La solita vecchia storia, o quasi

di variopintadite
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 9 ***
Capitolo 10: *** Capitolo 10 ***
Capitolo 11: *** Capitolo 11 ***
Capitolo 12: *** Capitolo 12 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


Capitolo 1

Il corridoio fu subito gremito di studenti non appena il familiare rintocco della campanella iniziò a trillare, facendo smuovere l’orda di persone stanziate nelle pertinenze scolastiche a fumare qualche sigaretta.

Probabilmente se mi fossi fatta coinvolgere nel giro alle medie, quando Alan gentilmente faceva fare un tiro un po’ a tutti, avrei potuto essere notata dagli altri, solo che la probabilità di beccarmi un cancro ai polmoni non era nei miei piani futuri. Per evitare quindi di farne una dipendenza, rifiutai garbatamente l’offerta.

Quando il suono fastidioso raggiunse le mie orecchie, chiusi con un tonfo il mio armadietto verde vomito per poi dirigermi nella classe di Mrs Keogh. Avevo la bellezza di avere lezione di storia alla prima ora, ma finché studiavo non era un gran problema.
Mi persi in pensieri incentrati su mia madre mentre mi facevo spazio verso l’aula. Distratta com’ero non mi accorsi verso cosa, o meglio chi, mi scontrai. L’impatto fu quasi tragico: la mia fronte si spiaccicò contro qualcosa di caldo e solido. Per una frazione di secondo formulai l’ipotesi di un seno sodo, molto sodo, ma la rifiutai immediatamente perché lo era fin troppo. Nemmeno due meloni finti avrebbero potuto fare a concorrenza con quella compattezza.  
Con coraggio alzai il mio viso facendo congiungere il mio sguardo con quello del Ragazzo Petto Solido.
Spiazzata dalla sua bellezza, divenni paonazza e per non fargli accorgere della cosa, mi chinai per raccogliere il libro, il quaderno e l’astuccio cilindrico.
Devo ammettere che più che cilindrico, si avvicinava a una forma fallica, ma credo non faccia poi così tanta differenza.
- Ti aiuto – disse premuroso. O meglio, me lo immaginai. Tutte si sognerebbero che un ragazzo, oltre ad esser carino si comporti da gentiluomo.
In realtà mi strizzò l’occhio dopo aver studiato il mio astuccio - a questo punto - decisamente fallico.
Feci finta di non aver colto il doppio senso e procedetti per la mia strada con calma e superiorità.
Nel frattempo vidi apparire dal nulla il bidello, Ghost lo chiamavano tutti, e pensai che fossero le solite sciocchezze inventate, ma dopo quell’apparizione mi ricredetti. Cacciai un urlo, agghiacciata.
- Non dovresti essere in classe? – chiese lugubremente, facendo un ghigno.
Sentii il cuore battere all’impazzata mentre cercavo di non farmi prendere dal panico.
- Io… io… - tentai di spiccicare parola, di inventarmi qualcosa, ma il fatto era che volevo darmela a gambe levate. Quel tipo era inquietante da far rizzare i peli delle braccia.
L’uomo fece un passo verso di me.
Girai i tacchi e corsi al secondo piano. Inizialmente percepivo il respiro affannoso del maniaco, ma poi lo superai. Trionfante mi godetti la vittoria che fu breve e senza testimoni.Piegata in due dalla fatica, mi arrestai davanti alla porta. Dopo aver ripreso fiato portai le nocche sul battente di legno producendo due bussate ben distinte.
- Sì? – udii all’interno Mrs Keogh.
Aprii la porta, sentendomi al posto giusto nel momento sbagliato.
La Keogh stava interrogando e dal suo sguardo non era difficile intuire che la ragazza non aveva aperto libro. Povera Georgia, era stata presa di mira sin dal primo giorno. Forse la professoressa odiava le ragazze alte, essendo lei  una nana da giardino.
- Oh, fantastico. Oggi vi siete messi d’accordo per arrivare in ritardo? – si girò verso gli altri che abbassarono il capo per evitare lo sguardo omicida – Si vada a sedere signorina. – disse cercando di addolcire il tono.
- Certo – sussurrai in soggezione. Rapida mi andai a sedere all’unico banco libero.
Appoggiai con cura lo zaino sul pavimento e mi lasciai cadere sulla sedia. Tornai a fissare l’insegnante che continuò a tartassare l’allieva con domande ardue per metterla in difficoltà. O aveva le sue cose, o l’ennesimo fidanzato l’aveva lasciata, ipotizzai.
- Non è giusto – mormoravano delle ragazze, fissando nella mia direzione.
Cosa non è giusto?, pensai.
- Scusa – sentii una voce al mio fianco. Voltai lo sguardo in direzione della voce. Era strano che qualcuno mi notasse a scuola.
- Mmh – esortai. Ancor più strano che fosse un ragazzo.
Quando i suoi occhi incontrarono i miei trovai anomalo il fatto che fosse la stessa persona di un quarto d’ora prima e che in un giorno mi avesse rivolto la parola più di una volta.
- Hai una cicca? -
Inebetita dal verde dei suoi occhi non potei che fissarlo, facendo sì che la domanda rimanesse sospesa per qualche secondo per poi finalmente giungere al mio timpano.
- Ehm… no – risposi mezzo minuto dopo.
- Okay. – Si girò, tornando ad ignorarmi.
Presi a sfogliare il libro di storia medievale, Carlo Magno faceva la sua comparsa nel capitolo che eravamo impegnati a studiare, fui però interrotta da qualcosa.
Vidi con la coda dell’occhio che il Ragazzo Petto Solido si stava appropriando del mio astuccio fallico.
Presi l’altra estremità per impedirgli di soffiarmelo.
- Lascialo – sentenziai con gentilezza per poi increspare le labbra in un misero tentativo di sorriso.
- Solo se lo fai anche tu – contrattò lui, facendo sì un sorriso, ma che suscitava omicidio e sesso allo stesso tempo.
Sesso? Io che pensavo al sesso? Che diamine mi stava succedendo? Non mi faceva bene la sua vicinanza. Proprio no.
Mi aiutai con l’altra mano per toglierlo dalle sue manacce. Quando capii che la sua presa stava cedendo non potei fare a meno di esserne contenta. A seguito di ciò mi accorsi che ero l’unica ad averlo in mano e non riuscendo ad aggrapparmi a nulla, rovinai a terra, trascinando con me la sedia.
Stronzo, imprecai nella mente.
Lui scoppiò in una fragorosa risata e non fu l’unico. Tutta la classe divenne magicamente ilare mentre il mio coccige chiedeva del ghiaccio.
- Per quale motivo signorina Tallish si trova sul pavimento? Non vede che sto facendo lezione?! – mi urlò contro l’insegnante.
- Le chiedo scusa Mrs Keogh – replicai. La mia voce fece trasparire palesemente il dolore che stavo provando.
Mi rialzai con fatica da terra facendo leva sulle braccia. La testa mi girò, ma rimasi salda nella mia posizione.
- Mi spieghi che è successo, breve e concisa per favore. –
- Praticamen-… – fui bruscamente interrotta durante il mio esordio dal Ragazzo Stronzo Petto Solido.
- È colpa mia professoressa. Le stavo rubando l’astuccio, lei mi stava cercando di fermare. Io ho lasciato la presa e lei è caduta. -
Sgranai gli occhi, non credendo alle mie orecchie.
- In punizione. Tutti e due! – gracchiò, inviperita.
- Mrs Keogh io non ho fatto niente! – controbattei in disaccordo con il suo verdetto. Perché ci sarei dovuta andare io?
- Ah no? Chi stava giocando con il giovanotto? Ricordi che le cose si fanno sempre in due. Ora stia zitta o le do da studiare altri tre capitoli per la prossima lezione! – disse alterata.
Non osai dire più nulla, troppo intimorita dal colorito rosso che aveva assunto la sua faccia.
Tentai di sedermi, ma fallii mentre un gemito proruppe dalle mie labbra.
- Newell porti la signorina Tallish in infermeria. E un’ultima cosa: prenda questi. – Ci porse dei bigliettini gialli per scontare la detenzione.
Zoppicavo un po’ mentre ci recavamo in infermeria.
Lui mi guardò sorridendo.
- Ti sembra divertente? – grugnii fissandolo in tralice.
- Abbastanza, dai – disse mordendosi il labbro per trattenere una risata.
Arrancai passo dopo passo in religioso silenzio per poi bloccarmi sentendo un dolore atroce trafiggermi.
- Ti serve aiuto? – chiese chiaramente divertito.
- Affatto, mi servono dei minuti… Per riposarmi. –
- Se aspetto te si farà notte. Su fai la brava. –
Non capii a cosa alludesse finché non mi ritrovai fra le sue braccia. Erano così calde e rassicuranti… No, questi pensieri erano proibiti.
- Mettimi… -
- Mettimi giù, idiota, non voglio avere nulla a che fare con uno come te. Io sono la principessina a cui tutto è dovuto bla, bla, bla. Davvero originale signorina Tallish. -
- Ed io sono Newell lo stronzo dal cuore tenero che porterà in salvo la principessina e in cambio vorrà la sua vagina! – completai io la recita.
Lui spalancò la bocca, sorpreso dal finale.
Infransi i suoi desiderai in un brevissimo lasso di tempo. – Ma il favore non verrà ricambiato, sarà sostituito da un calcio ai gioielli di famiglia. -
- Che bastarda. -
- Per così poco? C’è di peggio caro mio. E poi proprio tu mi etichetti in quel modo? Scommetto che te ne sbatti a mille miglia di puttanelle. -
Si pavoneggiò di questo, credendo di essere figo o sexy.
- Non dovresti vantarti di una cosa del genere. È una cosa che dà i brividi. -
- Brividi? –si bloccò non concependo il mio pensiero.
- Andiamo, tu che infili il tuo gamberetto nei giganti buchi delle cheerleaders. -
- Per l’appunto non è un gamberetto il mio. -
Mancava poco all’infermeria e per questo ringraziai il cielo.
- Pff, sicuramente lo è. -
- Mi spiace deluderti, ma è una bella anaconda. -
- Ha per caso una bocca con denti acuminati? – mi informai, sarcastica. – Io immaginavo avesse una cappella come tutti i peni che si rispettino… - aggiunsi.
- Hai una lunga esperienza allora? -
- Non devo renderne conto a nessuno di cosa faccio e con quanti. -
- Allora il tuo discorso non ha ragione d’esistere dato che anch’io posso risponderti alla stessa maniera. -
- Siamo arrivati finalmente! – esclamai entusiasta, scansando la sua accusa.
- Finalmente? Sono stato io a portare in braccio un elefante! – disse mentre la sottoscritta apriva la porta.
La signora Wyatt recependo il messaggio lo fissò male.
- È questo il modo con cui si dialoga? Vuole forse farle venire complessi per il suo peso? Stia zitto che fa più bella figura. -
Repressi a fatica una risata.
Ben ti sta.




Salve lettori!
Spero che la storia vi possa piacere.
Se troverò dei commenti, o meglio ancora, persone che la aggiungeranno nelle seguite/preferite/ricordate continuerò il prima possibile. Oppure verrà cestinata, finendo inevitabilmente nell'oblio.

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


Capitolo 2
 
La dottoressa Wyatt, una donna in carne con dei riccioloni pece, mi guardò con dolcezza.
- Dimmi, cara – disse con tono affabile.
- Ho avuto un piccolo incidente… - lanciai una rapida occhiata a Newell per poi tornare alla donna – mi servirebbe del ghiaccio, per favore.
- Oh, certo! Vado subito a prenderlo. Intanto accomodati pure e tu, - osservò guardinga il ragazzo che mi affiancava  – stai attento, perché ti tengo d’occhio.
Giratasi di spalle si avviò verso il mini frigorifero di color giallo piscia. Ebbi la conferma che la mia scuola non era brava ad arredare, prediligeva colori che evocavano alla mente immagini spiacevoli.
Lui approfittò della cosa per darmi una spallata, stizzito forse dall’avere contro ogni femmina in quel giorno o, semplicemente, era un ragazzo con problemi mentali. Mi limitai ad ignorarlo nonostante mi avesse fatto un po’ male. Non provai neanche a sedermi dato che facevo solo buchi nell’acqua provandoci.
- Eccoti il ghiaccio. – Mi porse l’agognato oggetto e io con troppo slancio lo afferrai.
- Louise? – Udimmo una voce provenire dall’esterno.
- Hanno bisogno di me, con permesso – si allontanò, lasciandoci soli.
L’idea non mi appariva molto allettante. Le pareti di un bianco smunto, tre letti che puzzavano di disinfettante e il mobilio pressoché inesistente se non un banco, dove erano allineati i peluche delle Tartarughe Ninja e una foto di un signore occhialuto, il mini frigorifero e una modesta vetrina in cui erano custoditi i farmaci.
Newell mi elargì un sorriso. Inquietante.
- Allora Tallish, che ne dici di…? – indicò con lo sguardo lo spazio in cui ci trovavamo.
Alzai le sopracciglia fino a farle arrivare all’attaccatura dei capelli, per così dire.
- Esponi la tua grandiosa idea – lo esortai, cercando di tenere i nervi saldi.
- Nel frattempo curo le mie ferite – portai la borsa del ghiaccio sul coccige. Una sensazione piacevolissima mi abbracciò, e mi fece produrre un sospiro di piacere.
- Non per sembrarti uno che ha il cervello tra le gambe, ma sembrava un orgasmo. -
- Sbaglio, o dovevi esporre la tua grandiosa idea – digrignai fra i denti. Possibile dovesse essere così diretto?
- Be’ vedi questo letto? – posò la mano sul lenzuolo e diede qualche colpetto, proprio come fanno vedere nei film.
- Sì. – Roteai gli occhi al cielo.
- Che ne dici di sederti? E… parliamo? –
Non capivo dalla sua espressione se mi stesse prendendo per i fondelli o fosse il suo modo di approcciarsi alle ragazze. Mi chiedevo anche se queste ultime cascassero in proposte del genere.
- A parte che tra poco torna la dottoressa e seconda cosa: mi spieghi che idee ti passano per la testa? -
- Oh, Tallish, fai tanto la saputa e poi non arrivi alle cose? -
- Newell, non mi hai mai notata e oggi è tutto il giorno che mi sei appiccicato. Ti sei reso conto o pensi solo a contarti i peli pubici? – Mi scappò di bocca e non appena lui comprese, fece una smorfia, confuso.
- Tallish, fattela una sana scopata e non scassare la minchia. Stavo scherzando, ma a quanto pare, con te, non si può fare nemmeno quello. Io vado. -
Rimasi lì ferma e quasi il dolore al coccige non lo sentii più. Quasi.
Cercai di occupare la mente in altro, così mi diressi verso la cornice d’oro contenente la fotografia di quel signore occhialuto che sembrava tanto simpatico…
- Ehi, come stai? – la Wyatt si affacciò alla porta e io le sorrisi riconoscente.
- Adesso molto meglio… - continuai a fissare quell’anziano.
Entrò nell’infermeria e si avvicinò alla sottoscritta.
- Era mio padre – rispose alla mia domanda inespressa, con un amaro sorriso.
- Oh… mi dispiace - dissi solamente.
- Quel tipetto chi è? Il tuo ragazzo? – domandò sottovoce, con fare cospiratorio.
Cambiò argomento per il tasto dolente che ero andata a toccare involontariamente, pensai.
- Oh no! No, assolutamente! – gesticolai con enfasi, sentendomi un po’ accaldata. Una reazione dovuta all’imbarazzo di quella supposizione.
- Ti ha fatta cadere lui, vero? – chiese illuminandosi come un alberello di Natale.
- Sì, più o meno – risposi vaga. – Ora devo andare o mi danno per dispersa. Buona giornata! – e uscii di scena.
- Anche a te, cara. -
Fui costretta a tornare indietro perché mi stavo portando dietro la borsa del ghiaccio.
- Ho dimenticato questo! – enunciai, lanciandoglielo contro per la fretta e senza averci pensato. L’oggetto le sfiorò di striscio la testa.
- Mi scusi! – le urlai costernata ed avanzai in fretta e furia verso la classe di Mrs Keogh.
 
Mentre percorrevo il corridoio, la campanella suonò e mi recai in aula di geografia.
Il professor Janel aveva pochi capelli in testa e faceva di tutto pur di renderli più visibili. Si faceva la tinta nera una volta al mese e dato che aveva le sopracciglia marroni, si vedeva palesemente la differenza. Gli occhiali spessi come fondi di bottiglia con una montatura arancione campeggiavano sul suo nasone.
Non erano tanto gli occhiali il problema, ma il superbo pelo che gli usciva dalla narice destra. Un’ex compagna, che era con me in prima superiore, gli aveva comprato un paio di forbicine e gli aveva consigliato di tagliarselo una volta per tutte. Lui le aveva messo una nota e da quel giorno non fu più possibile posare lo sguardo lì per più secondi o iniziava a sbraitare come un dannato.
Durante le interrogazioni non era semplice per nessuno evitare di guardarglielo, sembrava che ci dicesse “Guardami, guardami come cresco fiero!”.
Mr Janel fece l’appello e annunciò che doveva interrogare. Tutti finsero di non aver ascoltato e si misero a fare gli affari loro, cosa che accadeva di consuetudine.
- Su, signorina Tallish, esca lei – mi esortò sorridendomi in quel modo strano.
- Prof, devo prima ripassare se vuole una bella interrogazione -
Sbuffai controvoglia. Il giorno prima non avevo studiato insolitamente, se mi fossi fatta interrogare avrei probabilmente abbassato la media.
La pigrizia genera solo brutte cose.
- Metto F! – minacciò me e subito dopo si avvicinò a qualche altro studente che era seduto sul banco, incurante di cosa accadeva nell’aula. Loro si tolsero gli auricolari e lui diede un urlo di rabbia.
- Se non vi mettete al vostro posto vi metto la nota! -
Keira, una ragazza nuova, mi toccò la spalla.
- Sì? – dissi un po’ altera. Avevo iniziato a fare pensieri sul mio futuro fallimento scolastico generale perché non avevo studiato geografia. Un po’ tragica, che ne dite?
- Oh, scusa… volevo sapere se fa sempre così questo prof. -
- Purtroppo sì – e le raccontai della storia del pelo.
Lei fece una risatina cristallina e io le sorrisi di rimando.
Mr Janel tornò alla cattedra e prese il suo registro impugnando con fare teatrale la penna, minacciando note a tutto spiano.
- Jack, metti via subito l’accendino! – rimproverò il ragazzo, il quale trovava divertente usare il fuoco. Da grande avrebbe fatto carriera come piromane, chissà.
- Siamo in una scuola non in una camera da letto – disse Dana, una compagna, ai due piccioncini Nina e Isaac, dando manforte al professore. Difatti stava solo sfottendo Mr Janel.
I miei compagni furono riscossi dall’ondata di curiosità e puntarono i loro sguardi sulla coppietta.
- Vai così Isaac – fecero subito dopo in coro. Chi fischiava, chi spronava, chi rideva.
Il ragazzo agitò il pugno in aria per poi portarsi Nina sulle gambe.
Le poche femmine presenti ignorarono la vicenda, eccetto Keira ed io, che stavamo svolgendo la funzione di spettatrici.
- Vi sembra il modo!? – Il pelato andò verso di loro e prese per un braccio Nina.
Keira ed io gememmo di spavento. Con tutta quella suspense che c’era, era quasi d’obbligo.
La fece alzare in piedi e la costrinse a sedersi due banchi più in là.
- Una punizione crudele, né? – dissi sarcastica a Keira.
- Davvero crudele – rispose stando al gioco.

Le altre ore trascorsero in un batter d’occhio. Alle quattro potevo finalmente tornare a casa, ma qualcosa mi frenò.
Detenzione.
Mi presentai pochi minuti dopo “all’aula-carcere”… non era altro che una normale stanza come tutte le altre dell’istituto.
Bussai e chiesi il permesso.
- Avanti – udii all’interno. Era una voce roca e risoluta.
Spalancata la porta non potei che fare lo stesso con la bocca. Il professore era qualcosa di divino, o più.
Due occhi celesti che non avevano nulla da invidiare al cielo e due labbra rosee semplicemente irresistibili.
Cos’era successo? Vi erano due teorie: o la scuola nella notte si era popolata di fighi, oppure i miei ormoni di adolescente avevano iniziato ad ingranare e dunque ora era più attenta (e attratta) dalle persone di sesso opposto.
Avevo le gambe molli come un budino, di quelli tanti mollicci intendo.
E mentre lo guardavo sembrava che il mondo a poco a poco sparisse. C’erano solo i suoi occhi e i miei.
Certo, non avevo smeraldi, zaffiri o diamanti al posto delle pupille… erano color cacca, ma forse lui ci vedeva della cacca bella.
- Muoviti – disse scazzata una voce, ormai a me, ben nota per poi spingermi di lato per passare.
Rischiai di inciampare per la seconda volta a causa sua, ma per qualche strano motivo riuscii a non permettere che accadesse.
- Sta bene? – disse il mio principe azzurro.
- Io? – domandai, guardando dietro di me per vedere se stava rivolgendo davvero la parola a me; lui annuì - Sto alla grande! – risposi euforica.
Il professore mi guardò sconcertato, indeciso se credermi o meno. Tanto meglio. Mi piaceva che mi guardasse. Santi numi: trovavo piacevole una cosa del genere! Ma che diamine stava succedendo al mio corpo?
- Signorina? –
Mi sentii completamente febbricitante. Il solo pronunciare il mio nome era qualcosa di paradisiaco.
- Mi dica prof – proferii con voce fioca.
- Può entrare e chiudere la porta, se non le dispiace? – domandò con un sorriso carino – carino!?  - e al contempo preoccupato.
Mi stava elargendo uno di quei sorrisi quando qualcosa suscita pena? Io gli facevo pena? Gran figlio di puma!
Afferrai con stizza la maniglia e sbattei bruscamente la porta.
- Così si trova più a suo agio prof? – chiesi burbera.
Lui scioccato, stette zitto. Mi stava volutamente ignorando? Gliel’avrei fatta pagare a quel pumiciattolo!
Così mi accomodai in prima fila di fronte alla cattedra.
Lui portò le labbra alla bocca e se le leccò in modo approssimativo, per girare con maggior facilità le pagine del giornale. Io scossi la testa più volte per non farmi ipnotizzare dalla sua bellezza.
Misi in atto il mio piano: appoggiai i gomiti sul piano e il viso sulle mani aperte. Rimasi così per parecchi minuti, intenzionata  a metterlo in soggezione.
- Si sta rendendo conto signorina Tallish che sta dando spettacolo a tutti i presenti coi suoi modi eccentrici e fuori luogo? Non so lei, ma io, al suo posto, mi sentirei ridicolo. –
Come faceva a sapere il mio cognome? Lo scrutai con più accuratezza e notai che stringeva i bigliettini gialli della detenzione.
La ciliegina sulla torta fu la risata di Newell che ruppe il silenzio. Non fu il solo, infatti anche un ristretto numero di ragazzi si stava divertendo.
Wow, era bastata davvero una giornata a capovolgere la mia situazione? L’attimo prima ero una semplice scolara che adempieva al suo dovere e l’attimo dopo ero lo zimbello dell’aula della detenzione.
- Io… io… - mormorai incapace di proteggere la mia dignità.
- Io… io… - mi scimmiottarono gli altri ragazzi.
Gli occhi mi divennero lucidi, ma promisi di non lasciarmi sopraffare dalla vergogna. Fu colpa di una frazione di secondo che Newell vide i miei occhi gonfi di lacrime. Posso dirlo con certezza, perché si fece di colpo serio.
Cazzo.
- Mi è permesso andare ai servizi? Sa, noi donne abbiamo le nostre cose da sbrigare nella toilette – informai l’insegnante con la consueta impertinenza. Dovevo mostrare determinazione e strafottenza.
- Certo, signorina – affermò con fare superiore.
- Figlio di puttana – sussurrai, in modo che non mi udisse, mentre mi accingevo a raggiungere la porta.
- Cos’ha detto? – chiese lievemente alterato.
- Nulla. – Feci una risata falsa. - Ha così voglia di conversare con me, da sentirmi parlare? -
- Stia zitta – enunciò esasperato.
- Sissignore – feci il saluto militare e uscii finalmente dall’aula.

 
ANGOLO AUTRICE:
Buon pomeriggio a tutti!
Siamo solo all’inizio, ma eccovi introdotti dei personaggi nuovi.

Spero che questo capitolo sia stato di vostro gradimento. Fatemi sapere le vostre opinioni in merito.
Cosa accadrà prossimamente? ^^

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


Capitolo 3

Uscita dall’aula mi fiondai in bagno. Avevo la vista completamente offuscata dalle lacrime, che imperterrite si materializzavano e scivolavano giù dalle mie guance. Tentai invano di arrestare la loro corsa, ma era impossibile. Sembrava quasi che si imponessero, mentre io volevo solo inghiottirle. Mi osservai allo specchio e poi tutto mi fu chiaro. Due occhi marroni anonimi, un naso un po’ troppo grosso per il mio viso e delle labbra nella norma. I capelli castano-dorati mi cadevano poco sotto le spalle privi di una forma definita. Ero alta un metro e sessantatré centimetri, troppo bassa per essere distinta dalle altre e possedevo una voce da bambina di dieci anni, che poteva solo suscitare ingenuità. Non ero neanche magra giusta, ero troppo tonda e nei punti sbagliati.
Come potevo pretendere di piacere a qualcuno, quando io stessa mi disgustavo?
I sedici anni erano il punto di svolta di molte ragazze che conoscevo, o meglio di quelle che si trovavano nei libri, (soprattutto fantasy). Mi osservai con attenzione allo specchio con la mia divisa scolastica: una gonna scozzese blu e bianca, una camicetta bianco candido, delle calze bianche che salivano quasi al ginocchio e delle scarpe nere che mi facevano il piede ancora più lungo di quel che era.
Non era certo un abbigliamento che mostrava i miei punti forti, ammesso che ne avessi. Mi appoggiai al lavandino saldamente e presi un profondo respiro. Volevo assolutamente reprimere una volta per tutte quei pensieri avvilenti e umilianti che si affacciavano alla mia mente. Ma c’era più possibilità che piovessero soldi, al fatto di incrementare la mia autostima.
Okay, un respiro non è bastato… vorrà dire che ne farò tanti fintantoché mi calmi.
Dopo aver appurato di essermi lasciata alle spalle quei brutti pensieri, aprii il rubinetto optando per dell’acqua ghiacciata e mi rinfrescai il viso. Un brivido mi corse lungo la schiena… e non fu per l’acqua. Una voce calda aveva spezzato il silenzio.
- Ehi – esordì con sfacciataggine.
Lasciai scorrere l’acqua finché riuscii a riscuotermi dal mio stato pietrificato. Inghiottii la saliva rumorosamente e chiusi il rubinetto.
- Che caz-che cosa vuoi? – domandai, guardando Newell con circospezione. Non si era divertito abbastanza di me? Voleva il bis?
- Volevo sapere come… stavi – notai la palese esitazione. Era la prima volta che chiedeva a qualcuno come stava? Sbruffone.
- Una meraviglia! – risposi con enfasi, accompagnando la risposta con un sorriso tirato. Forse era tanto idiota da cascarci.
Mentre lui cercava faticosamente di aggiungere qualcosa, io presi una salvietta di carta e mi asciugai il viso. Non c’erano rimasugli di alcun make-up, essendo io incapace di applicarmi persino la matita per occhi.
Sentii qualcosa alle mie spalle, e capii dopo qualche istante che fosse lui. Grazie a Dio, non c’era traccia di alcun bidello, o non l’avrebbe passata liscia. Il suo inconfondibile petto solido aderì perfettamente alla mia schiena e le sue braccia mi portarono più vicino a lui.
- Mi spiace – mormorò al mio orecchio; percepii le sue labbra quasi sfiorarmi il lobo. Voleva mandarmi al manicomio, questa era più che certo.
- Ah sì? – non riuscii a impedire che la domanda traboccasse di stizza. Ero ancora incazzata nera per tutto quello che era successo e ferita, tanto ferita.
- Sì, sono dispiaciuto. Non avrei dovuto consigliarti di scopare e non avrei dovuto tantomeno scoppiare a ridere mentre quel coglione ti ha ripresa in modo così crudele. E… sì, avrei dovuto aiutarti quando ti sono andato addosso volontariamente questa mattina. – Lasciai cadere la salvietta usata a terra, senza accorgermene.
- Cosa? Ripeti l’ultima parola. –
- Mattina? – disse lui, stringendomi ancora più a sé per confondermi. Non lo facevo così intelligente!
- No, l’altra – dissi risoluta. Anche se la risolutezza era l’ultima cosa che volevo usare in un contesto del genere.
- Questa? – tentò nuovamente di sviarmi. Quel… quel… Dio greco mi posò un bacio sul lobo! Traditore!
- Quella ancora prima – dissi con una voce che non mi apparteneva. Era roca.
- Non vuoi sentirlo davvero – affermò lui, ridendo sommessamente.
- Oh, ti sbagli… lo voglio sentire con tutta me stessa – controbattei con maggior impeto.
Nessuno dei due si accorse di come poteva sembrare equivoco il nostro scambio di battute.
Una ragazza fece irruzione nella toilette: Abigail Qualcosa. Era stata sbattuta in detenzione per le sue bravate da gossippatrice, della serie “o fai qualcosa per me, o sbandiero il tuo segreto a tutta la scuola!”. Ci finiva in media una volta a settimana. Non ci poteva fare nulla, il gossip le scorreva nelle vene.
Fu per questo motivo che, quando scorsi il suo viso apparentemente angelico, mi tramutai in sasso. Porcospino. Dannato spinoporco. E ora che scusa potevo inventare? Newell mi era finito addosso e io mi ero spalmata della colla sulla camicetta e per questo ci trovavamo appiccicati? Lasciai perdere: era una battaglia persa in partenza.
Quando voltò la testa verso di noi, arricciò le labbra in un sorriso malizioso. Te pareva.
- Ma guarda chi si vede – esordì. Sempre a esordire e nessuno che salutava, che maleducazione.
- Finner, come te la passi?  – Abigail Finner era finita nella seconda aula di detenzione, realizzai. Ebbene nel nostro istituto si veniva puniti così soventemente che ne servivano due di classi dove scontare la detenzione.
 - Non c’è malaccio, pensa che ho scoperto che la prossima settimana approderà nella nostra scuola Zachary Miller. –
Newell non si era spostato di un millimetro e ascoltava la ragazza con acceso interesse.
- Come hai fatto ad ottenere un’informazione così top secret? – chiese, leggendomi nel pensiero.
- Non sai quante cose si riescano a estorcere ai professori! Non li ho minacciati o sarei finita in un tribunale, ma è bastato rompergli il cazzo per un’ora buona e non hanno saputo trattenersi oltre. –
Guardai allibita la ragazza. Come potevano due occhi azzurri così limpidi e quel sorriso sghembo poter appartenere ad una persona del genere? Perché io invece dovevo rassegnarmi ad essere così? Nella prossima vita mentre Dio avrebbe distribuito la bellezza mi sarei accodata lì, altro che l’intelligenza!
- Comunque credo di aver interrotto abbastanza. Tornate pure alla vostra sveltina. – Ci fece un enorme sorriso abbagliante, ma la fermai.
- Abigail, noi… non stiamo facendo nulla… -
- Shh, io non ho visto nulla – mi fece l’occhiolino poco prima di sparire.
- Qual è il problema se lo sa qualcun’altro? Infanga la tua impeccabile reputazione? – cercò di fare il simpatico.
Mi girai verso di lui, ma sembravamo vittime di una qualche legge di attrazione. Lui incombeva sulla mia figura, le mani posate ai lati del mio capo e io addossata alle piastrelle del muro.
- Ma noi non stiamo facendo nulla per davvero – continuai per poi fare una pausa. – Guardaci.-
- Tallish, sei sempre così petulante? Perché non segui il tuo cuore? – Stava scherzando? Non eravamo in uno di quei film di Nicholas Sparks dove frasi di questo stampo venivano messe un po’ dappertutto e dove qualcuno doveva per forza schiattare.
- È proprio quello che sto cercando di fare, baka. – Lovely Complex era da sempre stato il mio anime preferito. (Baka: idiota in lingua giapponese.)
- Bata? –
- Non puoi capire, io sono troppo acculturata per te. –
- Allora mi spieghi come mai questa acculturata non riesce a resistere al mio charm? – Si fece di colpo più vicino. I nostri nasi si sfioravano. I miei occhi dovevano rimanere aperti. Rimasi in silenzio.
- E se ti baciassi? – soffiò sulle mie labbra, a due centimetri di distanza.
- Che cosa sta succedendo qui? – ringhiò una voce a me ben nota. Il professor Qualcosa. Oh porca troia.
Sgranai gli occhi in preda alla paura totale, nella faccia di Newell c’era solo un po’ di scocciatura per l’ennesima interruzione.
- Saremo sospesi? – chiesi, con un briciolo di speranza.
- Se nel giro di qualche secondo vi troverò in classe, fingerò che non sia accaduto nulla nel bagno delle ragazze. –
- Graz…- stavo per porgere i miei ringraziamenti quando lui mi interruppe con un “Sparite ora, o cambierò idea”.
Fuggii rapida e mi trovai già in classe. Aprii la porta e Newell mi sospinse dentro con dolcezza.
- Avete usato le giuste precauzioni? – domandò uno dei ragazzi presenti con una faccia da schiaffi.
Non resistetti dal mandarlo al diavolo. Non era mia intenzione, ma ormai avevo perso la pazienza.
- Che…? – proferì Newell apparendo molto… stupido, ecco.
- Abigail ha inviato un messaggio a tutti. Ha detto che lui ti stava spalmato addosso e tu hai fatto così: “Oh, sì che voglio sentirlo!” Non ti facevo così porca. – Mi fece un occhiolino. Mi assalì un attacco di nausea quando ripercorsi a ritroso il nostro ultimo scambio di battute.
Il professore fece ritorno e diede una sbirciata al suo orologio da polso.
- Bene ragazzi, potete prepararvi. Tra cinque minuti sarete liberi di tornare a casa. –
Tutti fecero un sospiro di sollievo, eccetto io, che non avrei voluto più tornare in quella scuola. Non ce l’avrei fatta, perlomeno non ora che le cose avevano preso una brutta piega.
Newell era raggiante d’altra parte. Si infilò la giacca e mi sorrise. Baka.
Quando la campanella trillò mi strinsi nelle spalle e attraversai il corridoio, cercando di evitare le occhiate indagatorie degli altri.
Il giorno dopo sarei stata sulla bocca di tutti, forse anche sul giornalino scolastico, (vi era una rubrica dedicata al gossip, per la gioia di Abigail).
Tenni il passo lungo e veloce, per allontanarmi al più presto da tutto e da tutti. Ma non avevo calcolato il fattore determinante, Newell. Con mio grande rammarico mi afferrò il polso per farmi voltare verso di lui.
Non volevo vederlo, non volevo ascoltarlo, tutto era partito da lui e togliendomelo dai piedi sarei tornata alla monotonia delle mie giornate, così speravo.
- Lasciami – ordinai incerta, strattonando il polso. A quanto pareva non voleva mollare la presa.
- Che ti è preso adesso? – Osava chiedermi cosa c’era che non andava? Repentini cambi di  umore avrei risposto se fossi stata in vena di scherzare.
- Facciamo il punto della situazione, d’accordo? Oggi sono arrivata a scuola e mi hai fatto cadere la roba a terra senza preoccuparti di aiutarmi, mi hai fatta cadere nuovamente per terra facendomi venire un dolore atroce al coccige e mi sono beccata la detenzione, sono stata smerdata dal prof Qualcosa e Abigail Finner ha fatto sapere a tutti che abbiamo scopato, cosa non avvenuta, inoltre il prof Qualcosa ci ha visti mentre stavamo quasi pomiciando, quasi. E un tizio mi ha appena affibbiato l’aggettivo di porca. Cosa mi sarà preso? –
Newell abbassò gli occhi. Non mi biasimava.
- Ora vorrei solamente starmene per i fatti miei, e fingere che tutto questo non sia successo se non in un incubo. – Sorrisi mentre volevo nuovamente piangere o fare a botte con un sacco di persone.
- Mi hai incontrato però… - Lo guardai truce.
- Incontrarti è stata la cosa peggiore del mondo! – affermai esasperata. Quando vidi il suo sorriso spegnersi capii di aver detto una cattiveria.
- Cameron… - mormorai.
- Oh, non ti disturbare a usare il mio nome. Non ti starò più fra piedi se è questo che desideri. –
Si girò e prese a camminare verso casa. Impotente, mi maledii per averlo ferito così brutalmente. Rima idiota.
 
Giunta nella mia dimora, il mio patrigno Douglas stava facendo le sue lezioni di pilates esibendo il suo corpo tonico e snodato. Sentitami arrivare premette il tasto Stop e mi lanciò una lunga occhiata.
- Tesoro caro, come mai sei arrivata così tardi a casa? Io e tuo padre ci siamo preoccupati parecchio. Non hai avuto nemmeno la premura di inviarci un messaggino. – Mi rimproverò mettendosi a braccia conserte.
- Mi hanno messa in punizione, un’ora di detenzione… - dissi grattandomi la nuca in imbarazzo.
- Su tesorino, non stare sulla soglia che ti prendi freddo. Da brava, chiudi la porta, ci prendiamo un bel tè e mi racconti com’è potuta succedere una tale follia. –
- Papi, non sono proprio in vena di parlarne. Voglio solo chiudermi nella mia stanza e piangere tanto. – Gli propinai un sorriso che aveva un nonsoché di triste.
- Oh angelo mio, posso fare qualcosa? Una torta? Dei biscotti? –
- No, ma grazie del pensiero. -


ANGOLO AUTRICE:
Buonasera popolo di EFP!
Che ne dite di questo capitolo?
Cameron Newell non ha un cuore di pietra come vedete... è un semplice adolescente dotato di fascino.
Questo professore Qualcosa, (il nome non si è ancora scoperto a causa delle circostanze), ha impedito che si baciassero. Non che sia una nota negativa, sono degli estranei, eh!
Come avete letto finora, i due co-protagonisti si conoscono da meno di ventiquattr'ore. Non perché sia il primo anno, bensì perché appartengono a mondi paralleli. La nostra protagonista l'aveva notato il giovanotto, insomma cotanta bellezza non poteva essere ignorata, ma per diversi motivi non aveva indagato su di lui. Questa Tallish è una anonima personcina che cerca solo di trovare un posto nel mondo, ecco. Si sono incontrati accidentalmente (nonostante io stessa sostengo che Il Caso non esista).
Abigail Finner non è una ragazza facile, nel senso che cercare di farla tacere è una vera e propria impresa.
Non credete che l'informazione spiattellata da quest'ultima sia stata buttata a caso...
Lasciate una recensione per dirmi se la storia vi sta piacendo, se sto peggiorando, se ci sono errori grammaticali/lessicali, una trama inconsistente... qualsiasi cosa. Vorrei che ognuno si possa sentire libero di dire la sua. Non mangio nessuno, prometto.
A me fa piacere che i lettori si facciano sentire, anche con messaggi personali, davvero! Vi aspetto ;)

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Capitolo 4
*** Capitolo 4 ***


Capitolo 4
 
Mi chiusi a chiave in camera mia. Finalmente potei abbandonare la mia corazza, era diventata troppo pesante. Le calde lacrime, in quel momento, mi parvero persino confortanti tanto che mi scappò un sorriso di sollievo, come se potessero in qualche modo alleviare il dolore provato. Mi adagiai sul mio letto a una piazza e mezza e serrai gli occhi nella fioca speranza di fare bei sogni. Morfeo accolse la mia richiesta ben presto.
 
- Naomi – Mi sentii chiamare in lontananza. Ignorai la voce.
Subito dopo la porta fu tartassata da colpi, ignorarlo stava diventando impossibile. – Apri! -  gridò mio padre James.
No, non ho sbagliato nome. Io ho due papà. Forse vi starò confondendo dato che vi ho accennato anche di una mamma…
Partiamo dal principio: papà James e mamma Lauren si amavano (almeno credo) tanto che un giorno ebbero la sensazionale idea di non usare il preservativo e, dal loro incontro erotico (dalla fecondazione, per essere più tecnici), nacqui io. Rendetevi conto: fui io il più rapido spermatozoo che risalì le tube di Faloppio e irruppe nella cellula uovo matura! Ammetto che dovevano essere delle schiappe assurde, gli altri spermatozooi, per essersi fatti battere da una come me, che lo sport lo guardava solo seduta comodamente davanti al televisore.
Due anni fa il mio papà annunciò a mia madre di volersi separare. Mia mamma non ne voleva sapere, lei lo amava. Si era arrovellata su quale fosse stato il pretesto per indirizzarlo in quella scelta, ma senza alcun responso. Dopo l’inevitabile separazione mio padre si trasferì non molto lontano dalla nostra casa. Mia mamma era arrivata a fare cose esagerate: lo spiava appostata in auto, talvolta si portava un panino che fagocitava nell’abitacolo, sacrificando i giorni di riposo per mettersi sotto casa sua per smascherare la presunta amante. Inizialmente non vedeva nulla di sospetto, solo un uomo palestrato con un sorriso abbagliante. Li vedeva uscire, (be’, fin qui nulla di anomalo), oppure papà lo faceva entrare in casa. Fu solo qualche mese dopo che accadde una cosa inaspettata. Un giorno vide James correre in direzione dell’amico, afferrarlo per le spalle per poi spalmarlo sulla porta di ingresso, incurante dello scalpore che avrebbe potuto suscitare. Lo baciò con foga, impeto e passione. In quell’istante il cuore di mia madre si ruppe in mille pezzi.
Tutto questo fu lei stessa a raccontarmelo una settimana dopo l’accaduto. In un primo momento era restia a parlarmene per molteplici motivi, ma alla fine aveva deciso di aprirsi.
Ricordo che è stata l’unica volta in cui l’ho vista piangere. La mia mamma era così forte, così determinata, così lei. Un esempio migliore non l’avrei potuto chiedere.
Da quanto ne avrete dedotto, Douglas era l’attuale compagno di mio padre. Non si erano (ancora) sposati, ma Doug continuava imperterrito a suggerire al mio babbo su Facebook delle pagine di matrimoni e lune di miele. Confessione fattami da quest’ultimo con tono amareggiato.
Alla fine arrivarono ad un accordo: io avrei continuato a risiedere con mia madre dal lunedì al venerdì; il week-end invece lo trascorrevo nell’appartamento dei miei papà. E a me andava bene così. Non nutrivo alcun rancore per Douglas, anzi, mi sembrava un tipo a posto. L’unica cosa che però non mi andava a genio era lo stato di mia madre. Inizialmente sembrava si stesse riprendendo da quello che era successo, da due anni a questa parte e invece…
Poco tempo dopo che avevo iniziato la seconda superiore, lei aveva cominciato a irritarsi per sciocchezze, accusava un lancinante dolore che “le martellava la testa” e la perdita di sonno. Rimaneva sveglia anche fino alle quattro, constatai parecchie volte guardando l’ora sul cellulare. La notte spesso sentivo delle voci e intuivo si stesse guardando la tv. Alcune settimane dopo stavo cercando le strisce depilatorie e trovai una scatola dove vi era scritto Valium Diazepam dov’erano contenute delle pillole. Feci una rapida ricerca su Google e scoprii con orrore che fossero compresse per chi soffriva di depressione. Sapevo che la depressione non era una cosa da prendere alla leggera, ma non avevo idea di come comportarmi, ero agitata e in ansia per lei. Fu la preoccupazione per la mia genitrice che mi fece distrarre, portandomi il giorno dopo al mio scontro con Newell.
Ritorniamo a mio padre biologico che stava gridando come un dannato per farsi aprire.
- Che c’è, babbo? – mugugnai con la voce impastata dal sonno.
- Doug mi ha appena riferito che sei stata in detenzione. Ma che diavolo hai combinato? – chiese furibondo.
Mi misi a sedere fissando la porta con astio. Dannato panzuto, pensai. Eh sì, mio padre aveva una pancia enorme, che se fosse stato donna gli avrebbero tutti fatto le felicitazioni credendolo incinto.
- Babbo, ti prego, non voglio parlarne. – Mi gettai sul letto a peso morto.
- Signorina, noi dobbiamo parlare. Su-bi-to. – Bussò una decina di volte sulla porta. Mi venne il tic all’occhio sinistro. Era decisamente snervante.
- Babbo, non sillabare perché mi ricordi quei gay che si vedono nei film. Così glamour, sai – dissi per sdrammatizzare.
- Signorina, non fare dell’ironia! Apri questa cazzo di porta o la sfondo. –
Sgranai gli occhi spaventata. Mi alzai automaticamente, girai la chiave nella toppa e udii il sonoro clack.
Prima che lui potesse aprire bocca, sentimmo la voce di Doug rimproverarlo. – Jem, in questa casa le volgarità non entrano. La prossima volta ti faccio dormire sul divano. –
Trattenni a stento un risolino, Doug era adorabile, soprattutto in questo momento.
James si mise a braccia conserte, (era un’abitudine dei gay?) e mi fissò a lungo. In risposta inghiottii la saliva.
- Ora mi spieghi che ca… volo hai fatto. In detenzione, eh? La prossima volta ti troverò dietro le sbarre a doverti pagare la cauzione? – Era paonazzo e sembrava uno psicopatico, manco avessi commesso un crimine!
- Certo che no! Ma per chi mi hai preso? Se vuoi ti racconto anche tutto, a patto che tu non mi sbraiti contro! – dissi alterata, fissandolo male.
- Anche tu non scherzi, bimba mia. –
- Ora non fare il ruffiano, chiamandomi così. Con me non funziona, lo sai – risposi, fingendomi offesa. Okay, io e mio padre eravamo una causa persa. Un duo squinternato.
- E va bene, sono tutto orecchi. Farò il bravo, ma tu non omettere nulla. – Sorrisi sincera, per poi dargli un buffetto sulla guancia. Presi il suo braccio e lo trascinai con me in camera.
- D’accordo, però preferisco sfogarmi in cameretta. –
- Ma non devi mica sfogarti! Semmai devi confessarti – disse serio.
- Non ricominciare o mi cucio la bocca – minacciai indicandomi con l’indice quest’ultima.
Troppo squinternato…
 
Lunedì tornai a scuola col sorriso sulle labbra e i compiti rigorosamente eseguiti. Avevo un’energia positiva che mi avvolgeva a mo’ di involucro. Mi sentivo così bene dopo quella chiacchierata con babbo e Doug che mi dimenticai di un certo elemento.
Presi il libro e il quaderno di chimica e mi incamminai per la classe. Ero così allegra tanto che mi persi a fissare il paesaggio che si scorgeva dalle ampie finestre… e inciampai in un oggetto non identificato. Avevo la certezza che mi sarei spaccata la faccia, ma qualcuno prontamente mi tenne sollevata, mancava poco che avrei avuto un incontro ravvicinato col pavimento (lercio). Alzai lo sguardo e Bontà divina! C’era uno gnocco biondo occhi azzurri. Non era il solito biondo occhi azzurri. Era Il biondo occhi azzurri. Quel biondo occhi azzurri… ok, mi riprendo.
OLIVER POSEY. Per poco non mi venne un infarto. Se avevo ereditato il gene¹ dello scontrarmi con tipi gnocchi? Avrei dovuto fare volontariato o cose del genere per sdebitarmi col Creatore?
Spazzai via quel pensiero caritatevole che era sbocciato in me e pensai che era merito del Destino, (per rendermi la vita più semplice, in sostanza). Quel giorno mi ero truccata. Non chiedetemi perché, era stato un impulso. Mi ero messa matita, mascara e lucidalabbra trasparente. Feci ovviamente fatica con la matita, ma dopo numerosi sforzi avevo conseguito un risultato piuttosto soddisfacente.
Mi trattenni dal fargli un’appassionata serenata. Ma la mia bocca fremeva, capitemi.
- Piccola, non ti ho mai vista. Sei nuova? – Oh mio Dio. Oliver Posey mi stava parlando. Mi stava facendo una domanda. E mi aveva chiamata “piccola” in modo troppo sexy.
- Io… s-sì sono nuova. – Mentii. C’era una ragione se lo feci. Lui non mi conosceva perché ero un’emarginata e anonima ragazzina di sedici anni. Se gli avessi fatto sapere di essere una di quelle che non se le caga nessuno mi sarei data la zappa sui piedi. Mentire  non era così terribile in fondo.
- Da dove vieni? – chiese premuroso, e le sue fossette presero vita ai lati delle guance, perfette come lui.
-York – dissi sicura, pregando Iddio che non mi avrebbe scoperta.
- Questa York o New York? – domandò con un sorriso mozzafiato.
- Questa – dissi sbattendo le ciglia. Stavo facendo la civetta per la prima volta in vita mia. Facevo progressi!
- Ma siete tutte così a York? – Ora stavo andando in panico. Credeva che fossi una troia perché avevo civettato?
- C-così come? – La mia voce vacillò un po’.
- Così carine ed eleganti – rispose lui strizzandomi l’occhio.
Io feci un respiro di sollievo “dentro di me”, e risposi: “Non saprei.” E feci una risata cristallina proprio come fece Keira quel giorno in classe.
- Che ne dici di sederti con me e il mio gruppo a mensa? Mi farebbe molto piacere conoscerti… -
Era il più popolare dell’istituto e anche i suoi amici (malgrado non conoscessi i loro nomi) non scherzavano in questo. Farmi vedere in pubblico come “la ragazza nuova” avrebbe sicuramente attirato l’attenzione, facendo sì che mi smascherassero nel giro di pochi minuti. Dovetti quindi obbligatoriamente dissentire.
- Farebbe piacere anche a me, ma preferisco di gran lunga la tranquillità. – In parte era vero, odiavo il caos, ma amavo la compagnia delle persone, (nonostante non mi sapessi inserire bene).
- Mmh, questa cosa mi piace – sussurrò fattosi più vicino – ma sarà un po’ un problema. A me piace far baldoria… – Quella frase sembrava traboccare di lussuria ben celata. Arrossii involontariamente.
- Io d-dovrei andare a lezione – dissi per togliermi da quella situazione insidiosa, insidiosa quanto le sue parole che mi risuonavano nelle orecchie suadenti e cariche di promesse.
- Non così in fretta – affermò. Appoggiò il (mio) materiale della lezione sul piano di marmo di cui era provvista la finestra, attirandomi verso di sé. Io feci un gemito di sorpresa. La sua presa era così forte e protettiva. Possiamo restare per sempre così? avrei voluto chiedere.
Le sue mani si mossero veloci sul mio corpo, ma con gentilezza e premura. Come se fossero intente a toccare un oggetto prezioso e al contempo tanto ardito.
- Cosa stai facendo? – boccheggiai.
- Niente di che, ti sto solo conoscendo. –
La risposta mi lasciò di stucco. Non avevo idea di come interpretarla. Ero il suo nuovo giocattolino sessuale (non ancora divenuto tale) oppure mi stava esplorando per conoscere il mio corpo col tatto?
Alla fine non potei che scegliere la prima opzione. In fondo chi ero io se non un’adolescente come tante altre senza alcuna caratteristica particolare?
Mi divincolai dalla sua presa e riuscii solo a guardarlo con rabbia mentre mi allontanavo veloce.
Lui mi raggiunse in pochi secondi. Dovevo iniziare assolutamente a fare jogging, così nessuno mi avrebbe riacciuffato tanto in fretta. Anzi, per nulla.
- Ehi… – disse e la cosa mi fece rammentare quel mollusco di Newell – perché? –
Io mi girai verso di lui, con un sorriso amaro. Più del Crodino.
- Non voglio essere la tua prossima preda da sverginare. – Mi morsi la lingua con forza, un’informazione simile non avrei dovuto svelarla ad un ragazzo!
Lui spalancò la bocca, sorpreso. Poi allungò la mano verso di me, io mi ritrassi come se fossi stata scottata.
- Non mi toccare. –
Poi accadde tutto in un secondo: di slancio mi imprigionò fra le sue braccia muscolose. E mi strinse. Senza farmi male, fu solo un gesto carico di dolcezza. Volevo piangere di gioia, stretta nelle sue braccia; ma cosa avrebbe pensato? No, non lo feci.
- Va tutto bene – sussurrò solamente. Io lo strinsi più forte, quasi con disperazione.
- Fa paura stare in una scuola nuova, senza nessuno che conosci. Anch’io quand’ero piccolo subii un trasloco, ma era in prima media. Certo, ero più avvantaggiato perché da piccoli è tutto più facile, ma ero nella tua stessa situazione. – Mi sorrise teneramente. Mi chiesi cos’era tutta quella messinscena, perché, diamine, un ragazzo così non poteva esistere nella vita reale.
Io assentii col capo, incapace di comporre una frase di senso compiuto. Volevo solo dissetarmi dei suoi abbracci.
- Credo che ora dobbiamo andare in classe – fece una risata che mi scaldò l’anima, per poi staccarsi un po’ da me, guardandomi negli occhi. Ci stavo affogando lì. Poi mi riscossi: non poteva essere vero! Oliver Posey era troppo per me. Troppo bello, troppo bravo, scarseggiava un po’ in intelletto, ma da quel poco che avevo saputo vedevo un gran cuore. E io ero al sicuro fra le sue braccia? Non riuscivo a realizzarlo.
- Penso che hai ragione – concordai, rivolgendogli un lieve sorriso.
Si avvicinò pericolosamente al mio viso. Cheee? Mi stava baciando?
Falso allarme. Fu la mia guancia a ricevere quel bacio da delle labbra assai morbide.
- Alla prossima. Non vedo l’ora di rincontrarti! – mi disse allontanandosi, agitando il braccio in saluto.
Io mi munii del quaderno, del libro e dell’astuccio prima di scordarmene.
Volevo godermi la sua uscita, con un sospiro innamorato, ma dovetti comportarmi da persona educata.
- Ciao Oliver! – Lui si girò confuso.
- Hai detto Oliver? – gridò, data la lontananza.
- No, ho detto… Bomber! – lo rassicurai gridando a mia volta – perché?-
- Non fa nulla! – e continuò – Io sono Oliver Posey, tu? –
Se non fossi stata sbadata avrei potuto non trovarmi a dover inventare un nome su due piedi. Ah, stupida me!
- Gwendolyne
¹ Lowell – risposi ad alta voce.
- A presto Gwen – mi salutò nuovamente.
Ma quanto diamine durava il congedo?
- A presto Oliver – lo imitai, eclissandomi subito dopo. Non volevo tardare ulteriormente la mia entrata in aula di chimica.
 
Mentre ero preda all’estasi datami da quell’incontro, saltellavo leggiadra per il corridoio finché non vidi Ghost, il bidello.
- Signorina! – mi urlò, deciso a raggiungermi. Di nuovo avevo quel pazzo alle calcagna.
- Sto andando! Lo giuro! – dissi affannata, prossima alla porta.
Bussai una sola volta ed entrai. Gli occhi di tutti erano puntati su di me.
- Salve. – Strinsi i pugni a disagio.
- Esca di nuovo e aspetti che le dia il permesso. – Borbottò il prof Yalef, gettandomi un’occhiataccia risentita. Era fissato col rispetto in qualsiasi sua forma.
- Certo. Mi scusi. – Ma non ero per nulla infastidita, avevo altro per la testa in quel momento: Oliver Posey.


Note:
1. Un omaggio alla mia adorata Trilogia delle Gemme.


ANGOLO AUTRICE:
Buonasera popolo di EFP!
Ecco il quarto capitolo. Ho avuto dei piccoli intoppi col pc (si spegneva il monitor immotivatamente .-.), ma sono riuscita a pubblicare!
Spero che sia stato tutto chiaro, al massimo con una recensione o un MP mi chiedete ulteriori delucidazioni.
Ecco il nostro triangolo amoroso *_* Io amo quei due ragazzi, appunto perché nella realtà non esistono, ma son stati partoriti dalla mia mente tarata.
Lasciatemi una recensione per farmi sapere cosa vi è piaciuto e cosa invece no. Sono curiosissima. Vi aspetto ansiosamente. (Tra poco passo a rispondere alle vostre deliziose recensioni.)
Vi faccio i miei più sinceri auguri di buon 2015 (anche se in ritardo di ben 11 giorni!).
Buon proseguimento,

variopintadite

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Capitolo 5
*** Capitolo 5 ***


Capitolo 5
 
A lezione di francese Keira, dopo avermi fatto un cenno, si mise nel banco adiacente al mio. Non riuscii a smettere di sorridere neanche un attimo. Era un gesto molto gentile da parte sua, le ero molto grata.
- Grazie – le dissi, dopo essermi sporta verso di lei.
Keira mi guardò confusa e aggrottò le sopracciglia per potersi raccapezzare.
- Tallish, perché mi ringrazi? –
Che occhi!, pensai. Un blu cobalto spettacolare, come avevo fatto a non accorgermene?
- Per esserti seduta vicino a me… almeno, ho pensato che tu l’avessi fatto perché volevi stare con me. – Presa in un secondo momento dallo sconforto, iniziai a farneticare frasi senza senso.
Keira mi fece una carezza sulla mano, con fare materno.
- Ohi, certo che avevo intenzione di mettermi vicino a te! –
I miei occhi si illuminarono e, senza pensarci troppo, mi alzai dalla sedia e la strinsi in un abbraccio forte, arpionandomi a lei come un polipetto. La lezione non era ancora cominciata, l’insegnante stava ancora facendo l’appello, quindi non notò il nostro scambio di “effusioni” très amicales¹.
Una volta al mio posto, seduta ben composta, un bigliettino mi colpì l’avambraccio. Mi girai di scatto con uno sguardo interrogativo, ma il mittente mi sollecitò ad aprirlo.
- Su, daiii! – bisbigliò, elargendomi un sorrisetto accennato.
Lo aprii, curiosa di leggerne il contenuto.
 
Cara Tallish, non so il tuo nome *desolata*. A meno che tu non preferisca esser chiamata tout la vie² (per essere in tema con la lezione attuale) per cognome, scrivimelo qui:________________
Questo spazio invece è riservato al tuo numero di cellulare:_______________________
xoxoxoxoxo, (lol)
P.S.: Sai quanto rompa la prof se si fiata durante la sua lezione, così ho preferito scriverti anziché aspettare la fine dell’ora (;

 
Compilai i campi e quando la prof si voltò per scrivere qualcosa alla lim³ (la data di qualche verifica ipotizzai affranta), lanciai il bigliettino a Keira. Peccato che le arrivò dritto nell’occhio e non si astenne dal fare un gemito di dolore, attirando l’attenzione della classe.
- Scusatemi, una piccola fitta – si discolpò, pochi secondi dopo, per levarsi quegli occhi curiosi da dosso.
- Perdonami – sussurrai, sentendomi in colpa.
- Tranquilla – disse per poi farmi l’”ok” con la mano.
Dopo che la De Niège ebbe finito di segnare le assenze, Newell fece la sua entrata, accompagnandola ad uno strip-tease, o meglio, si levò la felpa in una sola mossa e nell’atto la maglietta si alzò, rivelando la tartaruga scolpita. Ci mancava solo che dicesse “Ragazze, la sapete la regola: potete guardare, ma non toccare!” come in Magic Mike. Film che non avevo assolutamente visto. Mh… okay confesso, l’avevo visto e mi era piaciuto! Io mi ero innamorata di Channing Tatum da quando l’avevo visto recitare in Dear John, quindi trovare il mio attore preferito mentre si spoglia in modo provocante era una manna dal cielo.
Tornando a noi, inevitabilmente tutte le ragazze non poterono non concedersi di ammirare il panorama.
Io sbuffai, roteando gli occhi al cielo. Quanto esibizionismo vigeva a scuola! Anche se di sfuggita gettai qualche occhiata per accertarmi che i suoi muscoli fossero tutti al loro posto…
Keira mi guardò e bisbigliò: - Guardala com’è piacevolmente sorpresa! –
Io girai immediatamente la testa verso di lei, e mi accorsi con stupore che le brillavano gli occhi. Povera professoressa De Niège, pensai tra me e me, probabilmente è da decenni che non vede un uomo in topless. Be’, uomo… Newell è un ragazzo ancora in fase di sviluppo!, cambiai mentalmente versione.
- Sono dispiaciuto per il ritardo, prof. Ho avuto un contrattempo! – Una voce roca e profonda ruppe il silenzio.
Le ragazze fecero versi di apprezzamento mentre se lo mangiavano con gli occhi. Inclusa Keira. Inclusa io. Già, non volevo fare la fine della pecorella, ma come si poteva rimanere indifferenti a tanta imponenza?
- S-sì, Newell, t-torni pure… al suo spetta-…posto, voglio dire, vada al suo posto – disse cercando di darsi un tono. Quel bastardo se la scampava sempre.
Il ragazzo si avviò in cerca di un posto dove sedersi e… con mio rammarico l’unico rimasto era alla mia sinistra.
- Magnifico! – commentò sarcastico, sedendosi con la leggerezza d’un elefante sulla sedia.
Keira mi lanciò un altro bigliettino che finì ai suoi piedi. Io mi precipitai a recuperarlo. Newell capì la vitale importanza che aveva per me quel pezzetto di carta, così si tuffò alla sua ricerca. Vinse lui, come non detto.
Io cercai di strapparglielo via dalle mani e lui si oppose prontamente. Finimmo per terra. Lui addosso alla sottoscritta. Io sotto al troglodita.
Purtroppo non fummo abbastanza silenziosi da consentire il regolare svolgimento della lezione.
La De Niège forse era gelosa che ci fossi io sotto il suo corpo, perché quando ci vide, gridò: - Signor Newell allontani il suo c-corpo da quello della sfig-signorina – e soggiunse – la prego. –
- Ti ha pregato? – chiesi sull’orlo dell’isteria.
- A quanto pare… - rispose lui, facendo un ghigno soddisfatto.
- E levati! – lo apostrofai sollevandolo un po’ dal mio corpo. Errore fatale. Lui si era lasciato fare così, quando smisi di far pressione e ricadde su di me, il suo bacino colpì il mio.
Tirai un urlo stridulo, come se qualcuno mi avesse puntato una pistola alla tempia.
- Potresti fare un provino per un film horror, sai? – mi chiese, sorridendo nuovamente. Solo io mi ero accorta di quello che era successo?
Non proprio. Oddio, proprio no. C’era qualcosa che non era affatto morbido… che stava crescendo.
- Ah… l’hai fatto svegliare – disse lui, con tono apparentemente calmo. Sì, perché sicuramente in quel momento era tutto fuorché calmo.
- Mi stai molestando, sappi – lo ammonii tirandogli pugni a casaccio.
In tutta risposta lui mugolò leccandomi la guancia. Cosa?! Ma cos’era, un gatto?
- Micio, fai il bravo – lo comandai, cercando di scappare.
Visto che non si decideva ad alzarsi, non mi rimaneva che usare l’ultimo asso nella manica.
- Prof! – chiamai a voce alta.
La De Niège mi lanciò uno sguardo di fuoco. Si fotta anche lei.
- Keira! Keira! Aiutami, ti prego – supplicai, bloccata in quella prigione che era il suo corpo. Mi stavano per venire pensieri impuri, e non volevo che succedesse. Non in quel momento. Non con lui.
- Credo che rimarrò qui a godermi ancora un po’ lo spettacolo – rispose lei, tutta ilare.
Al diavolo! Avrei fatto da sola.
Mi mossi nuovamente con tutto il corpo, peccato che andai solo peggiorando la situazione. Non feci altro che deliziare il suo sesso con i miei ondeggiamenti, volti solo al puro desiderio di libertà.
- Provochi? – chiese lui con voce roca, molto roca, mentre incastrava il labbro inferiore fra i denti.
- Provoco tua madre! Levati dalla minchia! – dissi stufa di quella situazione.
- Semmai, dovresti dire, levati dalla figa. –
- Ah ah ah, che ridere! –
- Con me potrai anche fingere una risata, ma ti assicuro gli orgasmi saranno tutti veri ed intensi. –
- Sei un maniaco, cazzo. Ti sputo in faccia, coglione! – minacciai, in collera.
- Non eri tu quella esperta? – si prese mezzo minuto di silenzio – Ah... fingevi. Avrei dovuto capirlo. –
Keira lo spinse via da me con forza. Mi tese la mano per aiutarmi a rialzare.
- Ti porto in infermeria – affermò per poi dire lo stesso alla prof. Non attese nemmeno la sua autorizzazione che uscimmo dall’aula.
- Perché l’infermeria? – chiesi confusa.
- Stai tremando come una foglia e hai gli occhi lucidi – mi spiegò cauta.
Quando realizzai che aveva ragione, mi vergognai di trovarmi in quello stato.
- Mi dispiace. Sto bene, Keira, puoi andare anche in classe… - le mentii; il fatto era che stavo cercando di mentire anche a me stessa.
- Non dirmi bugie, per favore. Ne ho fin sopra i capelli di quelli che le dicono. –
- Scusa. –
Lei sospirò pesantemente e mi accompagnò lungo il corridoio, verso l’infermeria.
- Perché sei gentile con me? – domandai quando mi sentii leggermente meglio.
- Perché credo che tu lo meriti – rispose poco prima di bussare.
Mrs Wyatt aprì la bocca, per poi aiutarla a farmi adagiare sul lettino. Cos’era quel viso spaventato? Ero coperta di pustole? Andiamo, stavo benone!
La dottoressa mi controllò la fronte per poi fare un “ah” dovuto alla mia fronte scottante.
- C’è ancora di mezzo il giovanotto? – chiese guardandomi con attenzione.
- No… -
Nello stesso momento Keira aveva risposto.
- Sì. –
Scossi la testa convulsamente mentre la fissavo.
Mrs Wyatt mi fece mettere sotto le coperte e mi diede un’aspirina, malgrado le mie deboli proteste.
- Puoi andare… - dissi come se fossi un’inferma prossima alla morte, indicandole la porta.
- Smettila, Naomi. Sono venuta qui per tre motivi, primo: sono preoccupata per te, secondo: voglio sapere come fate a conoscervi tu e lui, terzo: voglio capire cosa sia successo, dato l’odio che c’era nei vostri sguardi. Anche se a dirla tutta, non era solo odio. Ho percepito della tensione sessuale – aggiunse come se mi stesse dicendo che il giorno dopo avrei potuto dormire fino a mezzogiorno.
- Non è vero – protestai debolmente, ancora una volta.
La Wyatt ci fissò divertita.
- Voglio unirmi anch’io, ragazze. Posso? –
 
Un’ora dopo…
 
- E quindi siamo finiti per azzuffarci durante la lezione – conclusi con un sospiro di sollievo. La cosa poteva anche essere assurda e divertente, finché non ti ritrovavi tu in quella situazione.
Omisi per forza di cose la storia delle strusciatine e non feci parola dell’incontro con Oliver. Volevo custodirlo gelosamente.
- Ma voleva baciarti in bagno! – tentò a smussare la mia ostinazione la dottoressa.
- Sì, che romantico! – finsi entusiasmo, facendo un cuore con le mani.
- Naomi, buttati! – mi incitò la mia coetanea.
- Ci tengo alla mia vita, grazie. E poi scusa, buttati tu! – dissi con voce irosa, guardandola con disappunto. Incrociai le braccia al petto per enfatizzare il mio stato d’animo.
- Scema, intendo provaci. Non pensavo che un’aspirina ti conciasse così male – commentò.
- Ma ti sei bevuta il cervello? – sognavo di dire quella frase da tempo immemore – Si è comportato malissimo con la sottoscritta. Non intendo concedergli un’altra chance. – Misi il broncio.
- Forse non avresti dovuto dirgli che incontrarlo era stata la cosa peggiore… - commentò, grattandosi la nuca. Si era seduta e mi stava facendo compagnia da un po’, ci aveva preso gusto a cambiarmi il ghiaccio da mettere sulla fronte.
- Mrs Wyatt può lasciarci un attimo sole? – disse ad un tratto..
- Certo, tesoro. –
Quando la porta si richiuse alle sue spalle continuai il discorso.
- Ah, no? Sono solo cinque giorni che lo conosco e due in cui ci ho avuto a che fare. È pericoloso – enunciai con tono solenne per far cadere la questione.
- C-cosa? Pericoloso? Sorella, quella che si è bevuta il cervello sei tu. È solo un ragazzo! –
- Mi ha fatta finire in detenzione! – urlai in preda all’esasperazione.
Keira scosse la testa, in disaccordo. Sbuffò più volte persa nei suoi pensieri, mentre si attorcigliava i capelli attorno al dito. Erano mogano, voluminosi, mossi e le arrivavano alla vita.
- Potresti fare la modella – mi uscì senza rifletterci. Keira si voltò con stupore e mi mostrò la sua dentatura lineare e bianca.
- Oppure potresti offrirti per fare la pubblicità dei dentifrici! – le suggerii, provocando la sua risata.
- Non ti prendo in giro, dico sul serio – le ripetei, giocando con il lenzuolo che puzzava di disinfettante.
- A dire il vero, faccio la fotomodella… - mi confessò, lasciandomi a bocca aperta. – Suvvia! Sono pubblicità poco famose, che so, marche come H&M e Promod. Una volta però ho ottenuto il ruolo per recitare ad uno spot pubblicitario, andò in onda per poco tempo, in quanto non riuscirono a gestire i costi – ammise amareggiata.
- Oh, piccola. Vieni qui, dalla nonna – la esortai, aprendo le braccia in attesa del suo abbraccio.
- Oh Dio, stai vaneggiando. Mrs Wyatt venga qui, la prego! – reclamò l’attenzione della donna.
Le diedi un colpetto sul braccio. – Stavo scherzando, dai. –
Louise entrò nella stanza preoccupata per poi far spazio ad un’espressione serena.
- Adesso stai meglio? – Aveva sempre quella cortesia che le addolciva gli occhi.
- Sì, sì. – la rassicurai – Posso tornare in classe ora e… grazie – le dissi.
Mi misi le scarpe, che avevo dovuto togliere mentre ero stesa sul lettino, e uscii dall’infermeria con Keira al mio seguito, dopo che entrambe l’avemmo salutata.
- Dobbiamo andare in classe per prendere le nostre cose – le ricordai.
Keira annuì.
Dopo aver recuperato il materiale ci dirigemmo ai nostri corsi che non coincidevano. Io avevo inglese mentre Keira fisica.
- Ci vediamo in giro – dissi poco prima di voltarmi e allontanarmi.
- Ti scrivo! – replicò allegra la rossa.
 
Le nostre strade sembravano essere parallele, eppure ci stavamo pian piano trovando. Stava nascendo un’amicizia? Non ne ero ancora sicura, però così sembrava.
L’avevo vista come una cosa così semplice l’amicizia quando ero piccola, ma quando ero cresciuta avevo cambiato completamente idea. Vedevo solo persone che andavano e venivano alla velocità della luce. E se avessi dovuto trascorrere un pezzo della mia vita, con qualcuno che ben presto se ne sarebbe andato, preferivo starmene in completa solitudine.
Ora che mi si era presentata un’opportunità, Keira, scorgevo uno spiraglio di luce. Era gentile, altruista e simpatica. Perché fasciarmi la testa ancor prima di rompersela, questa volta?
Volevo tentare per una volta anche se ci stava di mezzo il mio cuore. Ci avrei rimediato una ferita oppure un’amica.
Sì, avrei rischiato.


Note:
1.  Très amicales: molto amichevoli.
2. Tout la vie: tutta la vita.
3. Lim: è una lavagna elettronica su cui vengono proiettati contenuti digitali.
Suppongo che oltre in Italia anche in Inghilterra la usino, potrei anche sbagliarmi. ^^


Angolo autrice:
Eccoci finalmente (?) al quinto capitolo dopo settimane di assenza. Una di queste sono stata a letto invalidata dall'influenza, per le altre non ho scusanti se non la mancanza di ispirazione. Mi scuso con tutte coloro che hanno atteso pazientemente un mio capitolo per così tanto tempo. Non vi preoccupate, questa storia non la abbandonerò.
Bene, ragazze. Come vedete non voglio correre, ma desidero farvi addentrare nella vicenda permettendovi di immedesimarvi e omoglobarvi ai personaggi. Capendo i loro atteggiamenti e le loro scelte, senza giudicarli a primo impatto.
In questo capitolo abbiamo un Newell decisamente bastardo, una Keira molto preoccupata, un'infermiera curiosa e una piccola svolta per la nostra Naomi Tallish: una possibile amicizia. Perché, come spero abbiate capito, Naomi non ha nessuno a cui aggrapparsi se non la sua famiglia (un po' fuori dagli schemi).
Passiamo ai ringraziamenti...
Grazie a chi ha aggiunto la storia nei preferiti.
Grazie a chi ha aggiunto la storia nelle ricordate.
Grazie a chi ha aggiunto la storia nelle seguite.
Grazie a chi la legge e mi lascia sempre un parere.
Grazie a chi mi ha lasciato un parere durante la lettura.
Grazie a chi legge in silenzio.
Grazie perché senza di voi questa storia non andrebbe avanti, davvero.
Un abbraccio,
variopintadite

P.S.: Vi aspetto nella pagina delle recensioni, bellissime!

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Capitolo 6
*** Capitolo 6 ***


Capitolo 6
 


Al termine delle lezioni, con il mio fidato zaino, me ne stavo tornando a casa.
- Gwen!
Una chioma biondiccia fece capolino quando misi piede fuori dal cortile: Oliver Posey.
Un po’ mi scocciava sentirmi chiamare con un nome non mio. Però in fondo era solo colpa mia e della mia voglia di avventura e mistero.
Anzi, colpa dei libri. La mia fervida immaginazione era stata frutto di anni e anni trascorsi con i romanzi rosa.
- Oh… Oliver – lo salutai a mia volta. Dovevo  allontarmi il più possibile dagli altri.
Ma poi, come faceva a sbucare così dal nulla? Mi coglieva sempre impreparata.
Di gran carriera attraversai ben trecento metri. Con orrore mi accorsi che stavo pezzando e il mio respiro usciva in rantoli irregolari.
La distanza di sicurezza era stata raggiunta, appurai con sollievo.
- Wow, Gwen, faticavo a starti dietro. Sei veloce – mi diede atto il ragazzo.
Io feci un sorrisetto di modestia. Cioè, in realtà stavo per avere un infarto, però finsi che per me fosse stato facile.
Ero arrivata ad avere una doppia identità a causa di questo carciofo, perdiana!
- Mi piace camminare veloce… a volte.
- Anche a me, sai? – Ma che domande erano!? Certo che non lo sapevo, non era mica nella sua testa. Senza contare che a me non piaceva affatto camminare così veloce. Odiavo la corsa e educazione fisica in generale.
Come si poteva però dirgli il contrario? Come si poteva deludere le sue aspettative? Semplicemente non riuscivo ad arrestare il torrente di bugie.
- Oh, fantastico!
- Lo sai che sei bellissima anche senza trucco?
- Sì… Eh!? – In un primo momento ero così assorbita dalla mia recita che non avevo davvero colto il senso delle sue parole. Solo dopo un secondo avevo realizzato.
- Puoi ripetere? Ero distratta e ho sentito sicuramente male.
Ero certa di aver immaginato quella frase, ciò non mi impedì però di crogiolarmi nella remota possibilità che l’avesse davvero detta.
- Hai sentito benissimo, Gwen – argh, volevo sentire il mio vero nome. - Sei bellissima. E se vuoi te lo ripeterò ancora una volta, o più, se non ci credi.
In risposta divenni paonazza.
- Oliver, dove sono le telecamere? – Mi guardai attorno scrupolosamente. Mi avevano già presa in giro abbastanza. Forse era tutto stato organizzato dalle cheerleaders o si trattava di una qualche Candid Camera di cattivo gusto.
- Gwen, ma di che stai parlando? – Aggrottò le sopracciglia, fissandomi intensamente. Era ancora più sexy del solito con quella fronte corrucciata, intento a carpire il mio atteggiamento sospettoso.
Forse ero un tantino paranoica, anche se ero giustificata. Un figo e una scialba ragazzina come me non erano compatibili. O meglio, lui era compatibilissimissimo con me; ero io che non potevo reggere il confronto con le sue vecchie fiamme.
Io non avevo mai avuto fiamme. Volevo che fosse lui la mia prima fiammella. Okay, era un terribile paragone.
Volevo che fosse il mio Sole? Troppo poetica. Volevo che fosse il mio principe azzurro? Troppo patetico. Erano tutti dell’altra sponda, inoltre.
Volevo che fosse il mio ragazzo. Chiaro e conciso… poteva andare.
- Devi scusarmi, non dormo bene la notte. – Un’altra bugia. Mi morsi la lingua, furiosa con me stessa.
- Non indago oltre – disse lui con un sorriso sornione.
Non avevo capito. Per nulla. Cos’avevo detto di strano?
- In che senso?
- Be’, forse fingi di essere carina e coccolosa e poi la notte di dai da fare. Sai com’è, è un evento plausibile. Una bella ragazza come te, sicuramente sarà piena di impegni, tra un appuntamento e l’altro.
Ma che si era fumato prima di uscire da scuola? Alan, il mio compagno delle medie, gli aveva fatto fare un tiro?
Io rimasi in religioso silenzio, cercando di assimilare i suoi viaggi mentali.
Lui spalancò gli occhi. Si diede un colpo in testa.
La droga era autodistruttiva, cavolo.
- Tu… tu sei vergine, giusto?
- In realtà Pesci. – Cosa c’entrava ora questo?
Oliver scoppiò a ridere e io scoppiai a vivere. Confesso: ho rubato la frase da Tumblr.
- Intendo nell’altro senso.
- Ahhh! Be’… ma che domande sono, scusa? – dissi arrossendo nell’immediato.
- Rispondi, dai.
- Sì – risposi ancora prima di collegare la bocca al cervello. Cazzo, i suoi occhi da cucciolo sono peggio del siero della verità.
- Ritiro quello che ho detto prima. Non ti dai da fare la notte, ma forse avrai un sacco di ragazzi che fanno la fila…
- Per me? – domandai, scoppiando in una risata.
- Che c’è da ridere? – Mi guardò con un sopracciglio alzato e l’ombra di un sorriso.
- Non è così. Non mi vuole nessuno – ammisi senza giri di parole, arrivando dritta al punto.
- M-ma… - si bloccò e mi guardò con un’intensità spaventosa. – La popolazione maschile non capisce proprio un cazzo in fatto di donne!
Io mi grattai una guancia. Non ero d’accordo con lui.
Mi afferrò il polso e mi trascinò più vicino a lui. Cavolo, questo è andato.
- Che ne dici se ti offro una cioccolata?
Sorrise. Il termine “mozzafiato” gli calzava a pennello.
- Non saprei.
Si mise una mano sul mento e iniziò a lisciarsi la barba immaginaria. – Perché questa indecisione?
- Non voglio ingrassare – mentii. Stava diventando un’abitudine. - Scherzavo, intendo che non so se posso fidarmi di te – dissi finalmente la verità.
- Oh – mormorò. L’avevo sconvolto.
- Cosa posso fare per guadagnarmi la tua fiducia, milady?
Innanzitutto forniscimi una carta di credito, cosicché io possa spendere migliaia di sterline in vestiti, scarpe, borse, gioielli e regalami un anello di fidanzamento con la promessa di sposarmi, elencai a mente.  
- Fammi cinquanta flessioni – dissi di getto.
Il suo sorriso si accentuò. – Tutto qui? – In realtà ci sarebbe la storia della carta di credito…
- Sì, tutto qui.
Onestamente la mia richiesta non aveva senso, ma non sapevo in che modo scoprire se avesse buone intenzioni, o meno. Insomma, non esisteva ancora la possibilità di entrare nella mente altrui.
Almeno così potevo ammirare i suoi muscoli, mi rincuorai.
La camicia bianca mostrava la muscolatura tonica, alla James Dean… Dio, sì.
Posso?, avrei voluto chiedere durante la sessione, allungando timidamente la mano verso le sue braccia imponenti.
E quello!?Era visibilmente appetibile e decisamente sodo. – Che culo.
Il possessore di quelle chiappe d’oro si bloccò a mezz’aria.
- Ho sentito bene? – chiese rivolgendomi uno sguardo malizioso. No, non ti ci mettere anche tu.
- No, sei sordo! – ribattei infantilmente, celando il fatto che stessi morendo di imbarazzo.
Lui fece una risata calda. E non era la sola cosa calda.
C’erano solo 3 °C e io stavo schiattando dal caldo: “buon” segno.
- Allora, quando ti decidi a finire le flessioni? – lo rimproverai con enfasi, gesticolando a più non posso. Non ero mai stata brava a contenere l’agitazione.
- Quando vuoi tu, pupa – concluse facendomi l’occhiolino. Mi dava la sensazione di viscido quell’appellativo.
- Non si può neanche scherzare con te – sbuffò, dopo aver visto la mia smorfia. Fece poi leva sulle sue braccia per l’ultima serie di flessioni.
Questa frase l’ho già sentita, pensai. Chi è che l’aveva detta?
- Gwen.
Guardai l’orologio, in paziente attesa che tornasse bipede come un umano che si rispetti.
- Gwen – ripeté lagnoso.
Stavo per chiedergli chi diavolo stesse chiamando perché l’unica ragazza nei paraggi ero io.
Ops. Mi schiaffeggiai la fronte mentalmente.
- Dimmi – dissi come se fossi rinvenuta dal Paese delle Meraviglie.
- A che pensavi? Ai miei glutei? – domandò, ghignando beffardo.
- Sì, le tue chiappe hanno un potere ipnotizzante, sai? – ironizzai.
Lui sorrise. – Ad ogni modo, non avevamo un appuntamento? – Mi porse il braccio e aspettò che il mio si incastrasse al suo.
- Chiamasi “andare a bere una cioccolata” – dissi mimando le virgolette. Mi guardò sorpreso.
- Sveglia! Avevi detto che me la offrivi, Oliver! – risi, portando una ciocca di capelli dietro l’orecchio.
- Certe ragazze ucciderebbero per essere al tuo posto – confessò, scuotendo la testa.
- E con questo cosa vorresti dire? – Ero già sulla difensiva.
- Solo un pensiero… sì, un pensiero dei tanti. – Aveva uno sguardo molto ambiguo.
Io lo fissai perplessa. Dovevo chiedere ad Alan se mi faceva fare un tiro anche a me, dato che c’era.
 
- Non ce la faccio più, Oliver. Ci andiamo un’altra volta – sussurrai affaticata passo dopo passo.
- Avevi detto che ti piaceva camminare a passo veloce, tue testuali parole.
- Io… - Dovevo dirgli tutta la verità. Dai, Naomi, coraggio!
- … Sono innamorata di Dean Winchester – tergiversai “abilmente”.
Lui non capì cosa c’entrasse, giustamente direi.
- Sono-innamorata-di-Dean-Winchester, muoviti o rischiamo che il bar chiuda! – mi spronò, afferrandomi la mano per aumentare il passo.
In quel momento iniziai a sudare. La sua mano stringeva la mia. Capite?
Non ero pronta.
 
Il bar chiudeva alle nove di sera. Erano appena le cinque. L’aveva fatto apposta per farmi sfiancare?
L’insegna era molto esplicita, notai. Louis’ Bar.
- Ma se andavamo a Starbucks, non era meglio? – mi lamentai.
Lui scosse la testa. Sì, ero proprio una bambina alle volte.
- Certo, ma volevo fare qualcosa di originale. Inoltre volevo un posto dove nessuno ci desse fastidio – mi spiegò con naturalezza. Affondò la mano nei suoi capelli biondi e li spettinò.
Che cariiino.
Entrammo con disinvoltura nel locale. La sua mano teneva ancora la mia e non si staccò finché non arrivammo al tavolino.
Non era niente male in effetti. Il bar era accogliente e caldo. Il merito era anche degli uomini che lo occupavano. Sorridevano e facevano cenni di saluto al mio passaggio. Che gentili.
- Oliver, qualcosa ti infastidisce? – chiesi, quando vidi il suo volto rannuvolarsi.
- Ti stanno mangiando con gli occhi – rispose con una sfumatura di rabbia nella voce.
- Sei geloso? – lo interrogai con gli occhi colmi di stupore. Nessuno era mai stato geloso di me. La cosa mi lusingava parecchio.
- N-no, affatto – rispose lui, dopo aver distolto lo sguardo. Non sembrava molto convinto. Guardava un punto oltre le mie spalle.
- A me sembra di sì – affermai sicura di me.
- Buonasera – ci salutò una vocetta stridula. – Cosa ordinate? – Ci mostrò un sorriso ampio e splendente.
- Io una cioccolata, grazie – risposi l’attimo dopo.
Non sentendo la risposta del mio accompagnatore, mi voltai a guardarlo. Era lì, intento a gustarsi la cameriera con la vista. Il completino era striminzito di color rosso, e le spremeva i meloni.
Posai la mia mano su quella di Oliver - fu un gesto involontario - e la accarezzai.
- Amore, tu cosa vuoi prendere? – chiesi lasciva, mordendomi successivamente il labbro, come se gli avessi chiesto qualcosa di peccaminoso.
Lui si riscosse e incastrò i suoi occhi azzurri nei miei. Prese a disegnarmi con l’indice degli strani ghirigori sul palmo aperto.
- Anch’io, prendo una cioccolata.
La cameriera mora se ne andò, dopo aver fatto un cenno, sculettando.
- Amore, eh? -  disse lui, con un sorrisetto beffardo. – Ora chi è il vero geloso?

 






Angolo autrice:
Buonasera a tutti! Grazie per essere arrivata/o qui.
Non so se dirvelo in aramaico antico o in gallese. Io vi amo!
Non mi aspettavo che potessero leggere e seguirmi tante persone per una storia completamente originale.
Ripeto, grazie a tutti quelli che l’hanno aggiunta nelle seguite/preferite/ricordate.
E le recensioni che mi lasciate, aw, mi spronano davvero tanto.
Spero che questo capitolo abbia ripagato la vostra attesa.
Un abbraccio stretto stretto,
variopintadite

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Capitolo 7
*** Capitolo 7 ***


NdA: Ci eravamo lasciati qui:
- Amore, tu cosa vuoi prendere? – chiesi lasciva, mordendomi successivamente il labbro, come se gli avessi chiesto qualcosa di peccaminoso.
Lui si riscosse e incastrò i suoi occhi azzurri nei miei. Prese a disegnarmi con l’indice degli strani ghirigori sul palmo aperto.
- Anch’io, prendo la cioccolata.
La cameriera mora se ne andò, dopo aver fatto un cenno, sculettando.
- Amore, eh? -  disse lui, con un sorrisetto beffardo. – Ora chi è il vero geloso?
Buona lettura, (ci rivediamo all'angolo autrice)!




Capitolo 7
 


Trascorsero diversi minuti in cui nessuno proferì parola. Io perché stavo sbollendo l’imbarazzo dovuto dal mio comportamento, lui non sapevo cosa stesse facendo, dato che lo stavo ignorando.
Un scalpiccio di tacchi ci fece rinvenire. Era la cameriera.
- Ecco le vostre cioccolate – ci informò mentre la sua attenzione era completamente focalizzata su Oliver. Rimase a fissarlo affascinata, reggendo il vassoio dov’erano le nostre ordinazioni.
- Oookay – interruppi le sue fantasticherie, per farla tornare sulla Terra ferma, - puoi posarle sul tavolo?
La ragazza scoppiò in una risatina penosa, di quelle che ti fanno risvegliare gli istinti omicidi.
- Mi ero incantata – disse in tono di scuse, con le gote paonazze.
- L’avevamo notato – risposi pungente. Lei mi lanciò un’occhiataccia. Oliver mi accarezzò la mano per ammansirmi.
- Problemi? – le chiesi con una vena ironica nella voce.
- No – rispose appiccicandosi un sorriso finto. Dio mio, che pessima attrice.
Dopo aver servito il mio amico, passò alla sottoscritta.
La iena mi si avvicinò con rapidità, facendo volutamente cadere la cioccolata sulla mia divisa scolastica.
La bevanda era rovente sulla mia pelle.
- Brutta figlia di pu… - Non riuscii a completare la frase che Oliver scattò come una molla.
- Gwen! Non l’ha fatto apposta!
Lo guardai in cagnesco. - Oh, ma certo! Poverina, una cioccolata pesava troppo! – urlai fuori di me.
Chiusi gli occhi per calmarmi. Quando li riaprii però la vista di quella vipera mi fece perdere il controllo. Non aveva da lavorare? No, se ne stava lì a guardarmi vicina a lui.
Mi alzai in piedi e con una mossa veloce afferrai la tazza fumante di cioccolata e gliela versai sulla testa. La bevanda le colò sulla profonda scollatura, sul viso e sulla schiena.
- Ricambio il favore – le scoccai un sorriso soddisfatto.
Oliver sgranò gli occhi, cosa che fece anche la mora.
- Troia di merda, come ti sei permessa?! – gridò stridula.
- Sei fortunata che non ti faccio pagare la lavanderia… ingrata – dissi sarcastica.
Il locale era avvolto dal silenzio. Gli omoni che costeggiavano il bancone erano tutti assorbiti dal nostro teatrino.
- Cosa sta succedendo qui? – disse una voce alle mie spalle. Mi voltai a guardarlo. Era un uomo alto e di corporatura robusta; le sue braccia erano tempestate da tatuaggi.
- Uhm… - mormorai intelligentemente. Ero intimorita dalla sua figura che incombeva su di me.
- Sharon? – guardò la mora in attesa. Ecco come si chiamava la vipera.
- Louis, è tutta colpa sua! Guardi cos’ha combinato alla mia divisa! – gracchiò lanciandomi occhiate furenti.
L’uomo mi fissò incuriosito. Io indietreggiai finché non mi trovai accanto ad Oliver. Lui mi portò vicino a sé, avvolgendomi un braccio attorno alla vita. Il sollievo mi avvolse.
- Grazie – sussurrai.
I suoi occhi si fermarono su Posey.
- Oliver, ehi, non ti avevo visto! Come stai, ragazzo mio? – Il losco personaggio ignorò bellamente Sharon.
- Alla grande, capo. Ad ogni modo, Louis, non è successo nulla. Le ragazze hanno avuto un piccolo bisticcio. Ora togliamo il disturbo.  – Rimasi a bocca aperta. E quello me lo chiamava piccolo bisticcio?
Lasciai perdere. Un attimo… quei due sembravano conoscersi da una vita.
- È la tua ragazza questo scricciolo? – gli domandò, indicandomi.
- Quasi – rispose stringendomi un po’ più a sé, senza darlo a vedere.
Louis si aprì in un sorriso, dove due file di denti gialli erano incorniciate da labbra sottili.
Sharon fece una smorfia disgustata. – Puoi avere di meglio, tesoro.
La mia mascella si irrigidì in un baleno. – Se pensi di essere meglio di me, ti svelo un segreto: la merce usata non piace a nessuno.
- Che tigre – commentò Louis.
- Che grinta, piccola – si unì Oliver.
- Tappati la bocca, troia – aggiunse Sharon.
- Qualcuno vuole aggiungere altro? – scherzai, alzando le sopracciglia.
- Io! – affermò Sharon, aprendo la bocca per parlare.
Louis la fermò in tempo, toccandole il braccio.
- Pulisci subito, indossa un’altra divisa e vai a servire – le ordinò con sguardo severo.
- Ma… - obbiettò lei, piegando la testa di lato. Un broncio faceva la sua comparsa sul volto sporco di cioccolata.
- Ora.
 
Louis ci accompagnò al bancone e ci offrì due cioccolate gratis. Un’altra cameriera, Jane mi pareva si chiamasse, ce le preparò in un battito di ciglia.
Sorseggiai la mia bevanda, mentre osservavo trionfante Sharon pulire.
- Dai, Gwen, ora smettila. Siamo venuti qui per conoscerci meglio, non per sfottere una povera cameriera.
- Be’, hai fatto una pessima scelta a portarmi qui. – Oliver si fece più vicino al mio viso.
- Non farmi sentire in colpa… - sussurrò al mio orecchio. Le sue labbra mi sfiorarono il lobo.
Mi spostai. – Non fare queste cose. Ho le orecchie sensibili. – Mi sorrise.
Poi tornò composto e finì il contenuto della sua tazza. – Fai veloce.
Lo guardai in tralice. – Stai scherzando? – Scosse la testa. – Non posso neanche bere in santa pace?
- Esattamente. Devo mostrarti un posto.
Vinta dalla curiosità feci quello che mi aveva detto.
Ci congedammo con un saluto caloroso al proprietario del bar e Jane. (Io mi presi la briga di fare il dito medio a Sharon).
- Non mi era mai successo che due ragazze si odiassero a causa mia. È esilarante – ammise fuori dal locale.
- Non siamo diventate nemiche per quello – sgonfiai la sua tesi, - è lei che è una grande stronza. Mi ha sporcata volutamente! Ora che ci penso, devo andare a casa. Non posso rimanere in questo stato ancora a lungo.
Oliver mi mise una ciocca di capelli castani dietro l’orecchio. – Fai fare a me – mi rassicurò.
 
Mi lasciò ferma all’esterno del locale, come un baccalà, mentre lui faceva i suoi porci comodi. Tradotto: stava parlando a telefono.
Il vento iniziò a tirare da ovest, così la cioccolata, che mi si era attaccata ai vestiti, diventò ben presto fredda. Iniziai a tremare e mi strofinai le braccia con vigore nella speranza di riscaldarmi. La cosa non passò inosservata al mio prode cavaliere, che interruppe la conversazione (appena effettuata) per appoggiarmi la sua giacca sulle spalle.
- Grazie – dissi con un filo di voce, colta alla provvista dalla sua galanteria.
Un minuto dopo aveva già riagganciato e mi si affiancò. – Gwenny, - disse affettuosamente, - tra poco arriverà un mio caro amico, Seth, vedi di non civettare con lui perché non è un bravo ragazzo.  
Strabuzzai gli occhi, guardandolo infastidita. – Così mi credi una ragazza facile? Per l’appunto, mai dire alle donne cosa non fare, perché questo non fa altro che istigarle a farlo.
Mi guardò soppesando le mie parole. - Mi stai dicendo che civetterai?
Contrariata dal suo atteggiamento incomprensibilmente protettivo e autoritario, risposi a tono: - E se anche lo facessi, che problemi ti crea?
Oliver sbuffò e si passò una mano fra i capelli chiari. – Non ho mai detto che sei una ragazza facile, dannazione. Ti ho solo messo in guardia dal mio amico che, fidati, conosco come le mie tasche.
Io lo guardai torva. – Bugiardo.
Il mio ex cavaliere mi attirò a sé. – Ti prego, Gwen. Non litighiamo.
Mi chiesi perché tutta quella galanteria, quella compostezza con me. Cosa lo tratteneva dal fare lo stronzo?
Mi arresi alla sua espressione mortificata e sciolsi il mio broncio. – D’accordo, - concessi – ma non darmi più ordini. Non sono una marionetta. – Lo guardai dritto negli occhi, decisa.
Sollevò le mani in segno di resa. – Mi dispiace… volevo solo assicurarmi di preservare la tua virtù.
Mi voltai di scatto verso di lui. Credeva che mi sarei data come niente al primo che mi passava davanti? Che bella opinione che aveva delle ragazze.
La sua frase non ottenne risposta. Si credeva così sicuro delle sue idee, che non le contrastai solo per non rovinare l’uscita.

Una vettura laccata di rosso fiammante si stagliò davanti ai nostri occhi, - i miei decisamente sbalorditi.
L’autista si aprì in uno smagliante sorriso quando vide Posey. Quando il suo sguardo si spostò su di me, il suo ghigno si fece malizioso.
- Ecco, la signorina Gwen… dico bene? – La sua lingua accarezzò ogni lettera con estrema sensualità, manco avesse parlato di come la cioccolata si sposasse perfettamente con le nocciole.
Io gli sorrisi in risposta, messa in soggezione dal suo sguardo penetrante. Aveva degli esotici occhi marroni, la pelle d’avorio e una massa scomposta di capelli scuri. Un ciuffo gli ricadeva ribelle sulla fronte.
Stringeva fra le labbra carnose una sigaretta spenta. Pensai ad Augustus Waters. È una metafora, sai: ti metti la cosa che uccide fra i denti, ma non le dai il potere di farlo. Scossi la testa, non era il momento di pensare a cose come Colpa delle stelle, soprattutto se avevano la probabilità di farti deprimere.
- Allora, cosa state lì impalati? Su, salite – ci esortò Seth, poi si girò verso di me – non fare complimenti.
Mi limitai a salire senza fiatare.
Oliver si apprestò ad infilare la testa dietro, puntando i sedili posteriori, dove ero accomodata. – Tutto a posto? – Lo guardai confusa: perché avrei dovuto stare male?
- Tutto a posto – lo rassicurai mio malgrado, alzando il pollice come ulteriore conferma.
Il ragazzo mise in funzione l’automobile e imboccò la prima strada a destra. Era per lo più rettilinea, ma ad essa ne seguirono molte altre. Il viaggio si stava rivelando più lungo del previsto.
Il mio cellulare iniziò a vibrare. Presi subito la chiamata senza controllare il mittente.
- Pronto? – risposi con nonchalance, allo scopo di nascondere l’imbarazzo, suscitato da due paia di orecchie curiose.
- Naomi, la mamma mi ha detto che non eri ancora tornata a casa. Dove ti sei cacciata? – Era Doug.
- Io… - E ora?- Sono uscita… a fare una passeggiata – mi arrampicai sugli specchi.
Fece un verso poco convinto. – Cerca di non fare tardi. O la farai stare in pensiero, okay?
- Tranquillo.
- Non sei in detenzione, vero? – si accertò, a voce bassa, per non farsi sentire da papà.
- No – ridacchiai. – Ora però devo lasciarti. Ti voglio bene, Doug.
- Anch’io te ne voglio, tesoro. Fa’ la brava – aggiunse infine, dopodiché chiuse la chiamata.
Mi soffermai a guardare il paesaggio scorrere veloce davanti ai miei occhi persi, quando… un pensiero fugace si intrufolò nella mia mente. Mi trovavo in auto con due completi sconosciuti. Ed erano dei ragazzi, e io ero – e sono tutt’ora - una ragazza.
- Fatemi scendere – ordinai, cercando di non far trapelare la paura.
Oliver si girò verso di me interdetto, Seth mi lanciò un’occhiata divertita dallo specchietto e fu lui il primo a parlare.
- Uh, la ragazza si è appena resa conto di aver infranto la prima regola dei genitori: mai salire sull’auto di uno sconosciuto – mi canzonò. Inghiottii saliva a vuoto. Dei brividi mi percorsero la spina dorsale nonostante il suo tono pacato.
- Smettila di fare il coglione – lo rimproverò Oliver, dandogli un pugno sul bicipite. – Vuoi farla spaventare?
Seth rise sommessamente. – Oh, Oliver, perché non le dici la verità e la finisci con questa recita?
Non riuscivo né a vedere l’espressione di Oliver, né riuscivo a intuirla. Cosa intendeva dire il suo amico?
- Non ascoltarlo – mi disse poi, allungando la mano dietro al sedile, in attesa di una mia stretta. Mi appiattii più che potei sul sedile.
- Non mi toccare – sputai con rabbia mischiata a paura.
Un silenzio imbarazzante avvolse l’abitacolo.
Seth scoppiò in una risata fragorosa. – Fai anche la preziosa – disse incredulo. - Posey, fossi in te, non sprecherei tempo con lei. Lo sai, quelle che fanno le preziose si rivelano essere delle impedite croniche, soprattutto con le pompe.
Avvampai dall’imbarazzo e mi feci sempre più piccola. – Ti prego, Seth, fammi scendere – lo supplicai. Non capivo di cosa parlassero, ma ora poco importava… volevo solo tornare a casa.
Sbuffò in modo teatrale, come a sottolineare la fatica che richiedeva la mia richiesta. – Okay, piccola, ma tu in cambio… - non riuscì a terminare la frase che Oliver imprecò.
- Cazzo, Seth, ti avevo chiesto un favore. Possibile che non mantieni mai la parola data? – La rabbia trasudava da ogni parola. Il suo viso probabilmente era paonazzo.
- Mi stavo solo divertendo – si giustificò, aprendosi in un sorriso mordace.
- Sì, ma non con Gwen – affermò determinato, e sembrò quasi che stesse rivendicando il mio possesso. La cosa non mi piaceva, ma era una sua convinzione, che non rispecchiava affatto la realtà.
Seth accostò l’auto e mi fissò. Cosa voleva?
- Bella addormentata, non avevi detto che volevi scendere? Eccoti accontentata – disse in tono ruvido, non più vellutato come il quarto d’ora prima.
- Ah, certo, grazie – farfugliai grata, fiondandomi all’esterno dell’automobile. Oliver uscì dalla vettura e mi bloccò il polso. La paura si fece largo nel mio corpo. I muscoli mi si irrigidirono e, tremante, cercai di scansarlo.
- Gwen, aspetta un secondo – mi sussurrò dispiaciuto. E se stava fingendo? Ridussi gli occhi a due fessure, più per intimorirlo che per l’ira.
- No, non voglio aspettare nessun secondo. Mi avevi rassicurata e invece mi ritrovo con un maniaco nella macchina. Se questo è il tuo amico, allora come sarai tu? Avrete molte cose in comune. Ora lasciami andare a casa. Segui il suo consiglio: non sprecare tempo con me – conclusi con un sorriso amaro.
La sua presa si allentò, ma non durò a lungo. Mentre ero in procinto di allontanarmi, mi riprese il braccio. Aveva solo scambiato due parole con Seth, il quale si era allontanato poco dopo.
E io che mi ero illusa in un ragazzo più intrigante e meno snob, pensai di Seth.
- Ora mi stai a sentire, chiaro? – Io distolsi lo sguardo. – Gwen, guardami – mi intimò, sollevandomi con delicatezza il mento, per far congiungere i nostri sguardi.
- Non ho alcuna intenzione di farlo – risposi acida. Mi diressi verso la stazione, o almeno, cercai di giostrarmi in quel posto a me sconosciuto. Dove diavolo eravamo finiti, in Irlanda?
Il suo braccio mi avvolse la vita e mi portò vicino al suo corpo. Mi stava abbracciando. E anche se non volevo ammetterlo, ne avevo un disperato bisogno.
- Perdonami – mormorò fra i miei capelli. – Per favore, Gwen.
E ad un tratto, da qualche parte nel mio cuore, una bolla di sollievo esplose dentro di me. Mi ero parecchio spaventata, convinta di essermi cacciata in un bel guaio, ma grazie a Dio ne ero uscita incolume. Lacrime silenziose scivolarono lungo le mie guance. Mi coprii il viso, intenzionata a non farmi vedere vulnerabile. Lui d’altra parte mi strinse con più forza, senza farmi male.
- Mi dispiace – ripeté con dolcezza.
- Voglio… solo… tornare… a casa – singhiozzai piano. Lui mi strinse ancora, come se in quell’abbraccio ci fosse tutto ciò di cui aveva bisogno.
- So… so che può sembrarti sfrontato da parte mia. Però, ho una terribile voglia di baciarti. – Mi tramutai in sasso. Una risata sommessa vibrò nel suo petto. – Non lo farò, non voglio fare nulla per ferirti.
Per quanto la situazione fosse tragica, dentro di me pensavo: Sto sognando!
- Oliver, – raccolsi tutto il coraggio possibile – il tuo amico parlava di una recita. Io non so cosa intendesse, ma ti dico in partenza, che se stai architettando un piano, io non voglio farne parte.
Lo presi per la stoffa della camicia e lo avvicinai al mio viso. La nostra differenza d’altezza non era indifferente, quindi dovette piegarsi per raggiungere il mio livello. – Intesi?
Oliver annuì col capo. – Bene – enunciai, sollevata.
- Gwen, ti consiglio di allontanarti… - Lo guardai, non capendo dove volesse arrivare.
Mi accorsi che eravamo ancora in quella posizione, bastavano pochi centimetri e le nostre labbra potevano toccarsi.
- Oh, scusa – dissi, staccandomi repentinamente.
- Andiamo a casa? – mi propose, sorridendo. Mi asciugai le lacrime sulle maniche della camicetta.
- Assolutamente. Come però? - Avanzammo diversi minuti, un po’ alla cieca.
Mi indicò trionfante un segnale stradale dov’erano indicate le diverse soste. – Ecco come: prendiamo il bus!
Lo raggiunsi in poche falcate e sostenni il suo passo veloce. – Perfetto. Ora sarà meglio che invii un messaggio a mia mamma, prima che chiami la polizia – scherzai, frugando nella tasca della divisa, in cerca del mio vecchio Samsung.
 

 
 
 
 
Angolo autrice:
Ragazzeee, sono così soddisfatta di questo capitolo. Non per le cose successe, dato che non sono molto allegre, ma per come mi è uscito *si tampona gli occhi con un fazzolettino*
Btw, parliamo del capitolo ora.
Come vi sembra?
Personaggi? Avvenimenti? Errori?
La vostra parte preferita?
La mia, senz’altro, è stata quella in cui è comparso Seth… mi prenderete per pazza, ma malgrado la sua stronzaggine, è troppo appetibile. Ad essere sincera, mi sono ispirata a Damon Salvatore per le sue battutine, però è una versione decisamente più immatura (hanno solo sedici/diciassette anni). Non che Damon sia maturo, ma comunque ha la galanteria di non parlare in modo così diretto alle ragazze. Usa approcci più delicati e accomodanti.
Per quanto riguarda questo capitolo, mi sono divertita un mondo a scriverlo.
Piccola nota: non sto facendo pubblicità alla Samsung. Odio la gente che elenca la roba di marca, come se il fulcro della storia fosse quello, ma questa volta ho dovuto inserirla per evitare di ripetere gli stessi termini.
Cosa aggiungere? Mmmh questa storia sta piacendo anche a me. Sì, non l’avrei mai pensato. Se mi calo nella parte, riesco davvero a trarne dei benefici.
Passiamo ai ringraziamenti.
Un grazie va alle ragazze che hanno recensito il precedente capitolo. Siete fondamentali, senza recensioni non sarei così determinata, vi devo tanto.
Un grazie a chi ha aggiunto la storia fra le seguite/preferite/ricordate. Siete degli angeli.
Spero di trovarvi anche alla fine di questo capitolo con le vostre opinioni, i vostri scleri, le vostre emozioni.
Un bacione,
variopintadite

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Capitolo 8
*** Capitolo 8 ***


Capitolo 8



Dopo essermi assicurata di aver avvisato mia mamma del ritardo, potei tranquillizzarmi.
Io e Oliver comprammo dei biglietti per il bus.
Durante il tragitto il mio accompagnatore era piuttosto silenzioso. Mi elargiva di tanto in tanto un sorriso, ma niente più. Io d’altro canto non ero propensa ad iniziare una conversazione, non avevo ancora dimenticato la parola “recita” dalla testa e cercavo di distrarmi, sfogliando la galleria del mio cellulare.
- Gwenny? – disse ad un tratto. Io mi voltai verso di  lui, senza pensarci.
Era aggrappato ad uno delle strutture di ferro del veicolo, a causa delle brusche frenate… ed era così bello. Sembrava uno di quei principi di un tempo lontano, con quei capelli biondi e quegli occhi meravigliosi. E se, in antichità, la sua famiglia fosse stata di nobili origini? Ora avrebbe vestito i panni di un conte o di un visconte?
- Gwen? – ripeté, in assenza di una risposta.
Rinvenni, sbattendo gli occhi un po’ di volte. – Sì? – lo incitai a continuare.
- Non volevo che succedesse tutto questo. Speravo di mostrarti un posto… - Aggrottai la fronte. – Dovevo immaginarmelo che Seth facesse il coglione, è il suo marchio di fabbrica. Comunque, cosa ne dici se ci andiamo un’altra volta? Solo noi due – chiarì subito. La sua mano scivolò nella mia, intrecciando le nostre dita.
Rimasi a pensarci un po’ su, dubbiosa. Non sapevo ancora che genere di posto fosse.
- Non voglio… - ammisi poi, sciogliendo l’intrico di dita. – Mi dispiace.
Oliver distolse lo sguardo e non mi rivolse più la parola.
Qualche volta gli lanciavo occhiate fugaci, cercando di decifrare il motivo di tanta freddezza. I contorni del suo volto parvero più spigolosi del solito, più aspri.
Lasciai vagare lo sguardo sulle città, diventate l’attrattiva principale di quella infelice scampagnata.
Quando scendemmo dall’autobus, alla nostra fermata, Posey non mi degnò di uno sguardo. Sembrava arrabbiato, ma allo stesso tempo, neanche troppo.
Scossi il capo, non intendevo continuare a torturami con altre seghe mentali.
 
M’incamminai verso casa, con l’intento di scaricare lo stress accumulato nel pomeriggio.
Una macchina rossa catturò la mia attenzione, aveva un’aria familiare.
- Ehi, Virginia! – urlò una voce. Proveniva dall’auto.
Sbarrai gli occhi, l’autista sembrava si stesse rivolgendo a me. Controllai nei dintorni, nel caso stessi andando errata.
Ero Naomi, Gwen, Virginia … qualcos’altro?
L’auto fu accostata vicino al marciapiede che ero intenta a percorrere. Dal finestrino abbassato, il suono vellutato di una voce prevalse la cacofonia che alleggiava nell’abitacolo. Quella per me non si poteva chiamare musica. – Ehilà, Gwen! Mi stavo giusto chiedendo se sareste tornati a casa prima che facesse buio. Quand’è il coprifuoco?  - poi seguì una breve pausa. - Che regola sarebbe questa? – mi schernì.
Chi diavolo si credeva di essere per prendersi gioco di me?
Lo incendiai con lo sguardo. Ne avevo fin sopra i capelli di lui e di quella racchia di Sharon.
Mi strinsi nella mia giacca troppo leggera, motivo per cui stavo battendo i denti, e proseguii ignorandolo.
Seth invertì il percorso, ma quando ero lì lì per esultare, dei passi mi destarono. La sua figura troneggiava sulla mia, del resto non poteva essere altrimenti. Ero la tappa per eccellenza.
- Andiamo, Virginia. – Io mi girai a guardarlo.
- Ancora con questo nome? Sono Na-… Gwen! – ribattei, dopo un attimo di esitazione.
Il suo sguardo si fece più intenso, più cupo. – Stai mentendo?
- Per nulla! – risposi con fin troppo impeto.
Accorciò le distanze e si parò dinnanzi a me. Retrocedetti in modo del tutto involontario.
- Gwen… sai di non essere all’altezza di Oliver, vero?
I miei occhi pizzicarono. Lo sapevo, c’era bisogno di farmelo presente in modo così brutale?
- Vaffanculo – mi feci scappare, la voce ridotta ad un sussurro.
Seth mi afferrò con irruenza il mento. Non era delicato come Oliver
- Devo forse ricordarti che non sono un gentleman?
Il respiro mi si bloccò in gola. Non volevo sentirmi così debole.
- Lasciami. Lasciami stare.
Seth scoppiò in una risata di scherno.
I miei occhi saettarono nei suoi: brillavano di una luce cupa contornati di rosso; quando poi avvicinò il suo viso al mio, sentii la puzza di alcol pervadermi le narici.
Ecco spiegato il suo comportamento violento.
- Hai bevuto – dissi, spingendolo lontano da me. Non riuscii a smuoverlo più di tanto.
- Bambolina, qual è il problema? – Prese una ciocca dei miei capelli e si mise ad esaminarla, mentre il suo sguardo rimaneva fermo nei miei occhi.
- Seth, devo andare a casa – cercai di levarmelo di torno, incontrando la sua opposizione.
A quel punto impazzì sotto i miei occhi. Premette la sua bocca sul mio collo, respirando a pieni polmoni la mia pelle.
- Profumi d’innocenza… - sussurrò con occhi diversi, non erano i suoi occhi, quelli del ragazzo strafottente di qualche ora prima. Quelli erano gli occhi di un pazzo, di un maniaco.
Impallidii. Ora avevo davvero paura che mi facesse del male.
- Ti prego, Seth – dissi con voce tremante.
Lui sembrò non ascoltarmi, la sua mano afferrò il mio fianco. –Ti piacerà, Pearl.
Non badai al nome che aveva pronunciato, in fondo mi aveva chiamato anche Virginia. Forse aveva problemi a ricordarsi i nomi e ad associarli ai volti.
- No – dissi, la mia voce era debole.
- Shhh...
Fu mentre si preparava a posarmi un altro bacio che il mio ginocchio scattò contro le sue parti basse.
Cadde a terra tenendosi i gioielli di famiglia.
- Stronzo di merda, non toccarmi mai più – gli urlai, carica di ira mischiata a paura.
Forse mi insultò, ma non me ne curai.
Corsi lungo le strade, corsi a perdifiato, corsi fino a sentire il respiro raschiarmi la gola.
Giunta a casa, con mani tremanti pescai le chiavi di casa e le infilai nella toppa.
Quando la porta di ingresso si chiuse dietro le mie spalle, scivolai a terra, sentendomi finalmente al sicuro.
 
Mia madre era sul divano rosso del salotto, avvolta dalle coperte.
- Mamma?
L’involucro di pile multicolore si mosse appena.
- Mamma, sono tornata.
Aprì gli occhi e mi squadrò dalla testa ai piedi. A volte dubitavo che si ricordasse che io fossi sua figlia. Era così assente.
- Preparo la cena, d’accordo?
Vidi i suoi occhi vagare per la stanza, per poi tornare ai miei. – Non ho fame.
Incrociai le braccia al petto.  – Mamma, non fare la bambina. Ora mi cambio poi vado a cucinare e quando avrò finito, verrai a mangiare.
La sentii sbuffare, ma il suo silenzio era un tacito sì. L’avevo imparato.
Dopo essermi tolta i mocassini neri e la divisa scolastica sporca di cioccolata, andai al piano di sopra. Salii le scale a chiocciola. La prima stanza era in origine la camera dei miei, diventata esclusivamente di mia madre, poi c’era il bagno e infine, l’ultima era la mia camera. Mi ci fiondai dentro e presi un vestito lungo color acquamarina e calzai le mie ciabatte blu.
Non avevo molta voglia di fare una gran cena. Quella giornata era stata decisamente troppo movimentata per me.
Preparai un po’ di pasta con del sugo veloce. – È pronto!
Passai uno strofinaccio inumidito sul tavolo, poi presi dal mobile la tovaglia e ce la adagiai sopra. A capotavola misi il mio tovagliolo e di fianco, alla mia sinistra, mia madre.
Quando avevo finito di apparecchiare, la sentii ciabattare in bagno per lavarsi le mani.
- Muoviti che si raffredda! – la esortai.
 
Non le dissi nulla di tutto quello che mi era successo quel giorno. Anche se avevo un disperato bisogno di confidarmi con qualcuno.
Era sempre stata lei quella che mi ascoltava, asserendo. E ora che era così distante, mi mancava da impazzire la mia vera mamma.
- Ma’? – dissi ad un tratto. Mi venne un guizzo di speranza.
Mi guardò, pulendosi la bocca col tovagliolo. – Cosa c’è?
- N-nulla – minimizzai, trattenendo a stento un sospiro amaro. Non potevo aggiungere alle sue spalle un altro peso.
 
La sera, verso le nove, quando ero in procinto di farmi una bella doccia, sentii il bip del cellulare.
Con uno slancio mi allungai a prendere l’aggeggio infernale. Un nuovo messaggio da un numero sconosciuto.
Aprii Whatsapp, con la fronte corrugata. Chi può essere a quest’ora?, mi chiesi.
 

Sei una Tallish tallishosa. Volevo che lo sapessi.
P.S.: Sono Keira <3

 
Era ufficiale, adoravo quella ragazza.
Sorrisi al suo messaggio strampalato e la aggiunsi alla rubrica.
Gliene inviai uno anch’io.

 
Chi ti dice che volevo saperlo? Ma pensa un po’ te.
P.S.: Inutile che metti i cuoricini, non sei tenera.

 
Premetti invio con un sorriso ebete. Non mi ricordavo che fosse così divertente avere qualcuno, con cui passare il tempo anche dopo scuola.
Attesi pochi secondi e apparve l’icona verde di Whatsapp. Ero smaniosa di leggerla.

 
Non sono tenera? COSA?! Cosa hai osato dire?
E allora tu puzzi tanto.

 
Sbarrai gli occhi. Mi aveva ricordato cosa dovevo fare.
 
Hai ragione puzzo tanto. Ora mi vado a lavare ;)
A proposito, Keira, posso chiederti un favore?

 
Era ancora in linea.

 
Certo.
 
Rimasi diversi minuti a digitare, ma tutte le parole mi sembravano sbagliate. Così glielo dissi senza giri di parole.
 
Keira… posso confidarti quello che mi è successo oggi? Mi dispiace usare te come vittima sacrificale, ma ho un disperato bisogno di sfogarmi con qualcuno. E… non ho nessuno con cui farlo, nessuno di cui posso fidarmi.

 
Lo lesse e rimase in linea qualche secondo, poi mi rispose.
 

Naomi, io sono qui. Mi piacerebbe molto essere tua amica. Voglio ascoltarti. <3
 
Domani a scuola, d’accordo? :)
 
D’accordo :*
 
 
Quella notte dormii poco e davvero male. Alle quattro di mattina mi svegliai con la fronte madida di sudore, cercando qualcosa a cui appigliarmi. Ero come un animale terrorizzato.
Sognai di Seth, delle sue labbra, delle sue mani. Sognai il suo corpo che mi bloccava, ma mi svegliai proprio in quel momento, di soprassalto.
Cercai di riaddormentarmi, ma senza successo; così presi dai downloads del mio telefonino un libro in PDF e lessi, finché non mi suonò la sveglia.
Mentre mettevo il dentifricio sulle setole morbide dello spazzolino, mi rincuorai all’idea di stare con Keira.
Scesi le scale pronta per fare colazione. Mia mamma aveva l’espressione disillusa, ma non mi ero ancora abituata a vederla così.
- ‘Giorno ma’! – le diedi un po’ di entusiasmo, come al solito.
- Buongiorno, figlia – rispose, concedendomi un sorriso.
Fermi tutti. Aveva sorriso. Mia mamma aveva sorriso.
- Mamma, sei felice? – le chiesi, speranzosa.
- No, tesoro, non lo sono.
Sentii il cuore sprofondarmi nel petto. Era la prima volta che mia mamma mi diceva la verità. Erano quasi tre settimane che vivevamo quella situazione.
- Oh, capisco.
 
Mentre mi affrettavo ad infilare la porta, mi interruppe.
- Fai la brava! – si raccomandò, ed era da tanto che non me lo diceva. Assorbii ogni parola di quella frase.
- Anche tu! – ricambiai il saluto facendole l’occhiolino.
 
Alla prima ora io e Keira avevamo corsi differenti. Stavo iniziando a lamentare la sua mancanza.
Nascosi il volto fra le mani: avevo bisogno di parlare, o sarei scoppiata lì davanti a tutti.
- Signorina Tallish? – Alzai il capo bruscamente. La classe, interessata, si sporse a darmi un’occhiata.
Gli occhi del professor Yalef erano visibilmente preoccupati. – Si sente bene?
Feci spallucce. – Non si preoccupi, Mr Yalef.
Lui ridusse gli occhi a due fessure, diffidente. Era chiaro che non mi credesse.  – Sono responsabile di lei, Tallish. Vada a darsi una rinfrescata, su.
Mi alzai dalla sedia di malavoglia, non risparmiandomi alcun rumore.
L’insegnante mal interpretò la mia performance, così provvide alla cosa. – Uhm… tu! – Mi chiesi a chi si stesse riferendo, ma non me ne preoccupai molto. – Come ti chiami?
- Newell – rispose il ragazzo. Perché la sua voce era roca al punto giusto?
Le gambe mi cedettero e persi l’equilibrio, ma mi aggrappai giusto in tempo al banco.
Poteva chiamare tutti, tutti, ma perché lui?
Feci una smorfia insofferente. Ed ecco che, il falco del mio professore, colse anche quello.
- Lo vede che la fanciulla ha bisogno del suo aiuto? – lo incitò l’uomo.
Newell accorse in mio aiuto, prendendomi in braccio.
Strinsi la mascella quando fui fra le sue braccia rassicuranti. D’istinto, per proteggermi dalle occhiate dei nostri compagni, spiaccicai la mia faccia sulla sua camicia bianca.
Profumava di colonia, di ammorbidente e… di lui. Avevo voglia di baciare e mordere quel petto.
Gemetti debolmente, frustrata per i pensieri impuri che mi stavano offuscando la mente.
Percorse l’aula e gli occhi di tutti ci seguirono, fedeli.
Quando chiuse la porta dietro di sé, ruppi il silenzio. – Mettimi giù. So camminare benissimo da sola – gli assicurai, ostile.
- Non lo metto in dubbio, ma come potrei privarti del privilegio di tenerti fra le mie braccia? So che ti fanno un certo effetto. Tutte le ragazze mi dicono che si sentono protette, - fece una risata, - non fai eccezione, vero?
Gli diedi una testata sul petto. – Vedi di fare meno il pallone gonfiato, o dovrò sgonfiarti io.
Il suo sguardo mi incendiò. – E come intenderesti sgonfiarmi, Tallish? – proseguì con voce suadente.
Rimasi interdetta; il mio atteggiamento infantile e ridicolo non gli faceva cambiare idea, anzi. - In qualsiasi modo, purché il tuo odiosissimo ego si rimpicciolisca. Hai presente il livello del mare? Ecco, vorrei che andasse ben lungi da quel punto.
- Lungi? Che?
Distesi le labbra in un pigro sorriso. – Musica per le mie orecchie.
Mi guardò interrogativo.
- L’ignoranza, è balsamo per i miei timpani – specificai ad occhi chiusi.
- Questo significa che… non ti pulisci le orecchie? Preferisci cose astratte per…
Scoppiai a ridere di gusto. – Dio mio, svegliati, genio! Non vedi che grondo – calcai sulla parola – sarcasmo?
Lui rimase in silenzio, scuotendo desolato la testa.
Mentre si dirigeva verso la toilette, mi dava qualche sbirciata. Io scrutavo attenta il suo viso. Aveva degli occhi magnifici: verde smeraldo.
- Vuoi una foto? – intervenne dopo qualche minuto.
- Ti dà fastidio? – chiesi, sorpresa.
Fece un sonoro sospiro. – No, mi piace, ma tu mi guardi in modo strano.
Corrugai la fronte, confusa. Credevo di guardare la gente in modo normale. – Come ti guarderei, scusa?
I suoi occhi si fermarono nei miei. Perché Dio aveva creato un ragazzo così bello? E poi una cessa come me? La vita è crudele.
- Mi guardi come se fossi qualcosa di incredibilmente sexy. E ciò significherebbe che fai pensieri zozzi su di me. E ciò significherebbe che vuoi fare cosacce con me. E ciò significherebbe che ti tocch-…
Cacciai un urlo mentre gli tappavo la bocca. – Non ti azzardare a dire queste porcate – ringhiai. Tolsi la mano.
Fece un sorrisetto malizioso. – Questo vorrebbe dire che lo fai? – mormorò al mio orecchio, tenendomi stretta a sé. – Pensi a me?
Mi vennero biliardi di brividi. Odiavo l’effetto che aveva su di me.
- Non meriti alcuna risposta – dichiarai solenne.
Eravamo arrivati al bagno così mi fece scendere. Rimase appoggiato allo stipite con la sua tipica nonchalance. Io mi rinfrescai il viso… e il collo, i polsi. Stavo andando in iperventilazione mentre ero fra le sue braccia. Il calore non si era ancora assopito.
- Vuoi farti anche la doccia?
Lo vidi venire verso i lavandini. Allarmata, misi le mani sotto l’acqua.
- Non fare un altro passo.
Era interdetto. – Perché?
- Questi sono i bagni femminili e io… ti bagnerò se ti avvicinerai ancora a me.
- Doppio senso – ribatté, sorridendomi beffardo.
Ripensai alle parole che avevo appena pronunciato. – Oh.
Fece un passo verso di me. – Chissà cosa c’è sotto quel velo d’innocenza…
Quella parola risvegliò in me il ricordo del giorno prima. Seth.
A coppa raccolsi l’acqua nelle mani e gliela lanciai. L’acqua gli arrivò dritta in faccia e sulla camicia.
I muscoli scolpiti erano ora ben più visibili.
- Ma sei impazzita?! – mi gridò contro.
- Oddio, scusami… - Ero sinceramente dispiaciuta. Ma l’idea che mi avrebbe potuto fare qualcosa… senza il mio consenso…
Non l’avrei sopportato.
- Meglio che me ne vada. – Si girò e uscì dal bagno.
Mi sentivo in colpa. In fondo lui non mi aveva fatto nulla, anzi, mi aveva portata in braccio fino al bagno. Era stato gentile.
Gli afferrai il gomito e lo feci voltare verso di me. – Scusa – ripetei con voce ferma.
Mi osservò a lungo.
– Dì qualcosa.
Lui, per farmi dispetto, continuò la sua ispezione.
– Mettermi in soggezione è la mia penitenza?
Newell annullò quasi del tutto le distanze. Sentivo il suo respiro, come una carezza, sul volto.
- Fammi un pompino.
 
 

 
 
 
 
 
 
Angolo autrice:
BAMMMMM (?)
Mi avete data per dispersa? I’m here!
Come sapete voglio scrivere cose originali e decenti, quindi non posso buttare qualche schifezza e pubblicarla. Sarebbe irrispettoso anche nei vostri confronti.
Dunque, cosa ne pensate?
L’ultima frase, personalmente, mi ha fatta crepare dalle risate. Cioè, Newell è troppo idiota. Non c’è nulla da fare.
Questo, per me, è stato davvero un mese difficile… e quel ragazzo mi tira su di morale, ci credete? AHAH Anche le vostre paroline, shi.
Mi auguro che la storia continui ad intrigarvi e a piacervi.
Non vedo l’ora di leggere quello che avete da dire. Gli scleri sul capitolo sono sempre ben accetti ahahah Secondo voi come reagirà la nostra protagonista? Cederà al fascino del bonazzo o lo prenderà a sprangate?
Scrivetemi le vostre teorie.
Con impazienza, vi attendo c:
 
Parliamo dello scorso capitolo.
7 recensioni????????????? Mi volete morta.
Passo a rispondere alle vostre bellissime recensioni. *____* Je vous aime tous.

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Capitolo 9
*** Capitolo 9 ***


NdA: Perdonatemi, mi schifo da sola per il ritardo.
Vi riassumo cos'è successo nel caso, giustamente, non vi ricordiate. Nello scorso capitolo Naomi era stata fermata da Seth, il quale l'ha molestata. Dopo averlo messo a terra, riesce a scappare e va dritta a casa. Poi Keira le scrive un messaggio e dopo un po' Naomi le chiede se il giorno dopo può confidarle una cosa. La notte dorme male. Arrivata a scuola però si sente ancora male per quell'episodio, dunque il prof la sollecita ad andare a rinfrescarsi. Vedendo il tentennamento di Naomi il prof la fa scortare da Newell, il quale bagna con l'acqua del rubinetto, (colpa del ricordo di Seth). A questo punto lui si infuria e se ne sta per andare così lei gli chiede scusa. Newell, le dice di fargli un pompino, se vuole che la perdoni.










Capitolo 9



 
Gli occhi mi uscirono quasi fuori dalle orbite per l’incredulità. Poi tornai serena. Avevo chiaramente sentito male.
- Scusa, ripeti. – Se da una parte mi ero calmata, dall’altra ero ancora timorosa della sua risposta.
Mi prese le mani mentre mi elargiva un sorriso seducente. Mi portò nel bagno delle ragazze e si premurò di chiudere la porta a chiave. Allibita, rimasi in silenzio.
Le nostre mani erano ancora unite. A questo punto le guidò fino alla patta dei pantaloni beige (facenti parte della divisa scolastica che i ragazzi dovevano indossare).
Mi accarezzò il viso, per poi sfiorarmi con il pollice il labbro inferiore. Cosa stava succedendo?
- Non immagini da quanto tempo ho desiderato le tue labbra sul mio…
Ora avevo davvero capito. – Vuoi un pompino da me? – lo interruppi, senza tante cerimonie, caduta dal pero.
Mi si avvicinò alle labbra. – Dio, sì – soffiò esasperato.
Stavo sicuramente sognando quella scena, ma il punto era che non era da me ritrovarmelo nei sogni.
- Non saprei farlo…  e comunque, non lo farei.
Newell era intento a slacciarsi la cinta. – Ti prego, Tallish. Lo so che vuoi succhiarmelo dalla prima volta che ci siamo incontrati.
Alzai un sopracciglio, in disaccordo. – Eh? – Scoppiai a ridere fragorosamente. – Voi ragazzi credete che vogliamo succhiare i vostri peni solo perché siete attraenti?! Noi ragazze non siamo malate di sesso! Abbiamo anche noi le nostre voglie, com’è giusto che sia, ma non ci mettiamo a fare pensieri del genere. Hai presente l’amore? Quello scritto nei libri? Ecco, noi sogniamo ad occhi aperti le dichiarazioni d’amore, i baci al chiaro di Luna. – Mi bloccai, notando la sua espressione stralunata.
Ehm… eravamo nella realtà per caso? – Newell?
- Mh – rispose subito.
- Mi dai un pizzicotto, per favore?
Malgrado fosse sconcertato dalla mia richiesta, procedette.
- Ah, cazzo! -  mi scappò di bocca. Mi massaggiai il braccio dolorante e tornai a guardarlo negli occhi.
- Credevo stessi sognando… - ammisi mogia.
Newell non si scoraggiò. Mi spinse con la sua stazza contro il muro del bagno. Non sapevo se trovarlo eccitante o poco igienico. – Io ti dico che voglio un pompino e tu reagisci in questo modo?
Mi persi nei suoi occhi. Perché proprio quel colore? Io amavo gli occhi verdi, erano quelli più rari.
-Ti ho appena detto che pensavo di sognare! – ribadii, alzando di poco la voce. Con lui era facile perdere la pazienza.
Il suo sguardo si intensificò e mi sfuggì un sospiro. Mi sentivo così esposta quando i suoi occhi incontravano i miei.
– E con questo? In un sogno avresti davvero rifiutato la mia offerta?
- Io… non lo so – riuscii a proferire, mentre il sangue affluva alle mie gote. Cosa avevo detto? Volevo prendermi a sprangate per la vergogna. Di chi era la colpa? Degli ormoni, ovviamente!
- Fingi che sia un sogno allora, e prendi la decisione giusta – sussurrò Newell, con la bocca vicina al mio orecchio. Era un diavolo tentatore. E non capivo perché il mio corpo si rimbambiva e lo assecondasse.
Per un attimo le mie mani agguantarono la patta dei suoi pantaloni. Volevo farlo.
- Esatto, piccola – mi incoraggiò, con la voce arrochita dall’eccitazione. Mi bloccai, disorientata.
Guardai le mie mani colpevoli e risalii al suo viso.
- C’è qualcosa che non va? – mi chiese, con la voce quasi premurosa.
Stizzita, lo spinsi lontano dal mio corpo. Oh, ma come aveva fatto ad ipnotizzarmi? Stavo per fargli un… a ripensarci mi corse un brivido.
- Cosa c’è? – ripeté e, questa volta, sentii la palese nota di irritazione cambiargli la voce.
I miei occhi si socchiusero, guardandolo come fosse stato uno scarafaggio. – Sei un egoista! – gli urlai contro, non mi astenni dal dargli uno spintone. Volevo prenderlo a pugni, o peggio, staccargli la protuberanza che si trovava nei suoi boxer.
Corrugò la fronte. Non capiva.
- Oh, credimi, sei un enorme egoista. So che non te ne frega di me, ma non ti risparmi queste scenette idiote. Scopati una cazzo di troia e stammi alla larga! – ringhiai, temendo che dalle mie orecchie potesse uscire del fumo, ( proprio come nei cartoni)
La sua mano afferrò il mio fianco. Fu un gesto rabbioso, notai. Non feci in tempo a pensare che mi volesse fare del male. Non aveva quegli occhi strani, ma di certo quel contatto non mi garbava affatto.
Ripeté il gesto sull’altro fianco. Poi strinse la presa, ma non abbastanza da farmi male.
- Condivido il mio uccello. Sono generoso, direi – mi rispose. Non era il suo solito tono scherzoso.
- Ma io non voglio partecipare! – ribattei, cercando di creare spazio fra me e lui.
La sua espressione la diceva lunga. Sapeva che stavo mentendo, ed anche io.
Le sue mani si spostarono sul mio sedere, ma prima che io potessi impedirglielo, lo strinse con le mani. Poi annullò una volta per tutte la poca distanza che divideva i nostri bacini. Sentii la sua erezione dura sul mio ventre. Mi sfuggirono dei sospiri. – Smettila di opporti. È fottutamente normale fare sesso a quest’età. Cosa cazzo ti spaventa? La prima volta, forse? Ho fatto sesso con delle vergini, posso rendere la tua prima volta speciale, se vorrai. Allora, Tallish, cosa ti frena? – Per quanto le sue parole fossero abbastanza carine, il tono con cui le aveva dette era carico di ira.
- Cos’è, stai andando in bianco troppe volte? – rigirai la frittata, alzando di un’ottava la voce.
- Ora basta – dichiarò. Pensai che si fosse stufato e se ne stesse per uscire da quel buco di bagno; invece fece tutt’altro. Le sue labbra si poggiarono sul mio collo. Sospirai di nuovo. Non riuscivo a bloccarlo perché quei baci io li volevo da troppo. Sentii le sue labbra curvarsi mentre era intento a riempirmi di baci: stava sorridendo. Le sue mani continuavano a mantere quella presa ferrea sui miei glutei.
Se dei baci sul collo mi potevano rendere così mansueta, non riuscii a immaginare altro. Arrossii al pensiero.
Sentii qualcosa di caldo e umido sulla gola. La sua bocca. Poi sentii i suoi denti sprofondarmi nella pelle, nella curva dove il collo incontrava la spalla… e iniziò a succhiare.
Ansimai, più forte. Le mie mani si intrecciarono ai suoi morbidi capelli scuri. Soffici onde, pensai.
Quando percepii la stoffa della mia camicetta inumidirsi, d’istinto rabbrividii. Mi accorsi pochi istanti dopo che ciò era causato dalla presenza di Newell, il quale poco prima avevo punito ingiustamente con dell’acqua. Stavo iniziando ad avere freddo -  a causa dell’idiota spiaccicato su di me – e stavo morendo di caldo – sempre a causa dell’idiota sopracitato. Percepivo due sensazioni contrastanti nel medesimo lasso di tempo. Sembrava impossibile.
I casi erano due: o me lo toglievo di torno, o me lo toglievo di torno.
I problemi erano due: non volevo farlo e stare vicino a lui mi dava alla testa.
La carne è debole, disse qualcuno e non potei essere più d’accordo di così. Per quanto stessi combattendo, per quanto ci stessi provando, volevo arrendermi al desiderio incontrollabile di perdermi in lui.
- No… - ansimai, per interromperlo. – Basta – mormorai.
I brividi che mi percorrevano però lo convinsero, silenziosi, che la mia fosse solo una bugia. Fu un via libera per lui, ora che aveva visto il suo desiderio riflesso nei miei occhi - e non solo.
Le sue labbra roventi mi marcarono la mandibola con una lunga scia di baci. Non potevo permettergli che arrivasse alla mia bocca. Posai il dito indice sulle mie labbra con ottimo tempismo; le sue labbra non incontrarono le mie.
Sospirai con gran sollievo, e trattenni a stento un sorrisetto, soddisfatta della mia forza di spirito.
- Hai paura che i miei baci siano troppo sconvolgenti? – mi sfidò Newell, risentito.
Gli stavo rifiutando ogni tipo di contatto fisico – o quasi. Non ci era abituato, poverino.
- Qualcosa del genere – gli risposi, non sapendo cos’altro dire. Di sicuro non gli avrei rivelato il reale motivo.
- Piccola, non farti pregare – cercò di farmi cambiare idea. Con quel “piccola”, poi… chissà quante volte lo avesse detto, come se fosse una parolina magica, una preghiera, un mantra.
I miei occhi tornarono nei suoi. Questa volta ero solamente stanca di farmi manipolare da lui. – Non sono una delle tue amichette – affermai, gelida. E prima che potesse chiedere spiegazioni, continuai: - Non sono una di quelle troiette che porti a spasso. Non scambio favori sessuali con regalini costosi. Non sono come le altre. Quindi, qualunque cosa tu stia cercando di fare, piantala. - Questo discorso mi pareva di averlo già fatto… Scossi la testa.
Le sue mani si serrarono con forza sui miei fianchi. Ero certa che mi avrebbe lasciato dei lividi non indifferenti. Respirai con affanno, non volevo piagnucolare di fronte a quello scatto di collera. – Tallish, – grugnì - sei patetica a livelli stratosferici. Credi che non mi accorga di come le tue ginocchia siano deboli, di quanto il tuo cuore batta forte, delle tue guance arrossate, della tua voce roca, del respiro affannato? Credi che sia stupido? Lo so che ti sei bagnata. Non sono io quello che dovrebbe smetterla, ma dovresti essere tu. Continui a negare l’evidenza. Ma io lo so che mi vuoi. Mi chiedo quale sia il problema.
Sentii un vortice di emozioni travolgermi, lasciandomi senza parole. Non sapevo cosa pensare, figuriamoci cosa dire. Il mio cuore mi ripeteva che fosse sbagliato, che mi avrebbe solo trattata come un giocattolino, ed il mio corpo pensava fosse giusto. Eppure, mi ritrovavo sempre ad un passo dal commettere il peggiore errore della mia vita: lasciare che mi ammaliasse solo per portarmi a letto.
- Non pretendo che tu capisca le mie ragioni. – Ci fu un silenzio strano, scomodo. - E se fingessimo che non ci fossimo mai incontrati? – Mi aggrappai a quell’unica scialuppa.
- Ah sì? – il suo tono era divertito. – Così questa sarebbe la tua soluzione? Fingere indifferenza – sputò velenoso. – Sai cosa? Mi sono davvero rotto il cazzo questa volta.
Rimasi a crogiolarmi nel silenzio, spezzato solo dai nostri respiri.
- Forse hai ragione. Forse dovremmo fingere di non conoscerci. Ma vorrei che prima avessi un assaggio di ciò che ti perderesti. – Si avvicinò al mio viso.
Intuii che intendesse quello. Un bacio.
Lo bloccai a tempo. – No! Non mi baciare. – Parevo quasi impaurita.
- Ti sto baciando da minuti – ribatté con sufficienza.
- Ma non sulle labbra – risposi, ovvia.
Mi studiò diversi istanti, con quegli occhi incantevoli. Sembrava che stesse cercando di leggere i miei pensieri, le mie paure, i miei sogni. Era spaventoso e piacevole in contemporanea.
- N-nessuno… - sembrava in difficoltà, – ti ha mai baciata?
Inghiottii l’amara sensazione assieme alla saliva. – No, mai – mi arresi, abbassando lo sguardo sul pavimento.
Sospirò piano. – Credo che tu abbia ragione. Finiamola qui.
Quelle parole furono una secchiata d’acqua gelida. All’improvviso tutte le mie certezze erano crollate. Volevo che si opponesse, come aveva sempre fatto. Non ero… soddisfatta della sua reazione.
E poi, un sorriso mi si dipinse sul volto, mentre rialzavo a fatica lo sguardo. Non credo che scorse quanta amarezza e delusione ci fosse dietro. – Bene – dissi in modo meccanico.
Era tutto tranne che un bene.
 
Lui uscì dal piccolo bagno e lo imitai pochi attimi dopo, ma non attraversai la soglia per entrare in corridoio.
Mi sembrava di essere diventata claustrofobica. Quelle parole erano opprimenti. Volevo riavvolgere il nastro per poter cambiare il corso degli eventi.
Non mi fece alcun cenno; avevo cessato di esistere nel momento in cui avevo proferito la parola “bene”.
Scivolai lungo la parete del bagno, costituita da mattonelle bianche che si alternavano a quelle blu, e mi accasciai a terra. Non mi preoccupai del pavimento sporco, in quel momento sarebbe potuta anche andare a fuoco la scuola.
Non ero in grado di spiegare nemmeno a me stessa il motivo del mio malessere. Non era quello che speravo?
Presi un sospiro e poi un altro, e un altro ancora. Il mio cuore stava sanguinando per un qualcosa che non era accaduto? Avevo fatto la cosa giusta. Però non pareva così giusta ora.
Mi strinsi le ginocchia al petto, ancora scossa da quell’accordo.
- Eccoti qui! – sentii una voce femminile. Mi voltai nella sua direzione, a sinistra. Le mostrai un debole sorriso, sperando che la conversazione morisse lì, sul nascere.
- Ti ho inviato diversi messaggi. Ma… hai un reggiseno azzurro? – domandò ilare.
Abbassai lo sguardo sul mio petto. Il mio reggiseno era in bella mostra. Era di seta e le spalline erano adornate da una serie di perline del medesimo colore. Un regalo che mi ero fatta, per togliermi lo sfizio.
Annuii, rossa in viso.
- E… - si schiarì la voce, - come mai hai la camicia bagnata? È stato Newell, non è vero?! Ora tu mi racconti tutto – concluse Keira.
- Non mi va di parlarne – risposi atona, evitando di guardarla negli occhi. Mi soffermai a dedicare le mie attenzioni ai nomi maschili accompagnati da cuoricini, o agli insulti pesanti, i quali tappezzavano le porte dei cinque bagni davanti a noi.
Keira venne a sedersi di fianco a me. – Naomi, che succede? E, abbi la decenza di guardarmi in faccia, sono tua amica ora. – Feci quello che mi disse per mezzo minuto.
Poi cambiai posizione: incrociai le gambe e appoggiai i gomiti sulle cosce. Questo mi permise di sprofondare il viso nelle mani. – Ho fatto uno sbaglio – pigolai, la voce soffocata dai miei palmi.
- Mmh... ma ti riferisci al messaggio di ieri?
In un primo momento non ricordai. Infine ecco l’ennesimo brutto ricordo.
Le dissi quello che era successo. Avevo dormito poco e male, in classe la mia faccia stravolta aveva insospettito Mr Yalef, che aveva deciso di farmi accompagnare da un ragazzo fuori dall’aula. Guarda caso il ragazzo non era altro che Cameron Newell. Le raccontai della doccia non richiesta che gli avevo regalato, di come avesse cercato di approfondire la conoscenza dei nostri corpi e di quel patto che avevamo stretto poco prima. Lei annuiva per farmi capire che mi stesse seguendo.
- Ieri pomeriggio io… stavo tornando a casa… - continuai titubante, quasi mi vergognassi. – Un ragazzo, Seth, amico di Oliver Posey, mi ha…seguita. Lui mi prendeva per il culo e io l’ho provocato, dandogli del gay. Lui non l’ha presa bene, mi ha afferrato per i fianchi e mi ha baciata sul collo. – Mi sfiorai il punto in cui i baci di Newell si erano posati, ossia sul lato opposto. – Aveva bevuto, era fuori di sé. Ha cercato di… andare oltre… di toccarmi senza il mio consenso. E gli ho tirato una ginocchiata alle parti basse. Non mi ha seguita. – Spesso tornavo a fissare le porte, non riuscivo a parlare apertamente di queste cose.
Mi abbracciò, accarezzandomi con dolcezza la schiena. Sentii il carico di dolore sulla mie spalle, diminuire di peso. Ero sollevata di avere qualcuno con cui confidarmi di nuovo.
- Mi uccideranno – la guardai, - ci uccideranno – mi corressi.
Keira aggrottò la fronte, e una piccola ruga verticale le si disegnò in mezzo.
- I professori. Sei qui da mezz’ora, e io anche di più. – Mi morsi il labbro, spaventata dalla possibile ramanzina.
- Mr Yalef ti giustificherà, mentre io dirò che mi sono sentita male. – Mi guardò con attenzione. – Le bugie a fin di bene non fanno male a nessuno.
Bugie. Dovevo ancora parlarle di Oliver, il mio segreto. Dai tempo al tempo, mi dissi però.
Si alzò e mi tese la mano. La afferrai contenta; avevo bisogno di un’ancora, di un punto fermo. E forse l’avevo trovato.
 
All’uscita da scuola, il freddo mi fece venire la pelle d’oca. Compivo piccoli passetti, invidiando gli altri studenti che tornavano a casa assieme. Nella mia solitudine mi sentii vulnerabile.
Quando poi la pioggia iniziò a scrosciare sulla piccola cittadina, maledii il tempo. Mi fermai e frugai nel mio zaino in cerca di un ombrellino, che ero certa si trovasse lì. – L’ho lasciato a casa, perfetto – mormorai spazientita.
Aumentai il passo per salvare i libri nella cartella. Sentii dei passi rapidi alle mie spalle, poi la pioggia cessò di colpire il mio corpo. Col naso all’insù scoprii un grande ombrello nero, poi mi voltai, notando con sorpresa una persona che mai mi sarei aspettata: Oliver. Gli sorrisi. – Grazie.
- Sei bagnata come un pulcino!
- Pio pio – cinguettai, con stupidità.
I suoi occhi azzurri mi bloccarono la respirazione. – Scusami Gwen per ieri. Se non vuoi uscire più con me, rispetto la tua scelta. Ieri era solo una brutta giornata e…
La sua voce calda mi accarezzava le orecchie. Era dolce e rassicurante.
- … e ti perdono – conclusi per lui la frase, abbozzando un sorriso. Lui lo ricambiò con prontezza.
Rimanemmo in silenzio, con il ritmico picchiettare della pioggia sull’ombrello, per una manciata di minuti. Si stava bene lì, con lui, a camminare sotto la pioggia.
- Ho pensato a te – mi disse. La sua voce era sincera, si sentiva, e quando i nostri occhi si incontrarono persi qualche battito. Lessi solo verità, e la cosa mi spiazzò.
- Wow – ammisi, per poi diventare rossa per la mia risposta insipida e fuori luogo. – Cioè, ne sono felice…
- Gwen, non devi dire le cose per farmi un piacere. Sii sincera e basta – mi disse con dolcezza.
Io volevo seppellirmi in quel momento. Ero stata bugiarda con lui, avevo mentito sul mio nome, su chi fossi. Mi disgustavo.
- Oliver… devo dirti una cosa. – Era il momento perfetto per vuotare il sacco.
Lui mi fece cenno di continuare. – Io… - tentai, la mia gola era riarsa.
- Sì, Gwen… - mi esortò a terminare ciò che avevo cominciato.
- Seth – riuscii a dire. Mi insultai mentalmente. Ero una vigliacca cronica.
Mi guardò con diversi punti di domanda immaginari che gli danzavano sul volto.
- Seth ieri, mentre tornavo a casa, mi ha quasi molestata. Era ubriaco, non troppo perché è riuscito a guidare, ma abbastanza per chiamarmi Virginia e poi Pearl. Ne sai qualcosa?
Corrucciò la fronte. – Di Virginia… no. Ma Pearl… - lo vidi tentennare, - Pearl era la sua ragazza.
Il suo sguardo si fece cupo e serio. Mi chiesi chi fosse questa ragazza, perché l’avesse tirata in ballo. Cosa mi accomunava a lei?
- Le assomiglio? – Un lampo di qualcosa passò nei suoi occhi, ma fu troppo breve che non riuscii a carpirlo.
- È complicato – rispose, come se bastasse. Volevo saperne di più, ma capii che non era la persona giusta a cui chiedere.
Dovevo domandarlo al diretto interessato.
 
- Siete amici da molto?  Tu e Seth intendo. – Mi interessava davvero, e in parte volevo parlare di qualcosa di piacevole. L’amicizia.
- Cosa intendevi prima con “Mi ha molestata”? – Mi guardò, preoccupato. Era quello a cui stava pensando da diversi minuti?
Distolsi lo sguardo, notando sul marciapiede opposto una coppia di anziani con la nipotina che saltellava in una pozzanghera, divertita. La spensieratezza, quanto mi mancava.
- V-vuoi davvero saperlo? – balbettai a disagio, riportando i miei occhi nei suoi.
- Se vuoi dirmelo, sì, vorrei saperlo – confessò, con lo sguardo malinconico. A cosa stava pensando?
- Mi ha b-baciata sulla spalla… – e meccanicamente portai le dita della mano a sfiorarmi il collo nella parte destra. Un conato si fece strada nella mia bocca. Parlargliene a lui rendeva la cosa più reale dato che lo conosceva, e anche bene. – Mi ha stretto il fianco e… N-non so cosa volesse farmi davvero. Ma sono riuscita a scappare via. – Mi tuffai nell’azzurro dei suoi occhi. Vidi un cielo triste, nel suo sguardo.
Con il dorso della mano mi sfiorò la guancia con tenerezza, in seguito ci lasciò un caldo bacio. E poi la mano libera mi accarezzò con delicatezza la schiena, sospingendomi vicino a lui. I nostri corpi che premevano appena l’uno sull’altro. Affondai il mio viso nel suo collo e il suo odore mi pervase le narici. Sapeva di fresco e di menta.
- Mi dispiace, Gwen, mi dispiace tanto – disse con voce greve. Sentii un’implicita supplica, una richiesta di perdono in quelle parole. Come se avesse commesso egli stesso quello sbaglio.
- Seth è difficile da capire… Ma agisce sempre per un motivo. Ora non sto dicendo che tu abbia fatto qualcosa per portarlo a… molestarti. No. – Sospirò. – Voglio dire… Gwen, ho qualche idea, ma non sono certo che sia stato quello a spingerlo. Lui, lui ha dei problemi in famiglia e con se stesso. È incasinato, però gli voglio un bene nell’anima.
Non seppi neppure io perché la rabbia si impadronì di me quando concluse. – E così lo giustifichi? – sbottai, guardandolo truce. Chiusi le mani a pugno.
- No, affatto. Gwen, ma mi senti? Non giustificherei mai una cosa simile. Soprattutto se fatta a te. Gli spaccherò la faccia appena lo vedo, sai? E si dovrà ritenere fortunato se non lo castro – sibilò, senza traccia di divertimento.
- Ma rimane sempre mio amico – disse in un sussurro.
- Avrebbe potuto stuprarmi… – mormorai, e non seppi a chi stessi indirizzando quelle parole. Rimasero sospese nell’aria per qualche istante.
Mi prese la mano stretta a pugno e cercò di farmi allentare la presa. Riluttante, smisi di opporre resistenza. – Stai tremando – constatò guardandola. Mi accarezzò le dita. Le portò alle labbra, baciandomi le nocche.
- Chissene frega – risposi, con la voce rotta.
- Frega a me.
- Ho… paura di lui – sussurrai mentre le lacrime scivolavano lungo le mie guance.
- Ci sono io adesso – mi disse, appoggiando la fronte alla mia.
Serrai gli occhi, volevo fingere che non fosse reale. Non volevo innamorarmi, non ancora. Né di lui, né di Newell, né di nessun altro.
 







Angolo autrice:
Ragazze (e ragazzi?) finalmente pubblico il capitolo. Continuavo a rimandare, non mi convinceva, o meglio temevo di riscontrare errori solo dopo averlo pubblicato.
Ad ogni modo avrete notato che nelle caratteristiche della storia sono state fatte delle aggiunte. Appunto il non-con derivante dalla molestia di Seth. E poi il genere drammatico. Esatto, perché la storia per quanto possa essere vissuta con leggerezza a tratti risulta drammatica. Peraltro ci saranno dei nuovi personaggi (eh sì, mi dispiace per voi ahah) e quindi... altri casini!

IMPORTANTE: ragazze ho seriamente bisogno di aiuto per quanto riguarda l'ambientazione e il sistema scolastico. Suppongo di avere proprio fatto una stro****a ad aver fatto svolgere la storia a Londra. I ragazzi lì hanno la propria classe e in America invece gli studenti devono recarsi nelle aule dei professori. Dico bene? Se qualcuno ne sa qualcosa e me lo conferma, mi farebbe davvero un favore e lo ringrazierei anche pubblicamente sul sito.
Vanno bene anche dei libri in cui vi le storie sono ambientate a scuola. Potrei prendere spunto da quelli per ricavare informazioni. Sono disperata, davvero.
Essendo che ho riletto la storia e ho trovato questo enorme errore (o almeno credo sia un errore), mi sono ritrovata in condizioni di doverlo chiedere a voi lettori. Forse qualcuno che ha avuto la fortuna di stare per un po' a Londra (o in America, appunto penso di far "trasferire" i personaggi lì a questo punto). Non so. ^^
Ditemelo in una recensione o in un messaggio privato, come preferite!

Ora voglio commentare il capitolo (?). Mi prendo certe libertà...
Ho amato la parte del bagno, la schiettezza di Newell e anche della Tallish però. E di come Newell abbia reagito alla rivelazione. *risata malvagia* Io so perché lui si è comportato così. :P
Keira rimane sempre una cara ragazza. E la adoro... e spero avrete notato qualcosa in lei. Nel come parla... è sempre così misteriosa. *si tappa la bocca*
Oliver. Boh, voi lo odiate quel povero tesoro, ma io lo stra-amo. E' un ciccino adorabile. *occhi a cuore*
E ora lascio a voi la parola. Spero di leggere i vostri pareri, e, ricordate: fangirlate e shippate pure! A me fa solo piacere :)
Più tardi rispondo alle recensioni del capitolo 8, don't worry.
Un abbraccio forte forte,
variopintadite

P.S.: Grazie per le 15 preferite; per le 7 ricordate; le 34 seguite. Inoltre grazie a chi ha recensito i capitoli della mia storia, per aver ritenuto degna questa storia della vostra attenzione. Perché se rileggeste il primo capitolo, nell'angolo autrice noterete che non ero sicura nel pubblicarla, figuriamoci del continuarla. Ma il fatto che non la abbandoni si riconduce a voi.
Grazie, grazie e grazie ancora. Siete le migliori.

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Capitolo 10
*** Capitolo 10 ***


NdA: Sono tornata! ** Buonasera meraviglie! Ho concluso il capitolo qualche minuto fa. Mi sono impegnata molto e mi sono anche divertita a scriverlo. L'ambientazione della storia è stata stravolta. Non ci troviamo più nel Regno Unito, bensì in America. I capitoli precedenti saranno revisionati. Durante le vacanze natalizie dovrei avere abbastanza tempo. Spero vi piaccia. Vi auguro buona lettura! Ci vediamo sotto ;)



Capitolo 10
 

 
La pioggia si fece più violenta; era il principio di un diluvio. Regola numero 1: mai fidarsi dei meteorologi, non sanno fare il proprio lavoro.
Oppure consultare il meteo. Sì, forse era questo il punto. Cosa che non facevo mai. E li incolpavo… Poveri.
- Dobbiamo sbrigarci… - mi intimò Oliver, affrettando il passo.
- … o affogheremo – aggiunsi, con l’intento di strappargli un sorriso. Missione compiuta!, pensai quando vidi la sua reazione.
Mi aiutava a velocizzarmi, con una mano che mi sospingeva dietro la schiena. Grande e calda. Mi sentivo avvolgere tutta.
Mentre percorrevamo le viuzze, mi accorsi che ci trovavamo in un posto insolito, - e soprattutto – mai visto prima d’ora. O forse ci ero già stata? Al momento avevo solo ricordi frammentari.
- Dove siamo finiti? – mi premurai di dire, gettando occhiate qua e là, disorientata.
- Non stavamo andando a casa tua? – mi chiese sconcertato.
- Io stavo seguendo te – ammisi. Quelle parole scioccarono persino me.
- Non hai internet sul cellulare? – chiesi. Lui mi guardò infastidito. Avevo detto qualcosa di male?
- No, non sei tu. – Mi sorrise con quelle fossette. - È che la volta scorsa, quando ci eravamo persi, non ci ho pensato, al navigatore. – Pareva mettersi sempre egoisticamente al centro di tutto. Trattenni a stento uno sbuffo.
- Non ti preoccupare, ce la caveremo, Gwenny. – Mi stava rassicurando. Aveva frainteso lo sbuffo con un sospiro di rassegnazione.
Stare con lui, anziché farmi stare bene, non faceva che portare a galla il lato peggiore di me. Strinsi i pugni con rabbia; li avevo introdotti nelle tasche del giubbotto per tenere le mani al caldo.
Mi volevo allontanare da lui. Mi irritava. Era come un perenne confronto su chi fosse il migliore. E non facevo che perdere di continuo.
Non mossi altri passi, rimanendo ferma sotto la pioggia. Odiavo quella situazione. Odiavo la mia vigliaccheria.
Sperai scioccamente che si dimenticasse di me in quel momento. Volevo chiudermi in camera e pescare un libro a caso dalla mia libreria, tenendo il mondo fuori. Lontano.
Ero così confusa dai miei sentimenti, dai miei pensieri, dai miei reali desideri. - Gwen? – Si stava avvicinando. Aveva un po’ il fiato corto.
Lasciò cadere l’ombrello sul marciapiede. E mi abbracciò. – Io non sono lui. Ti fidi di me? – Il dolce sentore della menta mi pervase le narici, infondendomi una gradevole sensazione. La pioggia tamburellava sui nostri corpi, componendo melodie delicate e appena udibili. Non risposi. Quando provò a staccarsi, io glielo impedii. Lo strinsi con disperazione contro il mio petto, più forte che potevo. Non era solo la storia di Seth ad avermi turbata. Era tutto. Il divorzio, Newell, Oliver stesso, la scuola. Ero un concentrato di problemi e, tutti questi elementi, non facevano che opprimermi.
- Gwen, ehi, tesoro? – mi chiese, con tono gentile.
Glielo dissi con voce debole, ma glielo dissi: - Stringimi e basta.
Lo fece, nel più meraviglioso dei silenzi.
 
- Va bene – risposi solamente. Lanciai una scorsa in direzione dell’ombrello abbandonato. Lui lo raccolse. I suoi gesti non erano impacciati come i miei, ma vantavano eleganza e grazia.
- Milady? – chiese conferma. Annuii e presi posto accanto a lui. Tirò fuori il cellulare, stando ben attento a non farlo bagnare. Era rilassato, ma poco dopo il suo viso sbiancò. Mi preoccupai, pensando al peggio del peggio.
- Oggi mi hanno rinnovato la promozione… e non costa poco. Non ho abbastanza dollari con me.
Non sapevo se tirare un sospiro di sollievo perché non fosse grave come cosa, o farmi prendere dal panico per quello che ne derivava.
- Troveremo una fermata del bus… no? – Lo guardai. Farlo mi infondeva sicurezza.
Mi chiesi perché non chiamasse un suo amico. Ma poi ripensai a Seth. Possibile che tutto si ricollegasse a quel microbo? Scacciai via il pensiero.
- Ma non c’è qualcuno che può darci uno strappo? – proposi, speranzosa. Il freddo iniziò a raggiungere ogni cellula del mio corpo.
Notai la reticenza che aveva nel pronunciare quel nome. - S-seth era l’unico, forse. Gli altri sono tutti a mangiare, non vorrei dar fastidio.
- Be’, ma non è una cosa che chiedi tutti i giorni. Un favore ad un amico non si nega mai. O sbaglio? – Sorrisi.
- A me darebbe fastidio, se una persona mi chiamasse in un momento del genere – confessò, guardando dritto davanti a sé.
- Mangi più tardi. Dov’è la difficoltà? – continuai, ignorando il problema di fondo.
Piegò la testa all’indietro, il poco che bastava per avere nel proprio campo visivo il telo scuro dell’ombrello. Sembrò che volesse osservare il cielo, in cerca di un suggerimento, di un segno. Poi abbassò lo sguardo, questa volta sull’asfalto. Parlami, avevo voglia di dirgli.
- Lunga storia – si limitò a mormorare. Non volevo che si limitasse nel parlare con me. Volevo fiducia. Era ciò che mi aveva chiesto quando prima mi aveva stretta… ma non aveva intenzione di ricambiare la cosa.
- Lunga storia?! – ripetei le sue parole, con un tono di voce più alto. – Io do. E tu?
Oliver mi guardò accigliato. – Come?
- Pretendi da me fiducia, ma non me la dai. Ti sembra una cosa equa? – Nel suo sguardo lessi sbalordimento.
- Dici sul serio? – Si prese una manciata di secondi, per guardarmi meglio. Avevo voglia di nascondermi da quello sguardo inquisitore. – Non voglio rinfacciarti ciò che sto facendo, ma adesso sto con te! Sono qui, quali altre conferme vuoi? Ci vuole del tempo perché una persona si riesca ad aprire, sai? Non è semplice. – Era arrabbiato, ma non con me. Sentivo il suo rancore carbonizzargli l’anima. Come se custodisse dentro troppi segreti, come se sentisse il bisogno di liberarsi di tutti i fardelli di cui si era fatto carico nella sua vita.
Feci spallucce. – D’accordo. Aspetterò – affermai, stanca di discutere.
Oliver scosse il capo appena, consumato dai pensieri – che fosse paura? Il suo sguardo era intellegibile e, in una certa misura, distante anni luce.
Gli afferrai la mano, una presa salda. Non volevo mettere su il broncio per una sciocchezza. Malgrado la cosa mi rodesse, ciò non significava di certo che dovessi darlo a vedere. Dovevo mettere da parte la mia infantilità. Lui la strinse a sua volta.
Camminammo una decina di minuti verso l’ignoto, mano nella mano. Se la prima volta avere le nostre mani intrecciate mi aveva scatenato un attacco cardiaco, ora mi faceva sentire sicura. Di cosa, ancora non lo sapevo.
Ecco. La fermata spiccava pochi metri davanti a noi. - Ci perdiamo spesso – spezzai il silenzio, - eppure riusciamo sempre a cavarcela. – Insieme, aggiunsi nella mia mente.
Oliver mi studiò in viso, socchiuse le labbra, ma cambiò presto idea e le serrò. Aveva la fronte aggrottata; chissà cosa gli passava per la testa.
- Scusa. – Udii.
Non risposi. Annuii senza proferire alcun suono. Ritenevo che certe volte non servisse straparlare. Ascoltare  - e cercare di capire - era la chiave.
Ci sedemmo sulla panchina, al coperto dalla pioggia torrenziale. Eravamo fradici e stanchi.
Mi accoccolai contro di lui, con la guancia sulla sua spalla, nel tentativo di riscaldarmi almeno un po’.
Mi circondò il corpo con le sue braccia scolpite in una presa forte e piacevole.
- È strano. Litighiamo, eppure non mi dispiace. Perché poi finiamo così. – Si riferiva alle nostre effusioni. Arrossii. Non ci avevo pensato. Ero così presa da tutto, che non avevo notavo che stessi abbracciando un ragazzo e che fosse proprio Posey.
- Non c’è bisogno di diventare un pomodorino. – Mi strizzò l’occhio.
Presi a fissare con finto interesse la locandina di un nuovo film, fissata sulla parete della struttura che ci permetteva di attendere la fermata. Si trovava sulla destra e pochi centimetri più in là si trovava un cassonetto dell’immondizia verde scuro. Che emozione.
- Ti ho mai detto che sei adorabile quanto fai finta di niente? E anche quando arrossisci.
Lo guardai storto. – Mi stai mettendo in imbarazzo.
- E quindi? – Un sorriso sornione si dipinse sul suo volto.
- Quindi hai rotto. – Volevo fare la seria, ma mi scappava da sorridere.
Mi diede due leggeri colpetti sulla testa. – Fai la brava.
- Mi hai appena fatto pat-pat sulla testa?
Lui portò il suo sguardo alle mie labbra, ma lo distolse in fretta. – Come? – chiese.
Ripetei la domanda. In una frazione di secondo scoppiò a ridere.
- Non c’è nulla di divertente – mi sentii dire. Ma ben presto la mia recita non durò a lungo e mi ritrovai a ridere a crepapelle. La sua risata era contagiosa.
- Alleluiaaa! – esclamò, alzandosi in piedi. Mi tirai su e gli feci eco.
L’autobus parcheggiò nella fermata designata. Le porte si aprirono. Ci fiondammo nel mezzo e acquistammo il biglietto. Lo passammo nella macchinetta per la convalida e prendemmo posto. Non era così affollato. Forse perché tutti si stavano nutrendo, mentre noi poveretti ci ritrovavamo con lo stomaco brontolante. - Diverso – mormorò. Eravamo in procinto di sederci quando lo sentii. Ma era come assorto in un dialogo interiore. Trovavo tenero il fatto che gli sfuggissero pensieri dalle labbra.
- L’ombrello? – urlai. L’autista frenò di scatto, il veicolo subì uno scossone non indifferente. I pochi passeggeri gemettero in protesta e mi guardarono come se volessero uccidermi. Avevo paura.
- Shh! Ce l’ho, è qui. – Mi mostrò l’oggetto in questione, per darmi conferma. – Tutto a posto. Può andare – concesse il biondo, ma l’autista si era già avviato, ignorandolo. Si era fermato per lo spavento, non perché gli importasse dei nostri effetti personali. Egoista.
- Screanzata! – sentii gracchiare una vecchietta, munita di bastone. Mi ritrassi il più possibile. Avrebbe potuto usarlo come arma. Oliver lo notò e scoppiò a ridere.
- Smettila di ridere di me! – lo rimproverai, mettendomi a braccia conserte. Affondò i denti nel labbro inferiore, per reprimere le risate. Feci l’errore di lasciar scivolare lo sguardo su quel particolare, e mi maledissi. Sono così rosee. Che caspita di pensieri anormali generavo? Colpa del particolare.
Trassi un sospiro.  – Cosa c’è? – mormorò malizioso, avvicinando il suo viso al mio.
- N-nulla! – balbettai, in contropiede.
Il suo naso sfiorò la mia guancia. Non stavo arrossendo, no. Stavo andando a fuoco. Ero ustionata da quel tocco.
- Che insolenza! – cianciò ancora la megera, con Il Sommo Bastone stretto nella mano grinzosa.
- Mi scusi, non stiamo facendo nulla di male. Siamo liberi di scambiarci effusioni in pubblico purché non sfocino in cose spinte – dichiarò Oliver.
L’anziana grugnì, e si voltò a guardare fuori dal finestrino.
- Oppure ti dispiace? – mi sussurrò nell’orecchio. Rabbrividii.
- Sei un porco – confermai, a voce bassa.
La sua mano mi accarezzò, delicata, il ginocchio. Stavo morendo. Disegnò strane figure lungo tutta la mia coscia, saliva piano piano. Si arrestò sul mio fianco destro, ma poi risalì la mia schiena, passando sotto la mia maglietta. Toccò la mia pelle nuda. Trattenni innumerevoli mugolii. La sua lingua mi sfiorò il lobo e ci affondò i denti. Sospirai.
Persi ogni cognizione possibile. Del tempo, del luogo e della mia stessa identità.
- O-oliver – dissi a fatica, per farlo staccare. La sua mano raggiunse il mio reggiseno; introdusse il pollice nella coppa e sfiorò un seno. Mi morsi le labbra a sangue, perché in quel momento il gemito era ciò di quanto più sicuro conoscessi.
- Gwen – sussurrò lui, con voce roca. Fu come se mi avessero buttato in una vasca ghiacciata. Mi risvegliai. Io ero Naomi.
Afferrai il suo grosso avambraccio e lo spinsi lontano dal mio corpo. – Dobbiamo tornare a casa – replicai algida. Ce l’avevo con me stessa.
- Ho fatto qualcosa…? – Era confuso, ma non era il momento. Con la pancia piena avrei detto cose più sensate.
Intanto la pioggia aveva smesso di imperversare sulla città. L’umidità era quasi tangibile nell’aria e odorava di tubi di gas di scarico e di asfalto. Appurai queste cose quando scendemmo dall’autobus.
- Non serve che mi accompagni. A domani – gli dissi. Attraversai le strisce pedonali, spedita verso casa. Lui mi raggiunse. – Davvero, Oliver. Ci vediamo domani.
I suoi occhi azzurri erano velati di preoccupazione. – Cosa c’è che non va? Non dovevo, prima, sull’autobus? Io… pensavo ti piacesse.
Mi passai una mano sugli occhi. – Non hai fatto nulla. Sto morendo di fame, semplicemente – inventai l’ennesima bugia bianca.
- Tu menti – mi accusò, facendo un passo avanti. Indietreggiai di riflesso.
- Non è vero – ribattei, ma non cercai di essere convincente.
Agguantò la mia mano, che oramai era diventata fredda a stare fuori dalla tasca. Le sue mani erano, al contrario, tiepide. – Voglio accompagnarti a casa.
- Cocciuto – commentai.
Ci recammo quindi nella mia abitazione, ma non scambiammo molte parole. Io ero troppo concentrata a cercare il modo di svelargli la verità.
Merda. Se leggeva il mio cognome sul campanello ero fottuta.
Mi lasciai scortare nella via principale, senza però lasciare il minimo sospetto su dove risiedessi.
- Puoi lasciarmi qui. – Mi sforzai di sorridere.
- Gwen, lo sai che di me puoi fidarti? – Era spaventosamente serio. Per un momento credetti che si stesse riferendo a come lo stavo liquidando in mezzo al nulla, nell’eventualità che si rivelasse uno stalker. - Io mi sto davvero affezionando a te. – La sua voce vacillò per l’emozione.
Rimasi sbalordita; in reazione socchiusi appena le labbra.
Accorciò le distanze: era ad un palmo dal mio viso. Appoggiò la fronte alla mia, i suoi ciuffi biondi me la solleticarono. – Stare con te è strano. – Feci una smorfia. – No, non in quel senso. Mi piace stare con te. Mi fai sentire… diverso.
Il mio cuore sbatteva troppo forte contro la gabbia toracica. Sentivo ogni battito rimbombare nelle orecchie.
- E non riesco a togliermi dalla testa come sarebbe baciarti.
Le ginocchia volevano rifiutarsi di reggere il mio peso. Mi sentivo stordita. Non sapevo come comportarmi. Era normale sentire la pelle d’oca sulle braccia?
Stetti ferma, nell’attesa di qualcosa. Era l’unica cosa che sapessi fare meglio.
Oliver mi afferrò per la vita per avvicinarmi a sé, con vigore, come se temesse che da un momento all’altro sarei svanita. Non feci in tempo a capire cosa stesse succedendo.
Le sue labbra premettero sulle mie, con una tale dolcezza, con una tale brama. Persi di consistenza. Ero burro sciolto.
Esse mi chiedevano, mi supplicavano di aprirsi, di fidarsi. Accolsi la richiesta con piacere. La sua lingua si fece strada nella mia bocca, senza alcuna incertezza. Ne perlustrava ogni millimetro con zelo. Curiosa, affamata, ingorda.
Cercai di unirmi anch’io a quel gioco di lingue. La intrecciai alla sua, la accarezzai. Il desiderio di conoscere la sua bocca si fece così inarrestabile che fui costretta a soddisfarlo.
- Dio – mi ritrovai a boccheggiare pochi secondi dopo. Non pensavo che baciare facesse venire il fiatone.
I nostri petti si alzavano e abbassavano con irregolarità. Avvertii in seguito il suo naso disegnare una scia sul mio collo. Non volevo dare spettacolo ai passanti, ma tutti i miei tentativi di esprimere la mia opinione si stavano dimostrando fallimentari.
La sua bocca si schiuse sulla mia gola, ma il ricordo di Newell mi fece ritrarre di scatto. Lui mi aveva fatto un succhiotto quello stesso giorno. Mi chiesi se mi avesse lasciato il segno…
- Devo andare a casa – dissi. Mi ha ricordato Newell, è ciò che avrei dovuto dire. Ti sto mentendo da giorni,  è ciò che non dissi.
 
Trascorsi il mercoledì sera stesa sul letto cercando di raccapezzarmi. Rimirai il soffitto per un tempo indeterminato.
Proposi di vedermi un film in streaming, o di leggere un libro. Non feci nulla di tutto ciò. Pareva che ogni opzione mi fosse preclusa. A malapena terminai di studiare per il giorno dopo.
Nella mia testa stava avendo luogo un’aspra disputa tra ragione e cuore. Non si riusciva a venirne a capo. Desideravo solo emigrare in Alaska e mandare al diavolo tutti.
Scivolai nel sonno, con i pensieri che mi impazzavano nel cervello. Newell, Oliver, mamma, papà, Keira.
 
Una mano mi afferrò per la gola. Mi spinse contro una parete fredda. Eravamo avvolti dal buio, io e il mio aggressore; il clima era rigido. Il suo volto era una maschera di ombre e linee confuse.
L’urlo mi nasceva in gola, ma restava imprigionato lì. Non riuscivo ad emettere suoni. Tentai in tutti i modi di graffiarlo e dargli calci, ma niente lo scalfiva. Mi arresi e lasciai che il dolore prendesse il posto delle mie speranze.

Mi svegliai bruscamente alle cinque di mattina. Mi trascinai nel bagno che si trovava a due passi dalla mia camera. Le mattonelle blu, le salviette azzurre e la vasca da bagno color panna. Adoravo rimanerci ore ed ore, finché i polpastrelli non mi si raggrinzivano nell’acqua.
La figura riflessa nell’ampio specchio, con particolari decorazioni sulla parte finale, simili a gocce di pioggia,  era di quanto più simile alla bambina di The Ring, malgrado i capelli chiari.
Portai l’acqua fredda al viso, nel tentativo di migliorare il mio aspetto. I capelli li legai in uno chignon disordinato, e applicai un po’ di fondotinta, per coprire le occhiaie scure.
Svolgevo le solite operazioni mattutine con una pigrizia degna di un bradipo. D’altro canto avevo tutto il tempo a mia disposizione: la scuola iniziava alle nove.
Alle sei ero pronta.
Potevo sfruttare le ore rimaste per dedicarmi ad un “signor ripasso”, ma declinai, sviando l’attenzione sul mio cellulare. Nessun messaggio, nessuna chiamata. Più silenzioso di una tomba.
Navigai su Internet, stravaccata sul divano rosso del salotto, cercando qualche libro che mi interessasse. Centinaia di libri facevano la loro comparsa sul display. Fu una gioia per i miei occhi. Nulla riusciva a risollevarmi il morale come la lettura.
Arraffai il primo PDF gratuito e ne divorai buona parte. Il libro mi accompagnò durante il tragitto in autobus.
Non potevamo permetterci due macchine al momento, quindi usufruivo dei trasporti pubblici e, talvolta, andavo e tornavo a piedi. Visto che il clima si stava facendo troppo inclemente, quella volta mi rifiutai categoricamente di percorrere il tragitto con le mie gambe.
Giunta a scuola, le lezioni parvero durare un’eternità. Volevo tornare a rivolgere la mia attenzione al mio amico di carta.
Durante l’intervallo rimasi nei corridoi, sola e con il mio fidato “compagno”. Indisturbata.
Ma – c’è sempre un ma – qualcuno catturò il mio sguardo. Era Newell che, a grandi falcate, si spostava con un suo gruppo di amici. Mi venne da paragonarli ad uno stormo di uccelli. Il fatto che non fossero degli uccelli, ma che li possedessero... C’erano troppi doppi sensi per i miei gusti.
Newell incrociò il mio sguardo per un così breve istante, che mi parve di essermelo immaginata.
Lo odiavo.
Era uno stronzo, di quelli grossi e… gnocchi. NO. Non dovevo sbavare per lui. Non potevo.
Avevo una dignità, per la miseria!  Non dovevo ragionare con le mie parti femminili (particolarmente attive nell’ultimo periodo)!
Lo seguii con lo sguardo, finché non sparì dalla mia visuale.
Decisi di contattare Keira. Non avevo sue notizie da quasi 24 ore.


Ehi, Keira :)
 
Ciao, Naomi! Sono a casa, mi sono beccata l’influenza. Mi mancano i tuoi aneddoti romantici.
 
Romantici!? *si strozza con la saliva* Non lo sono. Ho solo a che fare con un coglione. Anzi, avevo.
 
Quello stravede per te! ;)
 
Per nulla! Mi ha ignorata giusto un momento fa. Ha finto che non esistessi…
 
Peccato che io non sia lì! Quando mi riprenderò, ti aiuterò a conquistarlo. Sono una maga in questo.
 
Corrucciai la fronte, sbarrando gli occhi.
 
No, no. Io non voglio mica conquistarlo. Sei impazzita!? Io merito di meglio.
 
Non vuoi conquistarlo? Se lo dici tu…
 
Tra poco suona la campanella. Ci sentiamo presto! Riprenditi, mi raccomando. Bacioni. :)
 
Grazie! Buona fortuna per il resto della giornata, tesoro. :*


Non volevo risultare brusca, troncando la conversazione, ma non me la sentivo di parlare di lui. Ancora non mi era passata. E poi, mancavano sul serio pochi minuti al rintocco.
 
La penultima lezione era informatica. Il prof mi ricordava un pesce palla, col suo viso tondo e buffo. Ripeteva le stesse cose come una nenia. Mi sarei anche addormentata se non fosse stato che concludeva ogni spiegazione con “È chiaro il concetto?”. Mi ripromisi di contare le volte in cui lo ripeteva in un’ora. Non era in grado di tenere la classe, dunque era piuttosto un macello durante la sua lezione. Io, mio malgrado, cercavo di seguire e prendere appunti.
Dio ce l’ha con me, pensai quando scoprii con orrore dove si fosse seduto Newell. Era una maledizione.
Ma seguivo così tanti corsi con lui? Com’è che non me n’ero mai resa conto? Ah, giusto. Cercavo di farmi gli affari miei a scuola, dal primo giorno di superiori, restando nell’anonimato più assoluto.
Un’oggetto di piccole dimensioni mi colpì sulla scarpa. Mi sporsi per vedere cosa fosse; raccolsi la gomma. – Di chi è? … Oh. – Era sua.
- Grazie – rispose, allungando il braccio per riprendersela. Quando l’ebbe impugnata, ritrassi la mano, facendogli sfuggire la presa.
- Non te la do.
- Sì, lo so – disse, concedendomi un sorriso. L’ennesimo doppio senso della giornata.
- Intendevo la gomma – replicai, guardandolo storto.
- Hai quindi cambiato idea sulla mia offerta? – domandò, con un sorriso impertinente.
Sbuffai, lanciandogli la gomma sulla pancia.
- Ehi, non si maltrattano le persone!
- Appunto! – risposi con enfasi. - Tu non sei una persona. Sei un coglione.
 





Angolo autrice: Bellissime, sono tornata! Spero che vi sia piaciuto, ce la sto mettendo tutta per fare una bella storia e renderla memorabile. 
Volevo solo dire che i personaggi si evolveranno, chi più, chi meno, ma ci sarà un percorso. Non sono piatti. 
Ci saranno delle new entry prossimamente, ma non so dirvi in che capitolo. Devo ancora scriverli, ma le idee ce le ho già ben elaborate in testa. 
Passiamo al capitolo vero e proprio. Io non posso dire molto, o spoilero delle cosucce, vi dico solo che a me non è sembrato maluccio. Come sempre, vi dico che amo sia Oliver che Cameron.
Le ship sono: Camomi (Cameron + Naomi) e Naliver (Naomi + Oliver). Siete #teamCAMOMI o #teamNALIVER?
Lasciate un vostro pensierino, lo sapete che mi rende felice. Only you_ mi ha scritto un papiro e io adesso dovrò risponderle e lei neanche immagina quanta felicità mi ha dato leggere tanti complimenti. 
Inoltre, grazie tesori nuovi che recensite! Grazie a chi ha recensito una volta. Grazie a chi recensisce spesso. 
Io non andrei da nessuna parte senza il vostro supporto. 
Grazie per i seguiti/preferite/ricordate. *___* 
Dire che vi adoro è riduttivo. 
Davvero, non ho parole per descrivere come mi senta. E, per l'ennesima volta, grazie.
Teoricamente riesco a passare dalle vostre recensioni ora... ma prima devo dare un'occhiata a delle cose da ripassare. 
Sono molto impegnata rispetto all'anno scorso, ho una prof bella tosta ed esigente. (Lol, so che non vi interessa molto, ma almeno do giustificazioni veritiere a chi è interessato). Ma cercherò di non far passare troppo tempo tra un capitolo e l'altro, per rispetto di chi legge. 
Un abbraccio fortissimo,

variopintadite



  

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Capitolo 11
*** Capitolo 11 ***


Capitolo 11


 
Mi guardò con cipiglio. – Sei decisamente sboccata.
Io? Davvero?  Era lui a tirare fuori il peggio di me. – Ha parlato lui!
- Sei stata tu ad insultarmi, dolcezza. – Dopo avermi soprannominata in quel modo, il suo sorriso si ingigantì.
- Beh… la tua gomma. Sei stato tu a lanciarla. E… - Vaneggiai, presa alla sprovvista. Non sapevo cosa dire in mia difesa.
- Ti servirebbe un logopedista, sai? – Colpita e affondata.
Finsi una risata.
- Io non la trovo una cosa da prendere alla leggera. – Mi rivolse uno sguardo preoccupato e serio.
- Allora grazie per il consiglio! – esclamai, tornando composta sulla mia sedia e riportando l’attenzione sull’insegnante. Riuscii a nascondergli quanto mi avesse ferita quella battuta.
- Oh, che alunna diligente – mi canzonò. Non aveva ancora finito? Non era uno che si stancava con poco? Me l’aveva dimostrato diverse volte. Allora perché questa insistenza nei miei confronti proprio ora?
- Vorrei seguire la lezione – digrignai fra i denti.
- Ma che pantera! Eppure basta poco per renderti un agnellino ubbidiente. – Capii a cosa alludesse e mi cucii le labbra.
- Ti sei forse persa in certe fantasie? Ci sono io, vero?
Mi aggrappai al legno del banco: mi prudevano le mani.
Il suo palmo avvolse il mio ginocchio con malizia. Scattai subito, torcendola con quanta più forza mi era possibile.
- Uh, forzuta la ragazza – commentò, arginando il fatto che gli stessi facendo seriamente male. Si sottrasse alla mia presa con una mossa repentina, poi ruotò il polso in piccoli cerchi.
- Ti ho fatto male? – ghignai.
- Mi vendicherò. – Fu tutto ciò che sussurrò nel mio orecchio, prima di lasciarmi una volta per tutte.
Avevo un po’ paura. Non prometteva nulla di buono quell’affermazione.
 

Al suono disturbante della campanella di fine ora, mi catapultai fuori dall’aula.
Quando riposi il materiale della lezione nel mio armadietto, trassi un sospiro di sollievo.
Mi trascinai verso l’ultima ora, quella del mio suicidio: interrogazione di matematica. Percorsi pochi falcate e la sua mano aveva subito agguantato il mio polso.
- Cosa vuoi?
Mi osservò, comunicandomi con la sua espressione che ne ero già al corrente.
- Ora?!
Annuì.
C’era lezione! Decerebrato che non era altro. Alzai gli occhi al cielo. – Ho matematica. – Due parole che volevano dire un concetto più esteso: “Levati, non ho tempo da perdere con te. Devo ripassare per evitare un votaccio. Ti vendicherai più tardi.”
Di punto in bianco mi prese le braccia, mettendomele incrociate dietro la schiena. Tenendomele congiunte al livello dei polsi, mi spinse in avanti. Dove mi stava portando? – Che intenzioni hai? – Lo guardai severamente, girando la testa verso di lui, che stava alle mie spalle. Non avevo voglia di giocare.
Continuò a farmi avanzare, la sua stretta era piacevole – poco piacevole – e abbastanza forte da non permettermi grandi movimenti. Era normale che io mi ritrovassi così costretta: la mia inattività sportiva, a dispetto dei suoi duri allenamenti.
- Fa’ silenzio.
Oh, ma certo! Ci mancava che abbaiasse ordini.
- No! Io parlo quanto mi pare e piace!
- E invece fai quello che ti dico.
- Perché dovrei? Sulla base di cosa dovrei darti ascolto?
Inspirò rumorosamente; voleva farmi capire che lo infastidissi.
Mi spinse nello sgabuzzino con l’attrezzatura destinata ai bidelli. C’erano tanti scaffali anonimi, neri e impolverati. Ogni mensola reggeva prodotti per la pulizia di mobili, pavimenti, metallo, ceramica; persino spruzzini per profumare l’ambiente. Finii per starnutire quattro volte: l’ambiente angusto non era tenuto nelle migliori condizioni. Era già tanto se dei topi non avevano spostato la loro residenza lì.
- In cosa consisterebbe la tua vendetta? - proruppi, spezzando il silenzio tombale che alleggiava nella stanza.
- Ci sto ancora pensando…
- Mi stai facendo perdere un’ora, così, senza alcuna valida motivazione? – Lo fulminai.
- Il tuo disappunto è già qualcosa!
Lo sorpassai.
- No, no, carina. Dove credi di andare?
- Ci puoi arrivare da solo!
La sua mano si insinuò sotto il mio maglione e raggiunse il mio ventre. Irradiava calore. La mia la raggiunse, cercando di scrollarsela di dosso. Quando le mie dita entrarono in contatto con le sue, sentii un’energia riverberarmi in esse. Nei libri scrivevano cose di questo genere, come il fenomeno delle farfalle nello stomaco; ma non pensavo che facesse così male.
-Ah! – mi feci scappare mentre Newell soffocò un gemito.
Ecco spiegato il mistero: elettricità statica.
- Leva quella mano dalla mia pancia. – Non era una richiesta.
- Dài, perché non mi aiuti?
Odiavo ricevere la scossa. Non mi mossi.
- Non vorrai dirmi che hai paura di risentirla? – Era divertito.
Provai nuovamente nell’impresa, ma una seconda scossa mi fece ritrarre di scatto.
- Toglila! – piagnucolai, alzando le braccia per non provocare l’ennesimo, indesiderato contatto.
Le sue mani si occuparono di… sollevarmi la maglietta. Cercai di fermarlo, ma il suo ringhio mi fece desistere.
La mia schiena raggiunse la fredda parete – zozza, di certo – provocandomi brividi. Mi sfiorò con l’indice il profilo della coppa del reggiseno. Mi sentii avvampare.
Perché non stavo facendo nulla per ostacolarlo? Io mi frequentavo con Oliver… giusto? Oliver mi voleva, vero?
Il suo bacino era contro la mia pancia, nel punto in cui la sua mano si era adagiata pochi secondi prima. Non si era ancora eccitato, ma era sulla buona via per divenirlo.
- Non mi interessa – disse. Come?
La punta della sua lingua mi sfiorò il lobo.  
- Cosa? – sussurrai.
Mi zittì, baciandomi la curva della spalla, soffermandosi nel punto in cui la volta prima aveva dedicato tanta attenzione.
- Questa volta il segno te lo lascio – soffiò al mio orecchio. Volevo supplicare con veemenza che sì, doveva farlo.
I miei pensieri divennero sconnessi nell’istante in cui afferrò coi denti una porzione di pelle, succhiandola con violenza. Non c’era nulla di dolce o romantico nei suoi modi, nulla che potesse farmi capire che io gli interessassi in quel senso. C’era solo questo: attrazione. Un’inspiegabile attrazione reciproca.
Dovevo finirla lì.
- Ho freddo. – Wow, che diversivo.
- Ti riscaldo io – mugugnò contro la mia gola. Mi tolse il maglione.
- Credi che togliermelo risolva la cosa? – cercai di fingermi indispettita.
Sentii il rumore di una zip abbassarsi. COSA STAVA SUCCEDENDO?
Erano i miei jeans. Calma, Naomi, calma.
Si mise a giocherellare con l’elastico delle mie mutandine. Sempre quel maledetto indice che mi faceva aumentare il battito cardiaco, mentre mi tentava.
- Sono fidanzata.
Era una mezza verità… non stavo mentendo, in fin dei conti.
- Pessima idea – rise sulla mia bocca. Non sapevo se fossero tre o quattro millimetri quelli che ci dividevano.
- Perché? – chiesi, come fanno i bambini curiosi di capire il mondo. Con parsimonia recuperavo il poco ossigeno che era avanzato nella stanza. Lo stavamo consumando a furia di sospiri.
Il malefico dito si intrufolò nei miei slip, ma rimase lì, come una promessa o una tortura. Questo ancora non sapevo decretarlo. – Perché, - esalò con voce roca – ora posso baciarti.
Andai a sbattere con la testa contro il muro a causa della sorpresa. – No… non posso. Io sono impegnata.
- Impegnata a farti fare preliminari da me? – soggiunse, lasciandomi un lieve bacio sul mento.
Strizzai gli occhi, cercando di fare mente locale e di darci un taglio a quel teatrino, ma ero come imbambolata.
- T-ti sembra una motivazione l-logica questa? Dato che mi frequento, allora sei libero di baciarmi? Non hai alcuna morale! – Lo guardai, cercando una via di scampo alla sua ipnosi di smeraldo.
- È tornata la bambina a cui urge un logopedista! – scherzò. Abbandonò il mio intimo e accarezzò con lascivia un fianco scoperto.
- Ma ti capisco, è difficile restare impassibili a tanto ben di Dio – continuò, indicandosi ampiamente il viso e il corpo, in un fluido gesto.
- Sei irritante! – borbottai, alzando gli occhi al cielo.
- E questo ti arrapa…
- Quanto un calcio in culo.
Le sue labbra fecero una dolce pressione sulla guancia, sempre più prossime alla reale destinazione di quel contatto.
- Ho un ragazzo. Come te lo devo dire? Scrivertelo a caratteri cubitali potrebbe schiarirti le idee?
- Ma fai sul serio con lui, con questo “ragazzo”? – domandò, dando una connotazione scettica all’ultima parola.
- Non credi che qualcuno possa avere interesse in me, senza secondi fini? – insinuai, rivolgendogli uno sguardo rammaricato. – Esistono individui maschili che non pensano tutto il giorno al sesso, al contrario tuo.
Le sue mani si intrecciarono ai miei lunghi capelli, tenendomi ferma la nuca rivolta verso l’alto. – In momenti come questi mi viene voglia di riempirti di parolacce e allo stesso tempo di sbatterti al muro, per cancellarti dalla mente ogni pensiero razionale.
Mi ritrovai imprigionata fra le sue iridi. Mi sentii come se mi stesse guardando dentro, e mi chiesi come potesse farlo con così tanta naturalezza.
Deglutii, assorbendo con difficoltà il senso di quelle parole.
Il suo discorso non era ancora finito però. - Trovo molto strana questa cosa: ti sei trovata il ragazzo nel giro di nemmeno ventiquattr’ore? Eri impaziente? Il ragazzo ti ha convinto con delle stupide promesse? – ghignò a voce più bassa, crudele.
- Chi è lo sfortunato? – mi spronò a parlare; pareva curioso di conoscere la risposta.
Volevo indietreggiare, ma ero arrivata al capolinea. Ero con le spalle al muro… letteralmente e metaforicamente.
Le mie labbra si rifiutavano di pronunciare il suo nome. Non potevo, non potevo proprio dirlo.
Newell sarebbe corso da Posey a riferirgli che una certa Naomi Tallish si credeva la sua ragazza. Per lui ero Gwendolyne Lowell invece.
- Bugia? Lo sospettavo. Attenta – mi avvertì, sfiorandomi la punta del naso – o ti cresce il naso, Tallish.
- Non sto mentendo – sussurrai in protesta, le sopracciglia aggrottate per l’ingiustizia che mi sentivo di subire.
- Allora sputa il rospo – disse, strizzandomi l’occhio. Per lui si trattava di un gioco, non sapeva prendere seriamente nessuna questione. L’unico momento, in cui l’avevo visto un po’ più ponderato, era stato quando mi aveva lasciata in bagno con il desiderio insoddisfatto di un bacio.
- Il gatto ti ha mangiato la lingua?
- Non ho animali domestici. Ed è ancora intera, come puoi notare. – Spinsi la punta fuori dalle labbra, in una pseudo-smorfia.
- Posso? – chiese, avvicinando la sua bocca alla mia. Lo allontanai brusca dal mio corpo, mi sentivo un oggetto, altro che donna.
- Non mi piace il tuo atteggiamento – affermai determinata. Più che un’opinione, la mia sembrava essere un’accusa velata.
- Ah no? – Il suo sguardo brillò di una luce perversa. Non feci in tempo a proferire parola che la sua mano aveva scoperto un mio seno, abbassando la coppa del reggiseno. L’ambiente freddo mi fece inturgidire il capezzolo.
- Maniaco del cazzo! – ringhiai, rossa in viso. Cercai di fargli perdere la presa dal mio reggipetto, ma fu una cosa vana.
- Ma lasciami fare…
- Che c’hai nel cervello? La segatura? Mi stai molestando… palesemente! – esclamai furente, con la furia d’un uragano.
- Quante storie che fai, che cazzo! Tu lo vuoi il mio cazzo. Ammettilo, invece di fare la santarellina di ‘sto cazzo! – Anche lui era furibondo quanto me. Aveva ripetuto “cazzo” la bellezza di tre volte…
La mia espressione era profondamente ferita; non la celai dietro un falso sorriso.
Newell lasciò la presa dal mio intimo. Mi preoccupai di risistemarmi i vestiti con cura, poi passai a pettinarmi con le mani i capelli alla bell’è meglio.
- Tu non ti rendi nemmeno conto di come tratti le persone… o almeno, di come tratti me.
Mi riservò uno sguardo di sufficienza. Le forma delle sue labbra era deformata da un qualcosa che si avvicinava ad un sorriso. – Sai cosa mi fa davvero ridere? – mi chiese, ma in cambio ottenne solo una mia occhiata torva. – Il fatto che tu sia convinta che io sia uno di quei ragazzi che ci sono nei libri per ragazzine stupide e illuse… che probabilmente leggi. Dico bene?
Mi sentii uno schifo. Certo, non mi aspettavo che lui potesse essere la mia metà, ma neanche potevo pensare che lui fosse capace di tanta cattiveria.
Mi ignorava, mi tentava (ignaro delle buone maniere) e mi avviliva. Non ero nulla per lui, niente di più che una ragazza da scopare.
Non mi importò se poteva considerarlo ridicolo o divertente, ma lasciai che le emozioni si rigettassero all’esterno. Alluvioni nei miei occhi, per troppo tempo, incapaci di vedere la realtà.
- S-sarà anche v-vero che preferisca barricarmi nelle mie fantasie. Ma non osare più offendere quelle che tu definisci “ragazzine”, siamo persone prima di tutto. E… e dimmi un po’, chi ti dà il diritto di farlo, eh? Ma chi credi di essere? Okay, non fregartene di me, ma devi rispettarmi a prescindere. Sono in primis un essere umano, e come tale devo essere trattata. Nulla di più, nulla di meno. – La mia voce andò via via riacquistando l’inflessione determinata che da sempre aveva caratterizzato i nostri botta-e-risposta. – Ora pretendo delle scuse. Non per i miei castelli immaginari su di te – che vorrei precisare di non essermi affatto creata – bensì per il tuo comportamento meschino e inaccettabile.
Rise, rise di gusto, davanti ai miei occhi esterrefatti. Non ce la feci a trattenere l’impulso e la mia mano, che parve aver preso vita propria, gli colpì la guancia, producendo un sonoro ciaf. Ero indignata dell’individuo con cui stavo condividendo la stanza. Non ero lucida per lo schiaffo che gli avevo appena mollato, ma di certo fu un’esperienza liberatoria e appagante.
- Ma come cazzo ti permetti? – Era ad un palmo dal mio viso. Questa volta nei suoi occhi non lessi desiderio sessuale, ma rabbia cieca.
Ero in trappola. Brividi di terrore mi percorsero la spina dorsale.
Con mia gran sorpresa si allontanò da me, tenendo lo sguardo incollato al mio.
- Perché? – Fu solo un debole sussurro.
Non elaborò alcun responso, mi continuò a fissare coi suoi occhi verdi per pochi secondi. Volevo capire cosa volesse da me e cosa volessi io da lui, solo questo.
Uscì dalla porta senza voltarsi.
E i miei tanti perché rimasero senza risposta. Perché insisti? Perché mi tratti così? Perché ti sei scostato? Perché non mi dai le risposte che voglio? Perché mi importa?
 

Feci un gran respiro, nel tentativo di scrollarmi di dosso quell’orrenda sensazione datami dal mio incontro con Newell. Mi destabilizzava avere a che fare con lui.
Era veleno. No, non potevo rovinarmi l’esistenza per un soggetto del genere.
Aprii la porta e con la coda dell’occhio notai il bidello, Ghost, venire nella mia direzione. Feci uno scatto degno di Usain Bolt e percorsi il corridoio sulla mia sinistra, girando poi l’angolo.
Mi piegai sulle ginocchia, inalando quanto più possibile ossigeno. Il fianco iniziò a dolermi per lo scatto appena realizzato.
Sentii la porta dello sgabuzzino cigolare, ciò mi diede il via libera per filarmela.
 

I miei piedi mi condussero dinnanzi alla piccola infermeria. Forse il mio corpo sapeva meglio di me che avevo bisogno di un adulto con cui confrontarmi.
Louise Wyatt, la dolce dottoressa, era intenta a compilare alcune scartoffie.
Al mio ingresso alzò il capo, facendomi poi un largo e candido sorriso di benvenuto.
- Ciao tesoro! Cos’ha la mia cagionevole ragazza?
Mi limitai a ricambiare, per poi alzare le spalle in segno di diniego. – Non lo so, Mrs. Wyatt.
La sua mano mi invitò, con qualche colpetto sul lenzuolo bianco del letto, a prendere posto accanto a lei.
- Anch’io sono stata ragazza. Allora, cosa mi dici? C’entra sempre quel ragazzo?
La mia espressione doveva aver lasciato trapelare troppo, visto che corrucciò le sopracciglia.
Mi sedetti dove mi aveva indicato e sospirai platealmente. – Non capisco cosa voglia da me.
Sulle sue labbra ritornò a riaffacciarsi il suo sorriso, mentre i ricordi ritornavano a galla. – Sai meglio di me, forse, che le persone sono complicate. – Mi lanciò uno sguardo intenso. Annuii. – Beh, perché non cerchi di scoprire qualcosa in più di lui? Non sei un po’ curiosa?
Posai lo sguardo sulla finestrella da cui si riusciva a scorgere il brutto tempo che imperversava. – Sì, lo sono. Ma non è fatto per me. Ha presente quei ragazzi vuoti che pensano solo ad una cosa? Ecco… lui è così. Non c’è niente da scovare sotto quel mucchio di strafottenza.
- Siamo tutti unici, per una cosa o l’altra, tesoro.
- Mi dispiace contraddirla, ma in lui non c’è niente di unico. – Nutrivo solo rassegnazione e rancore per Newell.
Si portò un boccolo scuro, che le era scivolato davanti al viso, dietro l’orecchio. – L’apparenza inganna – cantilenò.
- Evidentemente, Cameron è l’eccezione che conferma la regola.
Passarono pochi secondi e tutto il nervoso che covavo riaffiorò con impeto. – Non fa che comportarsi come uno stronzo a cui non frega niente di nessuno. Ma non si fa schifo da solo?! E poi mi… importuna. A volte mi si appiccica proprio e non capisco neanche perché io gli dia corda! Sono una deficiente. Ah! Non voglio più saperne di lui.
Mi fermai di botto. – Oddio! Mi spiace per il mio linguaggio scurrile, Mrs. Wyatt.
Scoppiò in una risata sincera. – Chiuderò un occhio. Signorina, dimmi un po’, ma quante lezioni stai saltando?
Arrossii fino alla punta dei capelli. – Uhm… un po’. Oggi è stata colpa sua, anzi, lo è sempre. Vede, è nocivo per la mia carriera scolastica!
- Sta divento il tuo capro espiatorio? – Un’altra risata a cui mi unii anch’io.
Mi alzai in piedi, anche se ero restia a lasciarla lì. Era piacevole parlare con lei.
- Credo di dovermene andare ora… La ringrazio per tutto.
Con la mano fece il gesto di scacciare via qualcosa. – Non mi devi ringraziare, mi fa piacere essere d’aiuto. Se hai bisogno, sai dove trovarmi.
La congedai con un ennesimo “grazie” e mi allontanai. 



Angolo autrice: Salve people!
Sono ancora viva, sì. Mi spiace tantissimo per essere poco presente, ma la scuola mi sta massacrando. Vorrei portarmi avanti durante le vacanze natalizie con i capitoli - sperando che l'ispirazione non si vada a nascondere ^^
Spero che vi sia piaciuto il capitolo.
*__*
Grazie per le seguite/ricordate/seguite. E' sempre una gioia vedere il numerino aumentare. 
E un enorme grazie a chi mi scrive sempre il suo pensiero, che mi motiva a continuare e ad impegnarmi. 
Siamo solo all'inizio della storia, sì, dico sul serio ahahaah 
Tenetevi pronti, la protagonista ne passerà delle belle. 

Di che team siete: #teamCAMOMI o #teamNALIVER?
Mi lasciate un pensiero anche qui, vero? Ci conto :3



 

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Capitolo 12
*** Capitolo 12 ***


Capitolo 12


Ero seduta in autobus, con la testa poggiata al freddo finestrino. Scorsi gli alberi spogli - che non erano così maestosi come in primavera – i quali parevano ripiegarsi su se stessi, troppo pudici per mostrare il proprio scheletro. Non c’erano più i fiori variopinti che li adornavano e che davano l'idea di tante gemme preziose.
Mi morsi il labbro inferiore persa in quel panorama che aveva molto da invidiare alle altre stagioni. Oramai l’autunno aveva ceduto il posto all’inverno. La maggior parte delle persone ama la neve, pensai. Io il freddo non lo tollero, preferisco il calore incessante del Sole che ti accarezza la pelle, come una calda carezza.
Mi tirai su, sporgendomi per prenotare la fermata. Le mie dita sfiorarono quelle di una ragazza, ma non una qualunque: era Ella Posey, sorella di Oliver. Per la sorpresa mi sfuggì un debole gemito.
Ella era il prototipo di Barbie con le extension bionde e i vestiti griffati. Mi lanciò un’occhiataccia per poi scostare la propria mano. Prese dalla borsetta di Louis Vitton un gel igienizzante. Non cercò nemmeno di nasconderlo, anzi, desiderava palesarlo con appariscienza: toccare un essere umano non popolare era disgustoso.
Offesa girai lo sguardo altrove. Quella? Sorella del mio Oliver? Scherziamo?
Non che fosse stata la prima volta, no. Ma questa volta la faccenda acquisiva maggior notorietà visto che era parente del mio pseudo-fidanzato. Scesi i pochi gradini che mi separavano dalla strada; dietro di me sentii lo scalpiccio di tacchi. Non riuscii a frenare l’impulso e mi voltai nella direzione in cui avevo sentito quel rumore.
Ella se ne stava a pochi passi da me, intenta ad inviare un messaggio. Mi guardò torva, un esplicito invito a farmi gli affari miei.
Ostentai indifferenza, fissandomi la punta delle scarpe, per poi fingermi interessata al paesaggio circostante. Tornai a guardarla, per fortuna aveva distolto lo sguardo, rivolgendolo al display del cellulare – un cellulare costoso, ovviamente. Aveva le stesse adorabili fossette di Oliver…
Dovevo girare i tacchi e far cadere l’accaduto. Eppure quello strano evento, una Posey, una riccona che faceva sfoggio della propria presenza, in un quartiere frequentato da persone anonime, era uno scoop. Non ero una gossippatrice come Abbigail Finnick, affatto, ma c’erano cose che non potevano essere ignorate, dove la curiosità non si tratteneva dal fare capolino.
- Che hai da guardare?
Sussultai sorpresa, era la prima volta che mi rivolgeva la parola.
- Nulla. – La mia, una flebile risposta.
Ero curiosa, ma il suo tono affettato mi fece fare retromarcia. Fu come accorgermi che la mia sanità mentale stesse peggiorando senza ombra di dubbio: non era normale spiare gli altri.
Mi diressi verso casa, appena una manciata di minuti di tragitto, in cui la mia pancia emise rumori imbarazzanti per rivendicare del cibo.
Il tepore mi avvolse una volta che misi piede nella mia dimora e mi beai di quella piacevole sensazione, mentre mi sfilavo le scarpe, sostituendeole con le ciabatte e appendendo la giacca all’appendiabiti.
- Ciao mamma! – Tentai come sempre di riportare un po’ d’allegria in quella casa ormai priva di calore.
Nessuna risposta però giunse. Mi addentrai nel salotto, controllando il divano che, però, era vuoto. La chiamai nuovamente ed il silenzio era tutto ciò che mi veniva restituito.
Pensai fosse andata in bagno, quindi non mi preoccupai più di tanto. Mi misi subito ai fornelli, la merenda esigeva di essere preparata. Poggiai il cartone di succo con i due bicchieri: uno per me e uno per mia mamma. Andai in bagno, dopo aver salito i gradini della scala: nulla.
Decisi di darle un colpo di telefono, ipotizzando dove potesse essere andata mentre pigiavo il tasto di chiamata.
- Naomi? C’è qualche problema? – Sentire mia madre preoccupata mi sconvolse; mi sembrò di essere tornata indietro nel tempo, a quando ancora ero la sua bambina.
- Ah… mamma. – Aggrottai le sopracciglia, scossa per quella sua uscita. – Sto facendo i pancakes. Puoi dirmi dove sei?
- Vedi, tesoro. – Rimasi a bocca aperta: da quando in qua mi chiamava in quel modo? – La mamma sta lavorando. – Mi cedettero quasi le ginocchia per la felicità.
- Dici sul serio? – Mi morsi le labbra, avevo voglia di urlare al mondo la mia gioia.
- Sì… sto lavorando.
- Quindi… preparo solo per me?
- Sì. Io torno stasera, fai la brava. – In risposta le elargii il mio miglior sorriso: sincero e rilassato, seppur non potesse vedermi.
- Okay. A più tardi, ma’.
 
Continuavo a girovagare per la mia stanza, impaziente. Mi scervellavo sul perché mia madre fosse cambiata di punto in bianco. Forse… quelle pastiglie che avevo trovato nel bagno stavano facendo il loro lavoro? Aveva trovato un compagno? Aveva fatto pace con la sua amica che non vedeva da secoli? Andava dalla psicologa? Infinite possibilità si srotolavano dinnanzi a me. Ed ero così contenta che tutto si stesse rimettendo a posto, mi sentivo più speranzosa ogni minuto che passava.
Questo finché nel pomeriggio, mentre ero intenta a svolgere qualche esercizio di matematica (ero davvero speranzosa), qualcuno citofonò. Sulla soglia del portone trovai stagliato un Doug trafelato: che diamine stava succedendo? Era sempre impeccabile, mai un capello fuori posto… in quel momento era tutto fuorché ben messo. Il sudore gli imperlava il viso e piccole ciocche umidicce di capelli scuri gli si erano attaccate alla fronte. Ew.
- Papi? – chiesi, timorosa di ricevere una risposta sgradevole.
- Naomi, c’è tua madre? – Non avevo mai sentito uscire quella parola dalla sua bocca: lui diceva “mamma”. C’era qualcosa che non andava, qualcosa di grosso.
- È a l-lavoro – mormorai, più confusa che mai.
- Ah… - La mia replica lo prese in contropiede. – Capisco. Allora… vado. Posso telefonarle.
Lo afferrai per la manica della giacca di pelle nera che stava indossando. -  Che è successo?
- Nulla, va tutto bene, tesoro.
- Doug, ti prego, non mi escludere. Sono la tua figliastra.
Sospirò forte, quasi gli costasse fatica. – Ho problemi con tuo padre.
- Sì… ma non è la prima volta che litigate. Non capisco.
- Non lo vedo da ieri sera. – Dovetti aver lasciato trapelare la mia preoccupazione, perché cercò di tranquillizzarmi. – Sicuramente va tutto bene. – Mi accarezzò la testa con dolcezza. Era l’unico in famiglia che ancora mi coccolava.
Non persi tempo e subito digitai il numero di papà, mentre il panico mi afferrava la gola.
Dopo parecchi squilli giunse il tanto desiderato: Pronto?
- Papà, dove sei?
Nel giro di un pomeriggio avevo posto la stessa domanda ad entrambi miei genitori: volevano farmi venire un infarto?! Più immaturi di un adolescente, diamine.
- Non urlare. Sono… non lo so. Che c’è? – biascicava le parole una dopo l’altra, lentamente. Era più che brillo, ne ero certa.
- Passamelo – mi implorò Doug, ma non gli diedi retta.
- Perché non sei tornato a casa ieri? – lo accusai su tutte le furie.
- Ho litigato… con il tuo p-patrigno – rispose, con amarezza.
- E c’era bisogno di stare fuori? E bere, per giunta!? – Ero esterrefatta. Ma erano cose da fare alla bellezza di trentotto anni?
- Signorinella, tu non mi devi rimprovare un cazzo! E ora stai zitta, sei una fottutissima lagna.
Scostai il telefono dall’orecchio: quello era un duro colpo. Era ubriaco, certo, ma comunque fece male lo stesso.
- Naomi? Ehi? – Non proferii alcuna parola.
Doug mi rubò il cellulare dalla mano. – Che diavolo le hai detto? Hai traumatizzato nostra figlia!
Mio padre disse qualcosa, al che lui ribatté – Oh, no, ti sbagli! Solo perché non è sangue del mio sangue, questo non significa che io non possa amarla come se fosse mia figlia! Dio santo, James! Quanto hai bevuto?
La conversazione durò ancora per un po’, io nel frattempo mi ero lasciata cadere sul divano, col vivido desiderio di sparire.
Dopo una sfuriata di alcuni minuti – che a me parvero anni – agganciò.
Doug riemerse poco  dopo dalla cucina, porgendomi una tazza fumante. La presi pigramente. Non avevo voglia di niente, se non di scuse.
- Dai, tesoro, fammi contento – mi esortò lui. Il suo tono entusiasta era sfumato, ma c’era ancora quella scintilla caratteristica di lui: cercare di risollevare il morale altrui.
- Mio padre è uno stronzo – sussurrai, prendendo un sorso di cioccolata. Mi scottai la lingua e così lanciai un piccolo grido.
- Fa’ attenzione. – Mi sorrise.
- Adottami – gemetti.
Scoppiò a ridere. – Se riuscissi a convincere Jem a sposarci… allora sì, potrò essere a tutti gli effetti il tuo papà... – disse.
- … preferito – aggiunsi, sollevando con fatica gli angoli della bocca.
 
 
Mia mamma stava cantando. Proprio così.
Era tornata da mezz’ora scarsa e sotto la doccia si stava esibendo in una cover di Call Me Maybe di Carly Rae Jepsen. I miei timpani stavano congiurando contro di lei, mentre la mia mente macchinava ipotesi su ipotesi. Il mondo si era ribaltato in poche ore. Le tre figure più importanti della mia vita mi stavano scombussolando l’esistenza con dei drammi a mo’ di Beautiful, o anche una soap opera ancor più scadente.
- Mamma? – Entrai nel bagno, sedendomi sul water, dopo aver abbassato la tavoletta. – Ci sono novità?
Un sorriso enigmatico fu tutto ciò che mi restituì.
- Oh, andiamo! Non fare la misteriosa! – borbottai, mettendo su un finto broncio.
- Nulla – cinguettò, col sorriso che le impreziosiva il volto. Da quanto non la vedevo così spensierata?
- Sei stonata, comunque – precisai, curvando le labbra.
- Eh, già! Non hai preso da me su questo. – Chiuse gli occhi, mentre si massaggiava energicamente lo shampoo sulla cute.
Avevano fatto pace lei e papà? Non capivo. Papà era ubriaco fradicio e non era venuto a passare la notte qui. Senza contare che fosse gay.
- Eddai, mamma, mi dici che è successo? – Ero curiosa in una maniera esasperata.
- NULLA – cantò a squarciagola, infilando questa parola nel ritornello.
- Mi farai impazzire, oh! Inutile che resti, mi daresti motivo di tapparti la bocca con dello scotch. E non ridere – la rimproverai, - i miei timpani vogliono suicidarsi.
 
Quella sera mi immersi in una lettura piacevole: Facciamo finta che di Jennifer Cruisie. Ridacchiai come una dannata, fra una pagina e l’altra; ero viva, sensazione che i libri erano in grado di regalarmi. Al termine del romanzo scivolai in un sonno senza sogni.
 
La mattina successiva mi alzai, svolgendo meccanicamente le solite azioni e presi il pullman. Mi sedetti davanti, come sempre, ancora un po’ assonnata, mentre cercavo di ripetere inglese.
Keira era appostata davanti al grande cancellone ancora chiuso e, quando mi scorse, agitò la mano. Ricambiai il saluto, ma rimasi piantata dov’ero a ripassare.
- Ohi, mi stai snobbando? – mi chiese,  agguantando il libro di inglese che reggevo fra le mani.
- No, certo che no! Sono un po’ in ansia per l’interrogazione.
Mi diede una pacca sulla spalla. – Non farti tutti questi problemi. Sei intelligente.
La guardai di sbieco. – Questo non mi assicura una A o una B.
- Forse questo ti risolleverà il morale: io ho studiato questa mattina.
Questo duplicò la mia ansia. – E ora come farai?! Come fai a non aver paura? Io mi sto letteralmete cagando in mano, non mi posso permettere un’altra C.
- Su, su, Nami.
La guardai, sorpresa. Avevo un soprannome… e mi piaceva. L’abbracciai, sotto la sua espressione dubbiosa. Gli occhi blu confusi.
- Quanto sei affettuosa! – mormorò, mentre mi stringeva a sé; il libro che mi aveva sequestrato premuto contro la mia schiena. – Sei proprio un dolcetto.
Lo scampanellio della campanella di prima ora ci fece staccare e io me lo ripresi. – Tranquilla – ripeté, - farai faville, se ti chiama.
 
Nei corridoi, durante il cambio dell’ora, mi scontrai con Newell. Non feci in tempo a dirgli scusa che si era già defilato coi suoi amici, dopo avermi lanciato uno sguardo enigmatico. Fottuti occhi verdi.
Non ero mai stata il genere di ragazza che insiste, ma scorgerlo ovunque, mentre mi evitava, mi urtava parecchio. Dovevo fare qualcosa, qualsiasi.
L’occasione mi si presentò all’intervallo. Lo inchiodai contro la macchinetta: non mi sarebbe scappato. – Ehilà – lo salutai con nonchalance.
- Levati – borbottò a bassa voce, mentre mi spingeva da parte con le sue mani grandi; il tutto afferrandomi per i fianchi. Feci una cosa avventata (non che, andare a cercare il lupo nella sua tana, non lo fosse già di per sé): appoggiai una mano sulla sua. Rabbrividii, non ero preparata, e sul suo viso vidi riflesso il mio stesso smarrimento.
- Cosa stai cercando di fare? – disse, guardandomi con intensità; strinse la presa sulle mie anche.
- Cosa stai cercando di fare tu? – lo rimbeccai. La miglior difesa è l’attacco.
- Non ho voglia di giocare, piccola.
Il mio volto divenne livido. – Non chiamarmi in quel modo!
- Perché vieni a rompermi i coglioni quando sei mestruata?
Aveva perfettamente ragione. Cos’ero venuta a fare? Carpe diem… un corno!
Mi divincolai debolmente, in fondo non mi stava trattenendo. Ero libera di volare via da lui.
Newell afferrò la mia mano giusto in tempo. – Tallish.
Voltandomi, lasciai che il mio sguardo si tuffasse nel suo. – Naomi – sussurrai. Lui mi guardò disorientato. – Chiamami Naomi: basta formalità. Okay, Cameron?
- Naomi – mormorò, e nelle sue labbra mi parve di avere un nome magico. Scossi la testa. Che pensieri idioti stavo facendo? Manco le pellicole romantiche di serie C!
Una risata squarciò quel silenzio.  - Naaah, preferisco Tallish, piccola.
Le mie labbra si aprirono, in una “o” di tutto rispetto. Sbuffai come un toro, uno pronto a incornare il torero.
- Sei impossibile – gemetti, alzando gli occhi al cielo.
- Tu sei impossibile! – Il suo ghigno fece la comparsa su quel volto scolpito. Odioso, pensai.
- No.
Alzò un sopracciglio. – Non lo sei?
- No – ripetei, arretrando, mentre lui si avvicinava. Poco dopo la mia schiena si ritrovò incollata al muro.
- Provamelo – sussurrò, mentre la sua mano mi afferrava il mento. Il suo sguardo era calamitato dalle mie labbra socchiuse. A vederlo, pareva che la mia bocca fosse terribilmente invitante e sensuale.
Baciami. Ti prego… fallo. Divorami.
- Non posso.
- Ma vuoi - ribattè lui, la voce bassa e suadente.
- Non dire idiozie! – lo rintuzzai, cercando di cacciare via quei desideri proibiti.
Newell posò le labbra sul mio collo, succhiando piano. – Ma cosa sei? Un vampiro? – tentai di ridicolizzarne il gesto. Stavo tradendo Oliver, in un certo senso. O forse no? Quelli potevano benissimo essere degli innocenti succhiotti…
Ritentai di buona lena di respingerlo. L’intenzione era quella di afferrargli la testa per farlo staccare dal mio collo, peccato che, quando feci ciò che mi ero promessa, le mie mani lo spinsero contro di me.
Stavo perdendo il controllo di me stessa.
Nemmeno la cioccolata mi faceva un tale effetto. Newell era un pericolo in carne ed ossa; dovevo evitarlo. Mi diedi della sciocca: era stata mia l’idea di importunarlo e in quel momento si era verificato l’esatto opposto, io ero la vittima e lui il carnefice.
Chissà quanto si stava divertendo… non che io fossi da meno, eh.
Perfetto. Ero irrimediabilmente spacciata.
 
Mi scostai dalla sua bocca che mi stava infiammando, con l’obiettivo di darmi un minimo di contegno. Mi stavo comportando davvero male con il mio pseudo-ragazzo, e questo non lo meritava.
L’intervallo era suonato da un pezzo, il corridoio si presentava come una landa desolata. Solo pochi studenti si apprestavano ad andare a lezione, più che altro erano i soliti ritardatari che si fermavano fuori a fumare.
- Allontanati – gli ordinai, con tono fermo, in uno sforzo sovrumano.
- L’educazione l’hai lasciata a casa – ribatté Newell, che mi fissava le labbra con sguardo famelico.
- Per favore – soggiunsi, in tono implorante, lasciando incatenare il mio sguardo al suo.
Sospirai appena quando le sue dita affondarono nei miei capelli chiari, scostandomi quella frangetta, ormai cresciuta, che mi intaccava la visuale.
La sua mano, poi, si perse a giocare con la mia capigliatura.
Dimenticai completamente che lo stessi respingendo. I miei pensieri erano fissi sulle sensazioni che il suo tocco mi trasmetteva. Com’era possibile che stesse accadendo tutto ciò? Lui era il ragazzaccio, lo strafottente, quello che le ragazze le faceva divertire a letto. Forse era una trappola, un diversivo per convincermi ad aprire le gambe. Ma non mi allontanai, non questa volta.
- Naomi – soffiò piano, e la sua voce accarezzò il mio nome con una dolcezza inaspettata, tale da provocarmi inspiegabili brividi lungo la spina dorsale.
Volevo baciarlo, non mi importava del resto. Se lo avesse fatto, se avesse provato a premere le sue labbra sulle mie, non mi sarei tirata indietro per nulla al mondo.
- Stai tranquilla – disse in un sussurro appena impercettibile.
- Sì – fu la mia debole replica.
Newell abbassò la testa e accostò il viso al mio. Il suo respiro sapeva di caffè, dentifricio e un’altra cosa che non sapevo definire. Sentii le sue labbra sfiorare le mie e…
Click.
- Cos’è stato? – Mi ridestai d’improvviso, spaventata, allontanandomi dalla sua bocca.
Click. Di nuovo.
- Ma è possibile che veniamo sempre bloccati nel momento clou?! – Alzò le mani al cielo, in cerca di una spiegazione. Io lo ignorai.
Un rumore attutito di passi mi fece insospettire. Uscii dall’atrio in cui ci trovavamo e vidi di sfuggita una figura incappucciata correre via.
- Ehi, tu! – gli urlai dietro, azzardando qualche passo incerto. Non riuscii a capire se fosse maschio o femmina, ma di certo era uno studente.
- Torna qui – brontolò Newell, riferendosi a me.
Mi incamminai verso di lui. – Non hai sentito anche tu? – lo interrogai. Ci mancava che avessi allucinazioni.
- No. Ero impegnato a baciarti. E, a proposito di questo, che ne dici se continuassimo da dove ci eravamo interrotti?
Gli lanciai uno sguardo esasperato. – Qualcuno ci ha ripresi.
Alzò un sopracciglio. – Embè? Vuoi fare la detective e scoprire chi sia la mia ammiratrice segreta? – Più che ammiratrice, direi stalker, pensai.
Strinsi i pugni lungo i fianchi. – Perché non capisci quando è il momento di scherzare e quando non lo è?
Sorrise, mentre si metteva a braccia conserte. – Devi capire che le persone farebbero di tutto per immortalarmi in una foto.
Lo interruppi. – E perché non capisci che la mia soglia di sopportazione è arrivata ad una deadline? Renditi utile. Come? Gira al largo.
Si mise le mani fra i capelli, spettinandoseli. – Fino a due secondi fa ti saresti fatta fare di tutto, e ora mi liquidi in questo modo… Sei bipolare, mi sa.
Sbuffai, prendendo la decisione di tornare a lezione, con la convinzione che fosse la scelta migliore. Il mio tentativo fu ostacolato dalla sua forte presa sul mio braccio. – Dove te ne stai andando?
Inclinai la testa ed abbassai lo sguardo sul pavimento, evitando di incrociare il suo. – In classe.
- Tallish – disse.
Lo guardai.
- Se anche ci avessero scattato una foto, be’… non devi preoccuparti. Sarà qualche persona che ha una vita molto triste e si diverte a fare queste cazzate. Tieni conto che non ci siamo nemmeno baciati. Non hanno nulla da usare contro di noi, okay?
Annuii col capo, in un certo senso rincuorata. – Hai ragione.
La sua mano si avventurò sul mio fianco, mentre l’altra si ostinava a tenermi ferma. – Visto? Ti ho tranquillizzata... me lo merito un bacio, no?
A dispetto delle sue parole, la sua voce mi rese torrida. – Sì, lo meriti – risposi, e prima che provasse ad annullare la distanza. – Troverai qualcuna che esaudirà il tuo desiderio.
- Solo per questa volta non insisterò più, ma stanne certa che quel Primo Bacio sarà mio.
Eccomi lì, pronta a contestarlo. – Io ho un ragazzo ora.
- Quindi il bacio sancirebbe una relazione? Ecco perché non me lo permetti. Tu credi di essere fidanzata e di avere una sorta di obbligo morale nei suoi confronti.
La mia bocca si spalancò.
- Che c’è? – disse Newell, stringendomi un po’ il fianco, scherzosamente.
- Quello che dici…
- … è la verità, lo so.
- … tu sai parlare in modo dignitoso.
Mi fece scivolare la mano lungo la schiena, poco sopra il sedere. – Ehi, così mi offendi! – replicò, sorridendo.
Arricciai il naso. – Non sarebbe la prima volta. Hai sempre avuto un modo di fare da buzzurro, non credevo fossi capace di parlare. I miei più vivi complimenti.
Il mio interlocutore azzardò a far scivolare la mano sempre più giù. Mi lasciai scappare un gemito – non saprei dire se fosse di sorpresa, di piacere, oppure entrambi.
Un’espressione soddisfatta gli si dipinse sul volto. – Mi piace quando ti lasci andare.
- Merda – imprecai sottovoce.
- Non dirmi che è l’ennesima interruzione – si lamentò, mantenendo il contatto visivo.
- De Niège – sussurrai spaventata. - Quella mi scuoia se sa che sto con te.
- Ah, staresti con me? – ghignò.
- Non fare il deficiente! Aiutami.
- Dimmi tutto.
- Devi andarle incontro e distrarla. Io scappo.
Alzò un sopracciglio. – Che ottimo piano! E se mi mettesse una nota?! – Si riferiva al nostro balzare le ore di lezione per (quasi) pomiciare.
- Per fortuna quella manco si ricorda di tutti gli studenti, se non di te – farneticai fra me e me,  rendendolo partecipe. - Se non si avvicina troppo, cieca com’è, non scoprirà chi io sia.
Il ragazzo aprì bocca per replicare, ma io lo interruppi bruscamente: - Ora! –
Corsi come una pazza, attraversando l’atrio in cui l’avevo trovato,  le due macchinette piene di leccornie affiancate al muro, e passai per la porta, che metteva in comunicazione un lungo corridoio, con una sfilza di aule. Continuai a correre, più che altro arrancavo, prossima allo sfinimento.
Dovevo fare sport, mi promisi.



ANGOLO AUTRICE:
Non sono morta, giuro! Perdonatemi l'imbarazzante ritardo, non so con che faccia tosta io mi ripresenti dopo mesi in cui voi attendevate un mio cenno di vita... però, eccomi qui con il nuovo capitolo! 
Da una parte è successo di tutto, ma allo stesso tempo il nulla. Insomma abbiamo una Naomi che si ritrova a dover fare i conti con due genitori che si comportano in modo molto sospetto e anche immaturo, un Doug dispiaciuto (povero cupcake) che è l'unico adulto a dare sostegno psicologico e "fisico" (= la conforta, accarezzandola) alla nostra protagonista. Come si fa a non amarlo?
Keira è sempre disponibile con Naomi, anche se ha reazioni un po' particolari. E mi cucio la bocca su questo... poi capirete. uu
Cameron Newell per una volta che si faceva i cavoli propri si ritrova nuovamente Naomi fra i piedi, poraccio ahahhahahah. E' superfluo che io vi sottolinei l'evidenza, però posso farvi notare che non è il solito triangolo amoroso dove la protagonista si crogiola nel far soffrire due persone; la Tallish non è quel tipo.
Inoltre Cameron si comporta da sempre male con lei, non dandole il giusto rispetto, dovete ammetterlo.
Oliver è il suo ragazzo e li vedremo interagire ben presto come coppia (cosa sono quelle faccette sconsolate? I NALIVER sono pucciosi, suvvia!); su di lui ci sono molte cose da dire, nei seguenti capitoli capirete (spero) al meglio questo personaggio che io adoro, così come adoro TUTTI.
E nulla, ragazzi, cos'altro posso dirvi se non rigraziarvi? State crescendo di numero fra seguite/preferite/ricordate e neanche ho spammato su FB e questo mi riempie il cuore di sconfinata gioia. 
Un grande grazie a chi mi lascia sempre due paroline, per farmi sapere che ne pensa e a chi mi dedica lunghi papiri che mi fanno gongolare <3
Spero di ritrovarvi nelle recensioni ^^

Se qualcuno ha FB - che sia real o fake poco importa - e desidera seguire un po' il mio sclero, se volete parlare di qualcosa come libri, serie tv, film, inviatemi una richiesta d'amicizia! :3 
Oppure, se qualcuno desidera chiedermi informazioni sulla storia, o se volete essere contattate personalmente per i miei aggiornamenti su FB, basta dirmelo e provvederò volentieri ^^
Questo è il link del mio profilo: https://www.facebook.com/variopintadite.efp 
Se non mi trovate, in un MP potete dirmi il vostro nome e vi cerco, so che ad una ragazza sia successo purtroppo ^^"



 

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