.”
“Per la festa di stasera?” Annuii “come mai solo uno?” 
“Perché Christa ha visto Noi Siamo Infinito e vuole fare una festa di Natale come quella del film, con il cosiddetto Babbo Natale Segreto e tutto.” 
L'uomo mi guardò come a volermi segnalare che non aveva capito una sola parola, quindi mi affrettai a spiegare
“Vedi, Levi, in pratica questo Babbo Natale Segreto è una sorta di gioco in cui si riceve un regalo a testa, senza sapere chi te lo ha fatto, e devi indovinare chi è stato. Dev'essere divertente.” 
“Capito. Posso accompagnarti? Non ho un cazzo da fare.” 
Acconsentii. Dopotutto, poteva solo essere un buon passatempo.
Girovagammo per un po' nel centro commerciale senza nemmeno entrare in un negozio (due geni, proprio), gli chiesi quale regalo gli sembrasse più adatto per Armin, e come risposta ebbi altre prese in giro. Tutto sommato però non è stato tanto male. Alla fine decisi di comprargli quello che Levi definì ‘un libro del cazzo per bambine premestruate incapaci di controllare gli ormoni, ma che la gente normale chiama ‘Colpa delle stelle’.
Ma dai! È un bel libro! Io l'ho letto e mi è piaciuto tanto!” Protestai per l'ennesima volta
“Vuol dire che anche tu sei una bambina premestruata incapace di controllare i suoi ormoni.” Rispose con fare annoiato senza guardarmi
“Mi commuovo davanti a cotanta gentilezza.” Ribattei imitando il suo tono.
Una decina di minuti dopo il mio cellulare squillò. Mi avevano telefonato due volte in un giorno! E nessuna delle due telefonate veniva da mia nonna! Mi sentivo ricercata. Guardai il display ed era Jean. Risposi.
“Buondì Jean, dimmi.”
“ALICE AIUTO NON SO COSA CAZZO REGALARE A MARCO PER NATALE! SONO DISPERATO!” La parola disperato calzava bene col tono che aveva
“Va bene, intanto calmati ché sembri un cavallo in calore. Seconda cosa, se vuoi sono al centro commerciale, magari vieni e cerchiamo qualcosa insieme?” 
“ODDIO GRAZIE NON SO CHE FAREI SENZA DI TE! ARRIVO!” 
“Okay, non c'è bisogno di urlare. Ci vediamo dopo.” E riagganciai
Nel frattempo Levi aveva sentito la conversazione e aveva deciso che sarebbe stato meglio togliere il disturbo. Non protestai.
“Senti... Se non hai niente da fare io tra un paio d'ore massimo torno al bar, non so, se ti va di passare...  Tanto nemmeno io ho qualcosa da fare. Sempre se non ti scocci, eh.” Gli dissi mentre stava per andarsene. Mi rispose con ciò che per lui era un sorriso e con un misero “Vedremo.”
Una decina di minuti dopo si presentò da me il mio amico dalla faccia equina. Lo guardai. Indossava un paio di jeans (che gioco di parole brutto brutto) e uno di quei tenerissimi maglioni di lana a tema invernale... Avete presente, no? Quelli con i fiocchi di neve e quelle cose lì. Quel tipo di maglione che io ho di un colore molto allegro e felice: il nero. 
“Oh mio Dio con questo maglione sei troppo tenero! Mi fai venire voglia di abbracciarti. Posso abbracciarti?” Gli chiesi sorridendo
Tu che abbracci qualcuno? E aspetta aspetta... Stai anche sorridendo? Chi sei tu e che ne hai fatto di Alice Sweets?!” Rispose con una specie di ghigno sarcastico
“Fanculo, Jean” e misi il broncio
“Ecco, adesso mi sembri di nuovo tu.” Iniziò “comunque ti concedo di abbracciarmi solo se...” E si interruppe
“Solo se cosa?” Chiesi io, accorgendomi solo dopo di quanto infantile fossi sembrata, col mio sorrisino da bambina e i miei occhi luccicanti e il tono allegro e felice, che mi affrettai a far sparire per paura di sembrare sciocca
“Solo se mi prometti che stasera ti comporterai esattamente così con il tuo ragazzo.” Concluse malizioso
“Ma io non ce l'ho un ragazzo.” Articolai con gli occhi bassi
“Forse non ancora, ma posso assicurarti che c'è una piattola che non fa che parlare di te. E dalla tua parte, si vede a chilometri di distanza che gli sbavi dietro. È solo questione di tempo. A proposito, lui ha il mio stesso maglione, però blu, nel caso potesse interessarti.” Sentenziò con fare saccente roteando il dito indice nell'aria
“Sai che ti dico?” Iniziai “non voglio più abbracciarti... Altro che tenero, sei uno stronzetto. Adesso andiamo a prendere il regalo per il tuo di ragazzo.” Conclusi poi con tono fra il saccente e l'ironico.
“Ma Marco non è il mio ragaz-” iniziò a dire, finché non lo interruppi con un
“Non è ancora il tuo ragazzo.”
Dopo questa scenetta iniziammo a girare un po' per negozi e a lanciare sguardi assassini alle vecchiette che ci guardavano con fare malizioso, come se ci stessero immaginando come i protagonisti di Cinquanta Sfumature Di Grigio. Una di loro addirittura ci fermò e ci disse
“Ma che carini, siete davvero una bella coppia!” 
Subito Jean aggiunse, come per mettermi ancora di più in imbarazzo
“Ma no, signora. La ragazza qui presente è pazzamente innamorata di un complessato biondo, penso che gli salterebbe addosso in qualunque momento” 
“Da quale pulpito viene la predica...” Dissi tra i denti
“Oh, scusate il fraintendimento, ragazzi. E mi raccomando; usate sempre le protezioni!” Ribatté lei allegramente
“Signora, ma abbiamo quindici anni!” Sospirai
“Appunto! Crescere un bambino alla vostra età è impegnativo. Mi raccomando!” E si allontanò facendoci l'occhiolino
Ma che razza di vecchie ci sono in questo cazzo di paese?
“Giustamente tu non sai tenere la bocca chiusa, eh?” E sospirai “vabbè. Comunque... Gli piace la musica?” 
“Sì.” Si limitò a rispondermi, visibilmente con la mente altrove 
“Ehi, sveglia! Non è il momento di fare sogni erotici!” Lo richiamai ridacchiando e sventolandogli una mano davanti agli occhi “dimmi. Qual è la sua band preferita?” 
Il ragazzo ci pensò un po' su
“Gli AC/DC.” Mi rispose come se fosse la cosa più ovvia del mondo, e forse per lui lo era, tuttavia io non riuscivo completamente a figurarmi un ragazzo carino, dolce e pacato come Marco che ascolta Hard rock.
“Ma ha già tutta la discografia in MP3.” Aggiunse afflitto Jean 
“Ma allora tu sei deficiente per davvero.” Mi guardò con aria interrogativa “Andiamo a comprargli un CD, ma tipo adesso. Povero, vuoi fargli ascoltare la sua band preferita con quei file di merda per tutta la vita?”
“Sai Alice, oggi sei parecchio esplicita.” Disse 
Risi.
“Almeno potrò vantarmi con il tuo futuro ragazzo di essere stato il primo dei nostri compagni di classe a vederti sorridere e addirittura ridere.” 
“Non è poi questa gran cosa, davvero.” Abbassai lo sguardo e sorrisi leggermente, arrossendo per il complimento
“Invece lo è, roderà il fegato un sacco a quel complessato.” Concluse con aria di trionfo.
Presi i regali ognuno tornò a casa sua, io tornai al bar, che per mia gioia era pressoché vuoto. Per mia ancora più grande gioia, invece, Levi aveva deciso di tornare. Passai il tempo che divideva il momento del mio ritorno dalla pausa pranzo in compagnia di quell'uomo, che a causa delle vacanze facevo sempre più fatica a figurarmi come mio professore, all'arrivo della suddetta pausa, però non mi andava di separarmi dal burbero festeggiato, quindi gli chiesi
“Senti Levi, hai qualcosa da fare adesso?” Lui scosse la testa
“Ti andrebbe di rimanere a pranzo da me? Il ragù ha quasi terminato la cottura, se non ti va fa niente.” Chiesi 
“Ma sì dai, tanto non ho niente da fare. Ma i tuoi nonni?”
“I miei nonni non lo sapranno mai.” 
“E come cazzo fanno a non saperlo se tu vivi con loro?” Domandò leggermente irritato 
“Semplice, perché io non vivo con loro. Vivo nella casa accanto. Da sola. È divertente vivere da soli.” Aggiunsi saccente.
Nonostante la sua perplessità Levi acconsentì comunque a pranzare con me. Avvisai mia nonna che avrei mangiato a casa mia, e non da loro (quando mi scocciavo a cucinare scroccavo un posto a tavola ai miei adorati nonni), io e il mio professore/amico entrammo in casa e io riaccesi i fornelli per far completare al ragù la sua cottura.
“Okay, Levi. Mentre qui finisce di cucinare cosa ti andrebbe di fare?” Chiesi sorridente 
“Che ne dici di farmi vedere qualche tuo disegno?” Mi chiese con tono incolore, al suo solito
“Va bene, ma dovrai salire in camera mia: i lavori che ti farei vedere sono tutti attaccati ai muri.”
“La tua camera... È ordinata?” Mi domandò sospettoso
“Certamente. Anch'io sono una maniaca dell'ordine e del pulito, sai?” 
Non parve credermi fino a quando salimmo al piano di sopra ed entrammo nella mia camera. Era come sempre ordinatissima, il letto sistemato, i libri di scuola riposti in ordine alfabetico, così come i libri di piacere, per così dire; stessa cosa per i giochi dell'xbox, posta sotto un televisore molto grande la cui unica ragione di esistere era la console, dato che non guardavo la TV. Un po' più in là, sull'enorme scrivania stava il computer e leggermente più a destra stavano i miei album da disegno, con le matite colorate accuratamente ordinate per gradazione e le matite normali riposte in ordine dalla più leggera alla più pesante. Infine vi era lo stereo, con i CD naturalmente ordinati in ordine alfabetico. Fino a tre anni prima non ero affatto un tipo ordinato; non so perché lo diventai in seguito alla dipartita di mia mamma. L'unica cosa che salvava quella stanza dall'asetticità erano le pareti tappezzate di fogli con su disegnati volti, paesaggi o scritte tratte da canzoni, film, poesie, libri e chi più ne ha più ne metta
“Benvenuto nel mio cervello.” Non riuscii a fare a meno di dire guardando con orgoglio ciò che avevo creato in quei tre anni. 
“Poi dici che non gli sbavi dietro.” Dichiarò Levi mentre indicava un disegno di Armin sorridente
“Ma guarda che ci sei anche tu tra questi disegni” dissi allora io di rimando indicando un disegno che lo ritraeva seduto al suo tavolo mentre beveva il suo tè, tenendo la tazza nel suo modo così particolare; accanto al suo disegno vi era un foglio dove avevo scritto ‘You give me faith to believe there's a way to put the past finally behind be and hope to make it throught another night’ {Mi dai fede per credere che ci sia un modo per lasciarmi finalmente il passato alle spalle e sperare di farcela attraverso un'altra notte.} Parte di una splendida canzone, e l'accostamento al ritratto di Levi non era affatto casuale. Dopo i commentini taglienti dell'uomo riguardo al fatto che ascoltassi generi di musica diametralmente opposti, era rimasto infatti sconvolto dal vedere un CD di Elton John e subito dopo uno degli Iron Maiden, tornammo al pianterreno. Finii di cucinare, apparecchiai e servii il mio ospite, poi me stessa.
“Vedi di non avvelenarmi, ragazzina.” Fu il suo commento, seguito da un sommesso Buon Appetito. Risi, poi mangiai. Non per vanto, ma ero piuttosto brava a cucinare. All'atto di fare il bis (non sia mai che io mangi un solo piatto di pasta al ragù, eh!), il nano antipatico mi riprese
“Ma quanto cazzo mangi?” 
“Senti. La mia dieta è salutare.” Mi limitai a rispondere
“E quindi?” Mi chiese perplesso
“E quindi ciao!” Sentenziai e mangiai in santa pace, seppur col suo sguardo fulminante addosso, probabilmente a causa della mia battuta.
Dopo mangiato ci concedemmo una partita (cioè, circa un milione di partite) a Call Of Duty Black Ops II, — già, non ero una ragazza molto femminile— la quale fu divertentissima poiché Levi, nonostante sostenesse di essere imbattibile in quel gioco, veniva sempre surclassato dalla sottoscritta e dalla sua bocca uscivano le peggiori imprecazioni. 
“Ma tu sei davvero il mio professore di latino e greco?” Dissi gettando la testa all'indietro e sorridendo divertita 
“Non sempre.” Iniziò con fare saccente “a scuola sono il professore stronzo ma che tutte le ragazze si vorrebbero scopare, qua sono solo stronzo.” 
“A proposito. Mi è venuta in mente una cosa.” Dissi con tono malizioso “Io dovrei, secondo te, smettere di sbavare dietro ad Armin, giusto? Ma vogliamo parlare di te? Dai, sei il primo che sbava palesemente dietro alla professoressa Ral.” Poi misi le mani a formare un cuore e dissi “il caro Levi è innamorato... Che tenerezza!” 
In tutta risposta lui si guardò l'orologio e disse
“Manca solo un'ora alla tua festa, cretina! Se non avessi visto l'orologio probabilmente ci saresti andata domani mattina!”
Dovetti ammettere che era bravissimo a cambiare discorso 
“Cazzo, è vero!” Confermai guardando il display del cellulare. Il mio cliente preferito andò via salutandomi con un
“A domani. Vedi di non saltare addosso ad Arlert stasera.”
Spesi una decina di minuti ad analizzare quanto fosse strana la situazione: avevo passato l'intero pomeriggio a casa da sola con un uomo di trent'anni, per di più mio professore, ma che è il mio più caro amico. Che casino.
Decisi di non pensare a quanto fosse incasinata la mia vita e mi preparai. Ci erano stati imposti i maglioni natalizi o invernali (chi non ne aveva uno è dovuto andare a comprarlo... Quando Christa si impunta è così.), io ce l'avevo solo bianco e nero, diciamo che i tre quarti del mio guardaroba erano costituiti da vestiti neri, quindi decisi di indossare quello, un paio di jeans neri e un paio di anfibi anch'essi neri. Mi truccai con la solita riga di eye-liner e il solito mascara, impacchettai il regalo di Armin e uscii. Mi rifiutai categoricamente di farmi accompagnare da mio nonno è la casa di Christa era troppo distante per andare a piedi, quindi decisi di prendere la mia moto: un KTM 50 da enduro al quale mi ero impegnata molto per fare un restyling. Arrivata vidi che quella casa aveva un posto auto non utilizzato, e a me si era rotto il blocca disco. Avevo avuto fortuna. Citofonai, non appena la ragazza mi rispose le dissi
“Ciao Christa, sono Alice. Sono con la moto e mi si è rotto il blocca disco, non è che magari potrei lasciarla nel tuo giardino? Non vorrei che me la rubassero.” La sua risposta fu esattamente questa
“Ma scusami, vieni con la moto con questo freddo? Potresti ammalarti! Entra e ti preparo qualcosa di caldo!” 
Sorrisi. Era un ragazza così gentile da far sciogliere chiunque. 
Entrai e posteggiai la moto in modo che non intralciasse. I miei compagni, sentito il rumore del motore, si precipitarono fuori per vedere cosa fosse successo; io mi tolsi il casco e mi limitai a dire
“'Sera.” 
“Alice?!” Chiese Marco dando voce ai pensieri di tutti 
“In persona.” Risposi un attimo prima che Christa mi trascinasse in casa, mi togliesse il cappotto leggermente bagnato di nevischio, mi facesse sedere davanti al camino con addosso una coperta e mi desse una tazza di cioccolata calda, continuando a chiedermi se mi sentissi bene o se avessi freddo. Tutto ciò nell'arco di massimo trenta secondi. Che ragazza eccezionale. A turno ognuno di loro si chinò per salutarmi e augurarmi buon Natale, impedendomi categoricamente di alzarmi. Chiesi di Annie, non vedendola, e mi dissero che era ammalata e che non era potuta venire. Nel frattempo mi ero già scolata tutta la cioccolata calda... Il potere del cioccolato è mistico. L'unico che non era venuto a salutarmi era Armin, il quale si precipitò da me con un'altra coperta in mano e, dopo avermi messo addosso anche quella, entrò anche lui nel mio fin troppo caldo rifugio di coperte, che non rifiutavo per non essere scortese, prendendo le mie mani nelle sue e dicendomi 
“Alice, sei pazza! Con la moto, con questo freddo!”
“Armin, fuori ci sono 10 gradi. A casa mia io vivo con 10 gradi.” Lo rassicurai, ma lui non mi credette e continuò per la sua strada
“Hai le mani congelate! Sei tutta congelata! Vieni, ti riscaldo un po'.” E detto questo mise un braccio attorno alle mie spalle e mi invitò silenziosamente a poggiare il capo sul suo petto e ad avvicinarmi di più a lui. Era caldo, ma non caldo asfissiante come quello che sentivo fino a pochi secondi fa, in quell'istante il caldo fastidioso derivato dal camino e le due coperte sembrò svanire in un lontano ricordo, a favore di un caldo meraviglioso, divino, un caldo che ti penetra sin negli anfratti più nascosti del corpo e dell'anima. Mi chiedevo come fosse possibile scaldare l'anima, eppure era ciò che stava succedendo. Attenzionai il battito cardiaco del ragazzo. Il suo cuore batteva fortissimo, e lo sentivo bene; il mio cuore batteva come se avesse avuto intenzione di demolire ogni singola parte della mia cassa toracica. Mi domandai se anche il mio fosse stato così udibile, e sperai ardentemente di no. Grazie alla mia tachicardia e al calore nuovo che stavo sperimentando potei confermare l'ipotesi che non avrei mai voluto confermare. Mi ero innamorata del complessato biondo. 
“Mi sei mancato, Armin.” Sussurrai mentre mi stringevo un po' di più a lui per crogiolarmi in quel confortante calore e mentre pregavo che non mi avesse sentito; il ragazzo mi strinse un po' più forte nel suo abbraccio, e lì ebbi l'imbarazzante conferma che invece mi aveva sentito eccome. Era la sensazione più bella e insieme più sconfortante che avessi mai provato: il desiderio di avere per sempre quel calore nel profondo della mia anima, ma insieme la quasi assoluta certezza che non lo avrei mai avuto, perché nessuno mi aveva mai amata e nessuno lo avrebbe mai fatto. Pensai che il mio cuore avrebbe iniziato a battere all'impazzata alla sola sua vista, ma solo per poi perdere qualche battito al momento della comprensione che il suo non batterà mai per me, pensai che se nessuno, in questi miei anni di vita, aveva voluto donarmi questo calore, allora di sicuro non lo avrebbe fatto lui; pensai d'essere incapace d'essere amata, ma decisi che avrei lottato per superare quell'ostacolo. Avrei voluto avere quel calore sempre, avrei voluto vivere di quel calore, o almeno avrei voluto averne qualche minuto in più, ma naturalmente Jean doveva sempre rovinare tutto. L'idiota si mise a sventolare un rametto di vischio sopra le nostre teste dicendo
“Okay, siete carini e tutto, adesso però passiamo al livello successivo!” Nel frattempo mi guardava con estrema malizia
“Jean, non bacerò una ragazza che non è la mia fidanzata. Quindi, poiché sono single, non bacerò proprio nessuno, chiaro?” Sentenziò Armin dando voce anche ai miei pensieri 
“Ma dai! Almeno un bacio a stampo, per favore! Vi prego!” Chiese con un tono da supplice... Sembrava una fangirl impazzita che pregava la sua OTP di diventare canon. Dopo circa un minuto di preghiere di Jean e rifiuti di Armin, mostrai di possedere anch'io il dono della parola
“E va bene! Un bacio a stampo sicuramente non mi ucciderà né mi passerà l'AIDS” dichiarai con fare annoiato, come se stessi semplicemente decidendo se legare i capelli o lasciarli sciolti, tanto per fare un esempio.
“Ma, sei sicura che vada bene? Cioè, è il tuo primo bacio, non vorrai sprecarlo con me, cioè, non so...” Iniziò a borbottare il biondino
“Stai zitto, cazzo.” Mormorai e poggiai per qualche attimo le mie labbra sulle sue. Erano estremamente morbide e calde. Mi sentii per un attimo come sommersa da quel confortante calore, mi trovai però costretta dalla mia stessa indole a nascondere con successo queste emozioni, limitandomi a chiedere a Jean
“Sei contento adesso?” Lui non rispose. Quindi mi alzai, piegai le coperte e le riposi ordinatamente sul divano, durante questo frangente realizzai cosa avevo effettivamente fatto, e provai così tante emozioni tutte insieme che non saprei nemmeno dire quali fossero, certamente sentivo freddo. Ma non quel freddo fisico che ripari con una coperta o qualcosa di caldo; bensì quel freddo interiore al quale non c'è rimedio se non gli atti di affetto da parte di qualcuno che ami; realizzai che avevo vissuto un'intera vita con questo freddo dentro, e mi chiesi come avessi fatto. Ogni volta che ero sovraccarica di emozione mi capitava di dimenticarmi completamente la lingua italiana e di iniziare a parlare in inglese, infatti così feci 
“Alright, everyone! It's Christmas, isn't it? What about our Secret Santa? Let's open up our presents!” {D'accordo, ragazzi! È Natale, no? Che ne è stato del nostro Babbo Natale Segreto? Apriamo i regali!}
Ringraziando ogni Dio di questo mondo Eren, piuttosto bravo in inglese mi capì e prese i regali, ove vi era scritto solo il nome del destinatario, e diede ad ognuno il suo. Non appena mi diede quello destinato a me provai una grandissima felicità. Non sapevo cosa ci fosse né chi me lo avesse regalato, ma ero contenta per il solo fatto che qualcuno avesse pensato a me. Sorrisi. Non uno di quei sorrisi a 394 denti, ma uno di quei sorrisi appena accennati, imbarazzati e sinceri. 
“È la prima volta che ti vedo sorridere; hai un bellissimo sorriso, dovresti farlo più spesso.” Disse il mio compagno di banco, che non sembrava minimamente scosso dagli avvenimenti di poco fa. Aveva ragione, avrei dovuto sorridere più spesso, ma purtroppo non era facile. Questa cosa del Babbo Natale Segreto fu molto divertente, soprattutto quando, arrivati al turno di Marco di scartare il suo regalo, io gli dissi
“Secondo me sono preservativi e sono da parte di Jean.” 
Davvero, non potrete mai immaginare le loro facce.
Io fui l'ultima a scartare il mio regalo. Strappai la carta con molta poca delicatezza, per rivelare che al di sotto della suddetta vi era un CD degli Skillet, più precisamente Awake: il mio album preferito e l'unico che mi mancava per completare la mia collezione di dischi della mia band preferita. Non avevo la minima idea di cosa dire, quindi la mia bocca lavorò in completa autonomia
“Io... Come sapevate che li adoro... Come sapevate che è l'unico CD che mi manca...” Mi chiesero chi fosse stato, secondo me a farmi questo regalo “Jean” risposi, senza un motivo apparente
“E per quale motivo?” Mi chiese Mikasa
“Perché secondo me dopo stamattina ha capito che con i CD non si sbaglia mai.” Dissi, ma lui si affrettò a ribattere
“Ebbene ti sbagli, non sono stato io.” 
“E allora chi...?” 
Armin alzò timidamente la mano
“È anche il mio album preferito, quindi pensavo che ti sarebbe piaciuto.” 
Mi piace quasi quanto mi piaci tu, pensai. Mi limitai a ringraziare timidamente. 
In seguito qualcuno ebbe la meravigliosa, per così dire, idea di giocare ad obbligo o verità. Per renderlo più casuale ed interessante decidemmo di prendere una bottiglia e mettemmo la condizione secondo la quale il primo ad essere indicato dalla bottiglia avrebbe dovuto scegliere cosa far fare o dire al secondo scelto: a discrezione propria, il povero che poi avrebbe dovuto affrontare la penitenza non aveva alcuna possibilità di scegliere tra obbligo e verità. Dopo un paio di turni mi capitò di avere in mano il destino di Jean. Decisi di divertirmi un po', poiché avevo notato che Marco era seduto alla sua destra
“Jean, carissimo. Ti obbligo a dire alla persona alla tua destra tutto ciò che vorresti che sapesse, ma che non hai mai avuto il coraggio di dire.”. Jean si voltò verso Marco e, dopo qualche attimo di tentennamento si sciolse
“Marco, io... Io non te l'ho mai detto ed è da coglioni dirtelo adesso, ma io sono un coglione completo; talmente cretino da innamorarmi follemente di te, al punto di sognare il tuo sorriso, al punto che pagherei tanto oro quanto peso soltanto per tenerti per mano. Dico sempre a tutti che nella vita bisogna avere coraggio, ma io non ne ho mai avuto abbastanza per dirti che ti amo e per fare questo.” E prese il volto del ragazzo lentigginoso tra le sue mani e lo baciò. Passata la foga del momento iniziale si rese poi conto di cosa aveva fatto e abbassò lo sguardo, finché 
“Ti amo anch'io, Jean.”
 
 
 
Α (Death) Note dell'Autrice Ω
 
Buonsalve! Il mio nome è Laura e sono una cattiva persona!
Perché? SEMPLICE!
Perché il capitolo che sarebbe dovuto uscire il 25 dicembre esce alle 2 di notte del 28!
Faccio schifo, davvero.
Comunque, spero che non vi dispiaccia se faccio innamorare il mio OC di Armin... Anche lui ha bisogno di un po' di eterosessualità, ogni tanto...
JEAN E MARCO SONO COSÌ FABULOUS! 
Vabbè, sto iniziando a scrivere cazzate, quindi forse è meglio se chiudo qua.
Prima però vorrei porvi una domanda: vi dà fastidio il linguaggio esplicito e talvolta un po' volgare che ho usato in questo capitolo? 
Perché se non vi infastidisce preferirei continuare con questo registro linguistico, in quanto mi sembra più adatto poiché stiamo facendo una AU di Attack On Titan basata su una Scuola superiore. 
E poi dai, chi non ha mai detto parolaccia in vita sua?
Se invece per un qualsiasi motivo questo linguaggio vi dà fastidio posso utilizzarne uno più simile a quello degli scorsi capitoli, o magari anche più pulito.
Detto questo spero che questa storia vi piaccia almeno un po'. Ci vediamo nel prossimo capitolo! 
Siccome sono buona vi anticipo che sarà a tema capodanno u.u
Adesso però vado davvero ché domani ho gli esami di Kung-Fu, quindi domani mattina devo uccidermi a forza di ripetere la forma e la teoria. XD
BELLA RAGAZZI!

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Capitolo 4
*** Happy new year! - I'm not drunk! Do I look drunk? ***


Chapter 4: Happy new year! - I'm not drunk! Do I look drunk?

 
 
Bene gente, nel caso aveste ancora qualche dubbio, l'amore non è come ci fanno credere nei libri.
Quindi adesso permettetemi di sfatare qualche misera leggenda metropolitana sull'innamoramento.
Ci fanno credere che quando ti innamori il tuo cuore batta fortissimo ogni volta che vedi o pensi alla tua cotta, ti fanno credere che sia meraviglioso, in realtà ti senti come se stessi avendo un infarto fulminante, tanto per usare un eufemismo.
Ci fanno credere che la persona che ci piace sia il nostro primo pensiero al mattino e l'ultimo prima di addormentarti, mentre in realtà ci pensi tutto il cazzo di giorno, senza interruzione alcuna.
Ci fanno credere che non abbiamo fame per le farfalle nello stomaco, ebbene, la sensazione che si sente allo stomaco non è tanto quella di graziose farfalline che svolazzano, quanto più ti senti come se il tuo povero stomaco fosse una pezza che deve essere strizzata dalla creatura più forte del mondo.
Perfetto, adesso che il mio sfogo è compiuto, posso tornare alla regolare narrazione.
La mattina dopo mi alzai alle otto e mezza, il che per i miei canoni era tardissimo, e questa cosa mi diede non poco fastidio.
Mezz'ora dopo, quindi verso le nove, arrivò Levi; rimasi leggermente sorpresa da questo suo comportamento, in quanto durante la settimana veniva sempre di pomeriggio, tuttavia lì per lì non ci feci caso
“Buongiorno Levi, il tavolo è pronto, ma che ci fai qui alle nove di mattina?” 
“Diciamo che non riuscivo ad aspettare oggi pomeriggio per farmi raccontare come sei saltata addosso ad Arlert” 
Arrossii 
“Io non sono saltata addosso proprio a nessuno! Adesso siediti. Cosa ti porto? Tè, caffè, cappuccino o cosa?” 
“Caffè.” Mi rispose “solo caffè.”
Nell'aspettativa che poi mi sarei trattenuta a parlare con Levi, decisi di servire prima gli altri clienti e lui per ultimo, nel caso avessero voluto qualcos'altro, c'era mia nonna (mio nonno si occupava solo della parte finanziaria). Non appena ebbi esaurito i clienti da servire preparai il caffè per l'uomo e mi diressi al suo tavolo
“Ecco qua.” Dissi mentre poggiavo la tazzina davanti a lui 
“Brava. Siediti adesso.” Si limitò a ribattere Levi, e io feci come mi aveva detto
“Allora?” Mi domandò dopo un silenzio imbarazzante che se no si sarebbe protratto per troppo tempo. Prima che potessi rispondergli il mio cellulare vibrò nella mia tasca, lo presi per vedere chi era che mi aveva cercato: c'era un messaggio.
 
Da: Armin Arlert
Buongiorno. Non hai preso troppo freddo ieri mentre tornavi a casa, vero? Come ti senti?
 
Inutile dire che il mio cuore perse un battito. gli risposi subito.
 
Da: Alice Sweets
Non ho preso affatto freddo. E mi sento come un cielo senza stelle, grazie di avermi pensato.
 
Ero solita rispondere alle domande “Come ti senti?” Oppure “Come stai?” Con sempre il solito “Come un cielo senza stelle.”; non c'era un motivo preciso, era solo abitudine, tuttavia non mi era mai capitato di ringraziare qualcuno di avermi mandato un messaggio. Be', in effetti le persone non mi mandavano quasi mai messaggi.
 
Da: Armin Arlert
Mi piacciono i cieli senza stelle.
 
A quel punto la mia mente non riusciva a formulare una risposta intelligente, quindi decisi di non rispondere.
“Era lui, vero? Sei tutta rossa. Un po' di contegno.” Chiese l'uomo con fastidio malcelato 
“No, cioè sì, cioè... Oddio scusa.” Risposi portando le ginocchia al petto e coprendomi il viso con le mani. Dopo aver tratto qualche respiro profondo ed essermi calmata ripresi. Nonostante l'imbarazzo iniziale gli raccontai com'era andata la serata, cercando, per qualche motivo sconosciuto al mondo intero, di essere più accurata possibile nel descrivere le emozioni. Credo di non essere mai stata così accurata e dettagliata nel raccontarmi. 
“Interessante. Secondo me è gay, come quella specie di cavallo e quel tizio con le lentiggini.” Lo guardai con un'espressione che deve essere stata l'immagine della disperazione, tanto da indurre Levi a dirmi che stava scherzando e che secondo lui ad Armin piacevo. Il potere della mia faccia da disperata era grandissimo.
 
 
I giorni passarono veloci e impercettibili come un effimero alito di vento che, in un discreto silenzio, ti porta man mano via secondi, poi minuti, poi ore, poi giorni che non riavrai mai più. 
Ed ecco che mi trovavo, mezz'ora dopo il brindisi della mezzanotte che diceva addio al vecchio anno e dava il benvenuto a quello nuovo, seduta sugli scalini fuori dall'uscio di casa di Jean, che aveva deciso di dare una festa alla quale aveva invitato mezza scuola (che, sorprendentemente si era presentata), ad osservare la neve che cadeva candida, in contrasto con la mia camicia, i pantaloncini, la calzamaglia e le scarpe di colore nero che indossavo. Se avessi guardato un termometro probabilmente avrei compreso che, effettivamente, faceva freddo, ma io iniziavo a sentire fresco alla temperatura di -5º (probabilmente in una vita precedente avevo passato la mia vita in Lapponia con dei pantaloncini e una camicia hawaiana), quindi osservavo quei frammenti candidi che cadevano lentamente giù con serenità, senza percepire la minima sensazione di freddo. Come mai ero fuori dalla porta? Semplice, avevo bisogno di prendere un po' d'aria: le feste non facevano per me, ma Jean mi aveva convinto a venire e non me l'ero sentita di dare buca all'ultimo minuto, cosa che invece ero solita fare quando, negli anni precedenti mi invitavano alle feste: mi presentavo, sì, davanti al loro uscio, ma non avevo poi né il coraggio né la voglia di entrare, e mi recavo invece da qualche parte a passare tempo da sola, per poi tornare a casa a tarda sera dicendo di essermi divertita. Il rumore della porta che si apriva mi strappò violentemente all'ordinato disordine della mia mente. Era Armin.
“Wow, Alice, ci tieni proprio a beccarti una polmonite, eh?!” 
Tentai di spiegargli che non sentivo affatto freddo, ma lui non volle sentire ragioni e mi portò nuovamente all'interno, dove risuonava chissà quale canzone dubstep assordante. Cercai di sopportare il casino che c'era e di mostrarmi più serena di quanto non fossi. Ad un certo punto, come per dare sollievo alle mie orecchie, la canzone dubstep cominciò a scemare per lasciare posto ad una musica più lenta che, mentre osservavo le varie coppiette ballare in pista, riconobbi come Someone Like You. Immaginavo che nessuno mi avrebbe chiesto di ballare, tanto meno lui, quindi, vedendo Eren fare da tappezzeria, mi diressi dal ragazzo e gli chiesi 
“Perché non chiedi a Mikasa di ballare? So che lo desiderate entrambi.” 
Come prevedevo non mi fu difficile convincerlo, e non ci volle molto prima che li vidi teneramente abbracciati sulla pista da ballo. Decisi che avrei fatto di tutto per far mettere insieme quei due: loro dovevano stare insieme. Già dalla prima volta in cui li avevo visti avevo notato quale forte legame li univa; si conoscevano da quando erano poco più che neonati, ed era evidente quanto, nel corso degli anni, il loro legame si fosse accresciuto e fortificato. Se davvero esisteva il fantomatico filo rosso del destino, quello di Eren conduceva a Mikasa, e viceversa. Chissà a chi conduceva il mio. Così come pochi minuti prima, venni aggressivamente portata via dai mille pensieri che si formavano nella mia testa. 
“Alice...” Mi sentii chiamare con tono flebile dal mio amico biondo “non è che ti andrebbe... Cioè, non è che per caso accetteresti di...” Si bloccò per un attimo, come se avesse dovuto prepararsi psicologicamente per finire la frase, poi concluse “ballare con me?”
Ero molto titubante. Cosa rispondergli? Dopotutto io non ero una brava ballerina. Poi però riflettei per qualche secondo. Riflettei e mi dissi che ogni anno della nostra vita è un libro, ogni mese un capitolo e ogni giorno una nuova pagina: quello, il momento che stavo vivendo, costituiva la prima pagina, l'introduzione, del libro che stavo per scrivere. Pensai che quel libro necessitasse di un'introduzione bellissima, quantomeno qualche riga, e decisi che quello era il momento giusto per iniziare a scriverla. Annuii.  Scegliemmo un angolino non troppo in vista della pista, e in quel momento ringraziai tutti gli dei di indossare i tacchi, così che potessi poggiargli le mani sulle spalle senza alcuna difficoltà. Al momento in cui le sue dita toccarono i miei fianchi percepii di nuovo quel calore che non sentivo dal giorno di Natale, e mi sembrò di ritrovare una parte del mio essere ormai perduta da tempo immemore, ancora mi domandai come avessi fatto a vivere senza questo calore, e ancora non trovai una risposta. Non ero mai stata una grande ballerina, ma in quella occasione chissà quale forza divina si offrì di guidarmi, così io potei godermi un viaggio nei suoi occhi del colore del cielo, mi parve di perdermici dentro. 
“Perché devi essere così fottutamente bellissimo?” Dissi in un sussurro. Ero talmente soprappensiero che quelle parole parvero scivolarmi fuori dalle labbri quasi di propria spontanea volontà. Credetti di aver raggiunto l'apice della mia fortuna quando realizzai che non mi aveva sentito. Alla fine della canzone, seppur con estrema riluttanza, dovetti interrompere quel così piacevole e confortante contatto. Mi accorsi di avere sete, quindi andai al tavolo delle bevande e versai il primo liquido che capitava dentro un bicchiere, lo bevvi tutto d'un fiato e, dal sapore, mi accorsi che avevo sbagliato bottiglia e che al posto dell'acqua avevo bevuto lo spumante. Era buono, per carità, ma adesso il mio alito avrebbe avuto l'acre odore dell'alcol e, seppure non fossi stata ubriaca, lo sarei sembrata, forse. Andai in cucina alla ricerca di qualcosa da bere che non fosse alcolico, e che non fosse acqua, che avrei potuto bere per mascherare il mio sbaglio. Mi accorsi che oltre me non c'era nessuno in quella stanza, quindi iniziai, a metà tra la volontà e l'inconscio, a pensare ad alta voce, le mie riflessioni vertevano palesemente sul ragazzo che mi aveva accompagnata nel ballo
“No, non posso dirglielo.” 
“Cosa non puoi dirmi?” Mi sentii chiedere da una voce fin troppo conosciuta. Notai però come quel tono fosse completamente privo di malizia, e come quindi dovesse aver sentito solo parte del mio strano monologo. Decisi di sputare fuori le parole che avevo dentro, come se fossero state veleno dal quale mi sarei liberata solo dopo averlo volontariamente espulso dal mio corpo, come se avessi potuto liberarmi da quei sentimenti così leggeri e opprimenti semplicemente esternandoli
“Che sei dannatamente bello. Ma non bellezza intesa come solo fascino, come solo attrazione carnale. Piuttosto quel genere di bellezza che include ogni aspetto di corpo e anima, capace di rendere bella qualunque cosa con la sua sola presenza. Come un paesaggio che di per sé non è poi così fantastico, ma che all'alba e al tramonto si trasforma nel più meraviglioso e paradisiaco dei luoghi.”
“Alice, ma... Tu sei ubriaca.” Mi rispose con una punta di delusione, come se credesse che quelle parole fossero solo frutto dell'alcol. In fondo però me lo aspettavo.
“Non sono ubriaca! Ti sembro ubriaca?” Chiesi leggermente indignata, il ragazzo annuì. Era normale che lo sembrassi dopo aver bevuto per sbaglio lo spumante al posto dell'acqua
“Va bene. Allora non ti dispiacerà se faccio questo.” Dissi prima di poggiare fugacemente, per qualche secondo, le mie labbra sulle sue, per poi subito ritrarmi
“Questo sarà il nostro piccolo segreto. Un gesto, di cui nessuno deve venire a conoscenza, da parte di un'Alice non del tutto lucida per un Armin come sempre fottutamente carino.” Sorrisi un po' e mi allontanai lasciandolo lì, tutto rosso, come se stesse cercando di processare ciò che era appena accaduto.
Forse un giorno avrebbe saputo che ero perfettamente lucida.
 
 
Α (Death) Note dell'Autrice Ω 
Buonsalve! 
Prima di tutto vorrei ringraziare Alysia Moon per la sua splendida recensione e vorrei anche ringraziarla perché esiste e shippa EreMika <3
Adesso posso tornare al normale angolino :3
Due capitoli in così pochi giorni, WOW! 
No, dai, non voglio scherzare. So che questo capitolo è estremamente corto, ed è proprio così che lo volevo.
Perché?
Perché fondamentalmente ai fini della trama non serve assolutamente a nulla, tanto che nel progetto originale questo non doveva esistere nemmeno.
E allora perché l'ho scritto? 
Be', per il semplice motivo che domani questo account compirà un anno. Per voi veterani di questo sito un anno non è nulla, e ne sono consapevole, tuttavia per me è tantissimo. 
Vi rendete conto? Un anno.
Un anno di storie, 
Un anno di angoli autrice
Un anno di recensioni,
Un anno di storie seguite,
Un anno ad arrossire ogni qualvolta mi arrivava una recensione bella,
Un anno di EFP,
Un anno di noi.
E questo capitolo serve solo a questo. A dirvi grazie per questo anno trascorso insieme. 
Vi voglio sempre bene,
Laura

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Capitolo 5
*** Go get a room! — So has it all been fake? ***


Go get a room! – So has it all been fake?
 
 
Se non vado errata, l'ultima volta che mi sono trovata ad usare una metafora da comparare all'irrefrenabile forza del tempo, ho usato quella di un venticello. Ebbene, adesso mi trovo a definirlo come un ruscello, la cui acqua scorre, scorre e scorre, fino a prosciugarsi al momento della cessazione della nostra vita. Il corso irrefrenabile di questo ruscello mi aveva portato alla tanto odiata data del 14 Febbraio. Come penso abbiate potuto notare, io avevo una relazione molto complessa con le festività, infatti non ce n'era una che mi piacesse, e S. Valentino non faceva proprio eccezione. Ogni anno, infatti, sebbene non ne abbia tutt'ora compreso a pieno la motivazione, ogni anno venivo picchiata dai miei compagni di scuola. Il problema, però, non era tanto l'essere presi a botte (a quello, infatti ero abituata), bensì il fatto era che durante il giorno di S.Valentino quelle bestie parevano ancor più accanite che nel resto dell'anno. 
Tuttavia quella mattina, nonostante fossi entrata a scuola pronta a fare a botte e a uscirne succube, mi ritrovai a dover combattere contro un tipo di dolore al quale non ero affatto avvezza: il mal d'amore, se così si può chiamare. 
Come ogni anno varcai la soglia della scuola con aria rassegnata, pronta ad andare incontro al mio triste destino, senza pensare che, effettivamente, quell'anno non avevo avuto problemi sociali di alcun tipo; mi trovai piuttosto a constatare quanto riuscissi a percepire distintamente e a sentirmi quasi partecipe dell'aria di festa che era presente in tutta la scuola: era il momento ideale per le coppie per le effusioni d'affetto (tant'è che trovai Jean e Marco, e non troppo distante Christa e Ymir, dimostrare pubblicamente il loro affetto particolare, senza curarsi di avere un po' di contegno).
Appena entrata in classe, notai che Mikasa sembrava molto giù di corda, addirittura afflitta. Non che di solito si mostrasse particolarmente felice, eh, tuttavia quel giorno sembrava essere in balìa di quella che ai miei occhi pareva null'altro che delusione.
“Buongiorno Mikasa! Qualcosa non va?” Chiesi mentre mi sedevo accanto a lei
“Oh, Alice, buongiorno a te. No, non c'è nulla che non vada.” Mi rispose con voce atona 
“Avanti, si vede lontano un chilometro che c'è qualcosa che ti affligge! Sai che puoi parlarmene.” Lei scosse la testa senza proferir parola, quindi io abbassai il tono della voce 
“Si tratta di Eren, non è vero?” Annuì 
“Se mi permetti avrei un consiglio da darti.” Mi invitò ad esternare questo fantomatico consiglio.
“Diglielo. Ora, davanti a tutti. Ti assicuro che non andrà male, ma nel malaugurato caso dovesse succedere, digli che era un messaggio da parte mia che ti avevo chiesto di riferirgli, ci stai?” Devo ammettere che non fu affatto facile convincerla, ma alla fine ci riuscii comunque. Un paio di minuti dopo arrivò il ragazzo dagli occhi verdi, e Mikasa seguì sorprendentemente il mio consiglio, tuttavia le cose andarono meglio del previsto. 
“Eren.” Gli andò in contro fin sull'uscio della classe 
“Eren ascolta, devo dirti una cosa molto imp-”
“Zitta, Mikasa, shh!” Quasi le gridò in faccia, come se stesse preparando qualcosa di non affatto facile da realizzare, e non volesse essere interrotto nella sua meditazione. Lei alzò gli occhi che teneva abbassati fino a farli incrociare con quelli del ragazzo, lo fissò delusa per qualche momento; poi successe quanto di più (non così tanto) inaspettato sarebbe potuto succedere. Eren prese in manto di Mikasa con due dita e annullò la distanza tra i loro volti. Dopo qualche secondo si distanziarono nuovamente, come se entrambi cercassero di comprendere se quanto appena accaduto fosse stato un sogno oppure la vita reale, non ci volle molto prima che il ragazzo dagli occhi verde smeraldo non riuscisse più a resistere alla tentazione di far incontrare di nuovo le labbra della sua amata con le sue. A quel punto sembrava che né a Mikasa né ad Eren importasse minimamente di essere nel mondo, tant'è che qualche secondo dopo entrò l'insegnante di inglese che, vedendoli, esclamò 
“Go get a room!” 
Solo a quel punto i due presero regolarmente posto, tenendosi tuttavia per mano sotto il banco. Era la scena più tenera alla quale avessi mai assistito.
Durante le lezioni mi trovai varie volte ad osservare il mio compagno di banco e ad arrossire al solo pensiero di provare a dirgli anche solo che gli volevo bene. Le ore passarono interminabili, finché non arrivò la ricreazione. L'insegnante dell'ora precedente mi aveva chiesto di restituire il computer che avevamo preso in prestito, quindi lo portai dove dovevo e mi apprestai a tornare in classe, durante quel lasso di tempo decisi che avrei fatto come Mikasa e avrei detto ad Armin tutto ciò che provavo, tanto cosa sarebbe potuto succedere? Raccolsi tutto il mio coraggio e tutta la dolcezza di cui ero capace, mi preparai finanche un discorso. Ero abbastanza entusiasta di ciò che mi apprestavo a fare, ma il mio entusiasmo svanì del tutto quando vidi che il biondino aveva già trovato compagnia. Non resistetti più di due secondi alla vista di Armin che baciava una ragazza che non mi disturbai nemmeno a guardare per provare a riconoscerla: la sua identità sarebbe rimasta un mistero per chissà quanto. Le lacrime iniziarono a pungermi gli occhi, cercai il più possibile di trattenerle, entrai in classe, che per fortuna era vuota, misi ciò che era mio nello zaino e uscii dalla stanza, pronta a tornarmene a casa. Le ultime due ore sarebbero state occupate da Rivaille, che incontrai nel corridoio che stavo percorrendo per uscire dalla scuola. 
“Ohi, ragazzina, che cazzo stai facendo?” Mi chiese piano dopo avermi afferrato per un braccio
“Non lo vedi da solo?” Risposi col suo stesso tono di voce “Me ne vado, ecco che faccio.” 
“Perché te ne vai? Cos'hai?” Tornò a chiedermi cercando di nascondere la preoccupazione 
Poca voglia di restare ancora in questo cazzo di posto.” Conclusi liberandomi poi dalla sua presa e percorrendo a grandi passi la distanza che mi separava da casa mia. Appena arrivata, come d'abitudine dissi ai miei nonni che ero tornata, mentendo dicendo che ci avevano fatto uscire prima, poi mi rintanai in casa chiudendo porte e finestre, e lasciando fluire le mie lacrime liberamente. Quella era una sofferenza nuova. Negli anni passati riuscivo a concludere la giornata scolastica, per poi tornare a casa, rinchiudermi in camera per un'oretta e chiuderla lì, era routine, in un certo senso. Questa volta invece era diverso. Mi sentivo tradita, persa, sola, triste, arrabbiata e avevo tanta voglia di urlare contro il mondo, come se sarebbe cambiato qualcosa se lo avessi fatto. Negli anni passati mi bastava il pensiero di qualcuno a cui volevo bene per calmarmi, in questa situazione il ricordo degli affetti serviva soltanto ad affliggermi maggiormente. Mi sentii estremamente in collera con me stessa: come potevo essere riuscita a convivere a più di 10 anni di bullismo e non riuscire a superare questo? Come potevo riuscire a sopportare tutto ciò che mi era successo e mi succedeva ma non questo? In quel salotto buio il tempo sembrava essere inesistente, non toccai cibo. Mi chiesi quanto che ora fosse, ma poi realizzai di non aver nemmeno voglia di vederlo. Le lacrime si erano fermate, ma non erano riuscite a lavare via la tristezza e l'amarezza che, purtroppo persistevano. Il silenzio fu interrotto dal suono del campanello. Aprii. Era Levi. 
“Ohi ragazzina ma cos'hai? Te ne vai via da scuola e non vieni nemmeno al bar?” non risposi. Mi scostai per lasciarlo entrare, poi chiusi la porta e d'impulso gli gettai le braccia al collo e nascosi il viso contro il suo petto. Le lacrime ripresero a scendere 
“Era tutta una farsa!” Gridai “Tutto falso, tutto! I sorrisi, i complimenti, quando a Natale è rimasto ad abbracciarmi per scaldarmi, quando mi ha chiesto di ballare a capodanno, le sue reazioni a quelle due volte in cui l'ho baciato. Tutta farsa, capisci? TUTTA FARSA!” Con mia grande sorpresa Levi ricambiò l'abbraccio 
“Ehi, ehi, calma. Adesso ci sediamo e mi racconti cosa è successo, va bene?” Me lo disse in un sussurro così rassicurante che tutta l'irrequietezza che vi era dentro di me parve scomparire, per lasciar posto solo al calmo sentimento della tristezza.
Feci come mi era stato chiesto e gli raccontai per filo e per segno quanto accaduto quella mattina.
“Alice.” Mi riprese l'uomo non appena ebbi finito il mio racconto “pensaci. Hai superato anni e anni di inferno; gli altri ti hanno trattato di merda in ogni momento della tua vita... Ti ricordi Nicola? Quel ragazzino che ti piaceva in quarto ginnasio.” Annuii anche se non senza risentimento: avrei preferito non aver riportato alla mente quel ricordo proprio in quel momento “ecco.” Riprese “scommetto che ti ricordi la risposta che ti ha dato quando gli hai detto che ti piaceva. ” Annuii nuovamente “appunto Alice, sei sopravvissuta a questo schifo... Sarai capace di sopravvivere anche a questo, no?” 
A quel punto la portata delle lacrime aumentò leggermente a causa della somma di emozioni negative
“No, Levi! La verità è che sarebbe stato meglio non esistere proprio!” Gli gridai istintivamente. 
Silenzio.
Rumore di uno schiaffo.
Dolore.
Vidi la mano dell'uomo ancora leggermente sollevata.
“Non permetterti nemmeno di pensare queste cazzate.” Disse con freddezza “ora vai a dormire un po'. Ti accompagno.” Concluse e lasciò che facessi strada verso la mia camera, mi fece stendere sul letto e mi coprì con un plaid; chiusi gli occhi e sentii i suoi passi. Per qualche secondo fui combattuta se chiedergli di restare o lasciarlo andare così; alla fine non ebbi nemmeno bisogno di pensarci tanto, ché le parole scivolarono via dalle mie labbra quasi involontariamente 
“Resta. Ti prego” riaprii un po' gli occhi e vidi che aveva preso la sedia della mia scrivania e la aveva messa accanto al letto, per poi sedercisi e guardarmi dapprima con sguardo seccato, stesso sguardo che parve addolcirsi impercettibilmente un attimo dopo.
“Sono qua, ora dormi.” Concluse accarezzandomi i capelli. Gli presi la mano e scivolai tra le dolci braccia di Morfeo senza lasciargliela. Era fredda, la sua mano, ma al contempo intrisa di quel calore che tanto agognavo. Un paio d'ore dopo mi svegliai con la mano ancora intrecciata alla sua, alzai lo sguardo e vidi che Levi si era addormentato e mi sorpresi di quanto sembrasse diverso quando intrappolato nei meandri del sonno: aveva la testa inclinata verso sinistra, i capelli corvini scompigliati che gli coprivano leggermente il viso, la bocca semiaperta e un'espressione serena. Sciolsi l'intreccio delle nostre dita facendo attenzione a non svegliarlo, gli misi addosso la coperta che fino a pochi secondi prima aveva riscaldato me, poi senza nemmeno pensarci gli lasciai un leggero bacio sulla guancia e scesi al piano inferiore per preparare la cena, dato che ormai si era fatto l'orario adatto. Mentre mi adoperavo ai fornelli pensavo a quanto fossi fortunata ad avere un amico come Levi. Era strano, in un certo senso, avere come amico il tuo professore trentenne di latino e greco; era strano quale assurdo scherzo il destino mi avesse giocato nel farmelo incontrare proprio quando ne avevo più bisogno; e ancor più strano era quanto questo fantastico scherzo del destino mi avesse concesso di averlo nella mia vita. In più quale modo strano di volerci bene avevamo io e lui: un affetto non dimostrato, privo di effusioni e dichiarazioni d'affetto assidue, eppure così forte; un affetto in parte anche segreto, perché né io né lui ci saremmo mai sognati di far anche solo sospettare a qualcuno dell'esistenza di questo legame, e forse era proprio per questo che esisteva questo tacito accordo che vietava le dimostrazioni d'affetto in pubblico. 
È davvero un burlone, il destino, nevvero?
Un'altra cosa incredibile era quanto un semplice risveglio accanto a qualcuno al quale ero legata da un affetto ricambiato mi avesse calmato e reso disponibile a prendere ciò che era successo la mattina, o che eventualmente sarebbe successo dopo, con più filosofia. Sentii il rumore dei passi di Levi sulle scale
“Ben svegliato.” Gli dissi senza guardarlo
“Da quanto sei sveglia, ragazzina?” Mi chiese di rimando
“Mezz'oretta circa. Non di più, credo.” 
“E perché non mi hai svegliato?”
“Perché eri troppo carino, non potevo svegliarti.” Dissi girandomi a guardarlo e ridendo un po'
“Vedo che siamo in vena di risate piuttosto che lacrime. Meglio così. Be', allora io vado.” 
“No.” Mi limitai a rispondere
“Come sarebbe a dire no?” Mi domandò
“Levi, davvero. Vivi da solo, è ora di cena e tu ti sei appena svegliato. Non toccheresti cibo, lo so per esperienza, perché onestamente non mangerei nemmeno io, tuttavia non possiamo stare digiuni entrambi, quindi ora tu ti siedi e mangiamo. Intesi?” 
“Intesi, Mein Führer.” 
Non risposi. Dopo cena Levi si trattenne, sotto mia richiesta, ancora un po'. Per la prima volta da quando avevo spento la sveglia quella mattina, controllai il cellulare; c'erano ben 10 chiamate perse da Jean, distribuite dall'orario di uscita da scuola fino a venti minuti prima che controllassi le notifiche. Bloccai il telefono, ma subito dopo vibrò
“Oh, guarda. Un messaggio. È Armin. Chissà che dice.” Aprii il messaggio e ne lessi il testo ad alta voce “dice: ‘Alice, tra mezz'ora io, Eren, Mikasa, Jean, Marco... Vabbè, insomma, hai capito, ci vediamo al centro commerciale. Perché non vieni anche tu? Faccina felice.'”
“Che hai intenzione di fare?” Mi chiese allora l'uomo 
“Ma perché non ci va con quella troia di stamattina al centro commerciale?” Risposi ridendo amaramente. 
L'indomani mattina mi svegliai con pochissima voglia di andare a scuola, sapendo che avrei dovuto rivedere Armin e stargli accanto tutta la giornata. Ad un certo punto della seconda ora capii di aver bisogno di distanziarmi un po' dal ragazzo. Per fortuna quell'ora e la successiva sarebbero state impegnate dalle lezioni di greco di Levi.
“Prof.” Chiamai “Dato che non mi sento molto bene, posso uscire qualche minuto?” Essendo a conoscenza della situazione, Levi non fece troppe storie e mi fece uscire dalla classe. Uscii e mi sedetti a terra accanto alla porta, così da non perdermi comunque la spiegazione: riuscivo a sentire ciò che veniva detto all'interno della classe, ma ovviamente non a vedere. Dovettero passare venti muniti prima che il professore chiedesse alla classe
“Sweets è rientrata?” Seguì un “no” generale. 
“Arlert, va' a controllare come sta.” Disse senza una particolare inclinazione della voce, al che il biondo rispose timidamente
“M-ma, non sarebbe meglio se andasse una ragazza?” 
“Ho detto: Arlert, va' a controllare come sta.” 
Il biondo uscì e, vedendomi, iniziò a dire
“Oh, Alice, eccoti! Come st-” 
“Sto da Dio.” Lo interruppi, poi alzai il tono della voce appositamente per farmi sentire anche da Levi, che si trovava oltre la porta “e puoi dire al professore che se ti ha mandato qui per avere un momento da soli per risolvere le nostre questioni personali, ha fatto un errore grave nel valutare la mia persona. Ora torna in classe, io vengo dopo.” Al suo ritorno nella stanza, il ragazzo provò a spiegare ciò che era successo, solo per essere subito interrotto da un brusco
“Ho sentito. Be', che faccia un po' come le pare.” Dopo quello scambio indiretto di frecciatine, quel pomeriggio Levi mi avrebbe fatto una bella lavata di capo, ma in fondo chi se ne importava. Una decina di minuti dopo mi decisi a trovare il coraggio per tornare in classe
“Ti senti meglio?” Chiese Rivaille con tono sterile
“No.” Risposi senza preoccuparmi di esternare qualche emozione
“Pazienza. Ora va' a sederti ché sei interrogata. Correggiamo la versione di oggi.” A quello impallidii. Non avevo studiato e lui lo sapeva 
“M-ma, prof... Sa che oggi non sono preparata.”
“Poco male. Tradurrai all'impronta.” 
“Si vendica pure, il bastardo.” Sibilai tra i denti mentre andavo a sedermi sorridendo leggermente al pensiero di affrontare la sfida che mi era stata proposta. L'interrogativo e alla fine andò divinamente e presi anche un buon voto, ma le faville della giornata furono durante la ricreazione.
“Ma stavi male ieri?” Mi chiese il biondo “il prof ci ha detto così.” 
“Sto male anche adesso, se è per questo.” Risposi apatica
“Allora è per questo che ieri sera non sei venuta?” 
“Più che altro pensavo che avresti potuto andarci con quella troietta di ieri, dato che ti ha tenuto talmente impegnato da impedirti anche di scrivermi un misero messaggio. Piuttosto lei dov'è ora? Come mai non ti delizia con la sua dolce compagnia?” Domandai di rimando. Sapevo che avrei fatto la figura della bambina gelosa, ma non mi importava 
“Be', Alice, permettimi di spiegarti. ‘Quella troietta di ieri’ ci prova con me ogni anni da tre anni, non ci delizia con la sua compagnia perché io non la voglio adesso come non l'ho voluta per altri due anni; e per la questione del contattarti... Io e Jean siamo stati insieme tutto il giorno, quindi ti abbiamo chiamato insieme dal suo cellulare semplicemente perché io non ho credito. Contenta?” 
Quelle parole mi risultarono più dolorose di quanto avrei voluto: avevo completamente frainteso i suoi comportamenti. La scoperta di aver frainteso qualcuno fu per me una sensazione completamente nuova, che diede a qualche lacrima l'opportunità di bagnarmi il viso mentre sussurravo delle scuse pur sapendole essere completamente infondate.
“Alice, ehi, tranquilla! Perché piangi? Non sono arrabbiato con te.” 
Sollevai lo sguardo fino ad incrociare quello del ragazzo, che non so come sostenni 
“Davvero non sei arrabbiato?” 
“Come si fa a rimanere arrabbiati davanti ad un faccino così tenero?” La buttò sul ridere e illuminò la giornata che si prospettava buia con un suo sorriso, che sorprendentemente riuscii a ricambiare con un'appena accennata curvatura delle labbra: un sorriso pressoché inesistente, ma che costituiva comunque un grande traguardo per me perché ormai non riuscivo più a sorridere all'interno di una scuola da troppo tempo. 
“Bravissima. Ora andiamo ché gli altri si staranno chiedendo dove siamo.” Disse e mi lasciò un leggerissimo bacio sulla guancia. Lo guardai e pensai a quanto avrei desiderato avere il coraggio di esternare i miei sentimenti, ma poi decisi che per quello c'era ancora tempo, e che avrei fatto meglio a godermi l'amicizia senza rischiare di rovinarla. 
 
 
Α Angolo Di Quella Cattiva Persona Che Ama Definirsi Autrice Ω
 
Come al solito mi scuso per lo schifo che è uscito, ma dopotutto il capitolo di per sé non serviva a nulla, era solo un filler che ho spudoratamente usato per metterci un po' di EreMika *risatina malefica*
Be', che dire, questo capitolo è, per l'appunto, più che altro una specie di filler, ma preparatevi ché ora si inizia ad entrare nel vivo della storia (ciò significa backstories, flashbacks, parti introspettive e perfino un cambio di location!). 
Ringrazio nuovamente Alysia Moon per i suoi commenti positivi, e naturalmente ringrazio anche tutti voi che seguite la mia storia anche senza farmelo sapere. Grazie, grazie davvero.
Come ultima cosa (poi vi lascio, giuro!) ho una notizia per tutti i Rivetra shippers che stanno leggendo: ho in serbo una bella OS tutta per voi, quindi STAY TUNED!
Detto questo vi lascio, al prossimo capitolo!

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Capitolo 6
*** Carnival Festival — Backstory Revealed? ***


Carnival Festival! — Backstory Revealed?
 
 
Non troppo tempo dopo S.Valentino arrivò anche Carnevale: festa che, come tutte le altre, detestavo a prescindere. Era una normalissima giornata di scuola e stavamo facendo lezione di letteratura greca, lezione che stava per finire per lasciar spazio alla ricreazione, quando il professore venne chiamato fuori dall'aula perché desiderato al telefono
“Ascoltate.” Esordì, essendo tornato in classe qualche minuto dopo, con tono privo di qualsivoglia particolare inclinazione “il Preside mi ha appena annunciato che stasera la scuola ha organizzato un ballo in maschera che si terrà all'interno della palestra. Visto che siete l'unica classe che vedrò oggi, ho deciso che sorteggerò due di voi, un ragazzo e una ragazza, che allestiranno la palestra per stasera.” Intorno a me si levò un brusio di approvazione al quale non partecipai. Non mi piacevano i balli scolastici, e nemmeno le feste in maschera, quindi combinarli in un'unica cosa era anche peggio.
“Adesso scriverò i nomi delle ragazze e ne estrarrò uno, poi passerò a quelli dei ragazzi.” 
Scrisse effettivamente un numero di bigliettini uguale a quello delle ragazze presenti nella classe, poi li prese tra le mani e li mescolò per qualche secondo, un po' come si fa prima di lanciare un dado, poi li sparse sulla cattedra, ne prese uno e lesse ad alta voce
“Alice Sweets.” 
In quel momento non mi sovvenne alcun pensiero se non quello che esternai ad alta voce
“Ma che palle prof! Io sono impegnata il pomeriggio!” 
“Modera il linguaggio.” Iniziò senza alzare gli occhi “e poi ormai sei stata estratta. Vedi di liberarti.” 
Vista la sua reticenza a scegliere un'altra persona, cominciai ad immaginare che mi avesse giocato un brutto tiro, e immaginai anche a quale dei maschietti sarebbe toccato allestire la palestra. Quando sentii pronunciare il nome del mio biondo compagno di banco, infatti, non fui affatto stupita. 
“Allestiremo la palestra insieme, Alice, sei contenta?” Mi disse allegramente 
“Al settimo cielo, proprio.” Risposi seccata. Ciò che mi irritava non era tanto il dover allestire il tutto con Armin, anzi quello era l'unica nota positiva del tutto, bensì il dover lasciare mia nonna da sola al bar di sabato pomeriggio; l'idea di farle fare tutto quello che di solito facevo io, lasciandole inoltre anche la gestione della parte di lavoro che di solito spettava a lei mi pareva alquanto infelice, ma purtroppo dovetti sottostare alla decisione di Levi. Col senno di poi però posso dire che non fu qualcosa di estremamente negativo. 
“Come ultima cosa” continuò senza scomporsi “i due sorteggiati possono andare via al suono della campanella ed iniziare il lavoro, lavoro che potranno svolgere come meglio credono, l'importante è che entro stasera alle 20:30 la sala sia perfettamente allestita. Intesi?” 
Armin rispose con un “sì” alquanto entusiastico, mentre io mi limitai ad un verso indefinito e anche alquanto ambiguo. Dopo qualche secondo la ricreazione iniziò, rimasi però seduta al mio posto finché in classe non restai da sola, dicendo ad Armin che lo avrei raggiunto in poco tempo. Dopodiché mi alzai ed iniziai con nonchalance ad aprire i bigliettini uno per uno, sia quelli dei maschi, sia quelli delle femmine.
“Come sospettavo. Hanno tutti i nostri nomi scritti sopra.” Dissi tra me e me in un tono tra il rassegnato e l'irritato. 
“Qual era il problema?” Mi chiese Armin non appena lo raggiunsi fuori dalla scuola
“No, niente, non trovavo una delle mie penne, ma ora è tutto a posto.” Mentii “conosci qualche negozio utile nelle vicinanze?” 
Il ragazzo scosse la testa 
“Bene” dissi allora io “io sì, ma non possiamo arrivarci a piedi, quindi...” Ci pensai su per qualche momento “quindi facciamo un salto a casa mia, lasciamo gli zaini, avviso i miei nonni e andiamo con la mia moto. Okay? Okay. Hai preso i soldi del fondocassa?” Il ragazzo annuì. Arrivammo a casa e per prima cosa entrai al bar per avvisare mia nonna. Inoltre le dissi 
“Ascolta. C'è un cliente che viene ogni giorno verso le 17 e un quarto, non so se l'hai notato, ci parlo ogni giorno.” Lei fece un segno di assenso “perfetto. Dovresti lasciargli questo biglietto.” E le diedi un foglietto con su scritto
‘Immaginavo che avresti pensato a qualche trucchetto. Sì, ho guardato i biglietti e trovo che sia uno stratagemma da terza elementare, veramente. Ti lascio il mio numero nel caso mi voglia contattare per spiegarmi perché ti è venuta in mente questa cosa.’
E poi, in piccolo, vi era scritto il mio numero di cellulare e la mia firma.
“Possiamo andare?” Mi chiese Armin non appena mi vide uscire
“Assolutamente no, prima devo cambiarmi. Non guiderò mai la moto con questa gonnelina: sarebbe come guidare in mutande e sarebbe molto problematico per le mie povere gambe.” Dissi con tono neutro, quindi aprii la porta di casa mia “vuoi entrare? Tanto per non farti stare sull'uscio, non ci sto troppo.” Gli dissi poi
“Uhm...” Iniziò in tono dubbioso “e i tuoi? Che diranno?”
“Non preoccuparti, i miei non ci sono.” Risposi candidamente. Non era una bugia, solo non era proprio tutta la verità: bisognava andarci ad interpretazione, ecco.
Misi una maglietta piuttosto larga e comoda nera, un paio di jeans strappati anch'essi neri e un paio di anfibi dei quali non ritengo necessario citare il colore. 
Quando tornai al piano di sotto, il mio compagno mi squadrò con sguardo indecifrabile
“Che c'è? Non ti piace?” Gli chiesi
“No, anzi. Solo non immaginavo che solitamente ti vestissi così...” Non seppe come continuare la frase, quindi ci pensai io
“Sì, lo so. Ho l'aria di una di quelle ragazze un po' troie che si vestono sempre di nero per fare le fighettine tipo stile bad girl, anche se in realtà tutto ciò che sanno fare è saltare da un ragazzo all'altro ogni settimana. Puoi ritenermi una puttanella, se è ciò che vuoi, ma se mi credi sulla parola posso dirti che non lo sono.” 
La discussione si chiuse così. Arrivati a destinazione, ovvero presso un altro centro commerciale, trovai per grazia divina un parcheggio, ed una volta entrati non riuscii a trattenermi dal dire con aria schifata
“Madonna Santa che casino...” 
Mi guardai attorno. C'erano davvero troppe persone. Troppa gente, troppo rumore, troppa confusione; mi sentii come se avessi dovuto mettermi a piangere e a strillare come una bambina lasciata da sola nel buio. Solo che io in quel momento avrei dato qualunque cosa per essere da sola al buio e attorniata dal silenzio.
Avevo vistosamente cambiato atteggiamento, e probabilmente il biondo lo notò. Prese la mia mano nella sua, lo guardai con aria interrogativa e, senza che io dicessi niente, lui rispose alla mia domanda mai posta con un sussurro rassicurante vicino al mio orecchio
“Sta' tranquilla. Fingi che ci sia solo io con te.”
Effettivamente non lasciò andare la mia mano nemmeno per un secondo.
Durante una pausa che ci eravamo presi verso metà pomeriggio, dato che avevamo lavorato sodo fino a quell'ora, e solo allora mi chiese 
“Alice, ma perché non sorridi quasi mai?” 
“Non c'è un motivo. Non mi piace sorridere.” Mentii
“Mi ricordo che una volta mi hai detto che ti piace veder sorridere la gente.” 
“Appunto, la gente. E io non sono la gente. Non mi piace sorridere e basta.” Continuai a mentire chiudendo il discorso: non ritenevo ancora opportuno raccontargli la mia storia. 
Finito di preparare la palestra non mancava molto al ballo, quindi altro non ci rimaneva che preparare noi stessi. Dopo una rigenerante doccia decisi che avrei indossato quello che sarebbe dovuto essere un costume scenico per uno spettacolo teatrale, al quale però non avevo mai preso parte. Era un costume da Angelo della Morte, ed era anche piuttosto semplice poiché constava di una toga monospalla nera lunga e drappeggiata con uno spacco che arrivava piuttosto in alto, ma per fortuna non abbastanza da risultare volgare e farmi sentire a disagio, e un paio di ali anche queste nere; dopotutto, che Angelo della Morte sarei stata se il mio costume non fosse stato interamente nero? Decisi inoltre di fare dei leggeri boccoli ai miei capelli, così da farli diventare morbidi, invece che lisci.
Una volta pronta mi apprestai ad uscire, ma un secondo prima di aprire la porta, qualcosa mi bloccò. Non saprei dire cosa fosse, ma in ogni caso era una persistente sensazione. Condizionata da questo sentore, mi accasciai dietro la porta, sperando che magari sarebbe passato e mi sarei decisa a varcare quella soglia e a percorrere quel centinaio di metri che mi separava da scuola. Dopo un'indefinita quantità di tempo sentii suonare il campanello. Aprii e mi trovai davanti un Angelo, o meglio, mi trovai davanti Armin travestito da Angelo: era completamente vestito di bianco e anche lui si era costruito un paio di ali, però naturalmente bianche. Pensai che, vedendo me vestita da Angelo nero e lui da Angelo bianco, la gente avrebbe pensato che lo avevamo fatto intenzionalmente, e mi sforzai di capire se fosse una cosa buona o meno, senza comunque arrivare ad una conclusione. Rimasi a fissarlo per qualche secondo, finché non mi disse 
“Cosa c'è? Non ti piace?”
“No, no... Stavo solo cercando di mettere insieme il coraggio per dirti che sei bellissimo.” Abbozzai un piccolo sorriso e lui arrossì 
“A-anche tu sei bellissima, specialmente ora che stai sorridendo.”  Mi rispose, e stavolta furono le mie guance a colorarsi di rosso. Decisi quindi di cambiare discorso
“Ma che ci fai qui?” Gli chiesi “perché non sei alla festa?” 
“Be’, in realtà ero lì, ma ho visto che non eri ancora arrivata e quindi pensavo che sarebbe stato carino passarti a prendere.” 
Avrei voluto dirgli che era solo merito suo se mi ero decisa a smuovermi da dove mi trovavo, che era merito suo se stavo provando tanti sentimenti nuovi, che era merito suo di tante cose, ma alla fine riuscii solo ad articolare un “Grazie. Allora andiamo?” Al che lui annuì e mi prese per mano e ci avviammo verso la scuola. Non gli scollai gli occhi di dosso per un attimo, e sperai non se ne fosse accorto. Appena arrivati trovammo ad attenderci svariati complimenti per la decorazione della sala da parte di alcuni, e da altri dei commenti sarcastici e maliziosi sui nostri costumi, che tutti credevano fatti intenzionalmente in coppia, commenti che accettavamo con più o meno imbarazzo, e per fortuna Armin sorrideva anche per me. Mi sorprese il fatto che fossi genuinamente contenta di vedere qualcuno e non di trovarmici a parlare pensando che sia uno stronzo ipocrita, e mi accorsi quanto questa sensazione portasse con sé un senso di leggerezza e di spensieratezza quasi puerile: era una bella sensazione che avevo perso l'abitudine di sentire ormai da, ahimè, parecchio tempo. Non ci volle troppo tempo prima che inaugurassero il momento della musica lenta. Iniziarono con Just Give Me A Reason.
“Ti va di ballare, con me?” Mi chiese, al che io risposi in maniera affermativa. Per un attimo osservai la moltitudine di colori che mi trovavo attorno, osservai quante erano le coppie già formate e quali stavano nascendo in quel momento, poi mi concentrai sul mio partner. Lo guardai negli occhi e capii cosa intendevano i ragazzi che si cimentavano nello scrivere frasi d'amore quando dicevano di perdersi negli occhi dell'altro. Proprio per questo probabilmente non riuscii a sostenere il suo sguardo: forse quella profondità mi spaventava. Stavamo entrambi in silenzio, e in quel silenzio potei scorgere una tale quantità di parole non dette che mi parve di annegarvi; questa per me era una sensazione relativamente nuova, in quanto ero ormai assuefatta dal non dire ciò che pensavo, ciò che cambiava stavolta era il motivo dietro quelle parole non dette: in passato non mi esprimevo per paura di essere denigrata e presa in giro ancora una volta, in quel tempo invece era diverso: lasciavo che quelle parole rimanessero sospese in aria per essere carpite solo da chi si aspettava o voleva che le dicessi per il semplice motivo che avevo paura di rovinare qualcosa costruito con il tempo. Per un attimo ebbi quasi voglia di liberarmi di quell'opprimente coltre, ma poi mi riscoprii troppo timida (o forse codarda?) per uscire da sotto quella pesante, eppure relativamente rassicurante, quindi lasciai sfumare quel suono che arrivava quasi ovattato alle mie orecchie, essendo in realtà concentrata su tutt'altri pensieri. Quando ogni traccia di quella canzone lenta e rassicurante fu svanita, mi accorsi che attorno a me c'erano troppe persone, e che la mia permanenza in un ambiente così affollato per un tempo prolungato altro non mi avrebbe fatto che male, quindi decisi di aver bisogno di una pausa
“Se mi cerchi sono fuori a prendere un po' d'aria.” Dissi al mio accompagnatore, il quale si limitò ad annuire. Mi sdraiai su un punto indeterminato del campetto da calcio che si trovava lì vicino e chiusi gli occhi, lasciandomi trasportare con prepotenza in intime parti del mio Io. Dopo quelli che mi parvero cinque minuti, anche se non avrei potuto dirlo con certezza, sentii dei passi che venivano verso di me. Decisi di fingermi addormentata. La persona alla quale appartenevano quei misteriosi passi mi si sedette accanto, iniziando ad accarezzarmi leggermente la guancia
“Non l'avevo mai vista addormentata. È bellissima.” Sussurrò come se avesse avuto paura che stessi solo fingendo di dormire e non volesse farsi sentire, nonostante il tono di voce basso lo sentii lo stesso e riconobbi la voce. Aspettai una ventina di secondi prima di fingere il mio risveglio, così da non fargli sospettare che stessi solo fingendo di dormire 
“Ehi, Armin, che ore sono?” Gli chiesi fingendo una voce e un'espressione ancora intrise di sonno, nonostante sapessi perfettamente che ore fossero. Subito dopo la sua risposta mi tirai su a sedere, e levai lo sguardo alle stelle, un po' per cogliere ogni sfumatura di quello spettacolo della natura che non mi soffermavo spesso a guardare, dato che tendevo a tenere lo sguardo basso, è un po' per evitare lo sguardo del ragazzo.
“Già che siamo qui.” Esordì come se fosse troppo imbarazzato dalla situazione “perché non mi racconti qualcosa di te?” 
“Non ho molto da raccontare sul mio conto.” Mentii
“Be', hai un nome americano, l'accento americano e a volte fai frasi mezze in italiano e mezze in inglese perché non ti vengono le parole. Avrai sicuramente qualcosa da raccontare.” 
“E va bene.” Cedetti “non ti nego che qualcosa da raccontare la ho. È una storia triste però.” 
“Allora raccontala.” Disse, al che io mi girai a guardarlo “raccontala e sputa tutto il veleno che hai serbato dentro di te per così tanto tempo.” 
“D'accordo.” Dissi “ti racconterò la mia storia.” 
Quindi mi schiarii la voce e iniziai
“Nacqui in un ospedale di New York di cui mi sfugge il nome il 4 Luglio di 15 anni fa dall'unione di mia madre, Amelia Orati, una giornalista italiana trasferitasi in America per lavoro, e mio padre, Peter Sweets, parte dei Marines degli Stati Uniti. Mia madre voleva che avessi un nome italiano, ma mio padre voleva che avessi a sia nome che cognome americani, quindi alla fine hanno optato per un nome abbastanza italiano, ma letto all'americana. Vissi fino alla fine delle scuole medie a New York, non pensare però che li passai felicemente. Infatti sono stata sempre vittima di bullismo; sarebbe impossibile ricordarsi tutti gli insulti che mi hanno rivolto, tuttavia per tutto il periodo delle elementari sono stata una persona di salute estremamente cagionevole, tanto da finire diverse volte in ospedale, questo naturalmente comportava che facessi un bel po' di assenze; nonostante questo, però ero comunque la migliore della classe. Da lì iniziò il mio travagliato rapporto con il bullismo. In più, quando compii 7 anni, organizzai una festa bellissima per il compleanno, facendo spendere un bordello di soldi ai miei che, pur essendo piuttosto benestanti, i soldi non li prendevano mica dal pozzo magico. Ebbene, tutto il mio entusiasmo per questa festa venne brutalmente spazzato via quando non si presentò nessuno. Una cosa simile successe anche alle medie, solo che lì mi deridevano semplicemente perché ero molto, ma molto magra. L'anno in cui finii le medie, un giorno mio padre uscì e non fece più ritorno. Ricordo perfettamente quando la polizia suonò alla nostra porta e dire a sua madre ‘Signora, oggi suo marito è venuto a mancare in un incidente stradale.’ Mi ricordo che mia madre rimase pietrificata con le lacrime che le scendevano sul volto, comunque parlò con i poliziotti, senza tuttavia rivelarmi mai come fosse avvenuto l'incidente, mi disse solo che non era stato lui a causarlo. E mi disse anche ‘stava andando a comprarti un regalo per la tua promozione a pieni voti.’ Dandomi poi, con le lacrime agli occhi, questo.” 
Alzai il braccio sinistro per mostrare un polsino di pelle nera con su inciso in corsivo bianco ‘It's Not The End’ E accanto disegnata una di quelle penne che usavano nel medioevo per scrivere, incisa come sull'atto di finire di scrivere la d, poi continuai:
“Come vedi, lo porto sempre e lo metto a sinistra, dove si trova il cuore. Comunque; dopo la dipartita di mio padre, mia madre decise di tornare a vivere in Italia, iniziò infatti a lavorare per un giornale finanziario di cui ho sempre ignorato il nome. Ci trasferimmo nella casa dove sei entrato oggi. Non ebbi troppa difficoltà a vivere qui, dato che avevo fatto un po' pratica con l'italiano da piccolina. Due mesi dopo il trasloco, però, mia mamma si scoprì con un cuore mal funzionante, e bisognosa di un cuore nuovo. Non trovarono un organo per salvare la mia mamma, così se ne andò anche lei. Quell'anno iniziai le superiori, al Liceo Classico, e da lì nacque il mio odio per il San Valentino poiché, oltre ai soliti atti di bullismo che mi perseguitavano per chissà quale motivo da sempre, ogni anno il 14 Febbraio mi toccava una scelta: farmi usare dai miei bulli per svuotarsi le palle qualora non avessero la troia di turno o ne fossero insoddisfatti, o fare a botte con loro. Be', almeno loro mi davano la possibilità di scegliere, alle medie mi toccava sempre la rissa perché loro erano ancora piccoli bimbi puri. In ogni caso naturalmente preferivo tornare a casa con i lividi che non far possedere il mio corpo a quei luridi pezzenti. In quell'anno scoprii anche il mondo dell'autolesionismo: leggevo continuamente di ragazzi che provavano sollievo al dolore psicologico attraverso il dolore fisico, quindi decisi di provare anch'io nella vana speranza che sarei riuscita a trovare conforto nel mio sangue. Naturalmente non trovai alcun confronto, ma per fortuna in quel periodo entrò con prepotenza e quasi per caso nella mia vita la persona più importante che ho, che riuscì a farmi smettere nel giro di un anno: in quinto ginnasio ero completamente pulita e non una goccia di sangue usciva fuori dal mio corpo per mia volontà. Dopo l'ennesimo anno infernale arrivò il primo Liceo e be', la storia da lì in poi la conosci. Ed ecco spiegati anche i motivi della mia agorafobia e della mia sociofobia latenti.” Omisi volontariamente alcuni particolari che gli avrei raccontato in seguito o forse mai. Mi accorsi che per tutto il tempo avevo stretto in mano la chiave che portavo al collo, e anche che qualche sporadica e salata lacrima stava rigando le mie guance. Armin comunque aveva ragione, mi sentii come se mi fossi di colpo liberata da un enorme peso: il peso di mentire a tutti su di me e sul mio passato, perché almeno qualcuno sapeva cosa avevo vissuto veramente. Lui mi guardò stupito 
“Non... Non immaginavo. Scusami, davvero.” E mi strinse nelle sue calde e rassicuranti braccia. Dopo qualche secondo di esitazione ricambiai l'abbraccio dicendo
“Ehi, Armin, va tutto bene; è tutto a posto. Adesso nulla di tutto ciò che ti ho raccontato importa più e sai perché? Perché adesso per la prima volta ritengo che la mia vita sia bella, davvero. Prima di adesso, prima di tutti i miei amici e prima di te non mi sarei mai sognata di credere che la mia vita fosse bella, finalmente ci credo. Anche se non sorrido mai, anche se parlo poco e anche se mi vesto sempre di nero e sembro sempre triste, posso assicurarti che per la prima volta sono davvero felice.” Sciolse l'abbraccio, mi guardò per qualche secondo come se dovesse verificare che nei miei occhi non ci fosse alcuna parvenza di tristezza; naturalmente c'era, ma sembrò capire che quella che scorgeva altro non era che quell'implacabile vuoto creato dalla spaventosa mancanza di ricordi felici e dall'assenza di figure importanti, quindi si alzò e tese la mano verso di me dicendo 
“Adesso torniamo dentro, ti va? Hanno messo A Little More, se vuoi possiamo ballare.” All'udire il titolo della canzone, l'istinto fu di verificare che fosse vero. Una volta sentita la musica annuii e afferrai la sua mano per tornare insieme dentro quella bolgia di festa; quindi ci misimo a ballare per la seconda volta in quella serata. Era piuttosto ironico da vedere: un Angelo Bianco e un Angelo Nero che danzavano insieme, sembravamo quasi lo Yin e lo Yang. Mi dissi che non era poi così male, poiché Yin e Yang rappresentavano il perfetto equilibro del mondo e a me pareva proprio che io e il mio Angelo ci completassimo a vicenda, rimediando laddove uno dei due mancava di conoscenza o capacità. Eravamo così uguali, eppure così differenti da essere in sintonia perfetta. 
 
 
Α Angolo Autrice Ω
Oddio, ce l'ho fatta! Non mi sembra vero! Mi ci sono voluti secoli per finire questo capitolo, anche perché mi serviva l'umore giusto per scrivere cose tristi, quindi quando meglio di stasera che ho litigato anche pesantemente con il mio migliore amico per la prima volta in due anni?
Ma comunque, lasciando perdere le cose tristi: finalmente mi è arrivato quasi tutto per il mio cosplay (mi mancano solo gli stivali), ho intenzione di fare Armin e Petra e non vedo l'ora di indossare quella divisa *^* 
Parlando del capitolo, invece, finalmente avete saputo la storia di Alice, siete contenti? Spero che sia scritta bene e che vi piaccia. Come al solito aspetto le vostre recensioni, mi raccomando fatemi notare se trovate qualche errore o qualche punto in generale che non vi piace! 
Noi ci rivediamo al prossimo capitolo.
P.s. La canzone che ho nominato alla fine è A Little More degli Skillet, parte dell'album Collide, vi consiglio vivamente di ascoltare questa canzone così come anche altri pezzi di questo gruppo.

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Capitolo 7
*** From Florence with love — Can I stay with you tonight? ***


From Florence with love — Can I stay with you tonight?
 
Dopo una continua sfilza di interrogazioni, compiti in classe, colazioni, pranzi, cene, parole e sguardi, arrivò in momento della gita scolastica (o viaggio d'istruzione, come le prof più vecchie e racchie della scuola volevano che lo chiamassimo. Per quella che non seppi se definire fortuna o sfortuna, il nostro professore accompagnatore fu proprio Rivaille. Mi dissero che era molto strano che si fosse spontaneamente proposto come accompagnatore, dato che era solito rifiutare fermamente le richieste di quando quelle povere anime dei suoi alunni speravano in lui come ultima risorsa. Dato che il preside Erwin aveva parecchia fiducia in Rivaille, lasciò decidere a lui praticamente ogni minuzia organizzativa; l'unica cosa prescelta era stata la destinazione e il mezzo di trasporto che avremmo utilizzato per arrivarci. Ero già consapevole che il viaggio per arrivare alla nostra meta sarebbe stato un suicidio, poiché la nostra scuola si trovava in Sicilia e saremmo dovuti andare a Firenze. In pullman. Ci dissero che la scelta del mezzo di trasporto era stata effettuata al fine di risparmiare soldi sul viaggio, soldi che sarebbero stati spesi per un albergo migliore, grazie a Dio. 
Dopo una settimana di mia assillante insistenza, Levi accettò di farsi aiutare da me per la sistemazione delle stanze.
“Ascolta, ragazzina, ci hanno concesso solo camere doppie. Questa è la piantina, vedi di sistemarli.” Mi disse poi un pomeriggio, allungandomi la piantina del secondo piano dell'albergo dove avremmo alloggiato, mentre mi sedevo al suo tavolo come al solito. Agguantai una matita e osservai per qualche secondo la planimetria che avevo davanti: a vederle così le stanze parevano tutte piuttosto spaziose e dotate di finestre piuttosto grandi, quindi sarebbero di sicuro state anche piuttosto luminose; la cosa che riuscì tuttavia a strapparmi un sorrisetto divertito fu il vedere come il balcone fosse disegnato in comune a tutte le stanze, quindi le stanze che davano verso l'esterno avrebbero sicuramente avuto un unico balcone senza separazioni, o al massimo ci sarebbe stata qualche bassa ringhiera molto semplice da scavalcare. Il mio sorrisetto si allargò leggermente e si condì di malizia quando iniziai a scrivere i nomi degli occupanti sulla planimetria delle camere. Naturalmente non potevo far stare un ragazzo e una ragazza nella stessa camera, ma mi divertii ugualmente a far dormire insieme Ymir e Christa e Jean e Marco, la cui camera posizionai accanto alla mia, che decisi sarebbe stata occupata anche da Mikasa: scelsi proprio Mikasa perché era la ragazza con la quale avevo legato di più, e posizionai la nostra camera accanto a quella di Jean e Marco poiché, dopo Armin, Jean era assolutamente la persona che mi stava più a cuore in quella classe. Misi inoltre insieme Eren e Armin, dato che erano cresciuti insieme e quindi ero sicura che si sarebbero trovati bene, e mi curai che la loro camera fosse il più lontano possibile dalla mia, anche se ne ignoravo io stessa il motivo. Rivaille era l'unico ad avere una singola, che posizionai esattamente di fronte alla mia camera e infine stetti attenta che le camere di Connie e Sasha fossero l'una accanto all'altra. Insomma, combinai una sistemazione di lusso per le varie coppie presenti all'interno della classe.
“Ecco qua.” Dissi restituendo all'uomo di fronte a me il foglietto datomi qualche minuto prima
“Va bene, solo una cosa vorrei cambiare.” Disse prendendo poi la matita “questi due li sposterei qua.” Disse con tono leggermente malizioso il mio insegnate dallo sguardo di ghiaccio mentre spostava la camera di Eren e Armin accanto alla mia. In questo modo mi ritrovai ad avere da una parte Jean e Marco, di fronte Levi e dall'altra parte Eren e Armin. Be' almeno Mikasa sarebbe stata contenta. Scoccai comunque un fulmineo sguardo infuocato, ma non dissi nulla. 
Il giorno della partenza arrivò. L'orario di partenza era alle 21; scelta piuttosto intelligente considerato che in totale il viaggio sarebbe durato circa 14 ore e mezza, più le soste che sicuramente sarebbero state necessarie facciamo circa 16/17 ore, quindi, partendo di sera, avremmo passato la notte in pullman e saremmo arrivati la mattina del giorno dopo, pronti ad iniziare questa nuova esperienza. Non nego che mi sentivo dannatamente in ansia: era la prima volta che dormivo senza alcun mio parente a disposizione, dato che mi ero sempre categoricamente rifiutata di partecipare alle gite scolastiche degli anni passati, tuttavia per questo stesso motivo ogni mia cellula fremeva di eccitazione in vista di quella nuova avventura. Erano ormai gli inizi di maggio, e non faceva troppo freddo se non a tarda sera; pertanto come abbigliamento optai per qualcosa di piuttosto leggero. Indossai infatti i miei pantaloncini preferiti (erano di jeans e neri e non avevano un orlo, quindi pareva che fossero stati tagliati malamente per accorciarli ed essersi poi dimenticati di cucirli), una maglietta degli Iron Maiden legata con un nodo sulla destra ad un'altezza che lasciava scoperto il mio ventre fino ad appena sopra l'ombelico, una giacchetta di pelle smanicata nera con qualche borchia qua e là è un paio di converse nere. Mi presentai al punto d'incontro con la musica a tutto volume nelle cuffiette, come sempre, e cercai la mia classe. Non appena li trovai vi fu un attimo di perplessità generale: ero abituata a vedere tutti sempre con la divisa scolastica, quindi osservarli in abiti civili per me era qualcosa di estremamente strano. Vidi che tutti mi fissarono un po' straniti (anche Armin era abbastanza stranito, forse per i pantaloncini e la maglietta legata) e ne capivo perfettamente il motivo: io ero quella estremamente introversa, che parla poco e di cui quasi nessuno sa nulla, quindi vedermi vestita con questo stile quasi aggressivo poteva risultare, ai loro occhi, poco coerente con il mio carattere; questa incoerenza, tuttavia, venne riscontrata semplicemente perché, appunto, tutti loro a parte un'eccezione, sapevano estremamente poco della mia persona; e onestamente mi andava bene così. Non mi soffermai particolarmente sul vestiario dei miei compagni, dato che a primo impatto mi parevano tutti piuttosto normali e coerenti con l'idea che mi ero fatta di loro. Poi posai lo sguardo su Armin. Portava un paio di jeans, converse blu e una felpa azzurra decisamente troppo grande per lui che lasciava un po' intravedere la t-shirt bianca che aveva sotto. Capii che soffriva parecchio il freddo. Pensai che sembrasse un piccolo ed innocente bambino che si divertiva a rubare i vestiti al fratello maggiore e ad indossarli per giocare a fare il più grande, rimanendo tuttavia nell'ignoranza di tutto ciò che crescere comporta. L'immaginario così mi suscitò un irrazionale istinto di protezione e mi accorsi che avevo sempre pensato di doverlo proteggere, sin da ancora prima che lo conoscessi, ancor prima di sapere anche come si chiamasse, avevo sentito il bisogno di dargli protezione: la protezione che a me era sempre mancata. Questo mi fece leggermente incurvare verso l'alto un angolo della bocca, e subito dopo l'oggetto dei miei pensieri mi si avvicinò chiedendomi se ero pronta. Gli risposi di sì con una sicurezza che non provavo e, dopo l'appello, iniziammo a salire sul pullman. Mi sedetti da sola accanto al finestrino, poggiando le gambe sul sedile accanto al mio, almeno finché non mi passò davanti il biondo
“Senti Alice, ti dispiace se mi siedo qui con te?” Mi chiese, al che io scossi la testa e lo accolsi al mio fianco. Mi misi a guardare fuori dal finestrino la strada che scorreva e mi misi le mani in grembo per evitare anche la minima tentazione di stringere, o anche solo sfiorare, la mano di Armin. Dopodiché mi abbandonai completamente alla musica e nel giro di due canzoni mi addormentai profondamente. Mi svegliai dopo circa due ore, alle 23, e notai di avere un indumento addosso che non mi apparteneva: era caldo e aveva un profumo piuttosto familiare. Non appena aprii gli occhi mi accorsi di essermi addormentata sulla spalla di un povero Armin tremante dal freddo e che si era tolto la felpa per coprire me, pensando che potessi infreddolirmi. Mi scostai arrossendo leggermente al pensiero di essere stata addormentata sulla sua spalla per due ore, e che lui non si fosse minimamente mosso
“Ehm... Questa è tua, grazie.” Dissi poi restituendogli quella felpa così deliziosamente impregnata del suo profumo
“N-no, tienila, non sento freddo.” Mi rispose tremante, al che insistetti e gli ridiedi ciò che era suo. Dopo qualche minuto però notai che aveva ancora freddo, quindi decisi di sfruttare la mia ultima risorsa
“Armin, ascolta. Nel mio zaino ho un plaid: l'ho portato nel caso qualcuno avesse avuto freddo... Lo vuoi?” 
“E tu?”
“No, no, tranquillo, io non sento freddo.” Mentii, perché onestamente di notte, ferma in un pullman dotato di aria condizionata un po' di fresco lo sentivo persino io, ma non troppo da non poterci convivere
“Io lo prendo solo se ti copri anche tu.” Dichiarò
“Ma è piccolo! Non ci stiamo entrambi!” Cercai di dissuaderlo, senza successo dato che mi disse che se ci fossimo stretti ci saremmo potuti coprire entrambi. Così finii con la testa poggiata sulla spalla di Armin e il suo braccio attorno ai miei fianchi. Passò una decina di minuti in cui nessuno di noi due si addormentò, quindi decisi di rompere quel silenzio che,manche se all'inizio era risultato piacevole, era iniziava a farsi imbarazzante
“Armin.” Chiamai quasi sottovoce 
“Sì?”
“Sono divertenti? Le gite, dico.”
“Ovvio che lo sono.” Mi rispose gioviale
“Ma allora perché ho così paura?” Dissi abbassando lo sguardo che fino a quel momento era stato puntato sul profilo del giovane
“Paura di cosa?” Domandò allora voltandosi a guardarmi, sguardo che però non osai ricambiare, per paura di non essere capace di sostenerlo 
“Paura di essere di troppo, che nessuno di voi mi voglia qui e che sarebbe stato meglio se fossi rimasta a casa, o magari se non fossi venuta nemmeno in questa scuola.” Risposi mentre una solitaria, calda ed amara lacrima mi rigava il volto
“Alice.” Esordì allora il biondo; aveva quel classico tono che ti costringe a guardare negli occhi il tuo interlocutore, quindi alzai lo sguardo “ascolta. Tutti noi ti vogliamo molto bene, e dopo aver passato insieme quasi un intero anno scolastico, ormai, non potremmo fare a meno di averti in classe. Per fare un esempio, se tu quel giorno non mi avessi aiutato, oggi avrei ancora quei bulli a perseguitarmi. Ora, per limitarmi a parlare di fatti di cui sono sicuro: io sono contento che tu sia qui e ti avrei voluta se non ci fossi stata. Non so se te lo hanno mai detto, ma sei davvero speciale.” Arrossii e misi insieme un sorriso pudico e imbarazzato, proprio perché, appunto, nessuno mi aveva mai detto quelle cose. Qualche secondo dopo lui intrecciò le dita della sua mano libera con le mie e, invitandomi silenziosamente a stringermi maggiormente a lui, mi disse
“Avanti, ora dormiamo un po', mh? Abbiamo ancora almeno un'ora prima di arrivare al porto.” 
E a conclusione di questa frase, poggiò delicatamente le sue labbra sulla mia tempia e mi sussurrò altrettanto dolcemente un ‘Buonanotte’. Il rumore del veicolo in associazione con il regolare ritmo del respiro di Armin e River Flows In You di Yiruma a volume appena percettibile fecero sì che io scivolassi velocemente in quel dolce, e talvolta tormentato, oblio che è il sonno. Mi svegliai appena in tempo per l'altra versamento dello Stretto di Messina. Poco prima di scendere dall'autobus Levi aveva percorso il corridoio centrale per svegliare chi ancora non si fosse ridestato. In quel momento ringraziai di non aver avuto bisogno di essere svegliata da Levi, tuttavia vidi che mentre passava lanciò a me e al mio compagno un'occhiata piuttosto maliziosa. Decisi che sul traghetto gli avrei parlato. Rimasi piacevolmente sorpresa quando notai che Armin non accennava a lasciar andare la mia mano, naturalmente non protestai. Solo, però, una volta arrivati sul traghetto, dovetti separarmi da lui per parlare con Levi, quindi inventai una scusa e andai a cercarlo. Mentre mi aggiravo sul ponte di prua alla ricerca del mio professore, il paesaggio che mi si poneva davanti mi catturò completamente. La Luna era alta nel cielo e il cielo era punteggiato di bianche stelle che parevano tutte allegre bambine impegnate in un gioco secolare e un po' malinconico, mentre la loro madre Luna le osservava felice. Sul mare v'era il riflesso del cielo, increspato dalle correnti e nei punti in cui non c'era la terra punteggiante di luci lampeggianti sparse qua e là senza un criterio logico, che quasi sembrava un ossimoro, una caotica quiete, il cielo e il mare sembravano mescersi dolcemente per poi riversarsi l'uno nell'altro ed entrambi nello sguardo di chi li osservava. Rimasi per un po' appoggiata sulla ringhiera a respirare l'aria salmastra e a bearmi della bellezza di quel paesaggio di cui non avevo mai avuto l'opportunità di osservare ogni poetica sfumatura, finché non venni interrotta da un 
“Che ci fai qui da sola?” 
Era Levi. Buffo, ero andata io a cercare lui, ma alla fine lui aveva trovato me
“Ti cercavo.” Risposi senza tuttavia degnarlo di troppa attenzione, poiché volevo godermi il più possibile quella vista 
“Per quale motivo?”
“L'ho anche dimenticato, pensa.” Risposi. E non mentivo: quel paesaggio che mi trovavo davanti aveva completamente irretito ogni pensiero per farmi concentrare solo su di esso. Finito l'attraversamento dello Stretto tornammo al regalare viaggio. Io e Armin dormimmo per la maggior parte del tempo e, la cosa che più mi sorprese, fu che lui cercò nuovamente la mia mano per tenerla nella sua, e non la lasciò per tutto il tempo. Ci separammo soltanto all'arrivo in città. 
Firenze, che città magica. Tuttavia, da brava fan del mondo video ludico, il mio primo pensiero fu: EZIO AUDITORE. 
Finito il viaggio ci portarono subito a visitare qualche luogo, tutti sembravano stanchi, ma io e Armin avremmo continuato a girare per sempre in quella città così magica e madre di grandi quali Dante Alighieri e Michelangelo Buonarroti. Arrivammo infine  all'hotel, e lì tutta la stanchezza parve magicamente abbandonare gli animi di tutti i ragazzi, mentre io invece iniziavo a sentirmi tremendamente in ansia. La cosa tuttavia mi parve piuttosto strana: io vivevo da sola, allora perché mi faceva così paura l'idea di dormire fuori casa? 
Dopo esserci sistemati, l'hotel organizzò per noi una serata di svago e, arrivato il momento del karaoke, tutti cantarono e costrinsero anche me. Naturalmente opposi resistenza, ma alla fine mi avevano praticamente buttato sul palco, quindi non avevo altra scelta. Decisi che avrei cantato Hard To Find degli Skillet.
“Turned on the TV yesterday  [Ho acceso la TV  ieri]
So much pain bleeding through I had to look away  [ne usciva, sanguinando, così tanto dolore che ho dovuto guardare da un'altra parte]
But inside me the picture’s just the same [ma dentro di me la situazione è praticamente la stessa]
And every time I open up my eyes nothing seems to change [e ogni volta che apro gli occhi nulla sembra cambiare]
 
It never seems to change [Non sembra mai cambiare]
 
You give me faith to believe there’s a way [Tu mi dai fiducia per credere che ci sia un modo]
To put the past finally behind me [ per lasciarmi finalmente il passato alle spalle]
And hope to make it through another night [ e sperare di farcela un'altra notte]
You give me strength during these dark times when I’m blind [tu mi dai forza in questi tempi oscuri in cui sono cieca] 
You are my light when faith is hard to find [sei la mia luce quando la fiducia è difficile da trovare.]
 
When faith is hard to find [quando la fiducia è difficile da trovare] 
Will you still hold on [resisterai ancora?]
 
Something woke me in the night [qualcosa mi ha svegliato nella notte]
In the midst of the darkness I recognize the light [nel mezzo dell'oscurità riconosco la luce]
Now inside me the picture seems so clear [ora dentro di me tutto sembra così chiaro] 
All the dying in my broken dreams is starting to appear [tutto ciò che sta morendo nei miei sogni infranti sta iniziando ad apparire]
 
Starting to appear [iniziando ad apparire]
 
If I fall will you hold on to me [se cadrò mi aiuterai a rialzarmi?]
Through it all promise you won’t lose me [nonostante tutto prometti che non mi perderai]
These days hope is hard to come by [in questi giorni è difficile trovare la speranza]
And tonight I don’t know how I can’t survive [e stanotte non so come dovrei riuscire a sopravvivere]
 
Tutti applaudirono, nemmeno fossi chissà quale grande cantante. Non appena scesi tutti mi dissero che si vedeva che ci avevo messo sentimento, ed avevano ragione, solo che non avrebbero mai saputo che avevo cantato pensando un po' ad Armin e un po' a Levi.
Dopo la serata la stanchezza di questa mattina era tornata a pesare sulle spalle degli studenti, quindi non fecero troppe storie quando gli venne detto di andare a letto. Io feci una rigenerante doccia e indossai il mio pigiama, che era costituito da un paio di pantaloncini e un maglione di lana delle stesso blu dei miei occhi che però, dato che apparteneva a quella pertica formosa di mia madre e io ero piuttosto bassa e non troppo formosa, era smisurato. Ci navigavo dentro quel maglione, tant'è che mi arrivava fino a metà coscia e copriva completamente i pantaloni facendo così sembrare che non ne indossassi proprio, e mi cadeva sempre da un lato lasciando scoperta una delle due spalle. E naturalmente dove il mio braccio finiva iniziava all'incirca l'avambraccio del maglione. Però era dannatamente comodo.
Passò una mezz'oretta dal giro di controllo di Levi quando sentii qualcuno bussare. Era Eren; naturalmente cercava Mikasa. Capii che era decisamente meglio togliere il disturbo, quindi mi inventai una scusa che nessuno dei due ascoltarono e uscii dalla camera. Sapevo perfettamente che, ahimè, l'unico posto dove avrei potuto trovare un posto per dormire era la camera di Eren, quindi sarei dovuta rimanere con Armin. Quindi arrivai davanti alla porta della camera accanto alla mia e, dopo essermi tirata il maglione fin sopra il dorso della mano, per abitudine di coprire le cicatrici che ormai erano pressoché sparite, non senza esitazione bussai. Il biondo mi aprì subito dopo, mi guardò e addossì un po'
“Ehm... Dato che Eren dormirà al mio posto...”  Iniziai “e io non ho posto per dormire...” Continuai “non è che potrei...” E qui mi fermai per un po' a raccogliere il coraggio che mi serviva per pronunciare quelle nove parole “non è che potrei dormire qui con te stanotte?” Conclusi infine arrossendo non poco
“Ehm, io... Cioè... Sì, ovvio che puoi.” Mi rispose imbarazzato quasi quanto me. Dolo allora mi accorsi che era appena uscito dalla doccia: aveva infatti i capelli ancora un po' umidi e indossava solo un asciugamano intorno alla vita. Si passò una mano nei capelli e fece un piccolo sorriso. Io mi sentii mancare il terreno sotto i piedi: quanto cazzo era bello? Sarei rimasta a fissarlo per ore ed ore a cogliere ogni dettaglio della sua figura, come un appassionato di scultura farebbe davanti al David di Michelangelo. Dopo una ventina di secondi, mi fece entrare e chiuse la porta alle sue spalle.
“Io vado a vestirmi, tu se vuoi puoi metterti già sotto le coperte.” 
Guarda, per me puoi benissimo rimanere così come sei’ pensai, sorprendendomi poi da sola dei miei pensieri, ma accettai la sua proposta e scivolai tra le morbide e candide lenzuola, aspettando da un lato con ansia il biondo, da un lato desiderando che non arrivasse mai. Quando uscì dal bagno e lo vidi indossare solo un paio di pantaloncini, quasi mi arrabbiai con me stessa per essere così felice di scoprire che usasse dormire senza maglietta. Si mise a letto anche lui e, dopo avergli dato la buona notte, mi girai a dargli le spalle. Dopo qualche minuto si avvicinò a me e, mentre si appestava a cingere il mio corpo tra le sue braccia mi chiese se poteva. Mi limitai a fare un cenno col capo e a stringermi un po' di più a lui, trovandomi nel frattempo a scoprire che profumava di tè e di libri. E con di libri intendo quel l'odore meraviglioso delle pagine dei libri sfogliati per la prima volta. A quel punto mi girai un attimo verso di lui e gli posai un bacio pressoché impercettibile su un angolo della bocca. Un sussurro venne da quelle labbra ancora così vicine alle mie, prima di andare definitivamente a dormire.
Grazie.”
 
Α Angolo Autrice Ω
Allora
Avrei voluto mettere qualcos'altro su Firenze, ma non ci sono mai stata, quindi purtroppo le mie conoscenze sono limitate :c
Ieri la gara mi è andata divinamente, aw *^*
Adesso, finite le informazioni sulla mia vita di cui non fotte un cazzus a nessuno, posso passare a ringraziare la mia cara Fely, perché è fantastica, non c'è altro aggettivo per descriverla. Veramente, grazie, grazie grazie e ti voglio tanto bene <3
Detto questo me ne vado via a dormire chè mi sento uno schifo ed è mezzanotte.
Bye bye gentaglia <3
 

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Capitolo 8
*** You're drowning in your Imperfection — Why did you do it? ***


You're drowning in your imperfection — Why did you do it? 
 
 
La mattina dopo mi svegliai ancora cinta dalle braccia del ragazzo, che era addormentato. Mi girai con quanta più delicatezza possibile, così da non svegliarlo e poter comunque guardare il suo volto disteso dal sonno. Aveva i capelli scompigliati che gli ricadevano in parte sul viso e le labbra semiaperte leggermente piegate in un piccolo sorriso. Guardai l'orario. Le sette e mezza. Era troppo tardi, eravamo in ritardo per la colazione. Nonostante questo, però, cercai di non essere troppo invadente e di svegliarlo con dolcezza, e soprattutto resistei al l'impulso di svegliarlo con un bacio.
“Armin, sveglia, siamo in ritardo.” Gli dissi con voce flebile. Il ragazzo aprì gli occhi solo parzialmente, senza probabilmente uscire completamente dallo stato in cui si trovava fino a qualche minuto prima.
“No, non voglio alzarmi. Stiamo insieme ancora un po'.” Disse con voce ancora, appunto, impastata di sonno. Arrossii visibilmente, ma cercai di non lasciar trasparire quell'imbarazzo nella mia voce
“Armin, non possiamo. È già tardi.” 
“Oh, e va bene.” Mugugnò per poi aprire lentamente gli occhi e fermarsi un attimo ad osservarmi, arrossendo leggermente come se si fosse appena reso conto di tutto quanto
“Buongiorno.” Mi disse poi sorridendo qualche secondo dopo. Quella scena scatenò in me una forte emozione: pensai che avrei voluto dormire tutta la vita tra le sue braccia, avrei voluto bearmi per sempre del suo profumo così rassicurante, avrei voluto per prima cosa al mattino vedere il suo volto, il suo sorriso e sentire la sua voce. Avrei voluto che quel momento durasse un'eternità, o almeno più di qualche secondo. Pensai poi a quanto strano e veritiero fosse che un attimo può essere più importante di giorni interi. Era incredibile, poi, quanto quei suoi occhi color del mare così espressivi risultassero per me come una dipendenza: sarei rimasta per ore a coglierne ogni sfumatura e ogni varietà d'espressione. Mentre li osservavo, vi notai qualcosa che era sempre presente in quelle iridi cristalline nei momenti in cui incontravano le mie color blu elettrico, ma su cui non mi ero mai soffermata: una scintilla particolare che, seppur non ne avessi compresa l'entità, era sempre capace di far perdere al mio cuore qualche battito. 
Quel momento così idilliaco fu però altrettanto effimero, infatti dopo un po' ci decidemmo ad alzarci e io tornai nella mia camera per prepararmi. Dietro alla porta trovai un biglietto 
‘Io e Mikasa siamo già scesi a colazione, se ci cercate.
—Eren
P.s. Siete carini mentre dormite insieme.’ 
Arrossii un po' e inoltre inconsapevolmente si sviluppò in me quello che elaborai come imbarazzo, ma che in realtà era solo fastidio provocato dal fatto che, anche se io e Armin non ce ne eravamo accorti, qualcuno aveva pur sempre violato la perfezione di quel momento di casta intimità. 
All'atto di vestirmi mi ritrovai riluttante ad abbandonare quel maglione, dato che aveva il profumo del ragazzo, e avrei voluto sentire quel profumo sempre. Non potevo tuttavia restare in pigiama, quindi decisi di indossare una canotta nera con stampato il logo dei Nirvana, un paio di jeans neri pieni di catene, borchie e fronzoli vari nella zona della vita, tant'è che era stato difficilissimo piegarli, il mio fedele paio di anfibi e, nel braccio non occupato dal polsino di mio padre misi un... Guanto, credo. Non avevo mai capito come definirlo, ma era una specie di guanto a mezze dita che arrivava fino al gomito, decorato da varie fibbie che, oltre alla funzione decorativa, avevano anche il compito di adattare la misura del guanto al l'avambraccio di chi lo indossava. Uscii e quasi nello stesso momento uscì anche Armin che, come al solito, si fermò per qualche secondo a guardarmi senza ancora capacitarsi che la timida e dolce Alice usasse abbigliarsi in quel modo. Mi soffermai anch'io a guardare il suo abbigliamento: indossava un paio di jeans parecchio chiari, una t-shirt bianca e una felpa di un azzurro molto simile a quello dei jeans.
In quel momento una domanda mi sorse spontanea: ‘perché, perché mi sono innamorata di un ragazzo che si veste di colori pastello?’
Desiderai ardentemente che Eren non avesse detto a nessuno di averci visti, ma per evitare qualunque equivoco, io e il biondo ci accordammo tacitamente di mostrarci alquanto diffidenti l'uno verso l'altra, almeno per quella mattina. Non appena fummo scesi per la colazione, notai con piacere che Levi aveva da poco iniziato a consumare il suo pasto ed era seduto da solo. Presi quindi quasi forzandomi, non essendo abituata a fare colazione la mattina nonostante sapessi quanto male facesse, qualcosa da mangiare per me e mi sedetti, curandomi di non farmi notare (anche se era difficile passare inosservata, dato com'ero vestita) allo stesso tavolo del mio professore. Lo salutai, ma lui non mi rispose, quindi iniziai a mangiare, o meglio a giocare col cibo che avevo preso, sperando ardentemente che Levi rompesse il silenzio, o magari di trovare il coraggio di romperlo io.
“Perché non mi hai aperto tu stamani?” Mi chiese a bruciapelo, senza alzare gli occhi dal suo cappuccino
“Come, scusa?” 
“Stamattina ho fatto un normale giro per le camere per vedere se eravate svegli. Perché non mi hai aperto tu? E perché nella camera di Jaegar non mi ha aperto nessuno?” Disse guardandomi poi con aria ammonitrice “cosa hai fatto stanotte, Alice? E voglio sperare che non abbia fatto cazzate.” 
In un attimo ricollegai la catena di concetti e rievocai involontariamente qualche ricordo della notte passata, arrossendo leggermente
“Non ho fatto niente.” Mentii “ero solo stanca per la giornata e mi sono svegliata qualche minuto più tardi.”
“Qualche minuto dopo, eh? Allora come mai Ackerman e Jaegar hanno già finito di mangiare e tu e Arlert siete arrivati nello stesso preciso istante?” 
“Coincidenze, Levi. Coincidenze.” Dissi acida, cercando di guardarlo con un'espressione che non lasciasse trasparire la verità 
“Non raccontarmi cazzate, Alice.”
“Non ti sto raccontando cazzate. E anche se lo stessi facendo di certo non direi la verità al mio professore.” Dissi quella parola con tale disprezzo che mi trovai ad abbassare gli occhi come segno di scusa
“Lo so.” Esordì quindi con tono pacato, al che io cominciai a guardarlo nuovamente negli occhi “lo so e ti comprendo. Certamente nemmeno io andrei a raccontare i miei fatti ad un prof. Tant'è che io te lo sto chiedendo non come prof, ma come amico. Non mi interessano tutte quelle cazzate che la scuola espone con tanta autorità, regolamento e balle varie. Non so se lo hai capito ma mi interessa solo sapere se hai fatto qualche cazzata e te ne sei pentita. Voglio solo sapere come stai. Tutto qui. Se non vuoi parlarmi va' pure a sederti a qualche altro tavolo.” 
“D'accordo.” Dissi subito dopo aver bevuto un sorso di quel caffè amaro che avevo davanti “d'accordo, te lo dirò.” E vuotai la tazzina in un unico sorso prima che il contenuto si raffreddasse
Levi mi osservò per con espressione indagatrice, lasciando alla mia intesa l'esortazione a raccontare
HoDormitoConArmin.” Dissi tutto d'un fiato senza nemmeno respirare tra una sillaba e l'altra, e mangiandomi inevitabilmente tutte le parole e rendendo la frase incomprensibile.
“Che hai detto?” Mi rispose infatti. Al che io feci un respiro profondo e chiusi gli occhi, come se mi stessi preparando all'Apocalisse
“Ho dormito con Armin.” 
Solo dormito?” Mi chiese serio Levi, irrigidendosi.
“Solo dormito.” Dichiarai, al che lui si rilassò e, data la grande comprensione che avevamo l'uno dell'altra, non mi chiese di parlarne, sapendo già che non mi sarei sentita a mio agio a raccontarglielo. Ci si di essere risentita per l'invadenza dell'uomo, ma in realtà mi rendeva felice vedere come si preoccupasse sempre per me e come si curasse sempre che io stessi bene. Era una persona molto incompresa, Levi. Non conoscevo la sua storia, ma immaginavo non dovesse essere stata tutta rose e fiori, immaginavo anche che la sua storia fosse la causa prima del suo carattere burbero e scostante, sotto il quale però si celava una persona di un'infinità lealtà, onesta e dagli innumerevoli pregi. 
Notai con piacere che nessuno sapeva di me ed Armin, o se qualcuno lo sapeva aveva avuto la decenza di tenere la bocca chiusa, oppure gliel'avrei chiusa io a suon di pugni. Una volta accertato questo, io e Armin riprendemmo a star vicini come sempre. Avevamo l'abitudine di camminare mano nella mano per non perderci (dato che io mi distraevo parecchio facilmente osservando ciò che mi stava intorno), abitudine che personalmente apprezzavo molto. Arrivammo davanti alla cattedrale. Era bellissima, talmente bella che rimasi inchiodata lì dove mi trovavo a registrare nella mia memoria ogni particolare, senza nemmeno pensare di fare una fotografia tanto ero impegnata a guardare con occhi sognanti
“Alice, no. Non puoi arrampicarti sulla chiesa e saltare su un carro di fieno. Okay?” Mi disse all'improvviso il ragazzo ridestandomi dalla mia trance. Risi
“Peccato, era proprio quella l'idea.” Armin mi sorrise
“Finalmente stai ridendo, non ti vedevo sorridere da secoli ed è un peccato perché hai un bellissimo sorriso.” 
“Cazzate, l'unica cosa bellissima qui sei tu.” Dissi tra i denti e talmente piano che Armin non mi sentì, per fortuna. A parte quel siparietto, la giornata passò piuttosto felicemente. Ci lasciarono un bel po' di tempo libero, tempo che potevamo usare per andare praticamente ovunque volessimo, a patto che ci ritrovassimo davanti al Duomo ad un determinato orario. Era fantastico vedere le reazioni di tutti gli estranei che ci guardavano al vedere una ragazza dall'aria di una metallara satanista (ci tengo a sottolineare che ero sempre stata e rimanevo cattolica) scazzata mano nella mano con un dolce ragazzino sorridente vestito di colori pastello, ma soprattutto era fantastico passeggiare per le vie di quella meravigliosa città che è Firenze con la mia mano proprio nella sua. 
“E dai, provalo! Guarda che è buono!” Gli ripetei ancora una volta mentre eravamo seduti ad un tavolino di un bar e io stavo intensamente cercando di fargli provare il caffè offrendogli di bere un po' del mio (sì, era il secondo caffè in poche ore, ero leggermente caffeinomane), mentre invece Armin non voleva saperne e continuava imperterrito a mangiare il suo gelato
“Ti ho detto che non berrò nemmeno una goccia di quella roba amara.” Sentenziò 
“Ma l'ho zuccherato! Non è amaro affatto!” Bugia, io odiavo il caffè zuccherato
“Non smetterai di ripetermelo finché non lo assaggerò, vero?” Disse poi rassegnato
“Assolutamente no.” Risposi, al che il biondo emise un sospiro di profonda e divertita rassegnazione
“E se poi mi piace e lo bevo tutto io?” Chiese poi scherzosamente prendendo la tazzina
“Me ne compri un altro, e inoltre io prendo il tuo gelato. Mai, mai privare una caffeinomane di troppo della sua droga.” Replicai, e Armin bevve un sorso dalla tazzina. La sua espressione fu impagabile 
Mi avevi detto che l'avevi zuccherato!” Quasi gridò affrettandosi a finire il suo gelato al cioccolato per tentare di togliere il sapore amaro dalla sua bocca
“Ti avevo detto una bugia.” Dissi con nonchalance “io prendo il caffè sempre amaro.” 
Vedendo che non mi rispondeva pensai che potesse essersi offeso, quindi abbassai lo sguardo 
Scusami.”  
Il biondo rise un po' 
“Ma come si fa a rimanere arrabbiati con te? Andiamo, dai.” Concluse per poi prendermi nuovamente per mano per continuare a passeggiare.
Arrivata la sera, dato che i miei compagni erano esageratamente appassionati di karaoke, riuscirono a giungere al compromesso, pronunciando una sorta di Catilinarie, di avere una serata karaoke ogni giorno.
Quando arrivò il turno di Armin di cantare, appena dopo aver scelto la canzone e appena prima che questa iniziasse, disse
“Non avevo mai dedicato a nessuno a canzone, ma stavolta glielo devo. La dedico alla prima persona che mi ha dato il buongiorno stamattina.” 
Vidi una ragazza, una troietta follemente innamorata di Armin, parlare giuliva con le sue amiche troie credendo che l'avesse dedicata a lei, dato che non appena stamattina il ragazzo era sceso a fare colazione lei gli era praticamente saltata addosso per augurargli il buongiorno. Le mie labbra però si incurvarono in un piccolo sorriso sapendo che colei alla quale la canzone era dedicata ero io e non lei. Non lo dissi a nessuno però, quasi temessi che se l'avessi condivisa con qualcuno questa emozione si sarebbe sciupata. Il mio sorriso si allargò quando sentii il testo: era Imperfection, degli Skillet, il testo recitava così: 
 
You're worth so much  [Vali così tanto]
It'll never be enough  [Non sarà mai abbastanza]
To see what you have to give  [Per vedere ciò che hai da dare]
How beautiful you are  [Quanto sei bella]
Yet seem so far from everything  [Eppure sembra ancora così lontano da tutto ciò]
You're wanting to be  [Che vorresti essere]
You're wanting to be  [Che vorresti essere]
 
Tears falling down again  [Lacrime scendono di nuovo]
Tears falling down  [Lacrime scendono]
 
You fall to your knees  [Cadi in ginocchio]
You beg, you plead  [Preghi, scongiuri]
Can I be somebody else  [Posso essere qualcun'altro]
For all the times I hate myself?  [Per tutte le volte che odio me stessa?]
Your failures devour your heart [I tuoi fallimenti divorano il tuo cuore]
In every hour,  [In ogni ora]
you're drowning  [stai annegando]
In your imperfection  [Nella tua imperfezione]
 
You mean so much  [Significhi così tanto]
That heaven would touch  [Che il Paradiso toccherebbe]
The face of humankind for you  [Il volto dell'umanità per te]
How special you are  [Quanto sei speciale]
Revel in your day  [Ti diletti nella tua giornata]
You're fearfully and wonderfully made  [Sei fatta in maniera meravigliosa]
You're wonderfully made  [Sei fatta in maniera meravigliosa]
 
Tears falling down again  [Lacrime cadono di nuovo]
Come let the healing begin  [Vieni, lascia che la cura inizi]
 
You're worth so much  [Vali così tanto]
So easily crushed  [Così fragile]
Wanna be like everyone else  [Vuoi essere come tutti gli altri]
No one escapes  [Nessuno scappa]
Every breath we take  [Da ogni nostro respiro]
Dealing with our own skeletons, skeletons   [Convivendo con i nostri scheletri, scheletri]
 
Won't you believe,  [Non crederai]
Won't you believe,  [Non crederai]
All the things I see in you  [A tutto ciò che vedo in te]
 
You're not the only one  [Non sei l'unica]
You're not the only one  [Non sei l'unica]
Drowning in imperfection  [Che sta annegando nella sua imperfezione]”
 
Non avevo mai fatto davvero attenzione al testo di quella canzone prima di sentirla cantare al ragazzo di cui ero innamorata, e sentirla dedicare proprio a me fu un'emozione fortissima.
Quando scese dal palco, dopo essere riuscito a scollarsi quella troietta di dosso, mi si avvicinò e io gli gettai le braccia al collo incurante di ciò che la gente intorno a me potesse pensare o dire.
“Grazie.” Gli dissi all'orecchio mentre qualche sporadica lacrima di commozione sfuggiva ai miei occhi
“Sai, Alice.” Esordì prendendomi delicatamente il viso tra le mani e asciugandomi le lacrime con il pollice “c'è una cosa di cui non mi ero accorto. O meglio, l'ho sempre saputo, dal primo momento in cui ti ho vista, semplicemente non sapevo di saperlo.” 
Feci come per interromperlo e dire qualcosa, ma lui mi interruppe a sua volta
“No, no, fammi finire per favore. Non so dove ho trovato il coraggio per dirti questo, quindi non interrompermi, per favore.” Annuii e lui fece un profondo respiro
“Io... Io mi sono innamorato, Alice. E sai di chi? Di una ragazza bellissima che non sorride mai perché il fato le è stato avverso parecchie volte, di una ragazza bellissima che ascolta della musica bellissima come lei, che ha degli occhi che staresti anni ad osservarli senza stancarti mai, di una ragazza bellissima che però probabilmente non mi vorrà e che mi ha baciato una volta, ma solo per far stare zitto Jean, e un'altra volta, ma solo per colpa del troppo alcool. Insomma, mi sono innamorato di te, Alice Sweets.” 
Mi ci volle qualche attimo per processare tutto ciò che avevo sentito, eppure ancora non mi sembrava vero. Mi chiesi se avesse bevuto, ma era perfettamente sobrio. 
“Io... Io... Oh, vabbè, fanculo le parole.” Sentenziai. Avrei voluto rispondergli che anch'io ero innamorata di lui, che era il mio primo pensiero al mattino e l'ultimo alla sera, che avrei voluto averlo solo per me per custodirlo come nessuno aveva mai fatto con me, per amarlo come nessuno aveva mai amato me, che avrei fatto qualsiasi cosa per lui, che avrei voluto vivere di lui; ma decisi che un singolo gesto valeva più di mille parole. Mi avvicinai lentamente al suo viso, e lui fece lo stesso finché la distanza tra di noi non svanì completamente offrendoci un'unione tutta nuova. Una consapevolezza tutta nuova. Quello fu un bacio diverso dai due precedenti. Tutto quanto era intorno a noi parve scomparire, tutto pareva così distante da suonare quasi impercettibile. Tutto tranne lui e le sue labbra che avevo desiderato in silenzio per così tanto tempo, e che ora erano sulle mie, solo per me. Registrai ogni piccola sensazione di quel momento, temendo che potesse essere più effimero di quanto desiderassi. Era un bacio vero, profondamente anelato da entrambi. Iniziato come un bacio casto come i precedenti, non ci volle molto prima che si approfondisse in una mescolanza di sensazioni inebriante e antica come il mondo e come l'amore. Mi strinse di più a sé, facendo aderire i nostri corpi, giocherellando con l'orlo della mia maglietta. Avrei voluto che non finisse mai, avrei voluto sentire ancora il suo sapore di cioccolato e il suo profumo così vicino, avrei voluto ancora sentire l'umidità e il calore della sua bocca sulla mia, avrei voluto dimenticarmi per più tempo di tutto il mondo, avrei voluto che tutto fosse perfetto ancora per un po', ma la necessità di respirare era forte, per entrambi. Quindi a malincuore dovemmo separarci per prendere un po' d'aria, senza tuttavia scioglierci dall'abbraccio o rompere il nostro scambio di eloquenti sguardi. 
“Perché lo hai fatto?” Chiesi poi, lui fece come per rispondermi, ma troncai la sua frase sul nascere
“Perché mi hai detto tutte quelle belle cose e hai ricambiato il bacio? Lo hai fatto perché ti facevo pena e perché hai pensato di rendermi un po' più felice così? L'hai fatto per me, no?” Non capii nemmeno io il motivo di queste parole così velenose, ma mi scivolarono via dalle labbra quasi di propria spontanea volontà.
“No, affatto. In realtà l'avevo fatto solo per me. Perché non ce la facevo più a tenermi dentro questi sentimenti. Era bellissimo e insieme tremendo camminare mano nella mano con te senza sapere cosa tu provassi per me, se provavi la stessa cosa o no. Mi chiedevo sempre se, quando arrossivi era perché eri semplicemente imbarazzata, oppure se ti piacevo. Mi chiedevo anche se, quando camminavamo tenendoci per mano, provassi qualcosa o no.” Lo guardai per capire se si stesse inventando tutto, ma era assolutamente sincero. Mi sentii in diritto allora di assaporare ancora una volta quelle labbra che tanto avevo desiderato, e alle quali ora potevo accedere ogni qualvolta lo desiderassi, mi avvicinai di nuovo a lui, per poi, quando tra noi la distanza era all'incirca della dimensione di un foglio di carta, sussurrargli
“Come hai fatto a non accorgerti che ti ho amato sin dal primo momento in cui ti ho visto, così indifeso davanti a quei bulli. Se era questo che volevi sapere... Anch'io sono innamorata di te, Armin Arlert.” E tornare ad annullare la distanza tra di noi, in un bacio che durò decisamente di più del precedente, essendo ormai chiari i sentimenti che provavamo ed essendo ormai svaniti ogni incertezza e timore. Finita la serata, dopo esserci quindi destreggiati in mezzo alle varie reazioni e manifestazioni di felicità e complimenti vari che sarebbero sicuramente continuati la mattina dopo, fummo i primi a salire al piano dove si trovavano le camere.
“Alice.” Mi chiamò Armin prima che potessi entrare nella mia stanza “ti va se dormiamo insieme anche oggi?” Acconsentii, e dormimmo abbracciati anche quella notte; stavolta però sicuri che nessuno ci avrebbe disturbati, dato che la porta era chiusa a chiave dall'interno. La mattina dopo mi sentii pienamente autorizzata a svegliarlo con un bacio, come avrei desiderato fare il giorno prima. Ci svegliammo un po' prima del necessario, così da poterci prendere un po' di tempo per noi. Non facemmo nulla di strano, semplicemente rimanemmo abbracciati, occhi negli occhi, facendo ogni tanto incontrare le nostre labbra quando uno di noi sentiva la mancanza del sapore dell'altro. E ogni volta era come se fosse la prima. Mi innamoravo sempre di più, ad ogni suo sguardo, ad ogni sua carezza, ad ogni suo bacio. Era così strano come quella sensazione che avevo cercato così disperatamente di sopprimere fosse in quel momento la ragione di tutti i miei, seppur rari, sorrisi. 
“Armin.” Lo chiamai
“Dimmi.” Mi rispose, al che affondai la testa nel suo petto nudo per inebriarmi del suo profumo e dissi
“Ti amo, Armin.” 
“Ti amo anch'io, Alice.”
 
 
 
Α Angolo Autrice Ω 
*ogni riferimento ad Assassin's Creed è puramente casuale*
SI SONO DICHIARATI FINALMENTE! Non sapete quanto ho aspettato di scrivere questo capitolo, la mia Alice è diventata una bimba grande *lacrimuccia* 
Ma non penserete mica di liberarvi con me così facilmente! Ho ancora tante cose da scrivere *risatina malvagia*
A parte tutto, questo capitolo è uscito orrendo, proprio come il precedente, ma non preoccupatevi perché prima o poi li riscriverò XD
Detto questo non ho nulla di sensato da dire se non, naturalmente, ringraziare sempre e tanto, tanto di cuore la mia cara Fely. Grazie sempre, perché sei una ragazza dolcissima e fantastica <3
A proposito. Per domani avevo un esercizio di inglese che consisteva nel completare con i corretti tempi verbali un testo, che era una lettera. Destinata ad una ragazza di nome Alice. Da parte di una ragazza di nome Laura. Io ho seriamente paura.
Vabbè, vado via, bye bye. 
Vi voglio sempre tanto bene.
Laura

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Capitolo 9
*** Lunchtime with his parents! — She is mine. Okay? ***


Lunchtime with his parents!— She is mine. Okay?
 
 
 
 
Non fu affatto facile far sì che Levi accettasse la relazione tra me e Armin. Fu estremamente difficile spiegargli che non avevo la minima intenzione di farmi suora, e quindi che era giusto che vivessi le mie esperienze 
“Poi proprio tu che te ne fai una diversa a settimana non puoi affatto giudicare!” Dissi con tono scherzoso
“Hai ragione. Alla fine se vi piacete non posso romperti le palle. È giusto che tu scelga da sola.” Replicò e, con un leggero sorriso mi scompigliò i capelli. Rimasi un po' sorpresa da quel gesto, dato che di solito non si sbilanciava in simili effusioni, ma mi limitai ad accettare quella dimostrazione d'affetto così spontanea. 
Un mese e qualche settimana dopo il ritorno dalla gita, durante un normalissimo giorno che ci avviava verso la fine della scuola, Armin, che aveva appena finito di leggere un messaggio sul suo cellulare, mi disse
“Alice, i miei vogliono conoscerti. Mi hanno chiesto di invitarti a pranzo da me oggi. Ti va?” La tentazione era quella di rispondere di sì senza nemmeno pensarci, ma scelsi di fare un po' la difficile
“Non lo so... Devo prima avvertire la nonna... E se poi mi dice di no?” 
“Ma intanto chiedile!” 
Il teatrino andò avanti per qualche minuto, finché non lasciai al biondo un leggero bacio a fior di labbra e gli dissi
“Ma come si fa a dire di no a questo faccino?” 
Al che il suo viso si illuminò in quel sorriso che tanto mi piaceva. Era così felice di potermi presentare ai suoi genitori che capii che doveva avere un rapporto meraviglioso con loro. Per un attimo desiderai poterlo presentare anch'io ai miei genitori, ma poi mi resi conto che loro vegliavano sempre su di me, ovunque si trovassero, e quindi non c'era bisogno. 
Ringraziai ogni divinità di ogni luogo e ogni epoca perché mi avevano invitato subito dopo la scuola, quindi non avevo il tempo di tornare a casa per cambiarmi e quindi i genitori di Armin non mi avrebbero giudicato una pazza drogata e non si sarebbero chiesti che gente frequentava il loro caro figliolo.  Anche perché, detto chiaramente, vestiti normali non ne avevo. Al suono dell'ultima campanella ci dirigemmo verso casa sua mano nella mano. La sua mano era calda, ma non caldo fastidioso, di quello che ti fa sudare la mano, bensì caldo di quelli che ti riscaldano il cuore. Casa di Armin non si trovava troppo lontano da scuola, era infatti possibile arrivarci a piedi, ed era una villetta molto, ma molto bella, in cui il colore prevalente era il bianco. Doveva essere una villetta antica, i tetti infatti erano estremamente alti, ed erano tutti a volta e finemente stuccati e l'arredo mente era rigorosamente classico. Era molto particolare e luminosa, ma non avrei mai voluto trovarmici di notte e aver bisogno di alzarmi per andare in bagno, dato che l'arredamento classico e i lampadari di cristallo mi avevano sempre fatto una paura fottuta all'assenza di luce, senza motivo. 
Non appena varcammo la porta d'ingresso cercai di atteggiarmi alla persona più cordiale di questa Terra.
“Alice, ciao! Eravamo così ansiosi di conoscerti!” Disse una donna sulla quarantina stringendomi energicamente la mano. Si presentò anche un uomo che doveva avere, a giudicare dai capelli ormai bianchi, ma dalla quasi assenza di rughe sul suo viso, circa cinquant'anni. Erano indubbiamente i genitori di Armin. A primo impatto ebbi l'impressione che fossero più che benestanti, ma nonostante questo che fossero due persone estremamente alla mano, mi parvero simpatici e di compagnia: era proprio vero che i figli sono lo specchio dei genitori. Dopo una chiacchierata introduttiva ci sedemmo finalmente a tavola, dove i due adulti osservarono compiaciuti il fatto che fossi perfettamente consapevole delle regole del galateo a tavola e del corretto uso delle posate. 
“A proposito!” Esordì la madre di Armin con gli occhi brillanti “è un peccato vederti con la divisa, Alice, Armin ci ha detto che hai dei gusti particolari nel vestire.” 
“No, signora...” Iniziai, per essere subito interrotta per aver chiesto di dare del tu “chiedo venia.” Risposi allora con un piccolo sorriso “Riformulo: no, Marie... Nulla di particolare...” 
“Ecco! Ho trovato una foto!” Esclamò allora Armin trionfante riemergendo dalla sua ricerca all'interno dell'archivio foto del cellulare. Diedi un'occhiata alla fotografia che aveva intenzione di mostrare a Marie e Bruce, i suoi genitori, e diventai un arcobaleno di rossori: era stata scattata da chissà chi, probabilmente a nostra insaputa, mentre ci scambiavamo un bacio da qualche parte a Firenze; proprio quel giorno, poi, avevo dato il meglio di me nel vestiario! Indossavo infatti una gonnelina scozzese che, guardandola adesso, era un po' corta, una calzamaglia nera strappata intenzionalmente in ogni dove, una maglietta più larga che lunga nera con stampato in bianco il logo dei 30 Seconds To Mars, un collare di pelle nero con delle borchie a forma di spine e gli anfibi neri, che erano l'unica cosa che si salvava. Mi sentii sprofondare, avevo voglia di alzarmi e scappare via da quella situazione così imbarazzante e dovetti trattenermi dallo scoppiare a ridere come un’isterica, nella mia mente inoltre mandai Armin a farsi fottere nei modi peggiori per lo meno una ventina di volte, restando però comunque perfettamente impassibile e cordiale, come se non fossi imbarazzata dal fatto che il mio ragazzo stesse mostrando ai suoi una foto di noi due che ci baciavamo. I due osservarono per qualche attimo la foto, e io attesi paziente il momento in cui avrebbero rinnegato di aver mai avuto un figlio, momento che non arrivò mai. Le labbra di Marie si allargarono in un sorriso sincero subito prima di dire risplendente di una felicità condita di una leggera punta di malinconia 
“Che carini! Sembrate proprio in un film!” Era raggiante, e io decisi di provare a ricambiare il suo sorriso, riuscendoci sorprendentemente. Aspettai il giudizio del padre, che fu anch'esso inaspettatamente positivo 
“Complimenti figliolo! Hai trovato una tosta! Continua così Alice!” Sentenziò infatti dando prima una leggera pacca sulla spalla del figlio, poi guardandomi sorridente e alzando un pollice in segno di approvazione. Mi sentii come una povera anima in pena alla quale viene concessa la grazia eterna. Da quel momento le chiacchiere proseguirono decisamente più allegre e sciolte.
“Ah, già, quasi dimenticavo!” Richiamai l'attenzione su di me prima di fare spudoratamente il bis di quella meravigliosa torta al cioccolato che la madre di Armin aveva preparato apposta per me “programmavo di dirlo ad Armin domani,ma dato che siamo qui tutti e ho modo di parlare direttamente con voi...” 
Alla richiesta dei tre di continuare ripresi
“Come Armin vi avrà sicuramente raccontato, io sono all'incirca all'ottanta per cento newyorkese e al venti per cento italiana... Ebbene, ogni estate per un mese, dal venticinque giugno al venticinque luglio, mi trasferisco a New York da mio zio. Ed ecco... Mi domandavo se ti andasse di venire con me.” Conclusi rivolgendomi al ragazzo, il quale subito si rivolse ai suoi genitori
“Posso? Ho sempre sognato di andare a New York!” 
“Hai detto che starete da tuo zio?” Mi chiese Bruce. Io annuii.
“In questo caso... Va bene. Se Armin si fida di te, anche noi ci fidiamo di te. E poi, appunto... Ha sempre sognato di andare a New York.” Concluse bonariamente Marie, ricevendo subito dopo l'approvazione del marito. A quel punto il pasto era decisamente finito, e dovetti ammettere che l'incubo del pranzo con i genitori del fidanzato come me lo ero immaginato (ovvero una sorta di interrogatorio durante il quale avrebbero cercato di avvelenarmi in ogni modo conosciuto e sconosciuto), non fu affatto un incubo, bensì fu estremamente piacevole.
“Mamma noi andiamo in camera un attimo, okay?” Chiese, anche se era più un'informazione abbellita da un tono interrogativo, quindi mi invitò a seguirlo all'ultimo dei tre piani che costituivano la casa. Era una sorta di attico ed era tutto di Armin. Non appena oltrepassammo la porta mi guardai attorno. Quell'attico non aveva assolutamente niente a che vedere con il resto della casa, era infatti d'arredamento contemporaneo, prevalentemente azzurro e con le pareti tappezzate di foto, poster e librerie piene di libri dei generi più disparati. Gironzolai per un po' in quella camera così bella, prima di sedermi sul suo meraviglioso letto matrimoniale anch'esso azzurro. Guardai per caso il comodino e vidi che c'era una cornice blu che al suo interno aveva quella stessa foto che aveva poco prima mostrato ai suoi. 
Cioè, rendiamoci conto, lo stronzo l'aveva pure incorniciata!
“Alice.” Mi chiamò e io scattai all'impiedi sull'attenti pensando che gli desse fastidio che mi sedessi sul suo letto
“No, tranquilla, puoi sederti. Anzi, sediamoci tutti e due.” Disse andando ad occupare lo spazio che occupavo fino a poco prima io e mi fece cenno di prendere posto sulle sue gambe. Lo feci e lui continuò il discorso iniziato poco prima
“Vuoi davvero che venga con te a New York?” Era serissimo, pensava seriamente che potessi averlo detto per scherzo?
“Armin io non voglio che tu venga, io ho bisogno che tu venga.” Ammisi, e non fu affatto facile per me aprire quel discorso. Sperai vanamente che non volesse approfondire l'argomento, ma naturalmente mi chiese di farlo
“Innanzitutto perché voglio passare il mio compleanno con te.” Iniziai con la parte buona e carina per addolcire un po' tutto ciò che sarebbe venuto dopo “e poi perché... Vedi, mio zio, fratello di mio padre ma legatissimo anche a mia madre, era una bravissima persona, il classico zio con il quale vorresti abbuffarti di bistecche fino a morire la domenica e con cui vorresti stare nei momenti di sconforto... Lo zio perfetto, insomma. Tuttavia, la morte dei miei lo ha reso un po' instabile.” 
“Perché?” Mi chiese, e a quel punto mi sentii naufragare nei ricordi, più specificatamente in un episodio avvenuto due anni prima, la prima estate senza i miei genitori
 
Mi trovavo rannicchiata in un angolo della mia cameretta, nella casa di mio zio lì a New York. Ero piena di lividi, avevo perfino un taglio sotto l'occhio sinistro che non mi ero disturbata di medicare e che sanguinava, il sangue poi si mescolava così perfettamente alle lacrime che scendevano al punto di sembrare che piangessi sangue da un occhio. Avevo tanta paura, volevo terribilmente chiamare la nonna e dirle che lo zio mi aveva fatto del male, volevo che venisse punito, ma al contempo non volevo che i miei nonni sapessero del male che lui mi faceva, per paura che non mi avrebbero mai più mandato a New York e che quindi non sarei più potuta andare a visitare la tomba dei miei genitori, decisi infatti di non dire niente a nessuno e di limitarmi a subire. Entrò lo zio Carter, non era nemmeno ubriaco, era solo traumatizzato e violento
“Smettila di piangere, ragazzina.” Mi intimò con voce ferma. Avrei potuto dirgli di sì e continuare a piangere in silenzio, ma invece decisi stupidamente di sfidarlo 
“Se no che mi fai?” 
Non mi rispose. Piuttosto si girò e rimase sull'uscio giusto il tempo necessario per dire
“Saresti dovuta morire anche tu con loro.”
 
Raccontai al ragazzo la situazione, e il suo primo commento fu 
“E i tuoi nonni tutt'ora non sanno nulla?” Scossi la testa e lo pregai di non parlare di tutto questo con i suoi, per paura che poi cambiassero idea e non lo mandassero con me. Dopo qualche altro minuto di chiacchiere sulla mia situazione alternati da piccoli discorsetti motivazionali del ragazzo intervallati da ‘andrà tutto bene, vedrai’ a cadenza regolare, decisi di buttarla sul ridere
“Un'ultima cosa. Dovremo dividere il letto, ti dispiace?” Lo dissi con tono estremamente sarcastico, creando la miglior espressione falsamente compunta che potessi fare. La sua risposta fu un tranquillo
“Come se non l'avessimo già fatto.” Seguito da un bacio che aspettavo da tutta una giornata. Non era come quelli che ci scambiavamo al mattino o prima di salutarci con la certezza che ci saremmo rivisti il giorno dopo, no, affatto, quelli erano fugaci, piccoli baci rubati al tempo che passava imperioso. I baci come quello invece erano capaci quasi di fermarlo proprio, il tempo, erano contatti preziosi, che solo lui sapeva creare: dapprima timidi e incerti, quasi costituissero una discreta richiesta di accettare quel gesto ormai compiuto, poi più decisi e colmi di un desiderio casto che pervadeva entrambi. Non avevamo fretta, noi. Quel bacio, come tanti altri, si approfondì lentamente e gradualmente, consentendoci di riscoprire lentamente l'uno il sapore dell'altra e di bearci di esso come se avessimo tutto il tempo del mondo, o come se il tempo non esistesse proprio. Era caldo, dolce, umido e meraviglioso. Ogni suo impercettibile movimento contribuiva a farmi sempre di più cadere nell'infinita e antichissima spirale dell'amore. Ero seduta sulle gambe del mio ragazzo, nella sua camera, con i suoi genitori che sarebbero potuti arrivare in qualunque momento, impegnata in un lungo e appassionato bacio. Io, lui e la situazione nel suo complesso eravamo così disastrosi che tutto mi pareva perfetto. Talmente perfetto che mi rammaricai alquanto quando i nostri polmoni ci richiamarono chiedendoci di tornare a respirare. 
Fottuti polmoni, rovinano sempre tutto!
Dopo esserci un attimo ricomposti scendemmo di nuovo al piano inferiore, non avremmo mai voluto che Marie e Bruce pensassero che ci stavamo già impegnando per avere un bambino, e le infinite chiacchierate ripresero. Non mi curai del tempo che passava finché il mio cellulare non squillò con le non così dolci note di Smells Like Teen Spirit. Presi precipitosamente il telefonino immaginando che fosse mia nonna che mi chiedeva come andava il pomeriggio, ma poi sul display lessi un altro nome: Levi. Una domanda mi sorse spontanea: cosa cazzo voleva Levi da me? Poi guardai l'orario e capii che doveva essere passato al bar e, non trovandomi, avesse pensato di farmi una telefonata. Pensai di lasciarlo suonare, sperando che si stancasse e riattaccasse, ma all'arrivo del ritornello mi resi conto che non si sarebbe arreso facilmente, quindi mi scusai e mi allontanai un po' per parlare liberamente
“Cosa vuoi?” Gli chiesi con estrema cordialità 
“Come mai non sei al bar?” Mi chiese di rimando 
“Sono a pranzo da Armin.” Risposi laconica
“Il tuo ragazzo ti presenta già ai genitori? Allora la cosa è seria!” Stavolta la sua voce tradiva un po' di ironia, e immaginai che dall'altro lato del telefono non stesse riuscendo a trattenere quel suo mezzo sorrisetto sarcastico 
“Fottiti.” Gli dissi ridacchiando, poi riattaccai.
Sorvolando su tutte le prese in giro che dovetti subire da parte di Levi, il quale usò il mio pranzo a casa di Armin come asso nella manica per settimane, finalmente arrivò il giorno della partenza. Dopo aver imbarcato i bagagli, quando stavamo per andare a fare i controlli di sicurezza, i suoi genitori lo riempirono di raccomandazioni e se lo spupazzarono, come se stessero mandando il loro bambino a morire di una morte atroce. Il volo passò in tutta tranquillità e fortunatamente nessuno dei due ebbe gravi problemi di jet lag, solo un po' di sonnolenza, ma nulla di grave. Non appena rimisi il cellulare dalla modalità aereo alla modalità normale trovai un messaggio, scritto naturalmente in inglese.
 
Messaggio da: Will Edwards
Arrivi oggi? 
Messaggio da: Alice Sweets
Affermativo. Ti trovo al solito posto?
Messaggio da: Will Edwards
Naturale
 
Non posso negare che mi sentii un po' sollevata a tornare in America e a poter tornare a parlare prevalentemente inglese. 
Dall'aeroporto andammo a quella che per il prossimo mese sarebbe stata la nostra casa, ma giusto il tempo di posare i bagagli, perché poi uscimmo senza nemmeno disturbarci di salutare zii e cugini
“Dove andiamo?” Mi chiese il biondo, naturalmente disorientato dal caos, per me così familiare, della Grande Mela
“Central Park. Devo incontrare una persona.” Risposi mente un leggere sorriso mi incurvava le labbra. Armin era un po' perplesso, ma non diedi peso a questa sua esternazione così malcelata. Mentre ci dirigevamo verso il polmone verde di New York, mi ritrovai sprofondata nel bizzarro ricordo di come conobbi William Edwards, due anni prima. 
 
Era la prima volta che mi trovavo a girare per Central Park senza qualcuno a dirmi dove andare, e la triste realtà era che mi ero persa. Per esorcizzare la paura mi misi a cantare City Of Angels, finché non mi sentii poggiare una mano sulla spalla. Mi allarmai e mi girai di scatto figurandomi il peggio, per trovarmi invece un ragazzo di sedici anni, dai capelli nero pece e gli occhi di un verde spettacolare che mi disse
“Ehi, lo sai che qui siamo a New York e non a Los Angeles, no?” 
“Mi sono solo persa. Questo fottuto parco è enorme.” Risposi e feci per andarmene, ma lui mi trattenne 
“Ascolta, hai una bella voce. Io di solito passo le giornate qui a suonare. Ti andrebbe di cantare?” 
Non aveva la faccia da maniaco, e in effetti vidi una bellissima chitarra elettrica poggiata malamente su una custodia aperta, dentro la quale c'era qualche dollaro buttato dai passanti. Non avevo nulla di meglio da fare, quindi acconsentii. Tornai a cantare con quel ragazzo ogni giorno, e Man mano scoprii che si chiamava William Edwards e che la sua famiglia era ricca da far schifo, ma a lui piaceva fare l'artista di strada. Mi invitò anche un paio di volte a casa sua (una mega villa da miliardari con tanto di piscina). E in più, la verità che ho sempre voluto nascondere, era che Will era stato il mio primo amore.
 
Quando arrivammo finalmente al punto dove solevamo cantare insieme, e sentii che stava suonando Monster. Gli saltai al collo dicendogli scherzosamente 
“Come ti permetti di suonare la nostra canzone senza di me?” Il moro ricambiò istantaneamente l'abbraccio dicendomi
“Alice! Mi sei mancata un sacco! Non vedevo l'ora che tornassi!” 
Mentre io e Will chiacchieravamo, più lentamente arrivò Armin.
“Ehilà! Io sono Will Edwards! Tu sei?” 
Il mio ragazzo guardò in cagnesco in moro, per poi cingermi il fianco con un braccio e stringermi a sè e presentarsi
“Io sono Armin Arlert. Il ragazzo di Alice.” Non lo facevo capace di un tono così velenoso, e non lo facevo capace di guardare così male qualcuno. Tornando a guardare me, il suo sguardo si addolcì e, senza curarsi di Will, mi trascinò in un bacio corto ma ugualmente intenso, per poi tornare a guardare in cagnesco il moro, il suo sguardo infuocato faceva a pugni col sorriso sincero e il tono scherzoso che sfoderò per dire
“Mettiamo le cose in chiaro da subito. Lei è mia, okay?”
 
A Angolo Autrice Ω
Ma se vi dico che mi scoccio a scrivere un angolo vero e proprio perché è l'una e domani devo alzarmi presto mi uccidete? Non credo, quindi scriverò qualche sclero a caso
ARMIN GELOSO, GENTE. HO ASPETTATO I SECOLI PER DARGLI UNA RAGIONE DI ESSERE GELOSO E ORA SONO SODDISFATTA DELLA MIA VITA!!
In ogni caso, perdonatemi se ci ho messo anni per aggiornare, ma ho avuto problemi di vario genere e soprattuto perdonate eventuali errori ma... *inserire scusa plausibile*... Okay, lo confesso! Sono pigra e mi scoccio a rileggere.
Quindi! Ringrazio come sempre la mia cara Fely <3 (amami, ti cito mentre messaggiamo XD)  
E adesso me ne vado via, bye bye belli! 

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Capitolo 10
*** Please don't forget me ***


Please don't forget me
Trascorremmo un paio d'ore al parco tutti e tre insieme, nonostante lo conoscessi ormai a memoria mi guardavo sempre intorno meravigliata  per quanto spettacolare fosse la mia città. Ogni tanto inoltre lanciavo sguardi fugaci al mio ragazzo, nella speranza che potesse essere rapito da ciò che lo circondava come lo ero io, ma nei suoi occhi leggevo sempre e solo disagio. Capii che voleva liberarsi al più presto del mio vecchio amico, quindi iniziai a pensare ad uno stratagemma per poter uscire da quella situazione senza offendere nessuno. Stavo scervellandomi quando Smells Like Teen Spirit iniziò a risuonare provvidenzialmente. Guardai il display e risposi, sperando che lei potesse salvarmi.
“Alice Sweets! Arrivi qui ed esci senza nemmeno salutare? Non si fa così! E poi l'altra valigia di chi è? Hai portato qualcuno?” 
“Felicya calma, non è successo niente.” Le risposi ridendo un po' “adesso torniamo a casa così ci salutiamo bene, eh?” 
“Ecco. Così si fa.”
Riattaccai e chiamai un taxi che ci riportò a quella che, per quel mese, sarebbe stata la nostra casa. Il viaggio non fu lungo, e non appena tornammo trovai Felicya Sweets, mia cugina e salvatrice più di una volta, ad attenderci fuori dall'uscio. Appena dopo essere scesa dal taxi mi soffermai un attimo ad osservarla. Aveva quindici anni, come me. Aveva dei morbidi capelli castani e degli occhi allegri e dall'espressione dolce di color nocciola; indossava una camicetta smanicata bianca, un paio di pantaloncini di jeans chiari e un paio di Vans rosse per dare un po' di colore al tutto e non aveva nemmeno un filo di trucco. Subito dopo diedi uno sguardo a me. Capelli biondo cenere, e un po' blu, occhi color blu elettrico, jeans neri strappati, anfibi e canotta nera con dei teschi stampati e collare borchiato e eyeliner e mascara neri. Un altro sguardo a lei e un altro a me. Una frase e un riso amaro
“Sono un disastro.” 
“Ti sbagli.” Mi riprese subito dopo Armin “tu non sei un disastro qualunque. Tu se il disastro più bello del mondo. E sei il mio disastro.” E fece incontrare le nostre labbra ancora, riuscendo infallibilmente a farmi sorridere. Subito dopo la mia cara cugina mi buttò le braccia al collo e, non appena ricambiai l'abbraccio, mi chiese se Armin fosse il mio ragazzo, al che io naturalmente le risposi di sì, e lei mi chiese giuliva di presentarglielo. 
“Armin, Felicya. Felicya, Armin.” Presentai piuttosto allegramente, e la ragazza strinse energicamente la mano del biondino, per poi rivolgersi di nuovo a me, con tono immancabilmente malizioso
“E lui dove dorme?”
“Con me. Non è che ci siano altre alternative.” Risposi senza particolari inclinazioni nel tono
“Ah sì? Allora vedete di fare piano, voglio dormire anch'io questo mese.” Il sorriso che sfoderò era colmo di puro candore, ma l'allusione parecchio palese fece arrossire entrambi
“FELICYA!” La ammonii imbarazzata e al contempo divertita, ma lei fece finta di niente. Ci accompagnò nella nostra camera e ci aiutò a disfare le valigie. Appena finito disse
“Perfetto. Ora vi lascio un po' da soli.” E se ne andò richiudenti la porta dietro di sè. Con quel suo gesto sembrava anche aver chiuso l’allegria e la serenità fuori da quella stanza portandole con sè. 
“Dobbiamo parlare.” Esordì Armin con tono grave. Mi sentii crollare il terreno sotto i piedi a quelle due parole: non eravamo lì nemmeno da un giorno e già litigavamo? Poi io nemmeno sapevo di cosa volesse parlare, quindi glielo chiesi
“Di Will.” Mi rispose senza cambiare intonazione “Ti piace?” 
“Va” mi affrettai a ribattere “mi piaceva. Tempo fa.” 
“E come fai ad esserne così sicura?” 
“Vedi, Armin... Io sono una persona tanto egoista” iniziai, per poi avvicinarmi a lui un po’ di più ad ogni frase “e come tale, per me voglio solo il meglio.” Più vicino “e inoltre, io so riconoscere cosa è il meglio.” Più vicino ancora “e fidati, il meglio non è Will.” Ancora più vicino, a questo punto la distanza tra di noi era quella di un misero foglio di carta, e così erano state le sue parole: erano leggere e pressoché innocue, ma se non si sta attenti ci si potrebbe anche taglierà. Continuai il mio discorso “Tu non sai quante cose ho fatto solo grazie a te. Tu non sai per quanto tempo ti ho amato in silenzio, beandomi di ogni tua parola e di ogni tuo atteggiamento, tentando però di reprimere questa sensazione in ogni maniera. E stavo sempre in silenzio e coglievo al volo ogni occasione buona per soddisfare la mia bellissima e tremenda assuefazione a te. Ogni tuo respiro e ogni tuo tocco erano come un alito di vita nuova per me. Tu... Tu sei la mia seconda possibilità. Sei la mia possibilità di redimermi e di scrollarmi di dosso questa tristezza opprimente. Sei la mia opportunità di credere ancora che la vita sia bella. Sei così tante cose che non posso nemmeno dirle a parole perché le sminuirei. Sminuirei ciò che tu mi fai sentire. Sei così importante e nemmeno te ne rendi conto. Sei tutto per me e pensi che nella mia vita ci possa essere spazio per amare qualcun altro come amo te. Sei davvero così cieco, Armin?” Dopo queste parole tentai di far scivolare via ogni problema con un bacio, ma non appena tentai di annullare la distanza tra di noi, lui si ritrasse dicendo
“Se è così perché avevi tanta fretta di venire a New York?” 
Non risposi. Lo presi per il polso e chiamai l’ennesimo taxi della giornata e sussurrai all’autista  la destinazione, quasi fosse un tabù dirla a voce alta. Scendemmo dal taxi e ci trovammo davanti ad uno scialbo cancello di ferro nero con affisso un cartello anch'esso nero con scritto a lettere bianche ‘New York Marble Cemetery’. Entrammo e girovagammo un po’ tra quelle fredde lastre di pietra con lettere in bronzo o argento o chissà quante altre varietà, e con foto più o meno antiche che altro non erano se non l’ultimo modo per ricordare qualcuno che era ormai molto lontano dagli occhi, ma sempre vicinissimo al cuore. Qualcuno che ormai era chissà dove, forse in un posto migliore, o forse da qualsiasi altra parte, ma che la perdita del quale è stata un colpo devastante per qualcun altro, che aveva bisogno ancora di avere un qualcosa di solido al quale aggrapparsi, per illudersi che il suo ricordo sia più concreto di quanto in realtà effettivamente era. Finalmente arrivammo a due lastre di ossidiana molto vicine e divise da una croce di bronzo di tanto antica quanto fine fattura. Leggere i nomi che recavano scritte quelle lastre e osservare le foto incorniciate e porcellanate mi fece venire le lacrime agli occhi. Non vi deposi alcun fiore: non era mia usanza e ce n'erano già parecchi. Mi girai invece verso Armin, che aveva gli occhi lucidi anche lui, e gli dissi
“Ecco. Questo è il motivo per cui avevo tanta fretta di venire a New York.” Mi sussurrò le sue scuse piano, come se si vergognasse anche, ma io le accettai volentieri, felice che avesse capito. Poi cominciai, come ogni anno, a raccontare a quelle tristi lapidi tutto ciò che di bello e di brutto era successo in quello splendido e incasinato marasma che era la mia vita, nella quasi puerile speranza che i miei genitori mi avrebbero sentito, ovunque si trovassero. Avevo pensato che Armin mi avrebbe reputata strana, o infantile, ma non lo fece. Partecipò invece al mio racconto aggiungendo qualche particolare qua e là. 
“A proposito.” Dissi ad un certo punto. Sorridevo, ma gli occhi erano bagnati di lacrime “non ve l’ho presentato. Lui è Armin Arlert. Il mio fidanzato. È tanto dolce, sapete? Ci siamo innamorati subito, ma ci è voluto un po’ prima di capirlo. È strano. Per la prima volta da quando voi siete andati via posso dirmi felice. Sì, mamma e papà, sono felice, e spero che lo siate anche voi lassù dove siete.” 
Mi voltai a guardarlo. Aveva anche lui gli occhi umidi. Aprì la bocca per dire qualcosa, ma la richiuse subito dopo, come se non ritenesse opportuno interrompere quel momento. Finito il racconto, mi sedetti su quella lastra. Era fredda come quell’oscuro oblio di morte che racchiudeva dentro di sè. Sospirai.
“A volte non riesco proprio a fare a meno di pensare a quando sarà il mio turno di stare sottoterra.” Esordii. Armin si voltò verso di me ma io non lo guardai “mi domando cosa succederà, se soffrirò, se qualcuno si ricorderà di me e verrà a lasciare dei fiori sulla mia tomba. Io non voglio che la mia tomba rimanga come quelle tante che si vedono in giro: tristi e dimenticate da tutti. Mi domando se qualcuno mi vorrà ancora bene quando non ci sarò più.” La lacrime bagnavano l’asfalto copiose all’atto di pronunciare l’ultima frase 
“Mi domando se riuscirò a dirti che ti amo un’ultima volta...” 
Mi prese per mano e mi aiutò ad alzarmi, poi mi abbracciò. Forte. Come non aveva mai fatto. Come se con quell’abbraccio avesse cercato di rimettere insieme i pezzi del mio cuore infranto. Nel frattempo mi accarezzava i capelli 
“Io ho deciso di non pensarci più. So per certo che se sapessi già come saranno i miei ultimi attimi di vita non avrei più la forza nè la voglia di vivere ciò che mi resta. Alice, non perderti nell’immaginario di quello che verrà, ma goditi ciò che hai. Ci sono tante persone che ti vogliono bene; io per primo.” La sua voce era così rassicurante che anche il mio respiro di fece più regolare e le lacrime quasi cessarono di scorrere. Gli dissi che lo amavo. Tante volte. Fino alla nausea. Come se quella frase, ripetuta all’infinito, potesse trasformarsi in un solido appiglio per riuscire a non crogiolarsi in mesti pensieri. Mi rispose che anche lui mi amava, e che non avrei dovuto dimenticarlo mai. E come avrei potuto? Come avrei potuto dimenticare la ragione di tutti i miei, seppur piccoli e sporadici, sorrisi? Come avrei potuto dimenticare ciò che era riuscito, dopo anni, a rendermi per la prima volta felice? Come avrei potuto dimenticare lui? Sarebbe stata una cosa puramente ingiusta. Un’offesa all’amore. Un affronto alla causa prima del mondo. 
Sigillammo questa muta promessa con un bacio, dal quale ci separammo con estremo imbarazzo, rendendoci conto di essere davanti alle tombe dei miei, e che magari fosse un po’ irrispettoso. 
Li salutai, seppur con una punta di rammarico. Poi tornammo a casa trovando Felicya ad attenderci e a chiederci dove fossimo stati. Non oso pensare a quali pensieri degni di 50 Sfumature Di Grigio le passarono per quel cervello perverso quando mi rifiutai di dirle da dove tornavamo. Non mi arrabbiai, però. Felicya era il mio sole d’America. Lei era quella che mi rivolgeva un sorriso ogni mattina. Lei era quella che usciva con me ed era pronta a fare qualunque cosa per aiutarmi, anche senza che glielo chiedessi. Lei era quella che si cacciava nei peggiori casini con suo padre, per me. Lei era quella che mi portava da mangiare la sera, quando non volevo vedere lo zio. Lei era quella che cacciava anche me in casini assurdi, e il casino di quell’anno fu inequiparabile. 

A Angolo di quella sclerata dell’Autrice Ω
Buonsalve gente! 
Sono una sfigata! 
Perché naturalmente alla gente normale, dopo che ha finito di scrivere SI CANCELLA IL CAPITOLO.
OVVIO, NO?
Quindi ho dovuto riscriverlo da capo... YEE!!
Anyway, passando ai ringraziamenti soliti...
Ringrazio Felicya perché mi mette sotto pressione e i costringe ad aggiornare minacciandomi ci impiantarmi cupcakes negli occhi (tanto amore 💕)
Anyway, spero che anche questo capitolo vi sia piaciuto, alla prossima!

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Capitolo 11
*** How can I be sure you're even here? ***


Capitolo XI
 
Mi svegliai di soprassalto. Dovevo aver fatto un brutto sogno, ma per fortuna non me ne ricordavo. Armin, il cui petto era stato il mio cuscino per quella notte, era ancora in dormiveglia, quindi mi limitai a lasciargli un piccolo bacio sulla clavicola per poi mettermi a sedere sul bordo del letto. Ero talmente concentrata a pensare a cosa avremmo potuto fare durante il nostro secondo giorno a New York che nemmeno mi accorsi che il ragazzo si era inginocchiato dietro di me e mi aveva cinto i fianchi, almeno finché non mi sussurrò un delicatissimo ‘buongiorno’ all'orecchio. Mi girai a guardarlo e rimasi immobile per qualche secondo
“Non sei un sogno, vero? Ti prego dimmi che sei reale e non sto sognando o potrei seriamente incazzarmi.” Dissi con gli occhi lucidi 
“Che ne dici di deciderlo da te?” Rispose prima di posare le sue labbra sulle mie in un bacio che si approfondì ad una velocità impressionante. Erano anni che sognavo di svegliarmi così, e finalmente il mio sogno si era avverato, e mi sembrava talmente bello che non riuscivo a crederci . Dopo tutte le splendide illusioni che mi ero creata per tirare avanti durante gli anni precedenti, adesso come potevo essere certa che lui fosse davvero lì solo per me? Eppure riuscivo a sentirlo, riuscivo a sentire la sua risposta sussurrata all'aria nel flebile linguaggio dell'amore, captavo ogni parola, ogni promessa. 
Mi prometteva che sarebbe stato al mio fianco e che non mi avrebbe lasciato crollare ancora. In questa promessa però lui sapeva di mascherare una consapevolezza ben diversa: lui sapeva che, mediante il suo amore altro non aveva fatto che afferrarmi e fermare la caduta che mi stava lentamente distruggendo, prima che arrivassi a toccare il fondo, sapendo che da lì non sarei più potuta fuggire. 
Il nostro idilliaco momento fu interrotto dal mio telefono che squillò prorompente quasi volesse di proposito rompere l'atmosfera idilliaca che si era creata. Risposi.
“Dimmi Will.” 
“C'è una bellissima giornata oggi, andiamo a mare?” 
Allontanai un attimo l'apparecchio per rigirare la domanda al biondo, che accettò la proposta 
“Aggiudicato. Ci vediamo a Central Park al solito posto tra un'ora. Porto anche mia cugina.”
Arrivammo finalmente a mare, e notai che Felicya non aveva smesso un attimo di fissare incantata Will; era piuttosto comprensibile dato che era obiettivamente un bellissimo ragazzo, e in realtà anche io a suo tempo mi ero presa una cottarella per lui.
Nonostante tutti avessero già tolto i vestiti per rimanere solo in costume, io continuavo a tenermi addosso i pantaloncini e la canotta neri che avevo addosso e a stare seduta sulla sabbia sotto l'ombrellone.
“Alice, come mai ancora vestita?” Mi chiese Armin sedendosi accanto a me 
“Perché mi va così.” Risposi evasiva portando le ginocchia al petto 
“Non hai voglia di rimanere solo in costume, vero?” Annuii
“Ti vergogni, vero?” Annuii di nuovo, e lui rise leggermente
“Ma dai! Indossi abitualmente magliette corte o trasparenti (o entrambi) e pantaloncini, che male ci sarà a stare in costume?” 
“Pensi che mi vesta come una troia?” 
“Penso semplicemente che tu sia meravigliosa.” Rispose spostandomi una ciocca di capelli dal viso, dove poco dopo si dipinse un sorriso amaro
“Ovvio, con l'ottanta per cento del corpo scoperto siamo tutte meravigliose.” 
“Potrebbe anche darsi, ma resta il fatto che mi sono innamorato di te soltanto.” 
“Questo non significa niente.” 
In quel momento vidi passarmi davanti Ashley Jackson, Viginia Browns e Jenny Brooks: la mia rovina dei tempi delle medie e dei mesi estivi in America. 
“Alice, ciao!” Mi salutò la prima con un sorriso serpentino e un tono velenoso 
“Cosa vuoi?” Risposi allora io seccata
“Nulla di che. Soltanto salutarti.” Continuò con la sua finta aria affabile “e tu?” Disse poi rivolgendosi ad Armin “non ti ho mai visto prima, chi sei?” 
“Sono Armin, il fidanzato di Alice.” 
Dopo qualche minuto di convenevoli intrisi di falsità, le tre tolsero il disturbo. Mentre si allontanavano da noi, però, potei nitidamente sentire una delle tre che diceva 
“Quanto ci scommettete che, da qui a quando se ne va, le rubo il ragazzo?” E le altre ridere sonoramente.  Strinsi i pugni talmente forte da farmi male con le mie stesse unghie e mi sforzai per ricacciare indietro le lacrime. 
Non avrei permesso a loro di provarmi ancora della mia felicità. 
 
Note dell'autrice
Lo so, lo so. 
È orribile. 
È che ho sonno, e domani ho compito di matematica e non ho studiato un cazzo.

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Capitolo 12
*** Understanding ***


Understanding 


I giorni passarono e finalmente arrivò la fatidica mattina del 4 luglio, ovvero la mattina del mio sedicesimo compleanno. Venni svegliata dal suono del computer portatile (perennemente acceso sulla scrivania, tanto la luce non la pagavo io) che trillava per annunciarmi una chiamata skype in entrata. Spalancai la finestra così da far entrare più luce, presi il computer e mi rimisi a sedere sul letto, poggiando la mia schiena alla spalliera e tentando di fare meno rumore possibile, così da non svegliare Armin che dormiva ancora beatamente. Guardai chi era che mi stava chiamando, poi risposi
“Cosa cazzo vuoi alle otto del mattino?” Dissi fingendo un tono scorbutico e tentando di trattenere un sorriso alla visione di Levi. Non lo avrei mai ammesso davanti a lui, ma ogni qual volta che eravamo impossibilitati a passare i nostri pomeriggi a chiacchierare delle peggiori cazzate seduti al solito tavolo davanti alla solita tazza di tè o caffè, mi mancava terribilmente. 
“Quanto calore, ragazzina. Volevo solo farti gli auguri.” 
Mi lasciai scappare un piccolo risolino soffocato. Poi sentii Armin mugugnare infastidito un 
“Amore che c'è?” Per poi mettersi a sedere e attirarmi delicatamente a sé per baciarmi. 
Mezzo nudo. 
Gloriosamente davanti alla webcam. 
E mi aveva anche chiamato amore. Lui non mi chiamava mai amore. 
Rimasi pietrificata; non ricambiai nemmeno il bacio
“Le scene erotiche tenetele per voi.” Disse Levi 
“Eh ma sei un rompicoglioni però! Io lo bacio quanto voglio il mio ragazzo.” Gli dissi di rimando ridendo nervosamente. Un paio di secondi dopo Armin si decise a guardare chi era il mio interlocutore. Lo vidi sbiancare come un lenzuolo, poi subito dopo diventare tremendamente rosso per l'imbarazzo 
“P-P-PROF?!” Quasi urlò
“Ben svegliato Arlert. Mettiti una cazzo di maglietta.” Gli rispose con il solito sguardo duro e il suo tono distaccato che riservava a tutti, poi spostò lo sguardo si di me e potei vedere quella flebile e impercettibile luce che si accendeva negli occhi suoi e miei quando parlavamo, e che solo noi due eravamo in grado di notare
“Alice.” Mi chiamò, come se gli mancasse pronunciare il mio nome, cosa che non era forse nemmeno del tutto falsa
“Levi.” Gli risposi, e dal mio tono si capiva lontano un miglio che mi mancava pronunciare il nome del mio amico 
“Qui chiedono sempre tutti di te. È piuttosto vuoto questo posto senza una certa ragazzina scassacazzi. E poi tu il cappuccino lo fai meglio.” Parlò distogliendo lo sguardo dal mio, e capii che pronunciare quelle parole per lui era molto difficile 
“Be’, manca anche a me il bar. E soprattutto mi mancano i nonni, come stanno? Non li sento da quando sono arrivata.”  Dissi che mi mancava il bar, ma in realtà mi mancava Levi. Sperai che avesse recepito il messaggio
“Stanno bene e se la cavano, anche se da quando ci sei tu la clientela è aumentata.” Annuii contenta a questa affermazione, anche se non mi sembrava troppo sicuro. Lì per lì tuttavia non ci feci caso. 
“Mi sto divertendo qui in America, sai?” 
“Bene. Vedi di non restarci però. La tua presenza fastidiosa è un'abitudine a cui mi seccherebbe rinunciare.” 
“Ti voglio bene anch'io, Levi.” 
“Tanti auguri di buon compleanno, Alice. Quando torni ti darò il tuo regalo.” 
Rimasi a bocca aperta per qualche secondo. Non mi aveva mai fatto un regalo. 
“Un... Regalo? Non mi hai mai fatto un regalo.” 
“Ma tu l'hai fatto a me. Detesto restare indietro.” 
Sorrisi. 
“Grazie di tutto.” 
Dopo qualche altro minuto di chiacchierata casuale chiusi la videochiamata. 
“Ehi Armin che hai?” 
“Sai Alice, forse c'è qualcosa di cui non mi hai ancora parlato...” 
Abbozzai una risatina nervosa e mi decisi a raccontargli tutto. Del bar, di Levi e della mia vita fuori dalla scuola, argomento che era sempre stato tabù. Mi sentii come liberata da un peso. Nel corso della giornata ricevetti anche una videochiamata da Jean, che si era riunito con il nostro meraviglioso gruppo di propaganda omosessuale. La videochiamata si può tranquillamente riassumere in:
-Bordello
-Auguri di compleanno 
-“AH ECCO DOVE CAZZO ERA SPARITO ARMIN, SI È FATTO LA VACANZA CON LA RAGAZZA!” 
-Bordello
-ROBE GAY
-Commenti sulla bella vita Newyorkese
-Bordello.
Un'oretta dopo poi Jean mi chiamò di nuovo, per parlare un po' senza troppo casino, dato che gli altri erano andati via. Mi ero affezionata tanto a quel ragazzo, era un tesoro. 
Arrivò il tardo pomeriggio e venni trascinata a forza da Felicya a casa di Will. Armin non era con noi e mi domandai dove fosse sparito. Entrai a casa di Will e non mi sorpresi affatto di rivederla. Ci ero già entrata altre volte e ormai per me quella villa da sogno in stile vittoriano era qualcosa di quasi normale. Venni trascinata nella stanza degli ospiti da Felicya, la quale si fiondò subito dietro un separè per uscirne circa due minuti dopo con addosso uno splendido abito color acquamarina, lungo fino al ginocchio, monospalla e pieno di brillantini sul corpetto lungo fino alle ginocchia e caratterizzato da una splendida gonna di tulle e chiffon molto leggera e svolazzante e un paio di scarpe col tacco del medesimo colore del vestito. I suoi capelli castani erano lasciati sciolti e lei era come sempre molto bella. Rimasi incantata dalla bellezza della mia carissima cugina, per poi dire un sommesso 
“Stai benissimo.” 
“Grazie grazie, ma chiudi quella bocca che ci entrano le mosche. Piuttosto, là dietro c'è anche il tuo di vestito, non vorrai rimanere in jeans e maglietta!” 
Mi chiesi per quale assurdo motivo dovessi cambiarmi, ma alla fine assecondai mia cugina. 
Dietro il paravento era appeso un abito meraviglioso dal corpetto nero di pizzo con scollatura a cuore e una gonna a sirena così lunga da avere anche qualche centimetro di strascico e uno spacco che, grazie a Dio, non lasciava intravedere nulla con abbinati dei guanti di pizzo e raso neri con un nastro dell'omonimo colore che percorreva tutto il guanto ad incrocio che arrivavano fino al gomito e coprivano il dorso della mano con un triangolo che aveva il vertice in un anello di stoffa che si infilava nel dito medio, e abbinate un paio di décolleté nere. Non mi volli nemmeno guardare allo specchio, avevo troppa paura di non piacermi e al contempo troppa voglia di indossare quell'abito splendido, quindi quasi senza pensarci uscii dalla stanza e mi apprestai a scendere la scala che portava nella meravigliosa ed enorme sala da ballo (Sì, Will era talmente schifosamente ricco da avere una sala da ballo in casa sua), ma invece mi trovai davanti qualcosa di ben più meraviglioso: Armin che indossava uno splendido smoking nero. Rimasi a fissarlo per un lasso di tempo indeterminato, beandomi della vista di ogni millimetro di tutta la sua innocente magnificenza e rendendomi conto di quanto fossi grata perché questa magnificenza era stata donata a me. Mi fermai un secondo a ricordare l'abisso freddo e oscuro in cui soggiornavo prima di incontrare lo sguardo delle sue meravigliose iridi cristalline, che nonostante fossero di un colore freddo, fredde non erano affatto, erano invece in grado di trasmettermi un calore che non credevo avrei mai provato, e che invece ormai provavo ogni giorno, anche soltanto incrociando il suo sguardo assonnato la mattina appena sveglio, o l'imbarazzo ancora persistente di quelle volte in cui mi va di dirgli che lo amo, o la felicità che alberga nei suoi occhi ogni volta che, quando mi sveglio da un colpo di sonno accaduto accanto a lui, mi racconta che gli stringevo la mano forte o che lo abbracciavo. Mi resi poi conto che quella felicità ormai albergava anche nelle mie iridi color blu elettrico, che fino a poco tempo prima erano completamente spente. Mi resi conto anche di quanto, nel mio mal di vivere, la ricerca di una luce per il mio sguardo era diventata spasmodica, di quanto fossi stupida a credere che per essere felici ci volessero cose sovrumane, come castelli d'oro o ricchezze infinite, mentre invece bastava soltanto qualcuno che ti guardasse come se fossi la prima persona che vede nella sua vita, o l'unica che gli importa di vedere, bastava soltanto qualcuno che, anche se non vi vedete da soli cinque minuti, vi mancate così tanto che non potete fare a meno di stringervi forte dopo, bastava soltanto qualcuno che potesse dirmi che tra tutti aveva scelto me, e soltanto me, che aveva scelto di scendere fino in quell'abisso di morte e disperazione, solo per tendermi la mano e mostrarmi quanto fosse bello il mondo fuori da esso. Bastava soltanto qualcuno che mi amasse, e fino a quel momento ero stata stupida a farmi consumare da quella ricerca, perché ciò che cercavo così spasmodicamente mi venne dato non appena capii che quella ricerca mi stava logorando così tanto che non valeva la pena continuarla. 
“Sei bellissima.” Disse il biondo con tono piacevolmente sorpreso e ammirando, scaraventandomi brutalmente fuori dai miei pensieri. Vorrei poter dire che ci avevo fatto l'abitudine ai suoi complimenti, ma la verità è che non sarei mai e poi mai riuscita ad abituarmi a quella voce he tanto amavo che pronunciava parole così belle rivolte a me. Abbassai lo sguardo arrossendo e replicai al complimento, poi alzai la testa semplicemente per prenderlo per la camicia e baciarlo, per poi girarmi di nuovo con la faccia tutta rossa e dire
“Ti amo. Scemo.”
“Ti amo anch'io, piccola mia. Buon compleanno.”


Α ~ Note di quella scansafatiche detta Autrice ~ Ω

Per quelli di voi che non fanno parte dei miei beloved Tavolini Sexy e non mi conoscono di persona: NON SONO MORTA, LO SO È INCREDIBILE!!

Comunque, questo capitolo lo dedico a te (SENTITI NOMINATO COSINO), perché mi hai fatto decidere tu a pubblicarlo e mi hai fatto tornare la voglia di mettermi qui e scrivere... E poi perché, non so ancora come sia possibile, sei la perfetta incarnazione caratteriale di Armin (solo che sei più bello) e ti amo tanto <3

Poi ringrazio anche i Tavolini, soprattutto Fely che mi fa le fanart, e poi Neko e Tomato-chat che sono stata felicissima di poter finalmente abbracciare fisicamente durante quella bellissima giornata denominata Games&Comics School Festival, che è stata bella anche per tanti altri motivi *coff coff* Kaneki e Touka re e reginetta del ballo e prima esibizione seria insieme e la senpai ci ha notato *coff coff*

Vabbè, ora sparisco nell'abisso e vado a scrivere qualcosa su Saruhiko e Misaki (MOLTO IMPREVEDIBILE XD)

Come sempre se vi va lasciatemi una recensione, a meno che non vi inseriate coltelli digitali per uccidermi perché non ho aggiornato...
Vi voglio bene guys, al prossimo capitolo :3

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Capitolo 13
*** Liar. ***


Liar.


Era arrivato il giorno dopo il mio compleanno... O meglio, il pomeriggio: la notte prima era stata davvero molto... impegnativa, quindi mi svegliai alle due del pomeriggio. Trovai accanto a me Armin ormai perfettamente vestito, sdraiato accanto a me sopra le coperte, mentre mi guardava sorridendo dolcemente. 
Aprii appena gli occhi e subito mi sovvenne un piccolo e timido sorriso: i ricordi della notte prima erano poi così belli da richiamare alla memoria che non mi arrabbiai nemmeno iper l'ora tarda, anzi mi avvicinai di più al mio fidanzato e mugugnai con un tono dolce, che a sento sentii appartenermi, un
“Buongiorno...” 
Al che il suo sorriso si allargò e, dopo avermi dato un bacio sulla fronte, rispose
“Buongiorno a te, Alice; finalmente ti sei svegliata.” 
In seguito mi disse che sarebbe andato a prendermi qualcosa da mangiare (sapeva che detestavo mangiare con i miei familiari e lo evitavo quanto più possibile), quindi si richiuse la porta alle spalle dandomi la possibilità di vestirmi. Ero davvero troppo pigra per scegliere qualcosa, quindi semplicemente aprii il cassetto dove tenevo la roba dei miei genitori che avevo conservato e misi una maglietta azzurra una volta appartenuta a mio padre. Ad un tratto sentii vibrare il mio telefono; quando vidi il display rimasi un tantino perplessa: avevo come un brutto presentimento, ma pensai che sicuramente mi sbagliavo 
“Ohi Will buongiorno” dissi per poi sbadigliare, con la voce ancora impastata di sonno 
“Non fingere di essere appena sveglia.” Mi rispose con voce estremamente dura
“Ma veramente lo sono. Capita anche a me di svegliarmi tardi.”
“Davvero? O forse ti sei addormentata mentre il tuo ragazzetto faceva il lavoro sporco per te?”
“Ma... Will che intendi scusa?” 
“Chiedilo al tuo fidanzato.” E finì con disprezzo la telefonata. 
Io rimasi con il cellulare in mano per almeno trenta secondi, finché Armin non aprì la porta della mia camera portando su un vassoio una ciambella al cioccolato e un cappuccino che aveva maldestramente provato a decorare scrivendoci sopra ‘Ti amo'. 
Avrei voluto chiedergli subito cosa fosse successo, ma prima decisi di ricompensarlo con un bacio.
“Ah Alice, ti sentivo parlare mentre salivo le scale,P ma non ho capito cosa dicessi... Era il prof al telefono? Ti prego dimmi di no.” Mi chiese sconcertato
“Ma perché anche se fosse? Cos'hai contro Levi poverino? Capisco che è un po' scorbutico ma non è cattivo... E poi è il mio amico più caro.” Risi 
“Sì, ma il fatto che il tuo amico più caro sia il mio professore è sconcertante quasi quanto sentirlo imprecare...” Rise anche lui con me, per poi chiedermi nuovamente chi fosse, al che mi rabbuiai
“Era Will, ed era molto strano e arrabbiato con me, non che me ne importi, ma ciò che mi ha turbata è che mi ha detto di chiedere a te perché era arrabbiato... Cosa è successo?”
“Sai Alice...” Mi rispose con tono estremamente serio “non credo che dovresti più frequentare quella persona.” Non percepii un filo di rabbia o gelosia nella sua voce, anzi mi sembrava addirittura dispiaciuto... Vedere il suo viso e sentire il tomo della sua voce mi impedì di provare qualsivoglia sentore di rabbia nei suoi confronti
“Ma perché cosa è successo?” Chiesi preoccupata, e lui cominciò a raccontarmi... Mi raccontò che si erano incontrati mentre io dormivo, di come aveva mancato di rispetto a me e ai miei genitori, mi raccontò di come aveva intenzione semplicemente di usarmi, o meglio usare il mio corpo, e di come aveva trattato Armin, e di come avesse tentato di fare false insinuazioni su di me. Rimasi estremamente delusa e amareggiata: Will era una delle uniche tre persone delle quali mi fidavo ciecamente, e che mai avrei pensato capace di tradurmi; speravo di aver trovato in lui un'altra eccezione al mondo che mi attorniava, ma anche lui invece era come tutti gli altri: era stato davvero falso con lei, e si era pure permesso di parlar male dei suoi genitori. Mi resi conto che ciò che mi faceva più male non era proprio l'azione che aveva compiuto, bensì il fatto che fosse stato proprio lui a compierla, e questo proprio non mi andava giù: io avevo davvero tante difficoltà relazionali, quindi la mia fiducia era un dono veramente molto prezioso, e vederlo calpestato così mi faceva sentire come se non valessi nulla: aveva sul serio così poco valore la mia persona da poter essere usata come un giocattolo, è difettoso per giunta? 
Decisi che, poiché provavo rancori verso William (non avrei più usato abbreviazioni per chiamarlo) anche per motivi che c'entravano con Armin, fosse meglio se a sorbirsi i miei sfoghi fosse un'altra persona, che in quel momento stava a miglia e miglia di distanza. Subito presi il computer ed effettuai una chiamata Skype 
“Levi.” Dissi non appena mi rispose. Evidente lui notò che c'era qualcosa che non andava, infatti mi chiese subito cosa ci fosse che non andava, e io gli raccontai tutto. Mi diede una risposta che mai mi sarei aspettata da lui; non perché pensassi che non mi avrebbe consolato, bensì perché non mi aveva mai parlato in quel modo
“Fottitene.” Mi disse subito e con tono più serio che mai "so che è molto difficile e che crederai che ti stia dicendo frasi fatte, ma credo che ormai tu sappia che non sono il tipo che fa queste stronzate tanto per dare il contentino. Ascoltami bene: sè quella feccia ha deciso di calpestare una persona preziosa come sei tu, significa che non ti meritava, non ti merita e non ti meriterà mai; e tu non hai bisogno di avere accanto persone che non ti meritano. So cosa stai provando, nella tua vita purtroppo mai nessuno è rimasto davvero molto a lungo, quindi tu vuoi persone che ti stiano accanto, sì, ma più che altro vuoi persone che ti restino a canto, e posso dirti che una persona preziosa quasi quanto te la hai accanto ogni singolo giorno, e forse non te ne accorgi nemmeno, ma io che quella persona la conosco da più tempo di te posso confermartelo: quella persona è il tuo ragazzo; e se all'inizio ti è sembrato che io non vi approvassi è stato solo perché per me tu sei come una piccola e fragile sorella minore che va protetta da ogni male del mondo, quindi all'inizio avevo paura che saresti rimasta ferita di nuovo. E poi sì, un'altra persona che c'è e ti resterà accanto sono io. Stavolta non sono riuscito a proteggerti, ma giuro che faccio e continuerò a fare tutto il possibile. Quindi Alice, fottitene di quel coglione: hai accanto due persone che, anche se in modi molto diversi, ti amano con tutte loro stesse e darebbero la vita per proteggerti. Sii felice per questo.” Poi fece una pausa di qualche secondo prima di tornare al tono abituale “spero che tu mi abbia ascoltato, ragazzina, perché non ho la minima intenzione di ripetermi.” 
Rimasi per un attimo interdetta, nel frattempo Armin si spostò nel raggio di ripresa della webcam e disse
“Prof, la ringrazio davvero della sua fiducia, e so che lo farà anche lei. Le sono molto grato per tutto il sostegno che le dà.”
Levi non rispose, ma vidi un lampo di gratitudine e timida soddisfazione nei suoi occhi. A quel punto lacrime di commozione iniziarono a pungermi gli occhi
“Grazie Levi... Ti voglio bene, davvero. E grazie anche a te Armin, ti amo tanto. Grazie ad entrambi... Almeno voi restate per sempre, per favore.” 
Entrambi annuirono, a quel punto piansi sul serio di gioiosa commozione, perché di loro mi fidavo, e sapevo che sarebbero davvero rimasti per sempre. Ed era tutto ciò di cui avevo bisogno. 


Α Spazio Autrice Ω
Inizio col dire che questo capitolo avrebbe dovuto essere molto diverso, ma alla fine ho deciso di sfruttarlo come sfogo personale per una cosa successami ieri. Sinceramente avrei molto da raccontare ma credo che della mia vita personale non freghi a nessuno (anche perché se no sarei una blogger, non una scrittrice XD), quindi niente, ringrazio sempre tutti quelli che mi sostengono, e soprattutto il mio Saru che ha penato per mesi per avere questo capitolo XD
Spero che continuerete a seguirmi, e spero che mi lasciate un commentino. Tanto love per tutti. <3

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Capitolo 14
*** Back Home ***


Back Home.

Anche se credo che siate tutti saturi di questa ragazzina che blatera sul tempo, la sua inesorabilità continua, purtroppo o per fortuna, ad incombere su di noi piccole e meravigliose creaturine.
Quella mattina mi svegliai con l'amaro in bocca, sapendo che non avrei più potuto vedere lui ancora addormentato e godermi questa visione, non avrei più potuto vederlo svegliarsi e guardare il suo petto venir leggermente e lentamente fuori dal lenzuolo quando lui si tirava quel poco che bastava su per potermi regalare un "buongiorno" dalla sua calda voce ancora impastata di sonno seguito da un bacio di durata indefinita, mentre io potevo poggiare una mano sulla sua calda pelle scoperta e sentire il suo cuore che batteva; routine che Armin si curava di ripetere ogni mattina poiché aveva presto imparato che ciò mi faceva letteralmente impazzire; non saremmo più occasionalmente finiti a fare l'amore alla sera, quando lui consapevolmente usciva dal bagno dopo aver fatto una doccia ancora tutto bagnato e con solo un'asciugamano a coprirlo, o quando la mattina presto mi sedevo innocentemente sul letto a disegnare (già, nonostante sia sorprendente, la più innocente e ingenua tra i due ero io, poiché non avevo imparato ancora quali miei comportamenti sviluppassero in lui quel tipo di pulsioni), con la solita maglietta gigante che usavo come pigiama e oltre a quella indosso solo l'intimo e una matita nei capelli utilizzata per raccoglierli, matita che Armin avrebbe ogni volta lentamente tolto piazzandosi dietro di me e nel frattempo lasciandomi piccoli baci sul collo; non avremmo più potuto prenderci in giro a vicenda per i nomi sbagliati sui bicchieri di Starbucks e non avrei più potuto pulire la glassa al cioccolato o alla fragola dagli angoli della sua bocca baciandolo e assaporandola con la mia lingua, dicendo poi ogni volta “Però! Buona, fammi assaggiare di più" per poi prendergli il mento tra le dita e baciarlo; non avremmo più potuto cenare seduti a gambe incrociate l'uno accanto all'altra da uno stesso vassoio rubandoci il cibo a vicenda; non avrei più potuto rannicchiarmi accanto a lui durante la notte, con le gambe intrecciate e la mia testa contro il suo petto, però poi svegliarci separati perché evidentemente le esigenze termiche avevano vinto; e talvolta svegliarsi vestiti e talvolta no, a seconda di come la notte prima era stata trascorsa.
Il nostro aereo sarebbe partito alle 12, per arrivare così a casa verso le 20.
Non avevo intenzione di lasciar sfumare la mattinata così, dato che mi erano esattamente le 4:55, quindi decisi di essere produttiva, dato che il mio stupendo fidanzato era ancora nel mondo dei sogni. Ci eravamo ripromessi di preparare le valigie la sera prima, ma la foga e la disperazione dell'ultima notte insieme e i aveva abbastanza preso, risultando in valigie ancora sfatte, con l'aggravante dei vestiti del giorno prima sparsi per la camera (non credo di aver bisogni di spiegare il perché). Mi feci velocemente una doccia e misi addosso solo la biancheria intima e una felpa di Armin, e mi misi a lavoro rifacendo accuratamente entrambe le nostre valigie, curandomi di lasciar fuori dei vestiti da mettere quel giorno. Non appena ebbi finito  di ricontrollare vidi che Armin non accennava a svegliarsi, quindi decisi di essere ancora più produttiva e andare a comprargli quelle ciambelle che tanto adorava, che per grazia divina erano prodotte da una pasticceria vicinissima alla mia abitazione provvisoria e che era proprio concepita per i newyorkesi nottambuli affamati, come io ero stata innumerevoli volte negli anni scorsi, dato che era aperta dalle 8 di sera alle 8 della mattina dopo. Comprai le ciambelle e riuscii anche a trovare una meravigliosa rosa rossa, poi salii nella nostra camera e sistemai tutto in maniera carina su un bel vassoio, aggiungendo un cappuccino che avevo preparato appena tornata.
Le ciambelle emanavano un tale profumo di fragole e cioccolato che era impossibile resistergli; questo profumo si mescolava poi con quello leggermente pungente del caffè, e mi bastò sentirlo anche solo per un attimo per decidere che per me quello era decisamente il profumo di una splendida giornata.
“Odore di... Ciambelle...” Sentii dire ad Armin tra sonno e veglia, con gli occhi ancora socchiusi e la voce più assonnata del solito; stavolta fui io a fare il primo passo è a scivolare sotto il lenzuolo accanto a lui e a baciarlo in modo dolce ma al contempo leggermente costellato della passionalità residua dalla scorsa notte, e a sussurrargli all'orecchio un tenue 'buongiorno', per poi lasciargli un leggerissimo bacio sul lobo dell'orecchio.
Dopo averli dato un poco di tempo per svegliarsi, lo feci sedere sul letto e gli poggiai il vassoio sulle gambe dicendo:
“Dato che questa è la nostra ultima mattina insieme, ho pensato di renderla speciale solo per te.” Con un relativamente leggero rossore che si propagava ancora sul mio viso. Lo vidi gioire come un bambino, seppur mantenendo un lampo di tristezza pensando che a lui non era venuta in mente un'idea simile e vedendo che la colazione era solo per una persona; ma a me sinceramente non importava: era una cosa speciale soltanto per lui, che avevo fatto soltanto per avere in cambio la sua felicità sincera, e la possibilità di pulire la glassa dalla sua bocca con la mia.
Per qualche strano motivo quel giorno le labbra del mio innamorato mi sembravano più attraenti che mai, e la mia attrazione fu soddisfatta dato che mezz'ora dopo la colazione venne spesa soltanto in baci, baci e ancora baci: mille e poi altri cento, e poi altri mille e poi altri cento, per citare maldestramente le parole di un uomo più esperto di me in parole d'amore.
“Vado a farmi una doccia, Alice, tu aspettami pure qui.” Disse poi il biondo quasi fosse triste di interrompere quel nostro dolce contatto, al che io gli sussurrai
“Però esci già vestito per favore, non vorrai mica far tardi in aeroporto a causa della tua fidanzata che ti trova troppo bello"
Per poi ridere con gioia della splendida sintonia che avevamo.
La separazione con Felicya fu davvero tanto dolorosa, anche se persisteva la sicurezza di vedersi l'anno seguente, il che rendeva il boccone apparentemente meno amaro. Nulla degno di nota accadde durante il volo, quindi se mi è consentito passerei direttamente al nostro ritorno in Italia. Al momento di ritirare i nostri bagagli mi resi conto che la nostra separazione stava per avvenire, quindi sentii il bisogno di qualcosa di materiale che mi facesse pensare ad Armin, quindi finsi di avere freddo così da farmi dare la felpa che teneva legata in vita, che per ironia del,a sorte era quella medesima felpa azzurra che indossava durante il viaggio verso Firenze, la quale mi arrivava quasi alle ginocchia ed era a dir poco meravigliosa. Usciti dal ritiro bagagli della sezione non Schengen, che era davvero poco affollata, vidi subito gli scalpitanti genitori del bidoni che tenevano in mano un cartellone con scritto il nome del loro amato figlio a caratteri cubitali.
Si vedeva l'emozione nei loro occhi, anche se non bisognava essere tanto osservatori per capire che non vedevano l'ora di abbracciarlo. Gettai lo sguardo oltre: non c'era nessuno ad aspettare me, guardai velocemente più e più volte, cercando qualcuno per me, finché, quando mi ero ormai attesa all'evidenza, vidi timidamente sbucare una figura in pantaloni e giacca nera e camicia bianca, dagli occhi di tempesta e i capelli corvini, che reggeva un foglio con su scritto “Alice Sweets”.
Mi guardò, lo guardai, la nostra espressione si assimilò in una timida ma eloquente conversazione di sguardi nascostamente carezzevoli e di labbra leggermente inarcate verso l'alto. Poco prima di entrare in contatto con la folla gli promisi silenziosamente che sarei stata da lui quanto prima, e lui capì.
I genitori di Armin erano sprizzanti di gioia da tutti i pori e come sempre molto logorroici, dato che continuavano a porci una domanda dopo l'altra senza nemmeno darci modo di rispondere.
Ad un certo punto il padre di Armin interruppe la madre e noi due per chiedere con tono tra le scherzoso e il serio, ma comunque estremamente allusivo
“Ma allora, avete concluso?”
Lanciai un velocissimo sguardo al mio professore che aveva sentito tutto e adesso squadrava Bruce Arlert dicendo tra sè e sè ‘ma guarda questo che non si sa fare i cazzi suoi e si impiccia della vita della mia bambina’, poi al padre e alla madre di Armin che erano seriamente ansiosi di sentire la nostra risposta, anche se non compresi se erano ansiosi che fosse un sì o un no, poi io e Armin ci guardammo e subito diventammo paonazzi e cominciammo a impastare malamente scuse di non so qual sorta, per poi ricevere vigorose pacche sulle spalle da entrambi i genitori con svariati complimenti.
Subito dopo mi scusai e mi dileguai velocemente verso il mio professore.
“Bentornata, Alice.” Disse con quel tono che era impossibile non riconoscere, e al quale come risposta diedi un fortissimo abbraccio che egli ricambiò, cosa che faceva solo con me.
“Ceniamo insieme?” Mi chiese durante l'abbraccio
“Ok” risposi “ma a casa mia: io ho i videogiochi e lì mi posso addormentare quando mi pare e posso essere maleducata.”
“Ma non avrai un cazzo nel frigo.”
“C'è un superamento aperto 24 ore su 24 qui vicino, però cucini tu.”
“Affare fatto ragazzina.”
E dopo questa breve conversazione l'abbraccio si sciolse, e dopo un suo sguardo di approvazione tornai dal mio fidanzato, mentre sentii una conversazione con i suoi genitori che non avrei dovuto sentire ma che mi fece capire quanto effettivamente fosse prezioso
“Alice resta a cena da noi stasera” chiesero loro
“No,“ rispose Armin “per stasera vedo che ha già altri programmi. E poi... Avevo intenzione di portarla a cena in un bel posto domani.”
Ciò che mi rese davvero felice di che in nessuna parte di ciò che lui aveva detto si sentiva tristezza, bensì solo tenerezza e felicità, e ciò mi fece innamorare ancora di più di lui, ammesso che ciò fosse possibile.
La spesa e la cena con Levi trascorsero secondo i nostri criteri di normalità, con varie chiacchiere riguardo a NYC.
Solo, mentre stavamo giocando ai videogiochi lui chiese dal nulla
“Oh ma quindi tu e Arlert avete concluso sì o no?” Aspettandoti chiaramente un no, tuttavia io dissi la verità con nonchalance
“Oh sì che abbiamo concluso, e anche parecchie volte.”

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