Letter to Alexandra

di Melian
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Ecce Homo ***
Capitolo 3: *** Il Marchio ***
Capitolo 4: *** "Ho attraversato gli oceani del tempo..." ***
Capitolo 5: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


LETTER TO ALEXANDRA
 

 

 

 

Mi accorgevo del corpo, del suo interno, accanto a lei: del battito del sangue a fior di polso, del rumore dell'aria nel naso, del traffico della macchina cuore-polmoni. Accanto al suo corpo esploravo il mio, calato nell'interno, sbatacchiato come il secchio nel pozzo.”
Erri de Luca

 

 

 

 

PROLOGO

 

Quando Alexandra si svegliò, era scesa la sera: il cielo aveva già perso i suoi rossi e gli aranci soffusi d'oro; il sole era ormai tramontato da quasi un'ora.
Come tornata di colpo alla vita, novella Bella Addormentata, fissò le pesanti cortine di velluto damascato che ornavano il letto a baldacchino su cui era sdraiata, l'intaglio della testiera fatta da morbide e ricciute volute simili a viticci.
La stanza era immersa nel buio e l'intero castello sembra respirare sommessamente, un gigante di pietra che si sgranchisce.
Alexandra sfiorò il pavimento freddo con la punta dei piedi in un gesto lento, languido e sonnolento e si mise a sedere sulla sponda del letto, mentre i lunghi capelli biondi le ricadevano sulle spalle, come il velo della Vergine nella chiesa di Santa Maria in città.
Si avvicinò alla grande finestra, tirò gli spessi tendaggi e spinse le imposte: l'enorme luna piena si affacciò nella camera, la sua luce argentina allagò il buio e spinse le ombre danzanti negli angoli più remoti.
Circonfusa da quell'alone pallido, Alexandra aveva l'aspetto di un angelo dalla pelle di latte, con la lunga camicia da notte color avorio decorata di pizzo. Uscì sul balconcino e il vento la investì senza strapparle nessun brivido, come se quelle non fossero altro che carezze lievi e lontane. Contemplò la città che sorgeva ai piedi della collinetta, su cui si ergeva il castello circondato da alte mura merlate e un fossato oltre cui si gettava un ponte di pietra.
Alexandra riusciva a scorgere il lontano profilo delle case, i puntolini di luce delle lanterne al loro interno e il sottile sbuffo di fumo che saliva dai comignoli, persino la sagoma di un segnavento a forma di gallo su cui un raggio d'argento rimbalzava e creava in un improvviso riflesso.
Con un lamento sommesso, l'eco della campana della Chiesa di Santa Maria suonò l'ora della preghiera del vespro. I rintocchi si fecero via via più fiochi, fino a cessare del tutto, mentre un serpente di fedeli entrava nel duomo.
Alexandra, però, già satura dei campi ai margini del paese, dei cavalli che trainavano carretti e dell'affaccendarsi degli uomini nelle botteghe, preferì la sua stanza con lo specchio ovale incastonato in una cornice di avorio e appeso sopra al tavolo da toeletta: sopra vi erano sparse boccette e barattolini di vetro variopinto pieni di unguenti, profumi e polveri per il trucco, e poi forcine, pettinini e spazzole.
Si incantò del riflesso della luna nel bacile e nella brocca d'argento piena d'acqua; sorrise estasiata alla vista di un prezioso vaso di porcellana dipinta a mano pieno di iris, i suoi fiori preferiti.
Tuttavia si rammaricò di essere sola e dimenticata. Così uscì dalla camera e si avviò lungo l'ampio corridoio rivestito di pannelli di legno, a cui erano appesi quadri in pesanti ed elaborate cornici.
«Alphonse?» chiamò timidamente e la sua dolcissima voce rimbalzò giù per la lunga scalinata di marmo e tintinnò tra i cristalli dell'immenso lampadario in cui brillavano una moltitudine di candele.
Non ebbe risposta e proseguì. Poteva sentire le voci sommesse della servitù in qualche angolo remoto del castello, il tintinnare delle stoviglie nelle cucine e il rumore di un piatto che cadeva, l'imprecazione del cuoco e il gemito di una porta cigolante che si richiudeva con un tonfo secco. Si sorprese del suo udito così fino e si guardò timorosa alle spalle temendo di essere seguita, tuttavia dietro di sé seminava solo evanescenti orme minute e non c'era nessun altro.
Raggiunse lo studio: la severità spartana del suo arredamento la colpì. La porta-finestra era spalancata: il vento tagliente di ottobre faceva volteggiare le tende e aveva sparpagliato fogli fruscianti ovunque; il moccolo di una candela si era rovesciato e una patina di cera si era addensata sul legno pregiato della scrivania Pennini e calamai erano in bella vista, come se il loro padrone dovesse tornare a scrivere da un momento all'altro.
«Alphonse?» chiamò ancora, ma anche stavolta non ricevette risposta.
In punta di piedi entrò e serrò la finestra, raccolse tutte le pergamene disseminate sul tappeto e chiuse la copertina di un libro che il vento aveva ostinatamente sfogliato.
Accese la candela e scostò le dita tremanti con uno scatto, osservando con gli occhi socchiusi e dolenti lo stoppino nero che riprendeva vita e la fiammella guizzante che si allungava.
La luce calda si espanse delicatamente tutt'attorno, sbozzando i contorni di un clavicembalo e di una enorme libreria che occupava tutta una parete, una cassettiera piena di pomelli d'ottone e la poltrona dallo schienale alto e rivestita di velluto rosso su cui Alexandra si sedette. Dalla scrivania raccolse una busta sigillata con un timbro di ceralacca rossa, lo stemma della casata dei Benavia che campeggiava ovunque.
Con una grafia elegante e precisa sulla busta c'era scritto:

 

“Per Alexandra.”

 

La ragazza ebbe un sussulto e fissò la scritta con occhi sgranati. Spezzò il sigillo e distese i fogli ripiegati. Lette le prime righe, rimase immobile e si guardò attorno con una vena di ansia, come se si sentisse in trappola. Fece appello a tutto il suo coraggio e si immerse nella fitta selva di quelle parole.

 

 

 

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Capitolo 2
*** Ecce Homo ***


CAPITOLO 1 – ECCE HOMO

 

 

"Non è necessario credere in una fonte soprannaturale del male; gli uomini da soli sono perfettamente capaci di qualsiasi malvagità."
(Joseph Conrad)



 

 

 

30 Ottobre dell'Anno del Signore 1806

 

Mia dolce Alexandra,

 

avrei voluto potuto salutare, baciare le tue labbra rosse, sfiorare in punta di dita le tue palpebre chiuse nel sonno e dirti quanto è grande il mio amore per te, se di amore un uomo come me è davvero capace.
Ogni volta che pronuncio il tuo nome, immagino il tuo collo sottile, gli zigomi delicati e le tue folte ciglia bionde, i tuoi languidi occhi verdi: tra i nodi dei miei pensieri, ti porto sempre con me.
Eppure, se fossi davvero tornato a baciare le tue guance morbide, non avrei mai più potuto rinunciare a te, non sarei più potuto andare via. Allora, mia splendida creatura, perdonami se puoi. Perdona questo addio fatto di carta e inchiostro.
Come sarebbe stato difficile, se non impossibile, lasciarti prima del sorgere del sole!
Ti lascio con la certezza di saperti al sicuro e libera, padrona di te stessa e del castello: è tuo, come parte della mia eredità. È pieno dei miei ricordi, delle mie speranze, dei miei segreti: forse, quando avrai esplorato ogni angolo e scoperto ogni pietra segreta, potrai comprendere davvero ciò che i miei lunghi anni hanno significato all'interno delle sue mura e come tu abbia cambiato la mia sorte.
So di averti salvata e ciò, spero, renda la mia anima meno nera.
Hai pregato così a lungo per me, mia cara, ricordi? Magari quelle preghiere risuonano ancora nella navata della chiesa, anche se – temo – adesso dovrai abituarti a fare a meno dei salmi e del rosario, della messa scandita in latino in una continua e sommessa litania. Non ha più bisogno delle preghiere: ti ho affrancato anche dalla volontà di Dio e ora crescerai in potenza giorno dopo giorno. Così, in te, io rivivrò.
Adesso, signora del castello e della città che dorme alla sua ombra, capirai presto cosa significano queste mie parole, quali porte ti sono state spalancate, quali banchetti ti sono stati approntati.
Non odiarmi, Alexandra, per averti resa ciò che sei, come la bella Selene dei poemi greci su cui fantasticavi. Adesso sei sorta come la più splendida luna e io vorrei contemplarti per sempre, anche se è un lusso che non mi è concesso.
Mi auguro che, col tempo, potrai perdonare le mie bugie e i miei silenzi e apprezzare davvero i doni che ti ho lasciato. La tua bellezza, nei miei ricordi, non sfiorirà mai, invitta come la primavera. In te ho trasfuso tutto ciò che ho imparato, ogni potere e ogni lezione che il tempo mi ha concesso di apprendere: l'amore che solo un artista può avere per le sue opere mi spinge ad assicurarti che sei il mio vero e unico capolavoro.
Alexandra, mia adorata, non sono l'uomo che credevi io fossi.
Adesso, ti racconterò ogni cosa, poiché meriti di conoscere la verità.


Sono passati quattrocento anni da che sono morto: era una calda notte di primavera e le stelle splendevano come gioielli sulla chioma di una dea.
Ricordo perfettamente il volo di miriadi di lucciole nei campi colmi di papaveri rossi e il frinire sommesso dei grilli nei giardini della residenza estiva della mia famiglia, i Duchi di Benavia.
Era la notte del mio ventottesimo genetliaco e si faceva festa. Avevo dato un ballo in maschera e ne andavo orgoglioso, perché era il genere di festini molto ambiti tra i rampolli dell'aristocrazia piuttosto dissoluta e annoiata di quel tempo.
Stavo affacciato sulla terrazza con aria assorta, vestito solo con un paio di calzoni di pelle nera, mentre la brezza tiepida mi sfiorava, donandomi una piacevole sensazione di refrigerio e agitando i miei capelli castani, che portavo lunghi e mossi come tutt'ora.
Avevo lasciato dietro di me l'enorme salone e i miriadi di candelabri, le meravigliose donne mascherate vestite solo dei loro gioielli tra le braccia di uomini focosi e senza scrupoli: il groviglio di corpi in cui erano ammucchiati era un delirio istintivo e gutturale. Mi piaceva sentire i sommessi ansimi e le roche risate di quell'orgia sfrenata a cui anche io avevo preso parte poco prima.
In mezzo a quel consesso di peccatori, c'erano creature che la mente umana non avrebbe mai potuto concepire e che la Chiesa avrebbe perseguitato come all'epoca dell'Inquisizione.
Era il modo di vivere che avevo scelto fin da quando ero entrato nell'adolescenza: mi ero addentrato in un mondo fatto di peccato e di feroce dissolutezza con la leggerezza talentuosa che un musicista usa per suonare il violino. Ne ero assuefatto e adoravo scendere, gradino dopo gradino, la ripida scala che porta alla perdizione.
Il mio precettore se n'era accorto da tempo e probabilmente Berengario era stato l'unico ad aver intuito la portata dei miei pensieri più oscuri, la fosca passione che mi aveva sempre animato, e ne soffriva come potrebbe soffrire un uomo di Chiesa che ha sempre fatto degli stenti, delle privazioni e delle mortificazioni corporali il suo credo, l'ancora a cui aggrapparsi. Lo vedevo torcersi le mani quando rientravo al castello dopo giorni di assenza, sentivo il suo sguardo apprensivo sfiorarmi con insistenza e interrogarmi, sondarmi in silenzio, chiedendomi dov'è che andassi, cosa facessi e con quali uomini trascorressi il mio tempo.
Ero la sua persecuzione, povero Berengario!
Eppure, devo ammettere che mi divertiva enormemente tormentarlo con domande a cui lui non sapeva cosa rispondere e lo lasciavano spiazzato e tremante. Quel frate era un uomo lacerato, diviso tra la dottrina inculcatagli in anni e anni nel monastero, e il mondo che gli offrivo in rapidi scorci durante i nostri incontri.
Una volta mi aveva fermato poco fuori dalle stalle, mentre conducevo per le briglie il mio stallone preferito e stavo per tornare nella residenza di campagna. Ero vestito elegantemente, impeccabile e pronto per un appuntamento galante.
Berengario cercò di trattenermi: «Alphonse, parti ancora? Dovresti restare, a tua madre farà piacere: è la vigili di Ognissanti.»

«A mia madre o a te, maestro caro?» gli risposi con un sorriso beffardo.
Il frate mi guardò come se lo avessi brutalmente ferito e sospirò, posandomi una mano sulla spalla e parlandomi a voce più bassa, come se avesse paura di evocare chissà quali presagi: «Non lo sai quello che si dice di te, in giro? Non ascolti ciò di cui ti accusano?» mi chiese e, al mio sguardo noncurante, riprese con più veemenza: «Dicono che sei la rovina delle donne, che le seduci e poi le abbandoni senza più curarti di loro, come fossero miseri fiori recisi e secchi. Si vocifera che ti stordisci con l'oppio e giochi d'azzardo, bevendo fino a che non ti reggi in piedi. Parlano di enormi debiti contratti con leggerezza e di uomini che tu avresti fatto sfregiare da delinquenti dei bassifondi. Ti chiamano mostro, dicono che sei hai fatto il patto col demonio perché la tua bellezza non venga mai guastata dall'onta dei peccati che commetti. Non andare, Alphonse! Resta qui, vieni con me nella cappella e preghiamo per la tua anima.»
Mi divincolai e lo guardai con una ferocia che avrei potuto riservare solo al mio peggior nemico. Lo fissai e lui, sono certo, si sentì incenerire, tanto che si rattrappì e si passò una mano sulla faccia, scuotendo il capo e balbettando qualche scusa: «No, Alphonse, io non ci credo. Non vedo i segni dell'oppio nei tuoi occhi e so che la tua anima, in fondo, è pura. Sei un bravo ragazzo. Ma mi sfuggi tra le mani, ormai, e io sento che non posso permetterlo.»
Lo guardai con una compassione che aveva il preciso scopo di essere malevola e offensiva, di ferirlo ancor più crudelmente. Lo scostai e montai a cavallo, fissando il frate dall'alto della mia cavalcatura con aria annoiata.
«Maestro mio, tu credi perfettamente alle voci che circolano e ti danni l'anima per questo. E lo sai, in fondo, che non ti sono mai appartenuto, che il mondo in cui vorresti farmi vivere non ha nulla a che vedere con quello che è realmente il mio. Hai paura di me, Berengario, ma forse hai ancor più paura di te stesso e di quello che desideri.»
Feci una pausa per osservare i cambiamenti sul volto segnato dall'ansia e dalle rughe dell'uomo vestito del saio ruvido e marrone, dei suoi sandali impolverati e con la chierica ad ornargli il capo. «Tu che hai trascorso tutta la tua vita a rincorrere la volontà di Dio e nella rinuncia, nella speranza della salvezza eterna e di una santità che gli uomini di questo tempo non possono anelare, non hai vissuto davvero un solo giorno dei tuoi quarant'anni! La mia giovinezza ti suscita rimorsi e persino invidie e infiniti rimpianti. Quello che dovrebbe fare ammenda per le proprie azioni sei proprio tu!»
Lo lasciai con quelle parole ardenti di una passione che mi consumava senza posa, diedi di piglio ai fianchi del cavallo e attraversai i cortili del castello, mentre il sole tramontava e spandeva sulle mie spalle un barbaglio sanguigno.
Mio padre, Henry Eugèn di Benavia, desiderava che prendessi la signoria del casato e portassi avanti gli affari di famiglia, che mi sposassi con una ragazza adatta al mio rango e gli dessi dei nipoti. Voleva, insomma, vedermi finalmente essere l'uomo che aveva sempre voluto.
Tuttavia, pagava i debiti che seminavo nelle bische clandestine o nelle botteghe dove compravo oggetti tanto costosi quanto inutili. Perdonava la mia intraprendenza con le giovani serve e faceva in modo di nascondere i figli illegittimi che mi lasciavo alle spalle nei villaggi, quando circuivo le giovani e illibate figlie dei fattori. Metteva a tacere le voci che additavano quegli infanti dagli occhi azzurri come i miei con cospicui lasciti monetari e insabbiava le relazioni clandestine con le figlie dei nobili.
A dire il vero, mio padre mi perdonava tutto, ma solo perché era molto più interessato a preservare il buon nome di famiglia e le apparenze del casato dei Benavia che a lasciarmi sguazzare negli scandali.
Berengario, il mio precettore, intuiva che, oltre le donne, c'era molto altro. Si convinse, probabilmente, che il Demonio mi avesse corrotto l'anima e che giacessi con le creature più blasfeme che fossero mai apparse sulla terra. A dire il vero, il frate non andava poi troppo lontano con la fantasia: certo, nessun Demone dell'Inferno si era impossessato della mia anima, ma le mie amicizie erano oscure, molto più dubbie di quanto per un gentiluomo fosse lecito.
Si tormentava per la metodica freddezza con cui infrangevo ogni singolo precetto religioso che da bambino mi aveva impartito. A dire il vero, provavo una singolare gioia perversa nello studiarli con minuzia per poi distorcerli, beffarli e trasgredirli.
Credo che il massimo orrore lo provò quando, una sera, mi seguì in una vecchia casa nei sobborghi. Affacciato da una finestra, scorse lo spettacolo che avevo approntato nella stanza ricoperta di velluti rossi: sul lungo tavolo di legno avevo legato, come crocefissa, e fustigata fino a che la pelle delle sue cosce tornite e dei seni si era prima arrossata e poi coperta di sangue, una delle mie amanti – una focosa baronessa a cui il vecchio marito bavoso suscitava solo ribrezzo e che tradiva regolarmente.
Poco più in là, stava un'altra donna sospesa a mezz'aria da un intricato gioco di corde spesse che ogni tanto, negli intervalli in cui la mia frusta taceva, tiravo con mano sapiente, provocando la contrazione di tutta la tela di legacci e nodi contro quel corpo gemente e accaldato.
Trovai Berengario il mattino dopo, accucciato sotto il davanzale, in lacrime e con il rosario di legno sgranato tra le dita tremanti. Risi di lui, risi della sua apprensione e di quella miseria che gli vedevo scolpita addosso, di quella fame di vita che lo divorava e non ammetteva, del suo attaccamento a Dio e alla sua dottrina come viatico di salvezza che, però, non lo salvavano affatto da quella intima tortura.
«Perché, figliolo perché? Non fare questo alla tua anima, abbandona il vizio e la perversione finché sei tempo!» mi pregò mentre lo rimettevo in piedi con uno strattone e un sorriso irridente «Scegliti una brava ragazza e sposala davanti a Dio e alla Chiesa, e abbandona ogni cattivo spirito che guasta la tua luce!»
«Luce? Maestro, non c'è alcuna luce in me. Non vedi?» gli risposi, indicandogli l'edera che si arrampicava lungo il muro della casa smangiata dagli insetti «In ogni cosa v'è ombra, in ogni cosa v'è macchia, nulla è davvero puro e nulla può davvero anelare ad esserlo troppo a lungo. Ci corrompiamo appena veniamo al mondo. E tu ti ostini a non capire che a Dio non importa nulla di quanto gli uomini striscino come lombrichi nella loro stessa sozzura.»


La notte in cui sono morto, comunque, Berengario c'era.
Mi aveva ancora seguito e io lo sapevo, sapevo che dietro la porta socchiusa osservava le donne discinte dai volti coperti da maschere di pizzo nero che, sui divani, stavano con le cosce schiuse lasciando che gli uomini leccassero il loro ventre come una torma di cani rabbiosi e affamati, per poi affondare il volto contro la peluria del loro sesso e far vagare la lingua tra le pieghe delle carni umide.
Sapevo perfettamente che Berengario osservava i corpi intrecciati sui tappeti, mentre l'odore della pelle si mescolava a quello degli umori e i gemiti sommessi saturavano l'aria, una nenia capace di strappare brividi di godimento.
Immaginavo la sua faccia paonazza mentre realizzava il desiderio di essere lì a godere degli stessi inconfessabili piaceri, la mobilità del suo sguardo febbrile mentre, repentino, saltava da un punto all'alto della stanza, attratto dal guizzo di uno scudiscio che colpiva un paio di natiche tonde e sode, o uomini tenuti al guinzaglio che gattonavano dietro a donne estrose con l'attitudine al comando.
Mi dava un intimo compiacimento pensare che sudasse e tramasse mentre spiava da quello spiraglio le donne che legavo con la seta o i seni schiacciati tra le mie dita, mentre le possedevo con la foga di appetiti mai esauriti.
Il mio ego senza ritegno era titillato dall'idea che lui scorgesse i fumi dell'oppio che salivano in larghe spirali fino ai soffitti, impregnando la tappezzeria, e in cui danzavano figure eteree, creature senza tempo e senza nome che mescevano il sangue appena spillato dai corpi appesi al soffitto a testa in giù, coperti di miriadi di ferite e segni brutali di morsi.
Il sangue, la libagione perfetta, scorreva a fiumi e i Vampiri che governavano quel consesso e quelle gozzoviglie sfogavano la loro atavica Sete con prede che si gettavano tra le loro braccia consapevolmente e con gioia, anelando al mondo ovattato del Bacio Oscuro.
Quella notte decisi per Berengario. Spalancai la porta e mi presentai alla sua vista nudo come una statua greca e, altezzoso come un dio pagano – un novello Dioniso tra le sfrenate Menadi – e gli sorrisi sfacciato. Lo trascinai tra i miei amici che, ridendo, si raccontavano storie frivole, imboccandosi l'un con l'altro di cibi squisiti raccolti con le dita.

Gli mostrai ogni perversione e lo spinsi a gettare da parte la tonaca e il rosario, ogni remora e vergogna. Gli mostrai la bellezza unica e inafferrabile dei peccati più turpi, la magia che si compie quando la bocca di una donna ti si posa addosso e la sensazione inebriante di potere quando potresti strangolare qualcuno o reciderne la vita con la sottile lama di un coltello.
Gli insegnai la filosofia del dolore.


Tra tutte quelle splendide creature che cavalcavano l'onda dei peccati più torbidi, Violate era la più splendida. Aveva i capelli scuri come l'ebano e i suoi occhi, di un inconsueto grigio, erano acuti e penetranti: sembravano brillare come l'argento fuso, colmi di una malizia antica e di una inesplicabile malinconia. Violate possedeva il fascino e il carisma delle creature volitive e apparentemente fragili, la saggezza di chi molto ha visto e tutto ha provato.
A quel tempo, Alexandra, io l'amavo: l'amavo come si amano certe cose oscure, segretamente, tra l'ombra e l'anima.
Ora che ci ripenso, comunque, la differenza abissale tra te e lei è molto più chiara alla mia vista di quanto lo sia mai stata.
Tu sei stata la mia salvezza, il mio vero, grande e unico amore, simile al barbagliare dei primi raggi di sole sul mare increspato.
Violate, invece, era la travolgente ossessione della mia giovinezza e fu la causa della mia morte e della mia rinascita, il canto dolente di un'allodola. Si aggirava come una regina, vestita del bianco immacolato delle vergini, sul delirio di corpi umani affannati in amplessi travolgenti e con un sorriso indulgente dedicato ai giovani Vampiri che si ingozzavano senza posa.
Mi raggiunse sulla terrazza mentre le stelle sbocciavano nel cielo. Mi fu accanto in un sommesso fruscio di stoffe pregiate, nel silenzio che su di lei acquisiva un corpo nuovo, significati profondi e una voce mai udita. Mi sorrise, inclinando il capo di lato vezzosamente e poi, in un attimo, il suo viso divenne una maschera di furia e passione.
Mi colse alla sprovvista, non ebbi tempo di formulare un pensiero intellegibile: mi agguantò e mi morse; avvertii i suoi denti lacerarmi il collo dopo una lunga pressione che irradiava dolore lungo ogni nervo del mio corpo. Avevo provato altre volte quella sensazione e sapevo che sempre – sempre – vi sarebbe seguito il piacere.
Tuttavia quella volta fu diverso: Violate oltrepassò il confine sottile tra vita e morte e prese per sé molto più sangue di quanto avesse mai fatto. E io lo sentivo fluire, il sangue, da me a lei: un torrente in piena, ferruginoso e bollente.
Scivolavo giù, sempre più giù, cullato dallo sciabordio della linfa nelle mie vene, in una dimensione sconosciuta fatta di immense luci – come se le stelle si fossero riunite in grappoli danzanti davanti ai miei occhi appannati – e di abissi spropositati. Cadevo in quella labile dimensione che sta tra la coscienza e lo svenimento, mentre il sangue mi abbandonava e le membra si intorpidivano. Non potevo muovermi e cercavo disperatamente di respirare, di aggrapparmi a quello scampolo di vita che mi restava, al battito debole e asincrono del mio cuore ostinato che lottava senza posa.
Violate mi accompagnò sul pavimento, rimase china su di me e mi cinse con le sue braccia sottili, eppure capaci di immensa forza. Potevo sentire il lieve solleticare delle sue labbra che si chiudevano contro la ferita sulla mia gola: quella sensazione mi faceva fremere, preda di un orgasmo esplosivo.
Sopra di me, il cielo era sfocato e il ronzio insistente che avvertivo nelle orecchie era un suono spaventoso e totalizzante.
Fu la voce di Violate a farsi strada nella nebbia della mia mente: «Stai morendo, Alphonse. Ma non ti lascerò scivolare via: ti darò il mio Sangue, come ti avevo promesso. Dovrai continuare a lottare fino a che tutto sia compiuto. Dovrai volerlo, credere che vivrai. Bevi e sorgi!» mi ordinò e premette il suo polso ferito contro le mie labbra arse.
Credetti di non farcela, di affogare mentre mandavo giù i primi sorsi di quella bevanda squisita, un'ambrosia che avevo assaggiato mille volte prima di quel momento ma che, adesso, rappresentava la mia unica chance. Il mio corpo gridava la sua sete, il desiderio di vivere, di lottare: mi attaccai al suo polso come un infante che sugge il latte. Bevvi fino a che lei stessa mi sottrasse quella fonte di potere con un ringhio sommesso e provato, leccandosi la ferita che si rimarginava a vista d'occhio, mentre io – invano – ne pretendevo ancora.
Preda dei dolori più lancinanti, conobbi, in quei terribili istanti, la morte: tutto ciò che ancora di umano c'era nel mio corpo defluì via in una pozza vischiosa. Di colpo, la sofferenza cessò e, con essa, anche il mio cuore smise di battere.
Eppure il sangue di Violate si diffondeva in ogni fibra, in ogni capillare come una matassa di voraci serpi; si annidò ovunque, rimodellò ogni scampolo di carne: rinacqui.
E quando spalancai i miei occhi di Vampiro, vidi il mondo come mai prima di allora: i colori, le forme, le ombre e la prospettiva, tutto era nuovo, vibrante e brillante.
Violate non era mai stata così bella, una Vampira che sembrava risplendere di un potere tracimante come un gioiello incastonato nella notte.
Mi incantai ad osservare i fiori e i minuscoli insetti che strisciavano tra le foglie che non avevo mai notato prima di allora. Mi persi ad osservare la luna che, simile ad un occhio, troneggiava su di noi.
Berengario mi vide e capì. Pianse. Lo uccisi. Fu la mia prima vittima e bevvi la sua vita come primo tributo a ciò che ero diventato, strappandogli una pezzo di carne grondante dal collo come una belva senza controllo.
Eppure, ricordo che il mio maestro si abbandonò a me come non aveva mai fatto prima: capii che non avrebbe potuto desiderare di vivere ancora, non dopo quella notte passata nella dissolutezza, né poteva accettare di avermi davvero perduto per sempre.

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Capitolo 3
*** Il Marchio ***


CAPITOLO 2 – IL MARCHIO

 

 

 

Violate mi istruì nel Sangue per molti mesi e io scoprì un mondo fatto di sensi.
Scelsi di restare nella residenza estiva dei Benavia, in modo da suscitare nella mia famiglia meno sospetti possibili sulla mia nuova natura.
Imparai a celare il mio abisso dietro una coltre di maniere forbite e irreprensibili: da quel giorno fui l'uomo che mio padre a lungo aspettava maturasse e presi su di me la responsabilità di molti dei suoi affari.
Nessuna malalingua poté adombrare la mia condotta e tutte le cattive voci che circolavano su di me sfumarono, sciolte come neve al sole: il lupo aveva imparato a travestirsi da agnello.
Lo feci per preservare il vero segreto che mi accompagnava imperituro, e non per timore delle dicerie, naturalmente: ero un Bevitore di Sangue molto giovane e terribilmente affamato, non avevo alcuna intenzione di farmi scoprire e distruggere.
Non potevo resistere alla Sete e cacciavo spietatamente in ogni borgo, in ogni crocicchio, in ogni strada malfamata dove nessuno avrebbe pianto le mie prede.
Il sangue per me era tutto: la via, la verità, la vita. Non ne avevo mai abbastanza e adoravo la sensazione di calore che mi formicolava nel viso e nelle mani: il sangue della mia vittima danzava distendendo tutte le fibre inaridite del mio corpo, donandomi una parvenza di effimera umanità.
Non tornavo troppo spesso al castello e, quando accadeva, arrivavo rigorosamente dopo il tramonto. Andavo a trovare mia madre che, ormai, era invecchiata e passava le sue giornate ricamando davanti al camino nelle sue stanze. Allora, schermandomi dalla luce che il fuoco emanava e che mi era insopportabile, in piedi davanti alla finestra che dava sui giardini, la ascoltavo raccontarmi delle sue giornate, della vita mondana, dei pettegolezzi.
Mi guardava con un amore intenso e struggente malinconia, spesso standosene in silenzio. In quegli attimi privi di parole, sapevo che lei intuiva qualcosa, intravedeva un particolare in me che non aveva nulla di umano – l'iride brillante come metallo, i capelli lunghi e folti che sembravano avere una vita propria quando il vento li arruffava, la pelle pallida dove il reticolo di vene bluastre spiccava come una ragnatela, una sorta di fascinazione che mi portavo dietro e la bellezza travolgente dei Vampiri, simile a quella di statue scolpite nel marmo senza età, forti del loro enigma –.
Allora sobbalzava, schiudeva le labbra come sul punto di dire qualcosa e poi scuoteva il capo, tornava a sorridermi, scacciando i tristi presagi che si affollavano nella sua anima.
Mia madre, Donna Christine di Benavia, morì nell'inverno della mia rinascita per colpa di una violenta polmonite. La seppellimmo nella cappella di famiglia e le lasciai sulla tomba il suo scialle preferito: bianco e ornato di pizzo, quello con cui la ricordavo abbigliata quand'ero bambino.
Mio padre la seguì pochi mesi dopo, con l'arrivo della primavera. Non superò mai il dolore di quella perdita e si lasciò morire, consumandosi nel silenzio della camera che aveva diviso con sua moglie. Lo osservavo rimuginare per ore e compresi quanto i miei genitori si fossero amati, anche se raramente in pubblico li avevo visto scambiarsi qualche gesto di affetto. Il loro amore era sempre stato qualcosa di privato, consumato in tenerezze e piccole attenzioni dietro le cortine del castello senza che nessuno potesse intuirlo. Vidi i miei genitori, d'un tratto, sotto una luce diversa.
Mio padre si struggeva per il perduto amore della sua vita e io, senza che nulla più potesse davvero toccarmi il cuore, mi limitai ad esserne spettatore e a tumularlo accanto a mia madre quando spirò.
Mi sorpresi a chiedermi se avessi mai potuto conoscere una donna per cui sarebbe valsa la pena di “mettere la testa a posto”. Naturalmente era un pensiero senza senso.
Da essere umano, malgrado la mia condotta libertina, non avevo trovata nessuna che potesse dividere il mio abisso. Da Bevitore di Sangue, poi, mi sembrava chiaro che fosse del tutto impossibile.
Così mi trovai solo, ricco e potente, un gentiluomo dal vasto patrimonio e dalle molte proprietà, ma dalle abitudini bislacche, poiché di giorno non uscivo mai di casa e, anzi, dormivo il sonno degli Immortali, mentre la notte era il mio regno.
Ogni sera il castello si riempiva di voci, risate, musica, scalpiccio di passi, di feste.
Divenni il signore della contrada e non mi dimenticai mai di amministrare i possedimenti di campagna, la società mercantile o le piantagioni, lasciando la gestione ai contadini che avevano servito mio padre tanto fedelmente in tutti quegli anni. Per gli affari che abbisognavano della luce del sole per essere condotti, mi affidai a uomini leali a cui diedi la mia procura e che si rivelarono abili come avevo intuito: il mio sesto senso di Vampiro raramente sbagliava nel giudicare e selezionare gli esseri umani.
Avevo molte amanti, ma stavo ben attento che ciò che restava di quelle povere sventurate – corpi pallidi, sfioriti, svuotati, violati – non restassero nel castello, così che quegli omicidi non potessero essere ricondotti a me. A volte le seppellivo, altre volte le lasciavo galleggiare a faccia in giù sul fiume che tagliava la campagna e poi correva a gettarsi nel mare.
Spesso e volentieri, però, indugiavo in una lascivia e in una frenesia tale che Violate faticava a ricondurmi alla ragione: le mie vittime le appendevo a testa in giù, sgozzate, e attendevo che il sangue gocciolasse come da una macabra fontana. Bevevo di loro con la lingua tesa e la bocca spalancata come fanno i bambini che cercano di catturare e assaggiare i fiocchi di neve.
Dovetti aggrapparmi alla ragione e alla saggezza che l'esperienza di secoli donava a Violate, mia madre.
Lo potevo leggere negli sguardi, in quei guizzi di pensieri che la mia mente di Vampiro riusciva a rubare con facilità sotto forma di visioni: la gente scorgeva in me un essere meraviglioso, di una bellezza fuori dal comune, eppure letale, pericoloso. Gli umani istintivamente si ritraevano quando mi toccavano o incrociavano il mio sguardo capace di avvincerli in catene, avvertivano la freddezza delle mie solide membra, la perfezione di un corpo che il Sangue Oscuro aveva modellato fino ad averlo reso liscio e compatto come marmo polito, e agile, scattante come quello di un enorme belva selvatica.
Dovetti perciò stare molto attento a particolari che potrebbero essere definiti insignificanti, ma che – nel grande gioco delle apparenze – divenivano capitali.

Per esempio, gli abiti che indossavo erano pesanti d'inverno e freschi d'estate, così da dare l'impressione fittizia che soffrissi il caldo e il freddo esattamente come tutti gli altri. Presi l'abitudine di indossare dei guanti di pelle, così che coloro che sfioravo non avvertissero il contatto gelido con la mia mano, e schermavo gli occhi con la falda del cappello quando mi aggiravo tra le strade per celare il guizzo metallico che si rifletteva alla luce di qualche fiaccola.
Per la caccia, poi, mi spinsi molto più lontano rispetto ai primi tempi, quando non potevo controllare la mia Sete. Cercai di preservare la gente che viveva all'ombra della tenuta dei Benavia e me stesso da qualche inopportuna accusa.
Quello che cercavo davvero, però, non riuscivo mai a trovarlo negli occhi vacui di fumatori d'oppio, o nel fiato intriso di alcool degli ubriaconi, nemmeno tra le sottane delle prostitute sfiorite. Il mio appetito non si saziava con le povere, misere creature che prendevo nei quartieri malfamati, attirandole nell'ombra come in una ragnatela e violando le loro gole con i miei denti. Il sangue che sprizzava copioso tra le fauci riusciva a quietarmi solo per il tempo in cui il loro cuore martellava forte e io potevo sentirlo come il passo pesante e ineluttabile di un gigante che avanzava nell'oscurità, naufragando in un mare di visioni che esso evocava.
Quando poi la morte rapiva quegli sventurati e staccavo le labbra dallo squarcio che io stesso avevo scavato, li lasciavo stramazzare al suolo come sacchi vuoti e flosci e non provavo più nulla per loro. Li avevo intensamente amati, di quell'amore viscerale e carnale che è la lussuria del sangue, fin quando danzavano con me nel limbo tra morte e vita. Però quando li contemplavo riversi al suolo, pallidi come fantasmi, perdevano ogni attrattiva.
I Vampiri, Alexandra, sono attirati dalla vita, dal movimento, dalla bellezza di gesti dei mortali che ai nostri occhi preternaturali possono apparire persino goffi e buffi, ma che sono anche intrisi di una sensualità travolgente che ci chiama come falene. Abbiamo fame del tepore di un corpo tremante che si avvinghia al nostro e della sottile eccitazione mista a paura, del sangue speziato come una bevanda divina non appena il piacere del nostro Bacio serpeggia sotto la loro pelle.
Ne siamo attirati perché sono tutto ciò che noi non siamo più.
E fu questo, di te, che più di ogni altra creatura esprimevi con tale naturalezza e delicatezza, che mi fece perdere la testa.

 


Poi, un giorno, Violate mi lasciò. Erano trascorsi dieci anni e lei desiderava partire, recarsi in Italia a visitare la magnifica Roma e la superba Venezia. Mi scongiurò di andare con lei, ma preferii non lasciare il castello dei Benavia.
A quel tempo credevo che sarebbe tornata presto. Capii solo troppo tardi che il tempo è un concetto relativo per quelli della mia razza e che ciò che per i mortali è un periodo lunghissimo per noi è un mero battito di ciglia. Non l'ho rivista per almeno un paio lustri.
È adesso che comincia la storia della mia rovina, Alexandra. Tutto quello che fino ad ora hai letto, non è che il preludio alla vera avventura che mi ha spinto a vagare in lungo e largo per l'Europa, a dispetto del mio desiderio di restare nelle terre che furono di mio padre e attendere il ritorno di Violate.
Prima di tutto, però, devi sapere che in quelle notti solitarie mi feci più audace. Vagai di città in città, affidandomi completamente ai miei poteri preternaturali, alla mia velocità e alla mia agilità per spostarmi senza che i mortali se ne accorgessero. Ero audace, sì, ed euforico: sfidavo la sorte allontanandomi dalla sicurezza del mio castello e tornando prima che l'alba mi cogliesse in fallo.
Sull'antica via lastricata invasa dalle erbacce che attraversava la regione, a quel tempo, sorgeva un vecchio monastero. Era una costruzione di origine medievale: aveva la stessa squadrata severità e la cupezza di tutti gli edifici risalenti a quell'epoca e, a dire il vero, ispirava un profondo senso di tristezza, con quelle linee dure e aguzze che sembravano tratti di un volto di pietra impietoso.
Sotto una fitta cortina di pioggia battente, contemplai quell'edificio che, per chissà quale forza sovrannaturale, sembrava chiamarmi.
Entrai nella chiesetta del monastero ornata di antichi mosaici raffiguranti figure di santi longilinee e piatte, prive di profondità alcuna, e di vecchie panche di legno scuro e lucido. Sul fondo della navata, nella gloria dell'abside rivestito di brillanti tessere dorate, spiccava una croce di legno dipinto e l'altare coperto dei paramenti sacri.
Tutto, attorno a me, comunicava austerità. Gli occhi del Cristo bizantino appeso al suo legno di sofferenza, dalle palpebre scure e pesanti, sembravano giudicarmi. Eppure, io non avevo timore della collera divina: nessuno sarebbe arrivato in quella chiesa, scendendo dalla croce, per punirmi e precipitarmi all'Inferno. Vivevo e prosperavo, mi nutrivo della vita altrui; la morte delle mie prede significava la mia resurrezione tramonto dopo tramonto, e nessuno – nemmeno la Santa Chiesa Cattolica – poteva impedirmelo.
Ciò che più mi colpii, però, fu la figura di una donna dai capelli corti e scuri, le mani giunte che serravano convulsamente un rosario dai grani cremisi e si agitava inquieta sull'inginocchiatoio. Era così assorta in preghiera, che all'inizio non si accorse di me. La osservai dalla navata, mentre ai miei piedi si formava una pozza d'acqua colata dai vestiti fradici di pioggia.
Tremava e pregava con un fervore unico e – spiando i suoi pensieri – scoprii che era una novizia che attendeva la cerimonia della vestizione: l'indomani sarebbe stata consacrata come “Sposa di Cristo” e avrebbe passato il resto della sua giovane vita rinchiusa in quelle quattro mura, seppellendo la propria bellezza dietro i pesanti abiti neri e il lungo velo inamidato.
Stava piangendo ed era terrorizzata. Sentivo l'odore della sua paura, ma non riuscivo ad intuirne la causa.
«Liberami dal male, ti prego. Liberami!» pregava con tutto lo slancio di cui era capace, singhiozzando.
Avanzai nella navata e lei, finalmente, si voltò e mi fissò come un capriolo smarrito nei prati alla mercé di un lupo, con i grandi occhi castani spalancati, dilatati come se volessero risucchiarmi. Colsi un frammento fugace dei suoi pensieri e intuii il mio aspetto: lacero e sporco di fango, le apparivo come un uomo scarmigliato, con i capelli lunghi e mori appiccicati alla faccia dai tratti marcatamente maschili e il lungo mantello afflosciato sulla schiena.
Era spiazzata, diffidente, ma si rialzò e scorsi un barlume di curiosità nei miei riguardi.
«Mi dispiace, non volevo spaventarvi. Con il temporale i cavalli della mia carrozza si sono imbizzarriti, rifiutandosi di continuare il viaggio. Appena ho visto le luci provenire dalla chiesa, sono entrato.» mi giustificai, mentendo spudoratamente. Le offrì il mio miglior sorriso affabulatore, come la serpe che tende la mela del peccato, e un inchino cavalleresco «Mi chiamo Alphonse.»
La novizia non rispose, combattuta tra l'infilarsi nella porta che l'avrebbe condotta nel chiostro del monastero lasciandomi lì da solo, e l'affidarsi ad uno sconosciuto vomitato dalla tempesta stessa.

«Potrei chiamare i servi, se volete aiuto. Io non posso...»
«No» la interruppi prima che si allontanasse e allungai la mano per trattenerla e ingentilì la voce: «Non disturbatevi. Lasciate solo che mi ripari per un po', finché passi il temporale; poi ripartirò. Come vi chiamate e perché piangete?»
La ragazza sembrò rilassarsi e annuì, restando ferma accanto alla panca.
«Beth. Elizabeth.» si presentò e scosse il capo quando aggiunse: «La Badessa aveva ragione: la strada verso l'amore di Dio è piena di pericoli e il Demonio è sempre pronto a tentarci. Ho solo... paura, paura di cadere nelle sue trame.»
«Il Demonio non esiste, bambina mia. Probabilmente, non esiste nemmeno Dio.» le risposi allora con una naturalezza sconvolgente, con il tono dolcemente beffardo che al mio maestro Berengario aveva sempre procurato un tremito e qualche singulto disperato.
Per Beth non fu diverso: la vidi portarsi una mano alla bocca, scandalizzata dalla mia bestemmia in quel luogo dove tutto – dalle candele che si scioglievano sui supporti di bronzo, ai mosaici, ai breviari posati sulle panche, all'odore di incenso che avrebbe potuto stordire i sensi di un mortale – parlava di sacro.

«Credimi, bambina. Tu vuoi rinchiuderti in questo monastero per tutta la vita, rinunciando alla mondanità e ai piaceri, preferisci avvizzirti dietro solide mura inaccessibili al mondo per un ideale di amore e salvezza che è frutto di mere illusioni. Perché se Dio esistesse e il Diavolo con lui, allora io non dovrei essere qui, non dovrei camminare su questa terra come gli antichi Dei.» la incalzai e la mia voce preternaturale si accese di una passione bruciante che si alimentava di una crudeltà che non mascheravo ma, anzi, conoscevo e amministravo benissimo. Volevo ferirla e ci stavo riuscendo. Volevo incantarla, legarla al mio sguardo, al potere del Sangue Oscuro, e lo feci: la attirai a me e la strinsi con una forza che non avrebbe mai potuto saggiare in qualsiasi altro uomo.
Beth soffocò un grido e tutto ciò che le sfuggì dalle labbra fu un sommesso mugugno di paura, stavolta più che giustificata. Mi fissava come si potrebbe fare con qualcosa di orribilmente attraente, che insieme ci repelle e ci affascina.
Mi lasciai toccare. Le permisi di premere le dita contro il mio viso e assaporai la sensazione di gradevole ed elettrico tepore che suscitava in me. Mi sfiorò le guance, tracciò la curva degli zigomi e della mascella e mi accarezzò persino le palpebre, inseguendo subito dopo il profilo del naso e delle labbra schiuse e frementi. Presa dal delirio di un cieco che ha bisogno di conoscere attraverso il tatto tutto ciò che ha davanti, mi premette i palmi contro il viso e continuò a fissarmi con sguardo lucido, folle.
Per lei non ero che una statua che si era appena animata, un prestante Dioniso sceso dal suo basamento di marmo che la stringeva in un abbraccio che avrebbe potuto spezzarle la schiena; qualcosa di inconcepibile, di inumano, di terribile. Era profondamente turbata, scopriva un mondo di sensualità e bellezza che non aveva mai conosciuto in quel semplice e possente abbraccio.

«Tu sei il Diavolo!» sibilò e cercò di ritrarsi, di divincolarsi con tutte le sue forze, in un disperato anelito di vita.
Non le risposi, ma la mia bocca assunse una piega più crudele. La lascia andare e la osservai barcollare e indietreggiare verso l'altare, salendo e incespicando i pochi gradini che la separavano dalla croce dipinta.
Mi passai la lingua sui denti aguzzi: avevo sete, la smania del sangue mi consumava.

«Salvami!» pregò Beth, cadendo in ginocchio ai piedi del Cristo che, indifferente, non le offrì né responso, né conforto. Si dondolò, premendo le mani sulle tempie, gli occhi sbarrati su un punto indistinto del pavimento.
Aveva perso la ragione e io avevo evidentemente contribuito al suo definitivo tracollo. Quello era solo il triste epilogo di un tormento che la ossessionava da ben prima che avessi messo piede in quella chiesa.
La verità, Alexandra, è che non provai alcuna compassione per quella ragazza, capisci? Non credo che i Vampiri siano davvero capaci di pietà o di empatia, al di fuori del Legame di Sangue. Forse, possono riuscirci solo quelli che hanno scelto un sentiero più che mai vicino all'umanità e si disciplinano per tentare di conservare l'eco di certi sentimenti. Ma io non li avevo provati nemmeno da vivo e, dunque, quella sorda disperazione a cui assistevo mi era del tutto indifferente.
Infine, le fui accanto in un movimento fulmineo. La afferrai per le spalle e la sollevai di peso, precipitandola nella mia oscurità: affondai le zanne nella sua gola mentre si dibatteva e cercava di graffiarmi e strapparmi i capelli; il suo lamento venne soffocato contro la mia spalla.
In quei primi istanti di ferocia, lasciai che fosse il suo cuore terrorizzato a spedire, con potenti battiti, il sangue tra le mie fauci. Poi premetti le labbra contro la ferita e iniziai a succhiare avidamente, ingozzandomi.
Si rilassò di colpo, cedette e la sospinsi contro l'altare fino a farla sdraiare. La presi lì, come se fosse un sacrificio a Dio, anche se l'unico dio là dentro, probabilmente, ero io.
Le donai il ruggente piacere del Bacio Oscuro, la pace di una sensualità che non avrebbe mai più conosciuto. Le strappai le vesti e accarezzai quel corpo palpitante e inviolato che si schiudeva a me come un fiore. Ero incurante della blasfemia che compievo in quel luogo consacrato, mentre lei gemeva e stringeva le cosce contro i miei fianchi e io mugolavo come una creatura infernale ad ogni sorso.
Vidi, allora, il turbine di emozioni e visioni che il sangue portava con sé, liquido specchio: il tormento di Beth chiusa in una cella angusta del monastero e un'ombra che si staccava dal muro e torreggiava su di lei, avvolgendola. L'ombra danzava, non aveva volto, né nome e nemmeno un corpo, ma le stava accanto e le sussurrava all'orecchio sordidi propositi, promesse, minacce, accordi. E sentivo Beth cantilenare sommessamente preci mentre si rattrappiva in un angolo della scomoda branda e piangeva con il volto nascosto tra le mani. L'ombra rideva di una risata agghiacciante e crudele; spariva solo per tornare a tormentarla ogni notte.
Ah, povera bambina! Qualcuno giocava davvero con lei, qualcosa le accarezzava l'anima per possederla e distoglierla dalla vita di contemplazione che si era scelta contro il parere di suo padre!
La visione cessò; lo scorrere del sangue divenne più lento. Tornai alla realtà, al corpo che serravo con troppa foga, nemmeno fosse stata una spugna da spremere. Staccai la bocca dalla ferita e non premurai di stagnarla.

«Vai in pace, bambina.» le accordai come addio e le bacia le labbra prima che esalasse l'ultimo respiro.
La lasciai sull'altare, il capo reclinato come uno stelo reciso. Mi leccai le labbra ancora sporche di rosso.


«Non ne avevi il diritto, Vampiro.»
Mi voltai con uno scatto e vidi, nel punto preciso della navata in cui mi ero fermato poco prima, una figura alta e avvolta in un mantello scuro e voluminoso. Non scorsi il volto sotto al cappuccio, ma colsi il brillio di occhi di un vivido blu, somiglianti a fiamme fredde.

Compassato, l'uomo – almeno tale mi parve in quei primi istanti – avanzò e scrutò la morta sull'altare.
«Mi apparteneva. La sua anima doveva essere mia: da lungo tempo avevo iniziato la mia opera di corruzione su di lei. Ma tu hai rovinato tutto per il tuo appetito.» mi disse con voce bassa, fonda, metallica: aveva una sonorità mai udita, così diversa da quella umana e persino da quella dei Vampiri. Da lui, in effetti, non avvertivo provenire nemmeno l'aroma del sangue.
«Chi sei?», gli chiesi guardingo.
«Nuberus. E tu mi devi un'anima.»
«Anima?», chiesi con un tono che suonò irridente. Sollevai le mani e gli mostrai i palmi, come in una resa: «Mi dispiace, non ne ho di scorta nelle mie tasche.»
Nuberus, allora, mi raggiunse con la stessa velocità sorprendente di cui ero capace io. Vidi il suo mantello fluttuare come un nembo tempestoso, uno sbuffo di tetro fumo che si snodava lungo il pavimento in volute capricciose.
«Stolto» sibilò e avvertii chiaramente il riverbero del suo potere che faceva tremolare ogni singolo oggetto attorno a noi e mi ghermiva con artigli invisibili «Perché prenda la tua, dovresti solo morire, morire davvero. E, dunque, ora ti annienterò.»
Era ad un soffio da me e sotto al cappuccio c'era il vuoto più assoluto, il vuoto insopportabile di una tenebra senza spiragli, pesante come un vello di lana. Eppure, i suoi gelidi occhi azzurrini gli davano un'espressione che non saprei descrivere: sembrava ghignasse di una perfidia rara. I suoi occhi... non dimenticai mai quanto somigliassero a mefitici fuochi fatui. Mi intrappolò nelle spire della sua aura e gli bastò un mero cenno per richiamare a sé una lampada ad olio.
Sentii il calore della fiammella sul viso, l'incresparsi della pelle e il dolore dell'ustione che iniziava a sfigurarmi la faccia e a far sfrigolare la pelle preternaturale così sensibile al fuoco. Emisi un orribile ringhio di belva terrorizzata., incapace di difendermi. Nuberus torreggiava su di me.
«Non la mia!», urlai selvaggiamente e cercai di allontanare la lucerna con scatti convulsi delle braccia, tastandomi il viso come impazzito.
«Non la tua? Allora ne troverai una per me. Della tua prossima vittima, tu avrai il sangue, ma lascerai che sia io a coglierne l'anima prima che muoia» ribatté allora Nuberus e mi sembrò che quella proposta fosse stata nei suoi piani fin dall'inizio, poiché colsi il brillio di un sorriso sordido sotto al cappuccio, molto più iniquo e insano del mio «Per ogni tua preda, un'anima per me: finché perdurerai su questa terra, anche io prospererò. Queste le condizioni per evitare di ardere su una pira funebre, questo è il patto. Scegli!»
E scelsi, scelsi di accettare, scelsi per pura codardia, per il terrore nero che il fuoco riusciva ad instillare in me, travalicando ogni ragione. Perché il fuoco e il sole possono distruggerci e la Bestia che si cela in ognuno di noi cerca di tenersene ben lontana. Quando pronunciai quel sì, non avevo davvero chiaro ciò che sarebbe accaduto in futuro.
Nuberus scacciò la lampada e la vidi cadere sul pavimento di pietra con un gran frastuono, spandendo l'olio che si incendiò alla tenue fiammella sopravvissuta.
Il Demone sollevò la mano e sentii il suo tocco contro il petto: premeva con forza contro lo sterno e io avvertii un improvviso e sordo dolore, come se il fuoco mi fosse strisciato sottopelle.
Frugando i mie abiti, scoprii il marchio che Nuberus mi aveva appena impresso: in un cerchio era racchiuso un motivo intricato di linee morbide che si intrecciavano, formando un simbolo che non avevo mai visto, un sigillo che adesso ci legava e rendeva le nostre sorti interdipendenti.
Da quella notte, Alexandra, iniziò il mio patto con il Demonio.

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Capitolo 4
*** "Ho attraversato gli oceani del tempo..." ***


CAPITOLO 3 – “HO ATTRAVERSATO GLI OCEANI DEL TEMPO PER TROVARTI”

 

 

«Lui conobbe lei e se stesso, perché in verità non s'era mai saputo. E lei conobbe lui e se stessa, perché pur essendosi saputa sempre, mai s'era potuta riconoscere così.»
Italo Calvino


 

 


Potrei parlarti di così tante cose, Alexandra, tante da riempire l'arco di molte vite mortali.
Ho tenuto molti diari dei miei viaggi e, se vorrai, potrai leggerli al lume della lampada, accoccolata sulla mia poltrona: le mie memorie.
La memoria, per me, è stata spesso una maledizione: avrei voluto dimenticare molti episodi della mia esistenza secolare, ma il sangue vampiresco ha sempre avuto l'incredibile potere di ricreare i ricordi con una vividezza sconvolgente, come se – allungando la mano – potessi toccare le figure evanescenti rievocate dalla mia stessa mente.
Per esempio, della notte in cui strinsi il contratto con Nuberus, rammento che mi condusse fuori dalla chiesa e, nel rombo del tuono, mi indicò la strada che avevo percorso solo qualche ora prima, dove ruscellavano pioggia e fango.
Le gocce d'acqua erano fitte e gelide come lame di ghiaccio, ma non poterono zittire il rumore di zoccoli che martellavano il lastricato o lo sferragliare di ruote che ne seguiva.
La cortina di pioggia si schiuse e una carrozza nera trainata da un cavallo altrettanto nero sfilò a velocità sostenuta, fermandosi proprio davanti a noi con uno scarto.
Nuberus sembrò sorridermi, sinistramente divertito: «Questa è la tua carrozza, non è vero?»
Mi prendeva in giro con tono sardonico e io gli risposi con un'occhiata fredda e mi limitai a chiedere: «Da dove spunta?»
Nuberus salì a cassetta e afferrò le redini dello splendido stallone. Era un animale superbo, con il collo arcuato e muscoloso e le froge allargate che su cui il respiro bollente si condensava nell'aria.
«Non importa da dove viene, sappi solo che questa carrozza sarà quello di cui avremo bisogno. Ti conviene salire, Alphonse: non vedi il cielo? Tra poco verrà l'alba.»
«Non è mia intenzione lasciare la tenuta di famiglia.» mi opposi con decisione.
Eppure, quando rivolsi lo sguardo al cielo tempestoso e rabbrividii, seppi che aveva ragione: il sole sarebbe sorto di lì a poco. Così mi infilai nell'abitacolo, sprofondando nei comodi sedili di pelle nera.
«Dovremo partire, se non vuoi che tutta la tua gente muoia e si destino infiniti sospetti che non porteranno che alla tua fine. In fondo, non ti spingi già lontano per cacciare? Scegli tu: sei disposto a sacrificare tutto il tuo borgo all'altare della tua Sete e al mio?», chiese Nuberus, con voce bassa e suadente, prima di far schioccare i finimenti.
La carrozza, sobbalzando e scricchiolando, partì e io rimasi in silenzio.
Sapevo che aveva ragione. Volevo preservare la mia terra, i suoi abitanti e non volevo che mettessero il castello dei Benavia a fuoco e fiamme. Dovevo portare Nuberus lontano, molto lontano da lì. E, forse, avrei potuto cercare Violate e trovare un modo per liberarmi del marchio del Demone assieme a lei.
«D'accordo, Nuberus. Partiremo.»
Le ultime cose che ricordo sono il dondolio della carrozza che proseguiva incurante del maltempo lungo una via sterrata, il tintinnare della pioggia sul tettuccio, il paesaggio della campagna sempre uguale, con filari di alberi da frutto che stormivano nel vento e qualche fattoria.
Sorse il sole e io, protetto dal buio di quella carrozza infernale, scivolai nel sonno dei Vampiri, un deliquio di sogni in cui abbracciavo tutto il mondo, annullandomi.

 

Notte dopo notte, mi svegliavo in quella stessa carrozza e mi ritrovavo in luoghi sempre diversi. Sembrava quasi che volassimo, che il cavallo fosse instancabile e abitato da chissà quale spirito maligno o che i poteri di Nuberus piegassero lo spazio e il tempo; ma probabilmente era solo una spiegazione troppo fantasiosa. Di giorno dormivo, simile ad un morto, e non avevo coscienza di nulla, quindi ciò su cui posavo gli occhi al tramonto era sempre fonte di sorpresa.
Se per i primi tempi non mi azzardavo a lasciare la protezione di quella carrozza quando eravamo in terra straniera, negli anni imparai invece ad affittare camere nelle locande e negli ostelli, così come interi palazzi e appartamenti lussuosi e mi fermavo anche per molti mesi nello stesso luogo.
L'oro che avevo a disposizione riusciva a comprare tutto ciò di cui avessi bisogno, anche la compiacenza degli esseri umani che, credendomi solo un ricco gentiluomo eccentrico, mi perdonavano quelle che per loro dovevano essere stranezze senza soffermarcisi troppo.
Per esempio, mi capitava di sedere alle tavole imbandite in compagnia di molti commensali, ma non di toccare mai cibo, limitandomi solo a sollevare la coppa piena di vino e a farlo volteggiare delicatamente.
Comprai mobili, tappeti e gioielli, statue e quadri e persino grandiosi arazzi e una moltitudine di libri. Mi piaceva arredare le case che compravo e, quando ero costretto a ripartire, le lasciavo amministrare a molti valenti avvocati, fornendo loro tutto il denaro necessario a mantenere quelle abitazioni sempre decorosamente. Erano i miei covi, dopotutto.
Il 1500 fu, per me, un secolo ricchissimo. Viverlo in Italia fu la mia enorme fortuna. Firenze, Roma, Napoli, Venezia, e molti altri comuni furono tutte città in cui sono rimasto per lungo tempo, godendomi le atmosfere di febbrile rinnovamento che si respiravano, sopratutto nelle arti.
Come riuscire a farti capire la nuova sensibilità che spirava tra le vie di Firenze senza parlare della cupola di Santa Maria del Fiore ideata da Brunelleschi? O dei Prigioni di Michelangelo, statue da cui balzavano fuori figure di uomini come se fossero state lì da sempre, sepolte sotto strati di marmo da cui cercavano di fuggire?
Ho visto all'opera Botticelli nella sua bottega dove lavorava fino a notte tarda al lume delle lucerne, inseguendo l'ispirazione del momento o l'insonnia quando un particolare non gli riusciva come desiderava o per l'ansia del giudizio della gente sulle sue Veneri e le sue Madonne troppo sensuali e carnali. È incisa nella mia mente la sua mano che spalmava i colori impastati col tuorlo d'uovo sulla tela, le sue figure colme di una luce e serenità incredibili che si muovevano nel giardino della Primavera, i mille particolari in cui si leggeva la sua passione. Un uomo semplice e tormentato, conteso da troppi committenti che, semplicemente, altro non voleva che dipingere ciò che il cuore e il talento gli suggerivano.
Ho ammirato gli splendidi saloni delle residenze papali a Roma, la vastissima collezione di opere antiche che, pur definite pagane, esprimevano la bellezza senza tempo di artisti mirabili che il Papa teneva nel suo tesoretto. Ho contemplato i soffitti della Cappella Sistina e mi sono accigliato davanti al Giudizio Universale.
Ho spiato i passi di Leonardo da Vinci mentre compiva le sue ricerche, i suoi studi e inventava e scopriva e creava nuovi orizzonti per la pittura.
Ricordo la dolcezza dei quadri di Masaccio e la delicatezza dei suoi colori e delle sue forme.
Scoprire poi, alle soglie del 1600, Caravaggio, fu l'apoteosi: un uomo che viveva con la sfrenata passione e dissolutezza di cui mi ero circondato anche io e dotato di un genio assoluto davanti a cui, persino con il mio Sangue vampiresco, mi sentivo impotente. Era iracondo, un vero guitto, ma quando teneva il pennello tra le mani compiva miracoli!
Quando mi perdevo in quel mondo mirabolante, quando mi immergevo tra le mille vie di queste città o attraversavo il Canal Grande in gondola, mi sentivo libero e grato di possedere l'immortalità.
Ma a che prezzo?
Laddove andavo, Nuberus era con me. E insieme portavamo il male, il male autentico, che travalica quello dei delinquenti nei quartieri malfamati perché assoluto, privo di pietà, sistematico.
Divoravo tutto ciò che mi destava interesse, sopratutto il sangue. E Nuberus catturava le anime delle mie vittime nel suo scuro manto, come fosse stata una gigantesca rete cosmica. Ad ogni anima, notavo in lui dei sottili cambiamenti: sembrava acquisire lentamente corpo, che le sue forme si sbozzassero laddove prima era solo una fumosa ombra avvolta in una cappa. I suoi occhi sembravano, però, sempre due fuochi fatui che non lasciavano scampo. Dopo cent'anni, Nuberus aveva acquisito le sembianze visibili di un albino rintanato sotto le falde del suo cappuccio, un uomo senza età e con gli stessi occhi chimerici.
Ci abituammo l'uno all'altro, complici in quel mercimonio degno delle peggiori creature abiette.
Ero un mostro, nonostante mi vestissi lussuosamente e andassi al teatro e al balletto e partecipassi alle feste dell'alta società.
Divenni ansioso di cercare altri Vampiri, di sentire altri voci immortali e condividere un po' della solitudine che, in fin dei conti, mi attanagliava.
Ogni tanto avevo avvertito la presenza di qualche Bevitore di Sangue, ma si rivelavano solo presenze elusive che restavano ai margini della fiumana umana e non si mostravano.
Erano un enigma, tanto quanto lo ero io per loro, cioè un Vampiro che si immergeva impunemente nella vita delle metropoli, che ballava con i mortali e discuteva di filosofia e politica nei loro salotti, ammirava le loro opere e comprava nelle loro botteghe. Ma, sopratutto, il Vampiro che si accompagna ad un cavaliere nero alla guida di una carrozza in cui adescavo spesso le sue prede. Capivano che Nuberus ed io eravamo legati dal Marchio? Restavano lontani per la presenza del mio strano compagno?
Non ebbi mai davvero contatti con quelle creature che sentivo essere molto più giovani di me, senza dubbio schive e timorose nei miei riguardi, ché ero divenuto vecchio nel Sangue, sostenuto dall'eredità di Violate, antica come nessun altro Vampiro avessi ancora mai avuto modo di conoscere.
Mi ci volle un po' di tempo per scoprire tutte le mie facoltà; alla fine potei contare su numerosi poteri, discipline che potei amministrare sempre più abilmente. Ero capace di richiamare e assoggettare al mio volere, oltre agli uomini, numerosi animali, specialmente pipistrelli che spesso precedevano la carrozza lungo le squallide campagne e io potevo vedere, se lo desideravo, attraverso i loro occhi.
Uno dei miei poteri prediletti era quello che mi permetteva di farmi beffe della gravità. Potevo compiere grandi balzi e camminare sui muri e i soffitti: bastava che comandassi al mio corpo di farlo e il Sangue Oscuro, con un sommesso ribollire, mi consentiva di tradurre il desiderio in realtà.
Fu così conquistai una delle donne che avevo desiderato più a lungo durante la mia permanenza in Francia, nella bella Provenza colma di distese di lavanda profumata.
Mi invaghì, come solo un Vampiro affamato può, di una giovane attrice di uno dei teatri di Marsiglia. Andavo tutte le sere a guardarla, le portavo i fiori, e Nuberus mi accompagnava, paziente e senza farmi storie, interessato quanto me a quella delicata creatura dai capelli rossi e il visetto spruzzato di lentiggini che ogni sera incarnava un'eroina diversa: prima era Giulietta affacciata al balcone, poi era Desdemona uccisa dal marito geloso, Ofelia inghirlandata di fiori e molte altre. Si chiama Claire e si muoveva con un languore trasognato sulla scena, con una passione palpabile: aveva del talento.
Una sera decisi che sarebbe stata mia e Nuberus guidò la carrozza lungo le strade di campagna, fino al palazzetto dove Claire abitava. Entrambi pregustavamo il pasto.
Ascesi fino alla balconata di quella stanza come se non avessi peso, balzando sul muro con un'agilità spropositata.
Una volta nella camera da letto, mi chinai ad annusare la pelle salace e fragrante, le sfiorai i capelli; esercitai su di lei la mia malia e la sentii abbandonarsi nel sonno. Mi sdraiai accanto a lei, chiudendola in un abbraccio da cui tracimava tutto il mio bisogno. Le sfiorai la schiena e la sentii inarcarsi, le accarezzai le natiche floride e assaggiai la voluttuosa consistenza dei piccoli seni orgogliosi. Poi la morsi, non potei trattenermi oltre e subito mi accorsi di quanto il cuore di Claire fosse forte: ne sentivo l'eco pulsare direttamente nelle mie tempie. Bevvi a lungo, come se quella cavalcata non dovesse mai finire, come se non volessi più staccarmi dalle braccia nude e candide che mi avevano ghermito, dalle cosce sottili in cui mi ero intrufolato e dal profumo degli umori di donna imprigionati tra la peluria del pube.
Il formicolio del Marchio, però, mi richiamò bruscamente alla realtà: Nuberus era lì, tra le tende svolazzanti della porta-finestre, e attendeva con la stessa smania che animava me.
Lasciai Claire a lui quando non potei chiederle più alto sangue e rimasi ad osservare la scena che aveva il potere di raccapricciarmi ogni volta.
Nuberus le premette una mano sul petto ansante, schiacciò con forza, tanto da a spezzarle le costole, fino a che la sottile e tremolante patina che era l'anima di Claire divenne visibile. La ghermì e la tirò, mentre lei boccheggiava e si contorceva, gli occhi rovesciati e preda di una sofferenza intollerabile.
Il Demone estirpò quell'anima e la ingabbiò tra le fitte pieghe del suo manto, eclissandone il fulgore.
Claire giacque con gli occhi vitrei spalancati sul soffitto e il braccio mollemente abbandonato a mezz'aria oltre la sponda del letto.

 


La notte sta sbiadendo mentre scrivo queste parole e temo di non poter indugiare oltre, anche se avrei molto da raccontare dei miei viaggi attraverso l'Europa dell'Est, all'ombra dei Carpazi, attraverso la Romania e la Bulgaria e fino alla Transilvania, patria di Vlad Dracula.
Nei miei diari potrai leggere del mio incontro con i Vampiri del Vecchio Mondo, in quei villaggi montani sperduti: creature così diverse a quelle a cui ero abituato, gravati da una maledizione del Sangue unica, condannati ad essere orrendi mostri cenciosi dalle carni marcescenti che potevano riposare solo nella terra natia.
Attraversare quei paesini con la carrozza sferragliante, la dondolante luce rossa della lanterna che proiettava fantastiche ombre e l'enorme luna piena come sfondo, mentre i pipistrelli ci volavano attorno e i lupi in lontananza ululavano tetramente, fu come immergersi in un sogno medievale e barbarico.
Alimentate dalla Chiesa, la paura e la superstizione regnavano incontrastate e la gente viveva con la perenne consapevolezza che gli Strigoi, i Non Morti figli del Diavolo e amanti delle Streghe, rapivano i mortali ai crocevia e se ne cibavano, ritraendosi all'alba nelle loro tombe in antichi cimiteri infestati di spiriti maligni.
Mi sovvengono ancora le scene raccapriccianti dei racconti dei contadini timorosi e balbettanti che si facevano il segno della croce in continuazione e ornavano le case di ghirlande d'aglio: se trovavano una sepoltura sospetta, la scoperchiavano e, quando trovavano il cadavere gonfio di sangue fresco, allora gli conficcavano un paletto nel cuore e gli spiccavano la testa, dando i resti in pasto al fuoco e disperdendo le ceneri. Potevo immaginare il Sangue Oscuro che eruttava dal corpo smembrato di quei Vampiri e che, per qualche orrido attimo, continuava a contorcersi come impazzito.
Tutto questo, però, venne lenito e dimenticato quando Nuberus mi condusse in Russia. Era inverno, si respirava aria natalizia e io vidi San Pietroburgo ornata di una pioggia di fiocchi di neve come una sposa.
Eppure, dopo quattrocento anni di peregrinazioni, ero sazio di quanto avevo visto e compiuto e decisi di tornare nella mia patria.
Nuberus venne con me, tu stessa l'hai intravisto spesso. Non sai quanto ciò sia stato pericoloso, non puoi immaginare quanto tu sia stata vicina al disastro.
Era la fine del 1700 e mi presentai agli amministratore delle mie proprietà come l'erede di me stesso, somigliante in modo assolutamente sorprendente all'Alphonse di Benavia da cui dicevo di discendere e il cui ritratto stava nel salone del castello, appeso sopra al camino.
Finalmente il castello riprese vita, ne aprì le porte alla gente e fui lieto: nessuno mi conosceva più ormai e potevo muovermi indisturbato.

 


Due anni fa arrivasti in città, alloggiando nella tenuta che era stata della tua famiglia per secoli, ricchi mercanti che con i Benavia avevano sempre fatto ottimi affari.
Ricordo il momento in cui ti vidi per la prima volta: è rimasto indelebile nel mio cuore e nei miei occhi.
Uscivi dalla Chiesa di Santa Maria dopo la messa del vespro ed eri vestita di bianco, con uno grazioso cappellino calcato sui capelli biondi raccolti sulla nuca. Ti cadde un guanto e io mi chinai a raccoglierlo; ti sfiorai la mano quando te lo porsi.
Credo fu quel semplice contatto che mi accese nel cuore una smania che non avevo mai conosciuto prima. C'era stato qualcosa, qualcosa di labile e remoto, ma che aveva aperto un canale tra noi, un ponte gettato attraverso l'abisso che ci separava.
Ho attraversato gli oceani del tempo per trovarti, Alexandra. Tu eri la donna che mi era destinata.
Sei divenuta quel ponte verso l'umanità che a me mancava: sfavillavi di vita, splendevi come il più bel gioiello e non immaginavi che dietro al mio sorriso affabile ci fosse una Bestia.
Tu, nella tua immensa purezza, non mi hai mai trattato come un mostro nocivo. Hai guardato oltre e hai scovato l'ultimo sprazzo di una umanità che, in quattro secoli, credevo di aver ormai dismesso come un vecchio vestito tarlato.
Eri bellissima, Alexandra, nella tua consapevolezza, con la boccuccia socchiusa e imbronciata mentre mi osservavi al lume di una lanterna in strada, mollemente poggiata ad un un muro, con l'aria pensierosa che cercava di penetrare il segreto della mia avvenenza che aveva sempre stregato le donne, ma che su di te non sortiva lo stesso incanto. Eri diversa da tutte le altre, poiché non ti fermavi mai alle apparenze.
Quando ero accanto a te, sentivo la Sete torcermi le viscere, la Bestia scalpitare; suscitavi in me il più sfrenato desiderio, ma mi ci opponevo: non volevo far sfiorire la tua vita, né contaminarla.
Non potevo trascinarti nel mio mondo tenebroso, nelle lunghe notti gelide dove la passione del sangue pennella tutto di rosso.
Ti avrei protetto da me stesso, dall'insana voglia di concupirti, di raggirare la tua dolcezza e la tua fiducia e pervertirla ai miei capricci, poiché questa è la mia natura, in realtà.
Tutte le donne, prima di te, non avevano esercitato alcun vero fascino su di me; tutte arrendevoli, troppo facili da conquistare, troppo legate al superfluo: non c'era sfida.
Invece, tu eri quella sfida, una miscela di audacia e di accortezza. Allungavi la mano e mi sfioravi, ma non eri mai davvero mia, conservavi il tuo segreto di donna e il fascino sottile delle creature inaspettatamente forti, che sanno quanto valgono e ciò che desiderano.
Tu eri libera, Alexandra, lo sei sempre stata. Volavi molto più in alto di quanto persino tuo padre era capace di comprendere.
Tu valevi la pena. Hai dato luce e calore al mio mondo.
Sono stato un uomo dissacrante e crudele e un Bevitore di Sangue ancor più crudele e appassionato, un fervente devoto alla causa della mia sopravvivenza e della mia lussuria cannibale.
Tuttavia, quando venivo a trovarti e passeggiavamo tra le vie tortuose del borgo e posavi la tua piccola mano nell'incavo del mio gomito, lasciandoti condurre dove volevi, tu riuscivi a placare la Bestia e la facevi uggiolare impotente.
È questo che gli esseri umani chiamano amore? Non lo so, mia cara, ma sono certo che è qualcosa di molto vicino ad esso. Tu avevi la mia devozione: il mio pensiero volava a te prima che il sole sorgesse e divenissi un cadavere esanime nelle cupe stanze del mio castello. Mi levavo, risorgevo, solamente per scivolare nella folla della piazzetta e aspettarti davanti al cancello del tuo vecchio palazzo. Uccidevo in modo che il calore del pasto mi regalasse una parvenza umana ai tuoi occhi. Oh, sì, ti ho ingannata, ti ho ingannata a lungo, volevo che quel sogno in cui camminavamo non finisse mai.
Ricordi come fremetti quanto ti pungesti con le rose selvatiche che crescevano sulla riva del fiume? Fu una tortura e dovetti fare appello a tutta la mia forza di volontà pur di non ghermirti. Ti presi la mano, baciai quella puntura e assaporai – per la prima volta – una perla del tuo sangue.
Era così buono! Di una dolcezza che mi distrusse e che scatenò i miei più bassi istinti.
Oh, come mi tramavano le mani, subito dopo!
Quello fu il primo, vero e intimo contatto tra noi. Mai avevo posato le mie labbra sulle tue e mai avevo osato stringerti nell'arco delle mie braccia.
La nostra era un danza, un venirsi incontro senza fretta, assaporando ogni attimo, anche se sapevamo di essere ormai legati l'uno all'altra.

 


Inaspettato, però, venne il terribile giorno in cui Nuberus si presentò a me e si tolse il cappuccio, rivelando la pelle ancor più bianca della mia e una fredda determinazione intrisa di malizia. Mi sorrise, beffardo come la notte in cui le nostre strade si incrociarono.
«Sembra che tu abbia trovato qualcuno per cui investire energie e fantasie, come se fossi un ragazzino alla prima esperienza d'amore» esordì e sentii nel suo tono di scherno una insinuazione che mi suscitò un improvviso senso di vertigine «Mi chiedo quanto ancora tu voglia giocare con lei, prima di immolarla alla tua fame e ai tuoi capricci.»
Mi sistemai la giacca e lisciai il tessuto, osservandomi nello specchio con aria improvvisamente distaccata, con quel volto privo di espressioni che genera apprensione in chiunque si ritrovi a fissarlo e risposi: «Non ho intenzione di ucciderla. Non la toccherò.»
«E allora perché corri da lei tutte le sere, come il cane che rincorre l'osso, se non è per soddisfare la tua Sete?» mi domandò allora Nuberus con un che di mellifluo, seguendomi lungo il corridoio, mentre marciavo ostinatamente verso il portone d'ingresso.
«Non puoi capire, Nuberus. Lei è ciò che ho sempre cercato in questi quattro secoli: è il mio ponte con l'umanità, è casa mia. Solo lei vede oltre le apparenze e cerca la parte migliore di me» rivelai, di colpo, e lo fissai con odio «Quindi non la toccherò. Godrò della sua compagnia fin quando mi sarà concesso, senza farle alcun male.»
«Tu non hai una parte migliore, Alphonse, sei sempre stato un bastardo perverso e sardonico» ribatté Nuberos con un'alzata di spalle che, su di lui, sembrava un gesto orrido, innaturale «Tu le stai facendo già del male, fin da quando hai deciso di irrompere nella sua esistenza. Si è legata a te e tu la lascerai, gettandola nello sconforto e nella disperazione esattamente come tutte quelle che l'hanno preceduta. Sfiorirà quando gli anni la renderanno curva e grinzosa e tu resterai immutato. La distruggi ogni sera un po' di più con la tua sola presenza. E fai del male a te, castigando il tuo appetito.»
Quelle parole mi scossero, aprirono una breccia in me, nelle mie paure: Nuberus diede voce a ciò che io pensavo senza volerlo ammettere e mi infuriai. Lo afferrai e lo scossi con tutta la potenza di cui ero capace; i miei occhi si erano colorati di cremisi in quell'impeto di ira bestiale e che le zanne erano ben visibili tra le labbra socchiuse.
«Non interferire! Non hai il diritto, Nuberus!», esclamai e sentii la mia voce rimbombare nell'atrio, far tremare il lampadario di cristalli e scivolare giù, verso le cucine.
L'eco della mia voce innaturale atterrì ogni servo e suonò terribile al mio stesso orecchio.
Lui si divincolò e fece una smorfia: «Non ne ho il diritto? Tu mi hai tolto qualcosa che consideravo prezioso tanto quanto lo è per te la piccola Alexandra. Ricordi? Beth. Ecco, tu ora mi darai Alexandra, così saremo pari.»
Sentii il mondo crollarmi addosso. Dopo quattrocento anni, dopo ogni singola anima che aveva divorato sotto i miei occhi, lui chiedeva il conto.
«Sta' lontano da lei!», gli intimai.
Tremai di una furia che travalicava tutto ciò che avevo mai provato prima e sentii una forza incredibile elevarsi da me, come avevo sperimentato solo poche altre volte in passato: il Sangue Oscuro ribollì e con la forza della mia mente riversai quel potere contro il Demone, scagliandolo lontano.

 


Ora puoi capire perché ho preso la mia decisione, non è vero? Dovevo salvarti e così ho fatto.
Com'eri tenera quando ti sei lasciata prendere tra le braccia e ti sei stretta al mio petto, con le labbra premute contro il mio collo e la guancia bollente sulla mia spalla, i lunghissimi capelli biondi sciolti e ondulati che mi scorrevano tra le dita come oro liquido.
Quanta fiducia riponesti in me, mentre tra il sonno e la veglia ti portai via dal tuo letto, dalla tua casa e ti condussi – saltando di tetto in tetto – fino al castello, deponendoti sul mio cuscino.
Tu avevi capito chi ero senza bisogno di parole!
«Alphonse, so chi sei, so che vivi grazie al sangue, so tutto da molto tempo, senza che tu abbia mai pronunciato una sola sillaba a tal proposito. Ti ho visto e ho sentito l'odore del sangue indugiare sulle tue labbra ogni volta che sei venuto a trovarmi. Eppure – anche se mi sforzo – io non riesco a vedere davvero del male in te, né a pensarti come un essere mostruoso e spaventevole. C'è qualcosa, nel tuo cuore, che è ancora umano e che si aggrappa a me con forza. Così, io voglio essere sempre ciò che ti tiene legato a questo mondo mortale e non ti faccia mai dimenticare chi sei davvero.»
Mi dicesti proprio così, con le tue piccole mani contro il mio viso e il sorriso sulle labbra.
Sentii qualcosa che credevo fosse morto da tempo balzare nel petto e capii che non potevo lasciarti a Nuberus.
La mia decisione fu rapida e, ammetto, non me ne pento. Ti ho davvero lasciato tutto ciò che farà di te la più splendida figlia delle tenebre: nel candore della tua umanità, sei rinata come la più pura tra i Bevitori di Sangue.
Il mio amore, la mia salvezza, il mio ponte con l'umanità, la mia amante, mia figlia: sei tu, Alexandra.
Questa notte, il patto con Nuberus finirà con me e sarai salva. La tua anima sarà per sempre legata al tuo corpo agile e flessuoso, lui non potrà averla.
Anzi, spezzerò il contratto e infrangerò il Marchio e, infine, riposerò accanto a mia madre e mio padre. Aspetterò l'alba e ascenderò nel sole.
Avrei voluto godere con te tutti i secoli a venire, baciarti e stringerti con tutto l'ardore di cui – scoprirai – siamo capaci. Avrei voluto istruirti nel Sangue e donartene molto del mio per fortificarti sempre più: sei l'unica a cui l'abbia mai concesso.
Eppure, sei forte e piena di risorse, Alexandra, e saprai cavartela. Non hai bisogno di nessun altro, adesso, se non di te stessa e della tua volontà.
Caccia senza rimorsi: la notte ti appartiene.
Vivi, abita questo mondo come un'autentica immortale, sii la memoria di queste epoche che si avvicendano con inaudita velocità, sii attenta e scrupolosa osservatrice delle vite degli uomini e falle tue!
Non abitare ai confini della storia, ma entra in essa, assapora le sue correnti, lascia che galoppi nella direzioni in cui gli uomini la conducono, ma non essere mai estranea ai suoi eventi.
Ricordami, Alexandra.

Hai il mio amore, sempre.

 

 

Alphonse

 

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Capitolo 5
*** Epilogo ***


 

EPILOGO

 

 

«Era allora nella prima giovinezza: l'età in cui i sentimenti stanno tutti in uno slancio confuso, non distinti ancora in male e in bene; l'età in cui ogni nuova esperienza, anche macabra e inumana, è tutta trepida e calda d'amore per la vita.»
Italo Calvino


 

 

L'ultimo foglio di quella lunga lettera le cadde dalle mani, volteggiando a mezz'aria fino al tappeto, ma Alexandra sembrò non farci caso.
Le sue mani rimasero sollevate, bloccate a mezz'aria come se tutto la stanza attorno a lei avesse appena perso ogni consistenza e sfumasse in un mondo rarefatto.
Le sue labbra tremarono e i suoi grandi occhi verdi si inumidirono: lacrime di sangue le rigarono le gote candide, macchiando la purezza di quel volto di porcellana.
Alexandra si afflosciò contro la poltrona e rimase a fissare un punto indistinto oltre la finestra.
Solo la notte prima, Alphonse era con lei. Solo la notte prima aveva vissuto in un sogno impossibile: il suo sangue l'aveva abbandonata e Alphonse lo aveva bevuto in lenti sorsi estatici, con una dolcezza che sembrava incredibile.
Aveva provato la beatitudine di un volo dell'anima, mentre la sua mente andava alla deriva e il suo cuore batteva la sublime musica della vita.
C'era stato il sangue, sì, ma non era più il suo, ma quello di Alphonse che la cullava teneramente.
Alexandra, tremante, si era aggrappata a lui con le ultime forze e aveva assaporato il calice della vita eterna e bevuto fino a non poterne più, fremendo di una passione che non aveva mai concepito.
Aveva assaporato la morte del suo corpo come un qualcosa di lontano e necessario che portava con sé un dolore che sembrava non appartenerle, perché Alphonse era con lei.
Tutto, ai suoi occhi, appariva di colpo vibrante, vivissimo e sconvolgente. Ecco che poteva finalmente vedere il volto di Alphonse per quello che era e se stessa per ciò che era divenuta.
Si era affacciata dalla torre più alta del castello, sfidando il vento che ruggiva dal basso e risaliva, vorticando, lungo i contrafforti. E aveva abbracciato Alphonse e lo aveva baciato, ridendo forte. Libera, libera, libera!
Si era saziata della sua prima preda quando, scivolando tra le ombre come gatti neri, lui l'aveva condotta lontano e le aveva mostrato la sublime bellezza della caccia, del sottile filo rosso che lega preda e predatore.
Inebriata da quel mondo senza confini che ora era suo, Alexandra si era abbandonata, spossata, nel letto in cui era rimasta abbracciata ad Alphonse e, molto tempo prima dell'alba, era caduta nel sonno dei Vampiri.
Non sospettava delle reali intenzioni dell'uomo che amava. Possibile che avesse rinunciato alla sua vita?
Tutta la scena scorreva davanti ai suoi occhi come se fosse reale, una detestabile commedia: Alphonse aveva indossato i suoi vestiti da cavaliere, la sua lunga giacca nera, e stava sdraiato sulla pietra tombale, gli occhi chiusi come se stesse dormendo e i lunghi capelli castani sparsi attorno al capo come un'aureola. Teneva le mani conserte sul petto con la dolcezza con cui i morti stringono i fiori che si mettono loro in pugno.
Così, mentre la luna sbiadiva e il cielo si tingeva di giallo e arancio, Alphonse aveva sentito la carezza tiepida dei primi raggi del sole sulla pelle candida e il fulgore della sua bellezza, per un istante, era divenuto immenso e inarrivabile.
Alexandra lo immaginava più affascinante che mai, con le labbra sporche di sangue socchiuse e le palpebre frementi scottate dal sole che si levava inesorabile e filtrava dalle inferriate elaborate della finestra, dilagando nella cappella. E quindi il calore, il dolore che attraversa il corpo e la pelle che sfrigola, tremendamente ustionata. Le urla raccapriccianti...
Alexandra nascose il viso tra le mani, singhiozzando: non poteva immaginare oltre quell'orrore di fuoco e l'ammasso fumante delle carni eterne.
Incredula e ribelle, si alzò con uno scatto e corse lungo le scale echeggianti del castello, uscendo all'aria aperta: si diresse verso la cappella privata dei Benavia.


La cappella aveva la pianta quadrangolare, sormontata da una cupoletta poggiata su tre lunettoni. Sotto la coltre del tempo, si intravedevano ancora gli affreschi e i fregi dipinti da un'artista ormai obliato.
Alexandra girò su se stessa, al centro della navata, fissando il lucernaio al centro della cupola e poi le quattro colonne rastremate che delimitavano gli spigoli, mentre un nugolo di pipistrelli si gettò giù dai trespoli, volando sulla testa della ragazza con gran schiamazzo.
Sul fondo c'era un altare di pietra nuda, su cui poggiava un trittico di legno raffigurante la Vergine col Bambino in colori ormai opachi. Ciò che spiccava in quell'ambiente angusto, però, erano i sarcofagi di marmo con il coperchio scolpito nelle sembianze di una dama e di un cavaliere.
C'era polvere ovunque e ragnatele come festoni: non entrava nessuno lì dentro da molto tempo e, perciò, ad Alexandra saltarono subito all'occhio le impronte disseminate sul pavimento che portavano ad una delle finestre e ad una lastra di marmo liscia, orfana del sepolcro che avrebbe dovuto ospitare.
Con ansia, Alexandra raggiunse la balaustra di pietra e la sfiorò nervosamente. Le parve, allora, di cogliere un essenza familiare: era l'odore del sangue di Alphonse.
Sul marmo erano rimaste alcune gocce, scure e dense e, proprio accanto, una fiala di cristallo sottile e appuntita, chiusa con un tappo d'oro che somigliava al bocciolo di un rosa. Alexandra la raccolse e la inclinò: il sangue sciabordò al suo interno.
In quel silenzio, credette di impazzire e un terribile gemito le scivolò dalle labbra mentre premeva convulsamente la boccetta contro il petto, incurante di macchiare la camicia da notte.
Indietreggiò come se un serpente l'avesse morsa, fissando la lastra di marmo con gli occhi spalancati e colmi di lacrime sanguigne.
«Le ceneri» pigolò ad un tratto e sollevo il capo, tastò il marmo e frugò ovunque, senza trovare nulla «Dove sono le ceneri?»
Tornò all'esterno e chiamò ancora, con la speranza che risorgeva in lei con prepotenza: «Alphonse! Nuberus!»
Ma la carrozza di Nuberus era scomparsa e il cortile era vuoto e silenzioso.
Alphonse aveva lasciato il suo sangue per Alexandra, un segno della sua presenza. Ciò nonostante, per quanto lei lo cercasse, non riuscì a trovarlo.
Alphonse doveva essere stato sicuramente nella cappella, eppure lì non giaceva.





 

 


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Note dell'autrice

La storia è stata scritta per il contest “Tales of after shadow” indetto da Geah.Nee sul forum di EFP.
I prompt utilizzati sono due immagini:

1) protagonista (l'obbligo abbinato consisteva nel fatto che il personaggio fosse un Vampiro bellissimo): http://fc03.deviantart.net/fs71/i/2012/328/3/6/romeo__we_ll_be_able_to_fly__by_cylonka-d5lwgzx.jpg

2) personaggio secondario (categoria della creatura: Demoni): http://sphotos-e.ak.fbcdn.net/hphotos-ak-snc7/305657_4948598712698_1536116856_n.jpg


Il nostro protagonista è Alphonse, il personaggio secondario è Nuberus. Ve ne sono altri, certo, che entrano nella cronaca, ma Nuberus è un personaggio chiave e molto particolare, da quel che spero si sia capito dalla storia.
Ho scelto di interpretare le due scene presente nelle immagini dando loro rilievo in diverse parti della storia.
La scena di Alphonse sdriato nella cripta che Alexandra immagina, infatti, ricalca quella dell'immagine. La fiala di cristallo è quella che il Vampiro tiene tra le mani nel disegno; non so se sia una boccetta, ma io ho preferito elaborarla così.
La carrozza e il cavallo nero, la lampada rossa, i pipistrelli, la strada sterrata e la nuvola nell'immagine del Demone sono, invece, riprese nell'episodio del viaggio sui Carpazi che cita Alphonse; inoltre la carrozza è un mezzo fondamentale che lega i due personaggi.
La presenza stessa dei pipistrelli in entrambe le immagini, poi, mi ha suggerito l'idea di uno dei poteri di Alphonse.
Insomma, ho cercato di trarre tutto il possibile dalle due immagini-prompt.

Il contest prevedeva anche un limite di parole parole pari a 14.000, in cui sono dovuta rientrare.

Ci tengo a fare delle precisioni.
EFP impone di scegliere solo tre voci per i generi della storia, ma qui allargarne la rosa a: dark, drammatico, erotico, introspettivo, malinconico, mistero, sovrannaturale, storico, avventura, sentimentale, horror. Insomma, un mix, almeno per quello che ho cercato io di comunicare.
Ho scelto di creare una storia sotto forma di lettera perché l'idea mi è sorta spontaneamente, quindi è venuto fuori un racconto che si snoda in due modi: la cornice della storia che si legge nel prologo e nell'epilogo in cui è Alexandra a muoversi scritta in terza persona, e la cronaca di Alphonse scritta in prima persona.
L'impianto della prima persona e lo stile che ricalca spesso un flusso di coscienza e spero di aver dato delle peculiarità allo stile, che deve ricalcare necessariamente l'epoca storica in cui la lettera viene scritta dal protagonista pur di essere verosimigliante.
Non è una storia d'amore o, forse, non lo è nel senso comune del termine. Si respira un'aria languida e sentimentale, e decadente, tragica e gotica, ma non credo si possa rintracciare chissà quale romanticismo spiccato, a dire il vero. Il legame tra Alphonse e Alexandra va oltre al mero amore tra due esseri umani e, nella maniera più assoluta, rifugge dai rapporti simil-Twilight (*brivido*).
Comunque, lo ammetto: scrivere questa storia è stato un parto. <.<”

Ci sono due citazioni presenti, che ho trovato splendide da inserire.
La prima è nel primo capitolo: “L'amavo come si amano certe cose oscure, segretamente, tra l'ombra e l'anima”, è un verso di una poesia di Pablo Neruda, una delle mie preferite.
La seconda è il titolo del terzo capitolo ed è contenuto in esso: “Ho attraversato gli oceani del tempo per trovarti”, è una battuta del film “Dracula di Bram Stoker” diretto da Francis Ford Coppola che amo visceralmente.

Grazie eventualmente alle anime pie che si cimenteranno nell'impresa di leggersi e commentare questa mini-long!


Melian

 

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