Les Mémoires Blessées

di GirlWithTheGun
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Last Carnival ***
Capitolo 2: *** The Other Side ***
Capitolo 3: *** A Midnight Full Of Stars ***
Capitolo 4: *** Looking Back ***
Capitolo 5: *** Galvanometer/Letters ***
Capitolo 6: *** In The Androgynous Dark ***
Capitolo 7: *** Unsayable ***
Capitolo 8: *** All Is Violent, All Is Bright ***
Capitolo 9: *** Always Summer ***
Capitolo 10: *** Then The Quiet Explosion ***
Capitolo 11: *** Contention ***
Capitolo 12: *** The End Of Childhood ***



Capitolo 1
*** Last Carnival ***


Les Mémoires

Blessées

 

 

 

 

 

 

 

Prologo

Last Carnival

 

 

 

Oltre il vetro oscurato i prati di Englelfield, inondati di pallido sole, si riducevano a immense distese color fumo di Londra.

Sirius detestava quel colore con tutto se stesso. Detestava con tutto se stesso anche il gelo incantato nell’abitacolo dell’auto, e i sedili e il loro odore di plastica, e la pelle che prudeva in punti irraggiungibili – come la pianta del piede sinistro rinchiusa in una delle due plimsoll, ad esempio -, l’intero Berkshire, e qualunque altra cosa avesse l’ardire di esistere sulla faccia della Terra. Non sovvenendogli altro modo adatto a placare la sua insofferenza - o almeno a metterla da parte, seppellirla sotto qualcos’altro, giacché eliminarla gli era impossibile – lanciò uno sguardo su Regulus, che giaceva sprofondato nel sedile ad un assurdo metro e mezzo di distanza:  perso in una contemplazione laconica del paesaggio, rigido contro lo schienale gommoso, il cravattino annodato così stretto che ci si sarebbe potuto soffocare, magari. Magari. Osservando suo fratello gli montò dentro una stanchezza spossante che rotolò a macigni sopra l’insofferenza e lo stordì provvidenzialmente. Era troppo lontano per riuscire a infastidire Regulus senza spostarsi, e a Sirius non andava di spostarsi, affatto, nemmeno di un centimetro. Fosse stata presente, sua madre gli avrebbe profeticamente sibilato addosso che un giorno sarebbe finito annegato nella sua stessa pigrizia, ipotesi che, peraltro, non pareva preoccuparla più di quel tanto. Si chinò con fatica insensata a slacciare le scarpe, che finirono abbandonate sulla moquette insieme a un paio di calzini appallottolati. Regulus lo sorprese intento a grattarsi il piede e arricciò il naso in un’espressione vagamente disgustata.

“Ti serve qualcosa?”.

“No” mormorò suo fratello, ricomponendosi con nonchalance “Siamo arrivati”.

Sirius si voltò e lo sguardo gli si riempì degli immensi confini di Englelfield House.

L’auto scivolò lungo un paio di curve e improvvisamente furono oltre il cancello principale. Scendendo dalla macchina Sirius si chiese se meditare un’evasione notturna valesse la pena, in mezzo al nulla dove erano stati spediti. Regulus lo affiancò avanzando di soppiatto, e alzò il naso sulle svettanti mura rossastre, tutte un rincorrersi di profili squadrati e vetrate. In cima, le torrette si assottigliavano in punte affilate. L’insieme era l’esatto contrario di ciò che avrebbe dovuto essere una residenza estiva: una dimora atrocemente fredda solo a guardarsi, cupa, piena di stanze vuote. Aveva smesso da tempo di chiedersi per quale psicotica inclinazione, fra tutte quelle coltivate con passione in famiglia, ogni residenza dei Black dovesse sfoggiare un aspetto così ostile, ma la minacciosa imperturbabilità di Englelfield lo colpiva, era perfino superiore alla tetraggine gotica del maniero dove zio Cygnus e zia Druella avevano deciso di tumularsi per il resto della loro esistenza. Terrificante, ecco cos’era.

“E’ bellissima” disse Regulus “Però la ricordavo più grande. Mamma e papà sono stati gentili a farci tornare qui, no?”.

Suo fratello occupava gran parte del tempo parlando a vanvera, desiderosissimo di ascoltarsi. Tutta la sua essenza era riassunta in tredici anni di inettitudine e idiozia, fasciate in completo elegante. Era così grottesco da lasciarlo interdetto, di tanto in tanto.

Gentili?” le sue pidocchiosissime sigarette si erano perse un’altra volta nella fodera dei blue jeans “Mamma e papà ci hanno confezionati e spediti a calci in culo nel primo buco disponibile per andare a cavalcare draghi in Romania, per quel che ne sappiamo. O a catturare Babbani al lazo, che ne pensi?”.

Finalmente il pacchetto si fece trovare e riuscì a infilarsi una sigaretta tra le labbra. Tutto stava nello scovare anche un accendino.

“Sei il solito” replicò stizzito Regulus, sistemandosi il colletto della camicia immacolata.

“Già, grazie a Dio” i piedi nudi cominciavano a far male, così immobili sulla ghiaia “Di', hai da accendere?”.

“Sai che non fumo” rispose, ancora più inviperito, suo fratello. Perché lui rispondeva sempre, anche quando era palesemente da acefali farlo “Appena la mamma saprà che non hai veramente smesso, ti Schianterà”.

“E tu sarai lì per godere, godere e golosamente godere”.

Le guance di Regulus si imporporarono in un modo delizioso, da bambinetta, e Sirius era lì lì per farglielo notare quando il maggiordomo e un paio di cameriere si Materializzarono di fronte a loro.

“Signorino Sirius, signorino Regulus: benvenuti a Englefield” esordì pomposamente il maggiordomo, ingessato nella scarsa credibilità di un frac stantio.

Sirius gli indirizzò un cenno, tentando di stirare un sorriso, mentre andava interrogandosi sul perché quei disgraziati individui si sentissero obbligati a conciarsi in quel modo. Regulus li ignorò aristocraticamente.

“Le signorine sono nei giardini. Vi aspettano con trepidazione” proseguì il pover’uomo, senza perdere un colpo.

Sirius tentò di immaginarsi Bellatrix occupata ad aspettarlo con trepidazione, ipotesi attendibile solo nei termini di un agguato teso a procurarsi il suo scalpo. All’idea di dover interagire con la cugina maggiore gli montò dentro una nausea violenta.

“Grazie” disse, impietosito “Le raggiungeremo da soli”.

“Certamente. La cena è servita dopo il tramonto”.

Sirius annuì, perso in lugubre riflessioni, e si avviò solcando le aiuole, seguito a ruota da un trotterellante Regulus.

L’unica, esclusiva, sola ragione che gli avrebbe permesso di non impiccarsi a un platano entro le successive quarantotto ore e, forse, di superare indenne le vacanze estive, era Andromeda. Sirius ne era pateticamente cosciente, al livello di cercare con gli occhi la cugina preferita in ogni cespuglio che incontravano sul sentiero per i giardini. Gli era mancata tantissimo, dopo l’ultima riunione natalizia trascorsa insieme a Grimmauld Place - sempre rintanati a una sicura distanza dal resto della famiglia, sempre seduti vicini a pranzo e a cena, sempre occupati a chiacchierare di qualcosa che tutti gli altri puntualmente non avrebbero capito o avrebbero aborrito, o a passeggiare a perdere tra le strade di Londra -. Poi la mancanza si era sopita grazie a una decina di gufi che erano andati diradandosi con il sopraggiungere a Hogwarts della primavera, e di divise femminili mirabilmente ridotte, e tentativi di continuare a fare i loro porci e legittimi comodi senza farsi espellere – lui, James e Remus, dato che Peter era geneticamente incapace di compiere imprese sufficientemente suicide -; perché davvero Sirius adorava Andromeda, ma passare i pomeriggi a scriverle delle sue paturnie, dei suoi pensieri, era molto più facile in inverno, quando l’intero castello soffriva, azzannato dal vento, avvolto nel candore purissimo della neve, e di giorno i corridoi sussurravano, mentre le notti erano un unico incubo non sempre confessabile.

 

*

 

La colonna di luce violacea tagliò a metà il prato, accompagnata da un fischio acutissimo, stracciando tutti i boccioli in fiore che incontrava sul suo cammino. Bellatrix e il suo pallore brillarono di un sorriso ferino. All’ultimo, però, lo scudo di Andromeda respinse l’incantesimo e quello schizzò indietro, violento come era arrivato. Bellatrix non ebbe il tempo di pensare a un contro incantesimo: si acquattò il più velocemente possibile a terra e l’incanto si schiantò contro il faggio dietro di lei. Una pioggia di schegge e terra la costrinse a coprirsi gli occhi con una mano.

Narcissa, abbandonata su un telo al margine della radura, emise un gridolino di disapprovazione.

“Non usare i tuoi nuovi giochetti con me, Bella!” esclamò ad alta voce Andromeda, ritta dall’altra parte.

Bella si sollevò e restituì uno sguardo furente alla sorella, che pareva malignamente deliziata, ma in quel modo dolce, tipicamente suo.

“Ti sei fatta male?” le chiese, sincera.

Seguì un istante di onesto disorientamento. Erano mesi che qualcuno non si preoccupava seriamente del suo stato, tantomeno nei duelli. In tutto quel tempo passato a cibarsi di bestialità, a sfiancarsi fino allo svenimento pur di apprendere, aveva dimenticato Andromeda. Una parte di lei, quella parte che non esisteva per nessuno, fremette.

Aveva avuto qualcos’altro da fare, qualcosa di più importante da fare, mormorò una voce, da qualche parte.

Sua sorella si era cristallizzata nell’attesa di una risposta. Aveva i capelli scompigliati, le guance infuocate e degli stupidi abiti Babbani indosso. Odiava quei vestiti. Glieli aveva bruciati, glieli aveva strappati a mani nude, fatti Evanescere, ma erano ritornati comunque. Eppure, in qualche modo distorto, a Bella pareva sempre di incontrare se stessa in uno specchio, quando guardava negli occhi Andromeda. Come fosse una distorsione, un crudele effetto ottico. Come fosse un’altra lei, a volte.

“No” ringhiò, tornando in posizione.

Il sorriso di Andromeda scivolò nella strafottenza, mentre la imitava con un’eleganza invidiabile.

“Quel vestito ridicolo ti impedisce i movimenti. Dovresti mettere un paio dei miei pantaloni”.

Si lanciò all’attacco.

Andromeda schivò il colpo e l’incantesimo rase al suolo un cespuglio selvatico.

“Quando vedrà come hai ridotto il suo adorato boschetto, Mr. Rogers ti avvelenerà il porridge” la canzonò, il respiro accelerato, girandole intorno.

“Chiudi quella bocca, dannazione!”.

Un altro incantesimo a vuoto. Andromeda era troppo brava a parare i colpi e, nonostante il rigoroso esercizio dell’ultimo periodo, Bella si scoprì in difficoltà. La frustrazione soverchiò ogni altro pensiero compiuto, appannandole la vista.

Sua sorella contrattaccò, un lampo di intensa luce rossa le si precipitò contro, ma Bellatrix lo deviò altrove con un lieve scatto del polso.

“Vuoi Schiantarmi, Dromeda?! Non siamo a lezione di Incantesimi”.

“Hai Schiantato Cissy!”.

Bella lanciò uno sguardo alla sorella minore e la scoprì tramortita.

“Tecnicamente, l’hai Schiantata tu. E poi non la tollero, continua a starnazzare da quando abbiamo cominciato”.

Una scrollata di spalle e il volto di Andromeda si dipinse di un’espressione confusa, tra l’indignato e il divertito, che la rendeva buffa.

“In guardia” la incalzò Bella, subendo la forza involontaria di un sorriso incresparle le labbra.

Sua sorella scosse la testa.

“Sei impossibile”.

Sei impossibile. Impossibile, Bella. Le piaceva, come lo diceva.

Le era mancata? Le era mancata così tanto?

La bacchetta tremò fra le dita. Dimenticò l’incantesimo che le serviva.

Andromeda si distrasse, rapita da qualcosa che stava oltre le sue spalle.

Expelliarmus” sussurrò, incerta.

L’incantesimo andò inaspettatamente a segno. La bacchetta di sua sorella rotolò sul prato e lei la richiamò subito a sé.

“Ho vinto!” si lasciò sfuggire, stringendo il trofeo nella mano destra.

Ma Andromeda non stava ascoltando.

“Sirius!”.

Quando comprese, Bellatrix si voltò lentamente, una collera vorace nel petto.

Sirius.

 

*

 

“Quindi è questo che fate, voglio dire, quando siete fra voi?”.

Andromeda gli rispose con un sorriso e gli si incastrò fra le braccia, sfiorandogli la guancia con un bacio fresco. Oltre il suo abbraccio c’era Bellatrix, un irrequieto e vibrante buco nero aperto sul verde vivo dei giardini. Aveva un viso così bianco, di un’immobilità surreale. Estraneo.

Sirius aveva un solo ricordo piacevole, di Bella, e non era nemmeno certo che non fosse uno scherzo della memoria. Ad ogni modo, nella sua mente, era rimasta l’impronta di qualcosa. In un giorno impossibile della sua infanzia, Bellatrix gli aveva accarezzato i capelli, nella solitudine polverosa di Grimmauld Place. E pensandoci, anche se se ne asteneva per puro senso di coerenza verso se stesso e verso l’astio che provava per quella creatura sprezzante che era diventata la cugina maggiore, Sirius avrebbe potuto giurare di aver solo sognato quel ricordo. Di esserselo inventato. Era certo, invece, che non sarebbe mai stato capace d’inventare nessuna delle infinite sfumature d’odio intessute nello sguardo con cui Bella lo trapassò. Se avesse posseduto zanne al posto degli occhi lo avrebbe masticato e mandato giù. Tutt’un tratto la tensione rinchiusa in quel corpo si fece troppo ingombrante, e fu costretto a rivolgere l’attenzione altrove.

Andromeda e il suo profumo.

Narcissa abbandonata in una posizione innaturale sul prato.

“Tua sorella non sta bene?”.

“Quale delle due?”.

Regulus, dopo aver lanciato un’occhiata adorante e timorosa a Bellatrix, si avvicinò a Narcissa, osservandola con cautela dall’alto.

“E’ Schiantata” osservò, laconico.

Andromeda si lasciò sfuggire una risatina innocente e appellò la sua bacchetta, che sfuggì alle dita di Bella. Sirius notò il lampo di furia che la fece trasalire e avvertì la necessità di allontanarsi il più velocemente possibile. Quando entrambi si trovavano a dover sopportare un’eccessiva prossimità l’unico risultato era sempre e solo la collisione violenta, e non aveva le forze per affrontare l’ennesima lite all’arma bianca. Non in quel momento. Successivamente, forse, quando anche le urla di Bella sarebbero apparse un allettante diversivo, nel rigurgitante nulla di Englefield.

Innerva” mormorò Dromeda, e Cissy parve tornare confusamente alla vita.

“Regulus?” pigolò, storcendo un poco la bocca.

“Togliti da lì, abbi pietà” suggerì distrattamente Sirius al fratello “Non so davvero cosa fare, con lui, ha così poco buon senso”.

Andromeda reagì con uno dei suoi sguardi indefinibili. Di solito non erano mai sguardi ostili, ma nemmeno totalmente condiscendenti. D’avvertimento, ecco. A volte lei si metteva in testa di dover difendere l’indifendibile, che in quel caso era rappresentato dalla goffissima figura di Regulus.

“Hai da accendere?” le chiese, placido.

La fiamma fiorì sulla sua bacchetta senza ulteriore spreco di parole.

“Walburga non aveva giurato di mozzarti la testa, l’ultima volta?” .

“Beh, capirai. Lo dice ogni giorno anche a Kreacher e lui gode di ottima salute”.

“Ma magari al muro, poi, inchioderà la tua”.

La voce di Bellatrix era, in effetti, impossibile da confondere con qualunque altra.

Sirius le restituì un sorriso glaciale.

“Non avevate travasato dei ferocissimi pesci rossi nella vasca della fontana, quattro estati fa?”.

“Sì…” rispose Andromeda, presa alla sprovvista.

“E sono ancora vivi?”.

“Credo di sì”.

“Ecco, andiamo a trovarli” concluse, allontanandosi tra i faggi rimasti integri.

 

“Perché devi fare così?”.

“Così cosa?”.

Andromeda inarcò le sopracciglia: lampante sintomo di irritazione. Sirius sbuffò, soffiando fuori il fumo tutto in una volta.

“Dromeda, sei seria?”.

“Sono terribilmente seria! Potreste provare a convivere nello stesso spazio senza azzannarvi l’un l’altro. Come conoscenti, o come le persone che si incontrano tutte le mattine in ascensore, o come due cugini sani di mente”.

“Ok. Non sei seria”.

“Da quanto non vi vedevate?”.

“Dall’ultima volta che l’ho incontrata in ascensore”.

Sirius”.

Accelerò il passo sull’erba curata, lasciandola indietro.

Era stato ad Hogsmeade,  prima di Natale. Di quel pomeriggio al Testa di Porco ricordava l’odore alcolico e fetido di un ubriaco che gli era finito addosso, la discussione serrata tra Remus e James, Peter che continuava a pestargli i piedi e… Bella. L’aveva riconosciuta dalla risata. Gli altri non si erano accorti di nulla, lui, invece, aveva setacciato i dintorni con lo sguardo, fino a puntare gli occhi su un cappuccio nero. Lei gli dava le spalle, si stava alzando da un tavolaccio in fondo alla fumosa oscurità del pub: salutava gli amici. Due brutte facce conosciute di vista, quel genere di persone che solo Bellatrix avrebbe potuto trovare piacevoli. Una ciocca morbida era scivolata fuori dalla prigione della sua cappa, srotolandosi lungo la schiena, mentre si dirigeva verso l’uscita. Sirius le era sfuggito nascondendosi dietro alla mole di un bestione peloso che gli stava vicino. L’aveva seguita senza un vero perché, dopo. Era sgusciato oltre la porta, nell’aria gelida di dicembre, aveva cancellato con cura le sue orme sul sentiero. Lei aveva passeggiato per qualche metro, nera come i carboni spenti. Poi, improvvisamente, si era voltata, e l’aveva colto con gli occhi sbarrati dalla sorpresa. Ed era sparita, lasciando dietro di sé il candore abbacinante della neve.

“Non me lo ricordo”.

“Allora è passato tantissimo tempo. Siete così infantili da darmi la nausea, non avete nessun motivo per detestarvi con tanto accanimento”.

Andromeda lo raggiunse, riportandolo al presente con un pizzicotto sul braccio.

Sirius studiò quegli occhi buoni, chiedendosi se il coraggio di disilluderli non fosse altro che pura cattiveria.

Io ho tutti i buoni motivi di questo mondo. Ti ricordo che durante le ultime vacanze natalizie passate insieme ha tentato di cavarmi gli occhi. Con impegno”.

“Stai esagerando”.

“Va bene, allora diciamo – ribadendo l’ovvio, concedimelo - che io e Bella abbiamo punti di vista diametralmente opposti. Differenti modi di vedere le cose, se ti piace di più. Così è abbastanza diplomatico, mi pare”.

“E’ diplomatico ma non ha nessun senso. Io e Bella la pensiamo diversamente quasi su tutto, ma ci vogliamo bene. Sa essere molto dolce, se vuole”.

“Potrei vomitare”.

Andromeda gli affibbiò uno spintone energico e Sirius fu costretto a trotterellare di qualche passo in avanti. Quando giunsero in prossimità della fontana, sua cugina lo prese per mano, guidandolo lungo il bordo di marmo rosato.

“Dove sono andati a ficcarsi?” chiese al vento, cercando  i pesci.

Sirius superò con gli occhi la statua discinta che si ergeva nel centro, e li trovò: pancia all’aria nell’acqua limpida. Si inchiodarono a guardarli per qualche istante, poi Dromeda tentò di rianimarli pungendoli sul ventre con la bacchetta, senza nessun risultato. I pesci andarono a sbattere uno contro l’altro, gonfi come palloncini, e presero a vagare nella fontana.

“Sai che hai ragione? Bella sa proprio essere molto dolce, a volte”.

Lei non ebbe la forza di discolparla.

“Sta male” mormorò, sedendosi sul marmo.

Sirius la imitò.

“Io lo dico da sempre”.

Dromeda gli lanciò uno sguardo estremamente serio.

“E’ tornata ieri da non so dove, ma prima di venire qui è stata da mamma e papà” disse “Le hanno combinato il matrimonio”.

Quelle parole gli scatenarono uno smottamento interno piuttosto strano.

“E chi è il fortunato?”.

“Rodolphus Lestrange”.

“Ottima scelta. Qualcuno gli ha già detto che Bella lo farà fuori dopo l’accoppiamento?”.

Andromeda gli rivolse un sorriso malinconico che non seppe interpretare, di nuovo.

“Mi offro come volontario”.

Sirius”.

“E dai, Dromeda”.

Lei scosse la testa, prima di posargliela sulla spalla con un sospiro d’abbandono.

“Tra quanto pensi che succederà?” domandò, sovrappensiero.

“Che?”scrutò quel poco che del suo viso riusciva a vedere.

“Tra quanto mamma deciderà che anche io devo portare avanti la dinastia, costi quel che costi, e sfornare almeno un paio di figli sangue puro” la risposta fu un sussurro; le dita sul dorso della sua mano tracciarono un disegno chimerico “Io non sono come Bella. Lei è pronta a tutto pur di fare la cosa giusta, si sacrificherà senza emettere un fiato”.

“Tua sorella non farà la cosa giusta”.

“Secondo lei, lo è. Secondo tutti, lo è” un attimo d’esitazione “Ma dovevi sentirla, stanotte. Piangeva e urlava come una bambina. Io so che vorrebbe essere felice, e che si odia, per questo”.

Questo?”.

Lei sollevò lo sguardo sulle finestre di Englefield e, quando rispose, la sua voce non aveva niente della consueta delicatezza.

“Per la sua debolezza, Sirius. Ci hanno insegnato che i Black non possono essere deboli. I Black hanno il sangue puro, e il sangue puro è forte. Indistruttibile”.

 

*

 

Aveva incantato il soffitto e giaceva distesa sul letto troppo grande, a guardare i putti guerreggiare furiosamente tra loro, pestandosi le forme pingui a vicenda. Ogni tanto, qualcuno riusciva a spiccare il volo con le sue ridicole ali. Vittima del torpore, si sollevò lentamente a sedere. Era esausta. Discese dal letto, senza sapere esattamente cosa fare né perché, e vagò per gli angoli della stanza, resi indefiniti dall’oscurità azzurrina che era scesa insieme al crepuscolo. Fuori, i giardini gemevano di richiami notturni e l’aria era fragrante, densa. Dentro, la luce si spegneva poco a poco e tutto languiva. Improvvisamente, incontrò il suo riflesso nello specchio. Sempre più spesso, le capitava di riconoscersi a fatica, come se la cognizione di se stessa avesse cominciato a sfuggirle. Accadeva anche di notte, quando si svegliava di soprassalto e non capiva a chi appartenessero quelle braccia che vedeva abbandonate sulle lenzuola, o dove finissero le gambe che parevano allungarsi all’infinito sotto le coperte. Succedeva senza preavviso. La mente era lì, lucida, senza alcuna identità, e il corpo apparteneva a qualcun altro. Allungò la mano sinistra e la posò sulla superficie gelida e spettrale, ripercorrendo i tratti che vedeva imprigionati nel suo interno, irraggiungibili. Non ricordava più quando il viso aveva cominciato a scavarsi, quando aveva smesso di essere morbido e aveva iniziato a cedere dietro la spinta degli zigomi, che si erano trasformati in  spigoli, e nemmeno come avessero fatto i suoi occhi a diventare così grandi. Nel sollevare il braccio la manica dell’abito era scivolata indietro, fino ad accomodarsi nell’incavo del gomito, lasciando scoperta la carne pallida. Lo sguardo si incagliò sulla pelle incorrotta, liscia, che foderava l’interno dell’avambraccio.

Il rumore attutito di una risata la fece sobbalzare. Istintivamente, coprì il braccio e lo premette forte contro il petto, mentre rivolgeva il capo nella direzione dalla quale il rumore era arrivato. Vide ombre intermittenti tranciare la fessura di luce dorata che si stendeva sul pavimento, ai piedi della porta, e di nuovo quella risata, seguita da alcune frasi concitate, si insinuò oltre l’uscio. Forse attratta da quell’inaspettata esplosione di vita, si materializzò nel corridoio esterno. In fondo, sul ciglio delle scale, Sirius si allontanava con Andromeda abbarbicata in spalla. Continuavano a sghignazzare, probabilmente senza nessun motivo valido per farlo. Dopo pochi istanti, quando entrambi erano già scomparsi oltre la rampa, sentì sua sorella strillare, poi distinse i tonfi di corpi che cadono. Si materializzò due metri più avanti e si sporse appena, spinta da un’insanabile curiosità. Sirius e Dromeda se ne stavano aggrovigliati sugli ultimi scalini, piegati dal ridere, troppo occupati a darsi la colpa vicendevolmente per accorgersi di lei. Erano sempre stati così, tutti e due. Non erano cresciuti mai. Non erano cambiati mai. Si ritrasse, mentre loro si risollevavano a fatica, sbilanciandosi l’un l’altro, e lanciò uno sguardo dietro di sé. La porta della sua camera prometteva un’altra notte senza fine, ma, per quanto fosse pronta a combatterla, l’idea di sprofondare immediatamente in quell’oblio le parve insopportabile. Pensò alla cena, pensò che non avrebbe toccato cibo. Discese il primo scalino. Pensò che avrebbe avuto minor tempo a disposizione per attendere il mattino dopo.

 

*

 

 

 

 

NdA: E’ la prima, prima in assoluto, fan fiction che scrivo su Harry Potter. Lo dico giusto per proteggermi da eventuali lapidazioni: abbiate pietà di me e della mia inesperienza, insomma. Spero di non lanciarmi in strafalcioni eccessivi, nel caso accadesse, gradirei che qualche anima pia mi fermasse prima del baratro, e, se possibile, che lo facesse in modo carino. Se non carino, almeno educato. Tengo a specificare che sono davvero poco pratica di OOC e crismi vari, quindi, anche in questo… abbiate tanta pietà. Essendo la mia prima esperienza nel fandom, mi farebbe piacere ricevere dritte, avvertimenti, suggerimenti e quant’altro, quindi, se ne avete il tempo e la voglia, fatevi avanti perché ho un disperato bisogno di istruzioni. *Faccio almeno un po’ pena?*

Tengo a comunicare che questa storia è stata concepita per partecipare ad un contest dal quale poi mi sono ritirata per difficoltà varie (a parte l’impossibilità di consegnare entro la data stabilita, la storia si è allungata troppo per riuscire a rispettare i parametri imposti dal bando). Il contest in questione è “Enjoy the pain, pureblood”, pubblicato sul forum di EFP, sezione Harry Potter (http://freeforumzone.leonardo.it/discussione.aspx?idd=9596322). Direi che non c’è nient’altro da aggiungere. Spero avrete voglia di farmi sapere cosa ne pensate di questo prologo, insomma se è il caso di andare avanti o di darmi alla cucina tailandese.

Nel frattempo, tanto per essere ottimista, mettiamoci un “alla prossima” e non pensiamoci più.

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Capitolo 2
*** The Other Side ***


Capitolo 2

The Other Side

 

 

La polvere. La pelle. La luce che scende lenta fra i capelli. Le sue mani.

Gli occhi di Sirius si spalancarono improvvisamente, contro la sua volontà, come volessero impedire lo scorrere del sogno. Riprendendo conoscenza, non ebbe di che lamentarsi: non ricordava nulla di ciò che stava sognando, ma aveva la netta sensazione che fosse meglio così. Il vago sentore di ansia latente e la spossatezza mentale più intensa del solito parlavano chiaro. Era abituato ai suoi incubi, spesso e volentieri confusi, mai rievocabili in immagini distinte, mai riconducibili a qualcosa in particolare, sempre senza fine e senza principio. C’erano e basta, li faceva da un’eternità. Ciò non significava che gli piacessero. Li detestava, insieme ai camini spenti, ai cravattini, al porridge, a Bellatrix – detestare Bella quanto una scodella di porridge era coerente, come presa di posizione? – e a un’enormità di altra roba che comunque, in un modo o nell’altro, si ritrovava a dover gestire. In realtà, poteva ritenersi fortunato, pensò, arrancando con poca convinzione verso il bordo del letto. I camini si potevano accendere, i cravattini sciogliere, le pappette sgradite farle sparire con almeno una dozzina di trovate fantasiose che aveva sperimentato personalmente. E, da parte, aveva qualche altra centinaia di idee altrettanto geniali per sbarazzarsi dei consanguinei psicotici. Mentre barcollava alla ricerca della porta, in quel delirio post Incantesimo Esplosivo che era la camera di Andromeda, pensò anche che gli piaceva, iniziare le giornate così, tra angosce e piani maligni.

 

Primo giorno a Englefield. Forse avrebbe dovuto cominciare a scrivere un diario, qualcosa tipo ‘racconti dal fronte’, o ‘tre mesi in trincea’. Impiegò quindici minuti buoni a scendere le infinite rampe di scale per raggiungere i piani inferiori. Rotolò giù dagli scalini dell’ultima quando era finalmente arrivato a detestare anche se stesso, e si aggirò confuso da un androne all’altro, cercando la meta agognata. In preda al panico, stava chiedendosi se, dietro qualche angolo, non fossero nascosti altri scalini marmorei da affrontare, quando un elfo domestico gli si Materializzò sui piedi con un crac assordante.

“Oh! signorino! Smoky chiede scusa, signorino, chiede scusa! Stupido Smoky incapace babbeo inetto, non ha preso bene le misure, signorino. Smoky è nuovo, signorino, nuovo vecchio idiota lento Smoky”.

Di tutti i risvegli traumatici che Sirius aveva avuto, quello era sicuramente uno dei peggiori. L’Elfo Domestico dall’enorme testone grigio continuava a gracchiare e piegarsi su se stesso, profondendosi in scuse incomprensibili, il corpicino bitorzoluto strizzato dentro a un guanto da cucina scucito.

“Ti prego, smettila”.

Aveva sussurrato, ma Smoky lo sentì ugualmente e si zittì, puntando su di lui un paio di iridi violacee piuttosto inquietanti. Odorava di cibo, però.

“Stavo cercando la cucina e mi sono perso”.

Smoky tirò su e giù il suo cranio gigante un paio di volte, e solo allora Sirius si accorse che teneva tra le manine rugose un cucchiaio sporco di qualcosa che somigliava proprio a…

“Crema al cioccolato, signorino. Smoky mescolava la crema al cioccolato e siete stato Sentito. Smoky è stato mandato a guidarvi, ma Smoky è nuovo e tanto tonto inutile sbadato. Smoky non ha preso bene le misure, stupido sciocco gonzo Smoky”.

Stava per darsi il cucchiaio in testa, ma Sirius intercettò il movimento in tempo per impedirglielo.

“Fermo dove sei, niente autoflagellazioni di prima mattina. E il cucchiaio lo tengo io. Portami in cucina, questa dannata catacomba è un labirinto”.

“Smoky obbedisce, signorino, Smoky obbedisce immediatamente subito ora”.

“Smoky mi scende anche di dosso, per cortesia?”.

Cucchiaio in bocca, seguì Smoky in un dedalo di corridoi che aveva completamente rimosso dalla memoria. Quando finalmente arrivarono in cucina, nel regno degli Elfi Domestici scoppiò il finimondo. Tra inchini, scuse e strepiti, caddero a terra un paio di pentoloni, un Elfo prese fuoco, e Sirius fu circondato da un’orda di esserini adoranti che imploravano il suo perdono.

“Ok. Per favore, non facciamoci prendere dal panico. Tornate tutti al lavoro, con calma”.

Detestava dare ordini, ma aveva imparato a sue spese che gli Elfi non prendevano in considerazione nessun altro modo di comunicare. Da bambino aveva tentato di intraprendere qualche conversazione amichevole con Kreacher, idea che si era rivelata pessima: quando sua madre l’aveva scoperto lo aveva messo in castigo per una settimana e aveva costretto Kreacher al digiuno.

Si trascinò fino al centro della stanza, cercando di non calpestare nessuno durante il tragitto, e andò ad appollaiarsi sulla lunga penisola in muratura cementata nel centro. Guardandosi intorno, realizzò che la cucina era immensa, come qualunque altra cosa in quel mausoleo. Standosene lì, a succhiare il suo cucchiaio al cioccolato, si sentì improvvisamente piccolissimo, un bambinetto. Gli occhi scivolarono sulle mattonelle di cotto, percorrendo i confini che lo circondavano. C’era una grande finestra rettangolare, alla sua sinistra, affacciata sui giardini Nord. La luce divina del sole, là fuori, incendiava fiori e prati fino all’orizzonte. La mente schizzò avanti, rincorrendo un ricordo. Poco prima che i pensieri ne potessero disegnare i contorni, però, una fitta gli spaccò a metà il cervello.

“Per Merlino” sfiatò, trovandosi a guardare i profili ossei delle sue ginocchia a un dito di distanza.

Il cucchiaio si schiantò sul pavimento e, per qualche istante, Sirius lo guardò luccicare, certo di vomitare da un momento all’altro. Invece la nausea passò veloce come era arrivata, lasciandolo di nuovo in preda ai morsi della fame.

Non si chiese cosa fosse successo. Forse perché non voleva ricordare davvero.

“Allora, cosa bisogna fare, qui, per meritarsi una colazione?”.

Forse perché aveva già dimenticato.

 

“Rowle mi ha mandato un gufo, due giorni fa”.

Thorfinn Rowle?”.

Narcissa sollevò la testa, interrompendo la contemplazione delle proprie gambe candide, e i suoi capelli fecero da specchio al sole, costringendo Sirius a distogliere lo sguardo.

Smoky lo aveva guidato fino alle porte dei giardini Est, rifiutandosi però di oltrepassare il perimetro murato della casa e farsi vedere dalle padroncine. Terrorizzato, aveva farfugliato qualcosa riguardo alla ‘signorina Narcissa’ e alla ‘signorina Bella’, prima di Smaterializzarsi. Così, era stato costretto ad aggirarsi come un’anima in pena nel parco, fino a che aveva sentito il cicalare di Andromeda e Cissy oltre una macchia di betulle. Ridacchiavano come due ragazzine, sedute lungo il bordo della piscina.

“Quanti Rowle conosci?”.

“Beh, Thorfinn ha un fratello niente male”.

“Ma non avrà nemmeno quattordici anni!”.

“E quindi?”.

“Quindi sei un’assatanata. A saperlo mi sarei portato dietro Peter”.

Dromeda gli sorrise, guardandolo sbucare dal boschetto, Narcissa storse un po’ la bocca in quello che voleva essere un saluto cordiale.

“Non sono così assatanata”.

“Altrimenti c’è sempre il buon Regulus a portata di mano”.

Suo fratello si aggirava indeciso sul bordo opposto, un paio di mutandoni impermeabili e verdastri addosso. Quando si accorse che tutti e tre lo fissavano, rispose con uno sguardo torvo.

“Lascialo in pace”.

Fu Narcissa a parlare. Sirius scrollò le spalle.

“Comunque Thorfinn non è male” disse Dromeda, mentre lui si arrotolava i pantaloni del pigiama attorno alle ginocchia, prima di mettersi a mollo accanto a lei.

“Ma è così…”.

“… vichingo?” si intromise Sirius.

Dromeda gli rivolse un’occhiata maliziosa.

“E dove sarebbe il problema?”.

“Ti prego, l’ho visto concentrarsi per contarsi le dita dei piedi. E non ha idea di cosa sia la lingua parlata. Si esprime a grugniti, perlopiù”.

“In effetti non ho capito molto di quel che mi ha scritto” fece Narcissa, titubante, studiando l’acqua.

“E va bene, se siete così decisi a depennare Rowle… Però, Cissy, sei troppo esigente, quasi tutti gli amici di Bella ti hanno chiesto di uscire, in un modo o nell’altro. Chi manca all’appello?”.

“Rosier, Mulciber, Tiger…”.

“E Malfoy”.

Sirius intercettò lo sguardo scocciato che Cissy indirizzò a Dromeda.

“Tutte personcine per bene, insomma”.

Il suo commento passò nell’indifferenza generale, con suo sommo disappunto.

“Beh, escludiamo Rosier e Mulciber, non mi convincono per niente e poi sono affetti da egolatria fulminante. Tiger, ti scongiuro, no. Ti interesserebbe Tiger?”.

Le labbra di Narcissa si arricciarono come se avesse appena ingoiato pus di bubotubero.

“Rimane Malfoy”.

“Disgustoso”.

“Taci, tu. Non sono affari che ti riguardano”.

“Non lo so, non ci ho mai pensato”.

 Invece doveva averci pensato, e parecchio, visto il modo in cui aveva abbassato gli occhi appena Andromeda l’aveva nominato. Sirius, sempre più nauseato, prese a spogliarsi.

“Io non capisco che problemi avete, voi femmine Black. Tra tutti i Maghi in circolazione sicuro come l’oro che andrete a impantanarvi con i peggiori”.

“Rettifico, zio Orion avrebbe dovuto pensare seriamente a Cassandra”.

“Cosa stai facendo?”.

Narcissa era chiaramente inorridita dal fatto che stesse sfilandosi le mutande.

“Un paio di giri di corsa intorno alla vasca e poi qualche miglia a cavallo”.

“E forza, Cassie, metti a bagno quelle chiappe secche”.

Dromeda lo spinse giù con una manata energica e Sirius precipitò di schiena nella piscina.

 Nuotò sott’acqua per un lungo minuto, poi si lasciò riportare pigramente a galla e rimase a contemplare il cielo, pancia all’aria come i pesci che Bella aveva assassinato. Da quella prospettiva le cime degli alberi parevano protendersi all’infinito, davano le vertigini a guardarle.

Uno sciabordio discreto lo distrasse.

Regulus nuotava nei suoi dintorni, lanciandogli di tanto in tanto degli sguardi indecifrabili. A volte Sirius non riusciva davvero a capire cosa passasse per la testa di suo fratello, e ancor più raramente credeva si trattasse di faccende interessanti. Era per via di quel distorto equilibrio tra incomprensione e indifferenza, che lui e Reg o battibeccavano fino allo sfinimento – altrui, solitamente – o tacevano per ore ed ore, ed ore.

“Sbaglio, o c’è un verme nudo che galleggia nella mia vasca?”.

Non si premurò nemmeno di alzare la testa per dare il benvenuto alla nuova arrivata.

Mio, mio, mio, per Bella tutto quel su cui posava gli occhi le apparteneva di diritto.

La ignorò deliberatamente, continuando a galleggiare beato sull’acqua.

“Che ci fai con il mantello da viaggio?”.

Sirius riconobbe lo stesso tono che Andromeda usava con lui quando non era d’accordo su quello che stava per fare: di una tranquillità quasi naturale che avrebbe ingannato qualsiasi orecchio estraneo.

“Starò via tutto il giorno. Ho lasciato le istruzioni ai Domestici: stasera ci saranno i miei amici. Non voglio piantagrane tra i piedi” rispose, secca, Bella “Ci siamo capiti, verme?”.

Sirius portò le braccia dietro la nuca, pacifico.

“Scusami? Non ti stavo ascoltando”.

“Fai vedere la tua faccia e ti Affatturo”.

Le lanciò un gran sorriso insieme a un bacio volante, prima di vederla ruotare su se stessa e scomparire, lasciandosi dietro l’eco della minaccia.

“Chi verrà?” domandò subito Regulus, aggrappandosi al bordo vasca.

“Crouch” rispose Narcissa, con indolenza “Forse Dolohov, ma spero di no, è così volgare. Certamente Avery, Mulciber e Evan. Wilkes segue Evan dappertutto, quindi ci sarà anche lui. Travers è quasi sempre presente, come Rowle. E ieri Bella mi ha detto che Lucius porterà Rabastan e Rodolphus”.

Sirius levò gli occhi su Andromeda, disperato.

“Ti prego dimmi che in questo deserto c’è qualche pub Babbano dove possiamo andare a sfondarci di birra”.

Sua cugina rispose con un sorriso furbo.

“Pensavo a qualcosa di più divertente”.

 

“Sai come le chiamano, i Babbani, le tipe vestite così?”.

Sirius chiuse la porta della camera di Andromeda alle sue spalle e vi si appoggiò.

Sua cugina si stava studiando nello specchio. La guardò muovere le gambe, lasciate scoperte da un paio di hot-pants a fiori rossi e blu, poi controllare il profilo, tirando in dentro la pancia nuda, che spuntava da sotto il top striminzito in cui si era intrappolata.

“Chi ti insegna queste cose?” gli domandò lei, puntando la bacchetta tra i capelli per intrecciare qualche ciocca qua e là.

“Harvie Phillips. Tipo in gamba, è del mio stesso anno. Una volta ha fatto esplodere le mutande ad Avery”.

“Ah, quindi è proprio un problema generazionale” fu la risposta, poi sua cugina salì su un paio di zoccoli dall’aria scomoda e piuttosto pericolosa, e gli si avvicinò allacciandosi un nastrino attorno al capo.

“A che servono questi cosi se non riesco nemmeno ad essere più alta di te?”.

“A farti cadere rovinosamente davanti alla folla di gorilla che rimorchierai stasera?”.

“Ma piantala” berciò lei, cercando qualcosa in un mucchio di abiti appallottolati ai piedi dell’armadio.

“No, sul serio” disse Sirius, seguendola nel centro della stanza “Oltre ad essere un cervello sopraffino sono anche un duellante eccellente, ma davanti a un’orda di ragazzoni con la bava alla bocca non saprei come reagire”.

“Rilassati, cervello sopraffino” sbuffò Dromeda, piantando le mani sui fianchi e guardandosi intorno, confusa.

“Scusa, per curiosità, dov’è che pensi di mettere la bacchetta?”.

“Tu pensa a dove metterti la tua” replicò, sbrigativa, lei “Accio borsetta!”.

Sirius schivò per un soffio la mezza dozzina di borse che sfrecciarono verso di loro da ogni angolo della camera.

“Ok, siamo pronti!” esclamò Dromeda, infilandosi a tracolla uno straccetto di corda che pareva sottratto agli Elfi Domestici “Prendimi il braccio”.

Obbedì, docile.

“Dov’è che andiamo?”.

Prima di ricevere risposta, venne risucchiato nel tunnel vorticante e vomitato su qualcosa di duro.

Quando riuscì a rimettere a fuoco la vista, lo stomaco in subbuglio e l’espressione sconvolta, si ritrovò sul fianco di un colle erboso. Sua cugina lo guardava dall’alto in basso, un sorriso mefistofelico a incurvarle le labbra. Ecco, forse così somigliava un poco, ma proprio poco, a Bella.

“Ottery St. Catchpole” rispose, affrontando il declivio con la massima disinvoltura.

Sirius si rimise in piedi e le andò dietro. Tutt’intorno a loro i profili bruni delle colline si stagliavano contro il cielo notturno, limpido. La luna era grande, segata a metà, e illuminava ogni cosa di un tenue bagliore perlaceo. Più giù, le luci del villaggio parevano sparse a caso, una manciata di chicchi dorati fatti rotolare giù dal pendio. C’era anche un fiume, poco lontano, che si dipanava quieto come un filo d’argento, fino a disperdersi nell’orizzonte.

Ai piedi del colle si allargava una macchia di alberi, e fu proprio in quella direzione che si diresse Andromeda, sicura. Avvicinandosi, Sirius riuscì a cogliere dei baluginii tra le fronde.

“E’ una specie di festa d’inizio estate” fece sua cugina, affiancandolo “Almeno, così ha detto Ted”.

“Chi è Ted?”.

Dromeda scrollò le spalle.

“Tonks. Un tipo simpatico, era qualche anno più avanti di me a Hogwarts”.

“E come lo hai conosciuto?”.

“Cassie, ti prego, sembri mia madre” lo canzonò lei “In un pub Babbano, a Tinworth. Lui era lì con il suo gruppo, io con il mio, e alla fine ci siamo fusi”.

“Un pub Babbano, eh? Bella sarebbe fiera di te”.

Dromeda non poté rispondere con niente di più di un’occhiata eloquente, perché appena superarono i primi due alberi la musica esplose intorno a loro, stordendoli.

Il boschetto era invaso da lanterne coloratissime che svolazzavano a mezz’aria, creando pozze di chiarore intermittente che spariva veloce, lasciando dietro di sé una semioscurità. Tra buio e luce si muovevano sagome indistinte, gente continuava ad arrivare loro addosso e a scusarsi tra risate e sorrisi confusi. Dromeda lo prese per mano, temendo probabilmente di perderlo, e pian piano si spostarono verso una zona dove gli alberi erano più radi e alti. Di tanto in tanto sua cugina si fermava a salutare qualcuno. L’ultima persona in cui incapparono fu un ragazzo smilzo evidentemente alticcio che pretese di regalarle un bracciale incantato: a lui Dromeda chiese dov’era Ted e quello rispose con un cenno vago, indicando un angolo della radura dal quale si alzavano densi fumi violetti e rossastri. Quando giunsero in prossimità della meta, un tipo alto, con una lunga e foltissima chioma di capelli biondi, alzò una mano in segno di saluto e sorrise. Avevano trovato Ted Tonks.

 

Superata la diffidenza iniziale, Sirius tirò le somme: Tonks era un bel tipo. Robusto, parlava a voce alta e quando sorrideva gli si illuminava tutta la faccia. Portava una barbetta biondiccia che gli dava un’aria trasandata e indossava una camicia ampia dal disegno impossibile - che Sirius non avrebbe indossato nemmeno sotto Incantesimo - ma, tutto sommato, era ok.  L’unico suo problema stava nella cotta palese che aveva per Andromeda. La guardava in continuazione ricordandosi saltuariamente del rischio di passare per un idiota e di dover distogliere lo sguardo. Le ronzava intorno e in un modo o nell’altro riusciva sempre a tornare nei loro paraggi, anche se non aveva nessun motivo per esserci. Due o tre volte, durante le conversazioni con lei, si era impappinato ed era ripartito a caso con delle osservazioni totalmente inopportune. Dromeda, in compenso, sembrava non accorgersi di nulla e continuava a chiacchierarci con piacere. Osservandola, Sirius ebbe modo di riflettere: non l’aveva mai vista così a suo agio in famiglia. Se anche lei l’avesse visto in compagnia di James, Remus e Peter avrebbe certamente pensato la stessa cosa. Proprio mentre era immerso nelle sue elucubrazioni, inopportune tanto quanto le frasi demenziali di Tonks, nei loro paraggi cominciarono a spuntare come funghi lunghissime pipe fosforescenti, che passarono di mano in mano con una rapidità impressionante. Se ne trovò tra le dita una ancora prima di capire cosa dovesse farci.

“Ecco” Tonks si infilò un bocchino verdissimo tra le labbra e tirò fuori dalla tasca una bustina.

Lui e Dromeda lo guardarono aprirla e pigiarne il contenuto nel fornello.

“Ma è ganja!” esclamò Sirius, dopo essersi avvicinato abbastanza.

“E tu che ne sai?” fece sua cugina, sorpresa.

“Diciamo che Harvie Phillips non si occupa solo di far esplodere le mutande altrui. Qualche volta porta della roba Babbana, quando torna dalle vacanze di Natale. La frega a suo padre. E James la frega a lui”.

“Bel soggetto, questo James… e poi tormenti Bella per le sue compagnie”.

“Non fare paragoni blasfemi”.

“La roba che usiamo noi, comunque, non è pura. Ce la tratta un pozionista a Nocturne Alley. È strepitosa” spiegò Ted, mentre il fornello si accendeva autonomamente.

Sirius lo guardò ardere per un istante e poi sbiadire raffreddandosi. Un denso fumo viola si sollevò e li avvolse. Lo sentì scendergli attraverso le narici, quasi fosse materia solida, colare in gola stuzzicando appena le papille gustative. Aveva sapore, non meramente odore. Era qualcosa che gli fece venire voglia di masticare.

Tonks sorrise di piacere e chiuse gli occhi. Quando li riaprì, nelle iridi gli si vedeva qualche bagliore violetto.

“Fantastico. Qui dentro c’è sicuramente qualcosa che ha a che fare con l’Amortentia, ma non ho ancora capito in che quantità. Il bello è che di tutto il pacchetto lascia lo stravolgimento e basta”.

“Te ne intendi, di Amortentia?”.

L’occhiata che Dromeda lanciò a Tonks lasciò Sirius interdetto. Ted invece rise tranquillamente, lasciandolo a interrogarsi su come Merlino avesse fatto a non capire quello sguardo.

“Che tu ci creda o no, c’è stata una ragazza capace di somministrare al sottoscritto un filtro d’amore. Incredibile, no?”.

Un trentatré giri virò sopra le loro teste, facendoli piegare.

“Scusate, Paul è in trip con i vinili Babbani. Se solo non li Incantasse potrei anche giustificarlo”.

“Figurati” disse Dromeda, sorridendogli “Comunque non è incredibile”.

Tonks si immobilizzò nello sforzo evidente di rintracciare il filo logico della conversazione, mentre Sirius tentava di mimetizzarsi con il prato. Sarebbe stato anche facile, se magari qualcuno avesse soffiato un po’ di fumo da quella parte…

“Cosa?”.

“Che qualcuno voglia rifilarti un filtro d’amore. Voglio dire…”.

Finalmente Ted comprese e per poco la pipa non gli cadde per terra; Sirius cercò un pretesto qualsiasi per sfuggire a quella parentesi di flirt selvaggio, nella quale sua cugina sembrava peraltro sguazzare benissimo; a sottrarre entrambi dal limbo fu poi la stessa Andromeda, con un colpo da maestro.

“Mi piace questa canzone” commentò “Balliamo?”.

Tonks la guardò per un momento lunghissimo.

“Ok”.

Dromeda gli prese la pipa e la rifilò a Sirius, per poi afferrargli una mano e trascinarlo in mezzo alla radura, tra le altre coppie che danzavano sulla melensa hit. Lui rimase a guardarli per un po’, mentre ballavano vicinissimi e parlavano fitto di chissà cosa. Riusciva a vedere Tonks inciampare nelle frasi anche da lì e gli fece quasi tenerezza. Quando però la distanza tra i due si ridusse ulteriormente, fu costretto a concentrare la sua attenzione altrove. Vagò tra la folla di sconosciuti, un po’ malinconico, fino a che trovò un albero libero e vi si abbandonò contro, sedendosi a terra. La pipa verde era ancora accesa: gli sembrò una buona idea approfittarne.

Alla prima boccata il fumo gli scese dentro, invadendogli questa volta la bocca. Aveva un sapore tutto particolare, molto più ben definito e tuttavia irriconoscibile. Sirius non ricordava di averlo mai gustato altrove. Scendeva, scendeva, fino a esplodergli nei polmoni in una nuvola di polvere leggera che lo fece tossire. Era fantastico sul serio.

Dopo la quarta boccata cominciò a vedere sfocato.

Alla settima il mondo era un rincorrersi di lampi violacei.

Alla decima, solo buio.

 

“Ti piace questa canzone?”.

Sirius si immobilizzò. Il trenino Incantato che teneva tra le manine continuava a fischiare sommessamente, ma lui non se ne curava.

“Ti piace questa canzone?” ripeté, di nuovo, la voce.

Era dolce, dolce. Sirius sorrise quando una folta massa di capelli morbidi gli finì sul viso, oscurando gli orizzonti enormi della stanza.

“Vuoi ballare con me, eh, piccolo? Vuoi ballare?”.

I capelli si allontanarono, definendosi in scurissimi boccoli bruni, e un paio di occhi lo studiarono. Erano dolci anche quelli, tutto era dolce e grigio come i temporali.

Bellatrix sorrideva nella luce bianchissima che precipitava dalle vetrate, allungando le braccia verso di lui.

“Vieni, vieni”.

Sirius le andò incontro, cadendole addosso all’ultimo. Lei lo strinse un po’ a sé.

“Sai di buonissimo”.

“Anche tu sai di buonissimo, piccolo” mormorò, sistemandogli il colletto della camicia “E adesso balliamo!”.

Si alzò in piedi e gli parve grande, grandissima. Gli prese le mani tra le sue, calde e rassicuranti, e ballarono, ballarono insieme. E a Sirius venne da ridere.

Rise, rise, rise. Bella lo prese tra le braccia e lo coccolò un poco.

“Sai di buonissimo” gli disse, mentre lo teneva seduto sulle sue gambe, e tutti e due se ne stavano a terra, e tutto il resto lo era davvero, grandissimo “Sai di buonissimo, piccolo”.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

NdA: ritardissimo, vergogna, capitolo demenziale e non corretto. Mi sto divertendo molto a scrivere questa ff, devo dire la verità. Giusto per chiarire le mie intenzioni ai poveri lettori che passano di qui, l’esperimento dovrebbe essere una sorta di “origini del male”, cioè tipo perché Bellatrix desidera così ardentemente ammazzare Sirius e ci riesce pure, come Andromeda Black è diventata Andromeda Tonks, con quale strategia quella furbastra di Narcissa ha accalappiato il buon vecchio Lucius e, in questo circo a tre piste, quali saranno le sorti del povero Regulus (che a ben vedere è l’unica vera vittima di tutto il teatrino). L’insieme condito da psicosi, ossessioni, incantesimi su consanguinei e via dicendo. E trovate kitsch tipo le pipe fosforescenti – lo so, lo so, abbiate pietà, esco da una sessione d’esami terribile -. Spero troverete il tempo per dirmi la vostra (:

Alla prossima!

 

P.S. ah, e la hit melensa, che si prospetta come Canzone-di-Ted-e-Andromeda-Tonks, è My Love di Paul McCartney & The Wings :3

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Capitolo 3
*** A Midnight Full Of Stars ***


Capitolo 3

A Midnight Full Of Stars

 

 

 

La sala da pranzo del secondo piano era più raccolta, rispetto a quella del primo. Il soffitto più basso, gli affreschi dai colori più tenui, le dimensioni ridotte, la rendevano maggiormente idonea alle misure umane. Tuttavia, Sirius continuava a trovarla spaventosamente dispersiva. Il tavolo, nove piedi di palissandro lucidato a dovere, era adatto a tutto tranne che a consumare dei pasti in compagnia. Ripensando ai tavolacci lunghissimi della Sala Grande, traboccanti studenti in subbuglio ormonale, gli venne in mente che, con una trentina di invitati, avrebbero potuto rimediare alla desolazione delle cene. Sarebbero bastati anche solo James, Remus e Peter: insieme avrebbero trovato il modo per sfruttare al meglio quella bella superficie liscia.

La malinconia e il giungere del primo piatto lo riportarono bruscamente alla realtà. Dato di fatto innegabile, la porzione di quiche lorraine che si era appena materializzata nel suo piatto aveva un’aria appetitosa, ma era certo che, con un silenzio simile, gli sarebbe stato impossibile digerire. Tornare alla normalità familiare, dopo la vitalità disordinata e frenetica di Hogwarts, era ogni anno più pesante. Avrebbe detto inaffrontabile: eppure eccolo seduto a capotavola, a un’assurda distanza dalle persone con cui avrebbe dovuto dividere il cibo. Tra le tante cose che non comprendeva, nel mare di convenzioni imposte che l’avevano sommerso negli anni, c’era la solitudine alla quale ognuno di loro era costretto. Posti a sedere troppo lontani uno dall’altro, stanze troppo lunghe o larghe, troppa ipocrita quiete. Niente da dire, niente da confessare, niente di cui parlare. Il sangue, solo quello, accomunava i membri eletti della nobile, antichissima casata Black: generazioni e generazioni di boriosi involucri, una scuderia di purosangue da riproduzione. E solo lui pareva non coglierne il senso.

“Perché non ci stringiamo?”.

Levò gli occhi su Andromeda e fu forzato a sorridere, contro la volontà dei suoi cupi pensieri.

Il piatto lo precedette, schizzando lungo il tavolo fino a cascare giù dal bordo smussato. Sua cugina fu lesta e lo recuperò al volo, poco prima che si schiantasse per terra insieme a quel che vi stava dentro.

“Mamma l’ha ripetuto non so quante volte, a zio Orion, che il nome giusto era Attila”.

Sirius le rispose con un altro sorriso e pescò dal suo piatto la forchetta, appropriandosi con somma soddisfazione del morso di quiche infilzato in cima.

“E piantala con queste smorfie. Non sono una matricola Tassorosso qualunque”.

“Che?”.

Dromeda gli sfilò la forchetta dalle mani e rese pan per focaccia, dilaniando la sua quiche, prima di restituirgli il piatto.

“Non fare quel faccino. Gli sguardi sfila biancheria di James Potter e i sorrisi spacca cuore di Sirius Black sono famosi anche fuori dalle mura di Hogwarts, mio caro”.

Regulus si fece andare l’acqua di traverso e tossì.

“Le tue fonti sono guaste, cugina”.

Andromeda si distese sulla sedia e socchiuse pigramente gli occhi.

“Non credo proprio. I miei informatori sono attendibilissimi”.

“Permettimi di contraddirti: lascio a James Potter la soddisfazione di infrangere cuori a destra e a manca. Io, notoriamente, mi accontento della biancheria. O forse adesso ci accontentiamo della biancheria tutti e due, non ricordo” gli sembrò una buona idea bere dal calice colmo di vino che lei non aveva ancora toccato “Perché tu hai da bere e io no?”.

“Perché io ho compiuto diciassette anni ere geologiche fa, e tu sei un poppante” non gli concesse il tempo di replicare “Cissy, Reg: vi avvicinate?”.

Sirius le lanciò un’occhiata tra l’incredulo e il divertito. Avrebbe voluto abbracciarla, come si abbracciano i bambini molto piccoli, che non possono ancora veramente capire. Con Andromeda era così facile credere di non appartenere a quel luogo, dimenticare gli arazzi, gli alberi genealogici, i legami, i segreti. Si chiese se fosse mai crollata, magari di nascosto. Senza che nessuno sapesse. Non riusciva a immaginare che rumore avrebbe potuto avere, il suo pianto.

Negli occhi azzurri di Narcissa, lontana almeno un miglio da loro, passò un lampo d’incertezza. Regulus si limitò a far saettare lo sguardo da una cugina all’altra, per poi fermarlo, interrogativo, sulla minore.

“Forse dovresti mandare un gufo. E’ improbabile che ci sentano, da qui”.

Andromeda lo zittì con un buffetto.

“Cissy?”.

Narcissa si prese un altro istante di taciturna esitazione, prima di materializzarsi accanto alla sorella. Regulus, impacciato, si alzò e aggirò con passo rigido tutto il tavolo, per poi accomodarsi con un gran baccano alla sinistra di Sirius. Di fronte a loro rimase la distesa disabitata dell’altra metà del tavolo.

“Ora è tutto più carino”.

Il commento di Andromeda passò nel silenzio più totale. Narcissa si limitò a scrollare le spalle, Regulus affondò la forchetta nella quiche, spappolandone il centro.

“Già, sembriamo quasi persone che si conoscono”.

Le parole andarono morendogli sulle labbra. Bellatrix gli era improvvisamente esplosa davanti, nera come niente nell’universo. La reazione al suo arrivo fu il silenzio tombale.

Tempo prima, James aveva trovato l’unica espressione calzante per definire in un colpo il potenziale distruttivo di sua cugina: ‘dove passa lei non cresce più l’erba’, aveva detto, o qualcosa di affine. Era perfetto. Avrebbe dovuto congratularsi con lui per quel lampo di genio, nella lettera successiva.

Li squadrò con quell’impertinenza gelida e odiosa, di chi ha la certezza di stare sempre un passo avanti rispetto agli altri. E poi quel sorriso piantato sul volto, come se sapesse qualcosa, qualcosa di fondamentale, che a tutti quanti sfuggiva. Sirius aveva impiegato i migliori pomeriggi della sua pubertà a convincersi che niente di ciò che Bella mostrava era reale. Tutta una finzione, un gioco, un vestito da togliere dietro una porta chiusa.

“Che state facendo?” chiese, accomodandosi nella desolazione.

Se ne stette lì per qualche istante, a guardarli e basta, uno per uno, scandagliandoli. Cosa volesse trovare, impossibile dirlo. Sicuro era che lei cercasse sempre qualcosa, negli altri. Qualcosa di torbido, possibilmente. E, se proprio non c’era nulla di torbido da scoperchiare, almeno qualcosa di doloroso e imbarazzante.

In quei pochi minuti, l’umanità riconquistata sfiorì. Regulus raddrizzò la schiena, un burattino di legno, Narcissa abbassò gli occhi, colpevole, e riprese a ingoiare meccanicamente. Il sorriso di Andromeda si raffreddò appena, e forse fu quello a far irrigidire Sirius, più della presenza sgradita di Bella, più della sua soddisfazione malcelata. La vide sorseggiare del vino da un calice, la sentì sospirare di noia. Poi anche il cibo perse di sapore.

 

Englefield era puro terrore, di notte. Sirius stava metabolizzando la questione, immobile in un angolo del letto immenso, a guardare nel buio del camino spento. Qualcuno aveva avuto l’idea raccapricciante di disseminare specchi un po’ ovunque, dove non c’erano affreschi a tinte fosche a riempire gli spazi. La volta era talmente alta che vederne la fine lasciava increduli. Il balcone si affacciava sulla campagna deserta, morta per miglia intere. Nemmeno una luce, esisteva, in quella brughiera dimenticata. Non era tollerabile. Si alzò di scatto, le braccia e le gambe tutte un prurito di ghiaccio, e la frenesia di raggiungere la porta lo fece quasi inciampare nelle sue stesse caviglie. Una volta abbandonati i battenti dietro di sé, si avventurò nel corridoio, sperduto. Andromeda gli aveva spiegato bene come trovare la sua camera, in caso di necessità, ma non ricordava assolutamente niente delle istruzioni. Avrebbe potuto ribaltare Hogwarts e rimetterla in piedi con le sue mani senza dimenticare un gradino; Englefield, semplicemente, non gli apparteneva, e non aveva nessuna intenzione di porre rimedio.

In fondo si trattava di esplorare il terzo piano. Avrebbero dovuto esserci solo camere da letto e bagni, lì. E arazzi, corridoi interi rivestiti di arazzi. Il primo sul quale soffermò distrattamente lo sguardo rappresentava una qualche battaglia. Nella luce soffusa delle candele, sospese a mezz’aria, i colori parevano fondersi tutti nel rosso crudo delle ferite. Non appena rallentò il passo, catturato suo malgrado dalle figure, i soldati ripresero ad affettarsi a vicenda, trapassandosi con le spade, mentre il sangue schizzava a inzuppare la terra. Sazio, si allontanò con le mani sprofondate nelle tasche, inseguito dal clangore attutito di lance e scudi.  Entro una ventina di passi si rese conto che le porte erano troppe, per essere aperte tutte, e cominciò a spalancarle a caso. Alcune erano serrate con delle travi, ed emanavano un’aria di decadenza che lo rese nervoso, altre erano chiuse a chiave. Le prime stanze in cui riuscì a entrare erano vuote, stipate di letti a baldacchino pacchiani oltre il verosimile e marmi, e dipinti, e camini rigorosamente spenti. Era estate, era logico, ma i camini spenti lo indisponevano terribilmente, gli mettevano angoscia addosso: una delle tante fissazioni che James e gli altri proprio non afferravano. Poi, finalmente, la prima camera abitata. Oltrepassata la soglia, si avvicinò al letto e vi scoprì Regulus. Aveva addosso il pigiama a basilischi che zia Druella gli aveva regalato per Natale e dormiva profondamente, la bocca spalancata. Non era naturale, che fosse così goffo anche nel sonno. Andava al di là di ogni umana comprensione. Arreso, tornò alla sua esplorazione, impedendosi di chiedersi per quale comica congiunzione astrale lui e suo fratello fossero nati nella stessa famiglia. Poco oltre la porta di Regulus, incontrò quella di Narcissa, riconoscibile dall’incisione argento incantata sulla superficie, che brillava di luce propria, emanando bagliori da un lato all’altro del corridoio. Si augurò che anche la porta di Bellatrix fosse altrettanto identificabile; magari lei ci aveva intagliato un boa constrictor o qualcosa di simile. Il solo pensiero di piombare nella sua camera da letto gli fece accapponare la pelle. Fortunatamente, prima di essere costretto ad avventurarsi in altre stanze, trovò la porta di Andromeda. Lei ci aveva affisso e incantato il ritratto a grandezza naturale di un tizio ridicolo, stretto in una tutina a righe, che continuava a dimenarsi su un paio di stivaloni in vernice scarlatta. Spalancò la porta senza bussare, e fu dentro.

Andromeda sollevò gli occhi dal libro che aveva in mano. Se ne stava placidamente distesa sul materasso, circondata da uno studiato disordine di vestiti aggrovigliati tra loro, altri libri, cuscini, penne, tre o quattro pipe abbandonate qua e là, un giradischi sistemato ai piedi del letto e una mirrorball di dimensioni inquietanti sospesa a dieci piedi da terra.

“Che problemi hai?”.

Sirius scosse la testa e sospirò, aggirando il letto e lasciandosi cadere a peso morto accanto a lei.

“Io? Nessuno. Il tizio lì fuori, invece, è messo maluccio”.

Dromeda chiuse il libro di scatto e gli lanciò un’occhiata d’ammonimento.

“Non ti azzardare a bofonchiare su David!”.

“David chi?”.

“David Bowie!”.

“Quarto piano al San Mungo?”.

“Dai, è carinissimo”.

“Oh, sì. La voglio anch’io, una tutina come la sua”.

“Non capisci niente. Bowie è un re. E poi manda fuori dai gangheri Bella”.

“Ok. Adesso la tutina la voglio sul serio. E anche gli stivali”.

Dromeda rise, poi, da un minuto all’altro, inclinò un poco la testa.

Arrivava sempre, quel momento. Quando lei si accorgeva del qualcosa che non andava.

“Perché non riesci a dormire?”.

“Non lo so. Tu perché non dormi?”.

“Non lo so. Leggo”.

Sirius frugò tra le coperte sfatte e ripescò il suo libro.

“Sonata a Krauzer*”.

“Non riusciresti a pronunciarlo neanche volendo”.

Nemmeno un battito di ciglia, il libro era già sparito tra le sue mani e lei lo stava osservando con lo sguardo più fermo del mondo.

Sirius si lasciò scivolare tra le coltri con un sospiro affranto.

“Sei proprio decisa a rendere seria questa conversazione?”.

Le iridi di Andromeda erano piene di riflessi avvolgenti, morbidi, un abisso di calore lontano anni luce dall’amianto di Bellatrix. Dicevano tutti che Dromeda e Bella erano identiche: dove si trovasse quella somiglianza, Sirius non era mai stato in grado di capirlo. Era così evidente, gravitavano in orbite così diverse.

“No. Però vorrei leggere in santa pace, se per te non è un problema”.

“Preferisci Krauzer a me?”.

“Preferisco Tolstoj, a te. Il che mi rende meno snaturata”.

“Come cugina?”.

“Come madre”.

Quando sorrise, Sirius aveva già chiuso gli occhi e si era abbandonato del tutto al tepore delle coperte.

Non vide Andromeda spiarlo dall’alto, non si accorse di cercarle il fianco con la fronte, prima di cedere al sonno.

 

*

 

Sai cosa succede, continuava a ripetersi, fingendo di dormire, sai cosa succede quando non ti riconosci più, quando non ti trovi più? E sapeva di ingannarsi, a cosa serviva, un’altra domanda, a cosa serviva tenere gli occhi chiusi, chi doveva convincere del suo sonno profondo, sereno, inesistente? Succede che ti perdi. Che diventi qualcun altro. Sì ma chi, chi.

Avrebbe preferito dimenticare. Non ricordare più, lasciarsi portare via. Invece ecco la consapevolezza dolorosa delle lenzuola avviluppate intorno al corpo, del sudore freddo. Lei non c’era già e, al tempo stesso, era più presente a se stessa che mai. E là fuori, oltre, c’era il corpo, ormai un’entità estranea, ostile, e il resto della sua vita che le veniva incontro a grandi passi, calpestando, sbriciolando. L’avrebbe combattuta, trafitta, se avesse potuto. L’avrebbe combattuta, tentò di convincersi, ma nemmeno il tempo di pensare al sollievo e quel pensiero era già diventato un brusio, si era sciolto nel buio.

C’era qualcosa di bello, c’era qualcosa di bello per scampare all’annegamento. Doveva esserci. Il vestito bianco, il velo. I calici di cristallo. Andromeda li avrebbe fatti cantare come la prima estate lì a Englefield, mentre Sirius le stava seduto sulle ginocchia, e respirava così piano, così piano. E si addormentava in silenzio addosso a lei. Rodolphus si sarebbe addormentato addosso a lei. Sarebbe stato dentro di lei. Ma non c’era spazio, per nessuno.

Piangeva. Si accorse di piangere quando era troppo tardi per smettere. Detestava visceralmente ogni lacrima e con la stessa intensità avrebbe voluto disintegrare quegli specchi, la stanza, il castello, bruciare, incenerire, disfare ogni pietra. Tentò di liberarsi dalla prigione delle coperte, che la stringevano, la soffocavano. Lottò. E quelle sempre più strette attorno alle gambe. Urlò. Le strappò tutte, si ferì per sbaglio, e quando fu giù la foga la fece inciampare, cadde sulle ginocchia e fu altro dolore, intollerabile. La bacchetta le arrivò tra le mani e il letto si tramutò in una palla di fuoco. Per un lunghissimo istante, lo guardò bruciare. Le fiamme lo avvolsero, ingoiarono il baldacchino, il legno intagliato, avide. I putti degli affreschi sfollarono lungo le pareti, strillando. Nemmeno per un attimo, ebbe paura. Spense l’incendio solo perché, all’improvviso, ogni voglia le era stata tolta. Si era svuotata, ancora una volta, forse ad opera del rogo ingordo che aveva sbranato il letto, riducendolo a una carcassa fumante. Tornò in piedi a fatica, esausta, barcollò, strappandosi via dalle guance gli ultimi residui del pianto.

 

“Per Merlino, cosa ti è successo?”.

Trovò Andromeda pallidissima, quando si materializzò nella sua stanza.

“Niente”.

Non si chiese dove avesse trovato la forza di parlare. Si trascinò fino al letto e si lasciò cadere al suo fianco con l’unica volontà di chiudere gli occhi e sprofondare nel coma irreversibile.

“Puzzi dannatamente. Di bruciato”.

Riaprì gli occhi solo per incontrare il suo sguardo ansioso. Aveva chiuso il libro e lo teneva posato sul petto, le dita contratte. Poi, la sua attenzione fu destata da qualcosa che stava oltre le dita di Andromeda. Un ciuffo di capelli corvini, un altro, un altro ancora. Si sollevò lentamente sui gomiti, e le apparve Sirius. Istantaneamente, si rizzò a sedere sulle ginocchia. Il movimento imprevisto le costò una vertigine.

“Perché è qui?”.

Il sibilo le sfuggì spontaneamente. Di nuovo, una punta della furia le riaffiorò dentro. Era come una creatura autonoma, spesso. Si gonfiava a piacimento e riempiva tutto con la stessa velocità che poi la vedeva esplodere e dissolversi.

Gli occhi di sua sorella non persero d’apprensione.

“Non riusciva a dormire neanche lui, come te”.

“Io riesco a dormire tranquillamente. Sono venuta qui solo per farti compagnia”.

 “Va bene, allora fai pure. Il letto è abbastanza grande per tutti e tre”.

Le sorrise. Avrebbe voluto risponderle, Dio solo sapeva quanto avrebbe voluto, ma non poteva, non poteva.

“No. Me ne vado”.

Riuscì a mettere solo una gamba giù dal materasso, prima che Dromeda le afferrasse un polso con forza. Era terribilmente seria, quando si guardarono di nuovo.

“Bella, per favore. Resta”.

Suonava come una supplica. Come fosse lei, ad averne bisogno.

La sua mano calda stretta attorno al polso, la luce fioca che le illuminava solo metà del viso e i bagliori colorati di quella stupida sfera che continuava a girare senza interruzione. Eccolo, lo specchio. Ecco, quant’era spietato. La furia si annodò in gola e diventò qualcos’altro. Era stanca, di quelle trasformazioni. Era stanca.

“Lasciami”.

Voleva illudersi di poter decidere, almeno.

Andromeda obbedì, e la stretta divenne una carezza tenera.

Si distese prudentemente, un centimetro di corpo alla volta, e lei fece finta di nulla, come non fosse successo niente, come se non l’avesse sentita urlare, come se non si fosse accorta che aveva pianto, che era piena di graffi. Quando discese lungo il suo fianco, fino ad accomodarsi sul ventre, le posò una mano sul capo, le accarezzò la fronte.

Lo sguardo celato dalle ciglia, lei scrutò Sirius. Aveva il volto contratto in un’espressione turbata. La mano, posata anche quella sull’addome di Andromeda, era serrata in un pugno. Nemmeno il suo sonno viveva di pace.

Ripensò al Sirius bambino addormentato contro di lei, al peso che aveva sentito gravarle addosso, a come l’aveva abbracciato quella sera lontanissima. Per non farlo cadere. E ai suoi capelli che avevano un profumo tutto particolare, che da adulti si perde. Si chiese se Sirius poteva ricordare. Se ricordava che in quei prati avevano giocato, se ricordava anche lui i padiglioni bianchi che si muovevano con il vento.

Poi, il fulmine.

Non poteva ricordare.

Serrò gli occhi.

“Addormentami”.

Forse implorò.

Sirius non poteva ricordare.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 *

 

NdA: secondo capitolo messo insieme per puro miracolo in questi giorni di follia pre esame. Chiedo perdono per eventuali strafalcioni.

Sonata a Kreutzer: romanzo breve di Lev Tolstoj.

Mirrorball: la sfera a specchi tamarra che impazzava nelle discoteche durante gli anni ’70-’80.

Grazie a tutti coloro (speranzosi, teneri lettori) che hanno inserito questa storia nelle seguite e nelle preferite.

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Capitolo 4
*** Looking Back ***


“Sai che si dice in giro?” disse Terence, allungando le gambe sulla sedia lasciata vuota da Evan.

Non rispose, preferì perdersi nelle profondità del giardino. Oltre. Oltre i compagni e il prato e le voci.

Suo marito era lì, lì, lì. E lei sarebbe andata lontano, più lontano.

“Il vecchio Lestrange va cianciando di un matrimonio in settembre. Proprio non gli pare vero di aver messo le mani su di te, sai? Se la farà addosso dalla felicità, un giorno o l’altro”.

Aveva avuto una bambola, una volta. Mani e faccia di porcellana, occhi di vetro. Un vestito da festa di velluto verde. L’aveva spogliata per chissà quale capriccio, per vedere cosa c’era, sotto quel bel vestito. Aveva trovato un cuore di lana e una pelle di stoffa ingrigita. E aveva scoperto che si squarciava così facilmente sotto le unghie, quella pancia morbida. Aveva avuto una bambola morta.

"Chiunque di noi potrebbe finire sposato con chiunque. E' comico, non trovi?".

Bella si arrese a Terence, lo guardò. Ritornò tra quei chiunque che avrebbe potuto sposare e il chiunque che avrebbe sposato per davvero.
"No, non trovi" mormorò lui, sorridendo senza sorridere.
Mulciber era proprietario di una follia sottile e sinistra, tanto imprevedibile quanto incredibilmente lucida. Il genere di morbo che può produrre un'intelligenza spietata. Aveva occhi verdi e piatti in cui non si poteva guardare: il suo sguardo schizzava da uomo a uomo senza che nulla lo incrinasse. Non rabbia, né gioia. Era vivo solo dalla bocca in giù. La maggior parte dei compagni nutriva per lui una sorta di timore reverenziale, e aveva i suoi devoti: tutti i più potenti ne avevano. Evan, tanto differente da Terence, tanto pericoloso. L'aveva visto fare cose orribili quando era solo un bambino. Dolohov, brutto come il peccato. Lucius. I suoi pensieri corsero a Cissy, affacciata a chissà quale finestra a spiare. Avrebbe mai avuto il coraggio di unirsi a loro? Regulus lo aveva già, quel coraggio. O forse si trattava ancora di imprudenza infantile. Ma era lì, seduto composto su uno sgabello, a guardare il cugino Rosier come guardava lei. Pieno di paura e rispetto e cieca ammirazione. L'adepto esemplare. Non sarebbe mai stato uno dei grandi, Bella ne era certa. I grandi avevano forza, i grandi erano ribelli e avevano volontà di ferro, e quando i grandi decidevano di consacrarsi a uno scopo, erano destinati a imprese magnifiche. Gli occhi di Reg avevano dentro la fedeltà propria del cane legato a un padrone, invece. I loro ranghi erano pieni di gente simile, gente che sapeva rivelarsi utile per i fini più disparati. Non a tutti era richiesta l'eccezionalità.
Evan fece emergere un'ombra viva dal suolo, una piccola esalazione oscura che prese a strisciare nell'erba lamentandosi. Era estremamente ben fatta.
"Che Incantesimo è?" chiese con voce malferma Regulus, diviso tra terrore e meraviglia, mentre l'ombra raggiungeva le sue caviglie e gli si avvinghiava intorno.
Mentre lo guardava, Bella sentì il cuore tremare. Quant'era diverso, quant'era diverso da lui e dal modo in cui le aveva fatto la stessa domanda. Poco tempo prima di abbandonarla per sempre; un'era più in là rispetto a quel momento. Aveva pensato molte volte di Incantare sé stessa e cancellare ogni cosa, ma era una magia pericolosa e qualcuno avrebbe dovuto aiutarla. Ma chi, chi avrebbe potuto conoscere ogni suo ricordo, ogni istante impresso nella memoria come un marchio...
I ricordi tornavano e ritornavano ed erano spaventosi. Ed erano bui.
 
"Come hai fatto?".
"Sono caduto".
"Da dove sei caduto?".
"Nel frutteto".
Sapeva che doveva esserci stato, nel frutteto, prima di scavalcare la staccionata e uscire oltre i confini di Englefield. Era tipico di Sirius usare solo una parte della verità per nascondere i misfatti. Un trucco utile che lei aveva imparato quand'era già grandicella, mentre il bambino che le stava davanti non ci arrivava nemmeno con la punta dei capelli, alla staccionata che aveva scavalcato.
"Stai dicendo una bugia".
Lo sollevò, mettendolo a sedere sulla grande penisola della cucina. Gli elfi domestici erano fuggiti a pulire chissà quale antro del palazzo, quando lei era entrata.
"Perché continui a scavalcare la staccionata? Lo sai che oltre l'erba è alta e secca? Nell'erba alta e secca ci sono i serpenti".
"Non è vero" ribatté Sirius, ostinato, incrociando le braccia.
Nascose un sorriso chinando la testa sulla ferita. Una grossa scheggia era penetrata nella carne del ginocchio sinistro: doveva essere successo quando era caduto. C'era parecchio sangue, ma lui non sembrava impaurito. Era arrivato da lei senza traccia di una lacrima sul viso, con un'aria molto infastidita. Rivelare di essere caduto doveva sembrargli un'umiliazione insopportabile.
"Si che è vero".
"Non mi fanno paura. Me li mangio".
"Te lo sconsiglio. Hanno un saporaccio".
Prese la scheggia con due dita e la tirò fuori all'improvviso. Uscì dell'altro sangue, ma Sirius non si mosse e non si lamentò. Era troppo orgoglioso per farlo. Dovette sentire parecchio male, però, perché le sue guance piene persero colore. Controllò che non ci fossero altre schegge.

"Le altre le hai tolte tu?".

Sirius annuì grevemente.

"Stai fermo, adesso".

Sfoderò la bacchetta dalla manica e la guidò in un movimento secco. La ferita si pulì istantaneamente dalla terra e dal siero. 

Lui sollevò la gamba e studiò bene il ginocchio.

"Che Incantesimo è?".

"Uno facile. Ce ne sono di più belli".

"E tu li sai fare tutti?".

"No, non tutti. Qualcuno, per adesso".

Fece per tirarlo giù, ma Sirius la scostò e scivolò da solo, atterrando sul pavimento con un tonfo.

"Vorrei fare anche io qualche Incantesimo".

"Li farai, una volta a Hogwarts".

"Mamma dice che mancano tre anni".

"Giusto. Tre anni passano in un baleno".

Quando si avvicinò alla grande finestra il vetro prese a scorrere lento e l'aria fragrante dei giardini invase la cucina. Era tardo pomeriggio, il sole soffiava oro lucido sui contorni delle foglie, mutava i fiori in gioielli.

"Tre anni sono lunghissimi" brontolò Sirius, seguendola fuori.

"Vedrai che il momento arriverà subito, non te ne accorgerai neppure. Un giorno ti sveglierai nel dormitorio di Serpeverde, avrai una bacchetta e una divisa, degli amici. E sarai un mago straordinario".

Sirius le sorrise.

"Raccogliamo dei fiori per Dromeda?".

"Sì".

Rimase a guardarlo, mentre si allontanava, alla ricerca dei boccioli più belli. La luce giocava con i suoi capelli come fossero fili di rame, gli illuminava le dita ancora troppo piccole.

Sarebbe diventato grande. Presto, molto presto.


 "E tu che farai, Bellatrix?".

Quando focalizzò gli occhi azzurri di Lucius puntati nei suoi, la maggior parte dei presenti la stava fissando.

"A che proposito?" ribatté, alzandosi in piedi con studiata indolenza.

Era scesa la sera, globi di luce violetta fluttuavano sul prato calpestato. Il tavolo da giardino era un cimitero di bicchieri usati, riempiti e svuotati a metà. Pozze di Whisky Incendiario si allargavano sulla tovaglia di lino.

"A che proposito, dici? Dov'eri, cugina mia, mentre noi decidevamo del futuro del mondo magico?".

Evan si fece avanti, il viso affilato come un coltello incorniciato da un'orgia di boccoli d'argento.

"Badavo ai fatti miei. Abitudine che, a quanto pare, non è di famiglia".

"Non è il momento di badare ai fatti propri, questo" grugnì Dolohov.

"Antonin..." lo ammonì Lucius.

Crouch ridacchiò, attorcigliato al tronco di un melo, poco più in là. Nessuno badò a lui più del solito.

"Le signore dovrebbero essere trattate con maggior gentilezza".

Quella voce le ghiacciò il sangue nelle vene. Afferrò il primo calice che incontrarono le sue dita e lo sollevò, trattenendo il respiro. 

"Queste sì che sono le parole di un futuro marito" gorgogliò Mulciber, da qualche punto alle sue spalle.

Evan le sfilò il bicchiere dalle mani e per un istante i loro sguardi si incrociarono. Fu lesta a recidere il contatto.

"Tieniti pure stretto il tuo umorismo, Terence" ribatté Rabastan, avvicinandosi anche lui al tavolo.

"Non vorrai fare baruffa il giorno del tuo debutto in società, eh Lestrange?" disse lentamente Wilkes, seduto accanto a Lucius.

Quando il suo bicchiere fu pieno, Evan glielo restituì. Chinò il capo con un sorriso diabolico dipinto sulla bella bocca, e Bella lo liquidò freddamente.

"Ringrazio Rodolphus e Rabastan per la premura ma, prima di iniziare l'ennesima disputa su chi ha la bacchetta più lunga, vorrei capire di che questioni fondamentali stiamo parlando".

"Ah, questioni assai, assai importanti. Vero, Malfoy?".

Crouch si avvicinò al gruppo, abbandonando l'oscurità del frutteto. La salutò con un cenno nervoso, senza riuscire a trattenere un guizzo della lingua lungo le labbra. Lucius puntò il bastone da passeggio contro di lui, annuendo.

"Proprio così, Signor Crouch. Discutevamo del Marchio, Bella. Sappiamo che Lui lo ha chiesto come pegno".

"A tutti noi" aggiunse Avery, il volto non ben definito di chi non è ancora uomo. In quello somigliava terribilmente a Terence. E a lui.

"Ci chiedevamo cosa farai. Quasi tutti, qui, sono sicuri di volerlo" soffiò Evan "E tu?".

"Non si torna più indietro, vero Bella?" fece Mulciber, eccitato "Potremmo essere i primi, saremo i primi ad averlo. Pensate, pensate a quel che vorrà dire".

Con la coda dell'occhio, Bella scorse Regulus agitarsi nell'angolo dove era stato relegato.

"Vorrà dire essere legati a Lui, per sempre. E se voi lo volete, io lo voglio di più".

 

Quando rotolarono sul pavimento, Sirius fu certo di essere sul punto di vomitare. Ancora. Rimase immobile per qualche minuto, a faccia in giù.

“Alza…alza-ti” biascicò Dromeda, atterrata da qualche parte intorno ai suoi piedi.

Il peggio passò in qualche istante, e lui si trascinò su un fianco, tentando di mettersi a sedere senza scatenare tumulti eccessivi nei meandri del suo stomaco.

“Ci sono… ci sono”.

La voce proveniva da qualche antro oscuro, e molto provato, della sua gola, ma non la riconobbe comunque.

Mise a fuoco. La stanza di Dromeda era il disastro della sera prima e la luce dell’alba la illuminava impietosa. L’unico arredo in più era sua cugina, piegata contro il letto in una posa innaturale.

“Vomito” disse, socchiudendo gli occhi “Vomito”.

Sirius cercò con lo sguardo un contenitore idoneo ma trovò solo borsette.

“Aspetta, aspetta”.

“Vomito”.

La vide impallidire, farsi verdognola. Spinto dalla disperazione, o dai postumi del trip, afferrò una grossa borsa di pelle rosa e gliela mise davanti appena in tempo per evitare il peggio. Dromeda ci rigettò dentro con tutta l’eleganza di una Black reduce da una nottata di bagordi. Cercò di farsi passare dalla mente il ricordo vago di sua cugina che spariva tra i cespugli con Ted Tonks e pregò di aver avuto centinaia, migliaia di allucinazioni, perché altrimenti avrebbe dovuto fare i conti con un discreto numero di fatti imbarazzanti da spiegare.

Dopo aver finito, Dromeda si accasciò ancora di più, chiudendo del tutto gli occhi. In quelle condizioni, era un miracolo che fossero riusciti a Smaterializzarsi senza Spaccarsi. Rabbrividì al pensiero, mentre abbandonava la borsa dal macabro contenuto in un angolo, e si dava da fare per sollevare sua cugina senza causare grossi danni. Fu un’operazione piuttosto complicata, ma alla fine riuscì a metterla a letto, scomposta e vagamente maleodorante. Una volta compiuto il suo dovere, si accorse di avere una fame inspiegabile e assolutamente inconciliabile con lo stato del suo stomaco. Gli tornò in mente il ricordo di un brodino per l’influenza che sua madre faceva preparare a Kreacher… Afferrò la borsa e uscì dalla stanza diretto alle cucine.

 

Nella penombra della cucina vuota non trovò nessun Elfo ad aspettarlo, e la cosa lo indispettì. Si liberò della borsa incastrandola in uno dei lavandini e vagò per la stanza, curiosando nelle dispense alla ricerca di cibo. Non trovò nulla che assomigliasse a qualcosa di caldo e fumante e finì per accontentarsi delle croste di pane abbandonate in un cestino. Sembravano tanto i resti di qualche cena precedente, ma erano commestibili. Nel suo aggirarsi senza senso finì davanti alla finestra. I postumi dei bagordi cominciarono ad affiorare sotto forma di un latente mal di testa e fu per alleviare quel dolore che posò la fronte contro il vetro freddo. Fuori il verde era immenso, un mare che si estendeva oltre i confini del giardino e non aveva orizzonte. Da bambino era stato curiosissimo di scoprire dove finiva tutto, qual era l’ultima staccionata che chiudeva ogni angolo del mondo. Sentiva ancora quella smania addosso, la voglia di salvarsi prima di annegare. Mentre pensava che quella sensazione non se n’era mai andata, due figure scure comparvero ai margini del quadro. Riconobbe la prima senza esitazioni: Bella aveva un suo modo di camminare, in falcate precise che le spianavano la strada. Riuscì a capire chi fosse la persona che l’accompagnava solo quando, fermandosi, uscì dall’ombra di Bella. Era sempre stato convinto che Rodolphus fosse piuttosto brutto e tronfio, e dopo Hogwarts non era cambiato. Immobile, li guardò parlare. Lui agitato, tentava di sorridere, ma non gli riusciva. Lei, un pezzo di marmo bianco piantato per terra, non rispondeva. Rodolphus continuò a farsi più vicino, in un’intimità forzata. Sirius sapeva che Bella non avrebbe gradito. La vide trasformarsi, lentamente; una trasformazione che uno sconosciuto non poteva percepire, riconoscere. Infatti, Rodolphus non capì, e le si strinse addosso, fino a quando, in uno slancio di pura follia, decise di afferrarla per i fianchi e baciarla. Il cestino cadde e le croste di pane si sparpagliarono sul pavimento. Istintivamente, Sirius si ritrovò con i pugni serrati. Rodolphus fu scagliato lontano da un lampo. Ebbe il tempo di vedere la bacchetta di Bella puntata contro di lui, prima di Smaterializzarsi. Lei rimase immobile, gli occhi sbarrati. Restò a guardarla fino a quando la vide voltarsi nella sua direzione.

 

Fuggì dalla cucina, salì le scale senza fare rumore, respirando piano, cercando di non ascoltare la voce nella sua mente. Il dolore alle tempie divenne più intenso. Quando rientrò nella camera di Andromeda, incontrò per caso il proprio riflesso nello specchio: i frutti della sua immotivata rabbia erano ancora lì, appesi alle braccia. Li sciolse lentamente.

Piangeva. Bella piangeva.

 

 

 

 

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Capitolo 5
*** Galvanometer/Letters ***


Capitolo 4

Galvanometer/Letters

 

 

I pensieri di Sirius erano martellanti, si innescavano come bombe a orologeria. Non che portassero a conclusioni vere e proprie: più che altro lo facevano sentire sul punto di esplodere.

Perché Bella piangeva?, la domanda continuava a rimbalzargli di tempia in tempia.

 “Io so che vorrebbe essere felice, e che si odia, per questo”.

“Sono morta”.

Dromeda entrò nel suo campo visivo ciabattando. La guardò deambulare oltre la lunga scrivania.

“Il colorito è circa quello”.

La risposta fu un grugnito. Sua cugina si lasciò cadere mollemente nel divano dello studio.

“Mentre eri in coma è arrivata una lettera per te. Il mittente è… mh! Tale tremolante Ted Tonks. Conosci?”.

“Dammela” disse perentoria Dromeda, facendo comparire la bacchetta da chissà dove. La busta schizzò nelle sue mani.

“Per essere morta hai dei riflessi invidiabili” replicò Sirius, tornando alla sua pergamena.

Stava cercando di scrivere qualcosa di sensato a James, con scarsissimi risultati. Intinse nuovamente la piuma nell’inchiostro. Qui a Bellatrixlandia tutto fila liscio, per or

“PER MERLINO!”.

Sirius sussultò e la ‘a’ di ‘ora’ si trasformò in uno sgorbio a punta.

Dromeda era risalita fino in cima allo schienale e teneva tra le mani la lettera.

“Sì?”.

Perdonami se non sono mai riuscito a dirtelo guardandoti negli occhi ma io… ti amo” lesse ad alta voce sua cugina “PER MERLINO! TI AMO!”.

“La pianti di strillare?” le chiese Sirius, il più cortesemente possibile.

“Ma mi ha scritto ti amo!”.

“E quindi?”.

“Mi ha scritto ti amo!”.

“Credo di aver capito, grazie”.

“Ti amo!”.

“L’anno scorso Georgiana Ronson di Corvonero si è fatta tatuare ‘Ti amo James Potter’ sui seni con l’Inchiostro Ineliminabile. Hanno promosso una petizione per cacciarla dalla sua Casa”.

Dromeda tacque, lo sguardo fisso sul pavimento e una mano sulla bocca.

Sirius tossì un paio di volte nel tentativo di riportarla alla realtà, senza ottenere nessuna reazione. Solo quando andò a sedersi accanto a lei Dromeda diede segni di vita.

“E adesso?” mormorò.

 “E adesso dovresti rispondergli, o dovreste vedervi, incontrarvi a quattr’occhi… credo”.

“Ma io non so se lo amo”.

Gli occhi di sua cugina si fecero grandi e smarriti come quelli di un cucciolo.

“Odio le donne. Come si fa a non sapere una cosa del genere? O lo ami o no!” sbottò Sirius, irritato.

“Odio gli uomini! Sono inutili, per le mutande di Merlino!” esclamò Dromeda, stizzita “Ho sbavato dietro a Tonks per degli anni e non mi ha mai neanche guardata”.

“Aspetta, aspetta… ma lui non è il ‘tipo simpatico’ che hai conosciuto in un pub Babbano?”.

“Beh, certo” rispose lei, colta in fallo “è anche questo. Ma prima di essere questo era quello più grande e ribelle e vagamente vichingo che aveva fatto breccia nel mio cuore di preadolescente senza tette. Quello che mi ignorava felicemente. Si è accorto di me solo a Tinworth, in effetti. E credo che le tette siano il fulcro di tutta questa storia”.

“Un giorno mi spiegherai questa tua insana passione per i vichinghi” disse Sirius, cercando di ripescare il filo conduttore della conversazione “Comunque, tirando le somme… il ragazzo dei tuoi sogni di giovane matricola si è accorto che sei cresciuta e ti ha confessato il suo amore. Solo che ora tu sei confusa”.

“A grandi linee…”.

Sirius si concesse ancora qualche istante di meditazione.

“La posizione di Tonks mi è chiara” concluse “Resta un solo dilemma. Perché ieri sera credo di averti vista infilare le tue mutandine nella sua tasca?”.

 

“Non sto sindacando le tue abitudini da riccastra libertina, voglio solo aiutarti a fare chiarezza!”.

Dromeda  prese le scale scuotendo i capelli lunghi.

“Ma io non voglio fare chiarezza!”.

“Senti, lo guardavi come se volessi mangiartelo, ti sei lanciata su di lui a pesce. E poi tutte quelle frasettine… ti prego! Anche senza l’episodio delle mutandine avrei capito da un miglio che ti interessa”.

Dromeda si voltò prima di imboccare la rampa successiva.

“Avevo solo voglia di divertirmi un po’, ok?” disse, guardandolo dritto in faccia, la voce ferma.

A Sirius venne in mente che tutti i Black mentivano così, con la stessa sicurezza. Dei loro occhi non ci si poteva fidare.

“Questo può funzionare per un uomo, non per una donna. E non per te. Tu sei attratta da Tonks”.

“L’attrazione non è amore”.

“È il trampolino di lancio, e oserei dire che stavolta ha funzionato”.

A quel punto accadde qualcosa che Sirius non aveva preventivato. Lo sguardo di Dromeda divenne liquido. Senza preavviso, lo afferrò per un braccio e Smaterializzò entrambi. Quando si Materializzarono, erano nella sua camera.

Sirius” sussurrò, scuotendo la testa “Quanto sei ingenuo? La tolleranza della nostra famiglia può passare sopra a un poster, sopra ai miei vestiti, ma non potrebbe mai fare un salto così grande. Io sono legata a loro, capisci? Sono mia madre e mio padre, sono le mie sorelle. Non credo di essere pronta a lasciarli”.

“Nemmeno se amassi Ted Tonks?”.

“Non lo so. Adesso non so nulla”.

E Sirius ebbe, improvvisamente, paura.

 

Alla fine, il risultato era stato qualcosa di patetico del genere: ‘Caro James, odio la mia famiglia’. Aveva spedito il gufo di malavoglia, prima di abbandonarsi all’angoscia.

Andromeda era libera, Andromeda poteva cambiare le cose. Continuava a ripeterselo, ma già non ci credeva più. Erano tutti dietro alle stesse sbarre e la gabbia andava restringendosi. Prima o poi, sarebbero rimasti schiacciati.

Bella piangeva.  

‘Io sono legata a loro’.

Cuciti uno all’altro.

‘Io so che vorrebbe essere felice’.

Forse anche Bella aveva creduto di poter decidere. Forse aveva sperato di poter scegliere. Pensò ai suoi occhi. In quel baratro c’era di tutto, ma non aveva mai visto gioia, lì dentro. Non ricordava di averla mai vista felice. Eppure doveva esserlo stata, un tempo… tutti lo erano stati. Vero?

Gli venne una gran voglia di non pensare.

 

*

 

 

Sentì l’Incantesimo penetrare nel fianco e la pelle strapparsi come pergamena. Fece lo stesso rumore. Sentì bruciare.

“Rosier!” l’urlo arrivò da lontano, qualcuno degli altri doveva aver visto, ma Bella non riuscì a riconoscere la voce.

Evan rise, trionfante, piegando la testa all’indietro. Il collo perlaceo teso, la giugulare esposta. Poi l’odore del suo stesso sangue che le inquinava il respiro. Qualcosa, nel sentire così male, le piacque. E un solo pensiero, fisso, galoppante.

Non si fermò. Era una regola, negli scontri. Il primo colpito era sconfitto, morto, il vincitore  ricominciava con qualcun altro e il perdente si leccava le ferite. Il che permetteva che non si ammazzassero tra di loro prima del tempo.

Ma Evan, Evan… con i suoi bei capelli da ragazza, e il suo volto perfetto, e la sua primogenitura perfetta. Suo padre si sarebbe fatto fare lo scalpo, pur di avere un primogenito maschio come Evan. Invece era nata lei, che tutto avrebbe potuto essere e non sarebbe importato: non era un uomo.

Gli si scagliò addosso senza prendere fiato.

Uccidere. Rosier dovette leggergliela negli occhi, quella parola, perché la sua risata si ghiacciò in una smorfia sorpresa. L’Incantesimo fendette l’aria come una scudisciata e tracciò una linea rossa sulla sua guancia candida. Quando Bella vide il furore infiammargli lo sguardo sentì il cuore esplodere nel petto, l’adrenalina schizzare nelle gambe, nelle orbite.

Evan era bravo, terribilmente bravo, ma non gli sarebbe bastato. Schivò il fuoco che le aveva lanciato contro e lo colpì dal basso, nascondendosi nella scia luminosa dell’Incantesimo. Lo vide schivarlo per un soffio e la rabbia le fece affondare le unghie mano libera. Il desiderio di fargli del male era così intenso da accecarla.

Prima che potesse attaccare, un secondo strappo le si aprì nel braccio destro. Vide il sangue sgorgare dai lembi lacerati della carne, bagnare la manica, strappata anche quella.

“Non preoccuparti, cugina, ti faremo dei bei ricami” gracchiò Rosier, di nuovo sorridente.

Bella affondò lo sguardo nella terra bruna, mentre abbassava la bacchetta in atto di resa.

“Hai vinto” mormorò.

“Lo so. Per la seconda volta” disse Evan, rilassandosi.

Intorno a loro si era formato un gruppo di spettatori. Nessuno urlava più, ora?

“Niente di personale, cugina” lo guardò avvicinarsi, tronfio, lo accolse con un sorriso remissivo.

Quando fu abbastanza vicino, lo colpì puntandogli la bacchetta contro l’addome. La scossa elettrica fu così forte che per un lungo istante poté vedere l’azzurro degli occhi di Evan scomparire in un mare di bianco. Poi lui crollò ai suoi piedi con un tonfo.

Il silenzio avvolse tutti come un manto. Avvertì vagamente la rabbia scivolare via, il vuoto ritornare a invaderle la mente. Evan se ne stava lì, accartocciato, con il sangue che gli grondava dal naso alla bocca. E se ci fosse stata lei, al suo posto, avrebbe fatto la differenza? Ormai tutti stavano a guardare, e nessuno muoveva un muscolo. Ma Bella sapeva che non era orrore. Non stavano guardando Evan: stavano guardando lei, e stavano pensando a quanto avrebbero dovuto temerla. Quasi li poteva sentire, distruggersi il cervello e calcolare… calcolare…

Evan rantolò. Le sovvennero tutt’un tratto ricordi d’infanzia, pomeriggi in cui lo aveva ascoltato spiegare come funzionava Hogwarts, dove sarebbe stata smistata, e le sembrò di vedersi, piena di adorazione. Poi ricordò che erano venuti i tempi in cui suo padre si era sincerato di farle capire che il sangue delle donne Black era puro come quello degli uomini, ma che non sarebbe bastato a risparmiarle un matrimonio, a risparmiarle il dovere di farsi ingravidare.

Sollevò la bacchetta.

“CRUCIO”.

“PROTEGO HORRIBILIS”.

Gli occhi verdi di Mulciber parvero ingrandirsi come lune piene nella luce dell’Incantesimo. Bella si vide riflessa nelle sue pupille e, ancora una volta, seppe di non aver visto se stessa.

Quando lo scudo si dissolse, Lucius venne avanti, pacato.

“Non permettere che accada. Mai più” disse.

“Stai attento a chi dai ordini, Lucius” ridacchiò Crouch.

Lucius finse di non aver sentito.

“Lui non gradirebbe”.

Bella non rispose. Voltò loro le spalle e camminò fino a quando non fu libera di sparire.

 

Il suo strillo rimbalzò contro le pareti di pietra e fece rimpicciolire l’Elfo Domestico. Accecata dal dolore, Bella afferrò la bacchetta e lo colpì sul muso con il manico.

“Sparisci!” sibilò, strattonandolo “Ora!”.

Quando l’Elfo obbedì, il bagno del terzo piano ripiombò in una quiete spettrale. Finì di slacciare il corsetto da sola, mordendosi le guance nel tentativo di non emettere un gemito. Fallì più volte, la bocca impastata di sapore metallico. Poi fu la volta della camicia: dove non si era squarciata, il cotone aveva aderito alla carne cruda. Nel toglierla, gemette ancora. Una volta alla luce le ferite brillarono, madide, e lei restò a guardarle a lungo. Le guardò da vicino, nello specchio, provò a toccarle. Non erano tagli normali: era un tipo di Incantesimo che aveva già visto fare a Evan sui gatti selvatici. Mormorò una formula curativa per entrambe, ma il dolore non si attenuò. Bella sapeva che la lacerazione avrebbe continuato a far male per settimane dopo essersi rimarginata. Coprì le ferite con dei panni imbevuti nell’Essenza di Dittamo e si rimise addosso la camicia. Per un momento, pensò di lasciarsi cadere e rimanere distesa sul pavimento fino al giorno seguente, o fino a quando avrebbe avuto di nuovo voglia di alzarsi, di sopravvivere.

Sopravvivere. Gliene mancò il desiderio tutt’un tratto, quando riaprì la porta e vide Sirius. Sembrava la stesse aspettando e nello stesso tempo sembrava proprio di no. Come se avesse immaginato di veder uscire da lì chiunque, tranne lei. Restarono a guardarsi negli occhi per un lungo minuto.

“Scusa, pensavo che Dromeda…” disse lui, poi.

Pensava che fosse stata Dromeda, a urlare come un cane?

La sua voce era strana, fu l’unica cosa che Bella ebbe la forza di realizzare, prima di sentirsi in pericolo.

Il pericolo si trasformò in minaccia concreta quando Sirius, nel tentativo di sfuggire a quella situazione, a lei, fece vagare lo sguardo e incontrò le sue mani. Le mani che Bella non aveva pulito. Chiuse sulla camicia che Bella non aveva cambiato. Sul sangue.

“Cosa ti sei fatta?”.

Lo vide avvicinarsi d’istinto, e la paura diventò terrore, la fece respirare più forte. Vide le sue dita distendersi sul braccio, percepì il loro peso lieve mentre lo attraversavano, fino alla macchia che già iniziava a odorare di marcio. E si sentì un animale braccato.

“Non mi toccare” ringhiò.

Sirius si fermò. Non tornò indietro, ma si fermò e le sue labbra si strinsero. Diventò più pallido.

“Come vuoi” disse, gelido.

“Stammi lontano” replicò Bellatrix, allontanandosi di un passo.

Restò a guardarlo. Voleva essere sicura. Voleva essere certa che non l’avrebbe fatto mai più.

“Devi starmi lontano”.

Se ne andò lentamente, come chi aspetta di essere colpito a tradimento.

 

La porta si spalancò e andò a schiantarsi contro il muro, che emise un gemito di polvere. I cristalli dormienti, riposti nella lunga credenza, tremarono. Sirius comparve sull’uscio con i capelli scompigliati dal vento e le guance accese da dicembre, dalla corsa fino in salotto, dalle vacanze natalizie. Dall’infinità di cose da raccontare. Bella sentì tutto questo e le venne voglia di lanciare il libro che aveva tra le mani nel fuoco. Alzò lo sguardo, gli occhi inciamparono nella sciarpa rossa e oro che si faceva sempre più vicina, annodata stretta al suo collo. Lui le posò un bacio freddo sulla guancia, premette a lungo, come al solito.

“Ciao” fece, allegro, prendendo a spogliarsi.

Bella lo guardò sorriderle e, improvvisamente, non seppe più cosa fare.

Lanciò ogni cosa sul divano, svuotò le tasche sul tappeto, le porse uno scarafaggio di liquirizia.

“No, grazie” disse lei.

Sirius ritirò la mano e lo mise in bocca. Masticò a lungo, continuando a osservarla. Una volta che l’ebbe ingoiato, si abbandonò sul divano. E aspettò.

Bella ritornò al suo libro. Sirius aspettò ancora, fino a che non venne ora di cena e il gigantesco pendolo della casa degli zii non emise un lungo e lugubre ululato. Quando la vide alzarsi e rassettarsi la gonna, si decise a parlare.

“Non mi chiedi niente?” disse, sorpreso.

Bella si voltò, già a metà strada.

“Cosa dovrei chiederti?”.

Forse fu il tono della voce, forse Sirius era già cresciuto abbastanza per comprendere quando un adulto finge di non capire. Vide il colore delle sue guance farsi un po’ più spento, i suoi occhi un po’ più grandi. Il viso aveva cominciato ad affilarsi, ma conservava ancora qualcosa di bambinesco che la fece sentire immensamente debole.

“Anche tu ce l’hai con me?” chiese lui, andando dritto al punto.

Avrebbe dovuto immaginare che la domanda sarebbe arrivata così. Non rispose subito.

“Papà non mi rivolge la parola da quando l’ha vista”aggiunse, lanciando un’occhiata alla sciarpa.

“Non avresti dovuto indossarla” si lasciò sfuggire Bella.

“Ma è la mia sciarpa! E poi lo avrebbero saputo comunque” esclamò Sirius “Cissy lo ha spifferato a tutti il giorno stesso dello Smistamento, vero? In questi quattro mesi mi ha scritto solo Dromeda. Nessun altro di voi, nemmeno mia madre. Nessuno! Nemmeno tu”.

Ancora una volta, Bella non rispose.

Sirius si alzò e le andò incontro.

“Per favore. Non fare così. E’ solo una Casa! Perché fate così?”.

“Non è solo una casa”.

“Non ho scelto io” mormorò Sirius, cercando il suo sguardo.

“Hanno scelto le tue idee, per te. E quelle idee non sono le nostre”.

Lui parve sgonfiarsi.

“E anche se avessi idee diverse?” disse “Perché non mi hai scritto?”.

Le posò una mano sul braccio, strinse, come se pensasse che così, finalmente, lei avrebbe parlato e sarebbe tornata la Bella di sempre.

“È ora di cena”.

 

Non appena riuscì a mettere a fuoco l’ambiente circostante, vide il gufo. La aspettava appollaiato sullo specchio, la zampa tesa. Prese la lettera e ruppe il sigillo di ceralacca, portandosi più vicina alla finestra. Distendendo la pergamena, tremò e non seppe dire se fosse paura o eccitazione.

“25 agosto. Little Hangleton.

L. M.”.

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Capitolo 6
*** In The Androgynous Dark ***


Capitolo 5

In The Androgynous Dark

 

 

 

La verità era che non esisteva nessun posto dove nascondersi. Avrebbe potuto vagare all’infinito, senza trovarlo. I posti dove nascondersi si riconoscevano subito, erano luoghi sospesi a metà tra buio e luce, dove potevi vedere senza essere visto e dove ti avrebbe trovato solo chi ti amava. Hogwarts aveva luoghi segreti in ogni dove; Sirius era riuscito a trovarne uno perfino in Grimmauld Place: era sempre stato l’angolo disabitato del terrazzo del vicino. Lì, nessuno era mai venuto a cercarlo. Neppure sua madre. Curioso, forse. O magari semplicemente triste.

Chissà dove si nascondeva Andromeda. In quei giorni l’aveva incontrata solo a notte fonda, quando lei poteva fingere di morire dal sonno e di non avere la forza di parlare. Era probabile che realmente la forza le mancasse; anche se, in effetti, doveva mancarle anche il sonno. Per delle ore l’aveva ascoltata respirare a singhiozzo, senza avere il coraggio di smascherarla. Era questo, che stavano diventando, dei codardi?

Sirius rinunciò alla sua ricerca controvoglia, abbandonando il calore insopportabile delle serre con una ciotola di porridge semivuota in mano. Rientrò attraverso l’accesso secondario per i giardini e, mentre affrontava l’ennesima rampa di scale, decise di avere ancora fame. Dirigendosi verso la sala da pranzo principale incrociò Narcissa, vestita di tutto punto, intenta a specchiarsi con aria preoccupata nella superficie di un’armatura esanime. Quando lo vide arrivare abbassò istantaneamente lo sguardo e scosse i lunghi capelli argentei, allontanandosi senza proferire saluto.

“Buongiorno” le grugnì dietro Sirius, improvvisamente fiero del suo pigiama a righe.

In sala da pranzo trovò Regulus vistosamente occupato a stringere il nodo di un cravattino minuscolo.

“È qui la festa?” gli chiese, abbandonando la ciotola sul tavolo.

“Non riesco a stringerlo” bofonchiò in risposta Regulus, bisticciando con le sue stesse dita.

Sirius allungò una mano e afferrò l’ultimo croissant rimasto sul vassoio d’argento, lasciandosi cadere su una sedia per godersi lo spettacolo in tranquillità.

“Ti voglio bene”.

Suo fratello era talmente agitato da quel combattimento che non diede segno di aver sentito.

Quando anche Bella entrò nella stanza, con un gigantesco barbagianni appollaiato sul braccio, Sirius smise di addentare la sua seconda colazione. Era bianchissima e fasciata in quell’abito di pizzo nero pareva sul punto di svenire. Sapeva che non avrebbe dovuto ma si ritrovò all’istante a pensare al sangue che aveva visto, per terra, nel lavabo, addosso a lei, al suo viso pieno di dolore, quando ancora non sapeva della sua presenza. Quel momento, quella frazione infinitesimale di tempo in cui Sirius aveva intravisto il vero volto di Bella, era stato sufficiente a togliergli quel poco di sonno che gli era rimasto dopo il tracollo di Dromeda.

Lei ignorò entrambi, raggiungendo in pochi passi la grande finestra in fondo alla sala. Quando la spalancò del tutto, la luce le irradiò la chioma bruna risvegliandone i riflessi.

“Potresti aiutarmi?” supplicò Regulus, lanciando a Sirius uno sguardo implorante.

“No. È più divertente così” replicò lui, sorseggiando del succo di zucca fresco.

Il barbagianni spiccò il volo e Bella si voltò con la bacchetta tesa. Il cravattino di Regulus andò al suo posto, stringendosi attorno al suo collo in una morsa salda.

“Grazie. Sono pronto. Dovresti prepararti anche tu” disse Reg, alzandosi in piedi con le guance imporporate.

“Pronto per cosa, di grazia?” disse Sirius, squadrandolo da capo a piedi.

Aveva indossato uno degli abiti più ridicoli che gli avesse mai visto addosso e il suo sesto senso gli comunicò che quello non era affatto un buon segno.

“Stanno arrivando” Regulus aggirò il tavolo “Come sto?”.

“Terribilmente” lo liquidò Sirius, colto da un atroce presentimento “Chi sta arrivando?”.

“Nostra madre, nostro padre e gli zii”.

“Cosa?!”.

L’esclamazione si duplicò, variando dal tono gelido e perentorio di Bella a quello piatto e irrisorio di Sirius.

Lui le lanciò un’occhiata stupita, scoprendola immobile come una statua.

“È-è arrivato un gufo questa mattina… presto. Saranno qui a momenti. Credo”.

Regulus rispose con voce tremolante, intimidito da entrambi e incerto se guardare l’uno o l’altra.

“Perché?” la voce di Bella fu un sussurro minaccioso.

“Non lo so”.

Se avesse potuto, probabilmente Regulus sarebbe scoppiato a piangere come un bambino.

Il suono assordante di una campana fece sussultare tutti e tre prima che potessero aggiungere altro a quella surreale conversazione a triangolo.

“Cosa intendevi, di preciso, con ‘saranno qui a momenti’?” domandò Sirius, dopo un interminabile secondo di silenzio.

 

“Dove diamine sono i Domestici?”.

La voce di Walburga Black era appena un tono sotto allo stridore delle unghie sulla lavagna.

Sirius sorrise mestamente tra se e se, finendo con un morso particolarmente violento la sua brioche.

Non sapeva precisamente quando ma, proprio come era successo con Bellatrix, tra lui e sua madre, in un punto preciso delle loro esistenze, era finito tutto. Aveva ricordi vaghi e confusi della sua infanzia, un paio di momenti di risate, quando ancora non era in grado di capire davvero tutte le pericolose sciocchezze che Walburga tentava di inculcargli a suon di storielle. Quello che ricordava bene, invece, era il terrore: lei gli aveva sempre fatto paura, con quei suoi occhi scuri e penetranti, capaci di soffocare ogni moto di ribellione. Lo erano stati, fino a quando Sirius non aveva capito che esisteva anche dell’altro, qualcosa al di fuori di quelle mura e delle parole dei suoi genitori. Forse una parte di lui aveva sempre saputo, come una parte di Walburga certamente aveva sempre temuto di ritrovarsi per le mani un figlio pericoloso.

Quando raggiunse il resto della famiglia nel gigantesco androne, tutti si voltarono nella sua direzione. Suo padre Orion si limitò a squadrarlo senza proferire parola, sommerso dal fumo della sua stessa pipa. Il più delle volte fingeva semplicemente che lui non esistesse, trincerandosi dietro mormorii sibillini o puri silenzi di tomba: del resto, le sue speranze per il futuro risiedevano completamente nelle mani impacciate di Regulus. Walburga, invece, faticava ancora ad arrendersi.

Le labbra della donna si arricciarono visibilmente alla vista del suo pigiama.

“Avresti almeno potuto degnarti di indossare qualcosa di pulito” sibilò, lasciando che un Elfo tremante le sfilasse i guanti leggeri dalle mani rigide come artigli.

C’erano stati giorni in cui parole così, sguardi così, l’avevano colpito a morte. Sirius faticava ancora ad ammetterlo a se stesso e non l’avrebbe mai raccontato a nessuno. Non aveva dimenticato il dolore. Il rifiuto gli aveva scavato nell’anima una ferita profonda e ora la cicatrice era così spessa da averlo reso quasi insensibile.

“Buongiorno, madre. Il viaggio è stato di vostro gradimento?” replicò, scuotendo via le briciole dal colletto di flanella.

“Meravigliosamente” intervenne zia Druella, sfoderando un sorriso gelido “Le vostre vacanze come procedono, ragazzi?”.

Chiaramente non stava parlando con lui, perché gli voltò quasi immediatamente le spalle, rivolgendosi al resto della progenie.

Solo allora, Sirius notò la presenza di Andromeda: era vestita esattamente come Bella e Narcissa, con un lungo abito blu di foggia magica.

Il cuore gli sprofondò nel petto. Cercò i suoi occhi ma lei non si voltò mai, per tutta la durata dei convenevoli. Quando lo zio Cygnus le posò un bacio di saluto sulla fronte, proprio come aveva fatto con le altre due figlie, lei gli sorrise quieta.

Sirius avvertì una forte sensazione di nausea alla bocca dello stomaco. Restò ancora un istante a guardare la cerchia di sconosciuti alla quale sarebbe dovuto appartenere, se tutto fosse andato come previsto. Si sentì solo, differente, e muovendosi ai margini di quel fosco quadro familiare, ricordò a se stesso dove e come avrebbe potuto trovare la sua vera famiglia: lontano, lontanissimo da lì.

 

L’incubo era iniziato.

“Presto, le sarte saranno qui a momenti” aveva detto sua madre, imbrigliandole i lunghi capelli in un nastro “Togliti questo vestito, per Salazar, sembri sull’orlo della tomba”.

Quando aveva preso a slegarle i lacci del corsetto, Bella si era ritratta ed era sfuggita alle sue mani rifugiandosi dietro al paravento della camera, con la scusa di essere abbastanza grande per farcela da sola.

“Benvenute!” cinguettò sua madre ad un certo punto, oltre la barriera.

“Oh signora Black, che meravigliosa tenuta, che fantastici giardini!”.

“E che belle figlie!”.

Anche Dromeda e Cissy salutarono garbatamente, mentre qualcosa di grosso e pesante atterrava sul pavimento con un tonfo.

Le mani di Bella si soffermarono a lungo sulle bende, verificandone la tenuta.

“E la futura sposa? Dove si nasconde?”.

“Ha già iniziato a spogliarsi. Con quale modello potremmo iniziare?” rispose, agitata, sua madre.

“Pensavamo a un pizzo chantilly veramente sublime, qualcosa che esalti la sua carnagione. Come questo”.

Bella sentì Cissy trattenere il respiro e sua madre squittire.

“Le starebbe così bene! Iniziamo, iniziamo!”.

I passi oltre il paravento si fecero sempre più vicini e lei sentì la forza mancarle. Una parte della sua mente continuava a ripeterle che avrebbe dovuto fuggire, che non doveva succedere per forza, non doveva succedere davvero.

La donnina minuscola che le si parò davanti la colse in un momento di puro terrore.

“Salve, cara” la salutò, seguita a ruota da un monumentale abito sospeso a un metro da terra “Sei pronta?”.

Bella annuì tentando di stendere le labbra in un sorriso.

“Non temere, sarà molto più facile di quanto credi” rise, e i boccoli biondi che le circondavano il viso avvizzito presero a dondolare come campanellini.

“Alza le braccia”.

Seguì le istruzioni scrupolosamente, senza emettere un fiato, mentre la donna prendeva possesso pian piano del suo corpo, foderandola in metri di pizzo candido senza che potesse opporsi in alcun modo. Mentre la gabbia le si stringeva intorno, gli occhi di Bella fissavano il vuoto.

“Ed ecco qui, cara” disse poi la donna, dopo aver sbuffato un po’ per rassettarle la gonna ed essere indietreggiata per contemplarla “Una visione!”.

“Forza, Bellatrix, esci da lì” le intimò perentoria sua madre.

Bella fece un passo e la pesantezza dell’abito la fece barcollare.

“Oh! Attenzione! Bisogna farci un po’ l’abitudine, non è vero, cara?” blaterò la sarta, prendendole una mano.

Lei si scostò bruscamente e avanzò abbandonando la protezione del grande paravento.

Non appena la vide, sua madre portò le mani al viso in un gesto plateale e Cissy la guardò con un sorriso invidioso sul viso.

Tra tutti gli sguardi sognanti della stanza, Bella cercò istintivamente l’unico che spiccava per seriosità.

Dromeda la guardava. Non guardava l’abito, né il pizzo o chissà che altro. Dromeda guardava lei, dentro lei. Non era uno sguardo gioioso: era uno sguardo consapevolmente preoccupato che scivolò lentamente sulle bende e poi di nuovo nel profondo di Bella, dove erano sepolti i pensieri e le paure che nessun altro avrebbe potuto intuire.

Fu la prima ad abbassare lo sguardo, mentre un’altra sarta la avvicinava, tendendo le mani sconosciute verso le sue spalle nude, lasciate scoperte dal corsetto. Era così stretto, così stretto che le pareva di non respirare quasi più.

“Vede, le cade così bene, signora Black!”.

“Ed è così simile al suo abito, se lo ricorda? Una delle nostre spose più belle”.

Sua madre sorrise vezzosamente, scuotendo i capelli biondi come era solita fare Cissy per pavoneggiarsi.

“Fai un giro, Bella, da brava” disse, con un gesto.

Bella obbedì, mentre i contorni della stanza si facevano via via più sfocati, come in un sogno.

“Anche dietro è comunque una meraviglia. In effetti pensavo a qualcosa di più tradizionale, qualcosa con delle maniche, capite?”.

“Madre, sarà ancora piena estate” replicò Andromeda.

“Non essere sciocca, Andromeda. Ci si sposa una sola volta nella vita”.

“Appunto. Sarebbe meglio non svenire all’altare per un colpo di calore”.

“Infatti non accadrà” disse con tono glaciale sua madre, segnando una linea di demarcazione oltre la quale la figlia non avrebbe dovuto spingersi “Vorrei che provasse un abito più classico”.

Provò l’abito classico. Un tripudio di veli e pizzi pesantissimi, con un corpetto sottile che le si chiuse sotto la gola.

“Ecco. Ci siamo” fu il verdetto della madre “Guardati nello specchio, figlia mia”.

Bella avrebbe voluto poter dire che no, non lo avrebbe fatto. Che non voleva vedere cosa ne sarebbe stato di lei, una volta indossato quel vestito e il nome che non le sarebbe mai appartenuto.

Lo specchio le spinse contro la sua stessa immagine, l’immagine di lei che si osservava come una bestiola braccata, stringendo forte i pugni in un ultima, inutile difesa.

Non riusciva a vedere nient’altro, né l’abito, né le persone che la circondavano. Sua madre e Cissy le furono subito accanto, mentre la prima lacrima le solcava una guancia.

“È un’emozione unica, vero?” mormorò sua madre, stringendole il braccio proprio dove la ferita pulsava più forte “Farai commuovere anche me”.

Narcissa accarezzava la gonna gonfia, sovrappensiero, seguendo la linea dei ricami.

Quando anche Andromeda la raggiunse, asciugandole il volto con un gesto colmo di pietà, Bella cercò la sua mano.

“Sarai bellissima. La signora Lestrange… ancora fatico a crederci” disse sua madre.

Bella strinse forte e a lungo le dita di sua sorella, unico appiglio in un mare di disperazione.

 

Rimasero a definire i dettagli della cerimonia fino a tardi, fino a quando Bella si sentì svenire nel boudoir e sua madre ebbe la prontezza di farla mangiare in fretta e furia, prima di spedirla nella sua stanza a riposarsi.

Dopo cena, Andromeda si era accomiatata dalla famiglia accusando un forte mal di testa. Bella barcollò inconsciamente fino alla sua stanza, con l’intenzione di raggiungerla. Quando bussò, dall’interno non giunse nessuna risposta. Entrò comunque, esausta e incapace di tornare nella sua camera affrontando una notte in solitudine. Dromeda aveva l’abitudine di passeggiare nei giardini, prima di dormire. Non voleva parlarle né sentirla parlare: aveva solo bisogno di avere qualcuno vicino, accanto a sé. Qualcuno che non si aspettasse di vederla felice.

Ubriaca di stanchezza e dolore, avanzò nell’oscurità spessa fino al letto e vi si lasciò cadere, vestita solo per metà.

Ogni cosa sarebbe finita e lei avrebbe abbandonato per sempre la sua casa. Per sempre.

 

Sirius aveva trovato qualche residuo delle strane sostanze fornite da Tonks nella tasca dei jeans che aveva usato il giorno della festa notturna. Esiliato da pranzi e cene di famiglia per sua precisa volontà – aveva sentito Walburga strillare il suo nome a più riprese in lungo e in largo per Englefield House – si era trastullato con pipa e dolcetti per gran parte della giornata. Il risultato della combinazione tra eccesso di zuccheri e fumo era stato una sorta di pace meditativa.

Quando l’oscurità era scesa, inondando la tenuta, si era rassegnato a strisciare lento nell’orrorifica dimora, ben attento a non farsi notare.

Oramai aveva preso stanza nel letto di Dromeda e fu proprio lì che trovò la sua meta.

Si sentì in pace solo quando richiuse la porta dietro di sé, sprofondando nel buio.

“Sono tornato” biascicò, cercando di mantenere viva quel poco di lucidità superstite “Oggi mi hai spezzato il cuore”.

Urtò con il ginocchio il baldacchino, lanciò un gemito e poi atterrò con le mani sul materasso, interrompendo la rovinosa caduta.

“Sono a pezzi” ridacchiò, senza chiedersi perché “Merlino… sono davvero a pezzi”.

Tutt’un tratto si sentì immensamente triste.

Posò goffamente la testa sui cuscini, allungando un braccio alla ricerca della cugina. Trovò il suo corpo caldo a poca distanza da lui, disteso.

“Non vuoi nemmeno parlarmi?” mormorò.

Dromeda non rispose.

Sirius decise che non gli importava: scivolò al suo fianco e le circondò la vita in un abbraccio saldo.

Rimase così, immobile, per quello che gli parve un tempo infinito.

“Ho paura, Dromeda” sussurrò poi, mentre sentiva il sonno corrompere quel poco di forze che gli era rimasto “Ho paura che ci facciano del male. Ho paura per me, per te… ho paura per Bella. Ho paura per Bella. Aiutala…”.

Prima che tutto divenisse un sogno, Sirius sentì la mano di Andromeda chiudersi sulla sua. Era fredda.

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Capitolo 7
*** Unsayable ***


Capitolo 6

Unsayable

 

 

 

Il suo errore più grande.

Dopo di lui, Bella aveva promesso a se stessa che non avrebbe mai permesso a nessun altro di ingannarla così. Perché questo era stato: un terribile inganno.

Un errore che aveva tentato di cancellare.

 

Bella si incantò a osservare le volute di vapore che emergevano dalla sua tazza di the. Si stagliavano contro il bagliore del fuoco e poi sparivano nel buio, proprio come i suoi pensieri: lampi opachi persi nel silenzio della notte. La casa degli zii appariva desolata, con i suoi occupanti immersi nel sonno. Poche ore prima erano tutti riuniti a quello stesso tavolo.

Dirigendosi ai piani superiori, mentalmente esausta per le continue osservazioni di sua madre riguardo al taglio di capelli che avrebbe esaltato i suoi lineamenti, Bella aveva superato lo studio dello zio. La porta semiaperta le era sembrata un richiamo irresistibile: suo padre e Orion erano rinchiusi lì da un’eternità.

“Devo ammetterlo: è stato un duro colpo anche per me e Druella. Le ragazze sono sconvolte” sentì dire da suo padre.

“Non riesco a comprendere quale sia stato il mio errore. L’ho allevato come un vero Black e ora mi ritrovo un primogenito Grifondoro. Gli faranno il lavaggio del cervello, come a tutti quelli della sua Casa, e tra qualche anno sarà invischiato nelle peggiori schiere di Babbanofili del Regno Unito”sibilò lo zio “I nostri poveri padri sarebbero inorriditi”.

“Prego che non faccia la fine di Cedrella. Tanto talento gettato alle ortiche…”.

“Non ripetere quel nome davanti a Walburga. È fuori di sé. Ero tentato di impedire al ragazzo di tornare, per questo Natale”.

Il tintinnio dei cristalli e l’odore di Ogden’s Old arrivarono fino a lei.

“Abbiamo sempre dovuto lottare per la purezza del nostro sangue, Orion. Hai fatto tutto ciò che era in tuo potere, il ragazzo è ovviamente un’anomalia. Neppure io ho di che rallegrarmi: con tre figlie femmine sono destinato a perdere il nostro nome”.

“Le tue figlie sono l’orgoglio dei Black. I Purosangue non vedevano tre bellezze simili da lungo tempo”.

“Mi lusinghi, Orion. Non fraintendermi, amo le mie figlie, ma sono donne e l’unico orgoglio che mi daranno sarà frutto della scelta del pretendente… contavo molto su Sirius. Era davvero… brillante. Un autentico primogenito Black”.

Sono donne. Suo padre lo aveva detto con una nota di disprezzo, una punta di delusione, un profondo senso di rassegnazione. Erano passate le ore più buie della notte e Bella sentiva ancora quelle parole deflagrarle nella mente, ripetersi, rimbalzare.

Nessuno avrebbe mai ricordato quanto capace o intelligente fosse Bellatrix Black. Un giorno avrebbero ricordato la sontuosità del suo abito da sposa, la raffinatezza del ricevimento, ma non una parola sarebbe stata spesa riguardo al giorno in cui aveva imparato, prima tra una schiera di eredi maschi, a Incantare con il pensiero. Non una parola sulla sua devastante potenza, il suo immenso talento. Riconoscere questo le faceva mancare il respiro. Accettare che un giorno qualcuno l’avrebbe oscurata, cancellata e rinchiusa in una prigione di incontri mondani e chiacchiere, proprio come sua madre… Non poteva permetterlo.

Abbandonò il the ormai freddo sul tavolo, risalì le scale in punta di piedi.

Nella stanza degli ospiti dormiva pacifica Dromeda, accoccolata come una bambina.

Avrebbe dovuto svegliarla, salutarla, forse. Esitò, fermandosi ai piedi del suo letto. Guardandola, le parve di star abbandonando una parte di se stessa, così simile eppure differente. La parte buona e pulita del suo cuore.

Indietreggiò, spaventata. Il grande specchio appeso al fondo del baldacchino rispose con il suo riflesso, l’immagine di una giovane donna terrorizzata dall’idea di quello che stava per fare.

Fuggire. Lasciare indietro ogni cosa, anche il suo nome. Poteva davvero farlo?

E chi si sarebbe preso cura di Dromeda? Chi l’avrebbe protetta dalle smanie della loro madre? Se fosse diventata come lei, un giorno? Dura. Dura e fredda.

Con le dita gelide, recuperò un angolo di pergamena dallo scrittoio e vi impresse un messaggio per la sorella.

Infilò gli stivali e raccolse i capelli in un nastro, prima di tornare giù silenziosamente.

Non le piaceva dover strisciare via, ma era certa che non avrebbe saputo affrontare una discussione. Confrontarsi con gli occhi di suo padre e riconoscervi l’amarezza, l’insoddisfazione di aver generato una figlia incapace di essere all’altezza, di renderlo orgoglioso come avrebbe voluto... sarebbe stato anche peggio del sentirsi costretta a sparire.

Recuperò il suo mantello nel sottoscala, prima di imboccare il corridoio che portava all’uscita.

Mormorò il controincantesimo e l’Incanto che proteggeva la porta si dissolse.

“Bella”.

Il richiamo fu debole, sussurrato, ma sufficiente a farla trasalire.

Si voltò lentamente e non del tutto, esponendo solo un profilo allo sguardo penetrante che l’aveva colta in fallo.

Non aveva bisogno di guardare in faccia il proprietario di quella voce, perché le era bastato il tono, la connotazione precisa che aveva preso il suo nome, pronunciato in quel modo.

“Dove vai?”.

Non rispose. Sapeva che avrebbe dovuto varcare la soglia e chiudere la porta dietro di sé, senza esitare, senza pensare. In quella notte era la seconda volta che i suoi sentimenti le tendevano trappole diaboliche.

Una mano si posò sulla sua spalla e Bella non poté più fingere di essere impassibile.

“Sirius” disse, controllando la voce, spegnendo il tremito “Torna a dormire”.

“Perché te ne vai?”.

La fece voltare gentilmente, spingendola con la sua mano ancora piccola eppure non più infantile, una sorta di miniatura perfetta della mano di un uomo.

Bella indugiò con lo sguardo tra le sue dita lunghe, prima di incrociare i suoi occhi. Erano grandi e profondi, ed erano tremendamente simili ai suoi. Erano i suoi occhi piantati in un’altra persona, il suo spirito innestato in un essere diverso e complementare, con le stesse atroci paure e le stesse imperfezioni. Pensare a quello che aveva perso, con Sirius, le fece dolere la gola, come se fosse sull’orlo del pianto.

Per Salazar, avrebbero potuto essere… avrebbero potuto essere, insieme, un giorno…

“Non ti riguarda” rispose con rabbia.

“È per colpa mia?” chiese Sirius, sincero e limpido “Cosa è successo?”.

Per un istante nella mente di Bella balenò il desiderio di crollare, abbracciarlo e cancellare la realtà, fingere che nulla fosse accaduto. Invece qualcosa era già successo, insinuò una voce dentro di lei, qualcosa stava già succedendo e sarebbe stato sempre peggio. Stavano diventando tutti adulti e i loro sentieri erano destinati a unirsi, legarsi o dividersi per sempre.

Ma era solo un bambino…

“Sì, è per colpa tua” mentì, con voce ferma.

La tristezza che riempì lo sguardo di Sirius la fece vacillare, come se qualcuno stesse tentando di spingerla oltre un dirupo.

“Credevo che avresti voluto essere come me. Hai sempre detto questo, no? Che saresti cresciuto e saremmo stati dei Maghi invincibili. Non è così?” continuò “Invece hai preferito rinnegarmi. Sai cosa dicono della nostra famiglia, nella tua Casa? Dicono che siamo malati. Credi che non sappia cosa ti dicono di me, Sirius?”.

La mano di Sirius scivolò lungo il suo braccio, come morta, e le sue guance impallidirono.

“Io ti ho difesa, con chiunque. Ho fatto a botte, per voi” rispose “Anche se non mi hai mai scritto, io ti ho difesa, ho litigato con i miei amici per te”.

“I tuoi amici?” ringhiò Bella, sentendo il suo cuore iniziare a battere sempre più veloce “I tuoi amici sono la tua famiglia. Io sono tua amica. Come hai potuto rifiutarci così? Per quale motivo l’hai fatto, Sirius? Noi ti amiamo come nessun altro potrà mai fare”.

Sentì qualcosa di bagnato colarle lungo le guance. Sfiorò la pelle con le dita, incredula, e si riscoprì in lacrime.

Sirius allungò le braccia magre verso di lei ma Bella lo spinse via con energia, facendolo inciampare. Eppure lui non si arrese, le afferrò i polsi e tentò disperatamente di riconquistare il suo sguardo.

“Sai che non è così, Bella. Sai che non lo è. Lo vedi, come ci trattano. Vedi che non pensano a cosa vogliamo e a cosa desideriamo. Mia madre e mio padre non mi hanno mai amato davvero. Questo non è amore” Sirius la bloccò in un angolo, tenendo bassa la voce e allo stesso tempo quasi supplicandola.

Bella sentì venire meno il controllo. Suo padre, sua madre, Dromeda, Sirius…

Io ti amo” singhiozzò, soffocando la voce “Io avrei potuto amarti anche di più di così. Questo… questo non puoi capirlo”.

Si lasciò scivolare, affondando nel suo stesso vestito.

Sirius si inginocchiò ai suoi piedi e, improvvisamente, non fu più un bambino.

“Io lo so” sussurrò “Lo so. Ti prego, non te ne andare. Possiamo continuare a essere noi, anche se qualcosa cambierà? Ti prego, Bella, puoi farlo, almeno tu?”.

Bella scosse la testa.

“Un giorno mi disprezzerai. Crescendo, mi odierai” rispose “Arriverà un giorno in cui le persone come noi e le persone come voi si scontreranno, Sirius. Accade sempre. E allora da che parte sarai schierato?”.

“Non ci deve per forza essere una guerra. Perché sei così?” mormorò affranto Sirius.

Era talmente vicino. Poteva contare le sue ciglia, una a una.

“Perché succederà. Ci sarà la guerra” disse Bella “Da che parte sarai schierato? Chi sceglierai?”.

“Io non voglio una guerra. Nessuno la vuole” rispose lui, e sul suo volto si manifestò la paura.

“Io farò quello che sarà giusto fare, Sirius. E anche tu lo farai. Se dovrò ucciderti, cosa credi che farò?” aggiunse imperterrita Bella.

Una consapevolezza spietata si fece largo negli occhi di Sirius. Una parte di lui, si vedeva, non voleva ancora credere. Una parte di lui desiderava ancora sperare.

“Tu mi uccideresti?” chiese, diretto “Mi uccideresti davvero?”.

Ecco, pensò Bella, questo momento traccerà la linea tra il prima e il dopo. Questo momento significherà dirgli addio. Non si concesse il tempo di pensare.

“Sì” disse.

Sentì le lacrime scavare più a fondo.

“Sì” disse ancora.

Sirius smise di respirare. La guardò a lungo, negli occhi, e cercò la conferma di quelle parole vagliando la sua anima angolo per angolo.

Quando la ricerca fu conclusa, le prese la mano che stringeva la bacchetta e, piano, la puntò contro la sua stessa fronte. Bella non capì immediatamente.

“Cancella” disse Sirius, abbassò lo sguardo e la sua voce tremò “Cancella tutto”.

“Cosa…?” disse Bella.

“Non voglio ricordare più niente. Più niente di me e te” non alzò gli occhi ma la voce si fece ferma “Io non posso odiarti, Bella, se non lo fai soffrirò e basta”.

Il terrore le si irradiò fino alla punta delle dita.

“Non…”.

“So che lo sai fare” disse Sirius “Fallo e basta. Solo tu sai cosa cancellare. Ti prego, è l’ultima cosa che ti chiedo. Non voglio più stare così male”.

“N-no” sussurrò Bella.

“Dannazione, fallo. Sarà più facile anche per te” disse Sirius “Ti prego”.

Cancellare tutto.

“Adesso”.

Sirius strinse più forte la sua mano.

Nella memoria di Bella il ricordo appannato di un Sirius minuscolo, piccolo, avvolto in un panno bianco, passò come un lampo. Poi il giorno in cui avevano fatto il bagno al tramonto, nel lago. Lui non sapeva ancora nuotare, le si era stretto addosso. Gli sguardi complici a tavola. Le sue infinite sciocchezze. Le risate sguaiate. Ogni ricordo tracciava una ferita lancinante.

La mano di Bella divenne immobile all’improvviso.

Fu il momento in cui Sirius, il Sirius appena undicenne che ricordava ancora ogni cosa, la guardò per l’ultima volta.

Io ti amo”.

“Oblivion”.

 

Nei successivi cinque anni aveva tentato, con tutti i mezzi a sua disposizione, di rinnegare il rimorso. Ma incontrarlo, rivederlo, non faceva altro che riportare a galla i ricordi. I ricordi la facevano sentire debole, insicura. Lei non era questo.

Lo sguardo inciampò sul volto di Sirius, ancora addormentato. Era l’alba e dalla stanza di Dromeda si poteva vedere il sorgere del sole: qualche raggio pallido già si insinuava tra le pieghe delle cortine, colorando d’oro il profilo delle lenzuola.

Aveva dormito con lui. O, almeno, ci aveva provato. Non aveva avuto il coraggio di rivelarsi, aveva preferito lasciargli credere di essere qualcun altro, pur di sentirsi amata. Dove era arrivata la sua disperazione? In quale fondo buio stava scavando?

Era stato così strano, spaventoso, lasciarsi abbracciare. Proprio da lui che la odiava.

Osservandolo, incredibilmente pacifico e rilassato, i pugni stretti attorno all’angolo martoriato di un guanciale, si pentì. I momenti più terribili erano simili a quello: gli istanti razionalmente rifiutati in cui la parte più istintiva del suo essere reclamava indietro tutto l’amore che era andato perso, spazzato via insieme alla sua memoria.

E allora quale, quale era stato il suo errore più grande?

La sua mente non registrò subito il rumore, o meglio lo colse ma lo eliminò dalla sfera dei sensi. Quando, finalmente, Bella scostò lo sguardo da Sirius, trovò Andromeda a pochi passi da lei, intenta a osservarla con un’espressione confusa in volto. Gli occhi di sua sorella erano incorniciati da un paio di occhiaie profonde e livide, segno rivelatore dell’insonnia; aveva i capelli scarmigliati, come se fosse di ritorno da una corsa tra i cespugli. O, peggio, da una notte di bagordi.

“Cosa ci fai qui?” mormorò, spostando lo sguardo da lei a Sirius e viceversa.

Bella, esausta, abbandonò qualsiasi tentativo di schermaglia. Scosse la testa.

“Non voglio parlarne, ora” rispose, tenendo la voce bassissima.

Sirius avrebbe potuto svegliarsi in qualsiasi momento, trovarla lì e riconoscerla. Questo la preoccupava meno del dover spiegare quanto era accaduto.

Lentamente, scivolò giù dal letto, curando di non urtarlo per errore.

Uscì dalla stanza e, a un suo cenno, Dromeda la seguì.

 

“Perché?”.

La voce di Dromeda era ferma e gelida.

“Non voglio che lo sappia. Crede di aver dormito con te”.

“Perché sei così, Bella?”.

Ancora quella domanda.

“Per Salazar…” rispose, esausta “Lui mi detesta, Meda. Smettila di far finta di non vedere”.

Il tavolo della colazione era ancora deserto ma già traboccava di croissant, succo freddo e cheesecake ai frutti di bosco.

Bella non aveva toccato cibo, proprio come sua sorella. Si erano limitate ad accomodarsi, una di fronte all’altra, prima di cominciare lo scontro.

“Non è così. Devi credermi” disse Dromeda, decisa “E’ ancora un ragazzo, per lui è tutto bianco o nero, non capisce che può esserci una via di mezzo… ma ti vuole bene, si preoccupa per te”.

Bella ignorò e soffocò il pensiero delle parole di Sirius, sussurrate a pochi centimetri dal suo orecchio nell’oscurità.

Ho paura per Bella. Aiutala.

“Alcune cose lo sono davvero, bianche o nere. Quando anche tu dovrai fare la scelta giusta, te ne accorgerai” disse.

Sua sorella accusò il colpo, le tremarono le mani.

“Dimmi, Bella, è questa?” disse, estraendo dalla sua borsa una busta verde bottiglia “E’ questa la scelta giusta?”.

Gliela allungò sul tavolo. Prima di afferrarla, Bella la scrutò. Era quadrata, la carta impreziosita da fili d’argento. La aprì e la fece scivolare via, liberando il contenuto. Quello che sembrava un pesante invito le cadde tra le mani. Guardò Dromeda senza capire.

“Leggilo” le disse sua sorella, improvvisamente triste.

Bella spalancò le due facciate e ritrovò il suo nome impresso, d’argento anche quello.

La sensazione fu quella di ricevere un pugno dritto nello stomaco. Bella sapeva, quanto male facesse, perché l’aveva provato. Forse, forse era peggio di un pugno. Uno schiaffo, uno schiaffo in pieno volto di fronte a una folla di sconosciuti. Era quel genere di punizioni che a sua madre piacevano tanto e, anche questa volta, non si era smentita.

Il nome di Rodolphus brillava accanto al suo, in un tripudio di fronzoli e luci.

“È l’invito per la tua festa di fidanzamento. È per sabato. Questo sabato” disse Dromeda.

Bella rimase in silenzio a osservare l’abominio di pergamena che aveva tra le mani.

“Le ha spedite a mezzo Mondo Magico. Sono state invitate tutte le famiglie Purosangue della Gran Bretagna e dell’Oltremanica. Lei non te l’ha detto, Bella”.

Tentò di nascondere il moto di rabbia che le esplose nel sangue.

“Le chiederò spiegazioni” disse, alzandosi di scatto.

Andromeda la imitò e si sporse sul tavolo, afferrandole un polso.

“È vero. Sirius ha ragione” disse, costringendola con prepotenza a guardarla negli occhi “Questa non è la scelta giusta. Lo sai, Bella. Non lo devi fare. Non devi per forza essere infelice”.

“Io non sarò infelice” disse, tentando di divincolarsi.

Gli occhi di Dromeda brillarono di lacrime.

“Tu lo sei già. Sei già infelice da così tanto tempo…” disse “Bella, fermati prima che sia troppo tardi. Non lasciarti piegare. Sarai tu che dovrai vivere con quest’uomo per il resto della tua vita, non loro”.

“Tu non capisci” alzò la voce Bella “E’ per questo che siamo migliori degli altri! Sappiamo a cosa dobbiamo rinunciare. È questo che ci rende superiori: fare la cosa giusta, obbedire alle regole dei nostri Padri. Solo così si è davvero dei Sanguepuro. Tu lo sei, Meda?”.

“Sono tua sorella, prima di ogni altra cosa, anche del sangue. Io ti vorrò bene, sempre, anche se deciderai di distruggerti. Anche se lo farai, io ti vorrò bene” disse Dromeda, continuando a guardarla negli occhi.

“Spero di poter fare lo stesso con te, Meda. Spero che le tue sciocche abitudini non me lo impediranno, un giorno. I Black non tollerano i tradimenti” disse Bella, sfuggendo al suo sguardo e indugiando di proposito sui suoi abiti, così fuori luogo.

“I tradimenti non sono questi. I tradimenti peggiori sono quelli che facciamo verso noi stessi. Stai attenta a quello a cui rinunci” disse Andromeda, prima di lasciarla andare “Certi errori non si possono cancellare.”

Neppure il suo errore più grande?

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Capitolo 8
*** All Is Violent, All Is Bright ***


Capitolo 7

All is violent,

all is bright

 

 

 

 

“Eccoti, finalmente”.

La voce di Andromeda sopraggiunse alle sue spalle, sottile e discreta, prima ancora che l’eco soffice dei suoi passi la preannunciasse.

Sirius si voltò di soprassalto, piegando istintivamente a metà la pergamena che aveva tra le mani. La piuma gli scivolò dalle dita e cadendo a terra gli macchiò la camicia d’inchiostro.

“Dannazione” imprecò, scendendo con un balzo dal tavolaccio di legno dove si era rifugiato.

Dromeda sorrise affettuosa e lui si sentì in colpa. Nel palmo destro, nascoste per bene, stavano le parole che non aveva avuto il coraggio di dirle e che, invece, presto sarebbero state lette da James.

“Credo che anche Meda mi abbia abbandonato”. L’aveva scritto sorridendo tra se e se, amaramente: ora, davanti a lei, gli sembrò una frase infinitamente patetica. L’avrebbe cancellata e riscritta da capo.

“Che ci fai qui? Fa un caldo infernale” disse lei, ignorando gentilmente il suo disagio.

“Sì, beh… stavo evitando…”.

“L’invasione nemica?” lo aiutò Meda, superando la soglia della serra e addentrandosi nella cappa umida e soffocante che permeava l’ambiente.

Indossava un abito da sera, blu notte, tempestato di preziosi lungo la scollatura generosa, e aveva i capelli raccolti in un’acconciatura morbida, da adulta. Era bellissima ma vederla così perfettamente composta, l’ulteriore elemento in sintonia con lo sfondo del quadro, fece sentire Sirius braccato, isolato. Distolse lo sguardo dal suo, raccolse la piuma da terra e infilò la pergamena in tasca, accartocciandola.

“Già” replicò, muovendo due passi nella sua direzione “comunque, stavo per andarmene”.

“Certo” disse lei, senza mostrare intenzione di liberare l’uscita.

Sirius si fermò prima di arrivarle troppo vicino e tentò di evitare i suoi occhi, soffermandosi in modo impacciato sul grande coleottero che camminava lungo il vetro alla sua sinistra, sul grosso fiore carnivoro schiuso ai suoi piedi, sul gioco di luci aranciate e rossastre che il tramonto proiettava nel cielo.

“Sirius” il richiamo di Andromeda fu deciso e implacabile.

“Cosa c’è?” sospirò lui, sconfitto.

“Perché mi eviti?” gli chiese, diretta.

Stava per ribattere che non era affatto così, mentendo spudoratamente, ma lo sguardo di sua cugina lo sondò e lo mise in guardia. Sirius non riuscì a placare l’insofferenza e ritornò sui suoi passi.

“Somigli a Bella conciata così, sai?” disse, tagliente.

“Non hai risposto alla mia domanda” disse Meda, indifferente alla sua provocazione.

“Oh sì, invece, l’ho appena fatto” Sirius incrociò le braccia al petto e sollevò il mento con aria di sfida “Guardati. Sembri il prodotto perfetto del percorso di indottrinamento Purosangue. Dovrebbero brevettare il metodo, a questo punto”.

Provò a esibire uno dei suoi sorrisi strafottenti ma il tentativo fallì ed ebbe improvvisamente paura.

“Con te sembra non aver funzionato, però” ribatté lei, tranquillamente.

“Walburga avrebbe dovuto prendere lezioni dalla tua carissima madre. Potresti suggerirglielo: chissà che non venga anche a lei la brillante idea di combinarmi un matrimonio. A proposito, ti ha già comunicato il nome del tuo futuro?”.

“Non iniziare, Sir, per favore…” pregò Dromeda, alzando debolmente una mano nel tentativo di placare la sua rabbia.

Forse quel gesto lo fece infuriare ancora di più, gli fece venire voglia di ferirla, in profondità.

“Punto su Rosier. Insieme ve la spasserete” disse, misurando la voce “Certo, dovrai smetterla di andartene in giro insieme ai tuoi amichetti Babbanofili, fingendoti la nobile sovversiva che non sei mai stata. Evan mi sembra un tipo un tantino integralista, quindi, fossi in te, sorvolerei sulle scopate clandestine nel club dei Mezzosangue”.

Andromeda gli fu di fronte in un attimo e… Merlino, lo schiaffo gli arrivò diritto in viso come una sferzata.

Le afferrò il polso colpevole e lo strinse a lungo, soverchiato dal rancore e dalla vergogna per quello che era appena successo, per le parole che gli erano appena uscite di bocca. Lei lo fissava, le guance pallide e lo sguardo di pietra.

“Diamine, Sirius” mormorò, divincolandosi dalla sua presa con uno strattone “Come fai a dire certe cose?”.

Avrebbe voluto rimanere in silenzio per il prossimo secolo e piantarla di sentirsi indifeso anche in quel momento. La superava di una testa in altezza e sapeva che avrebbe potuto sollevarla, spostarla da lì, se avesse voluto, ma non ne aveva la forza emotiva.

“Non eri tu la brava bambina dell’altro giorno? Quella che si è cambiata in tutta fretta per accogliere suo padre? E i tuoi bei vestiti Babbani, che fine hanno fatto?” sussurrò, inclinando il capo e lasciando che i capelli gli oscurassero il campo visivo.

“Non è così semplice” disse lei.

“Certo che lo è. Io ero solo”.

Come avrebbe potuto realmente spiegarle cosa aveva provato? Il desiderio intenso di spartire con qualcuno la sensazione annientante di rifiuto, la condanna, il disgusto profondo, che dagli occhi dei suoi genitori gli erano stati scagliati addosso come sassi. Non era più in grado di accusare il colpo e si odiava per questo.

“Cosa vuoi che faccia? Una sorta di dichiarazione?” chiese Meda, esasperata “Le tue idee ti lampeggiano in fronte dal giorno in cui sei stato Smistato. Non vale lo stesso, per me, e lo sai. Certe cose le ho capite davvero solo da pochi anni. Alcune addirittura in questi giorni… ti prego, dammi tempo. Ho ancora bisogno di un ultimo momento in compagnia della mia famiglia, voglio fingere che vada tutto bene, ancora per un momento. Non trattarmi così”.

“Cos’è, una specie di commedia, per te?” disse Sirius.

“Sì” annuì sua cugina “Ho bisogno di continuare a fingere e potrò farlo ancora per poco. Puoi aspettarmi?”.

Ritrovò il coraggio di guardarla e se ne pentì subito. Bastò la sua prima occhiata per piegare definitivamente gli istinti bellicosi che, una manciata di minuti prima, l’avevano spinto a esplodere.

Andromeda lo rinchiuse in un abbraccio stretto, posando la fronte sul suo torace, proprio vicino al cuore.

“Ti prego, non dire mai più le cose che hai detto” sospirò.

“Scusa” disse Sirius, stringendole le spalle magre “Io… non so cosa mi sia preso, è che questi giorni sono stati così… estenuanti”.

Lei scosse la testa contro la sua camicia.

“Lo so. Avresti dovuto parlarne con me, invece di evitarmi. Dove hai dormito? Sono venuta a cercarti nella tua stanza tutte le notti”.

Sirius ingoiò a vuoto.

“Un po’ qui, un po’ lì. Scusa”.

“Ci sarai, questa sera? Ho bisogno di te” disse Meda, ricomponendosi.

Aveva gli occhi un po’ lucidi ma lui finse di non accorgersene.

“Ho già la nausea” mormorò in riposta.

“Devi salvarmi dalle ascelle tossiche di Mulciber: all’ultimo ballo ho dovuto Affatturarlo per togliermelo dai piedi e non ha gradito” disse lei, implorante.

“Lo farò. Ma me ne pentirò e dovrò bere molto, molto, per dimenticare”.

“Ti innaffierò di Whiskey Incendiario. Ora dobbiamo solo rimediarti un completo decente”.

Andromeda lo prese per una mano e lo trascinò via di gran carriera. Sirius non si accorse che la lettera indirizzata a James era scivolata dalla sua tasca e, distratto, la dimenticò.

 

“E questa a cosa servirebbe?”.

Andromeda gli stava porgendo una sontuosa maschera veneziana, argentata.

“È una festa in maschera” gli rispose, rifilandogliela a tradimento “Un’idea geniale di mia madre, suppongo”.

Sirius la guardò riemergere dal suo baule con indosso una delicata mascherina grigia, che le copriva occhi e naso, lasciando esposta la bocca carnosa.

“Dovrei metterla in faccia?” le chiese, disgustato.

“Sono certa che sapresti farne un uso più fantasioso” rispose lei, aiutandolo a legare il nastro dietro la nuca “Comunque per iniziare credo che vada bene la faccia”.

“Sono sempre più elettrizzato” ringhiò Sirius.

Dalle fessure incise in corrispondenza degli occhi riusciva ad avere una buona visuale.

“Puoi premere qui e farla Evanescere, se vuoi” gli mostrò Dromeda, sfiorandosi una tempia.

La maschera si dissolse e riapparve solo a un secondo tocco.

“Sto per svenire dalla meraviglia” disse, laconico “Quanto avranno speso i tuoi per questa follia?”.

“Aspetta di vedere il matrimonio” rispose sua cugina, sistemando il corsetto sotto il seno “Andiamo?”.

Sirius le porse il braccio, un momento prima che Meda Smaterializzasse entrambi nell’ampio Giardino Est.

La prima impressione che lo colpì fu di essere stato catapultato in un festino Serpeverde decisamente sopra le righe. Eleganti lanterne verdi galleggiavano fra i presenti, intenti a chiacchierare in piccoli gruppi e a bere abbondantemente dai flute Incantati che anche Walburga amava esibire agli eventi, eredità di qualche antenato megalomane. Druella aveva rispolverato le anticaglie di famiglia e tra queste erano compresi diversi parenti lontani. I gioielli delle nuove generazioni Purosangue si aggiravano impettiti tra i grandi gazebo eretti sui terrazzati ai piedi di Englefield House, stando ben attenti a non eccedere sia nel bere che nel mangiare: il momento più opportuno sarebbe arrivato e allora tutti avrebbero dato il meglio in entrambe le attività. Sirius intercettò con lo sguardo un paio di elementi veramente sgraditi ai margini della pista da ballo e spinse con decisione Andromeda verso le scale.

“Che te ne pare? Il party soddisfa le tue aspettative?” gli chiese lei.

“Metà delle persone che ho riconosciuto mi Schianterebbero volentieri anche in mezzo alla folla. L’altra metà mi eliminerebbe dietro a un cespuglio” rispose Sirius, esibendo un sorriso.

“Oh, non gongolarti così. Di certo neppure io sono l’ospite d’onore della serata” ribatté Meda, guidandolo verso uno dei gazebo velati.

“Sì ma vedi, tu sei una donna. Le tette inducono all’indulgenza anche il nemico più accanito” le spiegò con tono scientifico Sirius.

Dromeda esplose in una risata che fece voltare un paio di Streghe incipriate e lui ne approfittò per rimediare un paio di calici dal lungo tavolo al quale erano serviti.

“Non sapevo di questo arcano potere” disse Meda, accettando di buon grado l’iniziativa.

“Me l’hai insegnato tu: le tette sono la chiave di tutto. Ti prego di notare la poesia di questa affermazione”.

“Mi sei mancato” disse lei, a bruciapelo.

“Anche tu” disse Sirius “propongo un brindisi speciale tra noi due: alle tette! Le tue e quelle di qualunque altra fanciulla presente a questo tremendo evento”.

Avevano appena fatto tintinnare i cristalli, quando la voce di Orion distolse bruscamente la loro attenzione dal fondo dei flute.

“Mi spiace dover infrangere questa parentesi tanto elegante” disse suo padre, gelido “Ti stavo cercando”.

Sirius nascose il fastidio dietro un’altra maschera ben collaudata e più resistente: l’indifferenza.

“Eccomi, dunque” ribatté.

“Volevo pregarti di risparmiare alla nostra famiglia e ai nostri ospiti gli imbarazzi che deriverebbero da una condotta inappropriata. Non intendo mostrarmi tollerante a idee balzane di nessun tipo”.

Sirius lo degnò di una vaga occhiata e scrollò le spalle.

“Certamente, padre. Sarò l’invitato meno sconveniente della festa, te lo prometto. Anche perché un paio di degni eredi concorrono al titolo più vigorosamente di me. Il cugino Rosier sarà almeno all’ottavo bicchiere di champagne. I flute Incantati sono la trovata più sensata di questa sera”.

Suo padre si limitò ad arricciare le labbra, senza dargli la soddisfazione si spostare lo sguardo. Sirius sapeva che, dopo un paio di convenevoli accuratamente studiati per distogliere l’attenzione, avrebbe redarguito anche Evan.

“Non costringermi a prendere provvedimenti” minacciò, prima di allontanarsi “Buon proseguimento, Andromeda”.

Sua cugina rispose con un cenno del capo e Orion si dileguò tra la gente facendo svolazzare il lungo mantello.

“Per Merlino… mia madre deve averla infilata bene e a fondo quella scopa” sospirò Sirius.

Andromeda rise e qualche goccia alcolica le finì sul mento, mentre, in basso, l’orchestra iniziava a suonare un motivetto vivace.

“Ti prego, andiamo a ballare” gli disse.

Seguendo Meda incrociò Malfoy, intento a braccare con lo sguardo Narcissa, l’inconfondibile chioma abbandonata sensualmente lungo la schiena pallida. Non vi era traccia, invece, della fidanzatina dell’anno. Sirius soffocò le sue domande e anche la dignità in uno swing agitato.

 

*

 

Bella aveva fatto la brava. Aveva accettato gli auguri di chiunque con un bel sorriso sulle labbra, aveva sopportato le interminabili chiacchiere sull’anello di fidanzamento – le doleva il dito, per quante volte zie o semi-sconosciute le avevano artigliato il cimelio di famiglia con aria avida -, sull’abito, sui preparativi. Aveva perfino tollerato le attenzioni del vecchio Lestrange e le sue ciance senza senso sulle presunte qualità del futuro sposo. Contro ogni suo istinto, sulla scia di un paio di bicchieri ricolmi di Ogden’s Old consumati al sicuro nella sua stanza, aveva finto intimità con Rodolphus, permettendogli di stringerle la mano e baciarla sulle guance. Quando le mani di lui erano affondate nei suoi capelli, tuttavia, non era riuscita a non allontanarsi, fingendo di dover salutare un’ospite muffita. Sua madre aveva fatto spuntare invitati da ogni dove e gran parte dei presenti Bella non ricordava di averli mai visti in vita sua. Tutti, in compenso, conoscevano lei: anche perché Druella le aveva impedito di indossare la maschera. Un particolare che contribuiva a farla sentire nuda di fronte a un esercito infinito di ospiti. A notte inoltrata le doleva la testa per il continuo frastuono dell’orchestra e i piedi, infilati a forza in un paio di scarpe di un numero più piccolo – per rendere il piede più grazioso, come le aveva detto sua madre – sembravano andare a fuoco. Nessuno avrebbe visto i suoi piedi, sotterrati dai metri di stoffa della gonna ampia, e nessuno avrebbe più visto lei, una volta che le sarebbe stato permesso di mettere la sua maschera.

Rodolphus seguitava a starle addosso, fiutandola come un segugio anche quando tentava di perdersi tra la folla. La sua presenza rendeva l’aria calda e pesante dell’estate ancora più irrespirabile.

“È il momento di un bel ballo” le disse a un certo punto, scovandola riparata dai veli del gazebo.

“Io non ballo” replicò Bella, bruscamente.

Lui rimase spiazzato dal tono, in un primo momento, poi pronunciò le parole magiche.

“Tua madre ha detto che l’avresti detto. E ha detto di dirti che nessuna buona moglie rifiuta un ballo al proprio marito” disse, senza nascondere la bieca soddisfazione.

Bella avrebbe voluto lasciarsi andare a una crisi isterica senza precedenti, strapparsi di dosso l’abito e quegli stupidi tacchi. Invece, ingoiò l’ennesimo boccone amaro della serata, stupendosi della sua stessa arrendevolezza.

“Va bene. Permettimi di sottolineare che non siamo ancora né marito né moglie” disse, gelida, porgendogli la mano.

L’aria tronfia di Rodolphus non fu scalfita dalla sua osservazione.

“Considerala un’esercitazione. Più tardi potremmo fare qualche altro genere di prove” rispose.

Bella sfiorò la tempia, nascondendo finalmente la sua umiliazione.

Lui la trascinò in pista come una bambola di pezza, la strinse, troppo a tratti, la fece volteggiare e poi la riportò contro di sé, ribadendo con ogni gesto, ogni dito impresso sulla sua vita, che ormai lei era una cosa sua. Lei chiuse gli occhi più volte, dietro la maschera, immaginando di non essere realmente lì ma altrove. Era un trucco che funzionava sempre quando, da piccola, Druella la riprendeva per il portamento. “Per Salazar, Bellatrix, sembri un elefante zoppo”. Quando Rodolphus fece scivolare la mano destra oltre il confine del suo bacino e poi più giù, chiudere gli occhi non fu sufficiente. L’orchestra ripartì provvidenzialmente con un ritmo sfrenato e tutti si disposero per lo scambio delle coppie. Bella approfittò della confusione per sfuggirgli e rifugiarsi ai margini della pista. Facendo vagare lo sguardo per evitare di essere scoperta un’ennesima volta intercettò Andromeda e nella mente le si fece largo un’idea disperata.

Afferrò la sorella per un braccio e la trascinò fuori dal cerchio.

“Bella! Sei impazzita?” esclamò Meda, tentando di mantenere l’equilibrio.

“Scambiamoci le maschere” sibilò immediatamente Bella, slegando la sua in fretta e furia.

“Perché? Bella, per favore, cosa stai facendo?” mormorò Dromeda, prendendola per una spalla.

“Non ce la faccio, non ce la faccio” soffocò un singhiozzo ma la voce rimase tremante “Per favore balla un poco con lui”.

Meda toccò la tempia e fece riaffiorare i suoi occhi, spalancati dalla sorpresa.

“Non posso, se ne accorgerà” rispose, sconcertata.

“Sì che puoi. È praticamente buio, non distinguerà neppure il colore dei vestiti. Ti supplico, Meda”.

Forse fu la sua aria sconvolta a convincerla, forse la sua preghiera: Bella non l’avrebbe mai saputo.

Andromeda sfilò la maschera argentata e gliela porse, ottenendo in cambio la sua, nera come la notte.

Non riuscì a ringraziarla, perché Meda si dileguò in un istante. Poi, prima che potesse anche solo pensare a quello che sarebbe successo, qualcuno le si precipitò addosso. Lo sconosciuto le afferrò una mano e la riportò in pista, scaraventandola tra la folla con una risata.

Quando la prese per la vita e la strinse a sé, il cuore di Bella saltò a piè pari un battito.

“Sono ubriaco e, esclusivamente per questo, mi sto divertendo” le disse all’orecchio.

Sirius.

Aveva fatto un passo avventato ed era precipitata nel baratro.

Tentò di sciogliere il corpo ma non ci riuscì.

“Sei stanca?” le chiese lui, allontanandosi un poco e guardandola diritto in viso.

Se ne sarebbe accorto. Se ne sarebbe accorto!

Bella scosse la testa vigorosamente.

L’orchestra spiazzò tutti con un lento melenso lanciato senza preavviso.

“Oh bene, puoi riposarti!” disse Sirius, rallentando gradualmente il ritmo.

La musica era così alta che anche lui non parlò più, limitandosi a cullarla, una mano salda sulla sua schiena. Bella provò a controllare il respiro. Era, forse, la notte peggiore della sua vita.

Dall’altro lato della pista, intercettò Meda intenta a gestire le attenzioni pressanti di Rodolphus al suo posto e la sua mente ritornò alla conversazione che avevano avuto pochi giorni prima. Come aveva potuto accettare una follia simile? Si sarebbe spezzata in due e sarebbe successo da un momento all’altro.

Quando Sirius volteggiò per evitare una coppia barcollante, Bella finì con il capo contro il suo petto.

Aveva lo stesso odore di quando era bambino. Perfettamente identico a quello dei giorni in cui Bella ricordava di essere stata autenticamente felice. Quel pensiero la fece sentire debole.

“Andiamo, hai bisogno di riprenderti” disse lui, premuroso.

Tenendola per una mano, la guidò lontano dalla musica, seguendo un sentiero preciso che tagliava a metà il Giardino Est, fino alla serra.

I sensi di Bella urlavano il comando di scappare, il prima possibile, senza preavviso. Ma le sue gambe rifiutavano di obbedire.

Superarono la serra, arrivarono al Giardino Sud e Sirius le cedette il passo, facendola camminare davanti a lui.

Anche lì svolazzavano alcune lanterne, sfuggite ai festeggiamenti come loro.

“Perché lo stai facendo?” quella domanda le gelò il sangue nelle vene.

Lui scivolò nuovamente di fronte a lei: la maschera era sparita.

“Perché fai questo, Bella?” disse, allungando le dita fino al suo viso, sfiorandole la tempia.

Non rispose.

“Ti ho vista, l’altra mattina. Non so cosa credevo, magari che, per Merlino, non fossi in te, come sempre” mormorò, incredulo, lui “Ma anche ora… Perché?”.

“Non lo so”.

Non era la sua voce, no. Era la voce gentile di qualcun altro. Dopotutto, quella Bella, per lui, non era mai esistita.

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Capitolo 9
*** Always Summer ***


Capitolo 8

Always Summer

 

 

 

 

 

 

Fino al giorno in cui l’aveva scoperta distesa al suo fianco, Sirius credeva di aver tracciato dei confini precisi riguardo a cosa avrebbe dovuto pensare di Bellatrix. Dopo la notte trascorsa nella stanza di Andromeda, con la cugina più odiata stretta tra le sue braccia, ogni schema era andato perso, lasciandolo disarmato. Aveva ripercorso con la mente l’episodio per interminabili ore, dopo l’accaduto, senza trovare una pacifica conclusione; il momento inquieto in cui aveva aperto gli occhi, nella luce gelida che precede l’alba, era stato il peggiore: prima ancora che la sua mente rivelasse la verità, il suo organismo aveva lanciato il segnale d’allarme, rendendolo preda di una paura inspiegabile. Era stato l’odore. Non si era mai trovato tanto vicino a Bella e non avrebbe potuto registrare il suo profumo così in profondità da riconoscerlo… eppure, prima ancora di vedere il suo viso, la certezza che si trattasse di lei lo aveva colpito al cuore. La sua mano, posata sul fianco della cugina, era scivolata lentamente, pericolosamente, fino al costato; le dita erano inciampate in un osso dopo l’altro, rendendogli una prova certa. Aveva già toccato Andromeda e quello non era il suo corpo. Vicinissimo alle sue labbra, il collo pallido di Bella era rimasto scoperto dalla cortina dei capelli, adagiati sotto al capo, e la sua pelle gli rispediva indietro il proprio respiro. C’era un neo che aveva riconosciuto istantaneamente: era certo che l’avrebbe trovato, pur non conservando un ricordo del perché avrebbe dovuto saperlo, ne era stato sicuro prima ancora di posarvi lo sguardo. Il dolore diffuso che gli premeva contro le tempie era diventato trascurabile, in confronto a quello che stava accadendo. Metà del suo essere aveva urlato rabbioso il comando di alzarsi e sorprenderla o quantomeno fuggire senza guardare indietro, fingendo che quell’assurdo incontro non fosse mai avvenuto; l’altra metà era stata sconvolta da una sofferenza incomprensibile, più chiara e profonda di qualsiasi altra avesse mai sperimentato. Quando lo sguardo aveva preso ad annebbiarsi, Sirius era stato sul punto di credere che si sarebbe risvegliato dall’incubo, poi la nebbia, dopo essersi accumulata, era sparita, e così il processo aveva continuato a ripetersi più volte, fino a quando non aveva avvertito il cuscino inzupparsi sotto la guancia e qualcosa solleticargli la pelle. Erano lacrime. Non era riuscito a ricordare l’ultima volta in cui aveva pianto, né a spiegarsi il perché di quello sfogo inaspettato. Non sapeva di preciso neppure perché stesse piangendo. Istintivamente, si era proteso verso Bella, come guidato da una volontà incosciente, e aveva annullato la distanza, sprofondando tra i suoi capelli, fino alla nuca, aderendo a lei totalmente; l’aveva stretta forte a sé, chiudendo gli occhi e cancellando ogni altra cosa, ogni sopruso e ogni cattiveria, ogni vendetta, in quell’abbraccio disperato. Aveva compreso che era sveglia, quando l’aveva sentita lasciarsi sfuggire un singhiozzo; l’aveva ascoltata piangere a lungo, mentre gli teneva stretti i polsi come per non lasciarlo andare, credendolo addormentato. E, fino al limite estremo delle sue forze, aveva sperato, aveva pregato che niente di ciò che era accaduto tra loro, in passato, fosse realmente successo: che, da qualche parte, esistesse una speranza per una vita di ricordi alternativi, dolci, perfetti.

Da quella mattina in poi, era scesa l’oscurità.

Non era riuscito a sciogliere il nodo, gli si era incastrato in un punto specifico del petto e, a tratti, soffocava il respiro. Il dolore alle tempie non era più andato via e neppure la sensazione di smarrimento. In quei quattro giorni nessuno dei tentativi compiuti era servito a razionalizzare l’accaduto e neppure a ipotizzare un significato. Aveva brancolato nel buio. Aveva finto di non sapere, con Andromeda, con Bellatrix, in un tentativo estremo anche con se stesso. Non era servito. Le sensazioni, marchiate a fuoco sulla sua pelle, impossibili da scrollare via, avevano tracciato il punto di non ritorno. Poi, quella stessa notte, l’incontro: l’aveva vista supplicare Andromeda, rimanere finalmente sola; l’aveva tratta a sé, fingendo, ancora, con il solo scopo di estorcerle la verità. C’era una speranza? E, se esisteva, perché l’aveva taciuta? Prima, però, il ballo e il suo capo premuto contro il petto, il respiro spaventato di una bestiola in gabbia, le labbra strette e una paura disarmante, così poco da lei. Le certezze di Sirius si erano infrante definitivamente. Un passo indietro, il mondo era schiavo di un equilibrio rassicurante – anche crudele, certo, e forse proprio per questo più autentico -, un attimo dopo tutto era precipitato nella confusione, lasciandolo incerto persino su ciò che avrebbe dovuto fare, pensare. Finanche in quel particolare e delimitato momento, con Bellatrix priva di alcuna difesa, non aveva idea di cosa avrebbe dovuto dire. Rimpianse la rabbia apparentemente cieca della cugina e, dentro di sé, quasi implorò di vederla riaffiorare improvvisa. Bella, invece, lo guardava finalmente diritto in viso, con gli occhi grandissimi, smisurati, le pupille dilatate all’inverosimile, come a chiedergli “E ora?”. Fu peggio di qualsiasi altra cosa sarebbe potuta accadere.

Giriamo i tacchi, balbettò una voce nella sua mente, giriamo i tacchi e continuiamo a fingere di odiarci, come tutti vorrebbero, come sappiamo di dover fare.

Fu più forte di qualsiasi buonsenso, il desiderio di comprendere perché. Remus, nella sua lucidità adulta, lo diceva sempre, che il suo istinto un giorno lo avrebbe ucciso, che la sua incapacità di fermarsi e ragionare, condurre sensazioni e emozioni su sentieri sicuri, gli avrebbe dimezzato la vita. Era, naturalmente, tutto vero.

“Io non capisco” mormorò, senza chiedersi se quell’assurdità fosse una trappola costruita sotto ai suoi piedi, senza pensare al pericolo.

Bella, apparentemente altrettanto devastata da quell’incontro, pareva essersi cristallizzata in una maschera di terrore.

Sirius tornò a essere il bambino dei suoi undici anni, quando ancora si aggirava implorante nella sua stessa casa, elemosinando briciole d’attenzione che gli venivano regolarmente negate, abbracci e carezze a lui scrupolosamente rifiutati; mentre il vuoto intorno si allargava e scavava la voragine dalla quale non sarebbe più uscito.

Non hai ancora imparato? la voce del suo io si fece dura, giocando l’ultima carta, quella tagliente, non ti vuole. Nessuno ti vuole. Hai perso la tua famiglia dentro a un cappello.

Si lasciò sfuggire una risata amara, chinando la testa. Touché, mia saggia metà.

“Cosa stai tentando di fare?” continuò, imperterrito, forzandosi in un tono asettico “E’ una specie di passatempo, il tuo? Credi davvero che non mi vendicherei, se cercassi di farmi del male?”.

Ancora una volta.

Cosa desiderasse sentirsi dire, Sirius non lo sapeva neppure. Forse una risata spietata che  avrebbe spiegato tutto, ancora una volta. L’ennesimo pugnale affondato fino all’elsa, giù nel suo amor proprio che ormai era un colabrodo: faceva acqua da tutte le parti e il suo destino era quello di un annegato. Spesso, quando pensava al futuro, non vedeva altro che il nulla. Con quelle premesse, che altro avrebbe mai potuto esserci?

Dammi l’ennesimo buon motivo per odiarti, Bella; li ho inchiodati tutti nella memoria con la perizia di un collezionista.

La rabbia, ecco, la rabbia avrebbe potuto salvarlo, temporaneamente.

Dammi una scusa per aggredirti e mandare tutto irrimediabilmente in malora.

Bella prese a scuotere la testa, lentamente, come per negare qualsiasi scelta presa fino a quel momento e tutte quelle che avrebbe compiuto da lì in poi.

“Vuoi farmi del male?”.

Bella negò.

“Vuoi colpirmi?”.

Bella continuò a negare, con tutto il corpo scosso dai brividi.

“Vuoi sposarti?”.

Le sue mani corsero al viso, una andò a coprire la bocca, l’altra vagò dietro il collo, tra i capelli, istericamente. Il suo respiro si fece corto, trasformandosi presto in un continuo singhiozzo senza senso, come se fosse sul punto di soffocare.

Sirius le andò vicino, trasalì quando lei gli artigliò la spalla e lo trasse a sé, le braccia sconquassate dalla crisi e gli occhi spalancati, fermi su di lui, in cerca d’aiuto. Salvami, sembravano implorare.

 

Salvami.

Avrebbe voluto urlare. Non c’era tregua, stava morendo.

Avrebbe voluto scoppiare in un pianto liberatorio e invece tutto il suo essere pareva essersi asciugato. Non avvertiva neppure il sangue nelle vene.

Solo il bisogno di aria, di respirare, interrotto, spezzato dal terrore.

Stava scivolando via e lì in fondo, dove sarebbe certamente finita, nessuno avrebbe più potuto salvarla. Sirius le stava davanti ed era l’ultimo appiglio in un oceano di pura follia.

È troppo tardi, vero? Così tardi che ho già il suggello della morte impresso in fronte.

Lo sentiva bruciare.

Avrebbe voluto parlare e spiegare tutto quello che le faceva esplodere la testa, confondere il giorno e la notte, inciampare nei suoi stessi passi.

Mi sono spinta tanto oltre da non poter tornare più indietro.

Il passato le stava stringendo le mani, caldo come nient’altro. Sirius stava parlando ma Bella non era in grado di comprendere.

Le sue labbra si muovevano lentamente, scandendo il suo nome come la formula di un Incantesimo. I ricordi cominciarono a martellarle il cuore senza pietà.

 

Sirius si tese verso di lei, guardandola con ammirazione.

Aveva dieci anni, quel giorno, e splendeva come il tramonto.

“Mi piace qui” le disse, sorridendole “Vorrei stare sempre qui, con te. Vorrei che fosse sempre estate”.

 

Perché ti ho cancellato Perché ti ho cancellato Perché ti ho cancellato

Sirius le tirò con forza le dita, facendole male, strappandole dalla sua bocca una per una.

Iniziò ad avvertire il rumore del suo stesso pianto; era terrificante, come quello di un maiale destinato al macello.

“Respira. Ti prego” la supplica di Sirius fece breccia nella sua coscienza, un lampo in mezzo alla fine del mondo.

Lo vide allungare le mani fino al suo torace, lo sentì premere sul costato.

“Sono qui, Bella. Respira”.

Tentò di riportare le dita alle labbra ma lui glielo impedì, scostandola bruscamente e risalendo fino alla sua gola, sollevandola e tendendola all’indietro. A quel movimento, Bella iniziò a vedere solo la volta celeste, trapunta di milioni di stelle. Infinita.

Il respiro smise di essere un singhiozzo e rallentò fino allo stadio di un ansito concitato. L’aria riprese a scorrere dentro e fuori da lei; intanto, lassù, il cielo si consumava in una bellezza straniante.

Le ultime tracce del delirio andavano attraversandole la mente. Avrebbe voluto essere proprio lì, dispersa. L’orgoglio immenso della sua famiglia si tramandava di generazione in generazione, nei figli che portavano sulle loro spalle il peso dei nomi delle stelle e delle galassie di mezzo universo. Bella non si era mai sentita un astro splendente, come di certo sua madre avrebbe voluto. Del resto, come anche gli antichi raccontavano, Bellatrix, “la guerriera”, non era altro che un mediocre ambasciatore: dietro di lei sorgeva Sirio, di una luminosità seconda unicamente al Sole. Non era stata forse questo, per gran parte della sua vita? Aveva annunciato la venuta della punta di diamante di un intero Casato. Poi, dopo la disfatta di ogni piano, nessuno si era più preoccupato di renderle la luce che meritava.

Stava davvero respirando, finalmente. Sirius la riportò dritta, reggendole con una mano la nuca; fu dolorosamente consapevole delle sue dita incastrate tra i capelli, del braccio con cui la cingeva, spaventato. Cosa temeva, ora?

Erano tornati al passato senza nessun preavviso.

Bella si concesse il lusso di guardarlo davvero negli occhi, ricambiata dopo un’eternità incolmabile. Avrebbe voluto che anche lui potesse capire la loro natura di entità gemelle, orientate su poli opposti ma identiche in ogni sfaccettatura, ogni sentimento e insofferenza; ugualmente ferite e oramai irrecuperabili, qualunque fosse stata la strada che avrebbero scelto. Per entrambi, tutto era già finito: occorreva aspettare che anche il tempo facesse il suo corso e poi si sarebbero ritrovati, alla fine del cammino.

Essere così vicina a lui smise di farle paura e divenne solo, terribilmente, triste.

Mi sei mancato. Ho cercato, sai, di ripetermi che tutto è più giusto così com’è. Ho fallito miseramente.

Le sue confessioni inespresse le scorrevano nella mente; sperò che lui potesse capire, perché non sarebbe riuscita a trovare la forza di parlare. Sciocca, stupida Bella, forza per parlare, di quella ne hai a sufficienza, le ammissioni, invece, sono un mondo perduto.

C’era un ricordo preciso di cui aveva grande nostalgia, aveva a che fare con le ciglia lunghe di Sirius; un ricordo che, a ben vedere, non era esistito. Se i ricordi erano solo dentro di lei e mai in qualcun altro, chi avrebbe potuto garantire che non si fosse trattato di un sogno?

Si allungò fino al suo viso, tendendo quel che restava del suo corpo verso di lui. Posò la bocca sulla sua, sfiorandogli le labbra in un contatto debole, dapprima, poi del tutto incontrollabile. Chiuse gli occhi, per dimenticare quel che stava facendo, proprio nell’istante in cui la sua volontà pareva esprimersi nel modo più schietto e sincero che avesse mai provato. Sirius era immobile, non rispondeva, non respirava, mentre lei si concedeva quel bacio. Non era una resa né una vittoria; rassomigliava a un requiem cupo, recitato pelle a pelle insieme a quello che era e sarebbe stato il suo peggiore nemico.

 

Io ti amo”.

 

Non appena Sirius accennò una reazione, Bella si scostò, sfuggendo al suo abbraccio e barcollando di un passo lontano da lui. Non voleva sapere cosa ne sarebbe stato di quel momento; mentre continuava a scrutarlo, sempre più perso in una confusione palese, era già certa di ciò che avrebbe fatto. Quante volte le era già sembrato di non avere altra scelta? Quante volte il futuro si era mostrato così chiaro? Niente di quel che era stato poteva essere recuperato e da quell’unico errore infantile gli eventi si erano moltiplicati, allungando un abisso di ostacoli insormontabili tra quello che avrebbe potuto essere e l’impietoso corso delle loro esistenze. Così chiaro.

“Mi dispiace” gli disse.

No, non era vero. Stava cadendo a pezzi.

Finalmente, lui comprese e tentò di proteggersi inutilmente: nient’altro che una frazione di tempo e la bacchetta era già puntata al suo indirizzo.

“Oblivion”.

Bella restò a guardare i suoi occhi che si svuotavano, lo sguardo ottuso che le restituirono, insieme a un biglietto di sola andata per l’oblio. Aveva appena seppellito l’ultima traccia umana di se stessa dentro alla sola persona che probabilmente avrebbe potuto amarla come lei voleva, non fosse stato per un’unica pecca incorreggibile.

Gli diede le spalle, le mani tremanti strette attorno al corpo come uno scudo, e si allontanò solcando i Giardini. Di lì a poco si sarebbe risvegliato dalla catatonia e non voleva essere nei paraggi, quando sarebbe accaduto. Affrontando a pedate l’erba grassa si ritrovò a formulare un ennesimo pensiero di pura follia. I nemici, mia cara Bella, i nemici sono coloro che abbiamo amato di più. A tutti avrebbe dichiarato la sua guerra personale, affrontando la prima battaglia con un colpo mancino diretto alla sua stessa memoria. Prima, però, avrebbe pianto sui morti, si disse, superando l’uscio della serra e riparando tra le sue fronde carnivore; del resto, il primo cadavere da sotterrare sarebbe stato il proprio. Stremata, si accasciò nell’erba e scorse, a un tiro di sasso da lei, una pergamena accartocciata; languivano entrambi su un fianco, lei e quel pezzo di carta, così allungò la mano e la stese con meticolosità, spianando le pieghe. Il foglio le rispedì contro una calligrafia conosciuta, più di quello però fu il messaggio a risvegliarle i sensi.

“Se lei lo ama, perché non dovrebbe lasciare tutto questo schifo e fuggire con lui?”.

 

*

 

Bella aveva atteso la conclusione della festa, l’intera notte e un pugno di ore prima del giorno; nella sua mente, aveva ripetuto i passi del tradimento alimentando la rabbia. Quando era stato il momento di agire, l’aveva fatto senza rimorsi.

 

*

 

Fino a un istante prima, Sirius era concentrato sul dolore intenso che gli si era insinuato dietro gli occhi. Doveva aver bevuto troppo, perché della sera precedente ricordava ben poco e, non fosse stato per il resoconto di Andromeda, avrebbe giurato di non aver partecipato a nessun festeggiamento. Sembrava lo avesse fatto, invece, e a lungo. Era uno dei validi motivi per cui non avrebbe dovuto condividere la colazione con i parenti, quella mattina, invece era stato costretto da Meda ad accompagnarla, con la stupida scusa di un sostegno morale. Per che cosa, poi? Tutt’un tratto, Bellatrix aveva fatto la sua comparsa; aveva un sorriso gelido stampato in faccia e pareva stesse semplicemente godendo dell’attenzione attirata su di sé con quell’entrata teatrale; almeno così gli era sembrato, fino a quando non l’aveva vista sventolare una pergamena di fronte al pubblico parzialmente assonnato.

“Se mi permettete, vorrei leggervi una cosa” esordì la cugina, con tono vivace.

Zio Cygnus sollevò lo sguardo dall’edizione domenicale del Profeta ma non disse nulla; zia Druella, invece, si lasciò sfuggire un sospiro insofferente.

“Cara, non sento davvero la necessità di ascoltare annunci o sciocchezze del genere” la redarguì, mitigando il fastidio con un abbondante sorso di Succo di Zucca.

“Niente di tutto questo, madre” replicò Bella, per nulla scalfita nel suo entusiasmo.

Cosa la eccitasse in quel modo era impossibile prevederlo ma Sirius era certo che non si trattasse di nulla di buono e, a conferma di ciò, un senso di nausea lo fece istintivamente allontanare dal tavolo. Spingendosi rumorosamente indietro scatenò l’insofferenza di Walburga, sotto lo sguardo vigile di suo padre, intento a godersi la prima pipa della giornata.

“Stai composto e ascolta quello che dice tua cugina” ordinò sua madre.

Andromeda lanciò a Sirius un’occhiata ammonitrice. Niente drammi. Accanto a lei, Narcissa inarcò le labbra in un sorrisetto soddisfatto, credendo di non essere vista, continuando a stendere una quantità infinitesimale di marmellata sulla metà di una fetta di pane.

L’intero quadro pareva l’esercizio di stile di un pittore psicotico.

Mentre giurava a se stesso che non si sarebbe più fatto coinvolgere in nulla di simile, neppure per Andromeda, Bellatrix iniziò la lettura.

Caro James, ho finito la scorta di buona volontà”.

Sirius scattò in piedi come una molla, facendo crollare la sedia ai suoi piedi con un tonfo sordo. Al suo fianco, Regulus trasalì e fece ribaltare una caraffa d’acqua sul tavolo, inzuppando se stesso e la tovaglia.

“Razza di…” l’insulto volgare che Sirius pronunciò riecheggiò tra i marmi della sala da pranzo.

Sua madre gli conficcò le unghie nel braccio, strattonandolo.

“Come osi rivolgerti così a Bella?” sibilò, iraconda.

“Dove l’hai trovata? Frughi nella mia roba, adesso?” si rese conto di urlare ma non gli importava realmente.

Ritrasse il braccio dalla furia di Walburga, ricavandone un graffio profondo.

“Sta fermo dove sei!” strillò lei, alzandosi a sua volta e piantandogli davanti al naso un dito affilato “Non costringermi a punirti come un bambino”.

“È la mia posta privata” ringhiò Sirius, a un soffio dal suo volto.

“Privata?” la voce profonda di suo padre si impose su entrambi “Cosa vorrebbe dire privata?”.

“Nulla che possa riguardarvi. Non è altro che una stupida lettera” disse Sirius, tentando di apparire conciliante, nell’ultimo tentativo di evitare il disastro.

Sapeva precisamente come proseguiva quella lettera e non erano i beffeggi rivolti ai propri genitori che lo allarmavano. Andromeda assisteva a quella scena pietosa come tutti gli altri, immobile e ancora inconsapevole.

“L’intemperanza alla quale ti abbandoni mi fa rammaricare di averti messo al mondo” ribatté pacatamente Orion, senza guardarlo “Ora siediti e risparmiami la fatica di obbligarti a obbedire”.

Walburga mormorò un Incantesimo e la sedia tornò dritta, colpendolo alle ginocchia e piegandolo alla sua volontà.

Dall’altro capo del tavolo, Bella sorrideva ferina.

“Te la farò pagare” le sputò contro Sirius, stringendo i pugni fino a farsi dolere le dita.

“Taci!”.

Sua madre gli assestò uno schiaffo in pieno viso; sentì Andromeda gemere ma non riuscì a pensare ad altro che a quello che sarebbe successo. L’angoscia era più forte dell’umiliazione. Cercò lo sguardo della cugina preferita, mentre Bella riprendeva a leggere a voce alta.

Non resisto più in questo inferno di buone maniere, i miei genitori sono più intollerabili di quanto ricordassi. Mia madre si aggira per Englelfield starnazzando i suoi ordini a chiunque le capiti a tiro, perciò ho optato per l’esilio”.

Walburga prese a respirare profondamente dalle narici, come faceva sempre nei momenti di tensione.

Mio padre finge di non sentirla e si nasconde a fumare dove capita, come sempre. Inutile dire che, quando sono presente, continuo a essere il bersaglio preferito. Oh, povero caro” squittì Bella, fingendo rammarico.

Meda incrociò finalmente i suoi occhi e Sirius mormorò a fior di labbra delle scuse; lei non capì in tempo.

“Arriva la parte che preferisco” la voce di Bellatrix si fece improvvisamente dura “Credo che anche Meda mi abbia abbandonato. Ero certo che amasse sinceramente Tonks e a farmelo pensare non sono stati solo i loro incontri notturni. Come fa a sopportare tutto questo? Se lei lo ama, perché non dovrebbe lasciare tutto questo schifo e fuggire con lui?”.

Nella stanza calò un silenzio tombale, le labbra di Andromeda impallidirono.

È la fine.

 

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Capitolo 10
*** Then The Quiet Explosion ***


Capitolo 9

Then The Quiet Explosion

 

 

Sirius varcò la porta della sua camera e la richiuse dietro di sé con un calcio: l’urto fece tremare le pareti ma non provocò nessun suono; Walburga l’aveva Incantata tempo prima, privandolo dell’adolescenziale soddisfazione di comunicare una protesta. Il pensiero aumentò esponenzialmente il suo senso di frustrazione e anche la nausea; in preda alla furia afferrò un lembo del sontuoso piumone che copriva il letto e scoperchiò il materasso, schiantando tutto quello che gli capitava a tiro dall’altra parte della stanza. Nella foga colpì con un ginocchio la struttura del baldacchino e il dolore si aggiunse a tutto il resto, facendolo crollare sul tappeto. Restò immobile per diverso tempo, ad assorbire il male con i denti stretti e i pugni serrati.

Non gli avevano permesso di salutare Andromeda, costretta all’isolamento, a meditare sul tradimento. Zio Cygnus si era premurato di comunicare a tutti loro che l’aveva condannata al digiuno, con una sorta di disgustoso imbarazzo, come scusandosi del fatto che, fino a quel momento, non aveva potuto spingersi oltre. Le mani di Sirius, anche chiuse com’erano, continuavano a tremare dalla tensione.

Gli occhi di Meda, pieni di paura e sgomento, erano stati l’ultima cosa che aveva visto prima di essere trascinato fuori dalla sala da pranzo contro la sua volontà. Dopo qualche resistenza suo padre lo aveva afferrato con decisione dietro il collo, come si fa con gli animali disobbedienti, e l’aveva sollevato con forza dalla sedia dove si era arroccato. Aveva tentato di richiamare l’attenzione della cugina - avrebbe voluto urlare le sue scuse per un errore così stupido e terribile se a fermarlo non ci fosse stata la paura di aggravare ancora di più la sua posizione – ma lei non si era voltata, aveva continuato a fissare Bellatrix come se guardasse un’estranea. Sirius era passato nel mezzo del percorso tracciato da quello sguardo, insieme ai suoi genitori e a Regulus: sul volto di Bella non c’era un briciolo di umanità, si godeva il momento come se si trattasse di uno spettacolo e non della vita di sua sorella che andava in pezzi. Appariva quasi felice. Non riuscì a controllarsi e la rabbia gli riempì gli occhi di lacrime. Meda, la sua Meda, la stessa che aveva riletto senza sosta la lettera di Tonks, consumandola con le dita, assottigliandola sotto il peso dei suoi pensieri, ripetendone le parole a mezza voce nelle notti insonni; la sua Meda di fronte a un plotone d’esecuzione che ne avrebbe piegato la volontà fino al limite estremo, fino all’annullamento. A Sirius mancò il respiro. Perché, perché doveva succedere? Neppure durante l’ultimo giorno trascorso a Englefield, con zia Druella nascosta a spurgare le sue immense vergogne e Narcissa e Bellatrix sparite chissà dove, gli era stato permesso di vedere Meda. Walburga, subito dopo il rientro con la Metropolvere in Grimmauld Place, aveva chiuso la faccenda con un sospiro affettato, sibilando un soddisfatto: “Ora sanno cosa si prova”; poi l’ennesima minaccia ringhiata a un palmo dal suo viso, un indice puntato a fondo nel suo petto e l’occhiata di disgusto che negli ultimi cinque anni non era mai mancata: “Non ti permetteremo mai di disonorarci in questo modo”.

Sirius immerse le dita nei capelli, nel tentativo di tenerle ferme, e si forzò in un lungo respiro. Le domande gli investirono la mente come una frana: quando avrebbe rivisto Andromeda? (Quando sarebbe finalmente e irrimediabilmente impazzito?) Quando avrebbe rivisto Andromeda? (Sarebbe stata la stessa Andromeda di sempre?). Scivolando sempre più in basso, trascinato dalla marea degli interrogativi, si addormentò all’improvviso, esausto, rannicchiato contro la parete.

 

*

 

Andromeda se ne stava piegata su un fianco, le ginocchia nude raccolte contro il petto e gli occhi, sbarrati, fissi contro il muro della sua stanza spoglia. Sua madre aveva fatto portare via tutto: prima i vestiti, poi le borse, in ultimo ogni libro babbano che era riuscita a scovare: li aveva inceneriti personalmente; Bella aveva assistito a una crisi isterica di fronte alla sfera piena di specchi che avevano sganciato dal soffitto, insieme al poster indecente che Meda aveva fissato alla porta. Non erano ancora partiti solo perché suo padre aveva deciso che avrebbero rispettato la tabella di marcia, senza destare inutili sospetti in merito a quanto era accaduto; così era stato stabilito che sua sorella avrebbe scontato la parte più dura della pena lì a Englefield. Non era la prima volta che andava a trovarla e sapeva che Cissy aveva fatto lo stesso senza ottenere in cambio nulla che non fosse silenzio. Più di ogni altra cosa, Bellatrix aveva bisogno che sua sorella finalmente mostrasse di comprendere cosa l’aveva spinta a compiere un gesto tanto estremo; che capisse quanto intensamente desiderasse proteggerla. Avrebbe fatto di tutto, pur di salvaguardare il loro legame. Nessuno pareva averne il coraggio: lei, invece, era disposta a correre il rischio di lasciarsi odiare pur di fare le cosa giusta. Andromeda doveva sforzarsi di accettarlo o, prima o poi, avrebbe commesso qualche errore così pericoloso da allontanarla per sempre dalla famiglia. Non avrebbe mai potuto sopportarlo.

Tentò di non soffermarsi a lungo a riflettere su quanto apparisse pallida e sofferente, né sul bicchiere vuoto che faceva mostra di sé sul comodino. I tre canonici giorni di digiuno imposti da suo padre sarebbero dovuti finire quella sera: continuò a pensare a questo e a nient’altro per un lungo minuto. Soffocò la pena e anche la curiosa sensazione di disagio che le strozzava il respiro, ricordando a se stessa l’urgenza che l’aveva spinta a dirigersi subito nella camera della sorella non appena di ritorno dall’ultimo viaggio, senza neppure sfilarsi il mantello. Il venticinque di agosto andava avvicinandosi a grandi passi, insieme ai suoi inquietanti doveri da futura sposa e a un giuramento che avrebbe cambiato le sorti del Mondo Magico. Doveva mettere al sicuro Andromeda prima che fosse troppo tardi.

“So che mi ascolti” esordì, pentendosi subito dopo del tono duro che aveva usato “Devo parlarti di una cosa molto importante”.

Non giunse nessuna risposta, solo un battito di ciglia su uno sguardo ancora del tutto assente. Bella abbassò gli occhi sulle sue mani e si impose di non esitare.

“So che hai dei sospetti sui miei viaggi degli ultimi due anni e so che circolano delle voci al riguardo. Sono qui per spiegarti tutto quello che dovresti sapere e per metterti in guardia, Andromeda. Io voglio aiutarti” continuò.

Le raccontò del primo incontro, del reclutamento e degli allenamenti, di quanto le fosse costato, fisicamente, lasciarsi accettare come rappresentante della loro famiglia. Le spiegò il grande progetto che Lui aveva per tutti loro, le rivelò che presto l’ordine delle cose sarebbe stato sovvertito.

“Immagina un mondo pulito, Meda, dove noi Maghi non dovremo nasconderci né temere che qualcuno possa minacciare la nostra esistenza. Nessuno, mai più, potrà farci del male” le disse, spingendosi in ginocchio fino al suo letto e afferrandole una mano inerte “Io parteciperò alla distruzione di questo sistema perverso e poi potremo costruire insieme quello che verrà dopo”.

Tentò di farla ragionare sul fatto che, prima, avrebbero dovuto eliminare coloro che si rifiutavano di accettare un progetto tanto grande e rischioso, quelli che li avevano traditi rigettando il sangue magico, mischiandosi a chi per secoli aveva dominato senza averne l’autorità e neppure il potere.

“Tutto quello che è stato rovinato, noi potremo ricostruirlo, capisci? Te lo immagini?” le disse, scostandole una ciocca di capelli dalla guancia “Io ti voglio con me, quel giorno. Non dovrai sporcarti le mani: lo farò io per tutti voi. Dovrai solo aspettare insieme a Cissy, a mamma e papà e poi potremo vivere in un mondo perfetto. Io voglio questo per te”.

Un mondo dove non sarà più necessario sposare qualcuno per garantirsi la sopravvivenza e scampare all’oblio.

Le posò un bacio sulla fronte.

“Io devo proteggerti. Lo capisci? Se dovrò farti ancora del male, lo farò, anche se mi odierai. È un prezzo che sono disposta a pagare” le sussurrò all’orecchio.

Mentre erano così vicine, il ricordo improvviso del suo respiro contro la camicia di Sirius le attraversò la mente. Lo ricacciò indietro ingoiando a vuoto, come un boccone ingombrante e amaro. Non adesso. Mai più. Fu in quel preciso istante che Andromeda prese a stringerle forte le dita, rianimandosi. Si allontanò un poco per guardarla in viso e la trovò insperatamente presente, come se si fosse appena svegliata da un lungo sonno.

“Perdonami” mormorò solo quella parola.

Per Bellatrix fu sufficiente: ci sarebbe stato il tempo per le scuse e anche quello per le spiegazioni. In quel momento sentiva solo l’impellente necessità di un lungo abbraccio.

 

“Non so davvero cosa pensare”.

Suo padre lasciò che Narcissa gli colmasse il secondo bicchiere di Whisky Incendiario, sotto lo sguardo agitato della loro madre, che si tormentava una ciocca sfuggita alla crocchia severa.

Bella affondò la schiena nel velluto imbottito, lasciandosi sfuggire un sospiro esausto.

“Sono certa che si sia trattato di un momento di debolezza. Non vorrete realmente basarvi sulle parole di Sirius…” disse, scrutando attentamente i genitori, uno alla volta.

Sua madre continuava a sembrare del tutto sconvolta, scatenando la sua irritazione.

“Chiaramente Meda non ama quel sudicio Mezzosangue, altrimenti non avrebbe implorato il nostro perdono. Deve aver preso coscienza di quella che è stata solo una pericolosa inclinazione e se ne è pentita. In effetti il ritrovamento della lettera è stato provvidenziale: ci ha permesso di porre rimedio prima che le cose precipitassero” continuò Bella, decisa.

“Non riesco a capire come sia stato possibile questo incontro” disse suo padre, fissando il tappeto e scuotendo la testa.

“Oh, Cygnus” squittì sua madre, arricciando le labbra “Io te l’avevo detto, te l’avevo detto che eri troppo indulgente. Se avessi seguito il mio consiglio…”.

“Per Salazar, Druella! Ancora questa storia?” ringhiò in risposta suo padre “Se avessi seguito il tuo consiglio ora nostra figlia sarebbe sposata con un mentecatto. Le alleanze matrimoniali vanno stipulate con criterio: un concetto che sembra andare al di là della tua portata”.

Sua madre incassò il colpo con eleganza, abbassando lo sguardo e tornando a tacere; Narcissa allungò una mano sulla sua schiena, accennando una carezza lieve e fissandola con apprensione.

Bellatrix si interrogò fuggevolmente sull’identità dell’erede idiota che aveva sollevato l’indignazione di suo padre, interrompendo il flusso dei pensieri prima che iniziassero a percorrere confini pericolosi. Dal giorno della lettera stava spendendo gran parte delle sue energie nel controllo della coscienza, rinunciando anche al sonno per evitare incontri spiacevoli con una parte di sé che presto avrebbe provveduto a estirpare. Strinse le mani attorno ai braccioli della poltrona, in un riflesso involontario.

“L’ho trovata sinceramente pentita e affranta per il grande dolore che ci ha arrecato” disse, decisa.

In realtà Meda aveva fatto poco altro che piangere e balbettare qualche frase sconnessa, mentre le si abbarbicava addosso come un bambino che non sa nuotare, ma l’unica cosa a cui pensava Bella, in quel momento, era al modo più rapido per riempire lo stomaco della sorella con  qualcosa che non fosse acqua.

Lanciò uno sguardo significativo a Cissy, quando fu certa che non potesse essere intercettato dai loro genitori.

Aiutami.

“Potrebbe essersi spaventata per via del fidanzamento di Bella. L’idea dell’allontanamento dalla nostra amata sorella, il pensiero di un matrimonio imminente…” intervenne Narcissa, con veemenza.

Sua madre spalancò gli occhi e la bocca in un’espressione folle.

“Ma cosa potrebbe mai esserci di così orribile in un matrimonio?!” esclamò, sconcertata.

Bella lasciò vagare lo sguardo sugli arazzi dell’ampio salotto che era stato eletto come quartier generale. Si sentiva direttamente responsabile per il comportamento sconsiderato di Andromeda, le sue crisi dovevano averla impressionata profondamente, fino al punto di terrorizzarla e spingerla direttamente nelle braccia del nemico. Era stata stupida ed egoista. Annotò nella mente l’ennesimo

codice infranto che le era stato ripetuto come una preghiera fin dall’infanzia: mai lasciarsi andare. Mai esternare emozioni che superassero la barriera imposta dalla decenza; le labbra di Sirius contro le sue; il sapore che le era rimasto nella bocca e sembrava non andare più via.

Si alzò in piedi all’improvviso, intrecciando le braccia intorno al corpo, e suo padre le lanciò uno sguardo interrogativo.

“Credo solo che non sia il momento per un simile scandalo” disse, voltando le spalle a tutti loro.

“E con il matrimonio così imminente!” sospirò con tono angosciato sua madre.

“Non sapete proprio parlare d’altro, Madre?” Bella non sollevò neppure lo sguardo, mentre riempiva un bicchiere di Whisky anche per sé “Credetemi, presto ci saranno motivi molto più seri perché il nome della nostra famiglia non debba essere associato a quello di un Mezzosangue”.

Li uccideremo tutti, pensò, mandando giù un lungo sorso. L’intento era stato piuttosto chiaro fin dal principio ma negli ultimi sei mesi ne avevano parlato esplicitamente, formulando piani e stabilendo strategie di attacco programmatiche. Bella non era mai stata spaventata dall’idea di togliere la vita a qualcuno.

Quando si rivolse nuovamente verso i suoi genitori, nel silenzio che era calato dopo l’ultima osservazione, li sorprese a fissarla con imbarazzo. Entrambi sapevano tutto quel che c’era da sapere sulle sue frequentazioni e lo stesso valeva per la maggior parte dei padri e delle madri dei suoi compagni: eppure vigeva il tacito accordo di non discuterne affatto, di non farvi mai riferimento, perché a certe cose si poteva solo alludere e parlare di assassinii in famiglia non era buon costume. Inoltre, fingere di non essere a conoscenza delle attività dei figli avrebbe permesso a tutti loro di restare al di fuori di ogni possibile pericolo o scandalo.

Sua madre tirò stizzita una ciocca, prima di fermarla con un gesto nervoso dietro l’orecchio, ma non ebbe il coraggio di aggiungere altro; suo padre si schiarì energicamente la voce.

“Dunque…” disse “Partiremo domattina, ho già dato istruzioni ai Domestici”.

“Questa sera Meda potrà mangiare?” chiese Bella, dopo aver vuotato il bicchiere.

“Sì”.

Bella non avrebbe mai dimenticato lo sguardo che suo padre le rivolse, prima di congedarla: i suoi occhi tradivano ammirazione e paura. Prese improvvisamente coscienza del fatto che, se non avesse posseduto motivi ben più profondi, quello sguardo sarebbe bastato per giustificare ogni singolo cadavere calpestato sul suo cammino.

 

Quando Bella fece ritorno al piano superiore aveva con sé cibarie sufficienti per una cena abbondante; era anche riuscita a sottrarre una fiaschetta di Idromele dalle cucine, dopo essersi liberata dei Domestici: lei e Andromeda lo avrebbero diviso, avrebbero mangiato insieme e poi parlato. Le cose sarebbero tornate ad essere come dovevano.

Non appena varcò la soglia, Bella realizzò l’assenza della sorella. Il letto era disfatto e vuoto.

“Meda?” chiamò, riaffacciandosi sul corridoio.

Forse alla fine aveva deciso di fare il bagno, come lei le aveva suggerito prima di scendere. Entrò nella camera per posare il vassoio sul comodino e poi raggiungerla nella stanza accanto; i suoi progetti a breve termine si infransero su un rettangolo di pergamena bianca, invisibile tra le lenzuola se non fosse stato sporcato da una macchia d’inchiostro recitante il suo nome. Allungando la mano davanti a sé la vide tremare; afferrò la lettera come in trance, ripercorrendo con gli occhi i tratti esitanti vergati da una piuma incerta, la aprì senza riuscire a respirare.

“Ti vorrò sempre bene”.

 

*

 

Sirius vide il gufo planare nel crepuscolo, diretto verso il terrazzo di Grimmauld Place, quando era ancora lontano; restò immobile a osservarlo avvicinarsi, una sigaretta accesa tra le labbra, fino a quando non lo riconobbe: era l’allocco grigio di Andromeda. Scattò in piedi un momento prima che l’animale planasse con un rapido movimento circolare sopra alla sua testa, per poi atterrare con grazia sul cornicione. Sfilò il rotolo di pergamena che portava legato con un nastro alla zampa destra e lo distese sulla pietra, piegandosi verso le luci notturne che giungevano dalla strada. Il gufo non attese oltre, spiccando nuovamente il volo mentre lui era intento a decifrare le prime righe.

“Sono scappata. Sono al sicuro. Ho dovuto farlo. Sono certa che i miei genitori non daranno la notizia prima di essere sicuri che non tornerò: presto scriverò anche a loro. Fino a quel momento non parlarne con nessuno. Ho bisogno di raccontarti molte cose. Non posso dirti dove mi trovo adesso ma appena possibile, forse domani, avrai mie notizie. Stai attento”. La firma sbavata di Meda chiudeva il messaggio.

Sirius spense il mozzicone a terra, in un gesto automatico, soffiando fuori l’ultima boccata di fumo. In pochi istanti realizzò che l’unico consanguineo al quale era realmente legato aveva appena intrapreso un viaggio di sola andata verso la diseredazione. Il suo iniziale sollievo, all’idea che la cugina preferita si fosse finalmente liberata, fu seguito quasi immediatamente da un vago malessere.  Immaginò il perfetto sorriso di Andromeda, intessuto nell’arazzo, sostituito dal buco nero che aveva cancellato ogni membro disertore della famiglia; come se bastasse incenerire un nome per eliminare ogni legame. Per suo padre e sua madre il mondo funzionava realmente così: chi rifiutava i codici imposti dal sangue doveva essere eliminato dalla memoria, come se non fosse mai esistito. Non aveva alcun dubbio in merito al fatto che gli zii avrebbero rinnegato Meda senza nessuna esitazione, una volta accertata la sua scelta. Per lui era del tutto impossibile comprendere con quale coraggio un genitore potesse decidere coscientemente di dimenticare un figlio.

Tornò a sedere nella semioscurità del suo rifugio, il cielo di Londra incombente sul margine dello sguardo, come la cortina che minaccia di calare sul sipario.

 

La mattina dopo non era ancora giunta nessuna notizia della fuga di Andromeda. I suoi genitori avevano deciso di rimediare al ritorno improvviso da Englefield con una gita a Tinworth, per godersi un paio di giorni in riva all’oceano. A cena, la sera prima, Sirius aveva finto con scarso impegno un malessere generico e suo padre aveva commentato la cosa con un lungo tiro di pipa.

Verso mezzogiorno, finalmente solo, Sirius stava consumando un sandwich umido nel suo letto, quando l’allocco di Andromeda era tornato a fargli visita, planando nella sua stanza attraverso la finestra aperta; aveva lasciato cadere il biglietto ai suoi piedi e poi si era appollaiato sull’unico angolo libero della scrivania, sommersa da vestiti sporchi e libri. Nella fretta di decifrarlo rischiò di soffocare, ingoiando con foga un grosso morso, e cosparse il foglio di briciole. Il messaggio era essenziale: “Dingwalls. 11 Middle Yard, Camden Lock. Ti aspetto qui”.

Recuperò un paio di jeans sdruciti da sotto il letto, dopo essere atterrato sul tappeto con un balzo poco agile, e sfilò una t-shirt dal mucchio che invadeva la mobilia, sotto il becco severo del gufo, che continuava a guardarlo con un cipiglio molto simile a quello esibito da sua madre a colazione. Gli rifilò a tradimento quel che rimaneva del suo pranzo, prima di incastrare la bacchetta nella cintura e prendere la porta. Scendendo le scale incrociò Kreacher, intento a lucidare il corrimano con la devozione di un fedele chinato a pregare in chiesa, ma non sprecò fiato per un saluto che, in ogni caso, sarebbe stato ricambiato con un grugnito deferente. Non appena uscì in strada, lasciandosi alle spalle il corridoio cupo di Grimmauld Place, gli parve di tornare a respirare dopo una lunghissima apnea; l’aria sporca di Londra aveva un odore che lasciava presagire pioggia, e le nuvole pesanti accumulate sui tetti delle case confermavano l’ipotesi di un acquazzone imminente, ma il cattivo tempo non incrinò il suo ritrovato buonumore. Non si lasciò scoraggiare e si mischiò agli sconosciuti indifferenti che percorrevano le strade di Islington, sentendosi più leggero ad ogni metro guadagnato: l’idea di riabbracciare Meda lo fece sorridere tra se e se, mentre intraprendeva a passo svelto il cammino conosciuto che lo avrebbe condotto a Camden Town. Attraversò incroci e tagliò la strada a passanti ignari, senza essere realmente consapevole di ciò che lo circondava, concentrato a elaborare teorie e modi che gli avrebbero permesso di aiutare la cugina, se ne avesse avuto bisogno, in barba a qualsiasi follia punitiva familiare. Lo sfiorò l’idea di accompagnarla in quella fuga ma subito la sua coscienza si ritrasse al pensiero, lasciandolo turbato. Non era disposto ad ammetterlo con nessuno e in ultima analisi, probabilmente, nemmeno con se stesso, eppure anche soltanto immaginare di lasciarsi per sempre alle spalle il mondo che lo aveva incatenato lo spaventava. Quelle riflessioni lo fecero rabbuiare un poco e finì per macinare la restante parte del percorso con le mani sprofondate in tasca, a maledirsi per aver scordato accendino e sigarette nel nascondiglio del terrazzo.

Quando finalmente raggiunse il luogo dell’appuntamento, un locale lungo la doppia chiusa di Camden Lock, prese a guardare nelle vicinanze alla ricerca di Meda. Sapeva che i locali dei dintorni erano frequentati anche da alcuni del suo anno, che ritenevano trasgressiva l’idea di mescolarsi a masse di Babbani sudati per assistere ai live delle band alternative che si esibivano lì e alla Roundhouse, in Chalk Farm Road. Harvie l’aveva letteralmente supplicato di accompagnarlo a un concerto, sicuro che Sirius sarebbe stato un ottimo compagno per un’occasione simile: aveva sempre declinato gli inviti, specie nell’ultimo periodo, dopo la scoperta del piccolo problema peloso di Remus e il loro conseguente – e collettivo – arrovellarsi su quale potesse essere il modo migliore per stargli vicino senza rimetterci la pelle, anche nei momenti peggiori. Il più delle volte le loro riunioni a ridosso delle vacanze estive e natalizie erano finite nella frustrazione generale, almeno fino a quel momento; James aveva proclamato che entro l’anno successivo avrebbero trovato di certo la soluzione e, anche se non aveva davvero la più pallida idea del come, Sirius ci credeva altrettanto fiduciosamente.

“Ehi”.

Qualcuno gli sfiorò un braccio e Sirius si voltò: incorniciata dall’entrata in mattoni rossi di Dingwalls sullo sfondo, c’era Andromeda. Aveva i capelli legati in una coda disordinata e indossava abiti che l’avrebbero resa indistinguibile tra la folla di Camden Market, proprio come lui; sorrideva nel modo tirato di chi sta soffrendo, le lunghe ciglia abbassate su un paio di occhiaie che negli ultimi tempi erano diventate familiari. Il saluto che voleva rivolgergli le morì sulle labbra non appena incrociò il suo sguardo e Sirius non attese oltre, le afferrò un polso e la tirò verso di se, intrappolandola in un lungo abbraccio. Meda si aggrappò alla sua maglietta e posò la fronte sul suo petto, piangendo sommessamente; le accarezzò la schiena tentando di calmarla, ricordando ogni singolo momento in cui lei aveva fatto lo stesso, nel tempo in cui era solo un ragazzino che cercava di metabolizzare il rifiuto dei suoi genitori. Sirius non aveva mai pianto e sentire la cugina singhiozzare contro di lui lo impressionò, si sentì impotente e del tutto impreparato rispetto al compito che gli veniva affidato in quel momento, consolare una donna che aveva appena detto addio a un universo intero di ricordi e amore. Non riusciva a comprenderla fino in fondo, ma sapeva che Meda aveva coltivato un affetto sincero, intensissimo, per le sue sorelle e i suoi genitori e poteva solo immaginare cosa volesse dire realizzare che non avrebbe potuto più abbracciarli o parlare con loro. Sperava solo che anche gli zii, Narcissa e Bellatrix avrebbero sofferto altrettanto per quel distacco, anche se non era per nulla ottimista al riguardo: temeva che tutto il sincero rammarico di Andromeda fosse tempo sprecato, sottratto a una nuova felicità che ora lei avrebbe potuto scegliere e afferrare, in totale libertà. Tenne quei pensieri per sé e continuò a stringerla tra le braccia.

“Andrà tutto bene” sussurrò.

Dopo qualche minuto di sconforto, Meda iniziò a calmarsi e allentò la presa d’acciaio sulle pieghe della sua t-shirt.

“Sei contento, ora? Perché io non lo sono per niente…” disse, scostandosi e asciugando il viso con le mani.

Sirius incassò il colpo senza fiatare, allungando una mano fino ad accarezzarle la guancia, ancora umida di pianto. Andromeda gli regalò un altro sorriso triste.

“Ovviamente avevi ragione” disse, scrollando le spalle.

“Mi dispiace davvero”.

“Lo so”.

“Vuoi fare un giro al mercato?”.

Meda alzò gli occhi nella direzione vaga che le aveva indicato.

“Certo”.

Prima che si incamminassero gli si accostò e gli diede un bacio tenero sulla guancia, agganciandosi al suo braccio destro come una bambina.

Vagarono per le bancarelle stracolme, scrutando con poco interesse oggetti Babbani palesemente inutili e merce magica pericolosa mimetizzata tra bigiotteria innocente e antiquariato fasullo. Andromeda gli spiegò che per il momento dormiva da una sua ex compagna di scuola lì a Camden ma presto lei e Tonks avrebbero trovato un posto dove stare insieme.

“Sei sicura? Vuoi davvero vivere con lui?” le chiese Sirius, superando un banco che vendeva lecca lecca al gusto di cannabis.

“Sì” rispose Andromeda, rivolgendogli il primo vero sorriso da che si erano incontrati.

Sirius soffocò l’istinto di abbracciarla ancora, lì in mezzo alla folla, solo per la paura irrazionale di passare per il sentimentale che non era affatto.

“Vorrei solo non sentirmi così…” disse lei, raccattando un paio di orecchini con delle lunghe piume da chissà dove.

Li portò alle orecchie con finta disinvoltura, mimando uno sguardo da seduttrice nel tentativo vano di alleggerire le parole che aveva appena pronunciato.

“Non mi piacciono” replicò Sirius “Così come?”.

Meda fece indugiare le dita su un anello con una grossa pietra azzurra incastonata in cima.

“Questo ti piace?”.

“No. Mi piace questa”.

Le mostrò una collanina con un piccolissimo ciondolo dorato a forma di libellula.

“È bella” disse Meda, senza guardarlo “Come se non avessi più nessuno al mondo”.

“Sai che non è vero. Hai me, hai Ted, i tuoi amici…”.

“Sì ma loro non possono capire. Non sono come noi”.

“Questo potrebbe essere un bene”.

“Già”.

“Come hai fatto a scappare? Credevo che ti tenessero rinchiusa da qualche parte nelle segrete”.

Andromeda appoggiò la testa alla sua spalla, mentre continuavano a camminare nella luce del primo pomeriggio.

“Ho finto di essere molto pentita. Sai bene che i Black hanno un vero talento nell’arte dell’inganno”.

“Non guardare me, se fossi stato davvero un buon bugiardo mi sarei fatto Smistare in Serpeverde e avrei riservato le sorprese per la maggiore età”.

“Un po’ come ho fatto io, insomma?”.

“Sei sempre stata il mio mentore”.

“Sediamoci un po’”.

Meda lo guidò oltre il confine delle bancarelle, scavalcando una bassa balaustra, fino al margine del ponte, dove si sedettero con le gambe a penzoloni.

“Vengo spesso qui” disse lei, mentre il riflesso del sole sull’acqua giocava con i suoi capelli “Anche da sola. A volte non compro niente. Mi piace stare in mezzo alla gente con la certezza, o almeno la concreta possibilità, che non ci sia nessuno che mi conosca. È come fare un salto in un altro pianeta”.

Sirius provava la stessa sensazione in compagnia dei suoi amici. Dopo i primi due anni a Hogwarts la differenza tra lui e il resto della discendenza passata per quelle mura era diventata talmente evidente da renderlo un individuo a se stante. Era molto più conosciuto come compagno di scorribande di James Potter, che come primogenito Black. Andromeda stava parlando del posto dove tu sei tu e basta, e anche se quel te stesso è un signor nessuno va più che bene: l’esatto contrario della politica propagandata in famiglia, dove, come era stato insegnato a Sirius, tu non sei tu ma l’erede di un sangue antico con un carico di cemento sulle spalle che tutti chiamavano alto lignaggio.

“Tu come fai? Intendo a sopportare tutto questo”

Sirius meditò per qualche secondo sulla risposta incoraggiante, e drammaticamente finta, che avrebbe potuto dare, poi decise di essere spietatamente sincero.

“Non lo faccio. Non riesco a sopportarlo e non credo ci sia un modo per riuscirci. Voglio dire, i miei genitori che hanno deciso di non volermi più, come se fossi, non lo so… e mio fratello… penso che sono cose che nessuno può superare o affrontare, e penso anche che ti lasciano un segno, per sempre. Remus dice che con un po’ più di fiducia nel prossimo potrei riuscirci. Non ne sono convinto ma ci sto provando, almeno con i miei amici”.

Andromeda lo stava fissando, come se volesse andare oltre alla confessione che le aveva appena fatto.

“Ho capito solo ora come ti sei sentito per tutto questo tempo. Forse per te è stato anche peggio. Era in assoluto la cosa di cui avevo più paura e ora che è successo mi sembra di non avere più una vita”.

“Puoi costruirtene una con Ted, credo che se lo meriti” disse Sirius “O con qualsiasi altro tizio dall’aria vichinga che riesci a incontrare”.

Lei sorrise ma brevemente.

“Come fai a fare i conti con i ricordi? Ci sarà stato qualche momento con i tuoi o con Reg che ricordi con affetto. Non ti tornano mai in mente?”.

Sì. E fanno un male cane.

“Sì, però sono lontanissimi e spero che prima o poi li rimuoverò del tutto”.

“Quindi l’unica soluzione è dimenticare. Non so se ne sono capace. Hai dimenticato anche Bella? Pensare a voi due mi ha sempre resa molto triste, anche prima, e ora sarà peggio. Eravate davvero uniti, fin da quando eri bambino”.

Sirius la scrutò, incredulo.

“Non ricordo di essere mai stato unito a Bellatrix in nessun senso. La sola idea mi fa rabbrividire” mentre lo diceva, un vago dolore alla testa gli fece strizzare gli occhi.

“Lei ti adorava e tu la seguivi ovunque. Mi ricordo che, un Natale, hai detto a tutti noi che avevi deciso di sposarla. Avrai avuto sì e no otto anni, eri abbastanza grande per ricordartelo. Non puoi davvero aver dimenticato tutto di Bella”.

Il dolore aumentò allo sforzo impiegato per ripescare nella memoria un evento tanto assurdo.

“Adorarmi? Una cosa del genere non può essere mai successa. Bella mi ha sempre odiato” disse, portando istintivamente una mano alla tempia.

“Stai esagerando. Alla festa di fidanzamento avete ballato insieme, questo lo ricordi?”.

Non appena Meda terminò la frase Sirius avvertì una fitta fortissima, come se qualcuno stesse cercando di tranciargli a metà il cranio, e si piegò in avanti, portando le mani a coprire la testa. Andromeda lo afferrò per un braccio e urlò qualcosa, agitata, ma non riuscì a capire le sue parole. Tutto sembrava essere precipitato in un vortice, la sua voce e i contorni delle cose si confondevano in un unico guazzabuglio di colori e suoni; quando riemerse dalla confusione un conato lo costrinse a sporgersi sul fiume. Vomitò il suo pranzo e anche buona parte della colazione nel rigagnolo.

“Ehi amico! Ci hai dato dentro?” strillò qualcuno, da lontano.

“Vieni qui” Meda lo sollevò lentamente fino a farlo stare dritto.

Era molto pallida e aveva tra le mani un fazzoletto di stoffa con cui gli pulì le labbra.

“Per Merlino…” sfiatò Sirius, quando fu certo di essere nuovamente in sé.

“Che ti è preso? Stavi male stamattina? Avresti potuto dirmelo!” disse sua cugina, bianca come un lenzuolo.

“No, no. Sto benissimo. Deve essere stato il sandwich di Kreacher, quello schifo”.

Andromeda non sembrò tranquillizzarsi, anzi, se possibile, parve agitarsi ancora di più.

“Spostiamoci da qui, forse il sole forte ti ha dato fastidio. Riesci ad alzarti?”.

“Per carità, Meda, non esagerare. È solo un po’ di nausea”.

Per confermarle la sua buona salute si alzò in piedi con decisione “Dove vuoi andare?”.

“Andrà bene qualsiasi bar”.

La ricerca durò poco e appena sei minuti dopo Sirius si ritrovò seduto a un tavolino di plastica, con un tizio da una cresta arancione che gli chiedeva l’ordinazione.

“L’acqua andrà benissimo, e una limonata per me”.

Il cameriere atipico inarcò le sopracciglia con perplessità e portò via i menu che ospitavano una quantità esorbitante di nomi di birre.

“Come ti senti?”.

“Sto bene”.

“Non sembra proprio, sei verde”.

“E tu sembri un cadavere, ok?”.

“Hai ancora la nausea?”.

“Meda. ti. prego”.

Sua cugina si trincerò in un silenzio cupo fino a quando il cameriere non ritornò; quando anche con il suo bicchiere di limonata ghiacciata davanti sembrava non aver intenzione di muovere un muscolo, Sirius parlò.

“Scusami. Davvero, sto benissimo. Deve essere stato il caldo, vai a capire” disse, con tono affabile “Tu non dovevi raccontarmi tante cose?”.

Andromeda non si rilassò per niente, anzi, si incupì ancora di più.

“In effetti una cosa ci sarebbe” disse “Credo di essere incinta”.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

*

 

 

NdA: ciao a tutti! So di pubblicare sempre con molto ritardo rispetto ai “normali” standard delle autrici buone&care che vi vogliono veramente bene, ma per me è già un miracolo riuscire a portare avanti questa storia come vorrei (considerando l’antica data di concepimento del primo capitolo >.<). Come al solito, spero che questo aggiornamento vi piaccia e vi stimoli a proseguire con la storia nonostante i miei tempi biblici: se così non fosse sentitevi liberi di consigliare/bacchettarmi su quello che non vi sconfinfera (vi prego, siate coccolosi se lo farete perché il mio povero cuore non reggerebbe i commenti al vetriolo). Prima di ringraziare, volevo inserire due o tre note su alcune cose di questo capitolo:

1)      Dingwalls è un locale di Camden aperto nel ’73 o giù di lì, ospitava e ospita attualmente molti live – anche di artisti cosiddetti alternativi -;

2)      La Roundhouse  è il parente nobile e parecchio più figo di Dingwalls, aperto negli anni ’60 e attivissimo nei ’70, che ha ospitato artisti tipo Rolling Stones, Bowie (del quale la mia Meda è una fan sfegatata), Hendrix e così via, tanto per dirne alcuni.

3)      Idealmente ho collocato la residenza cittadina dei Black, Grimmauld Place, nel borgo di Islington, solo ed esclusivamente perché è stato scelto come location per la collocazione della casa dei Black durante le riprese di vari film di Harry Potter. La scelta mi è piaciuta molto.

4)      Per me Camden Town è un ideale luogo di fusione tra mondo magico e mondo babbano, per motivi scontati, ci tenevo a piazzare la cosa da qualche parte.

5)      Il ponte dove Sirius rigurgita roba varia è tipo così: http://www.true-london.com/wp-content/uploads/camden2.jpg

6)      Non odiatemi per le inesattezze su Camden e Islington o su Londra in generale, non sono praticissima e prima di scriverne ho provato a rimediare aiuto sul mio fake con scarsi risultati q_q

7)      Mi sembra giusto specificare che i malesseri di Sirius vanno messi in relazione ai ricordi che sono stati rimossi da Bellatrix: chiaramente Bella non è un Medimago e perciò, per quanto talentuosa, non avrebbe dovuto nemmeno pensare di intervenire a modificare parti così sensibili della memoria del cugino (se stessimo parlando di una personcina pienamente sana, questo concetto sarebbe stato chiaro). Una delle spiegazioni che inserirò in qualche modo nei restanti capitoli riguarda proprio il fatto che modificare ricordi legati a sfere emotive profonde come, in questo caso, l’amore, può provocare danni sensibili all’apparato cerebrale. Questa spiegazione sarà essenziale per il successivo sviluppo della follia di Bella, ma non voglio spoilerare troppo.

Dovrei aver finito con le precisazioni inutili. Ho notato, negli ultimi giorni, un incremento di letture e di preferiti/seguite: non so da dove siate spuntati ma vi ringrazio davvero tanto! Spero di risentirvi presto, un saluto a tutti :3

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Capitolo 11
*** Contention ***


Capitolo 10

Contention

 

 

La stanza, un buco dimenticato dal mondo, era piccola e, anche seduta all’angolo opposto rispetto al letto, Rodolphus le sembrava sempre troppo vicino. Si faceva più vicino di minuto in minuto, mentre la luce del giorno aumentava e le pareti scure parevano restringersi su di loro; o era il suo corpo nudo, abbandonato, a ingigantirsi? Un polpaccio avvolto nelle spire delle lenzuola, le forme maschili scoperte, la schiena ampia una distesa di muscoli rilassati che si tendevano pigramente a ogni respiro, foderati dalla pelle spessa che le sue unghie avevano graffiato la notte prima, senza pietà. Un solco violaceo gli attraversava una scapola, risalendo fino al collo e, contemplandolo, Bella portò istintivamente una mano a tastare la carne morbida che sormontava la clavicola, ripercorrendo i segni del morso che le riposava addosso. I margini della ferita dolevano e, tra le gambe, l’epidermide bruciava. Non era stato propriamente bello, né umano.

 

*

 

Little Hangleton riposava nell’oscurità, i suoi Babbani mollicci nascosti oltre le porte chiuse, come se bastasse un giro di chiave a salvarli dal male. Non era possibile Materializzarsi direttamente entro le mura della casa, così Bella era stata costretta a comparire dietro al solito cespuglio di viburni. Mossa dall’agitazione, riemerse dal verde senza controllare il vialetto, dimentica di eventuali esploratori notturni; non appena mise piede in strada, qualcuno le puntò un oggetto duro tra le scapole, ghiacciandola sul posto.

“Fai più rumore di un Ghoul arrabbiato, cugina”.

La voce di Evan fu una carezza spettrale. Si voltò, ritrovando la sua bacchetta ancora puntata contro. Non si vedevano più dal giorno in cui aveva tentato di torturarlo e per un attimo arrivò a temere che volesse vendicarsi, impedendole di raggiungere l’appuntamento. Lui non avrebbe tollerato ritardi e di certo Bella non avrebbe avuto il coraggio di presentarsi anche solo un minuto dopo l’orario prestabilito.

“Vuoi che finisca il lavoro che ho cominciato da Malfoy?” ringhiò.

La risata di Evan incrinò il silenzio della notte.

“Sei davvero comica” disse lui, abbassando il braccio “Dovremmo riappacificarci, non credi?”.

Rimase immobile mentre si avvicinava di un passo, circondandole la vita in un abbraccio da amanti, prima di posarle due baci sulle guance, con lentezza esasperata. Avrebbe voluto strangolarlo a mani nude ma trattenne gli istinti malevoli, sforzandosi di concentrarsi sul reale motivo della loro presenza lì.

“Tra poco saremo più che fratelli, mia cugina adorata” sussurrò Evan al suo orecchio “Non è meraviglioso?”.

Il suo volto affondò tra le ciocche di capelli che le proteggevano il collo e Bella lo sentì annusare. Rosier aveva sempre amato, fin da bambino, quegli stupidi giochi maliziosi. Non riuscendo a sopportare oltre, lo spinse con energia lontano da sé, ricavando nient’altro che una smorfia divertita. Lo guardò socchiudere gli occhi pallidi, nell’espressione di un felino che si prepara a gustare la preda.

“Puzzi di Dittamo. Non sei ancora guarita?”.

Non rispose, gli diede nuovamente le spalle e prese a risalire il dolce pendio che conduceva fino ai cancelli della casa. Sentì Evan scivolarle dietro e poi se lo ritrovò al fianco, dritto nella nobile grazia che sua madre decantava con adorazione.

“Quali novelle dal vostro ramo?”.

“Non ho voglia di chiacchiere”.

“Per Salazar, sei sempre così maleducata” sibilò lui “Non vuoi raccontarmi neppure di Meda, sai, circolano delle vo-”.

Prima che potesse filtrare la rabbia in una risposta sferzante, la sua mano era corsa alla bacchetta e Bella fu quasi sorpresa quando si ritrovò a contemplarne un’estremità affondata nella spalla del cugino. Ormai era tardi per ritrarla.

“Allora è vero…” mormorò Evan, per nulla scosso dalla minaccia di un’altra aggressione.

“Non una parola”.

“Che razza di ingrata”.

Sembrava sinceramente impressionato dalla notizia, ogni traccia di insolenza si era dissolta, ma qualsiasi discussione al riguardo era fuori questione. Non con lui. Non in quel  momento, a due passi dal Signore Oscuro, che avrebbe potuto frugarle nei pensieri e magari trovare le tracce di un sentimento pericoloso. Avrebbe rischiato di compromettere ogni cosa.

“Non. Una. Parola. Rosier”.

Finalmente lui alzò le mani in segno di resa, tacendo. Bella riprese a camminare, ignorandolo, troppo concentrata nel tentativo di rimuovere ogni traccia di agitazione dalla mente, respingendo le immagini e i ricordi di quei giorni lontano dalla memoria. Era uno degli esercizi più duri che aveva affrontato nell’ultima settimana, peggiore anche del digiuno quasi totale che si era imposta. Si fermarono solo quando giunsero al cancello secondario, lì avrebbero dovuto attendere Mulciber e Dolohov, poi sarebbero entrati sotto un unico Incantesimo di Camuffamento: lo sciocco Babbano che sorvegliava aveva il suo tugurio dal lato opposto della grande villa ma era meglio essere prudenti.

“Non si parla solo di Meda, comunque. Le tue sorelle si sono contese i pettegolezzi di mezzo Mondo Magico, nell’ultimo periodo”.

Bella non commentò e le parole di Evan sprofondarono lentamente nel buio, insieme ai loro sguardi, fino a quando due sagome indistinte si affacciarono in fondo al sentiero, muovendosi nella direzione in cui si trovavano.

“Pensi tu a farci sparire?”.

“Certo” rispose Evan “In ogni caso, per quanto possa interessarti, pare che Malfoy abbia messo le mani su Cissy. E non simbolicamente”.

Bella registrò l’informazione senza battere ciglio, il volto in parte nascosto dal grande cappuccio del mantello, tesa come una corda di violino. Le sembrava di doversi spezzare da un momento all’altro, come una lastra di vetro scheggiata.

“Compagni…”.

Il saluto di Dolohov fu poco più che un grugnito, mentre Mulciber si limitò a un sorriso delirante. Dopo un paio di rapidi convenevoli, Evan applicò l’Incantesimo a tutti, prima di superare il cancello. Oltrepassarono il giardino abbandonato a ranghi serrati e, nella quiete morente del luogo, Bella poté registrare ogni dettaglio di quel momento; il respiro eccitato di Terence incollato a una tempia, l’odore stantio di Antonin e il fianco sinistro di suo cugino che la sfiorava delicatamente, come avrebbero fatto le sue parole melliflue dirette all’Oscuro Signore, di lì a poco. Stavano andando incontro al loro destino, oltre l’uscio marcio che proteggeva l’ingresso ovest, su per le scale sfondate che poche altre volte avevano risalito e mai per un evento tanto straordinario. All’ultimo, Evan le strinse un polso come per farle coraggio e Bella non trovò la forza di divincolarsi.

Lui attendeva di spalle, affacciato alla vetrata infranta che si affacciava sul villaggio, in un mosaico di occhi di cristallo aperti, là dove il tempo era stato misericordioso, e chiusi, dove invece il ticchettio degli orologi aveva sbriciolato ogni cosa. Un quadrato di quattro compagni già li attendeva e, dopo il consueto inchino indirizzato a Lui e solo a Lui, si unirono agli altri. Bella riconobbe un occhio di Lucius, una pietra dura conficcata nella metà del volto illuminata dall’unica candela che rischiarava la stanza, e fu certa che Rodolphus era lì, perché era stata lei stessa a pregare Malfoy di occuparsi dei Lestrange. In compenso, aveva dovuto prendere con sé Mulciber, che in pochi tolleravano.

Rimasero immobili, frementi di aspettazione, nell’attesa degli ultimi due gruppi, che arrivarono poco dopo. Quando seppero di essere tutti presenti, Lucius le fece un cenno. Nel suo sguardo decifrò l’irrimediabilità del momento, di quello che avrebbero fatto; un singolo istante che avrebbe cambiato ogni cosa, rendendoli immortali.

“Mio Signore, siamo al completo”.

La sua stessa voce le giunse estranea all’udito, come se si trattasse del richiamo fermo di qualcun altro. Lei non riusciva a sentirsi ferma, né sicura, lo stomaco ridotto a un mucchio di nodi tremanti, le fauci aride e le dita serrate intorno ai lembi del mantello.

Non è paura, continuava a ripetersi, non è paura.

Lui si voltò lentamente, metà del suo essere irrorato dal bacio argenteo della luna, nel consueto aspetto. Bella continuò a guardarlo direttamente, senza cedere: fin dal primo incontro, i suoi tratti non erano mai riusciti a disgustarla del tutto. Guardare i suoi sfregi, quei tratti deformati e ridotti a vaghi abbozzi di natura umana, era come affacciarsi su un pozzo di potenza infinita, sfrenata, così devastante da aver trasformato l’uomo in qualcosa di affine a un dio orrendo. A terrorizzarla ed eccitarla, simultaneamente, era la forza invasiva e feroce che pareva diffondersi a ondate da quel corpo, falciando ogni pretesa di dignità nello spirito altrui. La sua forza era magnetica, un polo calamitante che aveva trascinato ognuno di loro con disarmante energia.

Si fermò a un passo da lei, sovrastandola. Non era più un organismo ma una montagna, la sua ombra la nascose, poi la avvolse. Bella non riuscì a distogliere gli occhi dai suoi, come avrebbe dovuto, rilevando il margine di un rosso vivo che ne corrompeva le iridi, un dettaglio che non ricordava di aver registrato l’ultima volta in cui i loro sguardi si erano incrociati.

“Noti un cambiamento?”.

Il sibilo le perforò i timpani e temette di essersi spinta troppo in là. Tacque, senza neppure annuire.

Poi un altro sibilo riecheggiò solo nella sua mente, rendendola preda del panico.

“Io lo noto. Un turbamento pericoloso, mia serva”.

Restò immobile, senza abbassare lo sguardo, follemente certa che quello sarebbe stato l’unico modo per garantirgli la sua fedeltà, oltre il dolore, oltre qualsiasi sentimento irrazionale. Ripescò con cura nei suoi pensieri il ricordo della sera trascorsa a Englefield House, della risposta che avrebbe voluto pronunciare anche al suo cospetto, se gliene fosse stata data l’opportunità: Vorrà dire essere legati a Lui, per sempre. E se voi lo volete, io lo voglio di più.

“Mi giuri eterna fedeltà, Bellatrix Black?”.

Ora la sua voce era fuori, dove tutti avrebbero potuto udirla.

“Lo giuro”.

“Giura di servirmi, sul tuo sangue, sulla tua vita, sul tuo onore”.

“Lo giuro sul mio sangue, sulla mia vita, sul mio onore”.

Le sue non erano propriamente mani comuni e quando le sfiorarono il braccio, in un gelo metallico, un brivido le percorse la schiena. Era terrore, desiderio o esaltazione? Si tese verso di Lui, la carne candida esposta, le dita distese come per cogliere un frutto.

“Ricorda, mia serva” era di nuovo nel punto più profondo di lei, ora sussurrava per rivelare un segreto “Quanto più in alto vuoi costruire, più a fondo devi distruggere”.

Era un monito chiaro. Cosa aveva visto? Per un momento, temette che avrebbe ritratto la bacchetta negandole il premio. Invece l’esitazione era servita a sondarla ancora una volta, solo con le pupille, ultimi avamposti di un’origine comune alla sua.

Il dolore si insinuò sotto la pelle, tracciando un solco immaginario nei tessuti, strappando le vene e lacerando le fibre, mentre il suo avambraccio restava intatto. Ingoiò la sofferenza fisica dentro di sé, serrando le labbra. Io lo voglio di più. Lo strazio percorse un viaggio incandescente, dal polso alla spalla, scavando come una lancia fino al cuore, che accelerò, impazzito. Quando le prime linee scure si dipanarono sull’epidermide, non riuscì a frenare un sorriso disperato. Il Marchio, simbolo dell’unico voto che aveva scelto nella sua vita, era impresso su di lei, all’interno di lei, irreversibile, incancellabile, il distintivo che avrebbe esibito per riconquistare il suo libero arbitrio, la sua libertà, il mondo. Non le restava nient’altro che Lui, non c’era niente di più importante che Lui.

Lo giuro sul mio sangue, sulla mia vita, sul mio onore.

Lo giuro sul mio sangue, sulla mia vita.

Lo giuro sulla mia vita.

 

Si ritrovarono dispersi nella macchia di arbusti che avrebbe protetto il loro cammino fino al punto in cui si sarebbero congedati gli uni dagli altri. Presto le istruzioni sarebbero arrivate attraverso il suggello e fino ad allora non avrebbero dovuto fare altro che attendere. Prepararsi e attendere. Erano stremati e ripercorsero il sentiero senza proferire parola. Il Marchio riposava su ognuno di loro, quieto, ma il dolore era ancora intenso.

“Da qui noi proseguiamo per un’altra strada”.

La voce di Lucius fu poco più che un mormorio e ad accoglierla trovò qualche occhiata sofferente.

Quanto più in alto vuoi costruire, più a fondo devi distruggere.

Bella incontrò gli occhi di Rodolphus, dritto accanto a Lucius. Neppure lui aveva emesso un lamento. Prima che voltasse le spalle per incamminarsi con gli altri tre compagni, lo richiamò.

“Lestrange”.

Solo uno dei due fratelli si voltò, ed era quello giusto.

Quanto più in alto vuoi costruire, più a fondo devi distruggere.

“Vieni con me”.

Non lo chiese, lo ordinò, a lui e a se stessa, con la stessa sgraziata prepotenza.

Si dileguarono in silenzio, nel silenzio Bella si lasciò condurre in un luogo che non conosceva, lasciò che lui li rinchiudesse entrambi tra le mura spesse dove il suo martirio si sarebbe infine consumato.

Fu lei a disfarsi del mantello per prima, poi dei nastri che stringevano il corsetto, evadendo un indumento alla volta dalla prigione di stoffa in cui era solita lasciarsi soffocare. Lui sembrava talmente stupito dal repentino cambiamento da non riuscire a muoversi ma tutto cambiò quando lo costrinse a sedere sul bordo del letto, montandogli addosso: a quel punto riemerse l’avidità che gli aveva letto negli occhi e poi fu troppo tardi per imporgli un freno. Si spogliò frettolosamente, respirando forte contro le sue forme mentre i loro corpi entravano in contatto, aprendo la bocca in un ansito animalesco non appena lei si lasciò toccare davvero, in profondità. Le entrò dentro senza cerimonie, spingendo privo di riguardi, mosso solo dal desiderio cieco che gli appannava la vista. Lei non si arrese subito, riuscì a tenerlo sotto di sé per qualche minuto, lottando con tutto il suo peso. Del resto, non ci si poteva aspettare che la bestia sacrificale si offrisse all’olocausto con eleganza. Quando lui la ribaltò sulla schiena, con un colpo feroce, si vendicò conficcando le unghie fin dove poteva, godendo del suo dolore e del piacere che, inesorabile, iniziava a ottunderle i sensi. Lui era più forte di quanto aveva creduto, anche più crudele. Pareva che volesse ucciderla, più che possederla. Non mostrò nessun tipo di pietà o esitazione e  accolse l’orgasmo sfogandolo in un morso nella sua carne.

Più tardi, con il viso di Rodolphus affondato tra le cosce e le sue mani impresse ovunque, anche dove non credeva che sarebbe riuscito ad arrivare, Bella si frantumò e ricompose, seguendo le linee spezzate dell’acme che l’aveva segata a metà. Un piacere devastante diviso con un pianto amaro.

Quanto più in alto vuoi costruire, più a fondo devi distruggere.

Era finita.

Era iniziata.

 

*

 

 

Il ritorno l’aveva lasciata esausta, la frenesia si era dissolta in una sensazione di vuoto angosciante. Ripercorrendo la casa quieta percepì chiaramente la propria solitudine, che ormai pareva essersi trasformata in uno stato definitivo. Si ritrovò a pensare al giorno precedente, quando avevano lasciato Englefield, alla parabola lenta che i lenzuoli bianchi avevano seguito, prima di calare su ogni cosa, mobili e ricordi che avrebbero dovuto proteggere dal trascorrere impietoso del tempo. Invece, quel rito le era parso un saluto funebre. Era nei momenti come quello che davvero non riusciva a non pensare ad Andromeda. L’immagine del suo sorriso, il suono della sua voce, lo sguardo di rimprovero che così spesso le aveva rivolto; ogni dettaglio del passato riverberava nello specchio della memoria, percorrendo orme già tracciate, incidendo nuove ferite. Le mancava già in un modo brutale, talvolta insostenibile, e per quanto tentasse di alimentare l’odio enumerando i colpi duri che le aveva inferto, non c’era verso di superare il dolore. Era un battito insistente, soverchiava ogni altro suono durante la notte, era onnipresente e ormai aveva quasi paura di incontrare il proprio riflesso, perché vi avrebbe visto lei, lo sapeva.

Davanti alla porta chiusa della camera di Meda, esitò. Nessuno percorreva l’ampio corridoio e Bella non poté resistere all’istinto di posare una mano sulla superficie inanimata, rimandando il riposo. Alla leggera pressione la porta cedette, sorprendendola. Dall’interno giunse un tramestio sospetto e la curiosità la spinse a spalancare l’uscio; per un secondo impossibile sperò addirittura di ritrovare sua sorella.

“Oh, cara, sei tu…”.

Non fu Andromeda ad accoglierla, magari china sull’ennesimo libro proibito.

“Madre?”.

Non poté nascondere completamente la delusione e lei dovette interpretare il tono come una sorta di rimprovero, perché girò il viso da una parte, nascondendo la guancia bagnata dal pianto. Naturalmente rimaneva il viso congestionato a tradirla, insieme all’aspetto disordinato – i capelli flosci intorno al volto, la camicia da notte drappeggiata di sbieco – e agli occhi arrossati. Sorprendendola in quello stato, Bella non riuscì a provare altro che disgusto.

“Sei rientrata ora?” disse sua madre, sferzante.

L’alba stava per concludersi, quando aveva raccolto i suoi pochi effetti dalla stanza ed era andata via, lasciando Rodolphus addormentato. Mentre Druella si crogiolava nel compatimento di se stessa, strisciando nelle ore buie fuori dal suo nascondiglio di cipria, lei aveva regalato pezzo per pezzo il suo corpo a qualcuno che a malapena conosceva. Il passo dal disgusto alla rabbia fu repentino.

“Certo. Ho il mantello da viaggio, vedi?”.

“Dove sei stata?”.

“Lo sai, dove sono stata”.

Continuò a fissarla, nonostante tentasse in tutti i modi di evitare il suo sguardo e nel contempo di darsi un contegno, rassettando la vestaglia sulle spalle magre. In meno di una settimana dalla fuga di Andromeda era già deperita, un fiore appassito avvolto nella seta; era di una debolezza - mentale, fisica, emotiva – insopportabile. Si concedeva ore di disperazione vuota , in attesa del prossimo matrimonio, una rivincita sociale che avrebbe in parte oscurato l’onta del tradimento.

“Cosa ci fai qui?” la incalzò, occupando l’ingresso.

“Oh, non lo so… stavo controllando che tua sorella non avesse rubato la collana della nonna. Sai, quella del debutto… voglio dire, se finisse nelle mani di quel lurido io… io…”.

Quando la vide portare una mano alla bocca per domare un singhiozzo, dovette respingere il desiderio di colpirla.

“Ti prego…”.

“Tu non capisci…” pigolò lei “La gente comincerà a chiedere, a parlare, questa storia mi perseguiterà fino alla tomba. La gente non vede l’ora, sai, di trovare qualcosa da dire. Ci hanno sempre invidiati così tanto… le più belle figlie, le più belle figlie…”.

“Madre…”.

“A te non importa…”.

“Ho detto per favore…”

“Tu non capisci cosa vuol dire…”.

“Madre”.

“Tu non capisci, non capisci… così vicino al matrimonio… io impazzirò, non puoi capire il dolore, la vergogna. Tu non puoi capire… Tu-”.

“MADRE!”.

L’urlo la fece trasalire. Bella avanzò in due falcate verso di lei e la afferrò per un braccio con forza.

“NON POSSO CAPIRE?” la strattonò come una bambola.

La rabbia era tale da accecarle la vista, avrebbe voluto stringerle le mani intorno al collo e troncarle il respiro fino a farla tacere.

“IO non capisco?!”.

Era terrorizzata, un pupazzo inanimato, flaccido, gli occhi spalancati, larghi e cadenti; Bella affondò le unghie.

“Dove vivi, tu? In quale mondo assurdo credi di vivere?”.

La spinse indietro, lei inciampò goffamente nelle gambe del baldacchino e finì seduta sul materasso spoglio. Era così bianca da confondersi con la superficie alle sue spalle, un fantasma sbiadito.

“Quando la strada di Andromeda incrocerà di nuovo la mia io dovrò ucciderla” sibilò, vicinissima a quel volto terreo “È questo il giuramento che ho fatto. È questo il mio impegno di fronte all’Oscuro Signore”.

Quando pronunciò quel nome, lo sgomento di sua madre produsse un rantolo imbarazzante. Bella decise di affondare l’ultimo colpo, perpetuare la vendetta che aveva serbato così a lungo, di fronte a ogni sopruso, ogni imposizione demente, ogni costrizione imposta fino al limite della follia. Slegò il mantello all’altezza della gola, lo fece scivolare via in un unico colpo deciso, scoprendo il Marchio. Druella distolse lo sguardo, voltandosi da un lato, le labbra ridotte a una lama tremante.

“Guarda” ringhiò, prendendole il mento tra le dita e costringendola “È l’inizio di una guerra che avresti dovuto combattere tu per prima. Ma la tua mancanza di coraggio, la tua stupidità … sei una codarda e la tua inutilità mi ha privato di mia sorella”.

Puntò la bacchetta contro di lei, sovrastandola.

“Dovrei Marchiarti, potrei farlo” la minacciò “Lo vuoi? Vuoi giurare fedeltà al Signore Oscuro?”.

Nessuna risposta e gli occhi abbassati, le prime lacrime autentiche, vili, che le scavavano le guance sfiorite.

“Vuoi giurare, madre? RISPONDI!”.

Trasalì ancora, prese a piagnucolare come una bambina. Una visione insopportabile, che le fece salire l’amaro in bocca.

“Sei davvero desolante” sussurrò, senza più guardarla “È solo colpa tua. Non ti perdonerò mai per questo”.

Non ti perdonerò mai mai mai mai mai mai

La rabbia si trasformò in dolore, così improvvisamente, svuotandola di tutte le forze che le erano rimaste. Sua madre se ne stava accasciata sul letto dove aveva guardato Meda dormire, dove avevano diviso l’insonnia e le confessioni, in un tempo che non sarebbe tornato mai più. Come avrebbe potuto dimenticare? Lei era il suo specchio, il suo riflesso migliore.

Vorrei morire qui, pensò, vorrei cancellare ogni cosa.

Indietreggiò fino alla porta, fuggendo alla vista di quella creatura ignobile rattrappita di fronte a lei, invecchiata in un unico momento.

“Non celebrerai il mio matrimonio. Mi sposerò presto e tu non ci sarai. Prima di allora potrai divertirti con Narcissa: pare che malgrado lo scandalo tu sia riuscita a vendere anche l’ultima figlia”.

Neppure attese una risposta, varcò la soglia e chiuse la porta dietro di sé, per sempre.

 

*

 

Sirius lanciò la divisa appallottolata in un unico groviglio di stoffa sul sedile, prima di lasciarsi cadere al suo posto con un gemito.

“Merlino, grazie” mormorò.

La tensione si sciolse, il peso sullo stomaco si trasformò in una felice eccitazione, il profumo dolciastro di Walburga finì dissolto nell’etere.

“Non allargarti troppo” disse James, spostandogli le gambe con una manata “Occupi il mio spazio”.

Sirius gli rivolse un largo sorriso, pieno di allegria.

“Va bene, mamma James” rispose, raddrizzandosi.

Lo guardò ravviarsi i capelli, la camicia bianca sbottonata fino al petto e una Sigaretta Mai Finita infilata dietro l’orecchio, mentre un gruppetto di ragazze Tassorosso del quarto anno percorreva il corridoio, sbirciando con curiosità oltre la porta a vetri.

“Ciao dolcezza” mimò l’amico con le labbra, alzando una mano.

Una biondina arrossì in modo adorabile e accanto a lei comparve Remus, che registrò istantaneamente il quadretto e scosse la testa, sconsolato.

“Ti prego, non siamo nemmeno partiti” disse, entrando.

James rise e lo abbracciò, senza dargli il tempo di chiudere la porta.

“Si può sapere dove eri finito?” lo salutò, ignorando il rimprovero “Ti abbiamo cercato sulla banchina!”.

Sirius si allungò e guardò l’amico bene in viso: era molto pallido e un taglio profondo gli attraversava lo zigomo. Gli strinse le spalle energicamente, guardandolo dritto negli occhi e riconoscendovi la solita tristezza mista a rassegnazione. Perlomeno sembrava più in carne di come l’avevano lasciato prima delle vacanze estive, aveva solo bisogno di un po’ di brio.

“Fai veramente schifo” gli disse, con affetto.

“Grazie” rispose lui, regalandogli il primo sorriso.

Dopo qualche convenevole, si accomodarono tutti e tre. Remus aveva sottobraccio la consueta copia del Profeta, al quale era abbonato probabilmente dal grembo materno.

“Le vacanze?” chiese, abbandonando il giornale alla sua sinistra.

“Fantastiche” James arrotolò le maniche sui gomiti “Ho conosciuto una rossa a Montecarlo… Merlino, era la fine del mondo”.

“Dorea ti ha trovato una nuova tata?” lo stuzzicò Sirius, puntandogli un piede in uno stinco.

James si appropriò fulmineamente del Profeta e gli assestò un colpo sulla fronte.

“Vi prego, fatemi finire almeno la pagina politica…”.

Le proteste poco convinte di Remus si confusero con il buongiorno di Peter, entrato in quel momento. Sirius l’aveva già salutato prima di salire sull’Espresso, quindi lo sfogo verdino che gli era esploso in fronte non suscitò il suo interesse: era troppo concentrato sulla vendetta ai danni di James.

“Che cosa hai fatto lì?”.

“Oh niente” ridacchiò Peter “Uno scherzo di cattivo gusto”.

“I compagni del campo estivo a Stonehenge erano delle merde” specificò James, respingendo con un colpo da maestro i calzini usati che Sirius si era sfilato e gli aveva lanciato addosso, rimanendo a piedi nudi.

Peter sorrise scoprendo gli incisivi sporgenti, senza nascondere l’imbarazzo.

“E tu, Sirius? Come sono andate la vacanze?” chiese Remus, distogliendo l’attenzione generale dal triste racconto.

“Ah, una meraviglia”.

“Le tue lettere erano semplicemente deliranti” James si specchiò nel finestrino, mentre il treno iniziava a muoversi.

“Vorrei vedere te rinchiuso in un covo di serpi incestuose”.

“Tua cugina ha tentato di sedurti?”.

“Quale delle tre?” rispose Sirius, sentendosi tutt’un tratto a disagio, senza un motivo particolare.

“Non so, Narcissa? Un po’ frigidina ma ha un paio di… mmh”.

James simulò nell’aria il gesto di strizzare due entità invisibili e parecchio estese. Un guizzo rosso fuori dal vetro attirò l’attenzione di Sirius: Lily Evans sfilò davanti al loro scompartimento con la consueta eleganza, mentre il palpeggiamento immaginario dei seni di Cissy andava in scena. L’occhiata che lanciò a tutti loro tradì un profondo biasimo e James si accorse troppo tardi di essere stato visto.

“A proposito di frigide…” mugugnò subito, lasciando cadere le braccia “Uno non può nemmeno divertirsi”.

Sirius lo vide scivolare in punta del sedile, seguendo con lo sguardo la gonna di Lily che spariva oltre la cornice, e fece partire il conto alla rovescia. Presto James si sarebbe dileguato con qualche scusa patetica per correre dietro alle mutandine della Evans, mandando le sue annuali promesse di resa in malora.

“Ho saputo di Andromeda” disse Peter.

“Già” annuì Sirius “Rimanga fra noi, per ora, ma… presto diventerò zio”.

“Cavolo!”.

“Zio?!”.

“Non avresti dovuto permetterle di riprodursi con nessun altro a parte me. Comunque onore a Tonks per il concepimento lampo”.

James si alzò, ravviandosi nuovamente i capelli.

“Ti è bastato sentire l’odore, eh?” lo pungolò Sirius.

“Non so di cosa stai parlando, ho qualcosa di urgente da discutere con Harvie. Torno subito”.

Raggiunse la porta a tempo record ma questo non gli permise di sfuggire allo schiaffo che Sirius gli assestò dietro il collo, saltando sul sedile. Gli rivolse un gesto molto volgare allontanandosi, suscitando il terrore in quattro bimbi del primo anno che si trovavano a passare.

“Quanto sono teneri” osservò Sirius “Io non sono mai stato così”.

“Confermo” disse Remus “Quindi ora dove vive tua cugina?”.

“Sta a Londra, ha trovato un appartamento con Ted. Stanno bene, andrò a trovarla presto. Mia madre l’ha già eliminata dall’albero genealogico, ovviamente”.

“Oh” gemette Peter.

Remus scrollò le spalle, desolato.

“È davvero una follia. Come tutte le idiozie estremiste che stanno circolando nei salotti della nobiltà  Purosangue… Edward Affilapenna ne parla da mesi nella sua rubrica”.

“Chi è Edward Affilapenna?”.

“Uno dei giornalisti di punta del Profeta, Peter”.

“Beh, non so cosa ne pensa Affilapenna ma ho come il sospetto che molto presto farò anche io la stessa fine di Meda. E non mi dispiace per niente”.

“E tuo fratello?”.

Sirius rivolse lo sguardo verso Remus. In fondo lui aveva sempre desiderato qualcuno che lo aiutasse a combattere la sua solitudine, qualcuno che condividesse le sue pene: in parte, loro lo facevano già come amici. Lui non poteva capire quanto fosse terribile la disgrazia di ritrovarsi un consanguineo sbagliato.

“Quale fratello?”.

Rise e scalciò le scarpe lontano.

 

La moquette del corridoio era tiepida, i piedi vi affondavano piacevolmente e Sirius arricciò le dita un paio di volte, godendosi il contatto. Aveva abbassato di poco un finestrino, fermandosi a guardare il paesaggio: il via vai era più rado, nello scompartimento i suoi amici stavano già indossando le divise. Allungò la mano appena fuori dal vetro, scuotendo la cenere in eccesso. La sua Sigaretta Mai Finita avrebbe continuato a bruciare e ricomporsi, fino a quando non fosse stato costretto a liberarsene.

Stava vivendo il benessere intenso del momento, la sensazione di trovarsi nuovamente al sicuro, amato, sfottuto e inguaiato dalle uniche tre persone di cui si sarebbe mai potuto fidare davvero. Il pensiero era sensazionale, vertiginoso. Appagante oltre ogni speranza.

Le sue piacevoli elucubrazioni furono interrotte da una voce familiare.

“Non dovresti fumare”.

Si voltò, già stufo, e trovò Regulus ad attenderlo, rinchiuso nella divisa che aveva indossato la mattina stessa, contro ogni buonsenso.

“Eh?” rispose, laconico, poi fece un altro tiro.

“Mamma ti ucciderà”.

“Già tremo tutto. Sei qui per un motivo specifico?”.

“No. Sto andando a salutare alcuni miei amici. Tu eri qui…”.

“Amici? Facciamo progressi. Di qui a ventisei anni potresti addirittura farti la ragazza”.

Le guance di Regulus si imporporarono.

“Ciao”.

“Buon anno, fratellino”.

Lo guardò allontanarsi, sempre più stranito dall’assurdità della sua esistenza, fino a quando lo vide voltarsi nuovamente e tornare indietro di qualche passo, verso di lui.

“Come sta…?” domandò.

“Come sta chi?”.

“Meda”.

Sirius si irrigidì.

“Bella ti ha mandato a fare la spia?”.

Regulus strinse i pugni.

“Voglio solo sapere come sta”.

“E cosa ti importa? Mamma l’ha bruciata, no? Non è tutto quello che devi sapere?”.

Fu volutamente sferzante e suo fratello esitò, il volto contratto in un’espressione indecifrabile. Timore? Rabbia? Irritazione? Sembrava realmente combattuto e gli fece pena.

“Come vuoi che stia, Reg” sospirò, incredulo “Pensi che questa sia la domanda giusta?”.

Gli occhi di suo fratello si allargarono, poi finirono nascosti dietro le palpebre, mentre lui abbassava la testa. Si allontanò senza parlare, senza salutare e Sirius lo lasciò andare.

Prima o poi Walburga avrebbe ridotto Regulus a un manichino inservibile.

Una moretta Corvonero gli passò davanti, squadrandolo da capo a piedi con un sorrisetto malizioso dipinto in faccia. Forse la conosceva già, biblicamente? Si concentrò con intensità sulle sue gambe che si sfioravano tra un passo e l’altro.

Non era un suo problema.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

*

 

 

 

 

NdA: si ritorna dopo l’estate con un nuovo numero di follie. La Sigaretta Mai Finita è una mia invenzione trash, così come il nome Affilapenna: ho finito il capitolo tre secondi fa, abbiate pietà di me. Spero davvero che, nonostante gli errori in cui di certo incapperete, il capitolo sia di vostro gradimento. Sono molto curiosa di sapere come avete visto gli avvenimenti che sono rappresentati: credete abbia calcato troppo la mano o che, al contrario, abbia trattato la cosa troppo superficialmente? Sono già in paranoia. Ah, da qui in poi cominceranno i primi salti temporali che percorreranno i momenti più importanti dal matrimonio di Narcissa a quello di Bella, passando per la fuga di Sirius fino a quello che sarà, purtroppo, l’epilogo. *scoppia a piangere e accarezza il suo Sirius sulla testolina*. Spero di riuscire ad aggiornare in modo ragionevole. Baci.

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 12
*** The End Of Childhood ***


Capitolo 11

The End Of Childhood

 

 

“Queste non sono mie”.

Sirius sollevò davanti a sé un indumento di biancheria intima. James, disteso sul suo letto, rispose con un grugnito automatico: era troppo concentrato nella lettura del libro che aveva trafugato dal Reparto Proibito. Con un lancio preciso, fece atterrare gli slip tra le pagine aperte e riprese a gettare grovigli di vestiti nel baule.

“Non sono neppure mie” rispose finalmente James, infastidito.

“Allora sei presente?”.

Sirius diede un calcio casuale a un paio di scarpe che l’avevano fatto inciampare poco prima, spedendole sotto al baldacchino di Phillips.

“Sto solo cercando di capire perché mai ogni volta che tentiamo la trasformazione ci esca così tanto sangue dal naso…”.

“Preferisco di gran lunga il sangue alla diarrea dello scorso anno” mugugnò Sirius, rabbrividendo al solo ricordo.

Di certo Remus non avrebbe mai potuto accusarli di non essere dei buoni amici.

“Non va bene ugualmente” disse James, massaggiandosi il setto.

Aveva un paio di occhiaie identico al suo. Chiunque pareva dare per scontato che fossero il frutto di notti brave, invece erano il risultato di ore passate a infilarsi metri di cotone nel naso. Pareva che i comuni Incantesimi di guarigione non funzionassero con quelle particolari controindicazioni.

“Comunque le mutande sono di Georgiana Ronson”.

“Come fai a…”.

James le sollevò indicandogli le iniziali cubitali ‘GR’ color argento che campeggiavano sul didietro in pizzo.

“La ragazza è tenace”.

“È il terzo paio della settimana che mi ritrovo nella cartella. Inizio a indispormi”.

James agitò la bacchetta e fece levitare la biancheria fino al materasso di Peter. Sirius lo guardò infilare gli slip sotto al cuscino dell’amico, senza riuscire a nascondere un sorriso ferino.

“Almeno serviranno a rendere felice qualcuno” James scrollò le spalle, ritornando al suo libro “I tuoi peli?”.

“Ah…” Sirius sfilò la camicia senza sbottonarla “Volevo dirtelo, sono quasi spariti”.

Esibì la schiena, ormai quasi del tutto pulita. Durante l’ultimo tentativo, gli era comparso un tappeto di foltissimi peli neri su tutto il dorso e non c’era stato verso di farli sparire. Erano caduti lentamente per tutta la settimana.

“Ti è rimasto un ciuffo in basso” James aggrottò le sopracciglia “Disgustoso ma almeno è in regressione”.

“Non voglio trasformarmi in una specie di scherzo della natura, la prossima volta”.

Sirius tornò al suo bagaglio, tentando di riepilogare cos’altro stava dimenticando.

“Siamo ancora troppo instabili. Forse per riuscire a fare il salto dovremmo tentare la trasformazione di un arto alla volta”.

“Sì, mi immagino già a Trasfigurazione con un braccio da orso e una coda da procione. La McGranitt sprizzerà gioia”.

“Non sappiamo ancora a che forma corrisponderemo” lo redarguì James, serissimo.

“Appunto. Peter tiene addosso il berretto anche di notte, hai controllato le sue orecchie?”.

“Sono quasi guarite. Quanto la fate lunga! Provate a camminare per cinque giorni con un paio di zoccoli al posto dei piedi. Altro che orecchie o peli… gli allenamenti sono stati un inferno!”.

“Beh, almeno tu hai qualche indizio in più su cosa potresti essere. Tipo un cinghiale”.

James gli rivolse un’occhiata fulminante e Sirius alzò le mani in segno di pace.

“Va bene, va bene” disse “Il baule dovrebbe essere pronto”.

“Tra quanto è prevista la partenza?”.

“Mezz’ora” ripose, cercando inutilmente una camicia pulita “È un peccato che il tuo vecchio sia così intransigente, se ci fossi stato tu sarebbe stato almeno sopportabile”.

James chiuse di botto il libro e crollò con la fronte sulla copertina.

“Non sai quanto vorrei accompagnarti. Questa sera mi aspettano quattro ore di pulizie nei bagni del terzo piano”.

“Preferirei pulire tutti i bagni di Hogwarts piuttosto che andare al matrimonio di Narcissa, credimi”.

“L’invito dei tuoi zii era una pura formalità e sai com’è mio padre, tende a essere un tantino rigido per certe questioni”.

Sirius puntò con lo sguardo una camicia inamidata distesa sul letto di Remus.

“Non posso davvero biasimarlo” replicò “Avvisi Remus che l’ho presa in prestito?”.

“Certo. Dovrebbe rientrare al massimo domani”.

“Pensaci tu a rimetterlo in sesto. Non so se la storia del Prefetto sia stata una buona idea…”.

“Certo che lo è, la vecchia canaglia non sbaglia mai”.

“Non lo so… dovrebbe servire a stringerci il guinzaglio e a fargli acquistare sicurezza ma mi sembra che entrambi gli obiettivi siano stati mancati, per ora. Remus si fa troppi scrupoli”.

“Deve solo abituarsi” James si mise a sedere “Un grosso problema da risolvere, piuttosto, è la verginità sempiterna di Peter”.

Sirius scoppiò a ridere, chiudendo il bagaglio.

“Mi pareva un discorso troppo serio” disse James “Ti accompagno”.

Sistemarono il baule nel centro della stanza, dove gli Elfi l’avrebbero recuperato, e si avviarono verso la Sala comune. Sirius salutò Peter, chino sulle pergamene di Aritmanzia con la fronte imperlata di sudore, e insieme a James oltrepassò il ritratto, lasciandosi alle spalle il calore rassicurante dei dormitori. Poco dopo superarono le clessidre luccicanti nel Salone d'ingresso ed entrambi notarono con disappunto l’esiguo vantaggio su Serpeverde.

“Merlino, che freddo”.

James infilò le mani nelle tasche, mentre i pesanti battenti si spalancavano lentamente sul parco innevato.

“Non fare niente di divertente senza di me” disse Sirius, chiudendo il mantello.

“E tu non fare quella faccia, tra tre giorni sarai di nuovo qui”.

“In tre giorni con i Black può succedere qualsiasi cosa. E poi tra poco ci saranno le vacanze di Natale, sto preparando il lutto”.

James alzò gli occhi al cielo.

“Va bene, vado” ridacchiò Sirius, allontanandosi.

“E dai un bel bacio a Cissy da parte mia” gli urlò dietro l’amico, quando stava già solcando il sentiero.

Sirius sorrise senza voltarsi, stringendosi nel mantello. Il sole era tramontato da un buon quarto d’ora e quando raggiunse il cancello ovest la neve riprese a cadere; nella penombra riconobbe Regulus, ritto come un fuso nel bel mezzo del gelo invernale.

Si scambiarono dei saluti a mezza bocca. Dall’inizio dell’anno suo fratello sembrava essere già cresciuto in altezza; portava i capelli più lunghi e l’idea che così si assomigliassero maggiormente infastidì Sirius.

“Papà ha mandato una carrozza” disse Reg, estraendo il suo orologio da taschino “Dovrebbe essere qui a momenti”.

“Non vedo l’ora” mormorò Sirius.

Il suo commento passò sotto il più totale silenzio. Sarebbe stato un lunghissimo fine settimana.

 

*

 

La crisi iniziò mentre sua madre tentava di stringere il nastro d’argento attorno al bouquet e Narcissa fu la prima ad allarmarsi.

“Madre?” squittì, voltandosi di scatto nella sua direzione.

La donna alzò una mano pregandola di star ferma, mentre con l’altra copriva a stento la bocca.

“Ti prego, cara, devo chiudere questa fila di bottoni…” lamentò la sarta.

Il bouquet le cadde dalle ginocchia dopo un colpo di tosse troppo forte, fu come un istante riprodotto al rallentatore; i boccioli si infransero sul tappeto scuro e qualche petalo candido non scampò all’impatto.

“Bella fai qualcosa!”.

Gli occhi profondi di Narcissa la fissarono terrorizzati. Sua sorella rimase immobile, stretta – imbrigliata – nel suo abito da sposa, tra le mani salde della sarta, mentre lei si chinava verso sua madre.

“Le mie…” rantolò la donna, di fronte al suo sguardo impassibile “le mie…”.

“Le essenze, Bella!”.

Estrasse le essenze dalla pochette posata sul comò, dove erano raccolte in una boccetta d’oro, e le spinse sotto al suo naso. Inizialmente sembrò non riuscire a inalarle poi, lentamente, fecero effetto e la tosse si calmò. Narcissa si rilassò all’istante.

“State meglio?” chiese, con un sorriso tremulo.

“Certo” rispose Druella, la voce arrochita dallo sforzo “È solo un po’ di tosse, niente di che”.

“I malanni stagionali” pigolò la sarta con aria saputa, chiudendo gli ultimi bottoncini.

Raccolse il bouquet da terra e lo adagiò nuovamente nel grembo della madre, alzando gli occhi sul guanto che le foderava la mano con la quale aveva tenuto a bada la verità: macchie di sangue scuro grandi come punte di spillo ne ricoprivano tutto il palmo. Lei la implorò con un’occhiata patetica e l’Incantesimo le attraversò la mente un momento dopo, la bacchetta nascosta in una manica del vestito. Ogni traccia si dissolse, cancellandosi, e lei riprese ad annodare il nastro, un centimetro alla volta, con spaventosa dedizione. Se qualcuno tempo prima le avesse detto che sua madre si sarebbe ammalata d’umiliazione, non gli avrebbe creduto. Bella aveva il monito ancora impresso nella mente: “i Black hanno il sangue puro, e il sangue puro è forte. Indistruttibile”.

 “Avevate detto che avreste chiamato il medico, perché non l’avete fatto?” sbottò Cissy con tono accorato, quando la sarta si allontanò.

Sua madre tacque, fissandola in estasi. Narcissa aveva scelto una cascata di pizzo bianco spruzzata di cristalli, le maniche e il colletto stretti sulla carne visibile in trasparenza, fino al corpetto che le fasciava la vita. I capelli le ricadevano sulla schiena e la tiara tirava morbidamente indietro le ciocche che avrebbero potuto coprire il viso. Era bellissima, ma chiunque se lo sarebbe aspettato.

“Oh, figlia mia… Sei meravigliosa” esalò Druella.

Bellatrix si voltò per nascondere l’insofferenza, con il pretesto di recuperare il collier ancora rinchiuso nella fodera, e si allontanò da quella visione nauseante. L’unica cosa che desiderava era che la giornata trascorresse il più velocemente possibile. Quando si piegò per tirar fuori il gioiello dall’ultimo cassetto del comò, la ferita al fianco bruciò intensamente. Le sfuggì un gemito che richiamò l’attenzione di sua sorella, mentre invece sua madre pareva essere troppo rapita dalla contemplazione della sposa per prestare attenzione a qualunque altra cosa.

“Madre, da qui in poi potrà aiutarmi Bella” disse Cissy, prendendole le mani “Precedetemi pure, nostro padre inizierà a sentirsi solo”.

Dopo un ultimo sospiro adorante, Druella annuì, commossa. Bellatrix abbassò la testa al suo passaggio, avvicinandosi a Narcissa con i diamanti distesi attorno a un polso.

“Manca solo questo” disse.

Sua sorella si limitò a fissarla. Si fronteggiarono a lungo, in silenzio.

“Non solo questo” mormorò Cissy, alla fine.

Bella si irrigidì.

“Non è il momento”.

“Non so neppure perché lo sto facendo”.

“Che cosa?”.

Sembrò che volesse chiederle scusa.

“Penso a lei da questa notte. Non ho mai pensato a lei così a lungo da quando…”.

Bella scosse la testa e il volto perfetto della sorella si distorse in un’espressione di dolore. Fu un momento, gli occhi si velarono di lacrime e le labbra si contrassero attorno alle due parole più distruttive che avrebbe potuto pronunciare.

Mi manca.

Narcissa non parlò ad alta voce, neppure sussurrò, furono solo lettere accarezzate con la bocca. Nessun altro avrebbe potuto udire, nessun altro capire. La verità era che non erano state preparate, né messe in guardia in merito a quella possibilità: il pericolo di perdere quanto di più caro avevano al mondo.

Bella forzò il pianto in rabbia, il modo migliore per fuggire dal male.

Non possiamo permetterci nulla di tutto questo. Le lacrime sono per i bambini e l’infanzia è finita per sempre.

La sorella concentrò intensamente lo sguardo sui diamanti che rilucevano di bagliori sinistri, una lacrima appesa al mento, più preziosa di qualunque altra pietra. Bella fece scivolare i brillanti sulla sua pelle, il più delicatamente possibile, e fu pronta.

“Sei bellissima”.

Narcissa sorrise sinceramente.

 

“Cos’hai lì?”.

“Dove?”.

Strofinò un indice all’interno del colletto di Rodolphus, la macchia era ancora fresca e il polpastrello si tinse di rosso. Lui posò il calice sulla tovaglia immacolata, poi le prese la mano e infilò il dito tra le labbra, succhiando senza ritegno. Oltre la sua spalla, Bella incrociò lo sguardo di Druella e si concesse un ghigno soddisfatto.

“È per questo che sei arrivato in ritardo alla cerimonia?” chiese, quando sua madre si arrese e deviò l’attenzione altrove.

“Ho sostituito lo sposo in una faccenda spinosa. Tua sorella non avrebbe gradito se si fosse presentato ricoperto di sangue”.

“Terence era con te?”.

All’altro capo del tavolo, Mulciber alzò un bicchiere di sidro all’indirizzo degli sposi.

“Sì. Ha uno strano modo di intendere la tortura. L’obiettivo non è durato più di dieci minuti”.

“È un principiante”.

“Non direi. Il cervello è rimasto intatto e non ho idea di come ci sia riuscito, abbiamo ripulito i resti per due ore”.

“Tempo sprecato”.

Rodolphus scrollò le spalle e ridacchiò.

“Quel bastardo… si è infilato un alluce nel taschino. Tu hai idea di cosa voglia farci?”.

Terence si voltò nella loro direzione, un fazzoletto di seta rossa ripiegato là dove doveva trovarsi il macabro souvenir. Bella notò la strana protuberanza che tendeva la stoffa e sospirò d’irritazione.

“Ti prego fallo sparire prima che si ubriachi e faccia finire quella schifezza nel piatto di qualcuno”.

Rodolphus scoppiò a ridere sonoramente, attirando l’attenzione di diversi commensali, e si calmò solo quando suo fratello maggiore gli assestò una gomitata al riparo del tavolo.

“Agli ordini, mia signora” disse poi, massaggiando una costola.

“Chi era?”.

“Non ne ho idea. Aveva delle informazioni, a Lui bastava quello che gli abbiamo portato”.

“Come ti è sembrato?”.

“Non l’ho visto. Abbiamo lasciato la consegna al quartier generale, non c’era nessuno”.

Bella accavallò le gambe, fissando laconicamente i resti della seconda portata accumulati nel piatto: il menu ne prevedeva almeno altre cinque e non era in grado di prevedere con precisione a che punto sarebbe accaduto, ma di certo avrebbe vomitato prima di arrivare al dolce. La neve incantata, asciutta e distribuita in fiocchi perfetti, continuava a cadere dal cielo, sciogliendosi un secondo dopo essere atterrata. Il caldo era così opprimente e la sala talmente affollata che le pareva di soffocare. Il corsetto, poi, segava la pelle proprio dove la ferita era ancora aperta, limitandola nei movimenti. Mentre una stecca affondava nella carne viva e lei soffocava il dolore in un morso serrato, Narcissa guardava Lucius come se fosse un’emanazione divina. Lui la stava educatamente ignorando, preso in qualche chiacchiera politica di poco conto con suo padre. Bella gli leggeva negli occhi il disprezzo, il vanto per una superiorità dovuta unicamente al caso. Del resto, poteva davvero uno schizzo di sperma nobile essere migliore di un altro? Il pensiero la fece ridere tra sé e sé. Le mancava solo qualcosa tra le gambe, qualcosa tra le gambe e avrebbe potuto essere il capo degli eredi seduti a quel tavolo. Rodolphus le sorrise ancora, in modo complice. Lo sarebbe diventata comunque. E lui, l’aveva già capito?

Ingoiò l’ultimo sorso di vino. L’orchestra d’archi sospesa a mezz’aria intonò l’attacco di un valzer. La musica le fece perdere il conto dei bicchieri che aveva svuotato e le riportò la mente su sentieri pericolosi. L’aveva incontrato nel corridoio di marmo bianco, appoggiato con indolenza a una parete, la sigaretta accesa e la camicia stropicciata, sbottonata, come se fosse reduce da un festino. La cerimonia stava per iniziare, tutti erano già schierati, oltre l’entrata, e lui era l’unico a essere rimasto lì, proprio come lei, che aspettava Rodolphus con un geranio bianco tra le mani. Non l’aveva salutata. Si era solo voltato e aveva aggrottato le sopracciglia, gli occhi grandi adombrati dalla furia. Aveva un labbro spaccato, la crosta sembrava tendersi a ogni tiro, ma questo non gli aveva impedito di sorridere con strafottenza, prima di dileguarsi. “La prossima sarai tu”, aveva sussurrato.

“Cugina, mi concedi questo ballo?”.

Bella trasalì, trascinata a forza fuori dai suoi pensieri.

“Non è il caso di agitarsi così, la mia è pura cortesia. Del resto sei l’unica femmina seduta a questo tavolo” aggiunse Rosier.

Accettò l’invito con un moto di stizza, ignorando la mano che le stava porgendo e precedendolo sulla pista. Quando fu il momento di attaccare il primo passo, gli afferrò la vita.

“Quanto mi piaci quando fai il maschiaccio” sibilò Evan, stringendosi a lei.

“Guarda e impara”.

Prese la guida con decisione, attirando lo sguardo confuso di qualche dama. Evan si lasciò addomesticare per i primi tre tempi, rivelandosi una ballerina piuttosto talentuosa, poi sovvertì la situazione premendole un palmo sulla ferita.

“Stai buona” mormorò al suo orecchio, pilotandola nuovamente al centro della pista.

Bella serrò gli occhi e si lasciò trasportare.

“Sbaglio o avresti dovuto essere tu, la sposa?” chiese lui, una volta certo della sua resa.

“Ho preferito lasciare la scena a Narcissa. In posa rende meglio di me” rispose.

“Brava ragazza. C’è chi si chiede se l’affare con Lestrange andrà in porto”.

“È già andato in porto da un pezzo, lo sanno tutti”.

Evan rise, inarcando le sopracciglia.

“Mi riferisco al contratto matrimoniale”.

“Anche io”.

Bella gli conficcò le unghie nel braccio, quando le sembrò che stesse tentando di farla cadere.

“Per Salazar, quanta tensione. Cosa ti preoccupa, cara?”.

“Non hai trovato nessuna vittima di tuo gusto, tra le invitate?”.

Lui curvò in velocità, seguendo la musica.

“A dirti la verità, la Selwyn controlla la scollatura in modo così pudico… è invitante”.

“Che peccato. Puntavo su suo fratello”.

“Un’eccellente alternativa”.

 Volteggiarono di fronte al tavolo di zia Walburga e, con la coda dell’occhio, riuscì a cogliere l’assenza di Sirius.

“Non ti ho invitata a ballare per mero divertimento, comunque” Evan rallentò appena “Devo riportarti notizia”.

Bella scrutò a lungo il suo volto, tentando vanamente di identificare una traccia di ironia.

“Cosa?”.

“Mi è stata appena riferita da Avery, pare siano voci fresche da Hogwarts”.

“Parla”.

Evan non esitò.

“Pare che tua sorella sia incinta”.

Il suo sguardo corse subito a Cissy, mentre lui la faceva volteggiare per la piroetta conclusiva. Quando si ricongiunsero, Evan scosse la testa.

“Non lei, Bella”.

 

*

 

Sirius tamponò il labbro con il tovagliolo, seduto nel chiostro esterno. Si gelava, quasi certamente si sarebbe guadagnato una febbre da cavallo, ma il freddo sedava la rabbia, costringendolo a tremare. La spaccatura nel labbro si era riaperta, l’umiliazione era tornata a bruciare insieme alla carne viva. Lo schiaffo di sua madre - l’anello che aveva strappato via pelle e sangue -; Regulus che distoglieva lo sguardo nel silenzio compiaciuto di suo padre; gli invitati che avevano assistito alla scena con serafica curiosità. Aveva gettato la giacca chissà dove, in uno dei buchi spettrali della casa degli zii, e addosso non aveva nient’altro che la camicia, sopravvissuta al tentativo di liberazione che aveva fallito, in preda alla furia. Non ricordava neppure il motivo di tanta collera. Cosa aveva detto? Cosa aveva fatto?

Le finestre si aprivano sulla sala da ballo, dove gli invitati danzavano con eleganza. Per loro era impossibile vederlo, non c’era luce che rischiarasse il cortile di pietra, mentre lui aveva quello spettacolo fasullo a fargli compagnia, luci dorate e abiti da festa sullo sfondo muto della campagna inglese.

“Tra tre giorni sarai di nuovo qui”.

Oh, James. Ma tre giorni non sono sufficienti a farti sprofondare?

Il rumore dei tacchi piantati nella pietra infranse la quiete, mettendolo in allarme. Quel passo…

Bellatrix emerse dall’ombra. Era sola e sembrava sconvolta. Dall’ultima volta in cui l’aveva vista aveva perso peso, si era assottigliata. Quando si immobilizzò, a pochi passi da lui, lo colse la delirante intuizione che fosse venuta a cercarlo, forse per assecondare le ansie di Walburga. Mentre stava ancora formulando il pensiero, lei gli puntò contro la bacchetta.

“Lasciami in pace” le disse, lanciando l’ultimo mozzicone nella neve “Ho abbastanza freddo per rientrare da s-”.

Perse contatto con il terreno e l’unica cosa di cui restò consapevole fu il vuoto. Improvvisamente, senza un collegamento tra il prima e il dopo, si ritrovò immerso nel ghiaccio di schiena, il respiro mozzato e un dolore intenso che si irradiava dalla spalla sinistra fino al petto. Non la sentì arrivare, forse lei era già lì ancora prima che atterrasse, china su di lui.

“Dov’è?” ringhiò, premendogli la bacchetta addosso.

Sirius sentì il panico aggrovigliargli le viscere.

Andromeda.

Non fece in tempo a prepararsi per il secondo schianto. L’energia lo trapassò e si scaricò nel suolo, facendo sobbalzare il suo corpo come quello di un pupazzo inanimato. Chiuse gli occhi, smise di respirare una seconda volta. Il cervello si inceppò su considerazioni elementari. È così freddo, freddo, fred-mi ucciderà ora? Proteggere Andro-dov’è?dov’è?

Fingersi morto o almeno svenuto. Srius obbedì alla voce nella sua testa, non si mosse più. La mente riprese a lavorare più lentamente. I piedi di Bella, sepolti nei metri di tulle, dovevano essere poco lontani dalla sua gamba destra. La sorpresa lasciò spazio alla consapevolezza.

“Inner-”.

Non le diede il tempo di terminare la formula, si girò sul fianco e spazzò il selciato sotto di lei con le gambe, sbilanciandola all’indietro. Le fu sopra ancora prima che cadesse, si impossessò della bacchetta e la lanciò lontano nell’oscurità. I suoi graffi colpirono il collo e il petto, per un attimo riuscì a divincolarsi, poi Sirius la sollevò, approfittando del suo peso, e la schiantò a terra, facendole sbattere la nuca. Bella soffocò un gemito digrignando i denti. La schiacciò senza nessuno scrupolo, piantandole i polsi sopra la testa, sfregandoli sui ciottoli affilati.

“Ti uccido” sfiatò.

Avrebbe voluto urlare, invece lo scontro l’aveva lasciato ansimante. La rabbia ottundeva i sensi, l’aria sembrava improvvisamente così incandescente, il dolore non esisteva più. C’era solo il desiderio bestiale di colpirla fino a farle chiudere quegli occhi crudeli.

La gola di Bella, tesa all’indietro, si contrasse. Stava ridendo.

“Uccidermi…” gorgogliò, senza più muoversi.

I suoi capelli affondavano nella neve fresca, serpenti neri arrotolati e vivi, le labbra erano bianche come il gesso, tese sui canini appuntiti. Non sembrava neppure umana.

“Lasciala in pace, Bella, hai capito?”.

Aveva recuperato un po’ di fiato e la minaccia non suonò del tutto vuota. Lei non commentò ma smise di ridere.

“Te lo giuro, Bella. Se le fai del male ti uccido”.

Nessun Incantesimo, solo le mie mani strette intorno al tuo collo.

Lei lo guardò a lungo negli occhi, impassibile, poi scosse la testa.

“È colpa tua”.

Fu un sussurro ma non c’era nient’altro intorno a loro e risuonò nel nulla come un tuono. Sembrava esausta. Per un istante, Sirius fu sul punto di pentirsi per la violenza con cui l’aveva trattata. Le lasciò lentamente i polsi, senza smettere di guardarla. Le dita di lei si sollevarono rapidamente e non riuscì a scansarle in tempo. Si paralizzò quando, invece di sentirle conficcate nella carne, le avvertì scivolare sulla pelle, dal colletto della camicia alla mascella e poi oltre, lungo la tempia, attraverso una linea invisibile che gli solcava la fronte. I polpastrelli di Bella sembrarono percorrere strade così familiari sul suo viso, come se conoscesse precisamente la meta. Lo sguardo di Sirius si appannò. Pensò che si trattasse di un Incantesimo e temette di soccombere, invece la vista si fece nitida quasi immediatamente. Il palmo di Bella accolse una sua guancia, in un contatto così naturale… così naturale. La vista si appannò di nuovo. Capì di stare piangendo quando vide una goccia d’acqua infrangersi sulle labbra di lei, esplodere nel vapore grigio dei loro respiri. Anche Bella piangeva, le lacrime scavavano due tracce precise ai lati del suo viso.

Perché?

La lama penetrò nella mente all’improvviso, sfrecciò nel profondo del suo essere tranciando una resistenza debole.

Io ti amo”.

La voce urlò nella sua coscienza.

Sirius scattò all’indietro e finì nuovamente nelle braccia ghiacciate dell’inverno. Scappò prima che qualsiasi risposta potesse raggiungerlo.

 

*

 

Due settimane dopo

 

Aveva gli occhi chiusi e fu per questo che riuscì a sentire la presenza di Remus quando era ancora in fondo alle scale. A occhi chiusi il mondo era chiaro, non poteva nascondere nulla di veramente vicino e il pericolo di spaventarsi per qualcosa di ancora lontano era scongiurato. Lo sapeva meglio di chiunque altro: gli incubi peggiori si affollavano sempre sull’orizzonte.

“Sirius” l’amico gli sorrise, sollevato “Da quanto sei qui?”.

Si rigirò la pergamena tra le mani. I bordi si erano consumati, per quante volte l’aveva aperta e ripiegata.

“Non lo so” confessò.

Remus sembrò cogliere al volo i sottintesi di quell’ammissione, infatti si rabbuiò e lo raggiunse, sedendosi al suo fianco, sullo scalino

“Ti stavamo cercando”.

“Scusa. È che dovevo spedire una lettera… poi…”.

Il risultato era ben evidente e smise di parlare prima di ribadire l’ovvio.

“Che cosa non va?”.

“No, sto bene. È solo questa stupida lettera”.

Si forzò in una risata. Era il genere di stratagemma che sembrava riuscirgli meglio, in situazioni del genere; ma, ancora una volta, quel poco di buono che c’era nel suo sangue – il talento innato nel mentire – lo tradì.

“James non è d’accordo, però io credo sia meglio parlarne…”.

“Parlare di che?”.

“Cosa è successo?”.

Il brivido non sfuggì allo sguardo vigile di Remus, che forse dovette spaventarsi a morte, anche se non lo diede a vedere. Sirius gliene fu immensamente grato.

“Cosa ti è successo? Dal tuo ritorno sei un fantasma. Se non ci spieghi qual è il problema non possiamo aiutarti a risolverlo” continuò, con voce calma.

Il vento spazzò le scale e Sirius tirò le maniche del maglione oltre le dita, nascondendo i palmi contro il petto. Mentirgli era fuori discussione. Sarebbe stato inutile, perché in ogni caso Remus avrebbe fiutato la menzogna. Se la sua vocazione era la finzione, quella dell’amico era la capacità di decifrare tutti loro come libri aperti. Dove chiunque altro non avrebbe notato nulla più di una ruga, una smorfia involontaria, un’esitazione mancata, Remus avrebbe letto la reticenza, il dolore, un segreto.

“Sai, a volte ammettere qualcosa aiuta a stare meglio. È una specie di catarsi”.

Avrebbe voluto parlare ma la voce sembrava essersi nascosta in qualche anfratto irraggiungibile.

“Prendi me, per esempio” aggiunse l'amico “da quando tutti sapete del problema, va meglio. Il problema è sempre uguale, le mie preoccupazioni sono le stesse. Ma non sono solo. Capisci la differenza?”.

Annuì, ripiegando ancora in quattro la lettera.

“Perché hai paura?”.

“Perché ho paura”.

“È peggio di un alter ego licantropo?”.

Sirius affondò le dita tra i capelli, lasciando che il maglione risalisse lungo gli avambracci.

“Credo di sì, Remus”.

“Spiegami”.

L’amico non si scompose, rimase al suo fianco, sinceramente interessato a ciò che aveva da dirgli. Sapeva che sarebbe rimasto lì fino al mattino seguente, se ce ne fosse stata la necessità.

“Non so neppure come fare…”.

“Provaci”.

“Se ti rendessi conto che una parte della tua mente…” il respiro gli morì in gola, ritentò “Quello che voglio dire è, se ti rendessi conto di non poterti fidare di una parte importante di te stesso. Cioè se scoprissi di aver… perso qualcosa che avrebbe potuto cambiarti, renderti una persona completamente diversa”.

“Dipende da quello che credi di aver perso”.

“Ho un’ipotesi che, se fosse vera, potrebbe cambiare tutto”.

Remus lo incoraggiò con gli occhi.

“Non devi parlarne con nessuno, neppure con Peter. Neppure con James. Me lo devi giurare. Non ne parlerei neppure con te, se non avessi davvero bisogno di aiuto”.

“Te lo giuro”.

Sirius respirò a fondo. Pronunciare quelle parole ad alta voce lo spaventava molto più che pensarle soltanto. Si strinse nel suo stesso abbraccio. L’unica cosa che avrebbe voluto fare, in quel momento, era correre lontano, nel parco, perdersi ancora una volta e sparire.

“Credo che Bellatrix abbia rimosso alcuni miei ricordi”.

Remus incassò il colpo ma non interruppe il contatto visivo.

“Perché lo pensi?”.

“Sono successe delle cose strane, quest’estate… Meda mi ha parlato per caso di alcuni episodi che non ricordo affatto, cose successe quando ero già abbastanza grande. Non ho nessun ricordo in comune con Bella prima dei miei undici anni. Nessuno dei ricordi di cui mi ha parlato Andromeda, lei compare solo di sfuggita… è come tentare di afferrare un sogno. È tutto così confuso… e quando tento di forzare la memoria, sto male. Fisicamente”.

“Come te ne sei accorto?”.

“Al matrimonio Bella mi ha aggredito, voleva sapere dove vive Meda” rispose Sirius “L’ho disarmata. E poi lei… lei ha smesso di combattere. Mi ha… mi ha accarezzato… io l’ho sentita nella mia testa, Remus. La cosa peggiore è che ripeteva la stessa frase che stavo pensando anche io, o almeno una parte di me che non ho mai sentito. Una parte di me che non dovrebbe esistere”.

Non ebbe il coraggio di continuare a guardare l’amico negli occhi. La paura era ancora lì, allacciata ai muscoli.

Era scappato da Bella, quella notte, ma l’eco di ciò che era apparso nella sua coscienza aveva continuato a perseguitarlo nei sogni. Io ti amo. Il singolo istante in cui avrebbe voluto abbracciarla, con la sensazione di ritornare a casa. Si era spinto a fondo nella memoria, fino a sputare sangue: non era servito, nessun ricordo era ricomparso. Solo nel sonno qualcosa pareva riemergere dall’abisso, niente più che immagini spettrali.

“A chi stai spedendo la lettera?” chiese Remus, dopo diversi minuti di mutismo.

“Non la spedisco più, era per Meda”.

“Volevi raccontarle di questa storia?”.

“Sì, ma ho cambiato idea”.

“Credo dovresti tenerla fuori. Se le tue ipotesi sono reali, potresti non essere l’unico a cui Bella ha modificato la memoria”.

Sirius si afferrò il capo, puntando i gomiti contro le ginocchia.

“Ho paura di me stesso, non sono stato neppure in grado di reagire. Non so se voglio conoscere la verità… vorrei solo poter cancellare quello che è successo. Credi che potrei farlo? Voglio dire, rimuovere un ricordo su me stesso, è possibile?”.

Remus lo guardò con angoscia.

“Se quello che pensi è successo davvero, hai già rischiato troppo. Dovrei documentarmi meglio, ma quello che so è che è illegale modificare i ricordi legati alla sfera emotiva. Cioè, non sono semplici ricordi, sono ancorati alla parte più profonda di te, per così dire. Questa parte della memoria coinvolge sentimenti troppo intensi per non creare un trauma nel cancellarli. Il cervello non può restare indenne”.

“Vuoi dire che potrei essere già compromesso in qualche modo?”.

“Non credo che staremmo qui a parlarne se si trattasse di un danno grave. Ma non puoi pensare di cancellare qualcosa. Secondo me sarebbe troppo rischioso”.

“Capisci che questo potrebbe cambiare tutto?”.

“Tutto cosa?”.

“Me, lei. Non saprò mai qual è la verità…”.

“È importante? Sai in cosa credi”.

Sirius circondò le gambe con le braccia. Si sentiva perso. Era bastato così poco.

“Forse Bella ti ha fatto un regalo”.

Avrebbe voluto sorridere. In un’altra circostanza una frase del genere sarebbe suonata comica, in quel frangente, invece, era drammatica.

“Perché pensi che avrebbe potuto farlo?”.

Remus scosse la testa e toccò a lui lasciar vagare lo sguardo nel vuoto, alla ricerca di risposte.

“Non lo so, Sirius. Vuoi davvero scoprirlo?”.

 

*

 

Bella aveva scavato una fossa nelle lenzuola umide, si specchiava negli occhi di Rodolphus e vedeva solo buio.

“Sei sicura che non sia pericoloso?”.

Mai più pericoloso della sua coscienza che esplodeva, penetrando nel cuore di Sirius. Infinitamente meno rischioso di qualsiasi tranello conservato nella memoria.

“Devo farlo” rispose “Non so come potrei reagire. Se dovessi supplicarti, non lasciare la presa. Non lasciare la presa anche se dovessi piangere o urlare, anche se tentassi di colpirti. Non lasciare la presa, fino a quando non avrò finito”.

“Come me ne accorgerò?”.

“Non lo so”.

“Bella lo sai, che potresti bruciare tutto?”.

Avrebbe voluto possedere la forza per scoppiare a ridergli in faccia.

Bruciare, bruciare! Non c’è più nulla che il fuoco possa consumare.

Gli prese la mano e la avvolse stretta intorno alla sua, che manteneva la bacchetta puntata contro la fronte.

Neppure un respiro, prima di cancellare un universo di ricordi.

“Oblivion”.

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